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Autore Discussione: MARIO CALABRESI.  (Letto 72791 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 03, 2010, 08:58:07 am »

3/5/2010

L'inquietudine che non finisce
   
MARIO CALABRESI

Lo spettacolo pomeridiano del Minskoff Theatre è cominciato regolarmente alle tre del pomeriggio. Le famiglie di turisti che avevano pagato 214 dollari a testa per vedere il Re Leone dalle prime file sotto il palco hanno solo fatto più fatica per entrare.

Una folla di curiosi si faceva fotografare all’incrocio tra la 45ª Strada e Broadway. Da sabato sera sulle guide dei tour organizzati per Manhattan c’è un altro luogo dove bisogna essere stati, vi è già spuntata una bancarella con magliette «I love NY» e bandierine a stelle e strisce. Ora è il momento di farsi immortalare nel punto esatto dove New York avrebbe potuto trasformarsi in Baghdad. Sono gli stessi turisti che con la linea 1 della metropolitana si spostano da Sud, da quel che resta di Ground Zero - che finalmente non è più un buco ma vede crescere l'erede delle Torri Gemelle - a Nord, all’ingresso dell’elegante Dakota, il condominio di fronte a Central Park, dove trent’anni fa venne assassinato John Lennon. Due portieri in livrea ancora ieri mattina si affannavano a spostare i curiosi che si arrampicano perfino sulla facciata per portarsi a casa un’immagine ricordo.

La vita e lo spettacolo a Times Square sono ripartiti identici, dopo un sabato sera surreale in cui c’è stato soltanto silenzio e poliziotti in tenuta antiterrorismo che sigillavano ben dodici isolati. Ma se per il turista di passaggio questo è solo un altro scatto, per i newyorchesi la fallita autobomba è il risveglio di un’inquietudine che da quasi nove anni vive sotto la loro pelle. Dal giorno in cui si sono sentiti vulnerabili. Da quell’11 settembre in cui l'onnipotenza di una città è crollata insieme alle Torri Gemelle. Sui muri della metropolitana e sulle fiancate degli autobus è sempre rimasto ben visibile il messaggio simbolo: «If you see something, say something» se vedi qualcosa, segnalalo immediatamente. Si è ironizzato molto su questa scritta ripetuta ossessivamente in inglese e spagnolo, su quei cartelli che invitavano a denunciare qualunque cosa e chiunque risultasse fuori posto.

Ma l’eroe del sabato sera, un venditore ambulante di magliette con un passato da soldato in Vietnam, ha agito secondo le procedure e oggi viene premiato come esempio. Anche l’America di Barack Obama sembra non poter fare a meno di quegli standard di paura e sicurezza dettati da Osama bin Laden e da George Bush.

New York conosce le autobombe: nel 1993 - in quella che fu una sorta di prova generale del terrorismo islamico sul territorio americano - 680 chili di esplosivo furono piazzati nel parcheggio sotterraneo della Torre Nord del World Trade Center. Allora ci furono solo sei morti e un migliaio di feriti e le Torri Gemelle rimasero per altri otto anni al loro posto. Ma i sodali dello sceicco cieco Omar Abdel-Rahman - che sconta il suo ergastolo in Nord Carolina - si presero la rivincita nel 2001 cambiando la storia e il sentimento di una città. Ma se l’idea dell’autobomba a noi europei parla oggi di Baghdad come in passato significava Beirut, negli Stati Uniti è associata all’impresa più tragica delle milizie estremiste e razziste bianche, quelle che con un camion bomba nel 1995 sbriciolarono il Palazzo Federale di Oklahoma City uccidendo 168 persone tra cui 19 bambini dell’asilo.

Chi voleva trasformare il Centro turistico di Manhattan, la casa dei musical, del divertimento per famiglie in un teatro di distruzione e sangue? Tutte le piste e le ipotesi sono aperte. Dagli estremisti islamici che continuano ad odiare l'America ai gruppi della razza ariana che odiano invece soltanto il suo Presidente nero. Sappiamo che la vita continua ma che quell’inquietudine newyorchese resta intatta, perché quei tremila morti di nove anni fa non sono dimenticati e perché dall’inizio del millennio sappiamo che il nostro mondo e il nostro modo di vivere sono cambiati per sempre.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7295&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #46 inserito:: Maggio 24, 2010, 03:49:45 pm »

24/5/2010

Difesa di casta
   
MARIO CALABRESI

Molti lettori nell’ultimo anno hanno espresso il loro disagio di fronte alle centinaia di pagine di colloqui privati, telefonate e messaggi intercettati dalla magistratura e finiti in tempo quasi reale sui giornali. Penso alle liste piene di nomi, pubblicate senza distinzioni di ruoli e responsabilità, o ai dialoghi privati riprodotti senza chiarire i necessari contesti di riferimento. Penso, per esempio, alle intercettazioni riguardanti le inclinazioni sessuali dell’inquisito Angelo Balducci, che nulla hanno a che fare con l’inchiesta che ha smascherato gli affari della «cricca» dei lavori pubblici, ma che sono state passate ai quotidiani e sono finite direttamente nelle case degli italiani. Un’anomalia, di cui parla in modo esaustivo Luca Ricolfi nell’articolo che trovate qui sotto. Un’anomalia che avremmo dovuto affrontare da tempo.

L’idea che l’Italia si sia trasformata in una società di guardoni, incollati allo spioncino delle procure in attesa di una nuova rivelazione, mi inquieta. Da mesi ne discutiamo in questa redazione, cercando di darci dei limiti quando la sera, nella fretta della chiusura, ci troviamo di fronte a centinaia di pagine di verbali e intercettazioni. Pensiamo che si debba pubblicare solo ciò che è significativo per far comprendere un’inchiesta, illuminante per i lettori.

Resto convinto che in uno Stato di diritto e in una democrazia sana spetti alla magistratura la valutazione degli indizi e delle prove e che debbano essere i tribunali e non i giornali a emettere le sentenze. L’idea di una giustizia sommaria somministrata sull’onda delle emozioni e dell’indignazione è qualcosa che mi ha sempre fatto paura e che in passato ha fatto danni che non si dimenticano. Sarebbe il tempo di aprire una discussione vera e approfondita sul rispetto della privacy, dei diritti degli inquisiti e sulla tutela che andrebbe garantita a chi finisce suo malgrado in un’inchiesta senza averne colpa.

Si potrebbe allora dire che la legge in discussione al Senato arriva al momento opportuno. Purtroppo non è così, anzi accade il contrario: il disegno di legge sulle intercettazioni è così palesemente sproporzionato e ha un sapore talmente vendicativo da risultare inaccettabile e da soffocare ogni possibilità di riflessione. Nei mesi in cui riemergono prepotentemente la corruzione e gli intrecci tra la politica e gli affari e in cui la nostra classe dirigente mostra il suo volto più arrogante e spregiudicato, la nuova legge suona come l’estremo rimedio per coprire l’illegalità e garantire impunità.

Non si capisce come siano collegate la necessità di offrire maggiore privacy e vere garanzie agli indagati con la limitazione dei tempi delle intercettazioni o l’obbligo che per autorizzarle ci voglia un collegio formato da tre magistrati. Rendere più faticosa, farraginosa e intempestiva la possibilità di intercettare va nella direzione di indagini più serene e rispettose o finisce per essere un favore a chi delinque? Prima ancora del diritto di informazione mi sta a cuore la possibilità che la magistratura possa continuare ad indagare a fondo, sia messa nelle condizioni di operare senza inciampi. Perché se anche fossimo liberi di pubblicare ogni atto e ogni intercettazione ma ai pubblici ministeri fosse impedito di lavorare, allora mi chiedo cosa ci resterebbe da raccontare.

Se il problema invece è quello di evitare di pubblicare le trascrizioni di telefonate di persone che non sono coinvolte nelle indagini o se è importante tutelare il segreto istruttorio, perché allora vietare anche di dare notizia degli atti di indagine (anche sotto forma di riassunto) fino al rinvio a giudizio degli indagati? È surreale pensare che si debba dare notizia di un arresto ma non si possa spiegare ai lettori perché quella persona è stata arrestata. La legge in discussione prevede poi, in caso di violazione, di non condannare tanto i giornalisti quanto gli editori con multe che arrivano a sfiorare il mezzo milione di euro. Una mossa odiosa e subdola che punta a spaccare le aziende editoriali e a terrorizzarle in tempi di crisi economica, oltre che a demandare non ai direttori ma agli amministratori il controllo su ciò che si pubblica.

È tempo che i giornali e i giornalisti tornino a fare inchieste senza aspettare di essere imboccati dagli inquirenti e senza diventare ogni settimana il megafono di una diversa procura. Che si rifletta su ciò che è corretto pubblicare smettendo di giocare a chi rivela un particolare più degli altri anche se questo non aggiunge nulla ma anzi può distruggere qualcuno.

È ora che il Parlamento abbia un sussulto e ripensi ad una legge che avrebbe effetti devastanti sulle inchieste.

È chiaro che questa legge ha poco a che fare con le preoccupazioni dei lettori e le sensibilità ferite di cui parlavo prima, mentre ha molto a che fare con una difesa corporativa e di casta.

Ma non della casta dei giornalisti, quanto di quella dei politici.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7393&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #47 inserito:: Giugno 06, 2010, 09:41:36 am »

6/6/2010

Un giorno importante

MARIO CALABRESI

Ho voluto cogliere gli aspetti positivi, ho sentito un impegno costruttivo ed effettivo a sostenere le celebrazioni.
È un giorno importante». Giorgio Napolitano parla a bassa voce, ha appena finito di ascoltare le parole del governatore leghista del Piemonte Roberto Cota, lo ha sentito impegnarsi per festeggiare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Il Presidente è soddisfatto, è venuto a Torino per celebrare Cavour ma soprattutto per sentire parole definitive che spazzassero via mesi di dubbi, polemiche e frenate, per cancellare finalmente la sensazione che un secolo e mezzo di storia unitaria possa essere vissuto come un fastidio da passare sotto silenzio. Lo aspettavano in molti dopo settimane passate a interrogarsi su come si sarebbe comportata la Lega, su quali battaglie si sarebbero dovute combattere da qui al marzo del 2011.

Invece Roberto Cota, pur non rinunciando al fazzoletto verde con il sole delle Alpi nel taschino, pur sottolineando l’importanza del federalismo nel futuro del Paese e mettendo in guardia dalla «retorica dei vecchi copioni», si è impegnato a cogliere l’invito del Presidente a fare la sua parte.

La sensazione è che ieri a Palazzo Reale sia stata presa una strada che non permette più passi indietro, adesso la sfida sarà quella di riempire le celebrazioni di contenuti veri e non di retorica stantia, ma il treno è partito e all’anniversario mancano ormai solo nove mesi.
Certo il governatore leghista ha dettato le sue condizioni: niente pensiero unico e niente sprechi, ma chi oggi si sentirebbe di dissentire, di augurarsi celebrazioni faraoniche o infrastrutture inutili? Nel piccolo rinfresco nel cortile di Palazzo Reale trionfava l’acqua minerale e questo è già un segno dei tempi. C’è da augurarsi solo che non prenda piede una retorica miope che mentre auspica un boom del turismo mette all’indice ogni investimento: la miopia di quelli che criticano il Sudafrica per aver investito milioni di dollari per costruire stadi e organizzare un mondiale di calcio senza vedere come questa possa essere la grande occasione per far fare un balzo avanti al Paese africano. Basti pensare al ritorno di immagine e credibilità che le Olimpiadi invernali hanno avuto per il Piemonte.

Ma non è solo una questione di guadagni e opportunità, le celebrazioni dell’Unità d’Italia parlano alla nostra pancia e al cuore, basta guardare le immagini del filmato presentato al Presidente per dimenticare le polemiche: Pietro Mennea che vince i 200 metri, la prima Cinquecento, i treni degli emigranti, i nostri premi Nobel e i premi Oscar, il boom economico che ci porta dalle macerie della Seconda guerra mondiale a essere la quinta potenza industriale del pianeta, le Ferrari, la Coppa del Mondo alzata al cielo. Immagini che ci raccontano molto di quello che siamo stati e che siamo riusciti a fare, il problema è che ci manca l’orgoglio di ricordarlo. Ma un Paese, la sua identità e la sua memoria non si costruiscono solo sui successi ma anche sui lutti, le tragedie collettive, le proteste e le battaglie per la giustizia.

Questa mattina Giorgio Napolitano verrà alla Stampa, gli presenteremo la digitalizzazione dell’intero archivio del giornale che è nato nel 1867 - è di soli sei anni più giovane della nostra nazione -, un patrimonio di un milione e 761 mila pagine, più di cinque milioni di articoli che saranno consultabili gratuitamente online.

Ho passato un sacco di tempo in questi giorni a navigarci dentro e quello che ho trovato mi racconta di quanto questo Paese abbia una storia unitaria. Lo choc per la strage di piazza Fontana, per l’agonia di Alfredino Rampi, l’Italia paralizzata dal rapimento Moro, il lutto del Vajont o per i terremoti del Friuli e dell’Irpinia. Siamo cresciuti insieme, nei drammi, nelle migrazioni interne - pensate alla Torino di oggi che è stata capace di integrare una «migrazione biblica» - e nelle eterne polemiche. Ce lo raccontano ogni domenica Fruttero e Gramellini, sull’ultima pagina di questo giornale, con la loro storia d’Italia per date in cui emerge che perpetriamo vizi e ingiustizie antichi, che anche nei difetti abbiamo continuità da un secolo e mezzo.

Il Presidente della Repubblica è stato a Quarto, da dove partì Garibaldi, poi in Sicilia, ma è venuto a Torino a dare la spinta decisiva perché si arrivi in tempo a celebrare l’Unità d’Italia. Da qui è partito tutto, da «questa terra di frontiera, dove fa freddo, si lavora, ci si alza presto la mattina, si va a letto presto la sera», come la definiva l’Avvocato Agnelli. Lo ha ricordato il sindaco Chiamparino, che al Presidente che gli chiedeva come stava ha risposto in dialetto, con asciuttezza e con il massimo dell’ottimismo che può esprimere un piemontese: «Son fòra dal let». Siamo fuori dal letto. Ancora una volta in piedi. Adesso comincia una nuova giornata, speriamo che sia un successo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7444&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #48 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:05:28 pm »

11/6/2010

Il sipario sugli scandali
   
MARIO CALABRESI

Ora cala il sipario. Il nostro lavoro si farà più incerto e faticoso e gli avvocati diventeranno compagni di banco di direttori e editori. Nonostante dibattiti, correzioni e appelli di ogni tipo, la legge che detta nuove regole per le intercettazioni e l’informazione viaggia spedita verso i suoi obiettivi.

Abbiamo più volte scritto e riconosciuto che in Italia ci sono stati problemi di rispetto delle vite private di persone coinvolte in indagini, ma ciò non può cambiare il giudizio totalmente negativo che abbiamo della nuova legge.

Il dovere di informare i lettori e il mestiere di giornalisti saranno resi più difficili perché le possibilità di raccontare le inchieste si ridurranno notevolmente, potremo darvi resoconti minimi e parziali, dovremo destreggiarci a fare brevi riassunti e mai citare dettagli o particolari determinanti. Tutto in una grande incertezza, che spingerà gli editori a sollecitare continui pareri legali per evitare le maximulte.

E’ forte l’amarezza per un gesto che non ha nulla a che fare con la privacy e la civiltà giuridica, ma ci parla solo della volontà urgente della politica di calare il sipario sulle inchieste e di mettersi al riparo dagli scandali, per garantirsi un tranquillo futuro di impunità e mani libere.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7462&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #49 inserito:: Settembre 11, 2010, 05:04:50 pm »

11/9/2010

Il mondo in balia di un idiota
   
MARIO CALABRESI


Il mondo in balia di un idiota. Di un pastore battista a cui per 63 anni non aveva dato retta nessuno, tanto che nella sua Chiesa i fedeli erano poco più degli alunni di una classe elementare. La figlia di quest’uomo, che due mesi fa restò folgorato dalla proposta di un suo seguace di commemorare l’11 Settembre dando fuoco al Corano, sostiene che «è uscito di testa».

Insomma, parliamo di un matto di una cittadina della Florida profonda in cui sei obbligato a passare solo se devi andare in Georgia o in Alabama. Un matto capace però di tenere col fiato sospeso la Casa Bianca, la Nato, il Pentagono, l’Interpol, l’Onu, eserciti e polizie di mezzo mondo, organizzazioni umanitarie e di volontariato, chiese, moschee, sinagoghe e un sacco di turisti.

Come è possibile che questo oscuro reverendo in vena di provocazioni sia diventato un fenomeno planetario, anziché essere compatito dai suoi concittadini? La risposta investe in pieno il mondo dei mezzi di comunicazione che lo hanno trasformato in una star, che lo assediano da giorni con microfoni, telecamere, registratori, taccuini e che hanno piazzato intorno alla sua roulotte decine di antenne paraboliche. Per non farsi sfuggire nulla, per rilanciare al più presto ogni sillaba incendiaria e magari anche l’immagine dell’incendio finale, quel falò di libri sacri all’Islam che avrebbe l’immediato effetto di accendere un’altra pletora di idioti che non aspettano altro a ogni latitudine. Il rapporto causa-effetto lo mostrano le due foto che pubblichiamo in prima pagina.

Le quali possono essere lette da sinistra verso destra o anche al contrario, nel senso che nessuno dei due è giustificato dall’altro per i suoi comportamenti: i bruciatori di Corani e quelli di bandiere a stelle e strisce appartengono alla stessa razza. Quella degli idioti appunto.
La domanda allora sorge spontanea e ce la siamo posta anche noi: ma perché allora dargli spazio e visibilità? Basterebbe ignorarli, come viene suggerito di fare con i matti o con i bambini che fanno troppi capricci. Sarebbe la scelta giusta se questa giostra globale non corresse così in fretta, se filmati, foto e dichiarazioni non ci bombardassero senza sosta.
Puoi decidere di ignorare il pastore, ma come fai a tacere il fatto che nel frattempo il Papa, il segretario delle Nazioni Unite, il comandante delle truppe americane in Afghanistan e il Presidente degli Stati Uniti stanno lanciando appelli proprio a quel pastore e alla sua minuscola congrega di fedeli?

Puoi decidere di non mettere nulla sul giornale, ma all’ora di pranzo le agenzie battono il comunicato dell’Interpol in cui si parla di «rischio di attacchi globali». Qualche minuto e in una manifestazione antiamericana a Kabul ci scappa il primo morto.

Così pensi che se decidessi di tenere il giornale fuori da tutto ciò sembreresti tu l’idiota, o perlomeno un insopportabile snob, e che sarebbe tutto inutile. La grande agenzia Ap ha deciso di non distribuire le eventuali foto, ma sappiamo che basta un ragazzino con un cellulare e un computer a casa per far esplodere la rete e arrivare in ogni casa del globo. Gli esempi degli ultimi anni sono centinaia, pensate alle foto di Abu Ghraib o anche solo al filmato del bambino Down picchiato dai compagni di scuola.

A Barack Obama, ieri mattina nella East Room della Casa Bianca, hanno chiesto se non avesse fatto meglio a ignorare il pastore Jones invece di dargli importanza. Il Presidente ha risposto che ha dovuto occuparsi «dell’individuo giù in Florida» - non ha voluto dargli la dignità del nome - per evitare gravi conseguenze contro cittadini e militari americani, che non poteva fare altrimenti.

Così siamo tutti prigionieri di questo «reality show», come lo ha chiamato il direttore del New York Times Bill Keller, che finisce per dettare gli umori globali e farsi guidare da questi.
Ma non c’è proprio nessuna via d’uscita da questa degenerazione della società dell’immagine che è capace di mettere tutto sullo stesso piano, di enfatizzare un particolare fino a farlo diventare un fenomeno universale, che regala ai cretini di ogni sorta il loro minuto di celebrità planetaria?

Qualche cosa si potrebbe fare: una strada esiste, ma non passa dalla censura o dal silenzio, passa invece dallo sforzo di restituire a ogni immagine i suoi veri contorni, di rimetterla a posto nel suo contesto. Bisogna fare più giornalismo, non arrendersi alla valanga di immagini artefatte o di slogan a effetto.

Tutti i giornali del mondo hanno parlato della «Moschea a Ground Zero» e molti nel mondo si sono indignati, forse l’effetto sarebbe stato diverso se tutti avessero scritto che la sala di preghiera dovrebbe nascere a tre isolati dal luogo dove sorgevano le Torri Gemelle o che a quattro isolati già esiste da anni un’altra moschea (di cui nessuno si è mai sognato di chiedere la chiusura).

Fare giornalismo di qualità per cercare di abbassare la febbre del sensazionalismo significa andare a cercare dati e statistiche per dare il giusto peso alle nostre preoccupazioni, che si tratti del numero di crimini, di immigrati illegali, di malati di influenza suina o di moschee con minareto (in Germania ce ne sono 206, in Italia 3). Significa dare voce a chi ha titolo per parlare e non solo a chi garantisce di fare più rumore o più spettacolo.

Fare giornalismo così è faticoso, ma è l’unica strada che abbiamo per salvarci dall’invasione del falso, del verosimile, per cercare di capire qualcosa in questo caos globale.
Anche la politica e la società civile però potrebbero fare qualcosa per restituire ai gesti e alle parole il loro giusto peso: al delirio del reverendo Jones dovrebbero rispondere cento reverendi che pregano insieme a rabbini e muftì davanti a quello che era Ground Zero. L’immagine avrebbe una forza emozionale ed evocativa superiore e questa volta sarebbe l’erba buona a scacciare quella cattiva.

È davvero così difficile immaginare di non arrendersi e decidere che la nostra esistenza non può essere presa in ostaggio dall’ultima immagine che passa davanti ai nostri occhi?

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7814&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #50 inserito:: Ottobre 25, 2010, 05:14:04 pm »

25/10/2010

Il rispetto del lenzuolo bianco

MARIO CALABRESI


Esiste un gesto antico di pietà che mi torna in mente continuamente in questi giorni, è quello di coprire il corpo di chi è morto in un luogo pubblico. Lo si fa con un lenzuolo bianco, una coperta, un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo.

È un gesto codificato dal mondo greco, almeno venticinque secoli fa (anche Socrate si copre il volto mentre muore), e non serve soltanto a proteggere i morti dallo sguardo dei vivi ma anche noi stessi, i vivi, dalla vista della morte. È il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi.

Oggi si è fatta strada in Italia una strana concezione dell'informazione che si potrebbe sintetizzare in un gesto: quello di sollevare il lenzuolo e spingere tutti a fissare quello che c’è sotto. Molti restano incollati all’immagine terribile, altri sfuggono, alcuni cominciano a provare disgusto.

Ieri mattina - grazie al lavoro dei nostri giornalisti - abbiamo avuto gli audio degli interrogatori di Avetrana, le voci di Michele e Sabrina Misseri, con la confessione dettagliata e tormentata da parte dello zio dell’omicidio di Sarah Scazzi. Non era mai capitato di avere la possibilità di ascoltare in tempo reale un interrogatorio, divulgato fuori da ogni regola prima ancora dei rinvii a giudizio e di qualunque decisione della magistratura.

Ci siamo chiesti cosa farne e se metterli subito sul sito web, sicuri di fare un record di contatti. Ne abbiamo discusso e abbiamo deciso di buttarli, perché non aggiungevano nulla a quello che avete già letto fino a oggi, perché non servivano a chiarire nulla e perché potevano essere utili solo a solleticare le morbosità, a infilare la testa più in fondo nel pozzo.

Ne abbiamo avuto conferma poche ore dopo, mentre stavo cominciando a scrivere queste righe, quando una trasmissione televisiva per famiglie - pagata con il canone e in orario pomeridiano - ha cominciato a mandarne in onda frammenti audio accompagnandoli con un dibattito osceno e surreale.

Chiariamo subito un punto: queste voci non raccontano niente di diverso o di nuovo rispetto a quanto è stato scritto finora. Ma allora - si potrebbe obiettare - dov'è il problema? Credo che esista una sostanziale differenza tra il riportare un fatto, il raccontarlo mettendolo nel suo contesto esatto o invece nel gettarlo in faccia a chi ascolta senza alcuna mediazione. E' in quella differenza che è nato il giornalismo, che ha trovato un senso e una ragione d'esistere.

Ci sarà un motivo se da decenni all'inizio di un processo la Corte si ritira per decidere se possono entrare i fotografi (in caso di decisione negativa negli Stati Uniti entrano in azione i disegnatori) o le telecamere in Aula. Succede perché la delicatezza di un caso o la necessità di frenare una deriva emozionale può richiedere attenzioni superiori.

Qui da noi, da tempo ormai, è saltato tutto (questo dibattito in parte lo abbiamo già fatto nei mesi scorsi quando era in discussione la legge sulle intercettazioni) e così si trovano disponibili le voci dei presunti assassini mentre vengono interrogati, come le intercettazioni telefoniche un momento dopo essere state registrate.

Per anni il nostro mestiere è stato quello di cercare di ottenere una notizia in più, la frase di un interrogatorio, il racconto del tono di una voce. L'imperativo - sano e comprensibile - era quello di pubblicare tutto quanto era possibile raccogliere. Era una sfida continua con chi invece le cose doveva proteggerle e non divulgarle perché questo gli imponevano ruolo e mestiere. Poi qualcosa si è rotto: la porosità attuale, in cui si è inondati di carte e ora anche di audio, richiede un comportamento nuovo, ci impone di scegliere e anche di buttare via. Non è qualcosa che strida con il compito di un giornalista, se il motto stampato sulla prima pagina del New York Times («Tutte le notizie che vale la pena pubblicare») prevede che ci sia una selezione che scarti ciò che non vale. Dobbiamo continuare a raccontare e a svelare senza sosta, dandovi ogni elemento utile a comprendere (come facciamo anche oggi con i due articoli sul giallo di Avetrana), ma rifiutando di farci casse di risonanza di ciò che trasforma noi e voi in «guardoni».

Proprio in America mai si sognerebbero di divulgare l'audio di un interrogatorio, anche se hanno messo da tempo in rete le telefonate dell'11 settembre, ritenendo che questo servisse a ricordare il dramma, ma mai è stato mostrato un solo cadavere dei morti delle Torri. Perché non si tratta di censurarsi, ma di valutare e di non far prevalere soltanto il criterio degli ascolti, del numero di copie vendute o dei click su internet.

Lo stesso accade appunto con le immagini: certe foto di morti - da Mussolini ai coniugi Ceausescu -, così come alcuni filmati - penso alla bava agli angoli della bocca di Forlani durante gli interrogatori di Mani Pulite - sono state determinanti per un passaggio storico, hanno segnalato una rottura. Così le immagini di un terremoto hanno il compito di far capire le dimensioni di una tragedia ma indugiare sui cadaveri, mostrare brandelli di corpi, volti maciullati non serve a nulla, se non a trasformarci in megafoni dell'orrore.

Sono convinto esista un limite e ieri passava per la diffusione di quei file audio, per questo penso sia tempo di tornare a rispettare quel lenzuolo bianco. Altri lenzuoli invece il giornalismo deve continuare a sollevare e sono quelli che rivelano gli scandali, le corruzioni e le criminalità, che fanno meno circo e meno audience e amerebbero il silenzio.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7999&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #51 inserito:: Novembre 29, 2010, 11:50:12 am »

29/11/2010

Quelle parole che lasciano il segno

MARIO CALABRESI

Annunciata da giorni, ieri sera si è scatenata in tutto il mondo l’orgia dei documenti riservati: sono diventati pubblici centinaia di migliaia di messaggi che la diplomazia americana ha spedito negli ultimi anni a Washington da ogni angolo del mondo, insieme alle direttive che facevano il percorso inverso, quelle che il Dipartimento di Stato ha indirizzato ad ambasciate e consolati.

Una tempesta per i rapporti internazionali, destinata ad alzare la tensione contemporaneamente nei punti più caldi del pianeta: dal Golfo Persico dove ora non è più segreta la richiesta saudita agli americani di attaccare urgentemente l’Iran per distruggere il programma nucleare di Teheran.

All’Afghanistan del «paranoico» Karzai; alle ipotesi di riunificazione coreana con la notizia del missile di Pyongyang capace di colpire; fino all’accusa ai cinesi di aver bloccato Google.

Una situazione difficile da gestire per la Casa Bianca e per la diplomazia americana che vengono messe a nudo nei loro ragionamenti riservati, nelle loro strategie, nelle loro debolezze e nei loro peggiori aspetti. Quale clima ci sarà da questa mattina al Palazzo di Vetro a New York nel momento in cui si viene a sapere che lo scorso anno partì una direttiva firmata Hillary Clinton in cui si chiedeva di far partire una campagna di spionaggio contro i vertici dell’Onu?

Una tempesta per le opinioni pubbliche di ogni Paese che da oggi possono sapere cosa pensano dei loro governi gli americani. A far scalpore non sono solo gli scenari che emergono dalle analisi a stelle e strisce, scenari che in parte già conosciamo da tempo (sono forse un mistero la diffidenza verso il presidente iracheno Karzai o il disprezzo per Ahmadinejad?), ma la possibilità di leggerli nero su bianco.

Il caso italiano è emblematico: le feste «selvagge» di Berlusconi sono forse una sorpresa per qualche nostro concittadino, così come il rapporto assiduo e opaco con Putin o Gheddafi non sono forse materia su cui ci si interroga da anni? I documenti americani, ad una prima lettura delle anticipazioni, non rivelano nulla di terribilmente nuovo, ma la loro forza è un’altra: mostrarci come i discutibili comportamenti del nostro primo ministro, sia nel suo privato sia sullo scenario internazionale, abbiano un peso nella nostra immagine nel mondo. Anche questo può apparire scontato, ma leggere che gli americani considerano Berlusconi «il megafono di Putin in Europa» (parlando di «regali generosi» e «contratti energetici redditizi») e lo definiscono «incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno» è qualcosa che lascia il segno. Ma soprattutto qualcosa che questa volta non potrà essere smentito o accolto con una scrollatine di spalle.

Nell’estate del 2009 Maurizio Molinari scrisse su questo giornale che l’amministrazione Obama era preoccupata e irritata per la politica energetica del nostro governo troppo dipendente da Mosca, che c’erano pressioni sull’Eni perché cambiasse la sua politica sui gasdotti troppo sbilanciata - a parere di Washington - sull’accordo con Gazprom per dare vita al South Stream. Il giorno dopo il ministro degli Esteri Franco Frattini rispose che non esisteva nessun malumore americano verso la nostra politica energetica. Allo stesso modo sono state regolarmente liquidate le evidenze di un fastidio dei nostri alleati per una politica estera poco «ortodossa» e troppo fuori linea.

Due fatti hanno fatto particolarmente rumore al desk europeo del Dipartimento di Stato negli ultimi anni: il primo (nel 2007) è stato il pagamento del riscatto da parte del governo Prodi per ottenere la liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo in Afghanistan, un comportamento non in linea con quello degli alleati e che scatenò le ire della diplomazia americana perché il passaggio di denaro venne reso pubblico, costituendo un pericoloso precedente.

Il secondo è stato l’atteggiamento assunto da Berlusconi durante la crisi guerra tra Russia e Georgia, quando parlò di «aggressione georgiana» mettendosi in netto contrasto con la linea della Nato. Erano ancora i tempi della Casa Bianca dell’amico George W. Bush, ma gli strascichi di quella polemica sono arrivati intatti sui tavoli della nuova Amministrazione. Dopo le battute di Berlusconi su Barack Obama (indimenticata quella sull’abbronzatura) ebbi l’occasione di chiedere un commento ad uno degli uomini più vicini al presidente americano, il quale con grande pragmatismo mi rispose: il problema non sono le battute ma quel voluminoso dossier sui rapporti tra Roma e Mosca che ci è stato lasciato in eredità al Dipartimento di Stato. Non è un caso che nella prima intervista rilasciata da David Thorne al suo arrivo a Roma, il nuovo ambasciatore statunitense disse al Corriere della Sera che «una delle più grandi preoccupazioni americane è la dipendenza energetica dell’Italia».

Era il primo avviso pubblico, dopo quelli riservati che erano stati ignorati, a cui seguirono altre pressioni sia sul governo sia sull’Eni. Ma se queste carte ci raccontano il nostro crollo di credibilità e svelano i giudizi privati dell’ambasciata e della diplomazia, sbaglieremmo a pensare che ogni cablogramma del passato possa essere la fotografia del presente. Le stesse fonti americane che per lungo tempo hanno raccontato l’irritazione dell’Amministrazione, da qualche mese segnalano un cambio di passo di Berlusconi e anche dell’Eni, sottolineando che parte delle preoccupazioni di Washington sulla rete degli oleodotti hanno trovato ascolto con l’apertura alla possibile convivenza del South Stream con il progetto Nabucco (caro agli Usa) e che è stato apprezzato il viaggio dell’amministratore delegato del colosso italiano degli idrocarburi, Paolo Scaroni, in Azerbajian.

La diplomazia americana racconta del pragmatismo di una Casa Bianca che non ha tempo di curarsi dei nostri vizi ma che ritiene che l’Italia «può avere un ruolo positivo in Medio Oriente» perché è uno dei pochi governi europei ad avere un buon rapporto con il governo di Netanyahu e con Egitto, Siria e Libano.

Così Berlusconi, sicuro di non pagare conseguenze, può farsi una risata e Frattini chiedere che nessun politico commenti, ma in rete e sui giornali di tutto il mondo resteranno quei giudizi impietosi che ci espongono al ridicolo e quella diffidenza che rende faticoso il rapporto con il più importante dei nostri alleati.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8148&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #52 inserito:: Dicembre 15, 2010, 04:23:54 pm »

15/12/2010

Il muro tra politica e Paese

MARIO CALABRESI

La politica chiusa nel Palazzo consuma la resa dei conti che aspetta da mesi: grida, si insulta, si conta e poi festeggia. Fuori la città brucia. Le porte del Palazzo vengono sprangate, a separare due mondi che sembrano vivere in galassie lontane anni luce.

Le colonne di fumo, le esplosioni, il clangore degli scontri, i sampietrini che volano, i caschi, le mazze, ci parlano naturalmente del passato, ci fanno pensare agli Anni Settanta, ma non è lì che dobbiamo andare per capire. Meglio guardare a Londra, ai ragazzi che assaltano le banche, che colpiscono l'auto di Carlo e Camilla, alla Grecia dei fuochi in piazza, a tutti i giovani fuori controllo che non hanno più nessun rapporto con i partiti e le loro mediazioni ma puntano allo sfascio, convinti di avere il diritto di sfogare in piazza la rabbia per una vita che si preannuncia precaria.

Le immagini di Roma fanno spavento e raccontano in modo esemplare la distanza tra una politica rinchiusa in se stessa, nei suoi riti più deteriori, e un Paese che sbanda, si incattivisce e non ha più né sogni né una direzione. I ragazzi che giocano alla guerra col casco, la benzina, il passamontagna e i bastoni non rappresentano certo gli italiani, ma la politica dovrebbe saper guardare oltre quei fuochi per vedere una maggioranza silenziosa e sfinita che non è più nemmeno capace di illudersi.

Invece la politica si blinda, si preoccupa di costruirsi una «zona rossa» per stare al sicuro, per lasciare fuori non solo i facinorosi ma tutti gli italiani, e poi dentro litiga, sbraita, eccita gli animi e non sembra in grado di produrre alcuna soluzione.

Il Paese sbanda perché da troppo tempo non è governato, perché nessuno si preoccupa di affrontare e contenere i massimalismi deliranti, di rassicurare chi ha paura del futuro e di bloccare la violenza che sta tornando a emergere. Non possiamo rischiare di perdere un'altra generazione, anche se parliamo di piccole frange, anche se non siamo al terrorismo e alle pistole.

Il rumore degli scontri di ieri richiede un sussulto di dignità del governo e imporrebbe un cambio di linguaggio delle opposizioni: non si può salire sui tetti o chiamare "cilena" la polizia italiana senza preoccuparsi di fomentare le piazze.

Il 14 dicembre è finalmente passato e Berlusconi è rimasto in sella, vincendo un'altra battaglia della sua guerra totale con Fini. Ma un governo che si salva per tre voti, conquistati nottetempo, ha poco da festeggiare: la sua unica preoccupazione oggi dovrebbe essere quella di riuscire a ritrovare la capacità di ascoltare il Paese e non quella di sopravvivere un giorno in più.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8202&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 25, 2010, 06:27:05 pm »

24/12/2010 - COLLOQUIO

Napolitano: "Diamo risposte a una generazione inascoltata"

Il Presidente della Repubblica: «Ecco perchè ho incontrato i ragazzi»

MARIO CALABRESI

Mi sono trovato davanti una generazione che si sente inascoltata e a cui dobbiamo dare risposte». Nelle ore in cui la nuova riforma dell’Università diventa legge, Giorgio Napolitano ragiona sulla protesta giovanile che per giorni ha occupato il dibattito politico italiano, mettendo al centro «il tema dell’ascolto, della capacità della politica di tornare a comunicare con i più giovani». E' un chiodo fisso del Presidente - che lo ripeterà anche la prossima settimana nel suo discorso di fine anno - quello di dare «valide risposte ad un malessere crescente fatto di disoccupazione e precarietà», accentuato dalla crisi economica e dal divario crescente tra Nord e Sud.

Il Capo dello Stato già ragiona sulle sfide del 2011, quando celebrerà il primo secolo e mezzo dell’Unità d'Italia chiedendo al Paese di avere memoria ma di guardare avanti e tornare a progettare un futuro. Il Presidente della Repubblica, l'altroieri sera, ha aperto le porte del Quirinale ad una delegazione di ragazzi perché proprio loro sono il futuro già tra noi e ora racconta: «Li ho accolti perché la loro protesta non era stata sporcata dai segni della violenza. Sono venuti da me dopo una giornata molto tranquilla, e questa era la condizione preliminare per ogni dialogo». Una condizione posta lunedì scorso, nel discorso alle alte cariche dello Stato: «Sono stato chiaro: i giovani hanno il diritto di manifestare e protestare ma devono tenere fortemente le distanze da quei gruppi che sono portatori di una intollerabile illegalità e violenza distruttiva.

Mi sembra che abbiano capito che sarebbero finiti nell’angolo, in un "cul de sac", se avessero incoraggiato o anche tollerato una violenza come quella della settimana prima, e il fatto che quegli episodi non si siano ripetuti è importante». Così per un’ora e mezzo dodici studenti si sono seduti intorno al Presidente nel suo studio e hanno raccontato la loro opposizione alla legge di Mariastella Gelmini: «Nel dialogo con loro ho trovato tratti di ingenuità ma buona fede e dobbiamo renderci conto che non è solo il problema di una legge ma è il problema di una generazione». Un messaggio, Giorgio Napolitano, vuole lanciare ora che la riforma è passata, le manifestazioni finite e pure un anno segnato da polemiche e scontri terribili sta per andare in archivio: «Oggi mi sento di dire che gli studenti che protestano, e che ho ricevuto, sentono e pongono soprattutto il problema dell'avere voce, del veder ascoltate, considerate e discusse le loro preoccupazioni, le loro esigenze e le loro proposte.

E tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni e nella politica dobbiamo capire che sono, al fondo, le preoccupazioni di una generazione cui è ormai chiaro, nella percezione di molti, quali incognite presenti per essa il futuro». La necessità di dare risposte, e questo è l’altro cavallo di battaglia del Presidente da settimane, è legata alla stabilità che deve essere funzionale però a una «efficace azione di governo» e a un lavoro parlamentare che «sia produttivo». Se gli si chiede come può riuscire a svolgere serenamente il suo ruolo mentre il mondo politico è preda di continue guerre, risponde candidamente: «L’unica cosa è cercare di non farsi travolgere dalle scosse, dai problemi e dalle novità che si accavallano ogni giorno e provare a guardare lontano».

Il Presidente della Repubblica si prepara ad un anno intenso, che lo vedrà protagonista e motore delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Il primo appuntamento sarà già il 7 gennaio a Reggio Emilia con la Giornata Nazionale della Bandiera, con un simbolico passaggio di mano del tricolore dal sindaco di Torino a quello di Roma. Quel giorno sarà l’apertura ufficiale dei festeggiamenti e mancano ormai solo due settimane: Giorgio Napolitano non nasconde il suo dispiacere per l’atteggiamento freddo del governo. Il Presidente riconosce ai giornali, all’editoria, alla scuola e agli enti locali l’impegno nel sostenere le celebrazioni, ma torna a sottolineare «la mancanza di un impegno politico nazionale».

Così prova ancora a spronare il governo affinché «faccia sentire la propria voce e diventi finalmente protagonista della festa della nazione, perché - ripete - non è mai troppo tardi e si può ancora recuperare». L’importanza dell’unità sarà al centro del discorso di fine anno insieme alla centralità dell’Europa: «Un tema che sembra essere scomparso dall’agenda politica italiana ma che andrà a condizionare qualsiasi sbocco della crisi italiana». Appare incomprensibile, al Presidente, l’incapacità di pensare «europeo» in un momento in cui l’intreccio tra la crisi indotta dall’accelerazione della globalizzazione, le tempeste monetarie e la crisi finanziaria rappresenta ancora un rischio forte anche per l’Italia.

«Per questo è necessario tenere la guardia alta», per questo nei suoi atti e nei suoi discorsi Giorgio Napolitano ha messo la stabilità al centro e ha sottolineato i tempi fisiologici di durata di una legislatura. Ma se chi governa ha tempo davanti lo deve usare con efficacia, «con la massima serietà», pensando alla riduzione del debito pubblico e allo sviluppo. E questi concetti lo riportano a parlare dei giovani, della necessità di trovare soluzioni sostenibili e di lungo periodo per il Paese che lasceremo in eredità alle prossime generazioni, perché nel momento in cui si ripensa il Welfare e le risorse sono scarse bisogna mettere bene in chiaro quali sono le priorità e i bisogni dell’Italia.

I Palazzi della politica ormai hanno chiuso per le ferie, per qualche settimana il rumore degli scontri potrebbe calare, ma il Presidente non riesce a pensare alle vacanze, dice che prima di riposarsi deve preparare il discorso agli italiani di fine anno. Poi sarà l’anno nuovo, cominceranno le celebrazioni dei 150 anni e l’attività politica riprenderà e subito ci sarà la sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento. Napolitano invita tutti alla serenità, alla calma e ad evitare fughe in avanti, da parte sua continuerà ad applicare la regola d’oro di non farsi travolgere dalle scosse.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/381223/
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« Risposta #54 inserito:: Gennaio 27, 2011, 11:56:54 pm »

27/1/2011

L'orizzonte di Obama e il nostro


MARIO CALABRESI

Il futuro non è un regalo ma una conquista» diceva Robert Kennedy e ieri notte Barack Obama lo ha ricordato aggiungendo: «Saranno le scelte che facciamo oggi a condizionare il nostro destino».

Se noi guardiamo dall’altra parte dell’Atlantico vediamo un Paese che attraversa una crisi profonda ma continua a parlare di progetti e prova senza sosta a rialzarsi e a recuperare il suo posto nel mondo. Un Paese che sa che è il tempo di scelte strategiche, di investimenti sulla crescita, di riforme e di coraggio.

Ma se guardiamo da questa parte dell’Oceano, a casa nostra, non possiamo che provare vergogna per la miseria del nostro dibattito, privo di ogni idea e progettualità e prigioniero dei vizi e degli umori dell’uomo che ci governa.

Ogni anno il discorso dello Stato dell’Unione, che il Presidente degli Stati Uniti pronuncia alla fine di gennaio, serve a illustrare quanto è stato fatto negli ultimi dodici mesi ma soprattutto ad indicare la direzione in cui si muoverà il Paese, gli obiettivi e l’agenda di una presidenza e di un’intera nazione. Gli americani prestano poca attenzione agli elenchi delle cose fatte: se sono state realizzate o no riforme importanti hanno già avuto modo di accorgersene guardandosi in tasca o riflettendo sulla qualità della propria vita. Così l’orecchio è attento agli impegni e alle promesse, quelle che indicano la strada e che serviranno a giudicare una presidenza alle elezioni successive.

Tanto che uno degli indicatori più significativi dell’andamento di un Presidente non sono i sondaggi sul suo consenso o la sua popolarità, ma quelli in cui i cittadini dicono se il Paese è incamminato nella giusta direzione.

Quest’anno, molto più che in passato, ho invidiato agli americani la possibilità di avere un luogo e un momento in cui discutere di futuro, in cui fermarsi ad ascoltare il proprio leader che indica degli obiettivi comuni. In Italia oggi non solo non abbiamo una direzione ma neanche dibattiamo su quale possa e debba essere. Non ci concediamo nemmeno più il lusso di immaginare o sognare qualcosa che vada oltre la giornata, che guardi lontano, che somigli a un percorso. Neppure si contempla di poter indicare un obiettivo su cui poter essere giudicati. Non ci resta che questa palude in cui siamo prigionieri soltanto del presente, del tempo della cronaca, delle sue piccolezze e del suo squallore.

Nessuno riesce più ad alzare lo sguardo, prevale nelle classi dirigenti quel difetto - esiziale, come denunciava con lungimiranza Tommaso Padoa-Schioppa - della «veduta corta». Così il paragone con quello che si è sentito al Congresso americano - e questa volta non è una questione legata alle capacità oratorie di Obama - non può che amareggiarci: a fare la differenza è la capacità di un Paese di emendarsi dagli errori, di fare autocritica e di rimettersi in gioco.

Come ogni grande Presidente americano riesce a fare nei momenti più difficili, Obama ha evitato di perdersi nel labirinto dei piccoli e grandi temi all’ordine del giorno (come aveva fatto invece l’anno scorso), per volare più alto e disegnare una mappa del percorso che l’America ha di fronte nei prossimi anni.

In questo ha ricordato molto Ronald Reagan (di cui il 6 febbraio si festeggia il centenario della nascita) e per niente Jimmy Carter, che in mezzo alle difficoltà continuava a ripetere agli americani che il «malessere» della nazione era colpa loro.

Nel suo discorso invece Obama ha spronato l’America a non piangersi addosso lamentando l’invadenza della Cina o dell’India, ma a reagire riconquistando la leadership nelle tecnologie, nella ricerca, nell’università e nelle esportazioni.

Pensate di ascoltare il vostro leader e di non sentire violenza nelle sue parole, di non trovare rancore, rabbia, depressione. Pensate a un Paese che, seppur diviso e polarizzato come l’America, si può permettere la libertà di avere 91 cittadini su cento che plaudono al discorso del Presidente.

Pensate alla fortuna di avere qualcuno che rilancia l’orgoglio: «Siamo la nazione che ha portato le auto nei vialetti di casa e i computer negli uffici, la nazione di Edison e dei fratelli Wright, di Google e di Facebook: noi siamo quelli che realizzano grandi cose». La forza del discorso di Obama, che è la forza dell’America e che è esattamente quello che ci manca in Italia, è riuscire a far riemergere una narrativa comune del Paese che alla fine supera sempre le divisioni e punta al risultato comune piuttosto che all’eliminazione dell’avversario o alla difesa sterile di rendite di posizione.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8341&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #55 inserito:: Febbraio 20, 2011, 10:30:05 am »

20/2/2011

Quel bisogno di alzare lo sguardo

MARIO CALABRESI


Può un Paese vivere nella perenne attesa del Giorno del Giudizio, convinto che sia programmato sempre per domani mattina?

Da mesi non si fa altro che parlare della resa dei conti finale e della caduta di Silvio Berlusconi e del suo governo, gli occhi sono sempre puntati su una data cruciale, considerata definitiva: il discorso di Fini a Mirabello all’inizio di settembre, quello di Berlusconi del 29 dello stesso mese alla Camera, le dimissioni dei ministri finiani, il voto di fiducia del 14 dicembre, le rivelazioni di Ruby, l’arrivo delle carte sulle feste di Arcore a Montecitorio, la decisione del giudice per le indagini preliminari di Milano, ora il giorno dell’apertura del processo al premier il prossimo 6 aprile.

Nel frattempo il presidente del Consiglio ha prima visto franare la sua maggioranza fin sotto la soglia fatidica dei 316 voti alla Camera, poi l’ha ricostruita tornando a stare a galla e incassando svariati voti di fiducia (l’ultimo questa settimana al Senato).

L’ attenzione del governo, dell’opposizione e dell’informazione è spasmodicamente puntata su questo pendolo, che oscilla ogni giorno a favore o contro Berlusconi, che ci ipnotizza e ci rende incapaci di guardare più lontano o di vedere lo stato in cui versa l’Italia.

Sì, perché il Paese è malato: di divisioni, di insicurezza, di mancanza di futuro, di sfiducia e di assenza di politica. Ma di questo nessuno sembra curarsi.

Continua a venirmi in mente l’ultimo periodo della presidenza di George W. Bush: due terzi degli americani non avevano più fiducia in lui, la maggioranza lo considerava indegno, gli scandali che toccavano la sua Amministrazione erano molti e gravi (dalle foto del carcere iracheno di Abu Ghraib, alla pratica di rapire e spedire in Paesi in cui si usava la tortura i presunti terroristi - le cosiddette «extraordinary rendition» -, dall’uso del «waterboarding», cioè il simulato affogamento di chi veniva interrogato, fino alle commesse militari e sulla sicurezza affidate a società legate al vicepresidente Cheney), i suoi concittadini volevano mandarlo a casa e l’immagine del Paese nel mondo era infangata. Ricordo i viaggi in Europa in cui Bush evitava accuratamente ogni incontro con la folla per il terrore delle contestazioni, l’unica eccezione fu in Albania, dove l’ambasciata americana riuscì ad organizzare ad arte un piccolo bagno di folla per dare un po’ di soddisfazione al Presidente.

Molte furono le manifestazioni di protesta negli Stati Uniti, alcuni proposero di far partire un processo di impeachment, ma il sistema garantiva tempi certi alla durata della presidenza e così l’opposizione democratica, ma anche gli stessi repubblicani, cominciarono a studiare e proporre una strada diversa per l’America del dopo Bush.

Per oltre due anni i democratici, anziché perdersi nell’attesa di un evento eccezionale che potesse mettere fine all’Era Bush, costruirono una visione alternativa e un programma di governo che fosse credibile per il futuro. Ne emersero almeno due, quello pragmatico di Hillary Clinton e quello idealista di Barack Obama. In casa repubblicana invece vinse la visione di John McCain che ridefiniva i pilastri del conservatorismo spostandolo al centro.

Ricordo un comizio in cui un gruppo di studenti, innalzando cartelli contro Bush, chiesero a Obama di vincere per poi processare il Presidente colpevole di crimini di guerra. Obama rispose che non lo avrebbe fatto perché voleva vincere per archiviare Bush, non per continuare ad occuparsi di lui. Voleva vincere per mettere in pratica nuove politiche e cominciò ad illustrare la sua visione per il futuro dell’America. Alla fine anche gli studenti applaudirono con speranza.

Qui in Italia le opposizioni attendono ogni mattina il crollo finale e l’inizio di una nuova stagione, ma non ci hanno raccontato come sarebbe questa nuova Italia, non ci hanno dato nessuna ricetta in cui credere. Anzi continuano a tenere in poca considerazione i dati della realtà, tanto che nella settimana (questa) in cui Berlusconi ha ricostruito la sua maggioranza la sinistra ha litigato su un’ipotesi di candidato premier (Rosy Bindi) anche se le elezioni anticipate non sembrano essere alle porte.

Ora l’opposizione guarda speranzosa al Palazzo di Giustizia di Milano sperando che la spallata finale arrivi da lì, condannandosi però di nuovo all’attesa e al gioco di rimessa. Ma Silvio Berlusconi, pur segnato in maniera indelebile dagli scandali, non sembra intenzionato a farsi da parte e forte di una maggioranza ritrovata punta ad arrivare al termine della legislatura come gli permette la Costituzione.

Il premier, appena risalito in sella, ha mostrato di voler tornare a governare, ma a leggere i resoconti dell’ultimo Consiglio dei ministri si è presi dallo sconforto. Ecco le urgenze del Paese secondo il premier: una nuova legge per limitare e impedire la pubblicazione delle intercettazioni, la separazione delle carriere dei magistrati, un doppio Csm e il ripristino dell’immunità parlamentare. Come corollario una bella discussione sulla necessità - a meno di un mese dalla ricorrenza - di fare festa il 17 marzo, 150˚ anniversario dell’Unità nazionale. E ieri è arrivato l’annuncio della riforma della Corte Costituzionale.

Mentre il Consiglio dei ministri discuteva dei bisogni più urgenti del Paese e l’opposizione si baloccava con le elezioni, ho ricevuto per conoscenza la lettera che un imprenditore veneto, di ritorno da tre fiere in giro per il mondo, ha scritto pieno di sconforto a Unindustria Treviso, che l’ha girata alla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia.

«Ho voluto aggredire il 2011 con l’ottimismo della volontà e con la convinzione che possiamo e dobbiamo farcela sebbene “le assi del mondo scricchiolino”. Non esigo, né ho chiesto contributi pubblici - scrive Fiore Piovesana titolare della Camelgroup, un’ azienda di medie dimensioni che fa mobili nel trevigiano e li esporta in tutto il mondo -, avrei solo voluto vedere vicino a me, nei padiglioni di Toronto, di Adison negli Usa e di Birmingham un sistema Paese vivo, attento alle esigenze degli esportatori, compatto nella sua immagine del Made in Italy, ma ancora una volta registro grande solitudine. Clienti e colleghi che incontro all’estero mi guardano, sorridono maliziosi per le notizie da basso impero che giungono dal nostro Paese e mi allertano sul Made in Italy che comincia ad arrancare sebbene essi continuino a guardare alla creatività delle nostre imprese con grande interesse e tenace speranza. Rientro, sfoglio i giornali nella speranza (illusione?) che, insieme a me, chi ci governa abbia profuso energie per dare prospettive, per aiutarci a creare valore aggiunto ai prodotti, per mettere mano ad un fisco che penalizza e demoralizza il lavoro dipendente e soffoca le aziende. Nulla di tutto questo».

Chi produce, racconta Piovesana, oggi deve confrontarsi con l’aumento delle materie e la nuova impennata del greggio che fa lievitare il costo dei trasporti e dell’energia. E’ una situazione sempre più soffocante e la sensazione è di un totale disinteresse: «Tendono sempre a crescere i dazi doganali sui mobili esportati in Russia, problema per il quale avevamo chiesto a suo tempo al presidente del Consiglio di utilizzare i suoi buoni rapporti con Putin verso una soluzione più favorevole. In questi giorni anche l’Ucraina, partner privilegiato del mobile Made in Italy, segnala un raddoppio dei dazi doganali come gesto di allineamento a quelli russi...». Così per restare competitivo un imprenditore italiano «sarà costretto a ridurre ancora i già esigui margini di guadagno». «Non intendo infatti - sottolinea la lettera - chiedere ulteriori sacrifici al personale già pesantemente penalizzato. Anche l’ultimo dei miei 40 dipendenti ha chiesto un anticipo, se possibile totale, del Tfr in quanto non ha più risparmi».

Questo è lo stato del settore produttivo del Paese e dei suoi abitanti, ma neppure l’ombra di dibattiti in Parlamento o in Consiglio dei ministri con provvedimenti concreti e regolamenti chiari e incentivanti, tagli non furbi alla spesa pubblica o la riduzione dei carrozzoni improduttivi. Si procede per slogan, ci si concentra sulla risoluzione dei problemi personali o si passa il tempo a sperare che qualcuno liberi Palazzo Chigi prima della fine della legislatura.

Camminiamo in un deserto in cui l’unica speranza sono le mille iniziative private che, nonostante tutto, continuano a fiorire ogni giorno. A queste ci dobbiamo affidare, tenendo i piedi per terra e continuando a sperare che qualcuno finalmente alzi lo sguardo per proporre una strada. Il mondo e la storia nel frattempo corrono, dalla Libia alla Cina, e non sembrano intenzionati ad aspettare il nostro risveglio.

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« Risposta #56 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:37:51 am »

6/3/2011

La Grande Muraglia che è in noi

MARIO CALABRESI

In silenzio, senza che quasi nessuno se ne accorgesse, lo scorso anno i turisti cinesi hanno speso in Italia più di americani e giapponesi, nostri storici visitatori. Un milione di persone, ognuna delle quali ha lasciato qui, in media, 869 euro.

A casa, o in giro nel resto del mondo, sono rimasti gli altri 249 milioni di cinesi che hanno raggiunto il benessere e un potere d’acquisto paragonabile a quello della classe media europea.

Un giacimento su cui un’Italia che fatica a far camminare la propria economia dovrebbe buttarsi senza esitazioni. Invece non ho mai sentito un solo minuto di dibattito politico in cui si discutesse di questa opportunità, non ho visto nessuna agenda governativa che mettesse in cima alle priorità la costruzione di un sistema accogliente per chi vola da Pechino o da Shanghai e proporre di far studiare il mandarino nelle scuole sembra un esotismo fine a se stesso.

Anzi, a dire la verità, il nostro sistema i cinesi continua a guardarli con lenti vecchie e superate, considerandoli ancora potenziali clandestini che vogliono entrare in Italia per nascondersi poi a Napoli o a Prato a fare borse contraffatte o golfini. Tanto che all’ambasciata cinese a Roma mostrano parecchio disagio quando raccontano come i loro connazionali che chiedono un visto turistico per volare a Milano a fare shopping siano costretti a lunghe attese nonostante abbiano biglietti di andata e ritorno in business class e prenotazioni a cinque stelle. La conseguenza è che la maggior parte di loro sceglie poi di puntare su Parigi, Londra o Francoforte, destinazioni per le quali non solo è più facile ottenere il visto ma dove l’accoglienza (come ci racconta Marco Alfieri nell’inchiesta che pubblichiamo oggi) è costruita su misura per chi arriva dalla Cina.

Questa storia dei turisti che superano la Grande Muraglia e sbarcano in Europa affamati di borse, scarpe e orologi (rigorosamente originali) è il paradigma di come l’Italia debba imparare ad essere più elastica e a guardare al mondo che ci circonda con occhi nuovi. Mentre noi ci culliamo nei nostri stereotipi il panorama intorno cambia a una velocità incredibile, tanto che la Ferrari per presentare un suo nuovo modello punta su Shanghai e Prada sceglie di quotarsi in Borsa a Hong Kong e non a Milano.

Ma il salto culturale a cui siamo chiamati, se vogliamo entrare da protagonisti nelle rotte del nuovo turismo mondiale, non è solo quello di comprendere che cinesi, russi, ma anche brasiliani e indiani quando si presentano oggi alle nostre frontiere possono essere una grande opportunità e non per forza motivo d’allarme, ma è anche quello di capire cosa ci chiedono.
I nuovi turisti quando scelgono l’Italia non hanno in testa gli Uffizi o la Cappella degli Scrovegni (fanno eccezione il Colosseo, la Torre di Pisa e le gondole veneziane), non cercano l’archeologia o le Chiese barocche ma la nostra moda, il nostro design e il nostro vino. Hanno in testa un’altra Italia: vorrebbero venire qui a prendersi un pezzetto del nostro modo di vivere, mettersi addosso il nostro gusto, sentirsi protagonisti dell’Italian Style.

Mentre sui banconi dei bar italiani all’ora dell’aperitivo è comparso il sushi (e questo ci fa sentire molto internazionali), a Shanghai e Hong Kong i giovani di tendenza vanno a fare l’happy hour nei grandi alberghi dove si beve vino francese o italiano e sul bancone ci sono vassoi di parmigiano, gorgonzola, camembert o «talleggio». «Il vino è il nuovo tè» ho letto su una rivista cinese in lingua inglese la scorsa settimana, e la moltiplicazione delle enoteche in ogni città cinese mi ha confermato che è nato un nuovo mercato.

Sono soprattutto i trentenni e i quarantenni delle megalopoli cinesi a guidare questa rivoluzione dei costumi: il loro sogno è di sbarcare in Italia, comprarsi un abito di Zegna, scarpe di Ferragamo, borse di Gucci e Prada, giocare a golf sul Lago di Como, scommettere al casinò a Venezia e visitare cantine in Toscana o in Piemonte.

Questo pensano sia il percorso per diventare sofisticati cittadini del mondo e a pensarlo sono milioni di persone. A noi e al Made in Italy converrebbe rendere agevole questo percorso senza paure e snobismi, converrebbe avere il coraggio e la lungimiranza di abbattere quella Grande Muraglia che sta nelle nostre teste, nelle nostre burocrazie, nei nostri investimenti e nel nostro modo di pensare il turismo e il futuro del Paese.

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« Risposta #57 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:40:59 am »

Economia

06/03/2011 - DOSSIER - ARRIVA L'ORIENTE, SIAMO IN RITARDO

Sono cinesi i nuovi signori del turismo globale, ma l'Italia è fanalino di coda

Nel 2010 ne sono sbarcati nel Belpaese un milione. Hanno speso 869 euro a testa, adorano lo shopping a Milano e il casinò a Venezia.

Perché non siamo pronti ad accoglierli?

MARCO ALFIERI
MILANO

Vuoi mettere entrare in Italia dai tornanti leggendari di Montecarlo? Lo scorso luglio 10 super ricchi di Shangai hanno passato la dogana al volante di 5 tra Ferrari, Lamborghini e Maserati. Prima di sbucare a Roma hanno passeggiato per il Belpaese, alloggiato in antichi castelli, cenato in ristoranti con stelle Michelin, girato vigneti e noleggiato una mongolfiera per godersi le colline del Chianti. L’agenzia Dream Italy non ha badato a spese, tagliando su misura un tour esclusivo per il gruppetto di facoltosi turisti dagli occhi a mandorla.

Milionari
A fine 2010 erano 800mila i milionari cinesi. Secondo la società di ricerche di mercato Hurun, l’80% della classe agiata di Pechino possiede da 2 a 5 auto di lusso, da 3 a 10 orologi Cartier e Bulgari, spende almeno 50mila yuan (5.300 euro) l’anno in musica classica e appena può mette il naso all’estero, senza farsi mancare nulla: maggiordomo e guida privati fino a pacchetti comprensivi di partite a golf, gioielli, atelier, crociere, ville storiche e hotel di lusso. Alcuni di questi signori villeggiano in Costa Smeralda, tra Porto Cervo e Porto Raphael. Ma sono granelli rispetto al potenziale «incoming» dei nuovi signori del turismo mondiale: paesi come Francia e Germania ce li stanno sfilando sotto il naso.

Controtendenza
Nel 2010, infatti, in Italia sono sbarcati un milione di turisti cinesi. Hanno speso il 94% in più del 2009 (869 euro pro capite), ma sono calati del 12%, in controtendenza al resto d’Europa. Si tratta di 30-45enni, laureati, residenti nelle grandi metropoli, concentrato di quel ceto mercantile con potere di acquisto «occidentale», pari al 9% (250 milioni) di tutti gli abitanti del Dragone. Chiedono strutture accoglienti che l’Italia non sa offire quasi mai. Eppure secondo i dati Cesif-Global Blue, i turisti cinesi nel Belpaese sono ormai secondi assoluti, dietro ai russi ma davanti ad americani e giapponesi, per spesa totale tra i viaggiatori extraeuropei. Ovviamente vanno pazzi per moda e gioielleria. «Vedono in vetrina a Pechino e Shangai borse e scarpe a prezzi molto alti - spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia - quando vengono a Milano le comprano. Fanno shopping come i giapponesi 10 anni fa, escono con le borse piene».

Shopping selvaggio
In particolare, i 200mila cinesi passati nel 2010 per Milano hanno consumato in città il 41% del loro budget italiano, il 24% solo nei negozi di via Montenapoleone. A ruota seguono gli store in Galleria e in Via Spiga. Ma il tour italiano comprende anche tappe a Venezia, la città di Marco Polo dove il 40% dei clienti al casinò (360 su 900mila) è già cinese, Roma, Firenze (amano acquistare negli Outlet vicini), Verona (la casa di Giulietta) e qualche volta Pisa (la torre) e Pompei (gli scavi). Insomma dopo l’inflazione di laboratori clandestini, il Prontomoda di Prato, l’invasione di magliette a due euro, i prodotti taroccati e lo shopping industriale per il mondo, eccoti i cinesi del lusso. Una volta si vedevano solo russi, arabi e giapponesi, adesso sono loro i nuovi padroni del turismo di Altagamma.

Voglia di vacanza
«La verità è che potremmo attirarne molti di più», ragionano dalla Camera di commercio italo-cinese. Oggi il turista medio sbarca in Italia di rimbalzo, all’interno di viaggi organizzati che cominciano centinaia di chilometri più a nord, da Francoforte o Parigi. Il tour è fittissimo e tocca casa Beethoven a Bonn, la torre Eiffel a Parigi, le cantine dello champagne a Bordeaux, i casinò in Costa Azzurra, la Svizzera degli orologi e, solo alla fine, l’Italia. Secondo l’Accademia cinese del turismo, nel 2010 hanno trascorso le vacanze all’estero 54 milioni di concittadini, per un giro di affari di 40 miliardi di euro. Di questi il 70% preferisce ancora mete asiatiche. Nel 2015 potrebbero arrivare a 130 milioni, per 110 miliardi di spesa. «Moltiplicate per 50 le fatture dei giapponesi degli anni d’oro», calcola un manager di Accenture. «Quando i cinesi cominceranno a girare in massa per Londra, Parigi, Milano e Venezia, il mondo del turismo non sarà più lo stesso». In effetti i cinesi amano il clima mediterraneo, le vestigia imperiali, la moda e il lusso ma l’Italia è molto in ritardo sull’accoglienza, dentro ad un contesto europeo già indietro agli standard dei paesi asiatici. «Eravate il punto di partenza ideale per un tour europeo», spiegava qualche settimana fa Zhu Shanzhong, vice capo dell’Ufficio nazionale del turismo cinese. «Poi ci avete trascurati…».

Pochi collegamenti
I voli diretti Milano-Pechino sono ancora pochi, anche se le tratte aeree da e per l’Italia in un anno sono raddoppiate da 11 a 22. «Professionisti e turisti perdono troppo tempo in fila ai consolati di Shangai, Canton, Pechino e Tianjin per il rilascio dei visti, finendo spesso nello stesso calderone dei controlli anti clandestini», racconta un imprenditore italiano di stanza in Asia. I nostri alberghi non sono attrezzati per una clientela cinese che cerca all’estero il confort e le tradizioni locali: non ci sono giornali né tv né reception né concierge in lingua, e non ci sono piatti locali anche semplici come la zuppa di riso, gli spaghetti di soia o la ciambella fritta. Il servizio nei negozi e nei musei non prevede prezzari né guide in mandarino. E poi mancano Tour operator italiani capaci di organizzare i pacchetti. Qualcosa si muove a Milano, dove alcuni imprenditori cinesi come Luisa Zhu hanno aperto alberghi tipo lo Huaxia, un 4 stelle in zona Garibaldi, o il Porta romana, in via Palazzi. Ma sono casi sporadici, niente a che vedere con Parigi, dove i nuovi hotel deluxe, dal Shangri-la, al Raffles al Oriental Mandarin (aprirà in estate), sono tutti dotati di doppi servizi e doppia cucina. La verità è che i cinesi, in Italia, restano turisti sopportati. «Non ci stacchiamo dagli stereotipi», conclude il nostro imprenditore. Così Francia e Germania ci stanno sorpassando.

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« Risposta #58 inserito:: Aprile 01, 2011, 10:33:54 pm »

1/4/2011

Lo specchio deformato del Paese

MARIO CALABRESI

Il presidente Napolitano sta probabilmente vivendo sulla sua pelle la sensazione che assale qualunque italiano che torni a casa dopo una breve vacanza o un viaggio di lavoro. Basta andare all’estero un paio di giorni, dimenticare per un attimo i telegiornali, distrarsi dalla nostra condizione, per essere investiti al rientro da una dose massiccia di sconcerto e di rifiuto.

Se poi si hanno ancora negli occhi, come certamente succede al Presidente della Repubblica, le immagini delle folle di Milano, Torino, Roma e Varese, che hanno festeggiato l’Unità d’Italia riempiendo le città di tricolori, allora la reazione di disagio deve essere ancora più forte.

Così ieri sera il Capo dello Stato ha convocato i capigruppo della maggioranza e dell’opposizione al Quirinale, per lanciare loro il suo allarme: il Paese non può e non deve più assistere a questo spettacolo. È passato poco più di un mese da quando Napolitano, dopo aver incontrato Berlusconi, diffuse una nota in cui spiegava che la legislatura era a rischio se non si fossero contenuti gli scontri e le tensioni.

Ieri mattina, in questa prima pagina, Luigi La Spina scriveva che in Parlamento era andato in onda uno spettacolo al di sotto della decenza: si poteva pensare che il fondo fosse stato toccato. Sono bastate poche ore e in molti a Montecitorio si sono affrettati a smentire gli sparuti ottimisti e a confermare ai pessimisti che il fondo sembra non esistere più. Insulti, grida, lancio di giornali, un crescendo di tensione in cui il senso dei gesti e delle parole è ormai completamente logorato. E siamo soltanto all’inizio, le «schermaglie» di questi due giorni possono essere considerate soltanto l’antipasto, non una coda impazzita di vecchie polemiche. La prossima settimana infatti ci regalerà una serie di appuntamenti che promettono di incendiare ulteriormente gli animi. Si dovrà votare il conflitto di attribuzione sollevato dalla Camera sul caso Ruby (il cui processo a carico di Berlusconi comincerà giusto mercoledì prossimo) ma anche la responsabilità civile dei magistrati e il processo breve.

Un mix talmente esplosivo che ci fa capire la ragione dell’allarme lanciato dal Presidente della Repubblica, tanto che tutti gli interlocutori, all’uscita dal Quirinale, avevano la sensazione che Napolitano non sia più disposto ad assistere a questo spettacolo e che una fine della legislatura possa essere tra gli esiti probabili di questa delirante escalation.

Ma si può pensare di andare avanti senza freni, di continuare a non tenere minimamente in conto i disagi, le preoccupazioni e le difficoltà del Paese? Lo scollamento che si percepiva in questi giorni, nel vedere i ministri della Difesa e degli Esteri occuparsi dei problemi giudiziari del premier mentre si sparano missili alle porte di casa nostra, mentre barconi carichi di clandestini sbarcano sulle nostre coste o fanno naufragio nelle nostre acque, non ha precedenti.

Il Parlamento e le classi dirigenti sono lo specchio del Paese? I politologi, i sociologi e gli storici ne dibattono da sempre evidenziando come chi ci rappresenta in fin dei conti finisca per riprodurre i nostri vizi e i nostri difetti. Potremmo anche ricordare che le risse ci sono sempre state, ma dovremmo avere l’onestà di aggiungere che c’erano anche le classi dirigenti che ne prendevano immediatamente le distanze.

Ma siamo sicuri che oggi la classe politica somigli ai cittadini che governa? Questa volta spero proprio di no, e penso che siano rimaste solo piccole minoranze a tifare e a scaldarsi di fronte a chi grida e minaccia in Aula. Così come mi pare simbolica la risicata presenza di cittadini fuori da Montecitorio nella giornata di ieri. Si potrebbe interpretare questa assenza come il segno di una totale assuefazione, io penso invece che sia il risultato del disincanto, che sia un fastidio arrivato a tale livello da spingere la maggioranza dei cittadini a tenersi lontana. Le persone dotate di senso sanno anche che da questa paralisi non si esce andando a lanciare monetine fuori dal Parlamento.

Non conosciamo il destino di questa legislatura, così come non sappiamo dove sia il fondo e cosa ci aspetta ancora, ma se guardo al futuro non posso che augurarmi almeno che la prossima volta ci facciano votare con un’altra legge elettorale. Una legge che ci permetta di tornare a scegliere e giudicare chi ci rappresenta, e magari a dare il benservito a chi insulta un portatore di handicap, o a chi non ha la minima idea di quali siano i nostri bisogni e le nostre fatiche.

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« Risposta #59 inserito:: Aprile 19, 2011, 06:37:05 pm »

19/4/2011

Pietro Ferrero, un innovatore nel segno della continuità

MARIO CALABRESI

Pietro Ferrero aveva ereditato dal padre due talenti: la riservatezza e l’amore per l’innovazione. Era una persona molto garbata, quasi schiva, che non amava mettersi in mostra come gli avevano insegnato i suoi genitori. In tempi di esibizionismo, è sempre stato il credo di famiglia, la discrezione è la cifra vincente e Pietro era un campione in questo. Ma il suo non apparire non significava sfuggire il contatto umano: era gentile, si fermava a salutare tutti i dipendenti e i collaboratori, rispondeva immediatamente alle mail, alle telefonate e aveva la capacità di stare in silenzio ad ascoltare.

Essere figli di un uomo geniale non è facile, si può essere vittime della competizione o cercare strade lontanissime per evitare paragoni e confronti. Pietro Ferrero invece aveva trovato un equilibrio sano nel rapporto col padre Michele. Una dinamica che era stata costruita grazie alla mediazione della madre Maria Franca, la donna che ha sempre tenuto la famiglia legata e ha garantito l’armonia nell’azienda.

Di fronte al padre, Pietro ascoltava, non cercava mai di avere l’ultima parola, ma non per questo aveva rinunciato ad avere le sue idee, a essere un innovatore, a progettare la Ferrero del futuro. Non in contrapposizione ma in continuità, con l’idea che la cosa giusta da fare fosse solidificare i successi del padre per poi dedicarsi ad allargare i mercati possibili.

Anzi, era un vulcano di idee, lanciava continuamente nuove sperimentazioni, provava decine di prodotti cercando di capire le peculiarità di ogni Paese. Guardava al mondo di oggi ma soprattutto a quello di domani come ad un sistema pieno di nicchie da soddisfare. Negli ultimi anni puntava con attenzione il continente americano, soprattutto il Sud e il Brasile. Aveva la certezza che i prodotti dolciari «Made in Alba» avrebbero fatto breccia in ognuno dei nuovi grandi bacini di consumatori che sono nati sul pianeta.

Insieme al fratello, gli piaceva raccontarlo, si interrogava anche sul fisiologico calo estivo di produzione e consumi che caratterizza ogni azienda produttrice di dolci e cioccolato. I fatturati potevano benissimo permettersi un trimestre di maggiore calma, ma Pietro si era convinto che anche in estate la Ferrero potesse fare una parte da protagonista assoluto. Era la sua scommessa sul futuro, quella a cui dedicava molta parte della sua creatività e che gli faceva sorridere gli occhi.

Le altre due sue passioni erano quelle che legano i suoi ultimi istanti di vita: la bicicletta, su cui saliva appena aveva un momento libero, ovunque si trovasse, e il Sud Africa. Pedalava in modo serio, regolare e su lunghe distanze, con una grande capacità di soffrire la fatica. L’Africa invece era il luogo dei sogni, ne amava gli spazi, i colori e di Cape Town apprezzava la forza dell’Oceano e il clima sempre incerto. Era la sua dimensione ideale.

La sua scomparsa a meno di cinquant’anni è un destino terribile e contro natura: lascia non solo una moglie e tre bambini piccoli ma anche i genitori che lo avevano cresciuto, insieme con il fratello, per passar loro il timone di qualcosa che vivevano non come un’azienda ma come un’estensione della famiglia. Di fronte a questo dolore, può sembrare strano e inaspettato quando si parla di uno tra gli uomini più ricchi del mondo, Michele Ferrero si rifugerà nella preghiera. Per lui la devozione alla Madonna è superiore ad ogni cosa e lì proverà a trovare la forza di cui ora ha bisogno una famiglia prima che un’azienda.

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