SINISTRA DEMOCRATICA 2 (del dopo elezioni).

<< < (3/14) > >>

Admin:
NON E’ CON IL RITORNO ALLE PROPRIE IDENTITA’ CHE RISOLVEREMO LA CRISI CHE CI HA INVESTITO

di Tino Magni*


Quando si perde nel modo in cui abbiamo perso, occorre prima di tutto guardare in casa propria e chiedersi perché questo disastro, che nessuno di noi aveva percepito, intellettuali compresi, è potuto accadere. Tutto il resto sono delle concause che hanno accentuato la sconfitta. Il voto utile, l’astensionismo, la dispersione a sinistra, la mancanza di visibilità sulla stampa, ecc., sono dettagli e non le cause vere della nostra disfatta.
So bene che, in questi anni dove abbiamo dovuto continuamente difenderci dall’attacco del pensiero unico capitalistico, la cultura liberista ha inciso profondamente sia sui comportamenti politici dei singoli individui, sia su quelli collettivi, ma quanto è avvenuto è certamente il frutto dei nostri ritardi e dei nostri limiti di elaborazione. La conseguenza di un modo di agire da ceto politico, non migliore, né peggiore di altri, ma incapace di interpretare una richiesta di rinnovamento profondo che viene dal paese reale. Per questo siamo apparsi vecchi nel linguaggio, prevedibili e confusi nelle proposte, a tratti autoreferenziali.

Vorrei sottolineare che al Nord la Lega ha avuto un consenso senza precedenti tra i lavoratori, le lavoratrici e i ceti popolari meno abbienti, ciò è avvenuto perché noi in questi anni ci siamo allontanati dai problemi concreti e reali della gente, che chiedeva: sicurezza sia del e sul posto di lavoro, ma non in modo indistinto; di avere un salario o una pensione adeguata per arrivare alla fine del mese; di valorizzare la propria professionalità e il proprio sapere; di avere un mutuo equo per la casa; di avere una pubblica amministrazione, una scuola e dei servizi efficienti; il rispetto delle regole da parte degli emigranti; una corretta applicazione della pena e non un indulto senza criteri; un fisco meno oppressivo; un intervento per ridurre i costi della politica… e potrei continuare.

Dico tutto questo, perché durante la campagna elettorale che ho svolto, distribuendo volantini fuori dalle fabbriche e ai mercati, la gente mi rinfacciava che non ci avrebbe votato, perché anche noi siamo uguali agli altri, anzi peggio, perché avevano investito su di noi e sulla nostra capacità di risolvere i loro problemi, ma li avevamo delusi, con motivazioni diverse tra loro. Una parte della gente ci rimprovera che col nostro agire, nei due anni di Governo Prodi, abbiamo di fatto impedito al governo di governare, maturando un giudizio di inaffidabilità, un’altra parte, che aveva sperato nella nostra presenza al governo per cambiare qualcosa in positivo e per il miglioramento delle condizioni di vita, dal momento che ciò non è avvenuto si è sentita tradita.
Oltre al fallimento dell’esperienza di governo, dobbiamo aggiungere che come sinistra abbiamo perso l’egemonia politica e culturale sia nei posti di lavoro, che nella società e nella scuola, su temi importanti quali quelli dell’uguaglianza, della solidarietà e dei diritti collettivi. A supporto di questa tesi posso portare l’esempio della Lombardia, dove il monopolio di cosa sia la “solidarietà” è in mano a “Comunione Liberazione”, sia nel sociale che nella scuola, mentre nei luoghi di lavoro le persone tendono a darsi le risposte in modo individuale, accettando il concetto non tanto della meritocrazia, ma della disponibilità aziendale con lo straordinario e non solo.

Liquidare questi comportamenti, con affermazioni come quelle che ho sentito dire in campagna elettorale (chi vota Lega è razzista, o peggio accecato dall’egoismo), è una semplificazione che ci porta a non capire cos’è avvenuto tra questi lavoratori.
Io credo che dietro questi comportamenti che ritengo sbagliati, si nasconda la paura che sia la globalizzazione sia le persone straniere possano mettere in discussione il posto di lavoro le condizioni acquisite. Non è rimuovendo il problema che lo risolvi, ma cercando di capire, correggendo e proponendo un’altra soluzione, cioè in poche parole sporcandoci le mani! Questo è quello che ci hanno insegnato i nostri padri del novecento, come Di Vittorio, mentre troppe volte come sinistra abbiamo dato l’impressione di comportarci in modo burocratico ed elitario.

Condivido quanto hanno scritto altri: siamo arrivati all’appuntamento delle elezioni anticipate, con una lista elettorale senza un progetto chiaro e credibile, puntando tutto sul fatto che la sinistra rischiava di scomparire. Per ricominciare bisogna, perciò, avere chiare le ragioni della sconfitta, dire con chiarezza qual è la proposta politica e il progetto di paese che vogliamo a partire da una pratica democratica che è venuta meno in tutta questa fase, compreso la costituzione delle liste, per questo penso che dobbiamo aprire una fase di discussione che coinvolga tutti i territori in modo unitario. Pertanto ritengo che la prima cosa da evitare, sia quella di chiudersi dentro i singoli partiti, a discutere e a fare la resa dei conti tra gruppi dirigenti.

Occorre un processo di democrazia dal basso, nel quale tutti partecipano con pari dignità. Un percorso costituente per una sinistra plurale, in grado di rinnovarsi, favorendo la partecipazione attraverso il coinvolgimento di una sinistra diffusa, che esiste e che ha scelto di non votarci, come dice Claudio Fava, non per aver abbandonato i nostri simboli, ma perché siamo stati troppo autoreferenziali e rinchiusi nelle nostre stanze. Questa sinistra sociale va rimotivata, offrendole responsabilità e sovranità sul processo. Costruendo insieme ad essa un percorso inedito nelle pratiche, fortemente democratico, solido nei contenuti, capace di parlare al paese reale e di farsi ascoltare.

Concludendo sottolineo nuovamente quanto sia profondamente sbagliato chiudersi nelle proprie identità, perché sarebbe una risposta miope e di corto respiro politico, che condannerebbe la sinistra ad un ruolo minoritario e subalterno, per un lungo periodo al pensiero dominante. Inoltre sarebbe un messaggio di ulteriore frustrazione, per quei militanti che si sono spesi con convinzione, in questa campagna elettorale, per la costruzione di una sinistra “radicale” nei contenuti, ma nello stesso tempo capace di governare in campo economico e sociale il cambiamento di cui il paese ha bisogno.

*Coordinatore Regionale di Sinistra Democratica in Lombardia.

da sinistra-democratica.it

Admin:
Sinistra Democratica: Mussi se ne va Verso la troika


Fabio Mussi dà l'addio alla guida della Sinistra Democratica. Con una lettera al direttivo del movimento che si è riunito a Roma, il ministro della Ricerca ha lasciato la guida della formazione che riunisce l'ex correntone Ds. «Vicende personali e politiche si intrecciano», ha scritto Mussi. «In questo momento la sinistra ha bisogno del massimo impegno e di un vero rinnovamento. Non potendo garantire, per motivi indipendenti dalla mia volontà, il contributo necessario e volendo favorire un rinnovamento anche generazionale, lascio l'incarico di coordinatore», avrebbe spiegato Mussi nella lettera.

Il movimento che raccoglie l´ex Correntone deve ora nominare un nuovo gruppo dirigente. Due le ipotesi che saranno discusse in giornata dal direttivo.
Da una parte, quella più gettonata, di un "Trimvirato" a tempo, composto dai Marco Fumagalli, più i due capigruppo uscenti, Cesare Salvi e Titti Di Salvo.

Allo studio anche la possibilità di affidare ad una quarta persona il ruolo di "speaker" ufficiale del partito. A loro spetterà portare Sd a "congresso". Dall'altra la convocazione del comitato promotore, il parlamentino di Sd, per l'elezione di un nuovo coordinatore.

I lavori sono stati aperti da Marco Fumagalli con una relazione incentrata sull'analisi della sconfitta elettorale e sui prossimi passi da compiere. L'addio alla leadership da parte di Mussi non rappresenta però un passo indietro dalla vita politica. Mussi ha ribadito il suo impegno per il partito e per un rinnovamento della sinistra, un impegno che in questo momento non può essere in prima linea visto il tempo che l'ex leader di SA dovrà dedicare alla riabilitazione dopo il trapianto di reni subito qualche mese fa. Mussi aggiungeva nella lettera: «Continuo ostinatamente a ritenere impensabile che in futuro, in un paese europeo come l'Italia, scompaia qualunque formazione politica di sinistra. Non bisogna disperare: spes contra spem. Una sinistra in Italia c'è.

È necessario lavorare fin da ora a unificare davvero tutte le forze disponibili alla formazione di un partito nuovo, in grado di competere e riguadagnare il suo posto in Parlamento. Progetto possibile solo con una nuova generazione, uomini e donne, militanti e dirigenti. In Sinistra democratica ce ne sono tanti».

Per quanto riguarda gli scenari politici, l'idea prevalente all'interno di Sd è quella di accelerare verso una Costituente della sinistra, aperta a tutti i soggetti interessati, anche ai socialisti. L'ipotesi di un riavvicinamento al Pd è quindi per il momento è da escludere. «Noi ci siamo, siamo qui», sintetizza il vicepresidente della camera Carlo Leoni: «Iniziamo un percorso che porta alla costituente della sinistra al fianco di rifondazione e di quanti ci stanno».

Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 14.24   
© l'Unità.

Admin:
29/4/2008
 
La sinistra succube della destra
 
FABRIZIO RONDOLINO

 
C’è la sinistra in Italia? Dal punto di vista lessicale, per la prima volta dal 1946 non è presente in Parlamento. Non soltanto non ci sono più i comunisti e i socialisti: non c’è più neppure la parola «sinistra», che i Ds ancora portavano sulle loro insegne. I risultati delle ultime elezioni non sono meno drastici: grosso modo, il Pd è fatto per un terzo di ex Margherita e per due terzi di ex Ds; sommando alla quota diessina i voti raccolti da tutte le sinistre antagoniste (compresi Ferrando e Turigliatto) e dal Ps, si arriva al 27,3% dei voti validi. Tre punti in meno di quanto raccolse il Fronte popolare di Nenni e Togliatti nel '48. Sette punti in meno della «gioiosa macchina da guerra» assemblata da Occhetto nel ‘94. Più di cinque punti in meno rispetto ad appena due anni fa.

Si è più volte polemizzato, in campagna elettorale, sulle somiglianze fra i programmi del Pd e del Pdl, con reciproche accuse di «aver copiato» e con l’inevitabile evocazione del nuovo mostro, il «Veltrusconi». In realtà, che i programmi dei due partiti che competono per il governo di un qualsiasi Paese occidentale siano relativamente simili è un’assoluta ovvietà. Non è infatti sui programmi che si decide il successo di una forza politica, ma sulla sua identità. In generale, l’idea che far politica e vincere le elezioni significhi presentare una lista della spesa più o meno credibile, più o meno compatibile, e più o meno gradita agli esperti del Sole 24Ore, è un'idea risibile. Sebbene la parola sia carica di equivoci, la politica è fatta di valori, non di programmi. Ciò naturalmente non significa che le «cose», cioè i programmi elettorali e le leggi che (a volte) ne conseguono, non abbiano un peso e un significato: ma quel significato è inscritto e dipende da un sistema di valori che lo precede e lo contestualizza.

L’esempio più clamoroso è lo scontro sulla sicurezza. È evidente a tutti che chi commette un reato va punito, e che i crimini vanno prevenuti: non è dunque di questo che si sta discutendo. Negli ultimi sette anni, Berlusconi ha governato per cinque, e se c’è oggi un’emergenza, una qualche responsabilità deve avercela anche il centrodestra: ma all’elettore di Berlusconi quest’ipotesi non viene neppure in mente. Viceversa, né i provvedimenti già presi dal centrosinistra (la criminalità nelle aree metropolitane è oggettivamente diminuita), né quelli annunciati in campagna elettorale, riescono a soddisfare un’opinione pubblica che, si legge sui giornali, «non ne può più». La ragione è semplice. Nell’identità valoriale della destra c’è un’idea di ordine sociale tendenzialmente esclusivo anziché inclusivo, c’è il valore della comunità e della nazione, c’è l'idea un poco paternalistica per cui uno scappellotto ogni tanto fa bene, e così via. I fallimenti pratici dei governi di centrodestra sono oscurati dalla saldezza dell’orizzonte simbolico di riferimento.

Per la sinistra, accade esattamente il contrario. I valori storici della sinistra hanno a che fare con la solidarietà e con la difesa dei più deboli. Una politica di sinistra moderna dovrebbe chiedersi come declinare questi valori nel mondo d’oggi; se però, come accade regolarmente, finge che siano andati fuori corso e suggerisce l’impressione di scimmiottare la destra, il risultato è un cortocircuito vistoso che lascia perplessi i simpatizzanti e certo non convince gli incerti.

In altre parole, la sinistra su molte questioni suona inautentica a chi non è di sinistra, e ambigua o irriconoscibile a chi lo è, perché nel dibattito pubblico insegue sempre più spesso (magari per moderarne la portata) le proposte della destra, cioè quelle proposte, giuste o sbagliate, che sorgono e fruttificano all’interno di un universo valoriale tradizionalmente di destra. In questo modo la sinistra subisce la scelta del campo di gioco e accetta di giocare una partita non sua. Oggi è la destra a detenere saldamente l’egemonia culturale del dibattito pubblico, di cui regolarmente scrive l’agenda. Si tratta di una novità che pochi, persino a destra, sanno riconoscere. Ma è questa la novità politica del nuovo secolo, e da qui discende tutto il resto.

Fare politica significa convincere i cittadini delle proprie buone ragioni, per poi agire di conseguenza una volta eletti; non significa rincorrere l’opinione pubblica in cambio di una poltrona. L’idea stessa di «opinione pubblica» è fuorviante, e andrebbe maneggiata con cura. La sinistra invece ne è diventata succuba, e scambia regolarmente il sismografo per il terremoto; come una mosca impazzita, sbatte contro il vetro dell'avversario senza accorgersi che tutt'intorno lo spazio è aperto. Il moderatismo e il radicalismo, le due malattie mortali della sinistra italiana, sono precisamente questo sbattere senza fine della mosca contro il vetro.

Il moderatismo del Pd ha paura di spaventare i «moderati», rincorre la Lega al Nord, nasconde i Radicali e archivia i Dico; il radicalismo dell'Arcobaleno si trincera dietro una serie estenuante di no. Entrambi sono figli del Pci di Berlinguer, che dapprima annacquò il profilo programmatico fino a renderlo indistinguibile da quello di Andreotti, nel tentativo di cancellare l’appartenenza, seppur su posizioni critiche, all’universo sovietico; e che poi, fallita la «solidarietà nazionale», si rifugiò nel fondamentalismo ecopacifista e finì col condividere fin nei dettagli la politica estera di Breznev. Da allora, la sinistra ha sempre oscillato e si è sempre divisa fra il tentativo di cancellare il colore di una pelle di cui si vergogna, e l’esibizione rancorosa della propria impotenza.

Eppure non è così difficile, nel mondo, essere di sinistra, «essere sinistra». Lasciamo da parte Blair, che è stato a lungo indicato come modello e che nel frattempo se ne è andato in pensione senza che una sola delle sue idee trovasse ospitalità nella prassi della sinistra italiana. Guardiamo a Zapatero. Il suo straordinario successo elettorale non si deve a una complessa alchimia di alleanze moderate o a un cambio di nome, ma, più semplicemente, all’aver rifondato una sinistra per la Spagna, e all’aver convinto gli spagnoli che quella sinistra avrebbe governato (cioè interpretato) la contemporaneità meglio della destra.

Il centrosinistra italiano in sette anni di governo non è stato capace di legiferare sulle unioni civili, sulla libertà di ricerca scientifica, sul conflitto d'interessi, sulle droghe leggere, sulla procreazione assistita, sulla liberalizzazione dell'accesso alle professioni… In compenso i conti pubblici sono un po’ meno in disordine, mentre quelli delle famiglie non quadrano più. Nulla di ciò che segna oggi l’idea e il concetto di sinistra è stato fatto dalla «sinistra» italiana. In particolare, il campo cruciale delle libertà individuali e dei diritti civili è stato congelato in nome di un malinteso rapporto con il mondo cattolico, dimenticando che la sinistra ha sfondato al centro, negli Anni Settanta, grazie alle battaglie sul divorzio e sull'aborto.

Se non si comincia da qui, cioè dalla definizione di un un’identità radicata nella tradizione e capace di fruttificare nel presente, la sinistra, nonostante abbia persino smesso di chiamarsi così, continuerà a perdere. Fra l’originale e una confusa contraffazione, non è difficile scegliere l’originale.

Paralizzata fra il rifiuto della modernità e l’esaltazione dei suoi aspetti più stupidi, la sinistra dovrebbe invece fermarsi a riflettere, riordinare un po’ le idee, convincersi che il Pci non c’è più (e neppure la Dc), che il mondo non ha bisogno di essere cambiato ma, finalmente, interpretato, e che soltanto fidandosi di se stessa potrà sperare di convincere gli italiani a fidarsi di lei.

Francamente, non so se Veltroni abbia il tempo, la voglia, la capacità o l’interesse a compiere un’impresa del genere. Ma fra i tanti effetti collaterali della disintegrazione della sinistra in Italia c'è stata anche, com’è noto, la disintegrazione sistematica dei suoi leader. Veltroni è l'ultimo: non ci sono alternative, né ruote di scorta. Dunque tocca a lui, e speriamo che ce la faccia.

da lastampa.it

Admin:
Lalla Trupia

A Vicenza vince il Sindaco che ha detto no al Dal Molin


Dopo tanti giorni amari oggi sono felice. Nella mia città,Vicenza,anche se per una manciata di voti, vince il candidato Sindaco del centrosinistra,Achille Variati.  Solo due settimane fa alle elezioni politiche il voto dei vicentini premiava con cifre da capogiro la Lega  Nord e la vittoria del centrodestra appariva schiacciante.
Oggi invece comincia un altro giorno ed è lecito tornare a sperare dopo le tante amarezze e le cocenti delusioni di queste settimane.
Questa vittoria “sudata e difficile” non viene dal niente.  Da quasi due anni questa città è in mobilitazione permanente contro la realizzazione della seconda base militare americana Dal Molin.  Una mobilitazione straordinaria e tenace che ha  costruito forme inedite di partecipazione e suscitato passione civile fuori dalle sedi tradizionali dei partiti,coinvolgendo tanti cittadini,tante donne e soprattutto tanti giovani lontani dalla politica attiva.
Achille Variati ha avuto il coraggio di dire NO fin dall’inizio a questo progetto insensato ,anche contro il parere del suo partito –il PD – e questa scelta autonoma gli ha portato in dote quella autorevolezza e  quella fiducia che l’hanno sicuramente aiutato a vincere.
Nei giorni antecedenti al ballottaggio  si è pubblicamente impegnato davanti alla città a favore di un Referendum cittadino sulla  realizzazione della base sempre negato dalla precedente Amministrazione di centrodestra, impegnandosi così a sanare la ferita inferta alla nostra comunità da una decisione presa dall’alto e con arroganza da Berlusconi prima e da Prodi poi.
I cittadini hanno negato la fiducia al centrosinistra a livello nazionale,perché lo considera lontano dagli interessi e dai bisogni di questa comunità,ma gliel’hanno ridata dopo pochi giorni perché è apparso vicino alla sua comunità locale con Achille Variati.
Questa vittoria elettorale dimostra dunque che è possibile cambiare il corso delle cose se la politica torna tra la gente e ne rappresenta le speranze.
Anche in una piccola città del NordEst,considerata  perduta per sempre da troppi nel centrosinistra,a cominciare dal Governo Prodi,è possibile cominciare una storia nuova.
Se  Variati ha vinto è anche perché la candidata del centrodestra era poco amata e imposta da Galan; ma soprattutto perchè tutte le Sinistre gli hanno dato il loro voto: la lista civica dei NO Dal Molin e la Sinistra L’Arcobaleno.  E hanno fatto la differenza. Un voto utile dunque alla vittoria del Centrosinistra a Vicenza.  Da una piccola realtà  può trarre  un grande insegnamento chi, facendo un’altra scelta, quella  di scaricare la Sinistra, ha consegnato inevitabilmente l’ Italia al centrodestra.
Il voto di Vicenza, sull’onda di una grande battaglia popolare per la pace, dice semplicemente che si vince solo con la Sinistra e con la forza della partecipazione .


------------------------



Raffaele Porta*


Adesso tocca a Sinistra Democratica
La più significativa e preoccupante conseguenza del voto del 13 e 14 aprile - prima ancora dell’assenza nel prossimo Parlamento di una forza dichiaratamente di sinistra -  è stata la schiacciante vittoria della destra. Una destra nè moderata nè conservatrice di stampo europeo, ma  semplicemente populista. La lunga transizione politica, iniziata nel nostro paese con tangentopoli ed il dissolvimento dei tradizionali partiti di massa alla fine degli anni ’80, se non può dirsi terminata, sembra essere comunque giunta in prossimità di una sua probabile chiusura. Appare pertanto semplicistico qualsiasi schema interpretativo del risultato delle recenti elezioni se non si scava in profondità per comprendere quali processi economici, culturali e socio-politici hanno determinato la chiusura “a destra” di un lungo periodo di transizione caratterizzato dai crescenti fenomeni di globalizzazione, precarizzazione e frammentazione sociale.
Dalla seconda metà degli anni settanta il modello keynesiano, che aveva coniugato la crescita e lo sviluppo con il benessere delle comunità, è stato via via sostituito, e non solo nel nostro paese, da un modello in cui l’economia non è stata più governata  dalla politica. Le leggi del mercato hanno da allora preso il sopravvento e l’aumento del PIL ha sempre più rappresentato il principale parametro di una crescita e di uno sviluppo indistinti. Perchè il PIL da solo non misura il benessere di uomini e donne né la loro qualità di vita. Infatti, parallelamente al PIL è spesso cresciuta anche la miseria e si è ampliata la forbice tra ricchi e poveri e tra i vari nord e sud.
In questi anni sono profondamente mutate nel nostro paese identità personali e collettive. E’ cambiato sia il senso di cittadinanza che di appartenenza. Il dato politico è che venti anni fa, dalle elezioni del giugno del 1987 emersero ancora due grandi blocchi. Il primo, rappresentato dalla forza elettorale della DC che raggiunse ancora in quell’anno il 34.3% dei consensi. Il secondo, concentrato nei due partiti di sinistra, il PCI ed il PSI, che superarono insieme il tetto del 40.8% dei voti. Oggi il PD, - che analogamente alla DC si configura come un partito interclassista di centro (che guarda a sinistra?) - raccoglie un consenso simile a quello della DC (33.7%), mentre la sinistra è scomparsa ed ha preso il suo posto, con oltre il 50% dei voti, un blocco di partiti di centrodestra di cui un soggetto politico, la PDL,  rappresenta una destra populista capace di concentrare su di sé oltre il 38% dei consensi. C’è chi parla di una vera e propria mutazione antropologica avvenuta nel nostro paese negli ultimi vent’anni. Veltroni oggi dichiara che l’imprenditore è un lavoratore come gli altri, anzi un lavoratore che rischia. Montezemolo gli fa eco rispondendo che i lavoratori preferiscono l’impresa ai sindacati. L’uno definisce “ambientalisti del no” gran parte degli ecologisti. L’altro apostrofa i sindacalisti quali “professionisti del veto”. Entrambi reclamano un paese nuovo, più veloce, un paese capace di crescere, cioè di far crescere il PIL. La Lega Nord, che presenta il più vecchio simbolo sulla scheda elettorale (sic!), sfonda nelle roccaforti storiche delle lotte sindacali e del movimento operaio organizzato, dove sono in atto profonde ristrutturazioni, e finanche in Emilia (7.1%). Al voto dei qualunquisti e dei protestatari la Lega aggiunge e consolida anche quello di tanti lavoratori abituati a far valere i propri diritti.
La sinistra, cancellata dal Parlamento, non ha avuto alcuna preventiva percezione della disfatta alla quale stava andando incontro probabilmente perché non ha compreso cosa è avvenuto nel nostro paese e, quindi, non ha capito i bisogni, le richieste e le paure di coloro che avrebbe voluto rappresentare. La Sinistra Arcobaleno è apparsa una sinistra “artificiale”. Un cartello elettorale, e non un soggetto politico in grado di dare risposte, che ha eccessivamente confidato in certezze identitarie che avrebbero dovuto garantire una “resistenza” che non c’è stata. La separazione consensuale delle forze del vecchio centrosinistra, la delusione del governo Prodi, il desiderio catartico di opposizione e l’eccessiva fiducia in un ormai inesistente zoccolo duro, hanno avuto l’unico effetto, alla fine, di far considerare “inutile” il voto alla Sinistra Arcobaleno il 13 e 14 aprile. 
Ed allora che fare. Il PdCI è andato. I Verdi rischiano di evaporare. Concordo con quanti dicono che non possiamo attendere passivamente che Rifondazione Comunista svolga il proprio congresso… per poi decidere. C’è chi lo pensa. Io penso che limitarci a tifare per Vendola non serva a molto perché Vendola non andrà al congresso con una mozione che prevede lo scioglimento di Rifondazione. Ed allora, mi chiedo, se Vendola vincerà il congresso cosa accadrà? Scioglierà il partito dopo? Dopo aver vinto il congresso ed essere diventato segretario? Certo che no. Ed allora? Ed allora è possibile che chiederà a chi è fuori di costruire all’interno di Rifondazione la nuova sinistra. E’ questo che vogliamo? E se invece Vendola perde… cosa accadrà? O se invece lo scontro in atto, cosa molto probabile a mio avviso, si trasformerà in mediazione? Insomma tutto questo mi convince che non possiamo e non dobbiamo attendere. E mi convince che il movimento della Sinistra Democratica può avere  un ruolo da svolgere se non apparirà più come un soggetto politico“virtuale”, come qualcuno ci ha definito in campagna elettorale, e se da subito si farà promotore di una costituente della sinistra partecipata dal basso e guidata da un nuovo gruppo dirigente.

*Coordinatore Regionale della Campania



da sinistra-democratica.it

Admin:
Sinistra democratica che fare?

Cesare Salvi-Massimo Villone


Dopo la pesante sconfitta del 13 e 14 aprile, è ineludibile la domanda: serve ancora Sinistra democratica? Noi pensiamo che possa servire, perché c’è in Italia uno spazio politico, sociale e culturale a sinistra del Pd, e perché in campagna elettorale i quadri e i militanti di Sd hanno mostrato di esserci, numerosi e combattivi. Per rilanciare l’iniziativa di Sd, bisogna però recuperare due elementi centrali nella nostra originaria proposta, - la cultura di governo e l’identità socialista - abbandonati nei successivi drammatici mesi, e bisogna dare una struttura, leggera e democratica, al nostro movimento.

Il 5 maggio dell’anno scorso parlammo (tra l’altro) di una «sinistra di governo». Questa non c’è stata nell’ultimo biennio, e non per nostra responsabilità. Sia ben chiaro, non parliamo di una sinistra che voglia governare ad ogni costo, e che subordini tutto alla conquista e al mantenimento del potere.
Questa è stata la strada seguita dalla maggioranza dei Ds prima e dal Pd poi. Ha portato anche loro a una pesante sconfitta. Parliamo di una sinistra che parta dai suoi ideali e dai suoi valori, e da una cultura critica del mondo in cui viviamo. Ma che sappia tradurre gli uni e l’altra anzitutto nel radicamento nella società, in secondo luogo in concrete indicazioni per il cambiamento, infine in una credibile proposta politica, a partire dalle alleanze (politiche e sociali). E si ponga quindi l’obiettivo di costruire un nuovo centro-sinistra.

Seconda questione. Ci siamo chiamati «Sinistra democratica per il socialismo europeo». Ma la seconda parte del nostro nome è scomparsa. Va ripresa e rilanciata. Anche perché esiste in Italia un mondo socialista (una cultura politica, e un elettorato potenziale) certamente non limitato allo zero virgola qualcosa per cento. È possibile che affermare la nostra identità socialista ponga un problema a una parte delle forze con cui va costruito il nuovo partito della sinistra. Ma questa difficoltà non è una ragione sufficiente per rimuovere il tema. Anche perché sarebbe riduttivo chiamarsi socialisti solo per definire un’identità o un’appartenenza organizzativa. Socialismo oggi vuol dire porre il tema del governo, nei termini che abbiamo cercato prima di indicare sommariamente. Del resto, se stessimo in un altro paese europeo saremmo nel partito socialista di quel paese, e ne costituiremmo l’ala sinistra.

Infine, il percorso delle prossime settimane. Dobbiamo assumere scelte politiche di fondo, e le conseguenti iniziative nel Paese e verso gli altri partiti della sinistra; decidere il necessario rinnovamento del gruppo dirigente; assicurare la presenza nel territorio.

L’idea che sarebbe stato inutile, anzi dannoso, darsi un minimo di regole e di struttura (per evitare di fondare un nuovo «partitino») si è rivelata alla prova dei fatti un’illusione. L’illusione di avere più tempo, e l’illusione che comunque il nuovo soggetto politico della sinistra (unitario e plurale) era a portata di mano. Così non è stato e non è.

Per questo riteniamo che Sinistra democratica deve darsi da subito una struttura, leggera e democratica. Come farlo?

Fra le molte promesse mancate di Sinistra Democratica troviamo di certo quella di un nuovo modo di far politica. La critica alla riduzione oligarchica dei processi democratici, alla mancanza di partecipazione da parte di iscritti e militanti, alla assunzione di decisioni in sedi ristrette e poco trasparenti era stata per molti decisiva nella scelta di uscire dai Ds con l’ultimo congresso. Pensavamo che nel Pd non sarebbe andata meglio. Anche per questo abbiamo scelto un’altra strada. Ma quella che abbiamo preso non ha realizzato le speranze.

Pensiamo che, dopo la catastrofe del voto, la musica debba cambiare. Abbiamo affrontato una campagna elettorale difficilissima. Compagne e compagni in tutto il paese si sono battuti fino all’ultimo, per un risultato che diventava ogni giorno più difficile. Ora, dopo il terremoto, a loro dobbiamo rivolgerci perché indichino la strada da seguire e scelgano il nuovo gruppo dirigente.

Per questo non ci persuade l’idea di tornare al Comitato promotore, perché elegga un altro coordinatore, che formi una nuova presidenza, che apra un dibattito dai contorni e delle modalità imprecisate. Il Comitato promotore era ed è in buona parte diretta filiazione del congresso Ds. Doveva avere una funzione transitoria, e per questo il nostro Statuto provvisorio - consultabile sul sito - gli assegna esclusivamente il compito di «lanciare la fase di adesione al Movimento». Quella fase è alle nostre spalle. È giusto e corretto che a partecipare e a decidere le scelte di oggi siano le compagne e i compagni che oggi, qui ed ora, hanno fatto o confermato le loro scelte e sono scesi in campo.

Proponiamo un altro percorso per Sd. Un percorso innovativo, un pezzo di riforma della politica. Convocare al più presto assemblee territoriali, per esempio a livello provinciale, di tutte le compagne e i compagni che hanno aderito a Sd, hanno partecipato alla campagna elettorale, e intendono proseguire il loro impegno nel nostro Movimento. Assemblee aperte a tutti quelli che a sinistra volessero partecipare e contribuire. Assemblee che sarebbero per noi l’equivalente di una grande primaria democratica sul progetto, perché convocate per discutere di politica, e non per l’elezione plebiscitaria di un leader. E che, sulla base della discussione politica, eleggano i propri rappresentanti per una grande Assemblea nazionale chiamata a decidere, entro giugno, sulla linea politica e sul nuovo gruppo dirigente nazionale.

Noi e la sinistra abbiamo bisogno di cambiamento vero. E non possiamo consentirci altri errori. Il primo errore sarebbe non dare la parola, per decidere davvero, a tutti coloro che si sono guadagnati sul campo tale diritto.


Pubblicato il: 30.04.08
Modificato il: 30.04.08 alle ore 8.14   
© l'Unità.

Navigazione

[0] Indice dei messaggi

[#] Pagina successiva

[*] Pagina precedente