LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Novembre 22, 2007, 03:38:21 pm



Titolo: MARIO CALABRESI.
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2007, 03:38:21 pm
POLITICA

Intervista al leader dell'Udc. Montezemolo è benvenuto nel nuovo centro

Tra me e Fini c'è diversità politica ma anche intesa per una politica seria

Casini: "Non serve il populismo Silvio, non puoi cancellare Fini"

Quando non c'è la politica i nodi vengono al pettine

Un partito non si fonda dal tetto di una macchina

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI

 
NEW YORK - Mentre la Casa delle Libertà si sfascia definitivamente e Fini e Berlusconi sono alla resa dei conti, Pier Ferdinando Casini fa colazione a New York con vista sulle foglie gialle e rosse dell'autunno a Central Park. Siamo alla vigilia di Thanksgiving e ci accoglie con una battuta: "Guardando dall'America mi chiedo chi sarà il tacchino che ci lascia le penne".

Casini interpreta il ruolo che più ama, quello del politico sereno e distaccato: "I moderati non hanno bisogno di populismo e i partiti non si fondano salendo sui tetti delle macchine in mezzo alla strada, ma vedo che finalmente Berlusconi ha deciso di dialogare e ha capito che questo bipolarismo è finito". E' venuto nella sua veste di presidente dell'Unione Interparlamentare per incontrarsi con il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, ma ha letto tutti i giornali ed è dall'alba che è al telefono.

Questa fine drammatica della Casa delle Libertà era obbligata?
"Quando non c'è la politica, i nodi prima o poi vengono al pettine. Ci si era illusi per più di un anno che si potesse rinviare qualsiasi assunzione di responsabilità e ci si dedicava a dei diversivi: prima l'evocazione dei brogli elettorali, poi il riconteggio delle schede, a seguire le manifestazioni di massa per far cadere Prodi, infine la "spallata". Quando non è riuscita è crollato tutto il castello di carta".

Ma cosa è successo tra di voi?
"Si cercava sempre un capro espiatorio di comodo per non riconoscere la propria incapacità. Abbiamo visto un'opposizione che è arrivata addirittura a votare contro la missione in Afghanistan a cui aveva dato vita, nella speranza vana di far cadere Prodi: io sono fiero, per patriottismo, di non essere stato complice di questa follia".

E adesso?
"Ora i casi sono due: o si riparte da zero e si ricomincia a ragionare seriamente oppure si finisce a recitare una nuova commedia, che in questo caso ha le sembianze del populismo e della demagogia".

Partiamo dallo scontro tra Fini e Berlusconi.
"Francamente vorrei spazzare via i personalismi, quando si arriva alla lite tra persone si rischia di degradare tutto. Ho sempre pensato che le troppe contraddizioni che erano chiare da tempo sarebbero esplose, ma in questo caso mi dispiace aver avuto ragione. Certo le modalità di questo scontro rischiano di lasciare sul campo più macerie che novità positive".

Come andrà a finire?
"Se dalle parti di via del Plebiscito pensano di poter liquidare Fini con facilità si sbagliano di grosso. Gianfranco è un leader politico vero e non basta certo Storace per sostituirlo".

Il Cavaliere però è stato capace di rivoluzionare i giochi.
"Berlusconi ha fatto una cosa giusta e una sbagliata. Ha finalmente preso atto di ciò che aveva sempre negato: questo bipolarismo costruito per deligittimare gli avversari e che dà vita a due coalizioni paralizzate dal potere di ricatto di gruppi marginali è finito e va archiviato. Poi ha finalmente accettato di parlare di sistema elettorale, scegliendo quello tedesco, ed è disposto a sedersi ad un tavolo con Veltroni".

Ora chè è lui a trattare con Veltroni non si sente tagliato fuori?
"Non mi da nessun fastidio. Guai ad essere così miopi e piccini: noi che abbiamo sempre proposto il dialogo non ce lo possiamo certo permettere. E' un fatto positivo, perché è la messa in liquidazione, almeno temporanea, di una politica di scontro che Berlusconi ha perseguito per troppo tempo e non mi trovo per nulla spiazzato".

Quindi sarà Berlusconi a fare le trattive con il Partito democratico?
"Berlusconi tratta per sé, ognuno tratta per sé. Alla luce del sole ognuno vede chi vuole, io mi sono già visto con tutti".

E la cosa sbagliata?
"Uno non sale sul tetto di una macchina in mezzo alla strada e fonda un partito e non basta metterci il nome "popolo" nel simbolo per radicarlo nel Ppe. Non vedo come Storace possa entrarci. D'accordo che la leadership carismatica di Berlusconi copre tutto, ma pensare di far entrare Storace e la Mussolini nel partito di Kohl e della Merkel è un esercizio ginnico spericolato".

Il modo in cui si è mosso proprio non le piace?
"Un partito non si fonda sul populismo plebiscitario, si fa con regole, iscrizioni e voti. A me che non è piaciuto il meccanismo bulgaro con cui è stato scelto Veltroni figuriamoci se apprezzo un comportamento che fa appello al popolo contro i parrucconi, da questa strada si parte da Milano e si rischia di finire a Chavez ".

Irritato per la definizione "parrucconi"?
"A dire il vero non l'ho capita, e poi qui chi è che porta la parrucca?".

Fedele Confalonieri dice che il gesto di Berlusconi gli ricorda Lenin.
"E questo mi preoccupa ulteriormente, perché non mi risulta che Lenin sia mai stato un leader dei moderati".

Non pensa che Berlusconi abbia scelto un'altra volta di cavalcare l'antipolitica?
"Sbaglia chi si illude di essere di nuovo nel '94: il Paese oggi vuole serietà, non solo novità. Non mi scandalizzo che si distruggano i partiti, ma lo si dovrebbe fare per metterci qualcosa al loro posto, non certo per avere il brambillismo al potere. Questo mi fa sorridere amaramente".

Si può immaginare un progetto politico comune tra lei e Fini? Lei sta ripartendo per Roma, quando vi incontrerete?
"Il più grosso sbaglio sarebbe rispondere con emotività a questioni politiche serie, non si possono fare progetti contro qualcuno, ma per qualcosa. Allora lasciamo depositare la polvere delle polemiche di questi giorni, poi senz'altro mi incontrerò con Gianfranco. Riconosco che tra noi ci sono chiare diversità di collocazione politica ma anche un comune sentire sul fatto che la politica deve essere una cosa seria e non una continua plastica facciale".

Cosa pensa della Cosa Bianca, il nuovo centro auspicato da Pezzotta e Tabacci?
"Al Congresso abbiamo descritto il nostro progetto in modo molto limpido: vogliamo un centro moderato alternativo alla sinistra imperniato sul Ppe. Sulla nostra strada spero di incontrare più gente possibile, anche molti di Forza Italia. In questo percorso ci può essere l'incontro con Pezzotta, che è una persona seria e per bene ed è stato rappresentante di una grande piazza. Non vado invece a cercare di raccogliere spezzoni di classe dirigente in cerca di nuova collocazione ma piuttosto mi auguro che il mondo dell'imprenditoria e delle categorie si metta in gioco e fornisca nuove persone alla politica".

Sta auspicando la scesa in campo di Montezemolo?
"E' una persona che stimo molto e se venisse in politica sarei contento. Non ho mai capito chi mostrava insofferenza nei suoi confronti, ci sono stati molti nella Casa delle Libertà che ogni volta che lui criticava il governo avevano un travaso di bile, sono quelli che vorrebbero avere il monopolio dei moderati".

Lei propone di coagulare moderati e centristi e poi perde pezzi, prima Follini, ora Carlo Giovanardi che guarda alla nuova formazione berlusconiana.
"Sono tutti e due vittime della sindrome di Berlusconi. In un partito ci si sta perché ci crede, non è una camicia di forza, se uno deve fare la quinta colonna altrui allora è meglio che sia coerente e faccia scelte conseguenti. Ma a dire il vero non ho visto perdite di consenso elettorale per il mio partito".

Che tipo di legge proporzionale auspica?
"Sono per il sistema alla tedesca, non c'è dubbio, e non pensino che mi possa spaventare all'idea di uno sbarramento al 6 o anche al 7 per cento, perché ci saranno meccanismi virtuosi che daranno il giusto spazio ad un centro moderato".

Quando è finita la Casa delle Libertà?
"Il giorno dopo le elezioni, quando è cominciato lo scaricabarile e io e Fini eravamo diventati i colpevoli della sconfitta perché non credevamo nella vittoria. Invece, come i dati dimostrano, l'aumento dei nostri partiti è stato il frutto di sacrifici enormi, siamo stati noi a tenere nel centrodestra i voti di gran parte del mondo cattolico italiano che non ha votato per Berlusconi. Forse qualche attenzione in meno sulla giustizia e sulle televisioni ci avrebbe aiutato a vincere".

Cosa pensa del nuovo rapporto del Cavaliere con la Chiesa?
"Pensare che qualcuno abbia l'esclusiva del rapporto con la Chiesa è un'offesa per la Chiesa e per l'intelligenza. Il segretario di Stato vaticano e il presidente della Cei parlano con tutti, dopo di che c'è chi sente il bisogno di pubblicizzarlo e chi no".

Ora cosa si aspetta nel centrodestra?
"Berlusconi si è redento sul proporzionale e sul bipolarismo. Non mettiamo limiti alla provvidenza, può darsi che cambi idea un'altra volta e provi a costruire il nuovo partito con un processo serio e democratico che nasca dalle forze in campo. Non dispero: ride bene chi ride ultimo".

(22 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI - Obama-Edwards contro Hillary "Rappresenti il vecchio"
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2008, 12:19:03 pm
ESTERI

Il dibattito-scontro in tv. McCain è il più "presidenziale"

La signora Clinton è apparsa grintosa ma anche arrabbiata

Obama-Edwards contro Hillary "Rappresenti il vecchio"

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI

 
Manchester (New Hampshire) - Barack Obama è l'uomo del momento e sabato sera è stato il protagonista assoluto delle tre ore in cui sulla rete Abc si sono sfidati prima i candidati repubblicani poi quelli democratici. Tutti hanno attaccato il senatore nero ma lui, inaspettatamente, è rimasto defilato. Forse strategicamente ha evitato lo scontro, ma è apparso stanco e un po' appannato. I dibattiti non fanno per lui, il suo ambiente naturale è il comizio, dove si può muovere e arringare la folla come un predicatore.

Quando è seduto e non può scegliere il ritmo, ma deve attenersi alle domande, perde molta della sua carica. Hillary Clinton che vede assottigliarsi il suo vantaggio in New Hampshire, dove si voterà domani, lo ha attaccato sottolineando che il cambiamento non si fa con le chiacchiere. La risposta, a sorpresa, è arrivata da John Edwards che l'ha accusata di rappresentare il vecchio e lo status quo. Hillary è stata la più grintosa e la più arrabbiata, ma il vero vincitore della serata è il senatore repubblicano John McCain che è apparso come il più "presidenziale" e il più saggio.

I democratici hanno parlato soprattutto della necessità di dare una copertura sanitaria a tutti gli americani e della necessità di mettere fine alla guerra in Iraq. Per la Clinton "l'aumento delle truppe doveva servire a risolvere i problemi ma il governo iracheno non ha fatto il suo dovere e allora anche i 23 morti di dicembre sono troppi". Obama ha detto che la guerra "è stata un errore fin dall'inizio, è costata miliardi di dollari e migliaia di morti e non è stata fatto un passo avanti politico negli ultimi due anni. Bisogna tornare a casa subito".

I repubblicani fino ad oggi avevano sempre indirizzato i loro attacchi alla Clinton, ieri sera invece si sono concentrati a demolire il senatore nero. Il più determinato è stato John McCain: "Conosco il senatore Obama, ho lavorato molte volte con lui e lo rispetto ma non è preparato sui temi della sicurezza nazionale e non è in grado di guidare questa nazione e di rispondere alle drammatiche sfide del 21esimo secolo e dell'estremismo islamico". Rudy Giuliani ha rincarato: "E non ha mai guidato una città, uno Stato, un'azienda, niente. Parla di cambiamento ma se cambiare significa avere più tasse o socializzare la sanità e ritirare le truppe facendo un regalo ai terroristi. Non ha l'esperienza per governare". Mike Huckabee, il vincitore dell'Iowa, ha invece stupito tutti mettendo in guardia il suo partito: "Le mie opinioni sono profondamente diverse da quelle di Obama, ma dobbiamo riconoscere che è andato al cuore di quello che gli americani vogliono: sono stanchi di tutte le cose orizzontali, sinistra, destra, liberali, conservatori, democratici, repubblicani e stanno cercando una leadership verticale che porti il paese in alto.

Portiamogli rispetto, è una persona piacevole che ha eccitato molte cittadini di questo Paese, anche coloro che non andavano a votare. E faremmo bene a stare attenti, se anche noi non saremo capaci di dare alla gente qualcosa in cui credere allora perderemo le elezioni".

Più tardi a Obama il moderatore ha chiesto se "non gli fossero fischiate le orecchie" durante il dibattito repubblicano e lui ha risposto con l'unico guizzo della serata sottolineato da applausi e risate: "Devo ammettere che continuavo a cambiare canale. Per vedere la partita di football. Ma i Redskins hanno perso. Ma non c'è dubbio che tutti i candidati democratici rappresentino un significativo cambiamento rispetto a George Bush e ai suoi disastri".

Nei novanta minuti repubblicani si è parlato soprattutto di guerra, immigrazione e sanità e il modello a cui tutti si ispirano e Ronald Reagan: aumento delle spese militari, controllo dell'inflazione e ricostruzione della grandezza e del predominio dell'America, anche in campo economico. Il più a suo agio è apparso John McCain che sta incassando il fatto di essere sempre rimasto fedele alle sue idee anche quando queste apparivano perdenti e impopolari: "Non ho mai cambiato idea sulla necessità di aumentare il numero dei soldati in Iraq, sono sempre stato con il generale Petraeus, anche quando questo mi attirava perfino le critiche dei repubblicani".

Mitt Romney è apparso molto in difficoltà, avendo in passato parlato di un calendario per il ritiro delle truppe, ma ha sostenuto di essere stato in favore delle scelte di Bush e ha chiesto di "non stravolgere le sue posizioni". Mike Huckabee lo ha infilzato ironizzando sui suoi continui cambi di opinione: "Le tue posizioni? Spiegaci di quali parli". Sull'immigrazione hanno parlato tutti della necessità di rafforzare i controlli e andare avanti in fretta con il muro al confine con il Messico (Huckabee: "Se in 14 mesi abbiamo costruito l'Empire State Building sono sicuro che possiamo farcela"), hanno sottolineato che non è possibile avere 12 milioni di immigrati illegali, che vanno rimandati a casa e non premiati con una regolarizzazione, e che troppa gente in America oggi non conosce l'inglese.

Solo Giuliani, messo sotto accusa per la sua accondiscendenza verso i clandestini quando era sindaco, alla fine ha sbottato: "Ricordatevi che fu Reagan a fare la sanatoria ed è l'eroe del nostro partito. A New York ci sono 70mila bambini illegali nelle scuole, dovevo buttarli in mezzo alla strada? Sono orgoglioso di non averlo fatto. E se tu vai in ospedale per un emergenza devi poter essere curato, sarebbe inumano non farlo".

(7 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI - Lo sconforto di Bill per Hillary C'è un muro intorno a lei
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2008, 12:47:08 pm
ESTERI

L'ex presidente: "Il problema? I media che hanno sempre bisogno di facce nuove non posso renderla più alta, più giovane, non posso farla diventare un uomo"

Lo sconforto di Bill per Hillary "C'è un muro intorno a lei"

dal nostro inviato MARIO CALABRESI


PLYMOUTH (New Hampshire) - "Ci vorrebbe più tempo, avremmo bisogno di qualche giorno in più, magari di una settimana". Bill Clinton si morde il labbro inferiore, avverte che la moglie perde terreno ed è preoccupato e dolente. "Troppo poco tempo tra l'Iowa e il New Hampshire, solo cinque giorni. Nel sistema dei media i primi due giorni sono la celebrazione di quello che è successo e così restano solo tre giorni per cercare di recuperare e sono pochi, troppo pochi per parlare di temi reali, spiegare, convincere".

Cosa succederà?
"Il rischio è che in New Hampshire si voti solo sull'onda emotiva dell'Iowa. Dieci giorni fa qui eravamo dodici punti avanti ma ora quel vantaggio è scomparso".

Bill Clinton conosce già gli ultimi sondaggi, quelli che saranno resi noti qualche ora dopo, come quello della "Cnn" che parla di una fuga del senatore nero che avrebbe staccato Hillary di dieci punti e per questo scuote continuamente la testa bianca. Pensa che non ci sia più niente da fare?
"Il New Hampshire dovrebbe avere un giudizio indipendente, se lo avrà allora Hillary vincerà". Bill Clinton non smette di parlare, ha voglia di sfogarsi, l'ho aspettato fuori dal bagno del Lucky Dog, un pub dove è venuto a cercare di convincere un centinaio di persone. La carovana di Suv neri ha già i motori accesi, gli agenti del Secret service sono schierati, ma lui non ha voglia di ripartire e quando gli dico che sono italiano e voglio capire se sua moglie ce la può ancora fare non resiste a farmi una lezione di politica americana. Ai supporter riuniti nella taverna al piano di sotto aveva detto: "Sono sicuro che Hillary ce la farà", adesso i suoi occhi azzurri sono acquosi e non guardano dritto.

"Il problema sono i mezzi di comunicazione, hanno bisogno sempre di una storia nuova, di una faccia nuova e Obama risponde a questa necessità". Si ferma un attimo e mi appoggia l'indice sul petto: "Attento, non sono io a dirlo ma lo ha scritto il Washington Post, devi andarti a leggere un articolo di Howard Kurtz - mi detta il nome lettera per lettera e controlla che lo abbia scritto correttamente sul taccuino - è il critico dei media e cita numerosi giornalisti che ammettono standard diversi nella copertura dei candidati".

Pensa che giornali e televisioni l'abbiano sfavorita?
"Non penso che lei abbia ricevuto un trattamento ingiusto dai media e non voglio lamentarmi, penso che ci sia però una grande differenza tra la sua copertura e quella di Obama: c'è un grosso filtro lì".

Ma se Hillary perdesse anche in New Hampshire, confidate di ribaltare il risultato il 5 febbraio, nel supermartedì in cui voteranno 22 Stati?
"Se riesce a rompere questo muro che le hanno costruito intorno, quel filtro di cui ti parlavo. In Iowa e qui non c'è riuscita".

Cosa la preoccupa?
"Gli americani devono scegliere se vogliono un presidente o semplicemente quella che per i giornali è solo una storia nuova, l'ho detto ai ragazzi di sotto e lo ripeto: se vuoi un presidente che sia capace di governare allora vota per Hillary, se vuoi una storia nuova sul giornale allora vota per un altro".

Che differenze ci sono tra i due?
"Lei è una vita che lavora per il cambiamento e ha un livello superiore di conoscenza e comprensione delle cose".

Come le è sembrato il dibattito di sabato sera?
"Mi sembra che Hillary sia andata benissimo, la più concreta, meglio di tutti gli altri candidati".

Cosa farà se Hillary vincerà le elezioni?
"Beh, prima di tutto, se sarà eletta sarà lei a dirmi quale sarà il mio ruolo. I presidenti fanno così e farei qualunque cosa mi chiedesse di fare. Ogni ex presidente ha l'obbligo di collaborare con i suoi successori se gli viene chiesto: ho fatto un sacco di cose per il presidente Bush e sono stato contento di farle".

Ma ne avete mai parlato?
"L'unica cosa di cui abbiamo veramente parlato è l'idea che io, prima dell'inizio della nuova presidenza, metta insieme un gruppo di democratici e repubblicani concordi nel cambiare la direzione della politica estera. Dovrebbero andare in giro per il mondo a spiegare che l'America è di nuovo pronta a collaborare".

Incarichi per lei?
"Non è legale per me fare parte del gabinetto di governo e non credo che dovrei avere una postazione importante alla Casa Bianca. Penso però che potrei essere i suoi occhi e le sue orecchie in giro per il mondo, dovrei essere un consulente e potrei aiutarla anche con i programmi domestici. Spero di poter anche continuare il lavoro con la mia fondazione in America e nel mondo".

Nel pub, accolto dalla musica di Bruce Springsteen, Bill Clinton, vestito sportivo di nero, giacca, jeans e stivali, con una polo chiara e un golf a v grigio. Con voce roca e affaticata ha parlato dell'esperienza della moglie, della sua riforma sanitaria e dei suoi programmi per rilanciare l'economia e creare posti di lavoro investendo sulle nuove forme di energia verde. Poi accetta domande, una ragazzina bionda gli chiede:

Cosa pensa del fatto che in Iowa i votanti sotto i trent'anni erano tanti quanti quelli sopra i sessantacinque e che cosa propone Hillary per i giovani?
"C'è una cosa nella quale francamente la nostra campagna ha sbagliato, parlo di tutti i giovani che sono arrivati, c'è stato un enorme numero di persone che sono partite dai college dell'Illinois (lo Stato di Obama) e che hanno potuto votare perché in Iowa ci si può registrare lo stesso giorno delle elezioni. Ma alla fine la campagna di Obama è semplicemente riuscita a coinvolgere più persone e così hanno ottenuto più voti. Certo se uno ritiene che la più grande preoccupazioni dei giovani sia il loro futuro allora dovrebbe guardare ad Hillary e ai suoi programmi".

Perché dovremmo votare per Hillary? Chiede una signora con i capelli grigi raccolti sulla nuca.
"Perché è quella che ha più possibilità di battere i repubblicani, è la più eleggibile. Ha il sostegno del governatore dell'Ohio e i repubblicani non hanno mai conquistato la Casa Bianca senza aver vinto l'Ohio; perché vincerebbe in Arkansas, il nostro Stato, i sondaggi ci dicono che batterebbe di un punto Mike Huckabee, che è stato governatore dopo di me, e vincerebbe con un vantaggio a doppia cifra contro tutti gli altri. Non bisogna sottovalutare chi riuscirà a durare meglio da qui a novembre, e posso dirvi che la maggior parte dei repubblicani che conosco pensa che avranno più difficoltà a battere lei. A loro piace attaccare la gente: praticano una forma di chirurgia plastica al contrario e preferiscono la carne fresca a quella di una persona che ha le cicatrici e che non riesci più a far sanguinare".

Perché - insiste la signora - dovremmo preferirla ad Obama?
"Non c'è discussione su chi possa essere il miglior presidente. Sono 45 anni che voto - mamma mia è imbarazzante dirlo ma è vero - e in tutto questo tempo non ho mai incontrato un candidato migliore di Hillary. Ma tornando ai repubblicani, ci sono due teorie: la prima è che voti per Obama perché è così nuovo che nessuno ha mai detto niente di male su di lui ed è stato nel Senato meno di un anno prima di cominciare la campagna presidenziale fulltime, e così non ha abbastanza voti suo quali attaccarlo. L'altra è che potresti votare per Hillary perché stata molto esaminata e crudelmente attaccata per 15 anni, ma ancora riesce a battere tutti i candidati repubblicani nei sondaggi".

Che atteggiamento hanno avuto i giornali?
"Penso che ci sia stato solo un momento in cui i media l'hanno trattata ingiustamente ed è stato durante quel dibattito, lei ha vinto tutti i dibattiti eccetto uno, dove ha risposto male alla domanda sulle patenti di guida per gli immigrati. L'hanno massacrata per otto giorni, ricordate? Ma la cosa interessante è che due settimane dopo hanno fatto la stessa domanda ad Obama e lui ha dato una risposta quasi identica: per lei avevano parlato di un fallimento di carattere, fallimento di leadership, tutto quello che si poteva dire, sembrava che Hillary avesse rapinato delle banche, ma su di lui non sono riuscito a trovare un solo articolo indipendente su questa storia. Bisogna capire i media: se ti serve un presidente allora vuoi Hillary ma se vuoi una storia nuova allora vuoi qualcun'altro. Mi dispiace ma noi non possiamo essere una storia nuova. Non posso renderla più giovane, più alta, e non posso farla diventare un uomo".

Siamo sulla porta, sta per uscire, si ferma ancora a guardare la lavagna dei piatti del giorno: costolette alla Little Rock e enchilada di pollo Commander in Chief. L'hanno fatta in suo onore, il bancone è pieno di pinte di birra, ma lui ha bevuto solo due bottigliette di acqua non gassata e non fredda. Si gira e ripete, come fosse un mantra: "Se riuscirà a rompere il muro vincerà" e poi aggiunge: "Si ricordi di leggere l'articolo di Kurtz".

Esce dalla porta, ci sono zero gradi, non ha cappotto né giubbotto, resterà in mezzo alla strada ancora per dieci minuti, a stingere mani e ascoltare vecchie signore, intanto le cameriere tornano a mettere i coltelli sui tavoli e sotto la cupola di vetro che contiene il formaggio cheddar, li avevano fatti togliere gli uomini dei servizi: dove passa un presidente non ci possono essere oggetti taglienti o pericolosi. Sedici anni dopo il New Hampshire è amaro per Bill Clinton, qui era partita la sua corsa, qui era cominciata la leggenda "the Comeback Kid", del ragazzo che risorge, ma questa volta la volata la sta facendo un ragazzo nero.

(8 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI - South Carolina, nell'università covo della destra religiosa
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 02:59:37 pm
Alla Bob Jones: "Bush ci ha delusi. Stavolta niente crociate per i politici"

Questa fu la fabbrica dei veleni che nel 2000 distrussero McCain

South Carolina, nell'università covo della destra religiosa

dal nostro inviato MARIO CALABRESI


GREENVILLE (South Carolina) - "Quattro anni fa i valori erano la torta, oggi al massimo sono la ciliegina sulla panna", Jonathan Pait è il portavoce della Bob Jones University, la culla dei fondamentalisti cristiani, la platea dove un giovane George Bush nel 2000 celebrò la sua alleanza con la destra religiosa, l'ateneo da cui partì la campagna di veleni che distrusse le aspirazioni presidenziali di John McCain, il luogo simbolo della speranza di trasformare l'America in una nazione cristiana.

Il campus è formato da palazzine basse di mattoncini gialli in stile anni Quaranta, nessuno fuma, non si possono bere alcolici, ascoltare musica rock, country o rap, tingersi i capelli o portare i pantaloncini corti. Le ragazze hanno tutte la gonna sotto il ginocchio, meglio se arriva alle caviglie. I 5000 studenti non possono andare al cinema, guardare dvd sul computer, giocare con videogames violenti o volgari, internet è filtrato e la luce si spegne tassativamente alle 11 ogni sera. Ma tutti sorridono e discutono ai tavolini della caffetteria, l'immagine dello studente con l'ipod nelle orecchie e la testa nel computer qui non va di moda. Anzi è proibita.
Otto anni dopo la grande mobilitazione, quattro anni dopo quello che lo stratega di Bush Karl Rove definì "l'incendio delle pianure" con la parola d'ordine dei valori, nessuno ha più voglia di fare crociate.

L'università non sostiene candidati, l'unico a parlare qui oggi pomeriggio è Ron Paul, personaggio minore con idee libertarie e radicali. Per il resto lezioni, preghiera e una sorprendente assenza di politica.
"Oggi i fondamentalisti - spiegano - sono scettici sul ruolo della politica, nel 2004 Bush voleva essere rieletto e costruì una campagna basata sui valori: il rifiuto dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, dell'aborto e della ricerca sulle cellule staminali e così riuscì a creare una mobilitazione straordinaria. Oggi non se ne sente nemmeno più parlare, sono temi usciti dall'agenda". Cammini nel campus e nessuno ha remore a dirlo: nella presidenza di George Bush non è accaduto nulla di quanto era stato promesso, la gente era stata galvanizzata dall'idea che si potesse cambiare davvero, "ora c'è delusione: è diventato chiaro che era un gioco di potere".

"I cambiamenti della morale e della cultura - allarga le braccia Pait mentre ci fa vedere l'incredibile collezione di quadri di ispirazione religiosa con tele di Veronese, Guido Reni e Rubens - non verranno dalla politica o da chi governa, meglio dedicarsi ai nostri ragazzi, aiutarli a crescere a immagine di Cristo, ad essere capaci di comportarsi da cristiani nella vita di tutti i giorni".

L'agenda dei politici e dei media è focalizzata su altri temi e nessun sondaggio chiede più di esprimersi sui matrimoni gay, e allora si guarda a chi sarà più capace di aggiustare il Paese, la sua economia, la guerra, tanto che perfino il pastore battista Huckabee non incanta: "Inutile illudersi: un presidente non è in grado di trasformare l'America in una nazione cristiana".

Tanto che il nipote del fondatore dell'università, Bob Jones III, l'uomo che accolse George Bush, si è schierato con il mormone Mitt Romney. Sembrerebbe un'alleanza impossibile e contro natura, la Bob Jones è famosa per le sue condanne veementi di cattolici e mormoni, invece è accaduto in nome del realismo: troppe tasse, troppo governo, ci vuole un manager, qualcuno capace di decidere, non sarà evangelico ma è comunque contro l'aborto e un convinto sostenitore dei valori familiari.

Otto anni dopo in South Carolina - dove domani si terranno le primarie repubblicane - c'è ancora John McCain in cerca della vittoria che lo proietti verso la nomination, anche questa volta è in cima ai sondaggi e qui continuano a non amarlo, ma adesso non sono scesi in campo. Il professor Richard Hand, da qui spedì la mail in cui si accusava l'eroico reduce del Vietnam di avere dedicato la vita ai party, al gioco, all'alcool e alle donne e di aver avuto una figlia nera fuori dal matrimonio. Il pettegolezzo, infondato, venne pompato dalla campagna di Bush in ogni angolo di questo Stato conservatore e bigotto e distrusse McCain e le sue speranze. L'università prese le distanze ma non ci fu alcun provvedimento contro il docente.

Anche oggi sono tornati a circolare i veleni, ma non vengono da queste aule: si sono convinti chi i politici "sono tutti uguali", meglio impegnarsi per cambiare gli individui nella società, continuare a formare migliaia di pastori per le chiese d'America.

A dire il vero qualcosa è cambiato anche qui, dove i neri sono stati ammessi solo nel 1971: ora non sono più proibiti i matrimoni tra persone di razza diversa (si evitava così il rischio del ritorno alla Torre di Babele) e ovunque c'è scritto che la Bob Jones non discrimina sulla base della razza, del colore o della provenienza. Manca però la parola "gender", genere, ciò significa che l'omosessualità non è accettata. Quella proprio no.

Nel piccolo museo di memorabilia vicino alla foto di Reagan c'è la pubblicità che l'università faceva sulla rivista Time nel 1967: "Sì, siamo quadrati", diceva lo slogan, "perché essere quadrati - conclude Jonathan Pait - è una dote nel mondo che rincorre affannosamente l'ultimo pettegolezzo su Britney Spears". Fox e Cnn qui non arrivano e nemmeno più i candidati, alla redenzione che passa per Washington non ci crede più nessuno.


(18 gennaio 2008)

da republica.it


Titolo: MARIO CALABRESI - La figlia ribelle di John McCain
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2008, 12:19:23 pm
Segue il padre in tutte le tappe della campagna elettorale

Accessori fashion, prese di posizione ecologiste

La figlia ribelle di John McCain

Tra blog e cappotti leopardati

dal nostro inviato MARIO CALABRESI


 NEW YORK - Le figlie dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti fanno una vita davvero infelice: non hanno diritto di pensiero e di parola, devono solo vestirsi da brave ragazze, stare composte sul palco alle spalle di mamma e papà e sorridere sempre. Chelsea Clinton, 27 anni, che ha già avuto la vita abbastanza terremotata quando era alla Casa Bianca, oggi si attiene strettamente alle regole: mette la gonna sotto il ginocchio, fa le foto con i supporter della madre, firma autografi, non rilascia interviste e pronuncia un'unica frase: "Si ricordi di votare la mamma, sarà un grande presidente". Sa che chi sgarra rischia grosso: se lo ricordano le gemelle Bush messe all'indice per le loro bravate alcoliche finite su tutti i giornali, o Alexandra Kerry che vide riproposto ovunque il suo vestito troppo trasparente indossato al Festival di Cannes. Per non parlare del dibattito che scatenò l'omosessualità di Mary Cheney, la figlia del vicepresidente repubblicano.

Di tutto questo sembra non preoccuparsi Meghan McCain, che viaggia sul pullman della campagna elettorale insieme al padre John e ad un gruppo di amiche. E' il prodotto della generazione Mtv, attentissima alla moda, vive con una lattina di coca cola diet sempre in mano e ha un blog multimediale pieno di foto e video.

Figlia del secondo matrimonio dell'eroe del Vietnam (è nata quando il padre aveva quasi cinquant'anni) sta terremotando, ma anche svecchiando, la sua campagna: bionda, basco sempre in testa, jeans aderenti infilati negli stivali dal tacco altissimo, ieri ha detto che Obama è veramente carino: "So che mio padre non è sexy, giovane, fresco e interessante come Obama però penso che abbia un suo fascino e sia a suo modo interessante. Per lui non è importante essere sexy". Meghan crede che alla fine il padre vincerà "perché ascolta i giovani ed è un uomo d'iniziativa" e poi, lo ha raccontato ad Mtv, non è così antiquato: "La gente pensa che lui ascolti musica veramente vecchia, ma una volta ho preso la sua macchina a Washington e guardando tra i suoi cd ho scoperto che invece gli piace la cantante rap Lauryn Hill".

Sul suo diario di viaggio online, che si chiama "McCain Blogette" e che tiene insieme alle sue amiche Shannon e Heather, mescola il racconto della campagna con la cultura pop e spiega che il padre le ha fatto una sola raccomandazione: "Non ti presentare in pigiama ai comizi". E così nel suo blog stanno insieme Henry Kissinger e i consigli su come ci si trucca (è lei a supervisionare al trucco del padre prima dei dibattiti); i serissimi notabili del partito repubblicano e le sue ossessioni: "Stravedo per la spogliarellista Dita Von Teese e l'attrice Chloe Sevigny. Il mio più grande sogno sarebbe fare razzia nei loro guardaroba".

E' una fashion victim, con la sua borsa di Louis Vuitton, il cappoto leopardato, gli occhialoni neri. Le piace vedere le luci, le telecamere e la folla e immaginare di essere ad un concerto: "Spesso scherzavamo sul fatto che la campagna sembrava un gruppo rock in tourné che sperava di arrivare all'album di platino. Poi mi sono accorta che era arrivato il "grande momento" quando, dopo la vittoria in New Hampshire, l'aereo è diventato più grande e si sono aggiunti 50 giornalisti. Però so che tutto questo può svanire in un attimo".

Rifiuta di essere etichettata come leggera: "Non si può giudicare una ragazza perché sfoglia riviste di pettegolezzi e veste all'ultima moda: io leggo anche il New York Times e sono capace di parlare di politica e penso che il primo problema oggi sia l'ambiente. E se papà arriverà alla Casa Bianca, continuerò a fare il mio blog anche da lì, vorrei dare uno sguardo dentro a quel mondo e cercare di umanizzarlo". Dietro le quinte del dibattito della Abc ha conosciuto Chelsea Clinton: "E' stata molto affettuosa e mi ha fatto i complimenti per il blog, è una persona che ammiro e poi indossava delle scarpe veramente carine".

E' imprevedibile: venerdì mattina è salita insieme al padre sul palco in mezzo ai veterani e aveva il muso lungo, non ha sorriso un momento (nemmeno quando lui ha sfoggiato il suo terribile repertorio di battute del tipo: "In Arizona cè una tale siccità che sono gli alberi a rincorrere i cani...") ed è rimasta fino alla fine con il berretto calato sugli occhi. All'incontro successivo è sparita, il padre non se n'è accorto e ha annunciato: "Voglio presentarvi mia figlia Meghan". Si gira e lei non c'è, la chiama, si guarda intorno, non la trova e allora dice: "Si è appena laureata in storia dell'arte a Columbia University, un'università progressista... questi sono i risultati...".

Il suo ricordo più bello di bambina è stato quando il padre l'ha portata agli Mtv Awards, ama la musica e sul blog c'è anche la play list con le sue canzoni preferite, in gran parte degli anni Sessanta e Settanta: la prima è Gimme Shelter dei Rolling Stones del 1969, poi ci sono David Bowie, Jimi Hendrix e i Led Zeppellin. Ma anche la tromba jazz di Miles Davis e il concerto per pianoforte numero 2 di Rachmaninoff.

Rivela che la gente è incuriosita dal grosso elastico di gomma che il padre tiene sempre intorno alla mano: "Gli serve come antistress. Lo ha sempre fatto durante le campagne elettorali fin da quando ero piccola".
Alla fine racconta: "Ero nella stanza d'albergo con papà quando si è capito che aveva vinto: ho cominciato a piangere, solo sei mesi fa dicevano che era finito ma io non ho mai smesso di avere fiducia in lui. Siamo scesi dall'ascensore di servizio e siamo arrivati sul palco passando dalle cucine e la gente gridava: "Mac è tornato". Poi sono partiti i coriandoli e la sua canzone preferita: Johnny B. Good di Chuck Berry e allora mi sono sentita a casa".


(21 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. NY, l'incontro Saviano-Rushdie "Noi, scrittori sotto scorta..."
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 11:10:20 am
CULTURA

Entrambi condannati a morte per quello che hanno scritto, i due autori dialogano sulla loro esistenza blindata.

"La verità per vincere il Male"

NY, l'incontro Saviano-Rushdie "Noi, scrittori sotto scorta..."

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI

 
SALMAN Rushdie, 60 anni, romanziere angloindiano, condannato a morte dall'Ayatollah Khomeini per aver scritto nel 1988 I versi satanici: più di dieci anni passati nascondendosi, viaggiando su auto blindate, con otto uomini di scorta.

Roberto Saviano, 28 anni, giornalista e scrittore napoletano, vive blindato da 19 mesi, cambiando continuamente domicilio da quando si è scoperto un progetto per eliminarlo del clan camorristico dei Casalesi. La sua colpa? Aver scritto il libro Gomorra, tradotto in 42 Paesi.

Salman Rushdie si avvicina a Roberto Saviano, gli sorride, si presenta, lo abbraccia e subito gli chiede: "Hai la scorta anche qui?". "Sì, me l'ha data l'Fbi: tutti agenti italoamericani si occupano di mafia e traffici internazionali". "Io invece non ho più la scorta, qui in America sono tornato ad essere un uomo libero".

Inizia così, con un incontro casuale in una casa privata, un lungo dialogo che parla di vite rubate, della paura, della solitudine, delle minacce, della libertà di scrivere e della speranza di recuperare una vita normale. Saviano ha un girocollo di lana blu, i jeans e le scarpe da tennis. Rushdie una giacca scura con un golf grigio e un paio di scarpe nere. Sono entrambi a New York per il Festival internazionale di letteratura PEN World Voices. I due parlano fitto come si conoscessero da tempo, si mettono in un angolo, come non volessero disturbare con le loro storie angosciose. In mezzo a loro una gallerista newyorkese, Valentina Castellani, che si trova a fare per caso da traduttrice.

Rushdie ha conosciuto Gomorra grazie a un suo amico napoletano, il pittore Francesco Clemente, e aveva mandato a Saviano una mail di solidarietà quando aveva saputo delle prime minacce.

È lui a dare il ritmo al dialogo, lo tempesta di domande, vuole capire se quel ragazzo che ha davanti sta ripetendo esattamente il suo calvario.

Saviano: "Alcuni hanno paragonato le nostre vite: un libro ci ha condannati a vivere sotto scorta, condannati a morte. Ma io vedo una differenza fondamentale tra noi: tu sei stato minacciato per il solo fatto di aver scritto, nel momento in cui hai pubblicato è arrivata la fatwa. Per me è stato diverso, quello che non mi hanno perdonato non è il libro ma il successo, il fatto che sia diventato un bestseller. Questo li ha disturbati e più la cosa diventa nota e più sono incazzati con me".

Rushdie: "No, invece penso che alla fine sia la stessa cosa, comunque ti hanno preso di mira perché hai scritto qualcosa che non volevano, che ha dato fastidio".

Poi però Rushdie si blocca, si incuriosisce, vuole sapere di più: "Ma perché, davvero all'inizio non hai avuto problemi?".

Saviano: "No. Se il libro fosse rimasto confinato al paese, a Napoli, alla mia realtà locale, allora gli andava anche bene, anzi, i camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta. Avevano perfino cominciato a farne delle copie taroccate da vendere per la strada e un boss aveva rimesso le mani in un capitolo riscrivendosi alcune parti che lo riguardavano".

Rushdie si mette a ridere e dice: "Magnifica l'idea che un mafioso si metta a fare l'editing di un libro. Mi fa venire in mente una cosa incredibile che è accaduta al giornalista indiano Suketu Mehta. La prima volta che è tornato a Bombay, dopo aver scritto Maximum City, è stato chiamato dai gangster mafiosi di cui parla nel libro: volevano lamentarsi con lui perché gli aveva cambiato i nomi, mentre ai poliziotti aveva lasciato quelli originali. Insomma volevano apparire ed erano dispiaciuti di non poter essere facilmente identificati".
 
Salman Rushdie

Saviano: "Poi però la cosa è cresciuta, si è cominciato a parlare del libro e questo ha cominciato a disturbarli. Perché fino ad allora non finivano mai sulla prima pagina dei giornali, neppure quando facevano massacri, e si sentivano tranquilli e riparati. Poi il libro ha risvegliato l'attenzione in tutta Italia e questo successo non mi è stato perdonato".

Rushdie: "E ora come vivi?".

Saviano: "Sempre sotto scorta dei carabinieri, cambio casa continuamente, non ho più un'esistenza normale".

Rushdie: "Hai problemi solo tu o anche la tua famiglia?".

Saviano: "La mia famiglia se n'è dovuta andare da casa e aver creato loro questi problemi mi pesa molto".

Rushdie: "Invece io sono stato l'unico ad aver avuto una vita blindata, la mia famiglia non è mai stata minacciata e ha continuato a vivere come prima, mia madre allora stava in Pakistan e nessuno le ha mai fatto nulla. Adesso viaggi sempre sotto scorta?".

Saviano: "Sì, in ogni momento, anche quando vado all'estero".

Rushdie: "Anch'io sono stato scortato in Italia e ricordo una paura terribile, i poliziotti avevano sempre la pistola in mano, guidavano come dei matti e io temevo che avremmo ammazzato qualcuno. La verità è che ad un certo punto non vivi più, sei prigioniero delle minacce, di chi tu vuole uccidere e di chi ti protegge. Non ti fanno fare più nulla e ti sembra di impazzire, non sei più padrone della tua vita".

Saviano: "A me i camorristi hanno detto: ti abbiamo chiuso nella bara senza averti ucciso. Però per me la scorta non è qualcosa che mi tiene prigioniero e isolato, ma è l'unico modo per permettermi di continuare a lavorare e a scrivere".

Rushdie: "Devi riprenderti la tua libertà. Ascoltami bene Roberto, non arriverà mai un giorno in cui un poliziotto o un giudice si prenderanno la responsabilità di dirti: è finita, sei un uomo libero, puoi andare tranquillo, uscire da solo. Non succederà mai, sarai tu a doverlo decidere".

Rushdie resta fermo in silenzio a fissarlo, vuole essere sicuro che tutto venga tradotto con cura, che il suo messaggio sia chiaro, poi ricomincia, quasi stesse dettando un decalogo di sopravvivenza: "La libertà sta nella tua testa. Io certe volte chiedevo di presentare un libro o di andare ad una conferenza ma non mi autorizzavano, dicevano che era troppo rischioso. Ma se io mi sentivo che si poteva fare allora combattevo come un leone finché non ottenevo di poterci andare. Devi riappropriarti della tua capacità di giudicare cosa puoi fare, del tuo fiuto, della tua sensibilità, non puoi appaltare tutta la tua vita ai poliziotti".

Poi si ferma di nuovo, ha paura di aver esagerato: "Mi raccomando, non ti sto dicendo di fare cose imprudenti o avventate, non ti dico di andare a metterti davanti ad una pistola, ma di recuperare una libertà di giudizio. Io l'ho recuperata venendo a vivere qui negli Stati Uniti. Ricordo le prime volte a New York, scendevo da solo in metropolitana, camminavo nel Parco, andavo ad un museo. Poi tornavo a Londra e avevo l'auto blindata e otto uomini di scorta e mi mancava l'aria".

Saviano: "Certe volte mi sono interrogato se ne è valsa la pena, se quello che sto pagando non è sproporzionato rispetto a un libro, soprattutto quando penso ai miei parenti, a quello che anche loro hanno passato e passano. Poi però non riesco a dirmi che non dovevo scriverlo e alla fine penso sempre che lo rifarei".

Rushdie: "Anche io ho sempre pensato che avrei riscritto I Versi Satanici. Ma perché il tuo libro ha dato più fastidio di altri, come te lo sei spiegato?".

Saviano: "Perché non è un saggio ma un racconto, è letteratura, e così ha raggiunto un pubblico molto più vasto, è stato letto da molta più gente e questo ha combinato il casino. Comunque se non riescono ad eliminarti cercano di sporcarti, di danneggiarti, di raccontare che sei un poco di buono, un'infame, che lo fai perché sei un fallito e un invidioso".

Rushdie: "È vero, è così: ti squalificano. Per anni hanno sostenuto che io avevo scritto finanziato da lobby ebraiche, che ero il diavolo, un impostore, il male. Questa predicazione ha fatto proseliti: ci sono intere aree del mondo musulmano dove non posso andare o dove non potrei mai parlare perché ormai il pregiudizio contro di me è talmente radicato che non c'è più nulla da fare. Ma non possiamo mollare, bisogna andare avanti, continuare a scrivere, continuare a vivere".

Saviano: "È quello che sto cercando di fare, ma certe volte è dura, vedi le calunnie e le minacce e fai fatica a pensare ad altro".

Rushdie: "Potrai perdere oggi, potrai perdere per 30 anni ma alla fine vincerai tu, perché la verità alla fine vince sempre. Ricordati: la letteratura non è una cosa di oggi ma, come diceva Italo Calvino, è una cosa di tempi lunghi e su quelli si misurano le cose nella vita".

Saviano abbassa la voce: "Vorrei farti una domanda forse un po' ingenua: ma pensi che la letteratura possa davvero disturbare il potere?".

Rushdie: "Assolutamente sì, continuo a crederci. Guarda con quanta attenzione i regimi controllano la letteratura e gli scrittori, pensa a come vigilavano in Unione Sovietica e ne avrai la prova".

Rushdie: "Stai scrivendo qualcosa di nuovo?".

Saviano: "Sì, un altro libro ma non sulla camorra".

Rushdie: "Bravo, continua a scrivere e scrivi anche di altro, anch'io ho fatto così, anche questo è un modo per non restare prigionieri. Devi recuperare una vita che non sia tutta legata a Gomorra. E poi dovresti venire a stare un po' a New York, qui mi sono sempre sentito molto più libero che in Europa. Qui non potrebbe mai accadere che uno scrittore venga minacciato per un libro, forse perché in America nessuno pensa che la letteratura possa avere questo potere".

È ormai tardi, si salutano. Rushdie: "Verrò a trovarti a Napoli il prossimo anno, ci sarà una mostra di Clemente e ci sarò sicuramente".

Poi scendono insieme, in ascensore si aggiunge il romanziere inglese Ian McEwan. Quando escono dal portone Rushdie vede gli uomini dell'Fbi e allora, divertito, dice a Saviano: "Lascia a me e a Ian l'onore di scortarti fino alla macchina". Poi, prima di chiudergli la portiera, gli ripete: "Roberto abbi cura di te, sii prudente, ma riprenditi la tua vita e ricordati che la libertà è nella tua testa".

L'auto blindata dei federali parte veloce. Rushdie, da solo, si mette a camminare nella notte lungo il Central Park.


(3 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Usa: pareggio, ma Obama sale
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2008, 04:09:04 pm
Nella doppia sfida senza storia il confronto in North Carolina

Nell'Indiana testa a testa fino all'ultimo. Poi la spunta la Clinton

Usa: pareggio, ma Obama sale

'Sempre più vicino alla nomination'

Ora il senatore dell'Illinois dovrebbe avere 155 delegati di vantaggio

Secondo gli analisti della Nbc e il sito Drudge Report, Hillary dovrebbe gettare la spugna

di MARIO CALABRESI


 NEW YORK - Hillary Clinton ha pareggiato all'ultimo minuto, a notte fonda, conquistando la vittoria in Indiana per poco più di 20mila voti, dopo aver malamente perso in North Carolina. Un pareggio che la tiene virtualmente ancora in corsa, anche se l'ex first lady ha ora cancellato tutte le apparizioni agli show televisivi del mattino e gli incontri pubblici per oggi.
Tanto che i blog e i siti internet più aggressivi sostengono che potrebbe gettare la spugna e già definiscono Barack Obama "The Nominee", il candidato che ha ottenuto la nomination.

Il risultato definitivo dell'Indiana è arrivato all'una e mezza di notte, dopo uno scrutinio mozzafiato: la Clinton fino a tre quarti dello spoglio era in netto vantaggio, tanto che poco prima delle 23 aveva pronunciato il discorso della vittoria a Indianapolis, sottolineando che la sua corsa sarebbe proseguita. Poi il suo margine di vantaggio si era progressivamente ridotto fino ad arrivare ad un pugno di voti, mentre mancava la contea della città di Gary, una sorta di sobborgo di Chicago con una larga maggioranza di elettori neri. Alla fine ce l'ha fatta, ma il vincitore dell'ultimo grande martedì elettorale è Barack Obama che ha conquistato nettamente la North Carolina (56 a 42) e ha dimostrato di essere in partita anche in uno Stato come l'Indiana dove prevale il ceto medio bianco.

Con il 99 per cento delle schede scrutinate, Obama prende 58 delegati in North Carolina e 33 nell'Indiana. Hillary Clinton ne ottiene rispettivamente 42 e 37. Totale di giornata: 91 a 79. Totale generale: 1.836 a 1.681; 155 delegati di vantaggio per Obama. Ora gliene mancano circa duecento per la nomination. Abbastanza per far dire al sito di fossip politico, Drudge Report, ma anche agli analisti della Nbc che la partita è chiusa e che Obama contenderà al repubblicano McCain la presidenza degli Stati Uniti.

Il senatore nero ha festeggiato la vittoria in North Carolina a Raleigh con un discorso assolutamente non polemico, tutto rivolto al voto di novembre e a contrastare John McCain. Obama sembra aver superato le difficoltà degli ultimi giorni legate alle polemiche per le esternazioni del suo pastore, il discusso reverendo Wright, ha promesso di unire il partito "per evitare agli americani altri quattro anni di amministrazione repubblicana, in cui si tagliano le tasse ai più ricchi e alle multinazionali che portano il lavoro all'estero, mentre il ceto medio perde il lavoro, la sanità e le pensioni".

Anche la Clinton, dopo aver promesso battaglia per poter avere anche i voti di Florida e Michigan (due Stati dove ha vinto ma che sono stati "squalificati" per aver anticipato la data delle primarie), ha voluto assicurare che lavorerà per chi verrà nominato e che la cosa fondamentale è la vittoria dei democratici a novembre.

Hillary ora potrebbe essere spinta al ritiro, visto che Obama continua ad avere più delegati, più voti e più Stati, ma potrebbe anche tentare di andare ancora avanti fino alla fine delle primarie, il 3 giugno, sostenendo che Obama non è in grado di conquistare gli Stati dove pesa maggiormente la classe media e che non può così pensare credibilmente di sfidare John McCain a novembre. In questo caso farebbe appello ai superdelegati - i quadri del partito che hanno diritto di voto - chiedendo loro di ribaltare il risultato uscito dalle urne.

Obama per cercare di chiudere definitivamente la partita ha speso oltre sei milioni di dollari per trasmettere quasi 17mila spot televisivi solo nell'ultima settimana (Hillary si è fermata a quota 9000 con una spesa di tre milioni).

Questa corsa così faticosa e litigiosa potrebbe far pensare che gli elettori ne siano ormai disgustati, ma l'altissima affluenza registrata ieri alle urne - si è passati dal 30 per cento del 2004, al 50 per cento di ieri - mostra che il popolo dei democratici è invece galvanizzato dalla sfida. La vera controindicazione è però la spaccatura che si è creata all'interno del partito, che fino a pochi mesi fa sembrava marciare compatto verso la Casa Bianca, ma che oggi sta regalando una nuova giovinezza a John McCain. Ieri, all'uscita dalle urne, più della metà dei supporter di Hillary ha detto che a novembre non è disposta a votare per Barack, così un terzo degli elettori di Obama non sosterrebbe la Clinton. Anche per questo i due hanno voluto lanciare un appello all'unità.


(7 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Biden, specialista in recuperi: Se mi buttano giù, so rialzarmi
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 06:30:52 pm
ESTERI IL PERSONAGGIO

Biden, specialista in recuperi "Se mi buttano giù, so rialzarmi"

Cattolico, vedovo, padre. La vita privata è la sua arma vincente

In 35 anni di servizio al Campidoglio ha imparato tutti i riti del potere

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI

 

NEW YORK - Da bambino balbettava. Da adulto parla troppo. Joe Biden è stato l'autore della gaffe più spettacolare su Barack Obama: "È il primo candidato afroamericano che ha un linguaggio articolato, è brillante, pulito e di bell'aspetto". Disse che voleva fargli un complimento, poi ammise di avere sbagliato e si scusò.

Sosteneva che Obama non era preparato per fare il presidente, ieri ha accettato di fargli da spalla, dopo aver corretto il tiro: "Nell'ultimo anno è maturato molto grazie alla dura battaglia per la nomination". Barack Obama ha scelto l'uomo più lontano dalla sua mistica della novità e del cambiamento: un politico navigato, un maestro delle tattiche parlamentari, un nonno dai capelli bianchi, il simbolo della continuità.
Ma ha scelto un uomo della classe media, un uomo capace di superare le sciagure più terribili e di ricostruirsi, di ricominciare da capo ogni volta: "Mio padre mi ha insegnato - ha detto ieri a Springfield - che il punto non è quante volte ti buttano giù, ma quanto tempo ci metti a rialzarti".

Joseph Robinette Biden, Jr. è nato a Scranton in Pennsylvania da una famiglia cattolica irlandese il 20 novembre del 1942, ha studiato legge ed è stato eletto al Senato quando aveva ancora 29 anni, nel 1972. Il presidente era Nixon e i soldati americani erano ancora in Vietnam. In 35 anni di servizio in Campidoglio ha imparato tutti i riti del potere e della sua gestione, tanto da averne assunto ogni sembianza: ha sempre la spilletta con la bandierina americana appuntata sul blazer blu, il fazzoletto nel taschino e i gemelli ai polsini della camicia bianca, se c'è il sole non rinuncia ai ray-ban a specchio da aviatore. Il New York Times scriveva che Biden è il braccio destro capace di far passare le leggi e di assicurare a Obama una presidenza che cammina e realizza. Ma le elezioni bisogna vincerle e Biden viene dal Delaware, Stato piccolo che non conta nulla dal punto di vista elettorale perché è già saldamente democratico. Obama scegliendo lui ha rinunciato a provare a conquistare, attraverso la scelta del vice, uno Stato pesante come poteva essere la Virginia del governatore Tim Kaine. Certo è cattolico ma è favorevole all'aborto e questo fa sì che sia inutile alla conquista dell'elettorato conservatore e poi Biden non è in linea con la nuova Chiesa di Ratzinger, racconta che il suo punto di riferimento è il Concilio Vaticano II: "Sono stato tirato su in un'epoca nella quale la Chiesa era fertile di idee ed aperta alla discussione. Porre questioni non era criticato, era incoraggiato".

Ma ha grande esperienza in politica estera, è il presidente della Commissione esteri del Senato, un conoscitore del Medio Oriente e un ospite fisso dei vertici di Davos. Prima dell'11 settembre del 2001, esattamente il giorno prima, disse che George Bush sbagliava a focalizzarsi sulla difesa missilistica perché altre erano le minacce da cui l'America doveva guardarsi: "Il pericolo non viene più da un missile intercontinentale ma sta nella pancia di un aereo, di una nave o in uno zainetto". Nel 2002 però disse che "l'America non aveva scelta se non quella di eliminare Saddam Hussein", anche se sostenne che un attacco unilaterale era "l'opzione peggiore".

Ma anche colui che si potrebbe dire ha sbagliato i due voti sull'Iraq: favorevole al via libera alla guerra ma contrario al "surge", l'aumento delle truppe richiesto dal generale Petraeus che ha stabilizzato il Paese. Critico aspro della gestione della guerra da parte dell'Amministrazione Bush, nel 2006 dopo otto viaggi in Iraq è stato il campione del progetto di dividere il Paese in tre parti tra sciiti, sunniti e curdi, sul modello della ex Jugoslavia. Ora la guerra è diventata non solo un problema politico ma una questione familiare: suo figlio Beau, 38 anni, che è ministro della Giustizia del Delaware, a ottobre andrà al fronte come capitano della guardia nazionale.

Ma il vero motivo per cui Obama lo ha scelto non è nessuno di questi. E' la vita privata di Biden la carta vincente, il suo essere figlio del popolo, il suo saper reagire alle avversità. Il 18 dicembre del 1972, un mese dopo che Joe era diventato senatore, la prima moglie Neilia e la figlia Naomi, che aveva solo 13 mesi, morirono in un incidente. Stavano andando a comprare l'albero di Natale quando un camion con il rimorchio, guidato da un ubriaco, centrò l'auto su cui viaggiavano anche gli altri due bambini, Joseph e Robert, che avevano tre e due anni. Joe restò per settimane accanto ai loro letti in ospedale, uscendo solo per il funerale della moglie e della neonata. "Mi resi conto che il suicidio può non essere solo un'opzione nella vita, ma un'opzione razionale". Al Senato partirono le scommesse sulla data delle sue dimissioni.

Ma non mollò, cominciò a fare il pendolare con Washington, tre ore di treno tutti i giorni per crescere i figli. Per cinque anni li tirò su da solo, poi incontrò un'insegnante del suo paese, Jill e si risposò. Fino allo scorso anno non ha mai parlato di questa storia poi lo fatto così: "Questa storia mi ha insegnato che devi sempre dire alle persone amate che le ami, e non devi lasciare nulla di non detto".

Nell'88 dopo essersi ritirato dalla sua prima campagna elettorale per la presidenza (perché si scoprì che aveva copiato pedestremente un discorso del leader laburista britannico Neil Kinnock) crollo a terra incosciente nella stanza di un albergo a nord di New York: in pochi mesi lo operarono due volte per asportare un aneurisma cerebrale.
Suo padre era ricco, giocava a polo e guidava macchine lussuose, ma cadde in disgrazia e fece bancarotta poco prima che Joe nascesse. Andarono a vivere dai suoceri a Scranton (città operaia della Pennsylvania), poi si trasferirono in un quartiere di tute blu. Il padre puliva gli scaldabagni e nel fine settimana vendeva bandierine delle squadre di baseball e souvenir nei mercatini. Lo ha cresciuto con l'orgoglio della classe lavoratrice e con il motto: "Nessuno è meglio degli altri".

Una sera, quando lavorava in una concessionaria d'auto, il proprietario fece una festa di Natale per i dipendenti e si divertì a lanciare una manciata di dollari d'argento per terra e a guardare dall'alto meccanici e venditori che si azzuffavano per prenderle. Il padre si licenziò quel giorno, sbattendo la porta.
David Brooks, editorialista del New York Times lo ha raccontato due giorni fa augurandosi che per questo scegliesse Biden: "E' un uomo che ha detto parecchie cose idiote negli anni, che ora verranno mandate in onda in continuazione, ma la gente è abbastanza intelligente per perdonare i difetti genuini di una persona genuina. Darà a Obama quello di cui ha bisogno: radici nella classe operaia, un compagno onesto e leale. Le nuove amministrazioni sono dominate dai giovani e dagli arroganti, e sarebbe positivo avere accanto chi è sopravvissuto al peggio e ha un po' di prospettiva e di memoria storica".

Nato balbuziente, lo ha ricordato anche Obama ieri chiamandolo "Bi - Bi-Biden", negli anni è diventato chiacchierone e oggi parla troppo. Durante una audizione per la conferma del giudice della Corte Suprema Samuel Alito Biden ha impiegato dodici minuti per giungere alla prima domanda. E certe sue gaffe hanno un'inquietante sapore razzista: "Nel mio stato, il Delaware, sta avvenendo la crescita più vistosa di immigrati dall'India: è impossibile entrare in negozi di alimentari se non si ha un accento indiano". Ma è anche efficace nelle sue battute taglienti, di Rudolph Giuliani ha detto: "Ci sono solo tre cose che è capace di mettere insieme in una frase: un nome, un verbo e una parola: 11 settembre". E ieri ha fulminato John McCain, che possiede otto case ma non se ne ricordava: "Noi siamo gente che tutte le sere discute seduta al tavolo della cucina, questo non si può dire di McCain, perché non si può dire in quale delle sue cucine è seduto

(24 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Joe l'idraulico, l'"invitato" al duello
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 11:51:02 pm
Protagonista del terzo dibattito tv il nuovo simbolo dell'americano medio

Un uomo dell'Ohio che la scorsa settimana chiese ad Obama: "Credi nell'American dream?

Joe l'idraulico, l'"invitato" al duello


dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI



HEAMPSTEAD - Il protagonista assoluto dell'ultimo dibattito tra John McCain e Barack Obama è stato Joe l'idraulico, il nuovo simbolo dell'americano medio a cui per tutta la serata si sono rivolti i due candidati promettendogli una vita migliore.

Joe non è una figura di fantasia ma un vero idraulico dell'Ohio: è un omone ben piazzato e completamente pelato, con un cognome impronunciabile, Wurzelbacher, che si definisce un uomo della classe media. Lo scorso fine settimana ha fermato Obama alla fine di un comizio a Toledo per chiedergli spiegazioni sulla sua politica fiscale: "Credi nell'American Dream?". "Certo che credo nel sogno americano", gli ha risposto Obama. "Allora perché mi vuoi penalizzare se io cerco di raggiungerlo?" e ha raccontato che sta mettendo da parte i soldi per comprare la piccola attività per cui lavora da quindici anni, ma che se lo facesse poi guadagnerebbe più di 250mila dollari l'anno e con il piano fiscale del candidato democratico sarebbe costretto a pagare più tasse.

Obama gli ha dato una risposta lunghissima, si è fermato a spiegargli che vuole abbassare le tasse al 95 per cento degli americani e ha parlato della necessità di lanciare un piano di aiuti per la classe media che redistribuisca la ricchezza. Una risposta che a Joe non è piaciuta e intervistato dalla Fox ha commentato: "Mi ha un po' spaventato, dice che vuole redistribuire la ricchezza ma a me sembra una cosa socialista: decido io a chi dare i miei soldi, non può essere il governo a dire che se guadagno un po' di più poi lo devo dividere con qualcun altro".

Così ieri sera McCain ha lanciato Joe in mezzo al dibattito, usandolo come simbolo di tutti i piccoli imprenditori che "se pagheranno più tasse smetteranno di assumere e di creare lavoro in America". Lo ha chiamato in causa ben dieci volte e ha promesso:

"Joe, io ti aiuterò non solo a comprarti l'attività per cui lavori da una vita, ma terrò le tue tasse basse e darò a te e ai tuoi dipendenti la possibilità di avere un'assistenza sanitaria che vi potrete permettere". E poi rivolto ad Obama ha concluso: "Ma perché vuoi alzare le tasse a tutti proprio adesso che bisogna incoraggiare l'America?".

A quel punto Obama ha preso la parola, ha guardato diretto nella telecamera e ha puntato l'indice: "Parlo direttamente a te Joe, se sei lì e ci stai guardando: sai di quanto ti alzerò le tasse? Zero" e unisce pollice e indice per fare il segno zero. "E le taglierò - ha sottolineato - a chi ha bisogno: l'idraulico, l'infermiera, il vigile del fuoco, l'insegnante, il giovane imprenditore. E ricordiamoci che il 98 per cento dei piccoli imprenditori guadagna meno di 250mila dollari l'anno".

Ma McCain non ha mollato: "La verità è che finiremo per prendere i soldi di Joe, li daremo al senatore Obama e lui li distribuirà in giro. Ma noi vogliamo che sia Joe a creare ricchezza, non lo Stato o Obama a decidere dove deve andare".

Obama ha controreplicato: "Ascoltami Joe, in fatto di sanità starai meglio con me". "Sarà ricordato come il dibattito dell'idraulico Joe - ha commentato il repubblicano Tim Pawlenty, governatore del Minnesota - e sono convinto che Joe è rimasto convinto da McCain".

Appena finito il faccia a faccia tutte le agenzie e le televisioni si sono gettate alla caccia di Joe, ma il suo numero di telefono non è sulla guida e sembrava impossibile rintracciarlo. Alla fine lo ha trovato la Associated Press. Ma Joe non è sembrato molto eccitato da tutta questa notorietà e ha commentato: "Il mio nome citato in una campagna presidenziale: mi è sembrato tutto un po' surreale".

(16 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIAN GIACOMO MIGONE Mccain-Obama il duello che fa scuola
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2008, 10:41:31 am
17/10/2008
 
Mccain-Obama il duello che fa scuola
 
 
 
 
 
GIAN GIACOMO MIGONE
 
Dopo il terzo e ultimo dibattito diretto tra McCain e Obama vale la pena tirare qualche somma su questo tipo di confronto. La drammaticità della crisi finanziaria non ha oscurato la rilevanza della corsa presidenziale americana, giunta a una fase decisiva in cui le posizioni dei candidati si intrecciano con le decisioni del Congresso e dell’Amministrazione in carica. Soprattutto le modalità del confronto continuano a risultare importanti, forse decisive, per un paese che non deve cedere al panico. Al punto che, nel secondo e nel terzo dibattito, John McCain ha resistito alla tentazione di seguire il consiglio della Palin, di ricorrere a colpi sotto la cintura di un Obama ormai in vantaggio, anche se la maggiore aggressività e qualche scivolata tradiva il nervosismo del candidato repubblicano, in svantaggio nei sondaggi d’opinione. Malgrado ciò, è prevalso il bisogno di presentarsi con calma e civiltà a un elettorato impaurito, ma non disposto a premiare certe forzature e menzogne presenti negli spot elettorali soprattutto repubblicani. Vediamo come. Ogni riferimento alla realtà italiana non è puramente casuale.

Ciò che più mi ha colpito è la perdurante stima e persino la simpatia reciproca che continua a trasparire da discussioni a tratti durissime nel merito e nei giudizi reciproci. Parole, modo di fare, umore dei rivali non davano adito a dubbi. La diversità è riservata alle posizioni politiche. Lo stile costituisce il patrimonio comune.

Un’altra presenza importante è la memoria. Ciò che viene detto non cancella ciò che è stato detto il giorno (o l’anno) precedente. Perché su ciò si gioca un valore fondamentale, la coerenza, che non è immobilità di giudizio. Anche a un candidato alla presidenza degli Stati Uniti è concesso cambiare opinione, purché non neghi di averlo fatto e sappia spiegarne in maniera soddisfacente la ragione.

Altrimenti viene richiamato all’ordine dall’avversario o, ove occorra, dai media. Non viene necessariamente penalizzato chi ammette di essersi sbagliato. Sicuramente non viene disprezzato. Chi lo facesse sarebbe a sua volta esposto a critiche. Ad esempio, la battuta di McCain che ha segnato il terzo dibattito - «Non ti stai battendo contro Bush» - è stata riconosciuta come legittima perché le differenze rispetto al presidente in carica esistono, anche se Obama ha buon gioco nel sostenere che l’esigenza di mobilitare l’elettorato neoconservatore le ha oscurate nel corso della campagna elettorale. Perciò il principio di verità è importante. Più volte Obama ha detto: «Non è vero», a cui è seguito un chiarimento di McCain che, a sua volta, ha spesso replicato o affermato: «Non hai capito». Le interpretazioni variano, ma i fatti esistono e prima o poi vengono richiamati da qualcuno, a condizione che siano effettivamente rilevanti. Nel migliore dei casi anche da chi si è accorto di essersi sbagliato.

Un dibattito di questo tipo si permea di una sorta di onestà intellettuale che condiziona la gestione delle regole del gioco. È vero che esse vengono lungamente negoziate dai collaboratori dei contendenti, come anche la scelta del moderatore. In realtà, ai fini del rispetto di quelle regole, i moderatori sono risultati quasi superflui. Bastava un’espressione del loro viso o un piccolo gesto per richiamare all’ordine o ai tempi prestabiliti chi aveva la parola. Essi potevano concentrarsi su richiami alla necessità di rispondere in maniera più puntuale a un interrogativo o a un fatto distorto o ignorato, senza l’ombra di una manipolazione che li avrebbe professionalmente screditati.

So bene che tutto ciò può sembrare una versione idealizzata di ciò che è avvenuto; soprattutto di quanto sta dietro a una gara spietata per una posta altissima come quella della presidenza, in un contesto drammatico che potrebbe volgere al tragico. È vero che, anche in questa campagna elettorale, i colpi bassi non sono mancati; che, soprattutto, gli spot televisivi di impostazione negativa sono palesemente manipolatori, come severamente stigmatizzato dal New York Times; che le primarie hanno avuto uno stampo spesso sgradevole e fatuo (tuttavia raramente da parte dei due contendenti finali). Nel merito, poi, sono numerose le critiche che si possono muovere sia a McCain sia a Obama. Soprattutto la loro inconsapevolezza, auguriamoci più manifesta che reale, del mondo che il vincitore dovrà affrontare dalla Casa Bianca: un mondo ormai multipolare, che non si piega a nessuna forma di unilateralismo, in cui il potere degli Stati Uniti è visibilmente declinante.

Tuttavia, in quel mondo pieno di tensioni non soltanto finanziarie, vi è ancora molto da imparare da un paese che mette in campo due candidati presidenziali che entrambi, repubblicano e democratico, di comune accordo, indipendentemente dal colore della loro pelle, come sede del loro primo dibattito scelgono «Ole Miss». Quell’Università del Mississippi tutta bianca che richiese l’intervento federale perché James Meredith, studente americano di origine africana, vi si potesse iscrivere. Auguriamoci che questa scelta iniziale sia accolta da un elettorato che non ceda alla tentazione di scegliere il proprio presidente proprio sulla base del colore della sua pelle.

g.gmigone@libero.it
 
da lastampa.it


Titolo: ANTONIO SCURATI LE BOCCACCE DI MCCAIN
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2008, 10:42:30 am
17/10/2008 - LE BOCCACCE DI MCCAIN
 
Vecchio John, ci somigli
 
 
 
 
 
ANTONIO SCURATI
 
Probabilmente Barack Obama sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, probabilmente quest’uomo ancora giovane, dalle movenze sciolte, eleganti, sicure e rassicuranti sarà l’America del futuro. Non meno probabilmente, però, il presidente del presente, l’uomo in cui si specchiano l’America e il mondo degli anni che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo si chiama John McCain, è nato a Panama nel 1936, ha 72 anni, fu abbattuto in volo nel 1967 mentre era in missione sopra Hanoi, catturato e torturato dai Vietcong, prigioniero di guerra fino al 1973, e da allora ne porta i segni nel corpo e nello spirito. La sua postura rigida da marionetta scassata, il suo incedere macchinoso, il suo passo inceppato sono la postura, l’incedere e il passo dei giorni del presente.

Le foto in cui il candidato McCain si mette in caricatura accentuando la propria andatura spastica gli rimarranno, credo, attaccate addosso.

E - forse - quest’apparente caduta d’immagine non gli fa torto ma onore. Scherzando sulla propria invalidità, rimarcandola, John McCain ha raccontato se stesso, le qualità e i difetti che ne fanno l’uomo dell’oggi. Anche il suo coraggio un po’ scomposto, quasi balzano, la sua zampata scoordinata di vecchio leone ferito sono i segni del presente. John McCain è, infatti, un uomo che porta da più di trent’anni una ferita insanabile, un reduce del Vietnam afflitto da Sindrome Post Traumatica da Stress, John McCain è, insomma, il primo nella storia ad aver basato la propria candidatura al ruolo di uomo più potente del mondo sulla piattaforma della propria debolezza, della propria invalidità. Ed è proprio questo a farne il Presidente della nostra epoca, un’epoca di traumatizzati anche se in assenza di un vero trauma.

Uomini come Nixon (lo spione dei suoi avversari), come Kissinger (il grande diplomatico tessitore di trame oscure), come i Bush (sempre sospettati di subordinare la geopolitica a loschi interessi petroliferi) sono stati gli uomini di un’era post-guerra fredda. Dopo la fine della divisione del mondo in due blocchi separati e contrapposti, le cose si andavano facendo troppo tortuose, troppo complicate, ed eccoci pronti a ipotizzare un bel complotto che tutto spiegava. La paranoia è stata, per questo motivo, a lungo il modello psicopatologico atto a raccontare la perturbante inafferrabilità del mondo contemporaneo. Oggi la mano passa, però, alla sindrome post-traumatica da stress.

Sì perché oggi ci sentiamo un po’ tutti afflitti dai disturbi psichiatrici un tempo circoscritti a quei rari soggetti che avevano dovuto affrontare un evento critico abnorme (terremoti, incidenti stradali, abusi sessuali, atti di violenza, guerre e attentati). Nella stragrande maggioranza dei casi non li abbiamo subiti davvero questi traumi ma è come se ne scontassimo le conseguenze. In ogni campo la nostra vita collettiva si agita in preda a manifestazioni continue di un multiforme panico morale: la vita politica da anni è decisa da una paura immotivata nei confronti del terrorismo (dopo l’11 settembre il terrorismo è diventato realtà quotidiana in Medio Oriente, non qui da noi), quella economica da cicliche crisi di fiducia e isterismi finanziari, quella sociale dai fantasmi terrificanti dello straniero invasore. Abbiamo avuto infanzie felici, giovinezze agiate, esistenze pacifiche, eppure accusiamo molti dei sintomi dei soldati traumatizzati in battaglia: vissuti intrusivi, stordimento, confusione, tendenza a evitare tutto ciò che ricordi in qualche modo l’esperienza traumatica (anche solo simbolicamente), incubi, insonnia, irritabilità, ansia, aggressività e tensione generalizzate. In molti, in troppi casi, cerchiamo sollievo alle nostre sofferenze proprio come tendono a fare i traumatizzati: abuso di alcol, droga, farmaci e psicofarmaci.

Insomma, il giovane Barack ci piace ma il vecchio John ci somiglia. Obama ci seduce come un divo di Hollywood ma, poi, quando ci mettiamo davanti a uno specchio nei nostri rari momenti di verità, ciò che vediamo riflessa è l’immagine di McCain che avanza guardingo e contratto con quel suo passo da animale coraggioso ma ferito. Proprio per questo verrebbe voglia di dire: avanti America, rendi l’onore delle armi al vecchio soldato, ma poi lasciatelo alle spalle. Fatti forza, fatti coraggio. Cerca per l’avvenire un diverso tipo di coraggio.
 
da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Otto anni ma sembrano sedici la Casa Bianca logora chi ci va
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2008, 05:31:10 pm
Aspirante senatrice al posto di Hillary Clinton, ha rinunciato alla riservatezza.

Abitudini, gusti e affetti finiscono sui giornali

La corsa di Caroline Kennedy "Vi racconto i miei segreti"


dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI



NEW YORK - Una piccola folla la circonda, tutti vogliono stringerle la mano e chiederle se ce la farà. Caroline Kennedy ha appena finito di correre nel Central Park insieme ai due figli minori, Tatiana e John, 18 e 15 anni, e si è fermata a prendere un caffè dietro il Museo di Storia Naturale. Pantaloncini aderenti al ginocchio, scarpe da ginnastica, cerca di essere gentile con tutti, ma fatica a superare l'imbarazzo.

Sfugge gli sguardi e risponde con un filo di voce: "Sono sicura di essere la persona giusta per sostituire Hillary Clinton".

Per anni Caroline è stata l'emblema della riservatezza: timida, scontrosa, perfino infastidita se qualcuno la avvicinava mentre correva, la fermava per strada per salutarla o peggio per farle domande sulla sua famiglia. Ma ora, nel giro di un fine settimana, la 51enne figlia del presidente più amato d'America ha dovuto cambiare l'atteggiamento di una vita e mettere tutto il suo privato in pubblico, parlare, raccontare, aprire la porta di casa ai giornalisti e apparire in televisione.

Ha rotto gli indugi ed è andata all'offensiva. Dopo settimane di critiche ha capito che se vuole diventare la senatrice di New York non può più pretendere di vivere lontana dagli sguardi e protetta dalla curiosità.

Così si è messa a raccontare tutto, perfino a soddisfare le curiosità più minute: beve thé alla menta, ascolta l'iPod, la sua musica preferita è tutta Anni Settanta, i suoi figli a Natale e al compleanno le regalano compilation di canzoni di Bob Marley, Grateful Dead e Bob Dylan, da giovane ha fumato spinelli e provato droghe ("sono stata un tipico esponente della mia generazione, ma con moderazione"), il suo film preferito è "Casablanca", ama il telefilm "Friends", ha appena visto al cinema "The Millionaire" ("Un film bellissimo e potente sulla vita in India"), ha sempre votato per i democratici e ama suo marito anche se non ne usa il cognome.

Ieri mattina i newyorkesi che non l'hanno incontrata per strada l'avevano già vista su tutti i quotidiani della città: sabato, in un caffè di Lexington Avenue, nell'Upper East Side dove vive, aveva rilasciato interviste al New York Times, al Daily News e al New York Post. La sera prima era stata ospite per quasi un'ora del canale solo notizie della città: New York One.

Ha risposto a tutte le domande tranne a quelle sul suo patrimonio e sulla sua ricchezza: "Non sono stata colpita dalla crisi così duramente come molte altre persone, sono fortunata a non vivere con il timore di perdere la casa e ad avere un marito che ha un buon lavoro (il designer Edwin Schlossberg), ma renderò pubbliche le mie finanze solo se sarò eletta".

Ha raccontato di quanto le manchi il fratello John jr. - morto in un incidente aereo quasi dieci anni fa - di come suo zio Ted la sostenga, di come sua madre Jacqueline sarebbe stata "molto fiera" del suo impegno politico, e soprattutto di come Barack Obama l'abbia incoraggiata a tentare la strada politica.

Ogni decisione verrà presa non prima di un mese, quando il governatore dello Stato di New York David Paterson dovrà nominare il successore della Clinton, ma Caroline Kennedy si è convinta di dover costruire una vera e propria campagna di propaganda in città, tale da rendere quasi obbligata la sua nomina a scapito di un altro rampollo famoso, il procuratore Andrew Cuomo, figlio del governatore degli Anni Ottanta Mario Cuomo.

Tra l'altro Andrew era sposato con sua cugina Kerry Kennedy, prima che il matrimonio si rompesse molto malamente e la coppia finisse sui giornali con i dettagli di un divorzio assai tormentato. Caroline nega che ci sia rancore nei loro rapporti, ma freddamente lo liquida così: "Ha avuto un'impressionante carriera".

Ha raccontato come Obama le abbia risvegliato la passione per la politica, anche se ha ammesso di non aver votato molte volte in passato, e per questo si è schierata pubblicamente per lui insieme allo zio Ted già a gennaio durante le primarie democratiche. Ha negato di voler fare la senatrice grazie al suo cognome, ma anzi ha sottolineato che se si fosse chiamata in un altro modo si sarebbe già candidata da tempo e ha rivendicato i suoi meriti: "Non ho una carriera politica alle spalle e non ho seguito il percorso tradizionale, ma ho buoni legami e una vita di esperienza, sono stata una madre, una scrittrice, ho raccolto fondi per le scuole, mi sono impegnata nei temi dell'educazione e ho servito la comunità".

Le sue posizioni sono più di sinistra di quelle di Hillary come di quelle di Obama, è una tipica liberal newyorkese: è contraria in qualunque caso alla pena di morte, non vuole la costruzione del muro anti-immigrati al confine con il Messico, è per togliere l'embargo a Cuba e sostiene i matrimoni gay. Ma, come Obama, dice continuamente che vuole lavorare per superare gli schieramenti e costruire posizioni unitarie e bipartisan.

La sua piattaforma politica però, come sottolinea il New York Times, è "vaga e indefinita" e non è ben chiaro davvero con che programma si presenterebbe a Washington. Ma per i newyorkesi è la figlia di John Kennedy, e questo a guardare gli indici di gradimento sembrerebbe bastare.

Lei, che come Obama ama la magrezza, il jogging e ha parecchia autostima, su questo risponde senza indecisioni: "Non correrei se non fossi sicura di essere la migliore delle scelte".

(29 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Otto anni ma sembrano sedici la Casa Bianca logora chi ci va
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:56:11 pm
Giovani nel momento del trionfo, vecchi e stanchi a fine mandato

Uno studio medico lo conferma: lo stress del potere invecchia i presidenti

Otto anni ma sembrano sedici la Casa Bianca logora chi ci va

I colpevoli sono le responsabilità, la cattiva dieta e la mancanza di amici

E' avvisato Barack Obama: un'ora di palestra al giorno non lo salverà


dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI


NEW YORK - Alla Casa Bianca si invecchia al doppio della velocità. I volti dei presidenti al loro ultimo giorno, nel momento in cui salgono sul "Marine One", l'elicottero che li porterà via dallo Studio Ovale per sempre, sembrano essere le mappe su cui sono segnate le guerre, le crisi economiche, gli scandali, i sondaggi negativi e i disastri del loro regno. Basta osservare l'aspetto di George W. Bush quando giurò nel 2001 e confrontarlo con le immagini di questi giorni: al posto di quel ragazzo pieno di vita e baldanzoso, oggi c'è un anziano e affaticato signore. Sono passati solo otto anni ma sembrano due decenni.

Non lo dicono solo le foto, quella che era una sensazione oggi è una certezza: in ogni anno passato alla Casa Bianca si invecchia di due, il deperimento fisico corre molto più veloce di quello che tocca in sorte ai comuni mortali. Lo certifica uno studio sulle cartelle cliniche dei presidenti dell'ultimo secolo, che smentisce il vecchio motto andreottiano "il potere logora chi non ce l'ha": lo stress del comando è capace di cambiare la salute dei "leader del mondo libero", il colore dei capelli, perfino la fisionomia e soprattutto li condanna a invecchiare molto più velocemente.

"Non conta se sono democratici o repubblicani, se sono stati degli atleti oppure dei fumatori: dopo otto anni da presidenti saranno invecchiati di sedici", ha raccontato al Boston Globe il geriatra Michael Roizen della Cleveland Clinic (quella dove Berlusconi si è operato al cuore) che ha studiato le cartelle cliniche, i documenti medici, i controlli annuali, i cambi di peso e di pressione di ogni presidente a partire da Theodore Roosevelt, che giurò nel 1901.

Utilizzando la formula dell'"età reale" - su cui ha scritto un libro che è stato in testa alle classifiche americane - e analizzando 191 fattori tra cui il rischio di morte e malattia, prima dell'entrata alla Casa Bianca e all'uscita, secondo Roizen è evidente un'accelerazione dell'invecchiamento dovuta alle conseguenze di uno stress continuo e prolungato. Ma anche ad una dieta forzatamente disordinata e alla mancanza di amici: "Quando si entra allo Studio Ovale ogni telefonata, ogni discorso, ogni chiacchierata sono registrate e trascritte, i presidenti diventano soli, isolati, senza amici e questo li fa sentire ancora più soffocati dai doveri e dalle responsabilità".

Anche il politologo Robert Gilbert, autore del libro "The Mortal Presidency", dopo aver studiato le presidenze da Washington a Nixon sostiene che gli occupanti dello Studio Ovale hanno una vita media più breve di quella dei membri del Congresso o della Corte Suprema, e che 25 su 36 sono morti in anticipo rispetto all'aspettativa di vita media di quel periodo.

Il medico di George Bush senior, il dottor Burton Lee, racconta che dopo aver diagnosticato una disfunzione alla tiroide al suo illustre paziente gli consigliò un'immediata vacanza o perlomeno qualche giorno di riposo, ma venne subito coperto di ridicolo e non ascoltato. Nessuno è riuscito mai a restituire il sonno o ad alleggerire l'agenda di un presidente, anche se proprio l'ultimo in carica, George W. Bush, si è distinto per andare a letto prestissimo e alzarsi all'alba per pregare o andare in bicicletta sul Potomac e, quando un giornalista iracheno ha cercato di colpirlo tirandogli una scarpa, ha mostrato un'invidiabile prontezza di riflessi nell'evitarla.

L'invecchiamento precoce è un fenomeno che naturalmente non accade solo negli Stati Uniti: uno dei cambiamenti più impressionanti lo si è visto sul volto del premier britannico Tony Blair, così come l'alleanza con Cossiga e la guerra in Kosovo ebbero l'effetto di far imbiancare in un attimo la capigliatura di Massimo D'Alema.

È avvisato Barack Obama, a cui la campagna elettorale ha già regalato ciuffi di capelli grigi: un'ora di palestra al giorno non lo salverà dall'invecchiamento, soprattutto di fronte a due guerre, alla crisi in Medio Oriente e a una recessione economica in casa. Tra quattro anni, o tra otto, guarderemo la sua foto di oggi e ci stupiremo di quant'era giovane. Lui, per sperare in un fato diverso, al pranzo dell'altroieri avrebbe fatto bene a chiedere consiglio a Jimmy Carter e a George Bush padre, nati entrambi nel 1924, per sapere come si arriva sani e salvi a 84 anni nonostante le sfide iraniane, irachene, e i sondaggi sfavorevoli.

(9 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Quel treno per Washington Obama sulle orme di Lincoln
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2009, 11:25:39 pm
Verso la cerimonia di insediamento: il presidente eletto è partito da Philadelphia un viaggio per ricordare quello del predecessore che abolì la schiavitù e riunificò la nazione

Quel treno per Washington Obama sulle orme di Lincoln

Stasera l'ingresso alla Blair House, la residenza per gli ospiti della Casa Bianca

Da domenica si entra nel vivo delle celebrazioni che vedranno il culmine martedì 20

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI

 

WASHINGTON - La più simbolica, affollata e lunga cerimonia di insediamento di un presidente degli Stati Uniti comincia con un viaggio in treno lungo sette ore con destinazione Washington: Barack Obama ha scelto di partire da Philadelphia, la città dove nel 1776 fu firmata la Dichiarazione d'Indipendenza e dove l'anno scorso ha tenuto il suo discorso più importante, quello sulla razza. Obama ha scelto il treno per ricordare il viaggio che fece Abramo Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù e riunificò la nazione, prima di giurare come sedicesimo presidente nel marzo del 1861.

Il primo nero della storia americana ad entrare alla Casa Bianca ha preso Lincoln (nato 200 anni fa: 12 febbraio 1809) come suo riferimento simbolico e come fonte di ispirazione tanto che martedì prossimo giurerà sulla sua Bibbia, lo citerà nel discorso di insediamento e perfino il banchetto inaugurale avrà le stesse portare di quello del 1861, a partire dall'anatra.

Nel suo viaggio da Philadelphia a Washington ci saranno due tappe: la prima a Wilmington in Delaware, dove salirà il vicepresidente eletto Joe Biden che vive lì, la seconda a Baltimora. Ad ogni tappa è previsto un breve discorso e un bagno di folla.
Sabato sera finalmente Obama e la sua famiglia saranno nella capitale e non dovranno dormire più in albergo - come hanno fatto nelle ultime due settimane - ma entreranno alla Blair House, la residenza per gli ospiti della Casa Bianca che i Bush non avevano concesso perché già occupata dall'ex premier australiano.

Domenica sarà la giornata della musica: sui gradini dell'immenso Lincoln Memorial sono previsti un discorso di Obama e un lungo concerto con le più grandi star della musica americana tra cui Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Beyonce, Bono e Mary J. Blige. Già qui sono previste centinaia di migliaia di persone.

Lunedì è il Martin Luther King Day, giorno di festa nazionale, e Obama e Biden parteciperanno in una serie di iniziative per onorare la memoria del reverendo che venne ucciso dopo aver portato avanti la battaglia per i diritti civili.

Martedì sarà il grande giorno, a Washington sono previste due milioni di persone per il giuramento di Barack Obama come 44esimo presidente degli Stati Uniti. La giornata si aprirà con un momento di preghiera, poi ci sarà la processione con cui George W. Bush accompagnerà Obama fino al Campidoglio (che contiene il Parlamento americano), sulle scale ci saranno la cerimonia di giuramento (alle 12 locali, le 18 in Italia) e il discorso inaugurale. Dopo la cerimonia di partenza di Bush, ci sarà un pranzo nel Campidoglio e la parata di Obama verso la Casa Bianca. Quella sera Washington ospiterà una serie di balli inaugurali alla presenza del presidente e della moglie.

L'inaugurazione rischia di avvenire in mezzo alla neve - prevista nella notte tra domenica e lunedì - come quella di John Fitzgerald Kennedy e la temperatura prevista è di un grado sotto zero.

Inutile dire che l'apparato di sicurezza è il più grande mai messo in atto per un giuramento: 42.500 persone tra militari, agenti del secret service e poliziotti vigileranno sul futuro presidente e sulla folla, in quella che si preannuncia come la piùà seguita cerimonia della storia americana.

(17 gennaio 2009)


Titolo: MARIO CALABRESI. "Batteremo la crisi e il terrorismo". Mano tesa all'islam
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2009, 12:46:35 am
La cerimonia a Washington davanti a due milioni di persone

"Batteremo la crisi e il terrorismo". Mano tesa all'islam

Obama giura da presidente "E' l'ora delle responsabilità"


dal nostro inviato MARIO CALABRESI

 

WASHINGTON - "Adesso dobbiamo rialzarci, scuoterci la polvere di dosso e cominciare un'altra volta a ricostruire l'America". L'uomo con la cravatta rossa, l'unico senza cappotto, senza guanti e senza cappello si ferma un attimo. E loro, le donne e gli uomini che lo hanno portato fino in cima alle scale del Campidoglio, che lo hanno aspettato per ore battendo i piedi sul terreno ghiacciato, cominciano a scandire: "Yes We Can!".

Il coro, potente, parte da lontano, dalle scale del Lincoln Memorial, ma è contagioso: attraversa tutto il cuore di Washington e in pochi secondi arriva sotto il palco di Barack Obama. Lui ricomincia a parlare, più veloce del solito, forse per l'emozione, forse per il freddo, forse perché sono in ritardo per colpa del predicatore evangelico Rick Warren che non ha rispettato i tempi, ma il messaggio arriva chiarissimo: "C'è bisogno di una nuova Era di responsabilità: abbiamo dei doveri verso noi stessi, la nostra nazione e il mondo".

Barack Obama alla fine sceglie la strada tracciata da John Kennedy, sceglie di chiedere al suo popolo, a quei due milioni di persone che si sono messe in fila alle quattro del mattino e che ora ha davanti, ai milioni che lo ascoltano da casa, dai megaschermi montati a Times Square a Manhattan o dai piccoli televisori accesi nei caffè di Seattle, di riscoprire l'impegno. Di rimboccarsi le maniche "perché ovunque guardiamo c'è lavoro da fare", di riscoprire i valori antichi per ricostruire l'America e la sua immagine: "Duro lavoro e onestà, coraggio e correttezza, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo".

Questa volta, nella più eccezionale e scenografica delle inaugurazioni presidenziali, i protagonisti sono due: Barack Obama che diventa presidente a mezzogiorno in punto - come prevede la Costituzione - anche se non ha ancora fatto in tempo a giurare, e questa folla di cui non si riesce a vedere la fine. Perfino i cecchini appostati sulla cupola del Campidoglio, con i loro immensi binocoli, non sanno dove si conclude quel mare di teste. Sono arrivati per mille ragioni diverse: perché credono nella pace, nella difesa dell'ambiente, nella fine delle divisioni razziali, nella sanità per tutti, in una scuola più accessibile, nella chiusura dei tribunali speciali o semplicemente nel ritorno dell'impegno politico.

Obama riassume tutto in una sola frase: "Siamo riuniti qui oggi perché abbiamo preferito la speranza alla paura, l'unità al conflitto e alla discordia". Ma c'è un motivo in più, che Obama non può dire: il suo arrivo alla Casa Bianca significa la fine della stagione di George W. Bush e Dick Cheney. Quando il copione che regola l'ordine di apparizione annuncia il vicepresidente e tutti lo vedono entrare su una sedia a rotelle partono piccoli applausi provocatori, risate, ironie. Cheney ha avuto il colpo della strega mentre spostava scatoloni durante il trasloco dalla residenza ufficiale dell'Osservatorio navale alla sua casa a McLean in Virginia. Non riesce a camminare.

Ma il vero colpo viene da Obama, ed è la sua frase più applaudita, l'unica capace di scatenare una lunghissima ovazione: "Respingiamo la falsa scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali". In sole dodici parole c'è la risposta ad otto anni di dottrine repubblicane, ad un mese di interviste in cui il vicepresidente ha sostenuto che la tortura e i tribunali speciali sono giusti, necessari e indispensabili per difendere il Paese. Ma fa di più: tende la mano all'Islam e poi sottolinea che "l'America è amica di tutti i popoli, di tutte le nazioni e degli uomini, le donne e i bambini che cercano un futuro di pace e dignità". "Con questo spirito - aggiunge sorridendo - siamo pronti ad essere di nuovo leader".

Barack Obama sa però che la crisi economica peggiora ogni giorno e cerca di frenare l'entusiasmo, di ricordare che "le sfide sono molte, reali e gravi" e che non saranno superate "facilmente o in un breve arco di tempo". Ma non ci riesce. Ora è il momento della festa, dell'entusiasmo, della gioia, o come dice il regista Spike Lee mentre lo perquisiscono dopo due ore di coda "Questo è il Giorno". "Un giorno meraviglioso, il giorno che aspettavamo da una vita, la fine del cammino", come aggiunge mentre piange il reverendo nero Bart Ranson che marciò con Martin Luther King nella stagione dei diritti civili. Ha le scarpe nere lucide, la camicia bianca, la cravatta con i colori della bandiera ed è arrivato con un'anziana attivista bianca, Vola Lawson. Lei continua a scuotere la testa, cerca di convincersi che è vero: "Ho sempre sperato che accadesse ma non pensavo che sarei vissuta abbastanza a lungo per vederlo".

Non tutti hanno questo senso della storia, molti sono venuti perché sentivano il richiamo dell'avvenimento, perché hanno seguito gli amici, i genitori, i nonni o gli insegnanti. Fotografano Obama e si fotografano, per dimostrare che c'erano, per dare un senso a tutto quel freddo a tutte quelle ore di fila. Come gli studenti del liceo Franklin Delano Roosevelt di New York, tra i primi ad arrivare di fronte ai cancelli alle cinque del mattino. Sono partiti a mezzanotte con l'autobus da scuola, nella zona più remota del Queens, sono eccitatissimi: non dimenticheranno mai la loro gita scolastica. Dietro di loro una folla vestita come se dovesse andare a sciare, piumini, pellicce, colbacchi, scarponi. Poco prima delle sette, quando finalmente l'alba illumina il Mall, la gente arriva già fino al monumento a George Washington: sono un milione di persone. Raddoppieranno in tre ore.

La festa comincia quando le telecamere inquadrano l'arrivo del vecchio e malato senatore Ted Kennedy - che più tardi durante il banchetto si sentirà male - scatta la prima ovazione. Poi la folla festeggia Bill e Hillary Clinton e si scatena per Michelle Obama. Alle 11 e 25 finalmente arriva Barack e Aretha Franklin comincia a cantare "My Country Tis of Thee". Giura Joe Biden, poi, poco dopo mezzogiorno, sale sul podio insieme ad Obama il presidente della Corte Suprema, il giovane conservatore John Roberts, l'uomo scelto da George Bush per cambiare l'orientamento della giurisprudenza americana. Roberts però si inceppa, inverte le parole della formula del giuramento e Obama si ferma ad aspettare che si corregga. Poi giura sulla Bibbia di Lincoln.

Adesso è davvero presidente, la folla alza le mani al cielo e balla. Partono le trombe della banda dei marines, poi venti salve di cannone. A quel punto comincia il discorso. Poco meno di venti minuti. Il messaggio è di energia e di speranza.
Chiude la poetessa nera Elizabeth Alexander: quando era bambina, nel 1963, i genitori la misero la portarono qui ad ascoltare il discorso di Martin Luther King "I Have A Dream". Racconta che la sua vita quel giorno trovò una direzione.

(21 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Casa Bianca e Santa Sede trattano il Papa vuole un canale diretto con Obama
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 04:55:05 pm
Dietro le polemiche sulla ripresa dei finanziamenti ai gruppi pro-aborto un atteggiamento più pragmatico del Vaticano verso la nuova amministrazione Usa

Casa Bianca e Santa Sede trattano il Papa vuole un canale diretto con Obama

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI



NEW YORK - Il giorno del giuramento di Obama, sulla facciata della chiesa cattolica di Santo Stefano a Washington era stato issato un immenso striscione con la scritta: "Grazie presidente Bush per aver difeso la vita". Due giorni dopo, nello stesso Mall che aveva accolto due milioni di persone per le cerimonie di inaugurazione, alcune decine di migliaia di cattolici hanno partecipato all'annuale "Marcia per la Vita", dove una trentina di oratori hanno promesso di combattere ogni passo ulteriore in favore dell'interruzione di gravidanza e dove gli studenti della Ave Maria School of Law innalzavano cartelli con la scritta "Yes We Can... terminate abortion" ("Sì possiamo... far finire l'aborto").

Infine, in meno di una settimana, mezzo milione di persone hanno visto su YouTube il video di un'organizzazione antiabortista (CatholicVote. org) in cui si racconta la storia di un feto destinato ad una vita difficile ("sarà abbandonato dal padre e la madre single avrà vita dura a crescerlo") ma che negli ultimi fotogrammi si trasforma in Barack Obama. "Nonostante tutte le difficoltà - dice il messaggio - questo bambino diventerà il primo presidente afroamericano: ecco è il potenziale della vita".

Questi segnali, insieme alle prese di posizione di alcuni vescovi italiani, potrebbero far pensare che sia già scoppiata una guerra culturale e di valori tra la Chiesa cattolica e il nuovo presidente degli Stati Uniti. Ma altri particolari raccontano invece gli sforzi della Casa Bianca e del Vaticano per tenere aperto un dialogo e per evitare uno scontro aperto in un Paese in cui il 53 per cento dei cattolici ha scelto Obama. Un dettaglio ben presente sul Tevere e sul Potomac: oggi, da entrambe le parti, si vuole evitare un nuovo caso Zapatero.

Obama è stato attentissimo a non dare connotati ideologici alle sue scelte: non ha ancora revocato - lo si aspettava il primo giorno - l'ordine esecutivo di Bush che vieta la ricerca pubblica sulle cellule staminali embrionali; non ha preso decisioni sull'aborto nell'anniversario della sentenza della Corte Suprema, come fecero sia Clinton sia Bush; e quando venerdì ha cancellato il divieto di dare fondi pubblici alle ong che fanno pianificazione familiare nei Paesi in via di sviluppo, non ha fatto alcun discorso pubblico. Nel 1993 proprio Clinton fece la stessa scelta - di abolire il divieto voluto da Reagan - mentre era in corso la "Marcia per la Vita" e quando la notizia arrivò al ricevimento a cui partecipavano i cardinali americani giunti a Washington, il commento fu: "Non ci ha neppure fatto la cortesia di aspettare che lasciassimo la Capitale". Obama questa cortesia l'ha fatta e nel comunicato diffuso venerdì sera ha sottolineato di voler mettere fine "ad un dibattito stantio e infruttuoso che è servito solo a dividere", e di voler evitare "ogni politicizzazione del tema".

I vescovi americani, pur dicendosi profondamente delusi, non hanno ancora scelto lo scontro e preferiscono tenere aperto un canale di dialogo perché sperano che Obama non appoggi e non firmi il Freedom of Choice Act (Foca), la legge in discussione al Congresso che prevede una rimozione di tutti i limiti all'aborto decisi negli ultimi anni a livello federale e statale.

Anche John Allen, vaticanista della Cnn e editorialista del National Catholic Reporter, presentando alla New York University l'edizione americana del volume di Massimo Franco sulla storia dei rapporti tra la Santa Sede e gli Stati Uniti ("Parallel Empires", pubblicato da Doubleday) ha sottolineato che oggi non c'è un clima di scontro aperto ma che la guerra scoppierà proprio se il presidente firmerà il Foca.

Finora non una sola parola di condanna è venuta dal nunzio apostolico a Washington, monsignor Pietro Sambi, ma anzi sono stati notati - anche con disappunto da parte degli ambienti più conservatori del cattolicesimo americano - i gesti non richiesti dalla prassi di Benedetto XVI: due telegrammi di congratulazioni e una telefonata in poche settimane. Nel primo, mandato il giorno dell'elezione, il Pontefice si rallegrava per "l'avvenimento storico", nell'ultimo - inviato martedì - esprimeva il desiderio di collaborare per combattere "la povertà, la fame e la violenza" e promuovere la pace.

Un atteggiamento pragmatico, che si riscontra anche nelle trattative riservate con la Casa Bianca sulla nomina del nuovo ambasciatore americano presso la Santa Sede. Obama pensava al professore cattolico Douglas Kmiec che nonostante uno storico legame con il partito repubblicano - è stato consigliere legale per Reagan e Bush padre - ha pubblicato un libro in cui spiegava perché i cattolici avrebbero dovuto sostenere il candidato nero. Ma il Vaticano avrebbe fatto sapere di non gradire la scelta e avrebbe chiesto di poter contare invece su un ambasciatore che abbia un contatto diretto con il presidente per poter avere un dialogo costante. In silenzio, e sempre in nome del pragmatismo, sembra che Obama abbia ritirato la sua scelta.

(25 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI - ritirata americana dall'Iraq Agosto 2010 missione finita.
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2009, 10:43:58 am
Annuncio di Obama fra i marines. L'ultimo soldato a casa entro 3 anni

Il discorso trasmesso in diretta ai militari di stanza a Bagdad

La ritirata americana dall'Iraq "Agosto 2010, missione finita"


dal nostro inviato MARIO CALABRESI

 
WASHINGTON - "Il 31 agosto dell'anno prossimo la nostra missione di combattimento in Iraq sarà finita", annuncia Barack Obama circondato dai marines in partenza per l'Afghanistan. Ma l'ultimo soldato americano lascerà Bagdad tra tre anni, nel dicembre del 2011. La fine della guerra voluta da George Bush, che dura da ormai sei anni, sarà lentissima e l'uscita dei 142mila militari americani avverà in due tappe: i generali hanno convinto il presidente, che aveva promesso di riportare tutti a casa in soli 16 mesi, che non si poteva fare per ragioni di sicurezza.

Il generale Ray Odierno, successore di Petraeus a Bagdad, ha ottenuto un ritiro più lungo e ragionato, tanto che il piano di uscita dal conflitto ha ottenuto il sostegno del repubblicano John McCain, ma non ha convinto la speaker del Congresso, Nancy Pelosi, i massimi livelli del Partito democratico e i gruppi liberal e pacifisti.

Il giorno dopo aver rivoluzionato la politica economica e fiscale americana, presentando un budget che alza le tasse ai più ricchi per abbassarle ai ceti medio-bassi e garantire una copertura sanitaria a tutti gli americani, Obama ieri è apparso molto più moderato nel presentare la sua strategia militare. La decisione di chiudere quella che ha sempre considerato una guerra sbagliata viene confermata, ma il presidente è sembrato preoccupato dai rischi di essere accusato di volersene andare dall'Iraq troppo in fretta. E ha ricordato che l'America ha anche "interessi strategici e responsabilità morali nei confronti degli iracheni", che deve preoccuparsi di lasciare un Paese stabile e pacificato, capace di stare in piedi da solo e di governarsi, e ha anche promesso che nei prossimi mesi la sua Amministrazione garantirà una maggiore assistenza ai rifugiati fuggiti in questi anni dall'Iraq.

Come ha poi spiegato il segretario alla Difesa Robert Gates, un nuovo picco nella presenza militare nel Paese verrà anzi raggiunto alla fine dell'anno, in coincidenza con una nuova serie di scadenze elettorali che hanno spinto ad allungare i tempi. "Lasciare a maggio - ha sottolineato Gates - avrebbe comportato problemi logistici legati alla sicurezza, visto che dopo le elezioni occorre sempre un periodo di stabilizzazione".

Così entro il 31 agosto del prossimo anno torneranno a casa tutti i battaglioni da combattimento, circa 100mila uomini, ma per altri 16 mesi le truppe a stelle e strisce - con un numero di soldati compreso tra 35 e 50mila - resteranno ancora a Bagdad per garantire la sicurezza dei civili, l'addestramento dell'esercito iracheno e le missioni anti terrorismo. I militari rimasti non avranno compiti e missioni di combattimento, ma una quota importante di loro sarà pronta a farlo se necessario. E questo non è proprio piaciuto alla Pelosi e ai leader democratici al Congresso, che avrebbero preferito che in Iraq rimanesse soltanto un piccolo contingente di non più di 15mila uomini.

Obama nello stesso tempo ha rimesso al centro della sua strategia l'impegno contro Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan, "fronte centrale della lotta al terrorismo", e ha rilanciato la diplomazia, enfatizzando la necessità di coinvolgere anche la Siria e l'Iran nel processo di pace in Medio Oriente, "per raggiungere una pace duratura tra Israele ed il mondo arabo".

Il lungo discorso sul futuro dell'impegno americano in Iraq è stato fatto in mezzo ad una folla di soldati in mimetica e con la testa rasata a zero, alla base dei Marines di Camp Lejeune in South Carolina, da cui partiranno in 8.000 per Kabul. Le parole di Obama erano anche trasmesse in diretta alle truppe americane in Iraq, che hanno sottolineato con un lungo applauso l'annuncio della fine della loro missione.

Prima di prendere la parola davanti ai militari, Obama aveva informato della sua decisione il suo predecessore alla Casa Bianca, George W. Bush, e il premier iracheno Nuri al Maliki, a cui ha anche comunicato che il nuovo ambasciatore a Bagdad sarà il veterano della diplomazia americana Christopher Hill. Il diplomatico, fino ad oggi, era stato impegnato nelle trattative sul programma nucleare della Corea del Nord.

I marines hanno accolto Obama con un boato e lo hanno interrotto diverse volte nel corso del suo intervento, soprattutto quando il neo presidente ha elogiato il lavoro ed il sacrificio dei soldati americani per difendere la libertà degli iracheni. "Voglio essere molto chiaro - ha sottolineato -: abbiamo mandato le nostre truppe per rimuovere il regime di Saddam Hussein e voi avete portato a termine il vostro lavoro". L'applauso più grande però è arrivato quando ha annunciato l'incremento del budget militare che consentirà di aumentare la paga dei soldati: "Aumenteremo il vostro salario, continuando a fornire assistenza verso i vostri bambini". E con questa ovazione il presidente ha concluso il suo discorso più difficile da quando è stato eletto.

(28 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Il weekend di paura dei manager Aig
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2009, 09:02:14 am
ECONOMIA     

Il racconto. "La sera lasciate l'ufficio in gruppo e parcheggiate in zone ben illuminate"

Lo "sceriffo" Cuomo cavalca la protesta e pubblica i nomi di chi non vuole pagare

Il weekend di paura dei manager Aig

Minacce e picchetti, bonus restituiti

"E' la rabbia populista" titola in copertina il settimanale Newsweek

dal nostro corrispondente MARIO CALABRESI
 

NEW YORK - Lunedì mattina la polizia è stata mandata a presidiare le sedi del gigante assicurativo Aig. Lunedì sera nove dei dieci manager più pagati dalla compagnia hanno deciso di restituire gli assegni con i bonus milionari che avevano appena ricevuto. A convincerli è bastato un fine settimana in cui si sono ripetuti picchetti di manifestanti davanti alle loro case. Manager che pensavano di essere al sicuro nelle loro ville con piscina del Connecticut, hanno gettato la spugna raccontando di aver ricevuto lettere minatorie, minacce di morte, proteste di vicini di casa inferociti e aver scoperto fotografi dei giornali popolari appostati ad ogni angolo del loro giardino.

La notizia è stata data dal Procuratore di New York Andrew Cuomo, il nuovo sceriffo moralizzatore di Wall Street, che si è vantato di aver già recuperato ben 50 dei 165 milioni di dollari dello scandalo. Un terzo di quei bonus milionari distribuiti da una compagnia che sta ancora in piedi solo grazie a 170 miliardi di fondi pubblici. La verità è che Cuomo - che grazie a questa campagna si sta costruendo le basi per diventare governatore di New York - aveva promesso di rendere pubblica la lista con i nomi e le cifre di chi ha ricevuto i bonus, per dare in pasto alla rabbia populista delle facce e degli indirizzi. Poi però, per rendere il suo messaggio ancora più chiaro e minaccioso, aveva aggiunto: "Certo se una persona restituisce i soldi non penso sia nell'interesse pubblico renderne noto il nome. Chi rimanda indietro il bonus vedrà il suo nome scomparire della lista". La minaccia dello sceriffo è funzionata alla perfezione.

A dire la verità il bus degli attivisti che nel fine settimana ha fatto il giro delle ville dei manager aveva solo quaranta manifestanti a bordo, mentre i giornalisti al seguito erano almeno il doppio, ma era il sintomo di qualcosa che su internet, nei blog, sui tabloid e nelle radio locali ha preso il sopravvento: la "Rabbia Populista". La definizione è stata coniata dal settimanale Newsweek che gli ha dedicato la sua ultima copertina e la paragona al movimento di fine '800 che prendeva di mira gli avidi finanzieri che non avevano a cuore gli interessi pubblici.

La rabbia populista covava da mesi, è cresciuta giorno per giorno alimentata dall'emorragia di posti di lavoro, dal dimezzarsi dei risparmi investiti in borsa, dal crollo del valore delle case e dei fondi pensione, dal fallimento e dalla chiusura di fabbriche, negozi, attività artigianali, dall'incredulità per la fine di un mondo che sembrava essere destinato ad una crescita continua. I suoi toni vendicativi e disperati per tutto l'autunno hanno trovato sfogo nella campagna elettorale, quest'inverno sono stati tenuti a bada dalla speranza di una catarsi rappresentata dall'insediamento del nuovo presidente. Ma la situazione economica ha continuato a peggiorare, i pignoramenti delle case non si sono fermati, tanto che in molti cominciavano a ragionare su come l'America sia immune da moti di protesta e rivolte popolari.

Il fatto è che la rabbia non trovava un simbolo su cui scaricare tutta la sua furia. Poi, nel giro di due settimane, ecco presentarsi le prede ideali: il più grande distruttore di ricchezza privata della storia americana e un gruppo di manager avidi e senza scrupoli, colpevoli di aver fatto crollare il sistema finanziario, ma premiati con i soldi dei contribuenti. Nemmeno uno sceneggiatore di Hollywood avrebbe potuto fare meglio, immaginare due capri espiatori più perfetti e adeguati alla situazione di Bernie Madoff e dei manager del colosso assicurativo AIG. Secondo un sondaggio di Usa Today di ieri mattina il 69% degli americani pretende che tutti i soldi vengano restituiti subito e la quasi totalità dei cittadini si augura che Madoff resti in cella fino all'ultimo dei suoi giorni.

Per capire il clima è utile recuperare il memorandum mandato a tutti i dipendenti di Aig la settimana scorsa dall'ufficio della sicurezza interna: si raccomandava ad impiegati e manager di prendere ogni misura precauzionale per la loro incolumità personale. "Quando uscite dal palazzo - si legge - siate vigili e prudenti e se notate comportamenti sospetti o qualcosa di minaccioso chiamate immediatamente soccorso e seguite queste regole: 1) Non portate mai con voi cappellini, borse o ombrelli con il logo della compagnia; 2) Assicuratevi di non indossare il tesserino di riconoscimento fuori dall'ufficio; 3) La sera uscite in gruppo e parcheggiate sempre in zone ben illuminate; 4) Evitate conversazioni pubbliche su Aig e non parlate con i giornalisti; 5) Assicuratevi che ogni visitatore sia sempre accompagnato quando entra nel palazzo; 6) Date l'allarme se vedete una faccia sconosciuta nei corridoi o negli uffici; 7) Non lasciate mai nessuna porta aperta e non fate entrare nessuno insieme a voi". E per concludere, nel fine settimana sono state tolte le insegne dalla facciata del quartier generale a Wall Street.

La portata della rabbia è stata tale da spingere il Congresso a votare una legge punitiva, che promette di tassare al 90% i bonus, assolutamente impensabile per gli Stati Uniti, che contraddice anni di pensiero liberale e capitalista. Una legge che Obama è andato in televisione a bollare come anticostituzionale. Ma la rabbia è stata così visibile da spingere il presidente a fare conferenze stampa, comunicati e interviste tv e da mettere in discussione la poltrona del ministro del Tesoro Tim Geithner, salvata solo da un rialzo record di Wall Street lunedì pomeriggio. E' una rabbia su cui hanno soffiato tv, giornali e radio, è la rabbia dell'americano medio che si vede impoverito e sommerso dai debiti, è la rabbia di quelle pianure che i repubblicani sanno benissimo come incendiare.

Obama, per correre ai ripari, dice che con la rabbia non si può governare ma nello stesso tempo avvisa i banchieri: "Vi consiglio di andare a fare un giro fuori da New York, in North Dakota, in Iowa o in Arkansas, dove la gente sarebbe eccitata di guadagnare 75mila dollari all'anno senza bonus, solo così capirete quanto è frustrata". I soldi tornano indietro, Madoff è in una cella di 5 metri quadrati, ma la rabbia populista non sembra ancora soddisfatta. Per fermarla Obama ha bisogno di una sola cosa: la ripresa.

(25 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Obama, arrivo soft a Londra
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2009, 11:31:20 pm
Obama, arrivo soft a Londra

E fra i media, new entry e lotteria
 
Il presidente Usa all'arrivo, insieme alla moglie Michelle

Mario Calabresi


LONDRA - L'addio di George W. Bush all'Europa ancora se lo ricordano all'aeroporto di Heathrow: quasi un anno fa il traffico allo scalo londinese impazzì per l'arrivo dell'Air Force One, i ritardi dovuti alle eccezionali norme di sicurezza si trascinarono per un'intera giornata. Tanto che il secret service fu costretto a spostare l'aereo in una base militare due ore a nord di Londra e Bush dovette decollare da lì.

Per evitare un nuovo incubo, il benvenuto a Barack Obama è avvenuto allo scalo di Stansted, dove fa base la compagnia low cost Ryanair. Ma per non disturbare gli inglesi che scappano alle Canarie fuori stagione, il presidente è stato relegato nel terminal privato di Mohamed Al Fayed, il proprietario dei grandi magazzini Harrods, che con questo stesso marchio ha fondato una compagnia di elicotteri, aerei privati e un piccolo scalo per manager e vip.

Barack e Michelle, al loro primo volo trascontinentale sull'Air Force One, sono saliti subito sul gigantesco elicottero presidenziale, il Marine One. Non sono entrati nemmeno nel terminal, non sanno che là dentro si vendono i famosi orsetti di Harrods, che forse Malia e Sasha avrebbero gradito.

***
Nonostante la crisi economica e quella della stampa, i giornalisti partiti da Washington per seguire il primo viaggio internazionale di Barack Obama sono il doppio di quelli che volavano con George W. Bush. Alla base militare di Andrews in Maryland c'erano più di 150 persone in fila per entrare allo "Zoo", questo il soprannome affibiato da decenni al charter della United che trasporta i giornalisti. A bordo dell'"Air Presse One", il Boeing 777 che la Casa Bianca organizza per l'informazione, per la prima volta ci sono quelli di Al-Jazeera, tre televisioni turche, una dozzina di giornalisti giapponesi e il Chicago Tribune (non poteva mancare il giornale della città del presidente) che pure è in bancarotta, ma non più il Los Angeles Times che viaggia in cattive acque. Ma a dimostrare come sta cambiando il mondo dell'informazione, e a sottolineare l'attenzione della Casa Bianca verso i nuovi media, si è saputo che l'inviato del sito internet americano "Politico" è entrato a far parte del gruppo dei pochissimi fortunati che viaggiano direttamente sull'Air Force One con Obama.

* * *

A dimostrazione di come il gioco sia popolare in tempi di recessione, allo "Zoo" è stato anche stabilito il record del montepremi della tradizionale lotteria aerea: 1580 dollari. Si chiama "Seato", perché ognuno deve segnare con un pennarello il numero del proprio "seat", del posto a sedere, su un biglietto da venti dollari. Questa "riffa" casalinga si fa dagli Anni Ottanta, quando l'Air Presse One volava dietro a Ronald Reagan. Purtroppo a fare da colonna sonora non c'era la voce di Rodney, gigantesco cameramen nero della tv Nbc che è stato lasciato a casa. Fino all'anno scorso si metteva in testa un cappello da joker con le punte colorate e con la bocca imitava una batteria al microfono per convincere tutti che non potevano perdere la loro occasione con la fortuna. Ma nonostante ciò è passato tra i posti il sacco di tela bianca che serve per raccogliere i biglietti verdi. Per la seconda volta nella sua carriera ha vinto una giornalista americana che lavora per la televisione tedesca Zdf, che si è portata a casa la mazzetta dei 1580 dollari. "La prima volta fu durante un volo verso l'India ma allora si mettevano solo dieci dollari a testa e la vincita non bastò neppure a pagare da bere ai colleghi. Adesso invece dopo il salvataggio delle banche, delle assicurazioni e pure dell'industria automobilistica, è arrivato quello delle mie finanze...".

(31 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Obama conquista i giovani d'Europa
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2009, 05:36:44 pm
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In viaggio con Obama     

"Lavoriamo per un mondo nuovo"

Obama conquista i giovani d'Europa


 Durante la conferenza stampa con Sarkozy tossiva e sembrava senza voce, poi è arrivato nella Rhenus arena, il palazzetto dello sport di Strasburgo, ha visto i quattromila ragazzi venuti dai licei e dalle università di Francia e Germania ed è rinato. La Casa Bianca ha ricostruito per Barack Obama la cosa che ama di più: un town hall meeting, un dibattito con il pubblico, come quelli che faceva in campagna elettorale negli Stati Uniti, quelli a cui deve la sua popolarità e l'elezione.

I quattromila studenti lo hanno accolto con una lunghissima ovazione, fotografandolo a lungo con i telefonini e lui subito ha promesso di lavorare per "un mondo senza armi nucleari, unito pacifico e libero" e di battersi contro il cambiamento climatico e "l'inquinamento che sta uccidendo il nostro Paese". Ha infiammato i ragazzi con il suo slogan preferito della campagna elettorale: "Questa è la nostra generazione, questo è il nostro tempo", poi gli ha raccontato che "il G20 summit a Londra è stato un successo perché tutti hanno lavorato insieme: siamo entrati in una nuova era di responsabilità".

A questi giovani che raccontano di essere venuti per vedere "l'uomo del cambiamento" e che lo amano - come racconta Aurelie, che ha 17 anni e viene da un liceo di Colmar in Alsazia - perché "sta mettendo fine alla guerra di Bush in Iraq" ha promesso: "Non ci interessa occupare l'Afghanistan, abbiamo troppe cose da fare per ricostruire l'America, ma abbiamo il dovere di lasciare un Paese libero e sicuro".

Parla di "liberté, egalité, fraternité" e dei valori comuni che lo hanno spinto a chiudere Guantanamo "perché gli Stati Uniti d'America non torturano", gli studenti lo appaludono a ripetizione e lui - prima di cominciare a rispondere alle loro domande - cita Robert Kennedy per dire che "viviamo in un mondo rivoluzionario e il cambiamento è nelle mani dei giovani".


IL POLLICE FURBO DI BERLUSCONI

La foto di Berlusconi che abbraccia Obama e Medvedev prendendoli alle spalle e alza il pollice destro è diventata l'immagine più famosa del G20 di Londra. Oggi impazza su tutti i giornali inglesi, Financial Times compreso, ieri sera era il pezzo forte di tutte le dirette e i notiziari dei network americani e occupava l'intera home page del più famoso sito politico americano: l'Huffington Post.

Con quel gesto che, sommato al rimprovero della regina Elisabetta e alle battute da bar della conferenza stampa, ha dato un'immagine sopra le righe del premier italiano, Berlusconi è riuscito però a cancellare nell'immaginario collettivo italiano e internazionale una serie di verità per lui spiacevoli.

La prima è che è l'unico premier dei Paesi del G8 a non aver avuto un incontro con Barack Obama. La seconda è che gli americani non sanno che farsene della sua offerta di fare il mediatore con i russi, glielo hanno detto chiaro il mese scorso, sottolineando che Obama parla direttamente con Medvedev e non vuole confusioni e interventi esterni. La terza è che al G20 l'Italia non ha avuto nessun ruolo chiave e nemmeno incontri bilaterali degni di nota. Ma Berlusconi, che conosce alla perfezione i meccanismi della società dello spettacolo, ha preso al volo l'opportunità di cancellare la sostanza mandando un messaggio che dice al mondo esattamente contrario: il premier italiano è amico di Obama, sta al centro dei giochi e dell'attenzione, lo ha avvicinato ai russi e sta sopra di loro come il più navigato della compagnia.

Questo voleva Berlusconi e questo è riuscito a dire con quella foto che ai palati fini appare grottesca. Tanto che sull'Huffington Post, che è il sito internet più popolare nella sinistra chic americana, l'immagine non è stata messa per prendere in giro Berlusconi ma per rappresentare il successo del G20. Il titolo era: "Pollici alzati" come se il merito fosse del Cavaliere.

(3 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Sì alla mediazione su Rasmussen
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2009, 11:22:29 am
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In viaggio con Obama     

Sì alla mediazione su Rasmussen

E la cena con Michelle è salva


STRASBURGO - Praga Magica. Barack Obama ha un solo obiettivo per il suo sabato sera: arrivare nella capitale ceca dove ha promesso a Michelle una cena romantica per loro due soli dopo cinque giorni di vertici e banchetti ufficiali.

Ma il veto messo dai turchi alla nomina del danese Rasmussen a capo dell'Alleanza Atlantica (lo accusano di non aver detto una parola durante la vicenda delle famose vignette sull'Islam) ha fatto ritardare i lavori del vertice della Nato. Così Obama, per salvare il summit e forse anche pensando alla sua serata, ha speso mezz'ora per cercare di convincere personalmente il premier di Ankara, Gul.

La mediazione e una successiva riunione di tutti i leader hanno avuto successo e così l'ex premier danese sarà segretario generale della Nato.

Obama parte in ritardo ma arriva a Praga alle 18, dormirà all'Hilton che guarda la Moldava e il sabato sera promesso si fa: cena a due e passeggiata notturna verso il Ponte Carlo. Ed è già domenica: in programma il discorso contro la proliferazione nucleare davanti al Castello. La First Lady visiterà l'antico cimitero ebraico.

Allibiti in sala stampa.

La scena di Berlusconi che fa aspettare la Merkel, passeggia da solo incollato al telefonino, non partecipa alla cerimonia del ponte sul Reno, per ricordare la pacificazione franco-tedesca, e resta a parlare al cellulare anche durante il minuto di silenzio per i caduti nelle missioni Nato, era trasmessa su megaschermi nella sala stampa del vertice dell'Alleanza Atlantica.

Centinaia di giornalisti di tutto il mondo prima si sono fermati a guardare allibiti, poi hanno cominciato a ridere come se si stesse trasmettendo una gag comica.
Le stesse immagini passavano sui televisori dell'area dove ci sono i settanta corrispondenti che viaggiano al seguito di Barack Obama e tutti si sono girati a chiedere spiegazioni ai pochi italiani presenti. Ho allargato le braccia senza parole.

Quando si è saputo che era al telefono con il premier turco Erdogan, per cercare di convincerlo a togliere il veto alla nomina del danese Rasmussen a capo della Nato, l'ho riferito ai colleghi americani, ma la giornalista di Time Magazine mi ha fatto tre domande insistenti a cui non ho saputo rispondere:

"Non poteva telefonare in un altro momento?

Non ha nessuno accanto che gli spiega quali sono i tempi e i modi delle cerimonie internazionali?

Era necessario parlare durante il minuto di silenzio per i morti?".

(4 aprile 2009)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. (Silvio lo ricerca e raccatta un invito. ndr)
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2009, 11:54:45 am
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In viaggio con Obama     

Il tour de force del presidente faccia a faccia con tutti, o quasi
 

PRAGA - "La marcia dei bilaterali continua", così i giornalisti americani che seguono il viaggio di Barack Obama hanno ribattezzato la nuova ondata di incontri che ha caratterizzato il sesto giorno di visita in Europa del presidente americano. In meno di una settimana Obama ha visto tutti i leader dei Paesi del G8, poi cinesi, indiani, sauditi e sud-coreani, cui ha aggiunto i turchi e per par condicio i greci, i cechi e per non far dispiacere a nessuno pure i polacchi. Ha sanato la ferita degli anni di Bush e ha voluto riservare un faccia a faccia allo spagnolo Zapatero, messo al bando dalla Casa Bianca repubblicana, gratificandolo con il migliore complimento della settimana: "E' un mio amico e un leader che comprende non solo la straordinaria influenza della Spagna nel mondo, ma che prende questa responsabilità molto seriamente".

Tra un vertice e l'altro, tra un discorso e una conferenza stampa è riuscito ad incontrare ex presidenti come Havel e possibili futuri primi ministri come il britannico David Cameron, solo per Silvio Berlusconi non è riuscito a trovare un attimo di tempo. Ma il Cavaliere, rendendosi conto che ormai la situazione si faceva pesante, ha rotto gli indugi alla fine del vertice di Praga e si è fatto invitare a Washington: "I giornalisti italiani - ha detto a Obama - attribuiscono molta importanza al fatto che non c'è stato questo incontro bilaterale, ma se me lo chiedi, io te lo concedo...". A quel punto il presidente americano gli ha detto che lo aspetta alla Casa Bianca prima dell'estate. Il tormentone è finalmente finito, non solo per i giornalisti ma anche per la diplomazia italiana, che le aveva inutilmente provate tutte per trovare un buco nell'agenda di Obama.

Barack Obama è stato svegliato poco dopo le quattro e mezza del mattino dal suo portavoce Robert Gibbs, doveva rispondere urgentemente al telefono: dall'altra parte del filo, a Washington, c'era il generale James Cartwright il vice capo di stato maggiore delle forze armate americane. Aveva chiamato per avvisarlo che la Corea del Nord aveva lanciato il suo missile sul Pacifico.

Il presidente se lo aspettava, solo non sapeva in che notte lo avrebbero svegliato e non si è più riaddormentato: ha chiamato il ministro della Difesa Gates e poi si è incontrato con il suo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale James Jones, che nel frattempo aveva raccolto tutte le informazioni che arrivavano dai servizi segreti e dai satelliti.
Ha preparato con Gibbs una dichiarazione di commento, che è stata mandata ai giornalisti alle sei del mattino, e ha aggiunto due frasi nel discorso che avrebbe letto alle dieci sulla piazza del Castello di Praga.

La tappa praghese doveva essere quella dello svago per la coppia presidenziale, ma prima c'è stato il ritardo a Strasburgo dovuto allo scontro sulla nomina del segretario generale della Nato, poi la scelta per motivi di sicurezza e di stanchezza di restare in albergo - così la cenetta romantica con Michelle si è svolta nella suite dell'Hilton con vista sulla Moldava - infine la telefonata nel cuore della notte.

I collaboratori del presidente hanno dormito ancora meno: a mezzanotte il capo dello staff Rahm Emanuel e il super consigliere David Axelrod se ne stavano sul Ponte Carlo a guardare il panorama del castello illuminato. Hillary Clinton invece era a cena al ristorante, ma lei si è sempre vantata in campagna elettorale di essere pronta a rispondere ad una chiamata d'emergenza alle tre del mattino: il dittatore di Pyongyang le ha regalato un'ora e mezza di sonno in più.

(5 aprile 2009)

da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Obama, visita a sorpresa a Bagdad dopo il viaggio in Europa
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 05:20:28 pm
L'Air Force One, dopo il decollo da Istanbul, si dirige a sorpresa verso la capitale irachena

L'incontro con Maliki, mentre con Talabani un colloquio telefonico: "E' solo a causa del maltempo"

Obama, visita a sorpresa a Bagdad dopo il viaggio in Europa

dal nostro inviato MARIO CALABRESI

 
BAGDAD - Dopo il decollo da Istanbul, alle 14 e 20, a sorpresa l'Air Force One non si è diretto a Washington ma in Iraq. Barack Obama è infatti atterrato a Bagdad dove ha incontrato i militari americani e sta per vedere il premier Nouri al-Maliki.

"Sono venuto per ringraziare le truppe - ha detto Obama mentre si faceva fotografare con i soldati alla base di Camp Victory - perché stanno facendo un lavoro straordinario. In questo periodo stiamo investendo un sacco di tempo a cercare di raddrizzare la situazione in Afghanistan ma c'è ancora molto lavoro da fare anche qui".

Il presidente aveva programmato una visita al presidente Talabani e al primo ministro, ma il maltempo ha impedito il decollo degli elicotteri e i comandi militari hanno preferito cancellare lo spostamento. Così Obama si è diretto al palazzo di Al Faw, che Saddam aveva fatto costruire a soli 5 chilometri dall'aeroporto internazionale, dove lo aspettavano 600 soldati e dove si è riunito con il generale Ray Odierno. Il premier Maliki però lo ha raggiunto e così ci sarà il faccia a faccia, mentre con Talabani parlerà solo al telefono.

Prima di ripartire, non si sa a questo punto se alla volta di Washington o dell'Afghanistan, Obama decorerà dieci soldati con la medaglia al valore.

"La scelta dell'Iraq è stata fatta per tre ragioni - ha spiegato in volo il portavoce Robert Gibbs - : perché è vicino alla Turchia, per il bisogno di consultarsi con gli iracheni perché ogni possibilità di progresso è legata a soluzioni politiche, e perché lì c'è la maggioranza delle truppe americane che meritano l'attenzione del presidente".
 
(7 aprile 2009)



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Rubriche » In viaggio con Obama     

Il mistero delle agende
 

ISTANBUL - "E' stato un viaggio di enorme valore: Obama ha avuto 14 faccia a faccia con leader stranieri, sono stati utilissimi per creare una relazione personale". Mentre il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs tira le conclusioni del tour europeo del nuovo presidente americano, torna la domanda sul perché non sia stato trovato lo spazio per incontrare Silvio Berlusconi, unico leader dei Paesi del G8 a non aver avuto un bilaterale con Obama.

Gibbs allarga le braccia: "Non lo so, dovrei fare un'indagine". L'interrogativo allora passa a David Axelrod, lo stratega del presidente, anche lui presente all'incontro finale con i giornalisti: "Non ho una risposta sul perché non si siano visti, anche se nei summit della Nato e al vertice Usa-Ue di questi giorni si sono incontrati e sono in contatto". Ma Berlusconi verrà alla Casa Bianca? "Al momento non è ancora stata stabilita una data e non sono in grado di fare una previsione. Si vedrà". Poi arriva il vice consigliere sulla Sicurezza nazionale Denis McDonough e Axelrod si interrompe: "Forse lui lo sa perché non si sono visti". Ed ecco la spiegazione finale e definitiva: "E' stata una questione di agende: non è stato possibile trovare durante il viaggio un momento che conciliasse i rispettivi impegni dei due leader". Avete trovato posto per 14 leader, un ex presidente, un aspirante premier e non per uno degli alleati della Nato e dell'Europa? A McDonough non resta che giustificarsi: "Ma il presidente Obama ha grande stima per Berlusconi".

MARIO CALABRESI

(7 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Il presidente Obama: "Pronti al confronto con Cuba"
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:41:13 pm
Reportage.

Il presidente Obama: "Pronti al confronto con Cuba"

"Giusto". "No, è una resa". "Passaggio rivoluzionario". "Si aiuta un tiranno"

La mossa di Barack divide Little Havana

dal nostro inviato MARIO CALABRESI

 
La stagione degli uragani è cominciata con sei settimane di anticipo quest'anno a Miami: la decisione di Barack Obama di togliere le restrizioni ai viaggi e all'invio di denaro a Cuba per chi ha parenti nell'isola, l'annuncio di un nuovo inizio nei rapporti con L'Avana, ha sgretolato un mondo che resisteva da quasi mezzo secolo.

Ha spaccato le famiglie, approfondito le divisioni tra le generazioni e reso inservibile l'ultimo armamentario ideologico della Guerra Fredda. Ha creato un'attesa incredibile e dato vita ad un nuovo gioco di società che gira attorno alla domanda: "Partire o non partire?". Da lì poi la discussione ha mille variabili che si ascoltano ovunque: "Bisogna andare subito"; "Mai, non si deve tornare finché i Castro non saranno morti"; "Meglio aspettare, almeno un anno"; "Solo chi va subito può vedere che opportunità ci saranno per fare business"; "Il modo giusto per tornare è l'aereo"; "No, bisogna arrivare in barca a Varadero". Non si discute d'altro in tutta la Florida del Sud, dove i cubano-americani sono più di un milione e lo fanno con speranza, rabbia, paura o gioia.

"Non voglio andare, non voglio perdere i ricordi che conservo da 48 anni: la mia scuola, la casa dei nonni, le immagini di un Paese normale. Sono scappata da L'Avana che avevo 13 anni e se adesso ci tornassi la mia memoria sarebbe cancellata da qualcosa che non conosco. Preferisco restare qui". Teresita Gonzalez ha 61 anni ed è arrivata negli Stati Uniti nel 1961 con l'operazione "Peter Pan", quando la Chiesa cattolica portò via da Cuba 14.780 bambini. Sta mangiando da sola da David's, a Miami Beach. È una cliente abituale e i camerieri la prendono in giro: "E adesso cosa farete voi repubblicani, continuerete a combattere una guerra senza senso?". Lei non gli da retta, si sistema i capelli e il colletto della giacchetta, e racconta: "Se sei cubano e hai più di quarant'anni sei automaticamente considerato repubblicano, ma io penso che Obama abbia fatto l'unica mossa intelligente: rompere il muro. Adesso Cuba verrà contaminata ogni giorno di più da chi arriverà dall'America, e per il regime sarà sempre più difficile tenere in piedi l'immagine del diavolo a stelle e strisce".

Per la vecchia guardia della comunità cubana, quelli scappati subito dopo la rivoluzione castrista e arrivati fino al 1980, l'embargo, le restrizioni alla possibilità di viaggiare, mandare denaro e regali erano una religione, qualcosa che non si doveva discutere, il giusto castigo contro il regime e l'unico risarcimento al dolore e alla rabbia di aver perso tutto. Ai giovani, quelli che sono scappati da Cuba negli ultimi 25 anni e che hanno lasciato sull'isola amici e familiari, tutto questo sembrava invece un'ingiusta punizione verso chi non aveva avuto la fortuna di sbarcare in America.
Cinque mesi fa l'uomo simbolo della vecchia guardia, Mario Diaz Balart, aveva vinto ancora una volta, battendo sul filo di lana (52 a 48) il democratico Joe Garcia e conservando quel seggio al Congresso con cui la sua famiglia da decenni condiziona la linea degli Stati Uniti nei confronti di Castro. Mario adesso ha perso la voce, non ha più voglia di parlare con i giornalisti e si è limitato ad uno stringato comunicato scritto: "Obama ha fatto il peggiore degli errori, così arriveranno più soldi ad un tiranno che li userà per reprimere il popolo".

Lo sconfitto di novembre invece è raggiante: "Avevo perso una battaglia, ma adesso sto vincendo la guerra, i Diaz Balart e il loro mondo sono stati superati dalla storia e stanno perdendo il loro potere". Mentre Obama è a Trinidad a riscrivere i rapporti con l'America latina, Joe Garcia passeggia per Miami Beach, raccoglie strette di mano e saluti come fosse ancora in campagna elettorale. La linea del presidente era il suo programma, e molti sostengono che sia il consigliere ombra della Casa Bianca per le politiche con Cuba. Un ragazzo corre fuori da un caffè per "battergli il cinque": "Sono cinque anni che manco da L'Avana e non vedo l'ora di tornare dai miei amici, ma c'è la crisi e non so quando avrò i soldi per partire".

Tutti guardano a L'Avana, alle mosse che farà adesso il regime: "Obama ha fatto la prima mossa, adesso la palla è nel loro campo - sottolinea Joe Garcia - e tutto dipenderà da come si muoveranno. Obama ha mandato un messaggio forte a tutti i cubani: potete viaggiare, comprare, spendere e fare regali, ma se non ve lo faranno fare allora dovrete prendervela con il regime non con l'America. È un passaggio rivoluzionario: se io adesso spedisco a mio fratello i soldi per comprarsi una casa o un antenna parabolica per guardare la tv satellitare e gli viene impedito, la colpa non è più degli Stati Uniti che affamano ma di Fidel e Raul Castro".

"Sono arrivato che avevo 13 anni e ricordo il mio stupore uscendo dall'aeroporto nel vedere le macchine americane, e poi la solitudine perché non parlavo inglese". Andy Diaz, 27 anni, all'ultimo mese della scuola di legge, fa parte di quella generazione "americanizzata", che ha lasciato i quartieri storici dell'immigrazione, non fa più vita di comunità e ha votato per Obama: "Non sono mai più tornato a Cuba, ma ho altre priorità: prima voglio visitare l'Italia. Mia madre non sta nella pelle mentre mio padre ha paura, perché nessuno sa come si comporterà il regime: è chiaro che se aumenteranno i viaggi loro perderanno il controllo su chi arriva e vedranno svanire l'immagine di un nemico di cui hanno un bisogno immenso. Perché i cubani americani andranno a casa dei parenti, e smonteranno gli stereotipi, racconteranno che in America certo c'è anche il razzismo, la povertà e un sistema sanitario iniquo, ma puoi lavorare, comprarti casa, viaggiare, mangiare quello che vuoi e che non è così male. Per questo molti hanno timore che il regime cercherà un nuovo scontro, un incidente che congeli tutto come quando per frenare Clinton abbatterono due piccoli aerei che lanciavano volantini".

Si avvicina il cameriere, sente che parliamo di Cuba, racconta che non vede l'ora di andarci per sentire la musica dell'isola ma poi rivela la nuova paura della città: "Se a L'Avana apriranno un paio di casinò, se ci saranno alberghi e ristoranti decenti, allora nessuno verrà più qui: Miami diventerà solo uno scalo per Cuba e perderemo tutti i turisti. Perché là il mare è un'altra cosa e c'è la vera atmosfera dei Caraibi. Anche a Cancun farebbero bene a cominciare a preoccuparsi".
A Little Havana ci sono ancora i cartelli di McCain nei giardini delle case, e l'industria della nostalgia è sempre fiorente: la gente continua ad andare nei piccoli musei dove guarda le foto di com'era Cuba negli Anni Cinquanta, sfoglia i vecchi elenchi del telefono per ritrovare gli amici, prende in mano le riviste che ricordano un mondo perduto. Al ristorante Versailles, il cuore dell'opposizione al regime castrista - fuori c'è una targa che lo definisce "Centro culturale e patriottico dell'esilio" - l'atmosfera è mesta, quando Obama ha fatto il suo annuncio non c'era nessuno, non hanno trovato la forza per protestare. Quando si è saputo che Fidel stava per morire qui fuori la gente in festa riempiva sette isolati, ma adesso c'è la sensazione che il gioco sia cambiato: le regole non si dettano più da qui.

Il vecchio Armando Perez Roura, l'ottantenne che dirige Radio Mambi, la voce della destra anticastrista a Miami, è scatenato: "Obama ha fatto una concessione unilaterale ad un dittatore, l'avevo sempre detto che era un comunista". Ma anche ai tavoli del Versailles tutto è più sfumato. "Io sono contraria - dice Ana Maria Alemany - così si aiuta il governo, gli si danno soldi per resistere". Ma l'embargo non ha fatto cadere Castro: "La colpa è stata degli europei che sono stati ciechi e accondiscendenti per troppi anni con Fidel. Mi manca molto Cuba, ma non ci tornerò mai, almeno finché ci sono i comunisti". Il marito Joaquim, avvocato benestante, è molto meno netto: "Nel lungo periodo si rivelerà una scelta saggia, perché chi è rimasto a Cuba si renderà conto che vive nel posto sbagliato e delle falsità che per anni gli ha raccontato il regime". Ma l'idea di un lungo disgelo è prostrante per chi aveva sperato di veder crollare Castro, e Joaquim sconsolato si avvia verso la macchina: "Nemmeno la festa per la morte di Castro siamo riusciti a fare, ma morirà mai? Ho smesso di sperare anche in questo". La loro figlia invece ha votato per Obama e appena può andrà a vedere che cos'è Cuba.

Miami è divisa tra la curiosità dei giovani, la nostalgia degli adulti e la paura di restare delusi dei vecchi. Lo scrittore Norberto Fuentes, l'autore di "Hemingway a Cuba", il dissidente che uscì dalla galera solo grazie a Gabriel Garcia Marquez, alla domanda su cosa farà il giorno che rimetterà piede a L'Avana risponde malinconico: "Io non ho nessuna nostalgia di tornare: cosa ci vado a fare, a coltivare delusioni?".

(19 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: MARIO CALABRESI. L'esempio di Torino nel mondo in crisi
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 10:07:57 am
30/4/2009
 
L'esempio di Torino nel mondo in crisi
 
MARIO CALABRESI
 
Viviamo tempi inaspettati: l’automobile italiana va in soccorso di quella americana, un giovane afroamericano guida la nazione più potente del mondo, in pochi mesi è stata bruciata più ricchezza che in due guerre mondiali. L’incertezza è la cifra delle nostre vite e anche i giornali sono divisi tra la passione di raccontare una stagione eccezionale e la paura per una crisi che non li risparmia. Nel mondo occidentale c’è chi chiude i quotidiani, chi scommette sulla loro scomparsa e chi si ostina a credere, tenacemente, che proprio in mezzo alle difficoltà si debba guardare lontano. Immaginare sfide completamente nuove. «Non è importante quante volte cadi ma quanto in fretta ti rialzi», recita un motto popolare negli Stati Uniti: farlo proprio significa cercare di vedere possibilità e occasioni nelle avversità.

Così nella crisi globale della carta stampata, davanti alla necessità di ripensare i modelli tradizionali di giornalismo, Torino, casa di questo giornale, può esserci di esempio: si era persa nella fine della città fabbrica, ma ha trovato la forza di ripensarsi e di rinascere diversa, piena di fermenti e di energie nuove. Si parla molto del declino dei giornali e non possiamo negare che la tecnologia moltiplica le possibilità di ricevere informazioni e riduce i tempi dedicati alla lettura, ma poi ogni mattina oltre trecentomila persone ripetono il gesto di comprare La Stampa. A tutto questo dobbiamo provare a dare risposte: il flusso quotidiano su Internet, le notizie più fresche sui cellulari e le e-mail, mentre il senso della giornata troverà ancora il suo approdo naturale nella carta stampata.

Diversi i supporti, identici i valori di fondo, quelli che si sono tramandati per quasi un secolo e mezzo: l’amore per il lavoro fatto con cura, l’etica della responsabilità, i fatti, non le ideologie. Così come la fedeltà alla tradizione laica, da intendersi come rispetto delle posizioni, delle idee, delle fedi.

La Stampa continuerà ad essere un giornale con le sue radici in Piemonte, in Liguria e in Valle d’Aosta, ma che non rinuncia a parlare al resto dell’Italia e a raccontare cosa accade a Napoli e a New York, a Parigi e a Pechino. Il segreto di questo giornale è di non essersi mai chiuso nel suo territorio ma di aver raccolto gli stimoli migliori che venivano da tutto il Paese e dall’altra parte delle Alpi.

Ho avuto la fortuna di seguire Barack Obama, Presidente da cento giorni, in giro per gli Stati Uniti negli ultimi due anni e al di là delle sue parole d’ordine, «Speranza» e «Cambiamento», trovo che la sua vera forza sia la capacità di guardare avanti, di non farsi ingabbiare dentro schemi ideologici che appartengono ad un altro secolo. «Sono convinto - ha scritto nel suo libro più famoso - che ogni volta che esageriamo, demonizziamo o siamo arroganti, siamo condannati alla sconfitta. Sono la caccia alla purezza ideologica, l’ortodossia rigida e l’eterna prevedibilità del dibattito che ci impediscono di vedere le sfide che abbiamo davanti».

La sfida per i giornali è oggi quella di riuscire a decifrare la complessità offrendo chiavi di lettura. È di essere credibili, affidabili, corretti e curiosi. Il giornalismo non è intrattenimento, tanto meno l’inseguimento dell’ultima stranezza: mi sta a cuore che si spieghi se la febbre suina è davvero pericolosa, senza cadere in un sensazionalismo fine a se stesso, o se un terremoto può essere previsto senza farsi condizionare dalle convenienze politiche. Adesso per me comincia un’avventura nuova come direttore di questo giornale, e ho un doppio debito di gratitudine verso Giulio Anselmi non solo per avermi lasciato un giornale bello e autorevole, ma anche per aver creduto in me quando mi assunse all’Ansa diventando il mio primo direttore.

Il direttore che invece non ho mai avuto è stato Indro Montanelli. Quando vent’anni fa mi chiese se volevo fare il praticante, non ne avevo l’età e stavo iscrivendomi all’università, però poi mi regalò una passeggiata nei giardini di Porta Venezia, a Milano. Di quella camminata mi piace ricordare la sola cosa che secondo lui avrei dovuto stamparmi in testa: «I giornalisti sono al servizio dei giornali e i giornali dei lettori. Chi pensa il contrario farebbe bene a cambiare mestiere».


mario.calabresi@lastampa.it

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Marchionne: "Un matrimonio perfetto, non potevamo mancarlo"
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 11:41:45 pm
1/5/2009 (6:25) - INTERVISTA

Marchionne: "Un matrimonio perfetto, non potevamo mancarlo"
 
L'Ad della Fiat: «Il mondo ci guarda, adesso non possiamo sbagliare»


MARIO CALABRESI
TORINO


«Adesso non possiamo sbagliare, siamo sotto la lente del mondo intero, tutti ci guardano e la responsabilità è enorme. Per riuscire dobbiamo restare umili e non farci illusioni perché il lavoro non sarà facile». Sergio Marchionne è felice, non lo vuole dire, ripete che come premio spera soltanto di riuscire a dormire. E’ a New York, sta per salire sull’aereo che lo riporterà in Italia dopo aver concluso le nozze con l’americana Chrysler.

Tossisce continuamente per la stanchezza ma non smette mai di parlare: «È stato un processo che avevamo cominciato ad immaginare un anno fa, ci abbiamo lavorato giorno e notte, ho sputato sangue, e devo dire che la situazione del mercato ci ha indubbiamente aiutato molto. La crisi americana ha costruito una condizione di possibilità e ha aperto delle opportunità a noi favorevoli, ma le abbiamo potute cogliere perché avevamo le idee chiare, un progetto valido in testa. Tutto questo è accaduto perché negli ultimi cinque anni avevamo sviluppato le motorizzazioni giuste, un approccio e un impegno per l’ambiente che oggi l’America voleva e di cui aveva bisogno. Così è nato un matrimonio perfetto, con una serie di incastri e di coincidenze irripetibili. Sapevo che la storia non ci avrebbe dato un’altra possibilità. Così, se non ce l’avessimo fatta, sarebbe stato un grandissimo peccato e le conseguenze negative le avrebbero pagate sia la Fiat sia la Chrysler. Invece questa unione porterà benefici ad entrambi, è una cosa che è riuscita perché non c’è stata arroganza ma tanto lavoro e una grandissima serietà e uno sforzo immenso del governo americano».

Alle dieci del mattino aveva firmato l’accordo, ma anche in quel momento non era riuscito a gioire: «A dire la verità c’erano ancora dei punti aperti, così mentre firmavo speravo valesse qualcosa, ma non c’era ancora certezza. Poi ho passato due ore a Washington ad aspettare le parole di Barack Obama, l’annuncio dell’Amministrazione. A mezzogiorno finalmente ho potuto liberare l’emozione: ce l’avevamo fatta. La Fiat ritorna negli Stati Uniti dopo anni di lontananza, dopo essere andata via in modo poco piacevole, ma torna con un know-how di valore e con gli occhi dell’America e del mondo addosso».

L’amministratore delegato del gruppo torinese sente più di tutto la responsabilità della sfida: «Non possiamo sbagliare: da quando un mese fa Obama ha parlato della Fiat ha scommesso su di noi, da quel momento su di noi si sono concentrate una pressione e una responsabilità fortissime, ci è richiesto un impegno straordinario. L’obiettivo è rafforzare la Fiat e dare la possibilità a Chrysler di risanarsi».

L’accordo con la Chrysler per Sergio Marchionne, emigrato in Canada dall’Abruzzo insieme ai genitori quando aveva quattordici anni, non è stato soltanto una grande operazione manageriale ed economica ma anche una rivincita della vita: «Sono cresciuto parlando un inglese con un marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di sei anni a perderlo, ma sono stati sei anni persi con le ragazze. L’imbarazzo di aprire bocca mi paralizzava. Pensavo che il sistema americano fosse aperto ma da emigrante non avrei mai immaginato fino a questo punto. E’ cambiato il mondo e questa volta mi sono trovato a parlare con l’accento giusto».

Sergio Marchionne percorre l’America avanti e indietro da un vita, ma ripete continuamente, tra un colpo di tosse e l’altro, che ha scoperto un Paese diverso, profondamente cambiato: «Ma lo hanno fatto restando fedeli al loro Dna: capacità di risanarsi, di mettersi in discussione e cambiare strada per ripartire, di creare nuove basi per il futuro. Certo l’America ha pregi e difetti, ma Obama in questi cento giorni ha mostrato una straordinaria capacità di visione, una chiarezza di idee e obiettivi che mi ha impressionato e non si è fatto bloccare da pregiudizi o convenienze politiche. Ha fatto un passo enorme: ha accettato di farsi aiutare da un gruppo straniero per salvare Chrysler e ci ha messo i soldi. A noi hanno chiesto tecnologia e capacità gestionali e su questo non possiamo deluderli».

Prima di ripartire insieme ad Alfredo Altavilla, che lo ha accompagnato in tutta la trattativa, ha fatto tappa a New York: «Ero su Park Avenue e mi sono fermato a guardare l’edificio dove cinque anni fa avevamo fatto la trattativa con la General Motors, dove avevamo chiuso il nostro rapporto americano riuscendo a portare a casa due miliardi di dollari. Era il 14 febbraio del 2005, il giorno di San Valentino, e mai avrei immaginato che saremmo tornati in America per sposarci. Ma questo ci dice molto della vita, ci dice che bisogna essere pronti a tutto, essere preparati e flessibili per cogliere ogni opportunità».

Ora per l’uomo che non mette mai la cravatta - «Neanche per la firma, neanche quando mi sono seduto a discutere al Tesoro con Timothy Geithner. Sono sempre restato fedele al mio maglione» - si apre una stagione nuova: «Dovrò dividere il mio tempo e la mia vita tra l’Europa e gli Stati Uniti, lo facevo già, ma ora c’è un impegno aggiuntivo e succederà ancora di più». Tossisce di nuovo: «Certo dovrò alleggerire certe cose che facevo perché ho raggiunto i miei limiti fisici e di più non posso chiedere a me stesso». Racconta che non vede l’ora di salire in aereo: «E’ piccolo e scomodo ma devo dormire a tutti i costi e riuscire a dormire sarà il mio modo di festeggiare».
Atterrato da questa parte dell’oceano, di nuovo non ci sarà molto tempo per dormire perché la partita non è finita: «Adesso dobbiamo concentrarci sulla Opel: sono loro i nostri partner ideali».

E’ a conoscenza delle preoccupazioni italiane che l’ingresso in America possa significare un disimpegno della Fiat nel nostro Paese e non si tira indietro: «Non ho mai abbandonato nemmeno per un secondo l’impegno verso il sistema italiano ma insieme ai sindacati e al governo dobbiamo essere capaci di affrontare i problemi strutturali in modo responsabile, tenendo fede a tutti gli impegni con i dipendenti. Però non possiamo non guardare ad una domanda che è calata. L’esempio che ci viene da Obama è che dobbiamo mantenere e rafforzare l’industria del Paese ma riconoscendo la realtà delle cose. Un percorso che faremo nel rispetto delle specificità del sistema europeo e del nostro radicamento italiano. Non sono diventato Marchionne l’Americano».

mario.calabresi@lastampa.it
da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Quando si spensero le luci
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 12:05:25 pm
14/9/2009

Quando si spensero le luci
   
MARIO CALABRESI


«Due mesi prima che nascesse nostro figlio mia moglie mi convinse a lasciare il fondo speculativo per cui lavoravo da anni per trovarmi finalmente un posto sicuro. Per questo al compimento dei 36 anni sono arrivato a Lehman Brothers: non volevo più correre rischi». Il broker che un anno fa, la mattina di lunedì 15 settembre, mi raccontava la sua storia mentre teneva in braccio la scatola con i pochi oggetti che aveva portato via dalla scrivania, non poteva credere che il mondo gli fosse caduto in testa. Era attonito, parlava con un filo di voce, eppure non aveva idea del crac che avrebbe investito il mondo.

Il giorno dopo vennero disattivati i megaschermi a cristalli liquidi che coprivano il palazzo della banca d’affari, sull’angolo tra la Settima Avenue e la Cinquantesima Strada, e che fino a quel momento avevano trasmesso a ritmo continuo balene megattere che saltavano fuori dal mare, iceberg polari, prati d’Irlanda e montagne rocciose. Fu un gesto simbolico: in quel momento si spensero davvero le luci di Manhattan.

Si svuotarono i negozi di lusso, i ristoranti e i grandi magazzini, ma chi cercava conforto cominciò a riempire le chiese o i bar. Gli americani cominciarono a pensare che un nuovo modello di consumo fosse possibile e la parola risparmio tornò nel vocabolario. Il Natale fu all'insegna della frugalità, ma se i bambini americani finalmente furono meno viziati gli operai cinesi del distretto del giocattolo rimasero a casa a migliaia. La crisi era diventata mondiale, milioni di disoccupati e di fabbriche chiusero e dall’Asia all’Europa nessuno venne risparmiato.

Cominciarono i vertici internazionali globali, i G20, a cui trovarono posto anche Cina, India e Brasile. Prima Washington, poi Londra e dagli Stati Uniti al Giappone, passando per Pechino, vennero varati giganteschi piani di stimolo all’economia.

Ora le Borse hanno recuperato, si vedono segnali di stabilizzazione ma la perdita di posti di lavoro continua. La responsabilità maggiore per il grande crollo, un anno dopo, è ancora sulle spalle del ministro del Tesoro di George Bush, Henry Paulson. Fu sua la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers, era sicuro che il sistema avrebbe retto, che era più importante concentrarsi sul salvataggio del colosso assicurativo Aig - con cui erano assicurati milioni di cittadini americani che stavano per essere chiamati alle urne per eleggere il nuovo Presidente - e che fosse fondamentale dare un segnale forte a Wall Street: bisognava punirne uno per educare tutti gli altri a darsi una calmata e a mettere freno alle speculazioni. Paulson sbagliò drammaticamente i suoi conti e la crisi sistemica arrivò puntuale. In questi mesi non ha mai spiegato le sue ragioni, non ha raccontato i retroscena di quel drammatico fine settimana, né le responsabilità di George W. Bush. Lo abbiamo contattato questa settimana, in uno scambio di e-mail ci ha risposto che le sue ragioni le potremo conoscere solo all'inizio del prossimo anno: sta scrivendo un lungo libro con le sue verità.

Cinquanta isolati più a Nord del palazzo dove abitava Lehman Brothers, in una bellissima casa con vista sul fiume Hudson, abita l'economista premio Nobel Joseph Stiglitz, critico feroce di Paulson - uomo che veniva da Goldman Sachs, storica banca rivale di Lehman - e dell'attuale amministrazione Obama. Siamo andati a trovarlo e abbiamo raccolto il suo sfogo per un sistema che non si è ancora dato nuove regole per evitare un altro crac.

Dopo di lui abbiamo incontrato giornalisti e banchieri, industriali ed economisti, politici e sindacalisti, per capire se quella che appare alla fine del tunnel è davvero luce. Per capire come, nel crac globale, Cina, India e Brasile abbiano trovato il modo per continuare a crescere. Ma in un anno non è cambiato solo il nostro modo di consumare, come ci raccontano tra gli altri Vittorio Colao di Vodafone e Andrea Guerra di Luxottica, ma anche quello di immaginare il futuro. Perfino Hollywood ha cambiato la sua testa e ha cancellato la parola rischio dai suoi copioni, mentre il mercato dell'arte, dopo anni di eccessi e quotazioni record, ha visto dileguarsi i nuovi collezionisti russi e arabi.

Ora bisogna sperare in nuove regole, in un ritorno della fiducia e in politiche sagge di investimenti. Questa sera Barack Obama parlerà al suo Paese dalla Federal Hall di New York, annuncerà che il peggio è passato e chiederà al Congresso di varare nuove leggi per impedire che un nuovo crollo possa avvenire. Ma nulla è certo e allora abbiamo voluto tradurre in uno slogan scaramantico la foto di copertina del settimanale americano Time della scorsa settimana: incrociamo le dita.

Nel frattempo il mio broker è tornato a lavorare in quello stesso palazzo sulla Cinquantesima Strada e a fare colazione da Starbucks all’angolo: è stato assunto dalla Barclays, che ha rilevato il palazzo e una parte delle attività di Lehman. Un anno fa mi aveva detto che il fallimento era stato un atto catartico e che era giusto così, perché la furbizia non può vincere sempre. Oggi i soldi e i bonus però hanno ricominciato a girare vorticosamente intorno a lui.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Quando manca il luogo del confronto
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 05:04:56 pm
17/9/2009

Quando manca il luogo del confronto
   
MARIO CALABRESI


Il flop di ascolti toccato alla puntata speciale di Porta a Porta dedicata alla consegna delle prime case ai terremotati di Onna è inatteso ma a ben pensarci perfettamente comprensibile. Inatteso perché, per dare maggior risalto al ritorno del presidente del Consiglio su Raiuno dopo un’estate di polemiche roventi, era stata fatta piazza pulita di ogni altro programma che potesse interferire.

L’intero palinsesto televisivo era stato accuratamente studiato per concentrare l’attenzione su Silvio Berlusconi che decretava il ritorno - a tempo record - di alcuni sfollati ad una vita più decente. Ma ciò non è accaduto.

Solo poco più del 13 per cento degli ascoltatori (3 milioni e 200 mila persone) si sono sintonizzati con il programma di Bruno Vespa, la cui media, quando va in prima serata, è del 19 per cento con 4,4 milioni di telespettatori. Quelli che mancano all’appello con la rete ammiraglia della Rai o hanno cambiato canale, decretando incredibilmente il successo per la prima serata di una fiction trasmessa su Canale 5, oppure hanno tenuto la televisione spenta.

Ma se nessuno avrebbe scommesso su un tale destino per un programma immaginato per celebrare la ripartenza dell’attività di governo dopo la pausa estiva, le sue ragioni non sono così oscure e ci indicano una strada chiara e possibile per uscire dalla stagione dello scontro violento continuo.

I telespettatori hanno detto che non sono interessati ai monologhi, al pensiero unico, che vogliono poter scegliere. Da questo punto di vista stupisce la strategia messa in atto dal presidente del Consiglio alla fine di questa estate con le querele, il fastidio trattenuto a stento, le accuse sistematiche a tutti gli organi di informazione e la scelta di rifiutare ogni contraddittorio.

Stupisce perché Berlusconi è indiscutibilmente il più efficace comunicatore che la politica di questo Paese abbia conosciuto, ha costruito le sue vittorie sui messaggi positivi, diretti, sulla capacità di incantare e convincere. Sa benissimo che il contraddittorio paga in termini di ascolto e anche in termini di stima: il politico che accetta di sottoporsi alle domande ed è capace di convincere con le sue risposte è il politico che vince. Vince non solo perché spiega ma anche perché mostra coraggio e non si nasconde.

C’è stato un tempo in cui il Cavaliere andava in televisione e duellava in diretta da Santoro contemporaneamente con Gianni Riotta e Gad Lerner. Un tempo in cui accettava perfino di rispondere a domande intime e di rivelare che era malato di cancro. Un tempo in cui andava a sedersi sulle poltrone di cartone di Ballarò per discutere con D’Alema e Rutelli. È stata anche questa la carta vincente per la sua legittimazione politica.

Ora invece, irritato dalle campagne di stampa e circondato da una nuova leva di consiglieri che gli suggerisce ogni giorno lo scontro come antidoto a tutti i mali e problemi, ha chiuso la porta al confronto. Certo Berlusconi parla e appare, ma per le interviste sceglie quasi sempre il settimanale «Chi» e da quando è tornato dalle vacanze è intervenuto di prima mattina su Canale 5, poi su una tv tunisina di cui è indirettamente partner e infine da Vespa, in una puntata che faceva venire un gran sonno. Non sarà un caso se il picco di share c’è stato quando all’improvviso è arrivata la telefonata di Pier Ferdinando Casini e per un momento il dibattito ha preso vita.

Manca il contraddittorio, ma soprattutto mancano un luogo e un tempo dove fare le domande, non solo quelle che propone con insistenza da mesi Repubblica, non solo quelle che riguardano feste e ragazze, perché la questione della politica italiana non si può risolvere o esaurirsi sulla soglia della camera da letto del premier. Si dovrebbe discutere, e il Paese ne avrebbe un gran bisogno, di ripresa economica, ammortizzatori sociali, carceri che scoppiano, scuola e università, federalismo fiscale. Vorremmo parlare di questo ma non sappiamo come e dove farlo. Non c’è più un luogo per le domande, di qualunque tipo esse siano. Ma non c’è più neanche un luogo per le risposte e questo danneggia in primo luogo proprio il premier, che dovrebbe non sottovalutare il messaggio arrivato dai telespettatori lunedì sera.

C’era un tempo in cui Silvio Berlusconi spiegava che il segreto del suo successo era di «avere il sole in tasca», di lanciare messaggi di ottimismo. C’era il culto della ricerca del consenso, ma l’idea era che lo si potesse ottenere con il sorriso e la forza del convincimento, non facendo un inquietante deserto di parole e di dialogo. Forse in qualche vecchia giacca è rimasto un po’ di sole, c’è da sperare che i suoi consiglieri più antichi, quelli che predicavano la moderazione e la ricerca delle intese, lo convincano a indossarle di nuovo.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Non serve attaccare gli stranieri
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2009, 05:30:53 pm
12/10/2009
 
Non serve attaccare gli stranieri
 
MARIO CALABRESI
 

Due anni fa Giorgio Napolitano arrivò in visita a New York e trovò ad accoglierlo una tormenta di neve e, sulla prima pagina del New York Times, un lungo reportage che dipingeva l’Italia come un Paese depresso e incamminato verso un inarrestabile declino. Il Presidente della Repubblica ci rimase male, i diplomatici considerarono l’articolo una scortesia, e Napolitano passò la sua giornata a evidenziare motivi di ottimismo per cui valeva la pena di scommettere sugli italiani. Poi andò a visitare il grattacielo disegnato da Renzo Piano dove abita il New York Times e invitò il direttore Bill Keller a uscire dai luoghi comuni nel descrivere l’Italia: «Se il giornalista è cieco vede solo le ombre. Se il giornalista non è cieco vedrà anche le luci».

Chiesi a uno dei responsabili del servizio esteri del quotidiano di Manhattan perché avevano messo in pagina il reportage proprio quel giorno e lui mi rispose candidamente: «Perché arrivava Napolitano e questo lo rendeva ancora più attuale. È solo una questione di tempi giornalistici».

Ieri il nostro presidente del Consiglio si è scagliato contro la stampa straniera che da mesi lo ha messo nel mirino. La notizia della bocciatura del Lodo Alfano era sulla prima pagina dei giornali di tutto il mondo, così come le storie delle feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli o le interviste a Patrizia D’Addario. Non c’è bisogno di scomodare ipotesi di complotti o congiure internazionali per spiegarsi tanta attenzione, basta attenersi ai fatti. Il direttore del Times di Londra, giornale di proprietà di Rupert Murdoch, scuote la testa se gli si parla di una manovra dell’editore australiano contro Berlusconi e racconta che l’interesse si è scatenato durante l’estate perché c’erano tutti gli ingredienti di una storia perfetta: una moglie furiosa che chiede il divorzio, potere politico, ragazze, ricchezza, feste e polemiche in quantità. Poi è stato un crescendo e i lettori di ogni Paese si sono appassionati a quella che sembrava loro sempre più una telenovela. Alla stessa maniera ad ogni latitudine ha fatto notizia il divorzio di Sarkozy dalla moglie Cecilià e le prime pagine sono state piene di titoli e foto della storia con Carla Bruni, così come accadde per Bill Clinton e Monica Lewinsky.

Tempo fa il Wall Street Journal pubblicò nello stesso numero un pezzo di cronaca negativo per Berlusconi, e un commento in cui elogiava la sua politica. Il capo della pagina degli editoriali, il mitico Robert Bartley, di fronte allo stupore italiano rispose: «Nessuna contraddizione: noi appoggiamo la politica di Berlusconi, ma se esce qualche notizia negativa che lo riguarda la pubblichiamo senza censure». Questa è la mentalità straniera.

Nel nostro caso la storia è cresciuta arrivando a toccare tutto il sistema, da una parte perché il premier l’ha alimentata con le querele ai giornali e la ricerca di uno scudo contro i processi, dall’altra perché non possiamo nasconderci che in Francia come in Gran Bretagna o in Germania esiste un pregiudizio sfavorevole sull’Italia e sulla sua classe politica di cui non sono sopportati vizi, furbizie e atteggiamenti ritenuti folkloristici. Esiste da sempre, tanto che il nostro ingresso nell’euro venne osteggiato e vissuto con grande fastidio.

Chiunque abbia vissuto all’estero sa che deve combattere spesso contro gli stereotipi che ci dipingono come fantasiosi, allegri e creativi ma incapaci di avere metodo, costanza e impegno, in una parola inaffidabili. Così certi comportamenti del nostro premier, che in casa fanno sorridere la maggioranza, fuori suonano come la conferma dei luoghi comuni e per i corrispondenti stranieri sono una manna: le barzellette, le corna, la bandana in testa, gli scherzi, le tirate di politica interna fatte durante le conferenze internazionali. Berlusconi lo sa benissimo, tanto che il G8 dell’Aquila è stato un successo anche perché l’atteggiamento era più severo e moderato e considerato in linea con gli standard.

Non c’è dubbio, come sottolinea il premier, che questo oltre a danneggiare il governo finisce col rovinare l’immagine del nostro Paese e dei suoi prodotti. Ma non è gridando contro la stampa straniera che si può invertire la tendenza e non è neanche utilizzando gli ambasciatori e la Farnesina per protestare che si metterà fine a questa campagna.

Proprio il Times di Londra questa settimana è arrivato a suggerire a Berlusconi le dimissioni e come risposta ha ricevuto una lettera dall’ambasciatore italiano a Londra in cui si sottolineava che «spetta ancora ai cittadini di ogni Paese scegliere chi deve guidarli». Non c’è dubbio che sia così, ma le risposte da dare a mio parere sono altre. Prima di tutto dovremmo smetterla di essere così ipersensibili di fronte al giudizio dei giornali stranieri, un atteggiamento un po’ provinciale che c’è solo in Italia, in qualche dittatura e in Brasile: cinque anni fa al corrispondente del New York Times venne revocato il visto dopo che aveva scritto ripetutamente che il presidente Lula aveva un amore per la bottiglia, ma poi il governo di Brasilia fece marcia indietro di fronte a una sollevazione internazionale. Le democrazie più solide non si fanno mettere troppo in crisi dal giudizio dei corrispondenti stranieri. Pensate se George W. Bush si fosse dovuto preoccupare o avesse mobilitato gli ambasciatori ogni volta che un giornale europeo lo accusava di essere un guerrafondaio e ne chiedeva le dimissioni. Invece si preoccupava soltanto del giudizio dei suoi concittadini e negli ultimi mesi neanche più di quello.

O pensate a come certi quotidiani italiani trattano Zapatero, Obama o Carla Bruni, che venne presa di mira dal Giornale tanto da spingere Berlusconi a dirsi «dispiaciuto per le offese» alla First Lady francese. Ma sarebbe meglio concentrarsi sui giudizi dei governi stranieri piuttosto che su quelli dei loro giornali, anche se questi indubbiamente influenzano le opinioni pubbliche.

A Washington hanno ripetutamente scrollato le spalle di fronte alle battute sull’abbronzatura di Barack Obama e di sua moglie Michelle, ma non lo fanno quando analizzano i nostri rapporti privilegiati con la Russia e l’Iran, la nostra politica energetica o l’accoglienza che tributiamo a Gheddafi, a cui a New York è stato impedito di piantare la tenda ovunque. Di questo faremo meglio a occuparci e l’unico modo per mettere fine all’attenzione dei media di tutto il mondo sarebbe quello di concentrarsi sul «fare» - parola che al Cavaliere piace tanto -, scegliendo di essere normali e magari perfino noiosi.

E ricominciare a fare notizia per le nostre politiche e non per le nostre polemiche.
 
da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Cercando Obama sulle strade dell'America amara
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2009, 10:33:59 am
1/11/2009 - SPECIALE OBAMA UN ANNO DOPO

Cercando Obama sulle strade dell'America amara
   
Case pignorate dalle banche e giardini travolti dalle erbacce “Noi resistiamo, ma lui deve aiutarci ad aggiustare questo Paese”

MARIO CALABRESI


Non c’è più nessun segno della vittoria. Anche quella brezza mite di un anno fa, miracolo in una città in cui l’inverno arriva ad ottobre, è scomparsa. Il prato della festa durata una notte intera è una palude. Due milioni di piedi lo avevano calpestato, oggi ospita 76 oche che combattono con immensi corvi per conquistare i pezzi di pane che tira un venditore di giornali di strada. «Qui a Grant Park non hanno messo neanche una targa - ridacchia - così i turisti credono che il prato di Obama sia laggiù sotto i grattacieli, davanti al nuovo museo dell’italiano. Perlomeno le oche possono stare in pace, visto che tra poco il lago comincerà a ghiacciare».

L’italiano è Renzo Piano, che ha realizzato la nuova ala dell’Art Institute, quando l’hanno inaugurata a maggio a Chicago erano ancora convinti che grazie al nuovo presidente avrebbero conquistato le Olimpiadi del 2016. Poi è arrivato lo schiaffo che ha incoronato Rio e cancellato il sogno di essere la nuova capitale d’America. Il logo con la stella e i cinque cerchi che aveva accompagnato la candidatura è scomparso da ogni vetrina, sparite le magliette, i cappellini e le tazze, rimosse anche le immagini del presidente. È il carattere di Chicago: dimenticare subito le sconfitte e tornare agli affari.

Per incontrare la faccia di Obama bisogna scendere ad Hyde Park, qui il Secret Service continua a tenere sigillato l’isolato della moschea, dove c’è la villa di mattoncini rossi con il canestro sul retro, casa della prima famiglia d’America. Avevano promesso che sarebbero tornati per il fine settimana almeno una volta al mese, ma lo hanno fatto soltanto tre volte da gennaio. Nel quartiere però nessuno se l’è presa. Qui il tempo sembra essersi fermato alla mattina del 5 novembre del 2008, era mercoledì ma sembrava domenica: nessuno andò a lavorare, tutti suonavano il clacson e sventolavano bandiere in mezzo alla strada. L’edicola all’angolo della 53esima è ancora tappezzata di riviste che celebrano l’elezione, bisognava fare oltre tre ore di coda per conquistare una copia da collezione del Chicago Tribune o del Sun-Times. Al ristorante Valois questa volta però la colazione si paga, un anno fa per festeggiare servirono gratis uova e pancetta a 1500 clienti. Per avere il piatto preferito di Obama, «steak & eggs» - una gigantesca bistecca coperta da un’omelette e accompagnata da patate al forno e toast imburrati - ci vogliono 8 dollari e 95. Troppi per molti avventori. Qui l’amore per il presidente è rimasto intatto ma il clima è cambiato, accanto alla cassa allo slogan «Yes we can» hanno aggiunto 3 parole: «Help the economy».

«Sì, si può aiutare l’economia»: vogliono il posto di lavoro e l’assicurazione sanitaria. È questa la preoccupazione dei clienti della caffetteria Valois e di tutti gli americani un anno dopo l’elezione del primo presidente nero. Un viaggio attraverso gli Stati Uniti oggi ci dice solo e soltanto questo: o il presidente aggiusta l’economia e abbatte la disoccupazione, che è arrivata al 10 per cento, oppure nulla lo salverà dalla bocciatura dei suoi concittadini.

«Ha ricostruito le nostre relazioni con il mondo e ha mandato un messaggio di pace all’Islam, sono orgoglioso di lui ma ora deve creare posti di lavoro altrimenti resterà solo con il suo Nobel». Mentre parla Lester Walton, un’icona tra i neri di Hyde Park, continua a spingere la sua sedia a rotelle. Poi si ferma, indica le spillette che ha messo sul bavero con i volti di Obama e Martin Luther King, e puntualizza: «Però non ho capito tutte quelle critiche e quell’ironia: il premio se l’è meritato. La strada è quella giusta ed è quella della Storia».


Fort Wayne, Indiana
La strada ci porta a sud-est, sulle tracce della disoccupazione, nel cuore dell’Indiana, Stato repubblicano che a sorpresa e per colpa della crisi lo scorso anno scelse di scommettere su un democratico nero. Fort Wayne è esattamente tra Chicago e Detroit, tra i laghi Michigan e Erie: percorrere in auto le due coste fa paura, si incontrano interi quartieri di case diroccate, pignorate dalle banche a chi aveva perso il lavoro e mai più rivendute. Prima di arrivare in città si ha l’illusione del paradiso, per alcuni chilometri scompaiono i cartelli «vendesi», i giardini hanno il prato tagliato alla perfezione e al posto delle macchine si incontrano calessi neri trainati da cavalli. È la terra degli Amish, che continuano a vivere come se il tempo si fosse fermato tre secoli fa. Ma l’illusione scompare in fretta: ecco le fabbriche che producevano trattori e poi le acciaierie abbandonate, una sfilza di scheletri che circondano il centro di Fort Wayne. Nella Contea di Elkhart la disoccupazione ha raggiunto il 15 per cento e aumenta ogni mese. Sono tornato per incontrare una donna di 67 anni con i capelli bianchi raccolti in una coda, si chiama Jaleh, è di origine iraniana ma da decenni ha in tasca il passaporto americano. Un anno fa mi aveva raccontato di non aver mai votato, disgustata dalla politica, di aver dedicato tutta la vita alle ceramiche, ai figli e al grande roseto che aveva piantato in giardino. Poi aveva sentito un discorso di Obama in tv, era rimasta folgorata e si era presentata al quartier generale dei volontari convinta di dover fare la sua parte: per dieci mesi aveva preparato torte e sandwich con il pane fatto da lei per tutti i ragazzi. Voglio chiederle se è delusa. Mentre percorro il vialetto che porta all’ingresso della villetta ad un piano vedo che nel suo giardino è piantato il cartello «vendesi». Resto paralizzato: anche lei sta per perdere la casa? «No, ho finito di pagarla vent’anni fa, ma non ha più senso restare qui. La crisi economica ha distrutto quest’area, la vita sta scomparendo. Pensi che con mio marito comprammo questa casa di quattro stanze nel 1976, costava 70mila dollari, con gli stessi soldi avremmo preso un attico a Manhattan o una villa sull’Oceano a Santa Barbara, che ora valgono trenta volte tanto. Sai quanto mi hanno offerto dopo che ho rifatto tre volte il tetto e messo un parquet meraviglioso? Novantamila dollari. Vale come negli Anni Settanta. Non c’è più niente da fare, non resta che andarsene, raggiungerò i miei nipoti a New York». Mi offre una tisana, parla del roseto che andrà in malora e del forno per cuocere i vasi, costruito nel garage, che non interessa a nessuno. Racconta che qui c’era un negozio di Giorgio Armani, una succursale della Porsche e un rivenditore dell’Alfa Romeo: «E tre enormi grandi magazzini: due li hanno già abbattuti, rasi al suolo per mancanza di clienti, il terzo resiste a fatica». L’America vista da questo salotto sembra senza speranza. E pensare che sulle finestre per mesi erano stati appesi i cartelli «Hope» e «Change». Tale è l’amarezza che quasi non oso chiederle un giudizio sul presidente, ma lei ritrova il sorriso e mi racconta che il suo amore non è svanito: «Ho ancora fiducia in lui. Lavora come un mulo eppure lo criticano, ma io nonostante tutto sono ottimista e fiera di questo presidente su cui ho scommesso la mia passione».


Home stead, Florida
Per seguire la curva ascendente del numero di famiglie che perde la casa bisogna scendere fino in fondo alla Florida, arrivare quasi sul confine con il parco nazionale delle Everglades famoso per le sue paludi abitate dagli alligatori. Qui c’è il picco, qui c’è Homestead, ribattezzata dal Miami Herald «Foreclosureville», la città dei pignoramenti. Due anni fa era stata celebrata come la comunità con la crescita più veloce d’America, se ancora nel 2000 era un centro agricolo con 30mila abitanti, nel 2008 aveva raddoppiato i suoi cittadini. «Arrivavano a frotte ogni settimana - racconta la cinquantenne Diana che è nata e cresciuta qui e gestisce uno studio di architettura -, attirati dal clima e dai prezzi bassi, compravano le casette nuove con il giardino e il posto per la barca, sembrava il luogo ideale per vivere: in 45 minuti si arrivava in ufficio a Miami. Ma l’idillio è finito in fretta: la strada ha cominciato a riempirsi di un traffico infernale, due ore di coda per raggiungere la città e un tempo infinito per tornare a casa». Poi il prezzo della benzina è schizzato alle stelle, la disoccupazione si è fatta sentire e il boom immobiliare è crollato: dall’elezione di Obama a oggi sono già scappate 1800 famiglie, le case hanno perso due terzi del loro valore e lungo l’autostrada ci sono interi quartieri completamente vuoti. Le terrazze delle ville vista lago sono abitate soltanto dalle rane. Chi è rimasto vive l’umiliazione di avere un mutuo più alto del valore dell’abitazione, di vedere che i risparmi di una vita non valgono più nulla. Chi ha perso il lavoro si mette in fila per avere la tesserina di plastica bianca e blu con cui si può fare la spesa al supermercato: è la versione moderna dei Food Stamps, i buoni pasto governativi. Ogni mese lo Stato la ricarica per combattere la povertà e il rischio di malnutrizione nel Paese più ricco del mondo. Oggi la carta di credito dei poveri ce l’hanno in tasca 36 milioni di persone, sette milioni in più del giorno in cui Obama ha vinto. «La situazione continua a peggiorare - alza la voce Liz la libraia - solo la Borsa e le banche si sono riprese, ma la gente della strada continua a stare male, anzi peggio e non vedo come ne usciremo». Diana mi accompagna su Krome Avenue, il cuore storico di un centro che viveva coltivando fagioli, pomodori e meloni prima dell’arrivo degli speculatori dei grandi costruttori. Mi mostra il Seminole, teatro storico in ristrutturazione: «Ci avevano promesso che sarebbe tornata anche l’opera, ma adesso il bilancio comunale ha perso un quarto delle sue entrate e non lo finiranno mai». I ristoranti sono tutti messicani, mi porta nel suo preferito per spiegarmi che non basterà un presidente per «aggiustare un’America che si è persa»: «Il nostro modello di sviluppo è stato gestito dagli speculatori, sono arrivati qui e hanno cominciato a lottizzare e ad edificare perché la terra non costava nulla dopo il passaggio dell’uragano Andrews nel 1992, poi hanno costruito l’immagine del luogo ideale dove vivere e sono riusciti a venderla a chi aveva voglia di scappare dal freddo o dalle grandi città. Intorno sono arrivati i supermercati, le gelaterie, le pompe di benzina, i negozi che affittano film e i rivenditori di computer. Hanno creato una finta città, senza un senso economico o un radicamento, poi l’hanno abbandonata. Oggi è distrutta dai suoi vuoti e sta collassando su se stessa». Provo a parlarle di Afghanistan e scuote la testa: «Qui non siamo interessati alla politica estera, vogliamo una casa e un lavoro. Neanche più i cubani di Miami si occupano di Fidel Castro, presi come sono ad arrivare alla fine del mese».


Miami, Florida
La voce del vecchio Armando Perez Roura continua ad occupare le frequenze di Radio Mambi, l’emittente dei cubano americani più conservatori, la più ascoltata da chi è arrivato in Florida prima del 1980 e continua a vivere a Little Havana. La mattina in cui è stata annunciata l’assegnazione del Nobel a Obama non ha fatto una piega: «È naturale: glielo hanno dato perché è un premio inventato dai sovietici». A nessuno importa che non sia vero, per i vecchi cubani l’offerta di un dialogo ai fratelli Castro è il peggior tradimento che potesse arrivare da un presidente americano, qualcosa perfino peggio del comunismo. Al Versailles, storico ritrovo di chi si sente esiliato, nessuno vuole pronunciare il nome dell’inquilino della Casa Bianca, preferiscono ignorarlo, far finta che non esista. Continuano la loro colazione, con il caffè che viene servito già zuccherato e le paste ripiene di ricotta, e fanno una smorfia a sentir parlare di Obama. Eppure il presidente proprio grazie ai giovani ispanici ha conquistato lo Stato che aveva dato per ben due volte la vittoria a George Bush. E subito ha mantenuto le promesse: ha tolto i limiti al numero di viaggi per Cuba, alle spedizioni di denaro e al contenuto dei pacchetti postali, rivoluzionando i comportamenti della comunità più influente della Florida. Così, nonostante la finta indifferenza dei più vecchi, un terremoto sta attraversando la comunità: il primo sintomo è stato il crollo del traffico telefonico fisso verso Cuba. È successo perché la gente ha cominciato a viaggiare - adesso ci sono otto voli diretti da Miami e i giovani provano l’ebbrezza di andare a Varadero per il fine settimana - a spedire computer, cellulari e schedine telefoniche ai familiari, che stanno imparando ad usare la posta elettronica e a mandare sms verso la Florida. Le navi da crociera che offrono prezzi stracciati per visitare i Caraibi e partono mezze vuote da Fort Lauderdale stanno aspettando con ansia il permesso di attraccare a L’Avana, per loro sarebbe la fine della crisi, la realizzazione di un affare che sognano da decenni. Ma si aspetta un segnale dal regime. Nessuno azzarda pronostici. Obama ha chiamato a Washington Joe Garcia - avvocato democratico che ha perso per un soffio l’elezione a deputato - per studiare le prossime mosse. Per provare a immaginare cosa farà Obama torno da Rui Ferreira, giornalista portoghese di nascita e cubano di adozione, massimo esperto della comunità di Miami e delle relazioni tra Washington e il regime castrista. «Siamo nella stessa situazione che c’era all’inizio del 1971 tra gli Usa e la Cina, allora tutto si sbloccò con la diplomazia del ping pong, quando i giocatori della squadra americana vennero invitati a Pechino per una partita con i cinesi. I cubani non sanno giocare a ping pong ma sanno cantare e capiscono la musica, per questo Hillary Clinton ha dato il permesso a Juanes, stella della musica latina americana, di andare a suonare a L’Avana davanti a mezzo milione di persone. Il secondo tempo della diplomazia della musica potrebbe essere il viaggio della New York Philharmonic a Cuba, ma c’è chi dice che la svolta sarà una partita di baseball». Non tutti sono ottimisti come Rui, Manuel Aranda nella sua parrocchia di Little Havana deve fare i conti con i fedeli più anziani, quelli che hanno pregato tutta la vita per il crollo del regime di Castro, per il ritorno a Cuba, e che adesso sono presi dallo sconforto: «Come possiamo continuare a credere in Dio - gli ripetono - come è possibile che abbia lasciato eleggere presidente un nero comunista?». Rui solleva gli occhialini sulla fronte, ordina un’altra birra e chiosa: «La differenza la farà l’economia, Obama si gioca tutto sull’occupazione, sono sicuro che se sarà capace di far tornare in tasca un po’ di soldi alla gente, allora anche quei vecchi cubani torneranno a credere in Dio».

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Washington-Roma rapporti faticosi
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2009, 09:42:59 am
6/11/2009

Washington-Roma rapporti faticosi
   
MARIO CALABRESI

La sentenza del tribunale di Milano che condanna 22 agenti della Cia per il rapimento di un imam radicale egiziano non ha precedenti nel mondo ed è vista con apprensione a Washington perché riapre uno dei capitoli più temuti e spinosi per la nuova Casa Bianca di Barack Obama. La Digos di Milano e il procuratore Armando Spataro hanno visto riconosciuta la bontà della loro indagine, che nonostante notevoli impedimenti e un clima ostile è riuscita a dimostrare come ha agito sul nostro territorio il più famoso e potente servizio segreto del pianeta.

Il loro lavoro dimostra - anche se gli americani continuano a negarlo - che è possibile ricostruire nel dettaglio i comportamenti illegali dell’amministrazione guidata da Bush e Cheney e che è possibile anche portarli davanti ad un giudice per chiedere che si pronunci sulla liceità di azioni che ledono diritti civili basilari.

Obama ha sempre denunciato queste violazioni e durante tutta la campagna elettorale ha promesso che avrebbe messo fine all’uso della tortura negli interrogatori, così come avrebbe chiuso il carcere speciale di Guantanamo e le prigioni segrete della Cia, anche se ha lasciato aperta la possibilità (inventata da Bill Clinton) di fare extraordinary rendition, ovvero rapire e trasferire sospetti terroristi come Abu Omar. Seppur con dei ritardi e non senza confusione il nuovo Presidente americano sta mantenendo la sua parola sulle torture e le carceri. Ma una cosa ha deciso di non fare: indagare sul passato.

L’America si impegna a non violare più i diritti civili in nome della sicurezza ma, sempre in nome di questa, non processerà chi lo ha fatto in passato. Obama non può permettersi di tenere la Cia sul banco degli imputati per anni mentre sono in corso ancora due guerre, il terrorismo islamico non è battuto e l’Iran lavora per diventare una potenza nucleare. E non intende mettere sotto accusa Bush e Cheney: ci penserà la storia - è il suo ragionamento - e io voglio usare il mio mandato per costruire l’America del futuro, per cambiarla e non passare il mio tempo con la testa rivolta all’indietro, mettendo al centro della scena ancora la coppia repubblicana. La sentenza di Milano rischia però di riaccendere i malumori dei liberal e della sinistra democratica, che mal avevano digerito questa scelta del Presidente, e potrebbe costituire un precedente per indagini e processi in altri Paesi europei.

Questo non significa che la magistratura milanese avrebbe dovuto farsi carico di opportunità diplomatiche e agire diversamente: di fronte ad un’ipotesi di reato di questa gravità era tenuta a procedere come ha fatto. Ma dobbiamo sapere che questo avrà inevitabilmente e ha già, come vedremo, delle ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi. Il comportamento della politica italiana, agli occhi degli Stati Uniti, è stato confuso e ingiusto, tanto che con il segreto di Stato si sono salvati gli uomini dei servizi italiani ma non quelli americani. «Non abbiamo mai agito illegalmente in Italia e ne abbiamo sempre rispettato la sovranità», ripetono da anni al Dipartimento di Stato e questo significa una sola cosa: la Cia si muoveva all’interno di un quadro concordato, nell’ambito della lotta al terrorismo, con il governo guidato da Silvio Berlusconi. Il fatto che anche l’esecutivo Prodi, con Arturo Parisi ministro della Difesa, abbia opposto il segreto di Stato non ha fatto che confermare come ci fosse un’intesa politico-diplomatica dietro tutto ciò. Ma a fare chiarezza fino a questo livello il tribunale milanese non è potuto arrivare.

I rapporti tra Stati Uniti ed Italia sono già resi faticosi dalla nostra politica di alleanza privilegiata con la Russia di Putin, così come dai nostri rapporti con Iran e Libia, e negli ultimi giorni dall’ipotesi di un disimpegno dal Libano. Ora, paradossalmente, il primo a pagare il conto di questa diffidenza americana rischia di essere non Silvio Berlusconi bensì Massimo D’Alema, ancora in corsa per diventare responsabile della politica estera e di difesa dell’Europa. Nelle ultime ore infatti si sarebbe intensificata una pressione americana in favore del candidato britannico David Miliband, dettata anche dalla volontà di non premiare l’Italia, nonostante D’Alema sia il premier dell’impegno in Kosovo e il ministro degli Esteri che ha spinto per intervenire come forza di pace per stabilizzare il Libano. La scelta di D’Alema, si ragiona a Washington, verrebbe letta come un via libera ai comportamenti dell’Italia al di là del candidato proposto. Non è un caso che, proprio ieri, un siluro alla candidatura dell’ex premier sia arrivato dal più atlantico e filo-americano dei nuovi entrati nella Ue: la Polonia. E così la battaglia ancora aperta su «Mister Pesc» si sta spostando da Bruxelles a Washington.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Quei fischi non rovineranno la battaglia della memoria
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 10:38:31 am
13/12/2009

Quei fischi non rovineranno la battaglia della memoria
   
MARIO CALABRESI


Quarant’anni di lavoro tenace, la battaglia di una vita, per tenere in vita il ricordo, per farsi rispettare, per cercare di ottenere giustizia o almeno la verità storica. Poi, nel giorno in cui per la prima volta sentono accanto a loro il Presidente della Repubblica, nell’anno in cui il Paese sembra avere ritrovato la memoria, le loro voci vengono coperte dai fischi. Non riescono a parlare, a raccontare, contestati dall’ignoranza di chi è convinto di stare dalla parte del giusto perché grida contro il palco delle autorità, di volere la verità perché scandisce slogan contro la strage fascista. Chi grida, chi continua a fischiare non è in grado di capire quanta strada hanno dovuto percorrere questi uomini e queste donne, che hanno avuto la vita segnata da una bomba, per rimettere insieme i fili della Storia.

Per avere processi che arrivassero fino in fondo, per sopravvivere alle beffe, per ottenere carte, documenti, testimonianze, per vedere scritto nelle sentenze che la strage era stata sì di mano neofascista, che c’erano complicità nelle Istituzioni, che le vite dei loro padri o mariti erano state cancellate per tentare di cambiare la faccia della democrazia italiana. I familiari dei morti di Piazza Fontana e gli oltre ottanta feriti ci hanno provato di fronte ad un Paese distratto, ad una politica che li viveva con fastidio, che o li usava o cercava di rimuoverli, e ad uno Stato che troppo spesso appariva chiuso e ostile se non nemico. Per quarant’anni hanno viaggiato da un Palazzo di Giustizia ad un altro, provando umiliazione e rabbia, poi hanno testimoniato, non solo nei tribunali, ma nelle scuole, nelle università e ogni anno in Piazza Fontana.

Non tutti i parenti dei 17 morti della strage del 12 dicembre del 1969 ce l’hanno fatta ad arrivare fino ad oggi, solo una decina di famiglie sono ancora presenti, delle altre o non c’è più nessuno in vita o non c’è più la forza per partecipare. Un lungo percorso che trova al suo approdo grida, fischi e altra violenza, nel minuto in cui Milano per la prima volta si ferma. Potremmo allora dire che è stato tutto inutile, che tutto è rovinato, che le contrapposizioni, l’odio ideologico e la bava alla bocca di quarant’anni fa hanno riconquistato il Paese, che mentre si lavorava per ricostruire un dialogo, per ricomporre le memorie, non si vedeva il ritorno delle drammatiche contrapposizioni di allora. Sbaglieremmo a farlo. Concentrarsi sui fischi significherebbe gettare via un patrimonio e un percorso fecondo, significherebbe far vincere l’ignoranza. Sbaglieremmo perché quella piazza che gridava non rappresenta l’Italia, è una foto ingiallita del passato o l’ingrandimento di una curva di tifosi ultrà.

La tristezza per quanto è successo resterà, ma resteranno anche i miracoli di questi ultimi anni: la voce ritrovata dei parenti delle vittime del terrorismo e delle stragi, una diversa sensibilità in televisione e sui giornali, l’istituzione del Giorno della Memoria, l’impegno di Carlo Azeglio Ciampi prima e di Giorgio Napolitano ora («Comprendo il peso che la verità negata rappresenta per ciascuno di voi, un peso che lo Stato - ha ripetuto pochi giorni fa il Presidente - porta su di sé»), l’abbraccio tra le mogli dell’anarchico Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi. C’è un sentire diverso, una solidarietà che non si conosceva: ieri a Milano c’erano anche i familiari di chi è stato ucciso dal terrorismo rosso, dalla figlia di Graziano Giralucci - prima vittima delle Br - a quelle di Walter Tobagi e Luigi Marangoni, dai figli dell’ingegner Carlo Ghiglieno a Manlio Milani che perse la moglie nella strage di Piazza della Loggia a Brescia.

Tutti convinti che sia necessario raccontare e ricordare, non lasciarsi abbattere dalla notizia che solo il cinque per cento degli studenti italiani ha un’idea di cosa sia successo in Piazza Fontana, che la maggior parte pensa la strage sia opera delle Brigate Rosse e non dei neofascisti di Ordine Nuovo. Proprio oggi pubblichiamo un’intervista a Franco Freda, riconosciuto come uno dei responsabili della bomba, è un documento illuminante del delirio ideologico che ha intossicato la società italiana, della convinzione che le idee politiche dovessero trovare compimento nella violenza. La persona che si è battuta di più per tenere viva la memoria e tenere la luce accesa sui processi per le stragi è proprio Manlio Milani, che ieri non ha potuto finire il suo intervento per colpa dei fischi. «Così si rovina tutto», ha commentato preso da un momento di sconforto, poi un attimo dopo aveva già l’agenda aperta per organizzare dibattiti nelle scuole e presentazioni di libri e memorie.

Lui non dimentica che tra il 1969 e l’84 in Italia ci furono 8 stragi con 150 morti e 690 feriti, che negli Anni di Piombo il Paese assistette a quasi 13 mila episodi di violenza grave, che fecero 342 vittime. Viviamo il tempo della testimonianza e della Memoria, di ricomposizioni e ricordi possibili, il tempo in cui una nonna - come racconta Paolo Colonnello in queste pagine - trova il coraggio e la forza di entrare nel salone della Banca dell’Agricoltura per raccontare ai nipoti perché non hanno mai conosciuto il loro nonno. Non vale la pena sciuparlo con i fischi.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Gli indignati a senso unico
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2009, 10:16:40 am
14/12/2009

Gli indignati a senso unico
   
MARIO CALABRESI


Ci sono momenti in cui bisognerebbe abolire due parole: ma e però. L’aggressione di un uomo, in questo caso di un primo ministro, è uno di quelli. Di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni. Il giorno che la politica italiana tutta lo avrà compreso fino in fondo, allora sarà davvero matura.

Il volto ferito e pieno di sangue di Silvio Berlusconi non può che lasciare sgomenti, non riesco ad immaginare una persona seria o che ami definirsi democratica e perbene che possa avere una reazione diversa.

Se invece la prima cosa che passa in testa è pensare che se la sia cercata o meritata, allora siamo entrati in uno spazio in cui la dialettica politica è degenerata.

Abbiamo ricevuto numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono «xenofobo», «antidemocratico» o «razzista». Sono persone che mostrano di essere solidali con gli immigrati e i più deboli, sconvolte per gli attacchi di Berlusconi ai magistrati e preoccupate per la democrazia, ma non toccate da ciò che è accaduto ieri sera. Questo modo di ragionare mi fa paura: come è possibile mostrare sensibilità a senso unico, battersi contro le violenze e poi giustificare un’aggressione, essere democratici e pacifisti e provare soddisfazione per il volto tumefatto di Berlusconi. Significa che l’ideologia continua a inquinare le coscienze, ad oscurare le menti.

Si può pensare che il presidente del Consiglio sia inadatto a governare, essere convinti che le sue esternazioni contro gli altri poteri dello Stato così come contro gli organi di garanzia siano allarmanti e sbagliate, essere preoccupati per quelle leggi «ad personam» che rischiano di peggiorare lo stato della giustizia italiana, ma niente di tutto ciò può giustificare la violenza. C’è una linea che in democrazia non si può passare, un discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è a cui non si può derogare. E dire che sembrerebbe essere chiaro a tutti: tanto che anche a sinistra si invita alla mobilitazione democratica in seguito ad ogni aggressione o violenza. Questo deve valere anche per il leader di un governo di centrodestra, anche per Silvio Berlusconi.

Da ieri sera i blog e Internet sono invasi da battute, ironia, festeggiamenti e dai deliri di chi ci spiega che se l’è cercata. Su Facebook sono già nati decine di gruppi di fans dell’aggressore, Massimo Tartaglia, che in poche ore hanno raccolto migliaia di sostenitori. La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.

E questo riguarda non solo la sinistra ma anche il premier, la sua maggioranza e i giornali che gli sono più vicini. Da mesi quasi nessuno sembra capace di sottrarsi alla tentazione di alimentare il clima terribile in cui viviamo, l’Italia somiglia sempre più ad uno stadio in cui si sente solo la voce degli ultras che gridano mentre incendiano le curve. In questo scontro continuo, in cui si parla soltanto dei destini del premier, si è persa di vista qualunque considerazione sullo stato del Paese e sui suoi bisogni.

Il presidente del Consiglio, a cui va la nostra solidarietà sincera, speriamo sia così saggio da capire che proprio lui - l’aggredito - ora può fare la differenza: può abbassare i toni e aprire la strada per un confronto più civile e rispettoso. C’è da augurarsi che anche tutta l’opposizione lo capisca e sia capace di isolare chi delira.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Il mondo da inventare
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2009, 05:45:02 pm
24/12/2009 (7:0)

Il mondo da inventare
   
Il cambiamento e le certezze lasciano il posto alle sorprese


MARIO CALABRESI

Ogni neonato che verrà al mondo nella notte tra l'8 e il 9 aprile potrà vantare per tutta la vita di aver portato la popolazione del mondo a raggiungere quota sette miliardi. Lo sostiene il settimanale «Time» ma nessuno potrà dire con sicurezza se ciò accadrà davvero il prossimo anno o se dovremo aspettare il 2011. L'incertezza è la cifra del tempo che viviamo, una stagione della storia in cui la fede nel progresso e nel miglioramento del tenore di vita di ogni generazione è crollata.

Nessuno si azzarda a scommettere che la recessione sia finita davvero, la crisi superata e il futuro roseo, ma la storia ci rincuora raccontandoci che i cicli economici si alternano e i primi segnali di luce si cominciano a vedere. Finisce un decennio faticoso, cominciato con l'euforia dell'euro ma subito segnato dal crollo delle Torri Gemelle, dall'affermarsi del terrorismo islamico e dal dilagare della paura nelle società occidentali, concluso con la più grande distruzione di ricchezza e di lavoro dalla Seconda guerra mondiale. Abbiamo vissuto anni cupi, in cui è cambiato il nostro modo di vivere, viaggiare e relazionarci con gli altri, oggi non possiamo che sperare di tornare a respirare, a crescere e a costruire.

Il panorama che abbiamo davanti, superate le macerie di un crollo senza precedenti, sarà però sostanzialmente diverso da quello che eravamo abituati a conoscere: dopo aver parlato per anni della Cina come di una affascinante novità, ora dovremo prendere atto - come ci suggerisce l'«Economist» - che è diventata una nazione «indispensabile». Nel 2010 dovrebbe superare il Giappone come seconda economia mondiale e sarà cruciale per ogni decisione internazionale, dal commercio all'ambiente.

Anche le altre grandi economie «emergenti», dal Brasile all'India fino all'Indonesia, sono diventate una realtà: attori che hanno conquistato la scena mondiale e hanno sancito che il nuovo G20 conta ben più del G8, il vecchio club dei grandi della Terra. La geografia del pianeta è sconvolta, mentre il cuore dei consumi del lusso sarà sempre più Pechino e il calcio celebrerà il suo evento più importante in Africa, l'Europa dovrà fare i conti in fretta con la sua progressiva emarginazione. Non è più tempo per rendite di posizione e per coltivare antiche idee di grandezza, se non vogliamo scomparire dal tavolo delle decisioni più importanti - come è accaduto al vertice sul clima di Copenhagen - noi europei dobbiamo imparare a parlare con una voce sola. E i giovani del Vecchio Continente, dipinti come senza avvenire, vanno guidati verso i lavori del futuro: ingegneri innanzitutto, capaci di costruire le nuove «energie verdi».

Le bolle speculative che hanno distrutto l'economia e la finanza mondiale restano in agguato: il nuovo anno non può dimenticare nuove regole internazionali, così come la ripartenza richiederà di abbandonare la logica del breve termine per adottare una filosofia dello sguardo lungo, capace di programmare uno sviluppo graduale e sostenibile.

Sarà un anno cruciale per il presidente americano Barack Obama, che sarà costretto a far ripartire l'America e a dimostrare che il suo idealismo non è solo affascinante esercizio verbale ma può avere effetto sulla realtà. I suoi concittadini daranno il loro verdetto a novembre quando si rinnoveranno l'intero Congresso e un terzo del Senato. Dall'altra parte dell'Atlantico, in Gran Bretagna, alla fine della primavera potrebbe essere archiviata la lunga stagione laburista.

Gli italiani, «Popolo che vive in apnea, resiste ma non crea», secondo la definizione dell'Istat, saranno chiamati a votare alle elezioni regionali ma la vera scommessa sarà tirare fuori la testa dall'acqua. Questo 2009 è stato un anno di veleni, risse e rabbia, e anche se non si ha nessuna fiducia in un vero percorso di riforme è difficile immaginare che possa andare peggio. L'Italia perde peso nel mondo ma il nostro sistema continua a produrre eccellenze: alla premiazione del Nobel i fiori arrivavano da Sanremo e i nostri astronauti Vittori e Nespoli in autunno raggiungeranno la Stazione spaziale internazionale, che verrà completata con gli ultimi due moduli abitativi completamente progettati e costruiti in Italia. Si chiameranno Nodo 3 e Cupola, quest'ultimo servirà per alzare gli occhi e guardare le stelle: il migliore augurio per il nostro futuro.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Obama e l'Europa perduta
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2009, 05:28:20 pm
30/12/2009

Obama e l'Europa perduta
   
MARIO CALABRESI


Il decennio che si chiude domani, i tormentati Anni Zero, segna l’affermazione definitiva di un mondo nuovo, senza autorità e senza chiare gerarchie, il mondo multipolare.

Proprio ieri, a sottolineare il caos in cui viviamo, sono arrivate tre sfide simboliche all’America e all’Occidente da Russia, Iran e Cina. Tre sfide che mostrano un futuro pieno di incertezze e che richiamano noi europei al dovere di decidere chi siamo, cosa vogliamo e in che mondo desideriamo vivere.

Poco meno di due mesi fa abbiamo celebrato il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, per anni si è teorizzato che la storia era finita allora con la vittoria del modello occidentale, della democrazia e del capitalismo. Non è andata così. Anzi, la storia si è messa a correre, le voci si sono moltiplicate e i nuovi attori sulla scena non sono più per forza gli Stati nazione, ma vanno dalle organizzazioni terroristiche alle multinazionali, passando per le lobby internazionali di ogni genere.

La chiave di questo decennio però resta quella che lo ha aperto con gli attentati dell’11 settembre e che ha sperato di chiuderlo pochi giorni fa su un aereo in atterraggio a Detroit: il tentativo di colpire l’America - l’ultima superpotenza tradizionale - nei suoi punti vitali.

Assistiamo ad una apparente ripresa di vigore del terrorismo islamico e si potrebbe sostenere che la Russia di Putin che alza la voce con Washington, la Cina che mette a morte un cittadino di passaporto britannico e non accetta critiche e il regime iraniano che procede con la sua spietata repressione intimando all’Occidente di non intromettersi, siano tutti galvanizzati dalla debolezza del nuovo Presidente americano.

Ma un anno fa, due o cinque - va bene ognuno degli ultimi nove - accadeva lo stesso: Ahmadinejad minacciava Israele, gli Usa e i loro alleati e progettava l’atomica, Putin prometteva di puntare i suoi missili contro l’Europa sempre per rappresaglia contro il progetto di scudo americano, Al Qaeda faceva stragi e rapimenti, la Corea del Nord lavorava alla sua paranoia nucleare, Pechino non accettava critiche alle sue violazioni dei diritti umani e i vari dittatori, da Castro a Chávez, lanciavano proclami contro l’Occidente.

Anche allora si diceva che la colpa era della Casa Bianca, ma in quel caso che la responsabilità andava addebitata ad un presidente troppo sicuro di sé e muscolare.

Oggi la realtà dei fatti ci racconta un mondo frammentato in cui non c’è più un’autorità riconosciuta, in cui né l’Onu né i nuovi summit internazionali - dal G2 al G20 - sono in grado di indicare strade condivise, imporre regole e codici di condotta o garantire stabilità. L’unica logica riconosciuta sembra essere quella della ricchezza, della forza negli scambi commerciali e del possesso di materie prime. Per questo oggi l’Occidente, colpito in modo devastante dalla crisi, dalla recessione e da una crescente disoccupazione, appare ancora più debole.

Si potrebbe dire che da sempre la logica economica è quella prevalente ma dimenticheremmo il peso della forza militare che per decenni, insieme al dollaro, ha dato all’America e alla Nato la supremazia nel mondo. Oggi il potere dell’esercito a stelle e strisce appare ridimensionato dal fatto che i suoi soldati sono impantanati in due guerre e non hanno energie supplementari da utilizzare in altri scenari. Un quadro che può essere letto come un «liberi tutti», come un invito ad alzare il tiro contro l’Occidente, le sue regole e i suoi valori.

Inoltre, di fronte alle minacce iraniane, cinesi o russe gli europei si muovono in ordine sparso, ognuno preoccupato del suo particolare, delle sue commesse o dei suoi contratti energetici, tanto da non riuscire mai ad avere una posizione comune efficace e capace di farsi sentire. È tristissimo ed allarmante pensare che né la repressione iraniana né la pena di morte cinese siano in grado di indignare l’Europa e renderla protagonista.

Così non ci resta che guardare alla Casa Bianca, perché il progetto di Obama resta l'unico possibile per cercare di immaginare un pianeta più equilibrato e vivibile. Non si vedono oggi altre strade percorribili oltre all'idea obamiana di un mondo multipolare in cui l'America possa avere un ruolo guida e in cui i diritti siano al centro della scena. Il Presidente americano, per risultare più credibile, deve però rafforzarsi innanzitutto in casa sua: varare la riforma della sanità, rilanciare l'economia e ridurre la disoccupazione. Sono questi i tre passaggi cruciali del suo destino. Solo allora sarà un interlocutore più rispettato dai cinesi come dai russi. Inoltre dovrà essere capace di smascherare senza paura ogni bluff, specie quelli - come ci racconta oggi Moises Naim - che servono per nascondere le divisioni interne di Mosca o Teheran.

Il vero buco nero resta l'Europa, con una Gran Bretagna smarrita che attende di sapere da chi sarà guidata e come, una Francia in cui la grandeur di Sarkozy non si è ancora trasformata in nulla di concreto e visibile, una Germania incapace di prendere le redini del Continente e un’Italia che sperimenta alleanze non tradizionali e procede per conto proprio. Così o l’Europa si convince che solo unita può contare qualcosa o è destinata a somigliare sempre più ad una compagnia di nobili decaduti che si svendono e trattano, ognuno per sé, favori e attenzioni dai nuovi ricchi.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Una Storia tutta da raccontare
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:51:01 pm
29/1/2010 (7:34)  - DOPPIO APPUNTAMENTO

La Stampa: che storia!

Carlo Fruttero e Massimo Gramellini

Una Storia tutta da raccontare

MARIO CALABRESI
   

Ogni sabato l'epopea del Risorgimento attraverso la biografia di Cavour. Ogni domenica il racconto in 150 date dei 150 anni dell'Italia unita

A partire da domani, ogni sabato e domenica, «La Stampa» fissa con i lettori due importanti appuntamenti in ultima pagina per avvicinarci al 2011, quando, a cominciare da marzo, verrà celebrato il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Ogni sabato, nell’ultima pagina, Giorgio Dell’Arti, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico, già autore di una celebre biografia del grande statista piemontese («Vita di Cavour», Mondadori), narra la vita del geniale e visionario primo ministro di Casa Savoia. Un racconto, ricco di aneddoti ed episodi sconosciuti, che prende forma in un’intervista immaginaria e permetterà di conoscere gli aspetti più curiosi e meno noti della vita di un uomo politico molto citato, ma pochissimo conosciuto.

Da domenica 31 gennaio, invece, Carlo Fruttero, scrittore, e Massimo Gramellini, giornalista e vicedirettore del nostro giornale, ripercorreranno la storia d’Italia in 150 date. In un ideale passaggio di testimone il loro racconto comincia là dove finisce quello di Dell’Arti - con la proclamazione dell’Unità d’Italia il 17 marzo 1861 - e, dopo una cavalcata nel secolo e mezzo di vicende italiane, finirà con una notizia del 2011 ancora tutta da vivere.

L’idea di partenza è quella di divulgare in modo sintetico e leggero, ma non superficiale, la storia del nostro Paese a chi non la conosce e a chi crede di conoscerla. Come filo conduttore gli autori hanno deciso di utilizzare le date, simbolo di quel nozionismo da tanti osteggiato ai tempi della scuola, e magari oggi rimpianto.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Una Storia tutta da raccontare
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:54:01 pm
29/1/2010

Una Storia tutta da raccontare
   
MARIO CALABRESI


Cosa sappiamo della vita di Camillo Cavour? Ricordi confusi dei tempi di scuola, qualcosa di grigio e lontanissimo. Poche le scuole a lui dedicate, in stato di abbandono la sua tomba a Santena, chiuso il parco secolare della villa di famiglia, che resta aperta solo grazie a 200 volontari che navigano in un mare di debiti. E le date della storia d’Italia? Archiviate da tempo insieme al nozionismo come qualcosa di inutile e polveroso. Lecito dimenticarle. Tra poco più di 13 mesi - il 17 marzo 2011 - l’unità d’Italia compirà 150 anni ma, a differenza di francesi e americani che hanno celebrato in grande stile i loro anniversari, noi festeggiamo i nostri con stanchezza e quasi con fastidio.

Questo giornale è di soli sei anni più giovane, essendo nato nel 1867, e forse per questo destino abbiamo pensato di fare qualcosa che non va più di moda: raccontare la storia dell’Italia e degli italiani, a partire dal primo dei suoi presidenti del Consiglio, quel Cavour di cui molti oggi sbagliano perfino il nome mettendo l’accento sulla “a”.

La scommessa però era di farlo in modo originale, brillante, appassionato, per restituire vita e luce al passato, per capire chi siamo, come siamo cresciuti e perché oggi l’Italia è questa. Per farlo si è formata una nuova coppia, Fruttero & Gramellini, che nella casa dello scrittore, a Castiglion della Pescaia, ha cominciato a giocare con le date, percorrendole tra rigore storico e inevitabile - visti i due caratteri - ironia.

Poi è arrivata la passione di Giorgio Dell’Arti per Cavour: «Camillo era un uomo di grande passione, lontanissimo da quel mito che lo dipinge come un freddo calcolatore e un cinico tessitore. Me ne sono innamorato e da anni penso che sia un delitto averlo dimenticato». Così, ogni sabato, in ultima pagina - quella che durante la settimana dedichiamo alle domande e risposte - troverete un’intervista immaginaria che racconta la vita del conte, con la diplomazia, l’arte di governo, i vizi, gli amori, i sigari e l’atmosfera della società dell’Ottocento.

Se Dell’Arti arriverà fino al 1861 - perché l’anno in cui nasce l’Italia è quello in cui muore Cavour - Fruttero e Gramellini partiranno da lì per arrivare ad un tempo che non abbiamo ancora vissuto: il 2011. Ogni domenica, concentrandosi su due date significative degli ultimi centocinquant’anni, ci accompagneranno da Vittorio Emanuele a Berlusconi, passando per il fascismo e il terrorismo. Naturalmente la presenza di uno scrittore come Fruttero ci permetterà di raccontare non solo le date della politica ma anche i personaggi e gli eventi della cultura che hanno fatto il nostro costume, da Giuseppe Verdi al De Amicis di Cuore, da D’Annunzio alla Dolce Vita di Fellini fino a Lucio Battisti.

L’idea che ci ha spinto non è quella di essere enciclopedici, di volervi raccontare tutto, ma solo di stuzzicare la vostra curiosità, la voglia di saperne di più e provare a scalfire quel muro di disinteresse verso il nostro passato che fa di noi un Paese di smemorati.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Mani pulite la memoria è finita
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2010, 04:59:53 pm
13/2/2010

Mani pulite la memoria è finita
   
MARIO CALABRESI

Per cancellare il ricordo, ogni prudenza e la paura, per ricostruire la spavalderia, il senso di impunità e l’arroganza sono serviti 18 anni. Una generazione. Un giro completo di giostra che sembra riportarci alla casella di partenza: 17 febbraio 1992.

Diciotto anni fa, l’anniversario esatto cade mercoledì prossimo, veniva arrestato il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio - ospizio per anziani milanese - mentre riceveva una tangente di sette milioni di lire. Si chiamava Mario Chiesa e con quelle manette prendeva il via la stagione di Mani Pulite. In quei giorni si affacciavano sulla scena politica di Milano facce nuove, pulite, che promettevano di parlare una lingua diversa: tra queste quella del leghista Pier Gianni Prosperini e di un gruppo di ragazzi della Gioventù liberale. Il primo è finito in carcere prima di Natale con l’accusa di aver incassato una tangente da 230 mila euro, mentre per uno dei giovani liberali - Camillo Pennisi detto Milko - le manette dei carabinieri sono scattate giovedì, mentre si faceva dare da un imprenditore cinquemila euro in contanti nascosti in un pacchetto di sigarette.

Se li era fatti portare nella piazzetta alle spalle di Palazzo Marino, durante la seduta del Consiglio comunale, con la naturalezza di chi esce dall’Aula un momento per fumare.

Nelle stesse ore è stato arrestato il presidente della Provincia di Vercelli e l’Italia ha cominciato a interrogarsi su quale sia la vera faccia di Guido Bertolaso e dei miracoli della Protezione civile.

Il presidente del Consiglio sostiene che i pubblici ministeri dovrebbero vergognarsi e si potrebbe essere tentati di leggere tutto questo come l’offensiva pre-elettorale di una magistratura politicizzata contro la maggioranza di governo a cui appartengono tutti questi personaggi. Ma i conti non tornano: sono in corso inchieste in otto delle tredici regioni che andranno al voto questa primavera, peccato però che i politici coinvolti in ben sei di queste appartengano al centrosinistra. Dal sindaco di Bologna allo scandalo della sanità pugliese, dagli avvisi di garanzia al candidato del Pd in Campania alla bufera sull’ex presidente del Lazio, fino alle inchieste in Calabria e all’indagine sugli appalti a Firenze. La magistratura ha colpito a destra - nel mirino la sanità lombarda - e a sinistra e i carabinieri sono intervenuti a Milano, come a Vercelli o a Roma perché c’erano imprenditori che hanno fatto denuncia, stanchi di pagare.

Ogni giorno emergono storie che ci raccontano come la sanità italiana e i suoi appalti siano diventati fonte privilegiata di approvvigionamento per gli appetiti della politica di ogni colore e schieramento. Si ha la sensazione che si sia davvero tornati al punto di partenza, con la differenza che non si agisce più per conto dei partiti, che nel frattempo non esistono più nella forma che conoscevamo vent’anni fa, ma prevalgano gli individui, le loro carriere e la voglia di avere vite private esagerate.

Ad essere tornata identica è la facilità con cui si chiedono tangenti, contributi, viaggi, automobili, prostitute, orologi, gioielli e carte di credito agli imprenditori che vogliono fare il salto di qualità. È la naturalezza con cui tutto ciò avviene e con cui si arraffa a fare impressione.

Lo spavento di un’intera classe politica, il senso di vergogna, i tabù e la prudenza che sembravano essere entrati nel dna della classe politica dopo Tangentopoli sono completamente svaniti. La rievocazione di Bettino Craxi a dieci anni dalla sua morte, che si è tenuta poche settimane fa, con quell’insistenza sui meriti storico politici dell’azione di governo dell’ex segretario socialista e la rimozione della corruzione e delle tangenti sono segno dei tempi. Segno che la memoria è svanita. Tanto che l’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli può permettersi di dire serenamente che le tangenti erano «solo» del tre per cento, come se questo le rendesse accettabili.

In questi giorni diventa maggiorenne la generazione nata in quel 1992, una parte di questi ragazzi andrà al voto per la prima volta tra poche settimane, siamo andati a cercarli e abbiamo avuto la conferma che Mani Pulite non è materia di ricordo. C’è smarrimento in chi andrà alle urne e dovrà sostenere la Maturità, davanti alla storia recente e ai comportamenti della politica di oggi. E aumenta la sfiducia.

Il moltiplicarsi delle inchieste porta con sé anche una sensazione di stanchezza, di assuefazione dell’opinione pubblica; certa spettacolarizzazione della giustizia - un discutibile protagonismo di magistrati che parlano prima dei loro atti - crea disagio e contribuisce allo sfarinamento del vivere civile. Penso a questa divulgazione continua di particolari - meglio se sessuali o pruriginosi - dati in pasto ai mezzi di comunicazione per far salire il livello di attenzione. Una strategia pericolosa e dubbia: si finisce per giudicare un politico per la sua moralità sessuale e si perde di vista la sostanza. Certo è evidente che il sesso sta diventando parte integrante del sistema della corruzione, ma concentrarsi sugli aspetti «pecorecci» finisce per far passare in secondo piano ruberie e spoliazioni della cosa pubblica. Sono convinto che sia poco importante passare giornate a discutere se Bertolaso curasse o no il mal di schiena in un centro sportivo romano, quanto è invece fondamentale capire come funzionava la macchina degli appalti della Protezione civile.

I cittadini avvertono un senso di nausea e la politica dovrebbe farsene carico con urgenza, riscoprendo lei il senso della misura e quello della vergogna.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. La politica cancella la scienza
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:18:05 am
3/3/2010
La politica cancella la scienza
   
GIORGIO CALABRESE


L’Unione europea, con un diktat politico e non scientifico, disattendendo il desiderio di approfondimento del presidente Barroso, ha liberalizzato una patata Ogm.

Dal tubero geneticamente modificato si ricava amilopectina pura, uno dei componenti dell’amido, che viene utilizzata per carta, calcestruzzo e adesivi. Questo stesso amido è utilizzato come mangime animale e il gruppo Basf che lo produce ha dichiarato che non è previsto alcun utilizzo alimentare. Inoltre, sono stati liberalizzati altri tre tipi di mais per l’alimentazione umana e animale.

Si tratta della prima autorizzazione Ue ai prodotti Ogm, dopo anni di dibattiti pieni di dubbi sulla natura di questo tipo di coltivazioni. La nuova Commissione, insediatasi qualche settimana fa, ha iniziato male il suo lavoro. In particolare, mi riferisco al commissario Ue all’Ambiente, il maltese John Dalli.

Considerando il lungo dibattito in corso sulle colture transgeniche, i lettori potrebbero pensare che le ricerche sugli Ogm siano sempre super partes e che i loro risultati derivino da un’approfondita ricerca sul campo e sul prodotto. Non è così. Quando gli scienziati del panel degli Ogm dell’Efsa (l’Autorità Europea della Sicurezza Alimentare che si trova a Parma) danno un giudizio, questo non deriva da uno studio incrociato, ma il panel valuta solamente la letteratura scientifica (quando c’è ed è sufficiente) e inoltre valuta i lavori presentati dalle singole aziende produttrici (in questo caso la Basf). Questo modo di procedere non porta quasi mai a un voto unanime, perché si basa più che sulla reale verità scientifica, esclusivamente su giudizi votati a maggioranza, dove pesano soprattutto scienziati anglo-sassoni.

Questa scelta impone soluzioni politiche a problemi scientifici e questo non è giusto. Mi sembra di essere tornato all’epoca della cura «Di Bella» quando il dibattito si ridusse a definire il cancro di sinistra o di destra, senza valutare la reale efficacia terapeutica di quei farmaci. Come abbiamo visto, nel campo degli Organismi geneticamente modificati (Ogm) la ricerca è assolutamente di parte, sia a favore (multinazionali) sia contraria (Verdi e Ambientalisti), per cui chi è a favore presenta lavori che li esaltano, omettendo i dati negativi che debbono necessariamente esserci come in tutti i veri papers pubblicati; chi è contro sottolinea solo i lati negativi, senza tener conto di qualche spunto positivo che potrebbe esserci. Quale soluzione? Propongo che l’Unione europea finanzi con giusti fondi una ricerca super partes che entri nel merito degli effetti sulla salute umana, prima su cavia e poi sull’uomo, affidandola a centinaia di scienziati, pro e contro gli Ogm. Alla fine, un «board» molto qualificato, come alcuni Nobel della Scienza, valutino i lavori e diano un giudizio definitivo di eventuali danni o no alla salute umana. Sembra semplice e ovvio ma, proprio perché lo è, contrasta con il monopolio di cinque multinazionali che trovano nei Paesi anglosassoni dei fedeli difensori di prodotti che mortificano i nostri alimenti del Sud Europa, eccellenti per il loro gusto e che soprattutto garantiscono effetti salutisti al consumatore.

Spero che l’Europa non faccia questi passi avventati in avanti senza i giusti presupposti, perché nel tempo potrebbe pentirsene e trovarsi costretta a fare marcia indietro. Ciò non è mai politicamente e scientificamente corretto, perché nel frattempo qualcuno potrebbe essersi ammalato.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Basta fatti vogliamo promesse
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:18:54 am
3/3/2010

Basta fatti vogliamo promesse
   
MARIO CALABRESI

Dove sono finite le idee, i progetti, i programmi, i sogni o anche le affabulazioni che la politica dispensava a piene mani prima di ogni elezione? Scomparse. Inghiottite da un malessere diffuso, da una cupezza che sembra aver coperto tutto. Le giornate sono scandite dagli scandali, dalle risse intestine e dalla sciatteria. La campagna elettorale esprime pochissima passione e nessuna energia, prigioniera della stanchezza e del risentimento.

Il fallimento della macchina organizzativa del primo partito italiano, incapace di presentare in Lombardia e nel Lazio liste rispettose dei regolamenti, racconta molto dei tempi che stiamo vivendo. Ci racconta come anche nelle incombenze più semplici e ordinarie sia venuta meno la capacità di fare le cose per bene, con rigore e attenzione. Il peggiore dei contrappassi per una forza che era nata promettendo la politica del fare e il trasferimento nella sfera pubblica dello spirito imprenditoriale.

Viene da chiedersi dove sia la testa dei nostri politici e che cosa li distragga. Sembrano essere concentrati in lotte fratricide, intenti a controllarsi e a cercare di piazzare una pedina fondamentale in vista di una resa dei conti che però non pare imminente. A livello locale si assiste a uno spettacolo ancora più squallido con le seconde file impegnate a strappare qualche posizione nelle liste o a rinfacciarsi la paternità di un candidato impresentabile.

È difficile immaginare che questa trascuratezza, questi veleni e questo pressappochismo possano poi trasformarsi in illuminata capacità di governo. La politica oggi sembra tornata sideralmente lontana dai problemi reali e chiedere conto dei programmi sulla sanità, le tasse o la sicurezza appare quasi naïf.

La sciatteria è figlia anche dell’arroganza e del disinteresse, due sentimenti che connotano chi si sente troppo forte, intoccabile, senza opposizione e senza alternativa. Non è un caso che gli incidenti delle liste siano accaduti in due regioni che il centrodestra considerava già vinte e non in discussione. Un eccesso di confidenza che non si è registrato, ad esempio, in Piemonte, dove la partita è aperta e la sfida non consente errori e distrazioni, tanto che, a tratti, si sente anche parlare di politica e di programmi.

Anche a livello nazionale si sente la mancanza di un’opposizione che tenga alta la tensione, che spinga chi governa a conquistare consenso ogni giorno invece di perdere tempo a spegnere programmi televisivi e a cercare silenzi complici.

Come in ogni fase di sfarinamento e di difficoltà è partito l'esercizio delle previsioni: si scruta Palazzo Chigi per capire se tutto questo sfocerà in una crisi, se una stagione della politica italiana volge al termine. Mi pare un esercizio sterile: oggi non sembra esistere una possibile alternativa di governo pronta e vincente e questa volta non si riesce a vedere chi abbia la forza o la voglia di far cadere il Cavaliere. La Lega - l’unico partito con i numeri per fare la differenza - si è sistemato nella posizione ideale per intercettare gli scontenti e per approfittare della crisi della Seconda Repubblica come fece con quella della Prima. Bossi non ha nessun interesse a cambiare cavallo e precipitare le cose, visto che le disgrazie altrui non fanno che rafforzarlo. Aspetterà il naturale evolversi delle cose, cercando nel frattempo di assicurarsi il controllo del Nord, puntando a governare Veneto e Piemonte.

Si dice da mesi che gli ultimi tre anni della legislatura, un periodo insolitamente lungo senza nessun appuntamento elettorale nazionale, potrebbero essere una grande occasione per fare riforme. Ma non si capisce quali e guidate da quale visione. Però non è immaginabile pensare di vivere 36 mesi in cui la politica si prepara soltanto ad un ipotetico dopo-Berlusconi.

L’unica certezza è che avremmo bisogno di molto più dibattito, di proposte, idee e parole e di molti meno silenzi. Non è blindando tutto che si riconquista la fiducia degli elettori, una fiducia che sta scendendo ai livelli più bassi: i cittadini sembrano aspettarsi qualunque cosa o forse sarebbe meglio dire che non si aspettano più niente dalla politica. E questa è la cosa che allarma di più. Viene da rimpiangere quell’ironica richiesta scritta con la vernice pochi anni fa su un muro di Brescia: «Basta con i fatti, vogliamo promesse».

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Un anno alla finestra: un punto di vista privilegiato
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2010, 09:19:25 am
10/3/2010

Un anno alla finestra: un punto di vista privilegiato

   
MARIO CALABRESI

Siamo convinti che Torino sia un punto di vista privilegiato in cui osservare l’Italia unita che si avvia a compiere un secolo e mezzo di vita. Con la sua storia di cambiamento, da capitale a città fabbrica, dalla crisi alla nuova vita post-olimpica, spesso ha precorso i tempi. Per questo abbiamo pensato di osservarla dalle sue finestre e ascoltarne i racconti e la persona giusta per farlo era un osservatore esterno come Matteo Pericoli, sbarcato a Torino dopo 14 anni di vita a Manhattan.

La sua maniacale cura del dettaglio, capace di illuminare una scena e svelarcela, non gli ha impedito di dare vita all’immenso murale - lungo 120 metri - che accoglie i passeggeri al terminal dell’American Airlines all’aeroporto Kennedy di New York. Ma questa volta i suoi disegni mostreranno qualcosa di molto più intimo come la vista sulla città di personaggi famosi del presente e del passato, ma anche cittadini comuni. Un viaggio lungo un anno per riscoprire anche ciò che pensiamo di conoscere benissimo.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Un errore chiamarsi fuori
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2010, 07:25:59 pm
28/3/2010

Un errore chiamarsi fuori
   
MARIO CALABRESI

Forse per capire che giorni ci aspettano varrebbe la pena interrogare un meteorologo: il voto di oggi e domani dovrà stabilire se, come spera Bossi, soffia impetuoso da Est a Ovest il vento del Nord, o se, come scommettono a sinistra, il vento è cambiato e non gonfia più la vela di Berlusconi. E nelle ultime ore è sempre più chiaro che l’area su cui concentrare l’attenzione, la regione in cui verranno misurate la direzione e la forza del vento, è il Piemonte.

Certo si tratta di elezioni regionali, non va dimenticato, e la nostra scelta determinerà soprattutto il modello di sanità che vogliamo, ma anche gli investimenti per le case, il lavoro, i trasporti o il turismo. È per questo che abbiamo preso un’iniziativa originale e impegnativa come quella di pubblicare domenica scorsa un dossier curato da Luca Ricolfi dove poter valutare in modo obiettivo come sono state governate le tredici amministrazioni per le quali siamo chiamati a votare. Quel dossier che potete consultare ancora sul nostro sito (www.lastampa.it/elezioni2010) è stato realizzato sulla base di dati oggettivi, sui quali misurare come si sono comportate le persone che oggi si presentano al vostro giudizio. Non abbiamo dato alcuna indicazione di voto, com’è tradizione di questo quotidiano, ma riteniamo di aver dato in modo onesto a ciascuno la possibilità di farsi un’idea e di scegliere. La capacità di fornire analisi e contesti pensiamo sia uno dei compiti fondamentali che hanno i giornali nell’epoca in cui si è bombardati ventiquattr’ore al giorno dall’informazione.

Detto ciò non possiamo fare finta che si risolva tutto all’interno dei confini regionali e nascondere che, come in ogni tornata elettorale che coinvolge una maggioranza dei cittadini italiani, la partita è più complessa e questa volta capace di condizionare la sorte e le dinamiche degli ultimi tre anni della legislatura.

Così non è campanilismo sostenere che il voto in Piemonte ha assunto una valenza particolare, ma la consapevolezza che tra Novara e Cuneo si è aperto un grande laboratorio che dovrà dare almeno tre risposte fondamentali: 1) la spinta propulsiva che due anni fa ha dato una grande vittoria al presidente del Consiglio e ha continuato a tenere il suo gradimento a livelli record è in grado di fargli conquistare tutte e tre le grandi Regioni del Nord o sta perdendo forza? 2) la Lega, che prova il sorpasso sul Pdl, è capace di affermarsi anche a Ovest del Ticino e di prendere il governo di una seconda Regione chiave oltre al Veneto, diventando così la forza politica capace di decidere i futuri assetti del Nord? 3) l’alleanza tra il Pd e l’Udc è vincente o gli elettori di Casini non sono disposti a guardare a sinistra e preferiscono tornare nella casa berlusconiana?

I verdetti che verranno disegneranno le coalizioni del futuro e saranno la base per costruire programmi, strategie e per scatenare richieste e rese dei conti a destra come a sinistra.
La posta in gioco, in qualunque modo la pensiate e qualunque sia la risposta che avete in testa per le tre domande, dovrebbe spingervi ad andare a votare. Si è parlato molto in questi ultimi giorni di astensionismo per effetto della sorpresa delle regionali francesi, dove sono andati ai seggi meno della metà degli elettori. Un segno grave di distacco e indifferenza in un Paese che, quanto e più del nostro, è storicamente appassionato al dibattito politico. Certo è una tendenza generale, ha l’aria di una malattia comune alle democrazie occidentali. Negli Stati Uniti o in Inghilterra, dove i sistemi democratici sono ben più maturi del nostro, i tassi di partecipazione al voto sono tradizionalmente molto più bassi. Il che significa che spetta al cittadino scegliere non solo per chi votare ma anche eventualmente di non votare. Qualcuno l’ha definito una forma di obiezione civile. Nel dominio del dibattito astratto è tutto vero, ma noi ci ostiniamo a pensare che non votare sia in definitiva la rinuncia a un diritto e anche un po’ a un dovere.

Per quanto negativo possa essere il nostro giudizio sull’insieme della politica, o sull’uno e sull’altro dei candidati, per quanto nauseabonda sia stata questa campagna elettorale, il momento in cui decidiamo di restare a casa corrisponde ad una resa. Non illudiamoci così di punire i partiti: astenersi significa chiamarsi fuori, non farsi carico del futuro del Paese, rinunciare a dare un’indicazione della direzione che vorremmo. E chi rinuncia a dire la sua non ha mai ragione.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Le emozioni, la ragione e la realtà
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2010, 03:04:33 pm
31/3/2010

Le emozioni, la ragione e la realtà

MARIO CALABRESI

La distanza tra la parte razionale e quella emotiva del cervello certi giorni appare immensa e insormontabile. Soprattutto se una parte dei cittadini, dei giornalisti e dei politici usa soltanto la prima e una parte consistente degli elettori invece va alle urne guidata dalla seconda.

Ieri mattina le analisi del voto e del successo della Lega, che in cinque anni ha raddoppiato i suoi consensi, parlavano di federalismo, di protesta e di voglia di rottura. Le motivazioni di chi ha scelto il partito di Umberto Bossi appaiono invece completamente diverse e si richiudevano in tre parole: serenità, normalità, sicurezza.

Questa distanza di percezione e interpretazione ci racconta che anche in Italia politici e analisti fanno riferimento solo ad una parte della nostra mente, quella più fredda, razionale e calcolatrice, cadendo così in errore e restando spiazzati di fronte ai risultati elettorali. Prima delle ultime presidenziali americane, Drew Westen, noto professore di psicologia e consulente politico, lo ha spiegato in un libro di successo. I conservatori, sostiene, sanno fin dai tempi di Nixon e poi di Reagan che la politica è soprattutto una «questione di racconto».

I progressisti, aggiunge Westen, hanno perso elezioni a ripetizione concentrandosi solo su questioni astratte e razionali, che non chiamano mai in causa cuore e pancia. Un candidato emergente di nome Barack Obama ha preso appunti e mettendo a frutto la lezione di Westen è riuscito a trasformare le tematiche più «cerebrali» in una «narrativa» capace di coinvolgere i suoi concittadini. E ha vinto.

I leader della Lega probabilmente non conoscono il professore americano, ma istintivamente ne hanno messo in pratica gli insegnamenti, mentre gli esponenti del centrosinistra, pur guardando ad Obama come a un esempio mitico, ripetono regolarmente gli errori storici dei democratici americani.

Il successo della Lega non penso sia figlio delle battaglie sul federalismo, o almeno non in modo preponderante in questa fase, ma nasce dalla voglia di dare il consenso a una formazione politica che viene vissuta come più prossima, più vicina e che parla un linguaggio di certo assai semplificato ma diretto e comprensibile. Difficile ignorare che i toni e le battaglie contro gli immigrati e l’integrazione hanno creato apprensioni e disagio in molti, così come appare irritante una semplificazione della realtà che tende ad identificare il diverso come ostile, ma leggere la vittoria di Bossi come uno scivolamento del Paese nel razzismo sarebbe ingannevole e non spiegherebbe cosa è successo.

La risposta alle politiche leghiste non può ridursi alla demonizzazione e a un nuovo allarme per la calata dei barbari, ma dovrebbe partire da un impegno reale sul territorio. La sede della Lega a Torino, il luogo dove è stata festeggiata la conquista del Piemonte, si trova a Barriera di Milano, in una delle periferie più difficili della città e gli arredi si limitano a foto di militanti sui muri e ad una serie di sedie di plastica verde. La piccola carovana leghista che dopo le due del mattino si è spostata in una deserta piazza Castello, per festeggiare la presa del potere, appariva fuori posto nel centro della città sabauda. Ma questa è sembrata essere la sua forza.

La prima volta che ho incontrato Roberto Cota gli ho chiesto di spiegarmi quali erano le prospettive politiche della Lega in Piemonte e lui mi ha risposto parlandomi per un quarto d’ora sui danni della grandine. Mi sembrava un marziano, ma i risultati della Lega nelle campagne del Cuneese come in quelle del Veneto ci dicono che anche lì c’era uno spazio vuoto che da tempo aspettava di essere riempito.

La teoria del cervello emotivo calza alla perfezione anche con Berlusconi: dopo un anno di scandali, feste dei diciott’anni, escort, processi, leggi ad personam, scontri sulla televisione, è riuscito a tenere in piedi la sua maggioranza e a portarla ad un’altra vittoria. Ha visto un calo dei suoi voti, ma la politica di alleanze che ha messo in piedi 16 anni fa - con la Lega al Nord, con gli eredi della Dc e dell’Msi al Sud - ancora regge e il suo potere di seduzione non si è esaurito. Non è certo tutto merito suo, ma anche della stanchezza di un elettorato che non vede maggioranze o progetti alternativi capaci di spingere ad un cambio di direzione.

La mancata sconfitta di Berlusconi, date le evidenze degli ultimi dieci mesi, dovrebbe allora farci pensare che quei temi che domenica scorsa Barbara Spinelli ci indicava come cruciali - le regole, la legalità, l’indipendenza dell’informazione e i diritti - siano inutili e non efficaci? Non rispondano a esigenze fondamentali? Nient’affatto, dovrebbero far parte del dna dei giornali, delle forze politiche, dovrebbero essere lo sfondo condiviso di una democrazia e sarebbe troppo pericoloso ignorarli. Ma forse dovremmo convincerci, una volta per tutte, che non possono essere i temi esclusivi di un programma elettorale e che da soli non sono capaci di dare la vittoria. La differenza la fanno la capacità di intercettare i bisogni, i desideri e le paure degli elettori e, facendosene carico, dare risposte concrete in un quadro che abbia come riferimento proprio le regole, la legalità e la separazione dei poteri.

Non si può pensare che una battaglia, per quanto corretta e incisiva, sulle firme, sui timbri o sulle procedure di presentazione delle schede sia capace di invertire il risultato di un’elezione, di rispondere ai bisogni dei cittadini.

L’avanzamento della Lega anche in Emilia e in Toscana ce lo ricorda, così come lo sottolineano gli inaspettati successi delle Liste Grillo. Mercedes Bresso - lo ha candidamente confessato l’altra notte di fronte alle telecamere - non immaginava neppure che potessero conquistare un voto. Non era la sola: i giornalisti al completo (noi compresi) le avevano sottovalutate nella stessa misura.

Ma non sarebbe stato impossibile capirlo: sarebbe bastato leggere con attenzione i giornali che produciamo ogni giorno. Non le pagine politiche ma quelle di società, ambiente e costume, dove parliamo degli italiani che si muovono in bicicletta, che chiedono più piste ciclabili, più verde e aria pulita per i loro figli, che si preoccupano per l’effetto serra, che comprano equo e solidale, che riducono i consumi di carne, fanno attenzione a non sprecare acqua e usano Internet e i social network. Nessuna delle forze politiche tradizionali si è però preoccupata di intercettarli, di dare loro rappresentanza, tranne un comico che, non per caso, è stato premiato.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Montezemolo: "Si apre una nuova fase, il mio lavoro è compiuto"
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2010, 03:14:25 pm
21/4/2010 (6:58)  - INTERVISTA

Montezemolo: "Si apre una nuova fase, il mio lavoro è compiuto"

Montezemolo: dimissioni non legate a spin-off
   
«Non intendo entrare in politica, ma ora potrò esprimermi con più libertà»

MARIO CALABRESI

«Sono molto sereno e soddisfatto perché ho portato a termine il mandato che mi era stato assegnato: dovevo fare il traghettatore e adesso che viene presentato un nuovo piano forte e ambizioso, che si apre una fase nuova nella vita della Fiat, sono arrivato al traguardo». Luca Cordero di Montezemolo è nel suo ufficio d’angolo nella palazzina storica del Lingotto, da poco più di un’ora ha annunciato che lascerà la presidenza della Fiat, si guarda in giro e ogni oggetto gli ricorda un momento di questa avventura. Parla della fine di un percorso e ripete che «ha passato la bandiera a scacchi», quella che si usa all’arrivo dei Gran Premi di Formula Uno per i vincitori, forse gli è venuta in mente perché viene interrotto da due telefonate, sono Alonso e Massa, i due piloti della Ferrari.

Prima di volare a Torino è stato a Roma a dare la notizia al presidente Napolitano, al governatore Draghi e a Gianni Letta, poi ha parlato al telefono con Silvio Berlusconi. Con loro ha ragionato degli obiettivi raggiunti. «Sono abituato a dire che bisogna sempre guardare avanti, ma oggi è giusto vedere da dove si è partiti: non posso dimenticare quei giorni drammatici alla fine di maggio del 2004, quando la Fiat era vicina al fallimento, avevamo la pressione costante delle banche e il problema del convertendo. La famiglia aveva appena perso Umberto Agnelli, una delle persone a cui ero più legato, a poco più di un anno di distanza dalla morte dell’Avvocato. Non c’erano più leader. Così ricevetti la richiesta di Gianluigi Gabetti, una di quelle richieste pressanti a cui non si può dire di no, di fare il presidente. Scelsero me perché tra gli esterni ero quello più di famiglia. Ma ero appena diventato presidente di Confindustria e continuavo ad avere la responsabilità della Ferrari, così non avrei mai pensato che sarei rimasto qui fino al 2010».

Come sono maturate le condizioni per il passaggio di consegne con John Elkann?
«Le due condizioni che avevano spinto a nominarmi sono venute meno: l’azienda è sana e competitiva e adesso c’è un componente della famiglia che ha le carte in regola per assumersi la massima responsabilità. John, che allora aveva appena compiuto 28 anni, oggi ha un ruolo pari a quello dell’Avvocato Agnelli e soprattutto ha partecipato a tutte le scelte che sono state fatte in questi sei anni da Sergio Marchionne e da me. Era giusto che ora, nel momento in cui si apre una nuova fase, che guarda lontano e lancia un nuovo progetto verso il 2014, io facessi un passo indietro».

Quando è stato deciso?
«La decisione è maturata poco meno di un mese fa, nel momento in cui è stato chiaro che si poteva presentare un piano veramente nuovo e innovativo che farà fare all’azienda un salto epocale. Adesso mi sento in pace e contento».

Quali sono stati i momenti più difficili di questi sei anni?
«Ricordo l’angoscia delle prime notti che mi toglieva il sonno e un incontro difficilissimo con le banche, nel maggio del 2005, per discutere del convertendo. Non c’era nessuna fiducia in noi e tutto sembrava essere ostile alla salvezza della Fiat. I primi due anni sono stati i più difficili ma anche quelli cruciali per la rinascita».

E le soddisfazioni più grandi?
«Il ritorno della Fiat tutta italiana quando chiudemmo la partita con Gm e la grande soddisfazione, un anno fa, per l’accordo con la Chrysler e per aver sentito il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, parlare della Fiat come un esempio di tecnologia».

Come si sente oggi?
«Mi fa piacere tornare ad essere quello che ero prima della morte di Umberto: il presidente della Ferrari che siede con Marchionne e Elkann nel consiglio d’amministrazione della Fiat».

Cosa farà da domani?
«Avrò più tempo da dedicare a quella che, dopo la famiglia, è la cosa più importante della mia vita: la Ferrari. E poi ho messo in piedi la grande sfida del primo treno privato ad alta velocità, che comincerà a viaggiare nel settembre del 2011 e aprirà al mercato e alla concorrenza anche il trasporto su rotaia. E poi, detto con franchezza, spero di stare un po’ di più in famiglia».

Ma è l’anno giusto per la Ferrari in Formula Uno?
«Questa volta dobbiamo puntare al Mondiale e siamo competitivi per farcela, sono convinto che possiamo giocarcela davvero».

Le farò la domanda che è nella testa di tutti in queste ore: nessuna tentazione di entrare in politica?
«Devo dire proprio di no, per gli impegni che ho e perché vorrei provare a vivere un po’ meglio dopo anni di fortissimi sacrifici fisici e familiari. Quello che è certo è che il fatto di non essere più il presidente della Fiat mi permetterà di esprimere le mie opinioni con maggiore libertà».

Significa che si impegnerà di più con la sua Fondazione?
«Continuerò a farlo come ho fatto fino a oggi e mi impegnerò, come esponente della società civile, per il bene comune del nostro Paese». E si gira per indicare, sopra la scrivania un grande tricolore d’artista con ricamata la scritta: «Un paio di metri quadri sentimentali».

Che cosa le mancherà di più?
«Il contatto con i prodotti, con il Centro Stile, con le persone che lavorano qui e con l’automobile pura, nella fase in cui viene pensata e realizzata. E mi mancherà il rapporto con Torino, che ho visto cambiare tanto e in meglio, dove approdai nel 1976».

Alla fine, mentre passa in rassegna le foto che dovrà togliere dalla libreria, che lo ritraggono insieme all’Avvocato in montagna, per un attimo si commuove: «Ho svolto un compito storico, promuovendo un cambio generazionale nella tradizione degli Agnelli. Sono contento di aver contribuito alla crescita di John Elkann ed è fondamentale che ora l’azionista sia anche presidente. Ma io continuerò a sentirmi parte di questa squadra».

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. Una politica staccata dalla realtà
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2010, 11:24:36 pm
24/4/2010

Una politica staccata dalla realtà

MARIO CALABRESI

La notizia che ha colpito di più gli italiani questa settimana è stata la morte a Ventotene di due ragazze di quasi 14 anni schiacciate da un masso. Il mondo politico, concentrato sullo scontro senza precedenti tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera, non se ne è neppure accorto. Ma i sondaggi, che commissiona quotidianamente, lo hanno ricordato ieri mattina a Berlusconi prima che entrasse in Consiglio dei ministri per essere investito dalle minacce di una crisi di legislatura lanciate da Bossi. Archiviate le elezioni regionali doveva cominciare una nuova fase di riforme costituzionali e di politiche capaci di rispondere alle necessità di un’Italia a cui mancano una bussola, una prospettiva e un disegno di largo respiro. E a cui manca una politica di difesa e di messa in sicurezza del territorio, che risolviamo con il suo contrario: i condoni.

C’era la promessa di occuparsi di federalismo, di tasse, dei costi della politica, dell’efficienza della giustizia e del rilancio dell’economia. Si ragionava sul fatto che finalmente c’era tutto il tempo - addirittura tre anni senza elezioni di portata nazionale - per affrontare nodi irrisolti da decenni. Invece si discute addirittura della possibilità di elezioni anticipate e lo slancio riformista sembra già miseramente crollato. Difficile aspettarsi che i cittadini comprendano le ragioni per tornare alle urne, più facile immaginare che il numero dei disillusi e dei disgustati cresca ancora. Alle regionali quattro elettori su dieci sono rimasti a casa o hanno lasciato la scheda bianca, ma quanto deve ancora crescere l’area dello scontento per mettere in allarme una politica che ha perso ogni contatto con la realtà? Certo è assai improbabile che si vada al voto già questo autunno - i tempi per farlo prima dell’estate non ci sono - e allora viene da chiedersi cosa dobbiamo aspettarci da questa legislatura. Il tentativo di riformare globalmente la Costituzione è già fallito tre volte e i presupposti in passato erano assai più forti.

Come pensare che possa riuscirci un Parlamento in cui maggioranza e opposizione non trovano nessun filo di dialogo e in cui la maggioranza stessa è impegnata in un duro regolamento di conti interno? Vennero affondate la commissione Iotti e la bicamerale di D’Alema, nonostante un clima bipartisan che portava a scommettere sulla loro riuscita, così come furono gli elettori a bocciare, con un referendum, la riforma federalista approvata a maggioranza dal centrodestra nella penultima legislatura. Nelle ultime settimane il dibattito si era acceso immaginando di dare all’Italia un Presidente eletto direttamente dai cittadini, ogni giorno però cambiava il modello straniero di riferimento, adesso sembra già tutto svanito. Sulla scrivania del Capo dello Stato, al Quirinale, è ancora appoggiata la cartellina gialla con la dicitura Presidenza del Consiglio dei ministri che Roberto Calderoli ha lasciato a Giorgio Napolitano. Quella cartellina, che contiene una bozza di riforme, doveva servire a far decollare il dibattito, invece è servita a farlo precipitare.

La cartellina gialla infatti è stata la goccia che ha scatenato l’ira di Gianfranco Fini nemmeno avvisato della visita al Quirinale del ministro leghista. Il presidenzialismo, poi, sembra già non interessare più né al premier che negli ultimi giorni ha confidato di averlo lanciato per provare a stanare proprio Fini (che dell’elezione diretta aveva fatto una sua storica bandiera), né alla Lega realmente interessata solo al varo del federalismo fiscale. Viene da chiedersi adesso perché proprio da lì si era pensato di cominciare. Il Capo dello Stato, in tempi in cui anche i presidenti di Camera e Senato si sono gettati nella mischia politica, sembra essere l’unico punto di riferimento istituzionale, l’unico che non partecipa alle risse, che non grida e non minaccia. Penso che così si spieghi perché nei sondaggi continua ad avere l’indice di gradimento e di fiducia più alto.

Eliminare quella che appare come l’ultima figura di garanzia del Paese, per trasformarla con l’elezione diretta nella massima espressione di una parte, non sembra un’idea geniale di questi tempi. Bisognerebbe prendere atto che non esiste un clima da Grandi Riforme, che non c’è più tempo da sprecare in dibattiti sterili, e mettere a fuoco riforme mirate puntando su quelle su cui è possibile raccogliere un consenso più ampio, su passi capaci di dare segnali positivi al Paese. Si dovrebbe avere il coraggio di discutere di cosa ha bisogno l’Italia, su quale ruolo vuole avere oggi in un mondo che è cambiato drammaticamente. Alla politica si chiedono certezze, stabilità, la capacità di non farci sconfiggere dalle sfide globali. Invece siamo qui a guardarci l’ombelico, a preoccuparci delle insegne dei negozi, a mettere in competizione gli insegnanti nati a cento chilometri di distanza, a pensare di chiuderci all’interno delle nostre regioni, dimenticando che il mondo corre e può tranquillamente passare oltre. Nel 2009 in Francia i turisti cinesi hanno speso il doppio di quelli americani e a Parigi si costruiscono in gran corsa alberghi per ospitare i nuovi ricchi orientali. Più che il dialetto lombardo dovremmo far studiare ai nostri figli il mandarino e chiedere ai nostri politici di indicarci le opportunità del mondo nuovo e preparare il Paese a prenderle al volo.

da lastampa.it


Titolo: MARIO CALABRESI. L'inquietudine che non finisce
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2010, 08:58:07 am
3/5/2010

L'inquietudine che non finisce
   
MARIO CALABRESI

Lo spettacolo pomeridiano del Minskoff Theatre è cominciato regolarmente alle tre del pomeriggio. Le famiglie di turisti che avevano pagato 214 dollari a testa per vedere il Re Leone dalle prime file sotto il palco hanno solo fatto più fatica per entrare.

Una folla di curiosi si faceva fotografare all’incrocio tra la 45ª Strada e Broadway. Da sabato sera sulle guide dei tour organizzati per Manhattan c’è un altro luogo dove bisogna essere stati, vi è già spuntata una bancarella con magliette «I love NY» e bandierine a stelle e strisce. Ora è il momento di farsi immortalare nel punto esatto dove New York avrebbe potuto trasformarsi in Baghdad. Sono gli stessi turisti che con la linea 1 della metropolitana si spostano da Sud, da quel che resta di Ground Zero - che finalmente non è più un buco ma vede crescere l'erede delle Torri Gemelle - a Nord, all’ingresso dell’elegante Dakota, il condominio di fronte a Central Park, dove trent’anni fa venne assassinato John Lennon. Due portieri in livrea ancora ieri mattina si affannavano a spostare i curiosi che si arrampicano perfino sulla facciata per portarsi a casa un’immagine ricordo.

La vita e lo spettacolo a Times Square sono ripartiti identici, dopo un sabato sera surreale in cui c’è stato soltanto silenzio e poliziotti in tenuta antiterrorismo che sigillavano ben dodici isolati. Ma se per il turista di passaggio questo è solo un altro scatto, per i newyorchesi la fallita autobomba è il risveglio di un’inquietudine che da quasi nove anni vive sotto la loro pelle. Dal giorno in cui si sono sentiti vulnerabili. Da quell’11 settembre in cui l'onnipotenza di una città è crollata insieme alle Torri Gemelle. Sui muri della metropolitana e sulle fiancate degli autobus è sempre rimasto ben visibile il messaggio simbolo: «If you see something, say something» se vedi qualcosa, segnalalo immediatamente. Si è ironizzato molto su questa scritta ripetuta ossessivamente in inglese e spagnolo, su quei cartelli che invitavano a denunciare qualunque cosa e chiunque risultasse fuori posto.

Ma l’eroe del sabato sera, un venditore ambulante di magliette con un passato da soldato in Vietnam, ha agito secondo le procedure e oggi viene premiato come esempio. Anche l’America di Barack Obama sembra non poter fare a meno di quegli standard di paura e sicurezza dettati da Osama bin Laden e da George Bush.

New York conosce le autobombe: nel 1993 - in quella che fu una sorta di prova generale del terrorismo islamico sul territorio americano - 680 chili di esplosivo furono piazzati nel parcheggio sotterraneo della Torre Nord del World Trade Center. Allora ci furono solo sei morti e un migliaio di feriti e le Torri Gemelle rimasero per altri otto anni al loro posto. Ma i sodali dello sceicco cieco Omar Abdel-Rahman - che sconta il suo ergastolo in Nord Carolina - si presero la rivincita nel 2001 cambiando la storia e il sentimento di una città. Ma se l’idea dell’autobomba a noi europei parla oggi di Baghdad come in passato significava Beirut, negli Stati Uniti è associata all’impresa più tragica delle milizie estremiste e razziste bianche, quelle che con un camion bomba nel 1995 sbriciolarono il Palazzo Federale di Oklahoma City uccidendo 168 persone tra cui 19 bambini dell’asilo.

Chi voleva trasformare il Centro turistico di Manhattan, la casa dei musical, del divertimento per famiglie in un teatro di distruzione e sangue? Tutte le piste e le ipotesi sono aperte. Dagli estremisti islamici che continuano ad odiare l'America ai gruppi della razza ariana che odiano invece soltanto il suo Presidente nero. Sappiamo che la vita continua ma che quell’inquietudine newyorchese resta intatta, perché quei tremila morti di nove anni fa non sono dimenticati e perché dall’inizio del millennio sappiamo che il nostro mondo e il nostro modo di vivere sono cambiati per sempre.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Difesa di casta
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2010, 03:49:45 pm
24/5/2010

Difesa di casta
   
MARIO CALABRESI

Molti lettori nell’ultimo anno hanno espresso il loro disagio di fronte alle centinaia di pagine di colloqui privati, telefonate e messaggi intercettati dalla magistratura e finiti in tempo quasi reale sui giornali. Penso alle liste piene di nomi, pubblicate senza distinzioni di ruoli e responsabilità, o ai dialoghi privati riprodotti senza chiarire i necessari contesti di riferimento. Penso, per esempio, alle intercettazioni riguardanti le inclinazioni sessuali dell’inquisito Angelo Balducci, che nulla hanno a che fare con l’inchiesta che ha smascherato gli affari della «cricca» dei lavori pubblici, ma che sono state passate ai quotidiani e sono finite direttamente nelle case degli italiani. Un’anomalia, di cui parla in modo esaustivo Luca Ricolfi nell’articolo che trovate qui sotto. Un’anomalia che avremmo dovuto affrontare da tempo.

L’idea che l’Italia si sia trasformata in una società di guardoni, incollati allo spioncino delle procure in attesa di una nuova rivelazione, mi inquieta. Da mesi ne discutiamo in questa redazione, cercando di darci dei limiti quando la sera, nella fretta della chiusura, ci troviamo di fronte a centinaia di pagine di verbali e intercettazioni. Pensiamo che si debba pubblicare solo ciò che è significativo per far comprendere un’inchiesta, illuminante per i lettori.

Resto convinto che in uno Stato di diritto e in una democrazia sana spetti alla magistratura la valutazione degli indizi e delle prove e che debbano essere i tribunali e non i giornali a emettere le sentenze. L’idea di una giustizia sommaria somministrata sull’onda delle emozioni e dell’indignazione è qualcosa che mi ha sempre fatto paura e che in passato ha fatto danni che non si dimenticano. Sarebbe il tempo di aprire una discussione vera e approfondita sul rispetto della privacy, dei diritti degli inquisiti e sulla tutela che andrebbe garantita a chi finisce suo malgrado in un’inchiesta senza averne colpa.

Si potrebbe allora dire che la legge in discussione al Senato arriva al momento opportuno. Purtroppo non è così, anzi accade il contrario: il disegno di legge sulle intercettazioni è così palesemente sproporzionato e ha un sapore talmente vendicativo da risultare inaccettabile e da soffocare ogni possibilità di riflessione. Nei mesi in cui riemergono prepotentemente la corruzione e gli intrecci tra la politica e gli affari e in cui la nostra classe dirigente mostra il suo volto più arrogante e spregiudicato, la nuova legge suona come l’estremo rimedio per coprire l’illegalità e garantire impunità.

Non si capisce come siano collegate la necessità di offrire maggiore privacy e vere garanzie agli indagati con la limitazione dei tempi delle intercettazioni o l’obbligo che per autorizzarle ci voglia un collegio formato da tre magistrati. Rendere più faticosa, farraginosa e intempestiva la possibilità di intercettare va nella direzione di indagini più serene e rispettose o finisce per essere un favore a chi delinque? Prima ancora del diritto di informazione mi sta a cuore la possibilità che la magistratura possa continuare ad indagare a fondo, sia messa nelle condizioni di operare senza inciampi. Perché se anche fossimo liberi di pubblicare ogni atto e ogni intercettazione ma ai pubblici ministeri fosse impedito di lavorare, allora mi chiedo cosa ci resterebbe da raccontare.

Se il problema invece è quello di evitare di pubblicare le trascrizioni di telefonate di persone che non sono coinvolte nelle indagini o se è importante tutelare il segreto istruttorio, perché allora vietare anche di dare notizia degli atti di indagine (anche sotto forma di riassunto) fino al rinvio a giudizio degli indagati? È surreale pensare che si debba dare notizia di un arresto ma non si possa spiegare ai lettori perché quella persona è stata arrestata. La legge in discussione prevede poi, in caso di violazione, di non condannare tanto i giornalisti quanto gli editori con multe che arrivano a sfiorare il mezzo milione di euro. Una mossa odiosa e subdola che punta a spaccare le aziende editoriali e a terrorizzarle in tempi di crisi economica, oltre che a demandare non ai direttori ma agli amministratori il controllo su ciò che si pubblica.

È tempo che i giornali e i giornalisti tornino a fare inchieste senza aspettare di essere imboccati dagli inquirenti e senza diventare ogni settimana il megafono di una diversa procura. Che si rifletta su ciò che è corretto pubblicare smettendo di giocare a chi rivela un particolare più degli altri anche se questo non aggiunge nulla ma anzi può distruggere qualcuno.

È ora che il Parlamento abbia un sussulto e ripensi ad una legge che avrebbe effetti devastanti sulle inchieste.

È chiaro che questa legge ha poco a che fare con le preoccupazioni dei lettori e le sensibilità ferite di cui parlavo prima, mentre ha molto a che fare con una difesa corporativa e di casta.

Ma non della casta dei giornalisti, quanto di quella dei politici.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Un giorno importante
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2010, 09:41:36 am
6/6/2010

Un giorno importante

MARIO CALABRESI

Ho voluto cogliere gli aspetti positivi, ho sentito un impegno costruttivo ed effettivo a sostenere le celebrazioni.
È un giorno importante». Giorgio Napolitano parla a bassa voce, ha appena finito di ascoltare le parole del governatore leghista del Piemonte Roberto Cota, lo ha sentito impegnarsi per festeggiare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Il Presidente è soddisfatto, è venuto a Torino per celebrare Cavour ma soprattutto per sentire parole definitive che spazzassero via mesi di dubbi, polemiche e frenate, per cancellare finalmente la sensazione che un secolo e mezzo di storia unitaria possa essere vissuto come un fastidio da passare sotto silenzio. Lo aspettavano in molti dopo settimane passate a interrogarsi su come si sarebbe comportata la Lega, su quali battaglie si sarebbero dovute combattere da qui al marzo del 2011.

Invece Roberto Cota, pur non rinunciando al fazzoletto verde con il sole delle Alpi nel taschino, pur sottolineando l’importanza del federalismo nel futuro del Paese e mettendo in guardia dalla «retorica dei vecchi copioni», si è impegnato a cogliere l’invito del Presidente a fare la sua parte.

La sensazione è che ieri a Palazzo Reale sia stata presa una strada che non permette più passi indietro, adesso la sfida sarà quella di riempire le celebrazioni di contenuti veri e non di retorica stantia, ma il treno è partito e all’anniversario mancano ormai solo nove mesi.
Certo il governatore leghista ha dettato le sue condizioni: niente pensiero unico e niente sprechi, ma chi oggi si sentirebbe di dissentire, di augurarsi celebrazioni faraoniche o infrastrutture inutili? Nel piccolo rinfresco nel cortile di Palazzo Reale trionfava l’acqua minerale e questo è già un segno dei tempi. C’è da augurarsi solo che non prenda piede una retorica miope che mentre auspica un boom del turismo mette all’indice ogni investimento: la miopia di quelli che criticano il Sudafrica per aver investito milioni di dollari per costruire stadi e organizzare un mondiale di calcio senza vedere come questa possa essere la grande occasione per far fare un balzo avanti al Paese africano. Basti pensare al ritorno di immagine e credibilità che le Olimpiadi invernali hanno avuto per il Piemonte.

Ma non è solo una questione di guadagni e opportunità, le celebrazioni dell’Unità d’Italia parlano alla nostra pancia e al cuore, basta guardare le immagini del filmato presentato al Presidente per dimenticare le polemiche: Pietro Mennea che vince i 200 metri, la prima Cinquecento, i treni degli emigranti, i nostri premi Nobel e i premi Oscar, il boom economico che ci porta dalle macerie della Seconda guerra mondiale a essere la quinta potenza industriale del pianeta, le Ferrari, la Coppa del Mondo alzata al cielo. Immagini che ci raccontano molto di quello che siamo stati e che siamo riusciti a fare, il problema è che ci manca l’orgoglio di ricordarlo. Ma un Paese, la sua identità e la sua memoria non si costruiscono solo sui successi ma anche sui lutti, le tragedie collettive, le proteste e le battaglie per la giustizia.

Questa mattina Giorgio Napolitano verrà alla Stampa, gli presenteremo la digitalizzazione dell’intero archivio del giornale che è nato nel 1867 - è di soli sei anni più giovane della nostra nazione -, un patrimonio di un milione e 761 mila pagine, più di cinque milioni di articoli che saranno consultabili gratuitamente online.

Ho passato un sacco di tempo in questi giorni a navigarci dentro e quello che ho trovato mi racconta di quanto questo Paese abbia una storia unitaria. Lo choc per la strage di piazza Fontana, per l’agonia di Alfredino Rampi, l’Italia paralizzata dal rapimento Moro, il lutto del Vajont o per i terremoti del Friuli e dell’Irpinia. Siamo cresciuti insieme, nei drammi, nelle migrazioni interne - pensate alla Torino di oggi che è stata capace di integrare una «migrazione biblica» - e nelle eterne polemiche. Ce lo raccontano ogni domenica Fruttero e Gramellini, sull’ultima pagina di questo giornale, con la loro storia d’Italia per date in cui emerge che perpetriamo vizi e ingiustizie antichi, che anche nei difetti abbiamo continuità da un secolo e mezzo.

Il Presidente della Repubblica è stato a Quarto, da dove partì Garibaldi, poi in Sicilia, ma è venuto a Torino a dare la spinta decisiva perché si arrivi in tempo a celebrare l’Unità d’Italia. Da qui è partito tutto, da «questa terra di frontiera, dove fa freddo, si lavora, ci si alza presto la mattina, si va a letto presto la sera», come la definiva l’Avvocato Agnelli. Lo ha ricordato il sindaco Chiamparino, che al Presidente che gli chiedeva come stava ha risposto in dialetto, con asciuttezza e con il massimo dell’ottimismo che può esprimere un piemontese: «Son fòra dal let». Siamo fuori dal letto. Ancora una volta in piedi. Adesso comincia una nuova giornata, speriamo che sia un successo.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Il sipario sugli scandali
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:05:28 pm
11/6/2010

Il sipario sugli scandali
   
MARIO CALABRESI

Ora cala il sipario. Il nostro lavoro si farà più incerto e faticoso e gli avvocati diventeranno compagni di banco di direttori e editori. Nonostante dibattiti, correzioni e appelli di ogni tipo, la legge che detta nuove regole per le intercettazioni e l’informazione viaggia spedita verso i suoi obiettivi.

Abbiamo più volte scritto e riconosciuto che in Italia ci sono stati problemi di rispetto delle vite private di persone coinvolte in indagini, ma ciò non può cambiare il giudizio totalmente negativo che abbiamo della nuova legge.

Il dovere di informare i lettori e il mestiere di giornalisti saranno resi più difficili perché le possibilità di raccontare le inchieste si ridurranno notevolmente, potremo darvi resoconti minimi e parziali, dovremo destreggiarci a fare brevi riassunti e mai citare dettagli o particolari determinanti. Tutto in una grande incertezza, che spingerà gli editori a sollecitare continui pareri legali per evitare le maximulte.

E’ forte l’amarezza per un gesto che non ha nulla a che fare con la privacy e la civiltà giuridica, ma ci parla solo della volontà urgente della politica di calare il sipario sulle inchieste e di mettersi al riparo dagli scandali, per garantirsi un tranquillo futuro di impunità e mani libere.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Il mondo in balia di un idiota
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2010, 05:04:50 pm
11/9/2010

Il mondo in balia di un idiota
   
MARIO CALABRESI


Il mondo in balia di un idiota. Di un pastore battista a cui per 63 anni non aveva dato retta nessuno, tanto che nella sua Chiesa i fedeli erano poco più degli alunni di una classe elementare. La figlia di quest’uomo, che due mesi fa restò folgorato dalla proposta di un suo seguace di commemorare l’11 Settembre dando fuoco al Corano, sostiene che «è uscito di testa».

Insomma, parliamo di un matto di una cittadina della Florida profonda in cui sei obbligato a passare solo se devi andare in Georgia o in Alabama. Un matto capace però di tenere col fiato sospeso la Casa Bianca, la Nato, il Pentagono, l’Interpol, l’Onu, eserciti e polizie di mezzo mondo, organizzazioni umanitarie e di volontariato, chiese, moschee, sinagoghe e un sacco di turisti.

Come è possibile che questo oscuro reverendo in vena di provocazioni sia diventato un fenomeno planetario, anziché essere compatito dai suoi concittadini? La risposta investe in pieno il mondo dei mezzi di comunicazione che lo hanno trasformato in una star, che lo assediano da giorni con microfoni, telecamere, registratori, taccuini e che hanno piazzato intorno alla sua roulotte decine di antenne paraboliche. Per non farsi sfuggire nulla, per rilanciare al più presto ogni sillaba incendiaria e magari anche l’immagine dell’incendio finale, quel falò di libri sacri all’Islam che avrebbe l’immediato effetto di accendere un’altra pletora di idioti che non aspettano altro a ogni latitudine. Il rapporto causa-effetto lo mostrano le due foto che pubblichiamo in prima pagina.

Le quali possono essere lette da sinistra verso destra o anche al contrario, nel senso che nessuno dei due è giustificato dall’altro per i suoi comportamenti: i bruciatori di Corani e quelli di bandiere a stelle e strisce appartengono alla stessa razza. Quella degli idioti appunto.
La domanda allora sorge spontanea e ce la siamo posta anche noi: ma perché allora dargli spazio e visibilità? Basterebbe ignorarli, come viene suggerito di fare con i matti o con i bambini che fanno troppi capricci. Sarebbe la scelta giusta se questa giostra globale non corresse così in fretta, se filmati, foto e dichiarazioni non ci bombardassero senza sosta.
Puoi decidere di ignorare il pastore, ma come fai a tacere il fatto che nel frattempo il Papa, il segretario delle Nazioni Unite, il comandante delle truppe americane in Afghanistan e il Presidente degli Stati Uniti stanno lanciando appelli proprio a quel pastore e alla sua minuscola congrega di fedeli?

Puoi decidere di non mettere nulla sul giornale, ma all’ora di pranzo le agenzie battono il comunicato dell’Interpol in cui si parla di «rischio di attacchi globali». Qualche minuto e in una manifestazione antiamericana a Kabul ci scappa il primo morto.

Così pensi che se decidessi di tenere il giornale fuori da tutto ciò sembreresti tu l’idiota, o perlomeno un insopportabile snob, e che sarebbe tutto inutile. La grande agenzia Ap ha deciso di non distribuire le eventuali foto, ma sappiamo che basta un ragazzino con un cellulare e un computer a casa per far esplodere la rete e arrivare in ogni casa del globo. Gli esempi degli ultimi anni sono centinaia, pensate alle foto di Abu Ghraib o anche solo al filmato del bambino Down picchiato dai compagni di scuola.

A Barack Obama, ieri mattina nella East Room della Casa Bianca, hanno chiesto se non avesse fatto meglio a ignorare il pastore Jones invece di dargli importanza. Il Presidente ha risposto che ha dovuto occuparsi «dell’individuo giù in Florida» - non ha voluto dargli la dignità del nome - per evitare gravi conseguenze contro cittadini e militari americani, che non poteva fare altrimenti.

Così siamo tutti prigionieri di questo «reality show», come lo ha chiamato il direttore del New York Times Bill Keller, che finisce per dettare gli umori globali e farsi guidare da questi.
Ma non c’è proprio nessuna via d’uscita da questa degenerazione della società dell’immagine che è capace di mettere tutto sullo stesso piano, di enfatizzare un particolare fino a farlo diventare un fenomeno universale, che regala ai cretini di ogni sorta il loro minuto di celebrità planetaria?

Qualche cosa si potrebbe fare: una strada esiste, ma non passa dalla censura o dal silenzio, passa invece dallo sforzo di restituire a ogni immagine i suoi veri contorni, di rimetterla a posto nel suo contesto. Bisogna fare più giornalismo, non arrendersi alla valanga di immagini artefatte o di slogan a effetto.

Tutti i giornali del mondo hanno parlato della «Moschea a Ground Zero» e molti nel mondo si sono indignati, forse l’effetto sarebbe stato diverso se tutti avessero scritto che la sala di preghiera dovrebbe nascere a tre isolati dal luogo dove sorgevano le Torri Gemelle o che a quattro isolati già esiste da anni un’altra moschea (di cui nessuno si è mai sognato di chiedere la chiusura).

Fare giornalismo di qualità per cercare di abbassare la febbre del sensazionalismo significa andare a cercare dati e statistiche per dare il giusto peso alle nostre preoccupazioni, che si tratti del numero di crimini, di immigrati illegali, di malati di influenza suina o di moschee con minareto (in Germania ce ne sono 206, in Italia 3). Significa dare voce a chi ha titolo per parlare e non solo a chi garantisce di fare più rumore o più spettacolo.

Fare giornalismo così è faticoso, ma è l’unica strada che abbiamo per salvarci dall’invasione del falso, del verosimile, per cercare di capire qualcosa in questo caos globale.
Anche la politica e la società civile però potrebbero fare qualcosa per restituire ai gesti e alle parole il loro giusto peso: al delirio del reverendo Jones dovrebbero rispondere cento reverendi che pregano insieme a rabbini e muftì davanti a quello che era Ground Zero. L’immagine avrebbe una forza emozionale ed evocativa superiore e questa volta sarebbe l’erba buona a scacciare quella cattiva.

È davvero così difficile immaginare di non arrendersi e decidere che la nostra esistenza non può essere presa in ostaggio dall’ultima immagine che passa davanti ai nostri occhi?

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Titolo: MARIO CALABRESI. Il rispetto del lenzuolo bianco
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2010, 05:14:04 pm
25/10/2010

Il rispetto del lenzuolo bianco

MARIO CALABRESI


Esiste un gesto antico di pietà che mi torna in mente continuamente in questi giorni, è quello di coprire il corpo di chi è morto in un luogo pubblico. Lo si fa con un lenzuolo bianco, una coperta, un qualunque indumento che protegga almeno il volto e il busto di chi ha perso la vita rimanendo esposto su un marciapiede, in mezzo alla strada, su una spiaggia o in un campo.

È un gesto codificato dal mondo greco, almeno venticinque secoli fa (anche Socrate si copre il volto mentre muore), e non serve soltanto a proteggere i morti dallo sguardo dei vivi ma anche noi stessi, i vivi, dalla vista della morte. È il limite del pudore, del rispetto, è il simbolo della compassione e della capacità di fermarsi.

Oggi si è fatta strada in Italia una strana concezione dell'informazione che si potrebbe sintetizzare in un gesto: quello di sollevare il lenzuolo e spingere tutti a fissare quello che c’è sotto. Molti restano incollati all’immagine terribile, altri sfuggono, alcuni cominciano a provare disgusto.

Ieri mattina - grazie al lavoro dei nostri giornalisti - abbiamo avuto gli audio degli interrogatori di Avetrana, le voci di Michele e Sabrina Misseri, con la confessione dettagliata e tormentata da parte dello zio dell’omicidio di Sarah Scazzi. Non era mai capitato di avere la possibilità di ascoltare in tempo reale un interrogatorio, divulgato fuori da ogni regola prima ancora dei rinvii a giudizio e di qualunque decisione della magistratura.

Ci siamo chiesti cosa farne e se metterli subito sul sito web, sicuri di fare un record di contatti. Ne abbiamo discusso e abbiamo deciso di buttarli, perché non aggiungevano nulla a quello che avete già letto fino a oggi, perché non servivano a chiarire nulla e perché potevano essere utili solo a solleticare le morbosità, a infilare la testa più in fondo nel pozzo.

Ne abbiamo avuto conferma poche ore dopo, mentre stavo cominciando a scrivere queste righe, quando una trasmissione televisiva per famiglie - pagata con il canone e in orario pomeridiano - ha cominciato a mandarne in onda frammenti audio accompagnandoli con un dibattito osceno e surreale.

Chiariamo subito un punto: queste voci non raccontano niente di diverso o di nuovo rispetto a quanto è stato scritto finora. Ma allora - si potrebbe obiettare - dov'è il problema? Credo che esista una sostanziale differenza tra il riportare un fatto, il raccontarlo mettendolo nel suo contesto esatto o invece nel gettarlo in faccia a chi ascolta senza alcuna mediazione. E' in quella differenza che è nato il giornalismo, che ha trovato un senso e una ragione d'esistere.

Ci sarà un motivo se da decenni all'inizio di un processo la Corte si ritira per decidere se possono entrare i fotografi (in caso di decisione negativa negli Stati Uniti entrano in azione i disegnatori) o le telecamere in Aula. Succede perché la delicatezza di un caso o la necessità di frenare una deriva emozionale può richiedere attenzioni superiori.

Qui da noi, da tempo ormai, è saltato tutto (questo dibattito in parte lo abbiamo già fatto nei mesi scorsi quando era in discussione la legge sulle intercettazioni) e così si trovano disponibili le voci dei presunti assassini mentre vengono interrogati, come le intercettazioni telefoniche un momento dopo essere state registrate.

Per anni il nostro mestiere è stato quello di cercare di ottenere una notizia in più, la frase di un interrogatorio, il racconto del tono di una voce. L'imperativo - sano e comprensibile - era quello di pubblicare tutto quanto era possibile raccogliere. Era una sfida continua con chi invece le cose doveva proteggerle e non divulgarle perché questo gli imponevano ruolo e mestiere. Poi qualcosa si è rotto: la porosità attuale, in cui si è inondati di carte e ora anche di audio, richiede un comportamento nuovo, ci impone di scegliere e anche di buttare via. Non è qualcosa che strida con il compito di un giornalista, se il motto stampato sulla prima pagina del New York Times («Tutte le notizie che vale la pena pubblicare») prevede che ci sia una selezione che scarti ciò che non vale. Dobbiamo continuare a raccontare e a svelare senza sosta, dandovi ogni elemento utile a comprendere (come facciamo anche oggi con i due articoli sul giallo di Avetrana), ma rifiutando di farci casse di risonanza di ciò che trasforma noi e voi in «guardoni».

Proprio in America mai si sognerebbero di divulgare l'audio di un interrogatorio, anche se hanno messo da tempo in rete le telefonate dell'11 settembre, ritenendo che questo servisse a ricordare il dramma, ma mai è stato mostrato un solo cadavere dei morti delle Torri. Perché non si tratta di censurarsi, ma di valutare e di non far prevalere soltanto il criterio degli ascolti, del numero di copie vendute o dei click su internet.

Lo stesso accade appunto con le immagini: certe foto di morti - da Mussolini ai coniugi Ceausescu -, così come alcuni filmati - penso alla bava agli angoli della bocca di Forlani durante gli interrogatori di Mani Pulite - sono state determinanti per un passaggio storico, hanno segnalato una rottura. Così le immagini di un terremoto hanno il compito di far capire le dimensioni di una tragedia ma indugiare sui cadaveri, mostrare brandelli di corpi, volti maciullati non serve a nulla, se non a trasformarci in megafoni dell'orrore.

Sono convinto esista un limite e ieri passava per la diffusione di quei file audio, per questo penso sia tempo di tornare a rispettare quel lenzuolo bianco. Altri lenzuoli invece il giornalismo deve continuare a sollevare e sono quelli che rivelano gli scandali, le corruzioni e le criminalità, che fanno meno circo e meno audience e amerebbero il silenzio.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Quelle parole che lasciano il segno
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 11:50:12 am
29/11/2010

Quelle parole che lasciano il segno

MARIO CALABRESI

Annunciata da giorni, ieri sera si è scatenata in tutto il mondo l’orgia dei documenti riservati: sono diventati pubblici centinaia di migliaia di messaggi che la diplomazia americana ha spedito negli ultimi anni a Washington da ogni angolo del mondo, insieme alle direttive che facevano il percorso inverso, quelle che il Dipartimento di Stato ha indirizzato ad ambasciate e consolati.

Una tempesta per i rapporti internazionali, destinata ad alzare la tensione contemporaneamente nei punti più caldi del pianeta: dal Golfo Persico dove ora non è più segreta la richiesta saudita agli americani di attaccare urgentemente l’Iran per distruggere il programma nucleare di Teheran.

All’Afghanistan del «paranoico» Karzai; alle ipotesi di riunificazione coreana con la notizia del missile di Pyongyang capace di colpire; fino all’accusa ai cinesi di aver bloccato Google.

Una situazione difficile da gestire per la Casa Bianca e per la diplomazia americana che vengono messe a nudo nei loro ragionamenti riservati, nelle loro strategie, nelle loro debolezze e nei loro peggiori aspetti. Quale clima ci sarà da questa mattina al Palazzo di Vetro a New York nel momento in cui si viene a sapere che lo scorso anno partì una direttiva firmata Hillary Clinton in cui si chiedeva di far partire una campagna di spionaggio contro i vertici dell’Onu?

Una tempesta per le opinioni pubbliche di ogni Paese che da oggi possono sapere cosa pensano dei loro governi gli americani. A far scalpore non sono solo gli scenari che emergono dalle analisi a stelle e strisce, scenari che in parte già conosciamo da tempo (sono forse un mistero la diffidenza verso il presidente iracheno Karzai o il disprezzo per Ahmadinejad?), ma la possibilità di leggerli nero su bianco.

Il caso italiano è emblematico: le feste «selvagge» di Berlusconi sono forse una sorpresa per qualche nostro concittadino, così come il rapporto assiduo e opaco con Putin o Gheddafi non sono forse materia su cui ci si interroga da anni? I documenti americani, ad una prima lettura delle anticipazioni, non rivelano nulla di terribilmente nuovo, ma la loro forza è un’altra: mostrarci come i discutibili comportamenti del nostro primo ministro, sia nel suo privato sia sullo scenario internazionale, abbiano un peso nella nostra immagine nel mondo. Anche questo può apparire scontato, ma leggere che gli americani considerano Berlusconi «il megafono di Putin in Europa» (parlando di «regali generosi» e «contratti energetici redditizi») e lo definiscono «incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno» è qualcosa che lascia il segno. Ma soprattutto qualcosa che questa volta non potrà essere smentito o accolto con una scrollatine di spalle.

Nell’estate del 2009 Maurizio Molinari scrisse su questo giornale che l’amministrazione Obama era preoccupata e irritata per la politica energetica del nostro governo troppo dipendente da Mosca, che c’erano pressioni sull’Eni perché cambiasse la sua politica sui gasdotti troppo sbilanciata - a parere di Washington - sull’accordo con Gazprom per dare vita al South Stream. Il giorno dopo il ministro degli Esteri Franco Frattini rispose che non esisteva nessun malumore americano verso la nostra politica energetica. Allo stesso modo sono state regolarmente liquidate le evidenze di un fastidio dei nostri alleati per una politica estera poco «ortodossa» e troppo fuori linea.

Due fatti hanno fatto particolarmente rumore al desk europeo del Dipartimento di Stato negli ultimi anni: il primo (nel 2007) è stato il pagamento del riscatto da parte del governo Prodi per ottenere la liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo in Afghanistan, un comportamento non in linea con quello degli alleati e che scatenò le ire della diplomazia americana perché il passaggio di denaro venne reso pubblico, costituendo un pericoloso precedente.

Il secondo è stato l’atteggiamento assunto da Berlusconi durante la crisi guerra tra Russia e Georgia, quando parlò di «aggressione georgiana» mettendosi in netto contrasto con la linea della Nato. Erano ancora i tempi della Casa Bianca dell’amico George W. Bush, ma gli strascichi di quella polemica sono arrivati intatti sui tavoli della nuova Amministrazione. Dopo le battute di Berlusconi su Barack Obama (indimenticata quella sull’abbronzatura) ebbi l’occasione di chiedere un commento ad uno degli uomini più vicini al presidente americano, il quale con grande pragmatismo mi rispose: il problema non sono le battute ma quel voluminoso dossier sui rapporti tra Roma e Mosca che ci è stato lasciato in eredità al Dipartimento di Stato. Non è un caso che nella prima intervista rilasciata da David Thorne al suo arrivo a Roma, il nuovo ambasciatore statunitense disse al Corriere della Sera che «una delle più grandi preoccupazioni americane è la dipendenza energetica dell’Italia».

Era il primo avviso pubblico, dopo quelli riservati che erano stati ignorati, a cui seguirono altre pressioni sia sul governo sia sull’Eni. Ma se queste carte ci raccontano il nostro crollo di credibilità e svelano i giudizi privati dell’ambasciata e della diplomazia, sbaglieremmo a pensare che ogni cablogramma del passato possa essere la fotografia del presente. Le stesse fonti americane che per lungo tempo hanno raccontato l’irritazione dell’Amministrazione, da qualche mese segnalano un cambio di passo di Berlusconi e anche dell’Eni, sottolineando che parte delle preoccupazioni di Washington sulla rete degli oleodotti hanno trovato ascolto con l’apertura alla possibile convivenza del South Stream con il progetto Nabucco (caro agli Usa) e che è stato apprezzato il viaggio dell’amministratore delegato del colosso italiano degli idrocarburi, Paolo Scaroni, in Azerbajian.

La diplomazia americana racconta del pragmatismo di una Casa Bianca che non ha tempo di curarsi dei nostri vizi ma che ritiene che l’Italia «può avere un ruolo positivo in Medio Oriente» perché è uno dei pochi governi europei ad avere un buon rapporto con il governo di Netanyahu e con Egitto, Siria e Libano.

Così Berlusconi, sicuro di non pagare conseguenze, può farsi una risata e Frattini chiedere che nessun politico commenti, ma in rete e sui giornali di tutto il mondo resteranno quei giudizi impietosi che ci espongono al ridicolo e quella diffidenza che rende faticoso il rapporto con il più importante dei nostri alleati.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8148&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARIO CALABRESI. Il muro tra politica e Paese
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 04:23:54 pm
15/12/2010

Il muro tra politica e Paese

MARIO CALABRESI

La politica chiusa nel Palazzo consuma la resa dei conti che aspetta da mesi: grida, si insulta, si conta e poi festeggia. Fuori la città brucia. Le porte del Palazzo vengono sprangate, a separare due mondi che sembrano vivere in galassie lontane anni luce.

Le colonne di fumo, le esplosioni, il clangore degli scontri, i sampietrini che volano, i caschi, le mazze, ci parlano naturalmente del passato, ci fanno pensare agli Anni Settanta, ma non è lì che dobbiamo andare per capire. Meglio guardare a Londra, ai ragazzi che assaltano le banche, che colpiscono l'auto di Carlo e Camilla, alla Grecia dei fuochi in piazza, a tutti i giovani fuori controllo che non hanno più nessun rapporto con i partiti e le loro mediazioni ma puntano allo sfascio, convinti di avere il diritto di sfogare in piazza la rabbia per una vita che si preannuncia precaria.

Le immagini di Roma fanno spavento e raccontano in modo esemplare la distanza tra una politica rinchiusa in se stessa, nei suoi riti più deteriori, e un Paese che sbanda, si incattivisce e non ha più né sogni né una direzione. I ragazzi che giocano alla guerra col casco, la benzina, il passamontagna e i bastoni non rappresentano certo gli italiani, ma la politica dovrebbe saper guardare oltre quei fuochi per vedere una maggioranza silenziosa e sfinita che non è più nemmeno capace di illudersi.

Invece la politica si blinda, si preoccupa di costruirsi una «zona rossa» per stare al sicuro, per lasciare fuori non solo i facinorosi ma tutti gli italiani, e poi dentro litiga, sbraita, eccita gli animi e non sembra in grado di produrre alcuna soluzione.

Il Paese sbanda perché da troppo tempo non è governato, perché nessuno si preoccupa di affrontare e contenere i massimalismi deliranti, di rassicurare chi ha paura del futuro e di bloccare la violenza che sta tornando a emergere. Non possiamo rischiare di perdere un'altra generazione, anche se parliamo di piccole frange, anche se non siamo al terrorismo e alle pistole.

Il rumore degli scontri di ieri richiede un sussulto di dignità del governo e imporrebbe un cambio di linguaggio delle opposizioni: non si può salire sui tetti o chiamare "cilena" la polizia italiana senza preoccuparsi di fomentare le piazze.

Il 14 dicembre è finalmente passato e Berlusconi è rimasto in sella, vincendo un'altra battaglia della sua guerra totale con Fini. Ma un governo che si salva per tre voti, conquistati nottetempo, ha poco da festeggiare: la sua unica preoccupazione oggi dovrebbe essere quella di riuscire a ritrovare la capacità di ascoltare il Paese e non quella di sopravvivere un giorno in più.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8202&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARIO CALABRESI. Napolitano: "Diamo risposte a una generazione inascoltata"
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2010, 06:27:05 pm
24/12/2010 - COLLOQUIO

Napolitano: "Diamo risposte a una generazione inascoltata"

Il Presidente della Repubblica: «Ecco perchè ho incontrato i ragazzi»

MARIO CALABRESI

Mi sono trovato davanti una generazione che si sente inascoltata e a cui dobbiamo dare risposte». Nelle ore in cui la nuova riforma dell’Università diventa legge, Giorgio Napolitano ragiona sulla protesta giovanile che per giorni ha occupato il dibattito politico italiano, mettendo al centro «il tema dell’ascolto, della capacità della politica di tornare a comunicare con i più giovani». E' un chiodo fisso del Presidente - che lo ripeterà anche la prossima settimana nel suo discorso di fine anno - quello di dare «valide risposte ad un malessere crescente fatto di disoccupazione e precarietà», accentuato dalla crisi economica e dal divario crescente tra Nord e Sud.

Il Capo dello Stato già ragiona sulle sfide del 2011, quando celebrerà il primo secolo e mezzo dell’Unità d'Italia chiedendo al Paese di avere memoria ma di guardare avanti e tornare a progettare un futuro. Il Presidente della Repubblica, l'altroieri sera, ha aperto le porte del Quirinale ad una delegazione di ragazzi perché proprio loro sono il futuro già tra noi e ora racconta: «Li ho accolti perché la loro protesta non era stata sporcata dai segni della violenza. Sono venuti da me dopo una giornata molto tranquilla, e questa era la condizione preliminare per ogni dialogo». Una condizione posta lunedì scorso, nel discorso alle alte cariche dello Stato: «Sono stato chiaro: i giovani hanno il diritto di manifestare e protestare ma devono tenere fortemente le distanze da quei gruppi che sono portatori di una intollerabile illegalità e violenza distruttiva.

Mi sembra che abbiano capito che sarebbero finiti nell’angolo, in un "cul de sac", se avessero incoraggiato o anche tollerato una violenza come quella della settimana prima, e il fatto che quegli episodi non si siano ripetuti è importante». Così per un’ora e mezzo dodici studenti si sono seduti intorno al Presidente nel suo studio e hanno raccontato la loro opposizione alla legge di Mariastella Gelmini: «Nel dialogo con loro ho trovato tratti di ingenuità ma buona fede e dobbiamo renderci conto che non è solo il problema di una legge ma è il problema di una generazione». Un messaggio, Giorgio Napolitano, vuole lanciare ora che la riforma è passata, le manifestazioni finite e pure un anno segnato da polemiche e scontri terribili sta per andare in archivio: «Oggi mi sento di dire che gli studenti che protestano, e che ho ricevuto, sentono e pongono soprattutto il problema dell'avere voce, del veder ascoltate, considerate e discusse le loro preoccupazioni, le loro esigenze e le loro proposte.

E tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni e nella politica dobbiamo capire che sono, al fondo, le preoccupazioni di una generazione cui è ormai chiaro, nella percezione di molti, quali incognite presenti per essa il futuro». La necessità di dare risposte, e questo è l’altro cavallo di battaglia del Presidente da settimane, è legata alla stabilità che deve essere funzionale però a una «efficace azione di governo» e a un lavoro parlamentare che «sia produttivo». Se gli si chiede come può riuscire a svolgere serenamente il suo ruolo mentre il mondo politico è preda di continue guerre, risponde candidamente: «L’unica cosa è cercare di non farsi travolgere dalle scosse, dai problemi e dalle novità che si accavallano ogni giorno e provare a guardare lontano».

Il Presidente della Repubblica si prepara ad un anno intenso, che lo vedrà protagonista e motore delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Il primo appuntamento sarà già il 7 gennaio a Reggio Emilia con la Giornata Nazionale della Bandiera, con un simbolico passaggio di mano del tricolore dal sindaco di Torino a quello di Roma. Quel giorno sarà l’apertura ufficiale dei festeggiamenti e mancano ormai solo due settimane: Giorgio Napolitano non nasconde il suo dispiacere per l’atteggiamento freddo del governo. Il Presidente riconosce ai giornali, all’editoria, alla scuola e agli enti locali l’impegno nel sostenere le celebrazioni, ma torna a sottolineare «la mancanza di un impegno politico nazionale».

Così prova ancora a spronare il governo affinché «faccia sentire la propria voce e diventi finalmente protagonista della festa della nazione, perché - ripete - non è mai troppo tardi e si può ancora recuperare». L’importanza dell’unità sarà al centro del discorso di fine anno insieme alla centralità dell’Europa: «Un tema che sembra essere scomparso dall’agenda politica italiana ma che andrà a condizionare qualsiasi sbocco della crisi italiana». Appare incomprensibile, al Presidente, l’incapacità di pensare «europeo» in un momento in cui l’intreccio tra la crisi indotta dall’accelerazione della globalizzazione, le tempeste monetarie e la crisi finanziaria rappresenta ancora un rischio forte anche per l’Italia.

«Per questo è necessario tenere la guardia alta», per questo nei suoi atti e nei suoi discorsi Giorgio Napolitano ha messo la stabilità al centro e ha sottolineato i tempi fisiologici di durata di una legislatura. Ma se chi governa ha tempo davanti lo deve usare con efficacia, «con la massima serietà», pensando alla riduzione del debito pubblico e allo sviluppo. E questi concetti lo riportano a parlare dei giovani, della necessità di trovare soluzioni sostenibili e di lungo periodo per il Paese che lasceremo in eredità alle prossime generazioni, perché nel momento in cui si ripensa il Welfare e le risorse sono scarse bisogna mettere bene in chiaro quali sono le priorità e i bisogni dell’Italia.

I Palazzi della politica ormai hanno chiuso per le ferie, per qualche settimana il rumore degli scontri potrebbe calare, ma il Presidente non riesce a pensare alle vacanze, dice che prima di riposarsi deve preparare il discorso agli italiani di fine anno. Poi sarà l’anno nuovo, cominceranno le celebrazioni dei 150 anni e l’attività politica riprenderà e subito ci sarà la sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento. Napolitano invita tutti alla serenità, alla calma e ad evitare fughe in avanti, da parte sua continuerà ad applicare la regola d’oro di non farsi travolgere dalle scosse.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/381223/


Titolo: MARIO CALABRESI. L'orizzonte di Obama e il nostro
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 11:56:54 pm
27/1/2011

L'orizzonte di Obama e il nostro


MARIO CALABRESI

Il futuro non è un regalo ma una conquista» diceva Robert Kennedy e ieri notte Barack Obama lo ha ricordato aggiungendo: «Saranno le scelte che facciamo oggi a condizionare il nostro destino».

Se noi guardiamo dall’altra parte dell’Atlantico vediamo un Paese che attraversa una crisi profonda ma continua a parlare di progetti e prova senza sosta a rialzarsi e a recuperare il suo posto nel mondo. Un Paese che sa che è il tempo di scelte strategiche, di investimenti sulla crescita, di riforme e di coraggio.

Ma se guardiamo da questa parte dell’Oceano, a casa nostra, non possiamo che provare vergogna per la miseria del nostro dibattito, privo di ogni idea e progettualità e prigioniero dei vizi e degli umori dell’uomo che ci governa.

Ogni anno il discorso dello Stato dell’Unione, che il Presidente degli Stati Uniti pronuncia alla fine di gennaio, serve a illustrare quanto è stato fatto negli ultimi dodici mesi ma soprattutto ad indicare la direzione in cui si muoverà il Paese, gli obiettivi e l’agenda di una presidenza e di un’intera nazione. Gli americani prestano poca attenzione agli elenchi delle cose fatte: se sono state realizzate o no riforme importanti hanno già avuto modo di accorgersene guardandosi in tasca o riflettendo sulla qualità della propria vita. Così l’orecchio è attento agli impegni e alle promesse, quelle che indicano la strada e che serviranno a giudicare una presidenza alle elezioni successive.

Tanto che uno degli indicatori più significativi dell’andamento di un Presidente non sono i sondaggi sul suo consenso o la sua popolarità, ma quelli in cui i cittadini dicono se il Paese è incamminato nella giusta direzione.

Quest’anno, molto più che in passato, ho invidiato agli americani la possibilità di avere un luogo e un momento in cui discutere di futuro, in cui fermarsi ad ascoltare il proprio leader che indica degli obiettivi comuni. In Italia oggi non solo non abbiamo una direzione ma neanche dibattiamo su quale possa e debba essere. Non ci concediamo nemmeno più il lusso di immaginare o sognare qualcosa che vada oltre la giornata, che guardi lontano, che somigli a un percorso. Neppure si contempla di poter indicare un obiettivo su cui poter essere giudicati. Non ci resta che questa palude in cui siamo prigionieri soltanto del presente, del tempo della cronaca, delle sue piccolezze e del suo squallore.

Nessuno riesce più ad alzare lo sguardo, prevale nelle classi dirigenti quel difetto - esiziale, come denunciava con lungimiranza Tommaso Padoa-Schioppa - della «veduta corta». Così il paragone con quello che si è sentito al Congresso americano - e questa volta non è una questione legata alle capacità oratorie di Obama - non può che amareggiarci: a fare la differenza è la capacità di un Paese di emendarsi dagli errori, di fare autocritica e di rimettersi in gioco.

Come ogni grande Presidente americano riesce a fare nei momenti più difficili, Obama ha evitato di perdersi nel labirinto dei piccoli e grandi temi all’ordine del giorno (come aveva fatto invece l’anno scorso), per volare più alto e disegnare una mappa del percorso che l’America ha di fronte nei prossimi anni.

In questo ha ricordato molto Ronald Reagan (di cui il 6 febbraio si festeggia il centenario della nascita) e per niente Jimmy Carter, che in mezzo alle difficoltà continuava a ripetere agli americani che il «malessere» della nazione era colpa loro.

Nel suo discorso invece Obama ha spronato l’America a non piangersi addosso lamentando l’invadenza della Cina o dell’India, ma a reagire riconquistando la leadership nelle tecnologie, nella ricerca, nell’università e nelle esportazioni.

Pensate di ascoltare il vostro leader e di non sentire violenza nelle sue parole, di non trovare rancore, rabbia, depressione. Pensate a un Paese che, seppur diviso e polarizzato come l’America, si può permettere la libertà di avere 91 cittadini su cento che plaudono al discorso del Presidente.

Pensate alla fortuna di avere qualcuno che rilancia l’orgoglio: «Siamo la nazione che ha portato le auto nei vialetti di casa e i computer negli uffici, la nazione di Edison e dei fratelli Wright, di Google e di Facebook: noi siamo quelli che realizzano grandi cose». La forza del discorso di Obama, che è la forza dell’America e che è esattamente quello che ci manca in Italia, è riuscire a far riemergere una narrativa comune del Paese che alla fine supera sempre le divisioni e punta al risultato comune piuttosto che all’eliminazione dell’avversario o alla difesa sterile di rendite di posizione.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8341&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARIO CALABRESI. Quel bisogno di alzare lo sguardo
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2011, 10:30:05 am
20/2/2011

Quel bisogno di alzare lo sguardo

MARIO CALABRESI


Può un Paese vivere nella perenne attesa del Giorno del Giudizio, convinto che sia programmato sempre per domani mattina?

Da mesi non si fa altro che parlare della resa dei conti finale e della caduta di Silvio Berlusconi e del suo governo, gli occhi sono sempre puntati su una data cruciale, considerata definitiva: il discorso di Fini a Mirabello all’inizio di settembre, quello di Berlusconi del 29 dello stesso mese alla Camera, le dimissioni dei ministri finiani, il voto di fiducia del 14 dicembre, le rivelazioni di Ruby, l’arrivo delle carte sulle feste di Arcore a Montecitorio, la decisione del giudice per le indagini preliminari di Milano, ora il giorno dell’apertura del processo al premier il prossimo 6 aprile.

Nel frattempo il presidente del Consiglio ha prima visto franare la sua maggioranza fin sotto la soglia fatidica dei 316 voti alla Camera, poi l’ha ricostruita tornando a stare a galla e incassando svariati voti di fiducia (l’ultimo questa settimana al Senato).

L’ attenzione del governo, dell’opposizione e dell’informazione è spasmodicamente puntata su questo pendolo, che oscilla ogni giorno a favore o contro Berlusconi, che ci ipnotizza e ci rende incapaci di guardare più lontano o di vedere lo stato in cui versa l’Italia.

Sì, perché il Paese è malato: di divisioni, di insicurezza, di mancanza di futuro, di sfiducia e di assenza di politica. Ma di questo nessuno sembra curarsi.

Continua a venirmi in mente l’ultimo periodo della presidenza di George W. Bush: due terzi degli americani non avevano più fiducia in lui, la maggioranza lo considerava indegno, gli scandali che toccavano la sua Amministrazione erano molti e gravi (dalle foto del carcere iracheno di Abu Ghraib, alla pratica di rapire e spedire in Paesi in cui si usava la tortura i presunti terroristi - le cosiddette «extraordinary rendition» -, dall’uso del «waterboarding», cioè il simulato affogamento di chi veniva interrogato, fino alle commesse militari e sulla sicurezza affidate a società legate al vicepresidente Cheney), i suoi concittadini volevano mandarlo a casa e l’immagine del Paese nel mondo era infangata. Ricordo i viaggi in Europa in cui Bush evitava accuratamente ogni incontro con la folla per il terrore delle contestazioni, l’unica eccezione fu in Albania, dove l’ambasciata americana riuscì ad organizzare ad arte un piccolo bagno di folla per dare un po’ di soddisfazione al Presidente.

Molte furono le manifestazioni di protesta negli Stati Uniti, alcuni proposero di far partire un processo di impeachment, ma il sistema garantiva tempi certi alla durata della presidenza e così l’opposizione democratica, ma anche gli stessi repubblicani, cominciarono a studiare e proporre una strada diversa per l’America del dopo Bush.

Per oltre due anni i democratici, anziché perdersi nell’attesa di un evento eccezionale che potesse mettere fine all’Era Bush, costruirono una visione alternativa e un programma di governo che fosse credibile per il futuro. Ne emersero almeno due, quello pragmatico di Hillary Clinton e quello idealista di Barack Obama. In casa repubblicana invece vinse la visione di John McCain che ridefiniva i pilastri del conservatorismo spostandolo al centro.

Ricordo un comizio in cui un gruppo di studenti, innalzando cartelli contro Bush, chiesero a Obama di vincere per poi processare il Presidente colpevole di crimini di guerra. Obama rispose che non lo avrebbe fatto perché voleva vincere per archiviare Bush, non per continuare ad occuparsi di lui. Voleva vincere per mettere in pratica nuove politiche e cominciò ad illustrare la sua visione per il futuro dell’America. Alla fine anche gli studenti applaudirono con speranza.

Qui in Italia le opposizioni attendono ogni mattina il crollo finale e l’inizio di una nuova stagione, ma non ci hanno raccontato come sarebbe questa nuova Italia, non ci hanno dato nessuna ricetta in cui credere. Anzi continuano a tenere in poca considerazione i dati della realtà, tanto che nella settimana (questa) in cui Berlusconi ha ricostruito la sua maggioranza la sinistra ha litigato su un’ipotesi di candidato premier (Rosy Bindi) anche se le elezioni anticipate non sembrano essere alle porte.

Ora l’opposizione guarda speranzosa al Palazzo di Giustizia di Milano sperando che la spallata finale arrivi da lì, condannandosi però di nuovo all’attesa e al gioco di rimessa. Ma Silvio Berlusconi, pur segnato in maniera indelebile dagli scandali, non sembra intenzionato a farsi da parte e forte di una maggioranza ritrovata punta ad arrivare al termine della legislatura come gli permette la Costituzione.

Il premier, appena risalito in sella, ha mostrato di voler tornare a governare, ma a leggere i resoconti dell’ultimo Consiglio dei ministri si è presi dallo sconforto. Ecco le urgenze del Paese secondo il premier: una nuova legge per limitare e impedire la pubblicazione delle intercettazioni, la separazione delle carriere dei magistrati, un doppio Csm e il ripristino dell’immunità parlamentare. Come corollario una bella discussione sulla necessità - a meno di un mese dalla ricorrenza - di fare festa il 17 marzo, 150˚ anniversario dell’Unità nazionale. E ieri è arrivato l’annuncio della riforma della Corte Costituzionale.

Mentre il Consiglio dei ministri discuteva dei bisogni più urgenti del Paese e l’opposizione si baloccava con le elezioni, ho ricevuto per conoscenza la lettera che un imprenditore veneto, di ritorno da tre fiere in giro per il mondo, ha scritto pieno di sconforto a Unindustria Treviso, che l’ha girata alla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia.

«Ho voluto aggredire il 2011 con l’ottimismo della volontà e con la convinzione che possiamo e dobbiamo farcela sebbene “le assi del mondo scricchiolino”. Non esigo, né ho chiesto contributi pubblici - scrive Fiore Piovesana titolare della Camelgroup, un’ azienda di medie dimensioni che fa mobili nel trevigiano e li esporta in tutto il mondo -, avrei solo voluto vedere vicino a me, nei padiglioni di Toronto, di Adison negli Usa e di Birmingham un sistema Paese vivo, attento alle esigenze degli esportatori, compatto nella sua immagine del Made in Italy, ma ancora una volta registro grande solitudine. Clienti e colleghi che incontro all’estero mi guardano, sorridono maliziosi per le notizie da basso impero che giungono dal nostro Paese e mi allertano sul Made in Italy che comincia ad arrancare sebbene essi continuino a guardare alla creatività delle nostre imprese con grande interesse e tenace speranza. Rientro, sfoglio i giornali nella speranza (illusione?) che, insieme a me, chi ci governa abbia profuso energie per dare prospettive, per aiutarci a creare valore aggiunto ai prodotti, per mettere mano ad un fisco che penalizza e demoralizza il lavoro dipendente e soffoca le aziende. Nulla di tutto questo».

Chi produce, racconta Piovesana, oggi deve confrontarsi con l’aumento delle materie e la nuova impennata del greggio che fa lievitare il costo dei trasporti e dell’energia. E’ una situazione sempre più soffocante e la sensazione è di un totale disinteresse: «Tendono sempre a crescere i dazi doganali sui mobili esportati in Russia, problema per il quale avevamo chiesto a suo tempo al presidente del Consiglio di utilizzare i suoi buoni rapporti con Putin verso una soluzione più favorevole. In questi giorni anche l’Ucraina, partner privilegiato del mobile Made in Italy, segnala un raddoppio dei dazi doganali come gesto di allineamento a quelli russi...». Così per restare competitivo un imprenditore italiano «sarà costretto a ridurre ancora i già esigui margini di guadagno». «Non intendo infatti - sottolinea la lettera - chiedere ulteriori sacrifici al personale già pesantemente penalizzato. Anche l’ultimo dei miei 40 dipendenti ha chiesto un anticipo, se possibile totale, del Tfr in quanto non ha più risparmi».

Questo è lo stato del settore produttivo del Paese e dei suoi abitanti, ma neppure l’ombra di dibattiti in Parlamento o in Consiglio dei ministri con provvedimenti concreti e regolamenti chiari e incentivanti, tagli non furbi alla spesa pubblica o la riduzione dei carrozzoni improduttivi. Si procede per slogan, ci si concentra sulla risoluzione dei problemi personali o si passa il tempo a sperare che qualcuno liberi Palazzo Chigi prima della fine della legislatura.

Camminiamo in un deserto in cui l’unica speranza sono le mille iniziative private che, nonostante tutto, continuano a fiorire ogni giorno. A queste ci dobbiamo affidare, tenendo i piedi per terra e continuando a sperare che qualcuno finalmente alzi lo sguardo per proporre una strada. Il mondo e la storia nel frattempo corrono, dalla Libia alla Cina, e non sembrano intenzionati ad aspettare il nostro risveglio.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: MARIO CALABRESI. La Grande Muraglia che è in noi
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2011, 11:37:51 am
6/3/2011

La Grande Muraglia che è in noi

MARIO CALABRESI

In silenzio, senza che quasi nessuno se ne accorgesse, lo scorso anno i turisti cinesi hanno speso in Italia più di americani e giapponesi, nostri storici visitatori. Un milione di persone, ognuna delle quali ha lasciato qui, in media, 869 euro.

A casa, o in giro nel resto del mondo, sono rimasti gli altri 249 milioni di cinesi che hanno raggiunto il benessere e un potere d’acquisto paragonabile a quello della classe media europea.

Un giacimento su cui un’Italia che fatica a far camminare la propria economia dovrebbe buttarsi senza esitazioni. Invece non ho mai sentito un solo minuto di dibattito politico in cui si discutesse di questa opportunità, non ho visto nessuna agenda governativa che mettesse in cima alle priorità la costruzione di un sistema accogliente per chi vola da Pechino o da Shanghai e proporre di far studiare il mandarino nelle scuole sembra un esotismo fine a se stesso.

Anzi, a dire la verità, il nostro sistema i cinesi continua a guardarli con lenti vecchie e superate, considerandoli ancora potenziali clandestini che vogliono entrare in Italia per nascondersi poi a Napoli o a Prato a fare borse contraffatte o golfini. Tanto che all’ambasciata cinese a Roma mostrano parecchio disagio quando raccontano come i loro connazionali che chiedono un visto turistico per volare a Milano a fare shopping siano costretti a lunghe attese nonostante abbiano biglietti di andata e ritorno in business class e prenotazioni a cinque stelle. La conseguenza è che la maggior parte di loro sceglie poi di puntare su Parigi, Londra o Francoforte, destinazioni per le quali non solo è più facile ottenere il visto ma dove l’accoglienza (come ci racconta Marco Alfieri nell’inchiesta che pubblichiamo oggi) è costruita su misura per chi arriva dalla Cina.

Questa storia dei turisti che superano la Grande Muraglia e sbarcano in Europa affamati di borse, scarpe e orologi (rigorosamente originali) è il paradigma di come l’Italia debba imparare ad essere più elastica e a guardare al mondo che ci circonda con occhi nuovi. Mentre noi ci culliamo nei nostri stereotipi il panorama intorno cambia a una velocità incredibile, tanto che la Ferrari per presentare un suo nuovo modello punta su Shanghai e Prada sceglie di quotarsi in Borsa a Hong Kong e non a Milano.

Ma il salto culturale a cui siamo chiamati, se vogliamo entrare da protagonisti nelle rotte del nuovo turismo mondiale, non è solo quello di comprendere che cinesi, russi, ma anche brasiliani e indiani quando si presentano oggi alle nostre frontiere possono essere una grande opportunità e non per forza motivo d’allarme, ma è anche quello di capire cosa ci chiedono.
I nuovi turisti quando scelgono l’Italia non hanno in testa gli Uffizi o la Cappella degli Scrovegni (fanno eccezione il Colosseo, la Torre di Pisa e le gondole veneziane), non cercano l’archeologia o le Chiese barocche ma la nostra moda, il nostro design e il nostro vino. Hanno in testa un’altra Italia: vorrebbero venire qui a prendersi un pezzetto del nostro modo di vivere, mettersi addosso il nostro gusto, sentirsi protagonisti dell’Italian Style.

Mentre sui banconi dei bar italiani all’ora dell’aperitivo è comparso il sushi (e questo ci fa sentire molto internazionali), a Shanghai e Hong Kong i giovani di tendenza vanno a fare l’happy hour nei grandi alberghi dove si beve vino francese o italiano e sul bancone ci sono vassoi di parmigiano, gorgonzola, camembert o «talleggio». «Il vino è il nuovo tè» ho letto su una rivista cinese in lingua inglese la scorsa settimana, e la moltiplicazione delle enoteche in ogni città cinese mi ha confermato che è nato un nuovo mercato.

Sono soprattutto i trentenni e i quarantenni delle megalopoli cinesi a guidare questa rivoluzione dei costumi: il loro sogno è di sbarcare in Italia, comprarsi un abito di Zegna, scarpe di Ferragamo, borse di Gucci e Prada, giocare a golf sul Lago di Como, scommettere al casinò a Venezia e visitare cantine in Toscana o in Piemonte.

Questo pensano sia il percorso per diventare sofisticati cittadini del mondo e a pensarlo sono milioni di persone. A noi e al Made in Italy converrebbe rendere agevole questo percorso senza paure e snobismi, converrebbe avere il coraggio e la lungimiranza di abbattere quella Grande Muraglia che sta nelle nostre teste, nelle nostre burocrazie, nei nostri investimenti e nel nostro modo di pensare il turismo e il futuro del Paese.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: Sono cinesi i nuovi signori del turismo globale, ma l'Italia è fanalino di coda
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2011, 11:40:59 am
Economia

06/03/2011 - DOSSIER - ARRIVA L'ORIENTE, SIAMO IN RITARDO

Sono cinesi i nuovi signori del turismo globale, ma l'Italia è fanalino di coda

Nel 2010 ne sono sbarcati nel Belpaese un milione. Hanno speso 869 euro a testa, adorano lo shopping a Milano e il casinò a Venezia.

Perché non siamo pronti ad accoglierli?

MARCO ALFIERI
MILANO

Vuoi mettere entrare in Italia dai tornanti leggendari di Montecarlo? Lo scorso luglio 10 super ricchi di Shangai hanno passato la dogana al volante di 5 tra Ferrari, Lamborghini e Maserati. Prima di sbucare a Roma hanno passeggiato per il Belpaese, alloggiato in antichi castelli, cenato in ristoranti con stelle Michelin, girato vigneti e noleggiato una mongolfiera per godersi le colline del Chianti. L’agenzia Dream Italy non ha badato a spese, tagliando su misura un tour esclusivo per il gruppetto di facoltosi turisti dagli occhi a mandorla.

Milionari
A fine 2010 erano 800mila i milionari cinesi. Secondo la società di ricerche di mercato Hurun, l’80% della classe agiata di Pechino possiede da 2 a 5 auto di lusso, da 3 a 10 orologi Cartier e Bulgari, spende almeno 50mila yuan (5.300 euro) l’anno in musica classica e appena può mette il naso all’estero, senza farsi mancare nulla: maggiordomo e guida privati fino a pacchetti comprensivi di partite a golf, gioielli, atelier, crociere, ville storiche e hotel di lusso. Alcuni di questi signori villeggiano in Costa Smeralda, tra Porto Cervo e Porto Raphael. Ma sono granelli rispetto al potenziale «incoming» dei nuovi signori del turismo mondiale: paesi come Francia e Germania ce li stanno sfilando sotto il naso.

Controtendenza
Nel 2010, infatti, in Italia sono sbarcati un milione di turisti cinesi. Hanno speso il 94% in più del 2009 (869 euro pro capite), ma sono calati del 12%, in controtendenza al resto d’Europa. Si tratta di 30-45enni, laureati, residenti nelle grandi metropoli, concentrato di quel ceto mercantile con potere di acquisto «occidentale», pari al 9% (250 milioni) di tutti gli abitanti del Dragone. Chiedono strutture accoglienti che l’Italia non sa offire quasi mai. Eppure secondo i dati Cesif-Global Blue, i turisti cinesi nel Belpaese sono ormai secondi assoluti, dietro ai russi ma davanti ad americani e giapponesi, per spesa totale tra i viaggiatori extraeuropei. Ovviamente vanno pazzi per moda e gioielleria. «Vedono in vetrina a Pechino e Shangai borse e scarpe a prezzi molto alti - spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia - quando vengono a Milano le comprano. Fanno shopping come i giapponesi 10 anni fa, escono con le borse piene».

Shopping selvaggio
In particolare, i 200mila cinesi passati nel 2010 per Milano hanno consumato in città il 41% del loro budget italiano, il 24% solo nei negozi di via Montenapoleone. A ruota seguono gli store in Galleria e in Via Spiga. Ma il tour italiano comprende anche tappe a Venezia, la città di Marco Polo dove il 40% dei clienti al casinò (360 su 900mila) è già cinese, Roma, Firenze (amano acquistare negli Outlet vicini), Verona (la casa di Giulietta) e qualche volta Pisa (la torre) e Pompei (gli scavi). Insomma dopo l’inflazione di laboratori clandestini, il Prontomoda di Prato, l’invasione di magliette a due euro, i prodotti taroccati e lo shopping industriale per il mondo, eccoti i cinesi del lusso. Una volta si vedevano solo russi, arabi e giapponesi, adesso sono loro i nuovi padroni del turismo di Altagamma.

Voglia di vacanza
«La verità è che potremmo attirarne molti di più», ragionano dalla Camera di commercio italo-cinese. Oggi il turista medio sbarca in Italia di rimbalzo, all’interno di viaggi organizzati che cominciano centinaia di chilometri più a nord, da Francoforte o Parigi. Il tour è fittissimo e tocca casa Beethoven a Bonn, la torre Eiffel a Parigi, le cantine dello champagne a Bordeaux, i casinò in Costa Azzurra, la Svizzera degli orologi e, solo alla fine, l’Italia. Secondo l’Accademia cinese del turismo, nel 2010 hanno trascorso le vacanze all’estero 54 milioni di concittadini, per un giro di affari di 40 miliardi di euro. Di questi il 70% preferisce ancora mete asiatiche. Nel 2015 potrebbero arrivare a 130 milioni, per 110 miliardi di spesa. «Moltiplicate per 50 le fatture dei giapponesi degli anni d’oro», calcola un manager di Accenture. «Quando i cinesi cominceranno a girare in massa per Londra, Parigi, Milano e Venezia, il mondo del turismo non sarà più lo stesso». In effetti i cinesi amano il clima mediterraneo, le vestigia imperiali, la moda e il lusso ma l’Italia è molto in ritardo sull’accoglienza, dentro ad un contesto europeo già indietro agli standard dei paesi asiatici. «Eravate il punto di partenza ideale per un tour europeo», spiegava qualche settimana fa Zhu Shanzhong, vice capo dell’Ufficio nazionale del turismo cinese. «Poi ci avete trascurati…».

Pochi collegamenti
I voli diretti Milano-Pechino sono ancora pochi, anche se le tratte aeree da e per l’Italia in un anno sono raddoppiate da 11 a 22. «Professionisti e turisti perdono troppo tempo in fila ai consolati di Shangai, Canton, Pechino e Tianjin per il rilascio dei visti, finendo spesso nello stesso calderone dei controlli anti clandestini», racconta un imprenditore italiano di stanza in Asia. I nostri alberghi non sono attrezzati per una clientela cinese che cerca all’estero il confort e le tradizioni locali: non ci sono giornali né tv né reception né concierge in lingua, e non ci sono piatti locali anche semplici come la zuppa di riso, gli spaghetti di soia o la ciambella fritta. Il servizio nei negozi e nei musei non prevede prezzari né guide in mandarino. E poi mancano Tour operator italiani capaci di organizzare i pacchetti. Qualcosa si muove a Milano, dove alcuni imprenditori cinesi come Luisa Zhu hanno aperto alberghi tipo lo Huaxia, un 4 stelle in zona Garibaldi, o il Porta romana, in via Palazzi. Ma sono casi sporadici, niente a che vedere con Parigi, dove i nuovi hotel deluxe, dal Shangri-la, al Raffles al Oriental Mandarin (aprirà in estate), sono tutti dotati di doppi servizi e doppia cucina. La verità è che i cinesi, in Italia, restano turisti sopportati. «Non ci stacchiamo dagli stereotipi», conclude il nostro imprenditore. Così Francia e Germania ci stanno sorpassando.

lastampa.it/economia


Titolo: MARIO CALABRESI. Lo specchio deformato del Paese
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2011, 10:33:54 pm
1/4/2011

Lo specchio deformato del Paese

MARIO CALABRESI

Il presidente Napolitano sta probabilmente vivendo sulla sua pelle la sensazione che assale qualunque italiano che torni a casa dopo una breve vacanza o un viaggio di lavoro. Basta andare all’estero un paio di giorni, dimenticare per un attimo i telegiornali, distrarsi dalla nostra condizione, per essere investiti al rientro da una dose massiccia di sconcerto e di rifiuto.

Se poi si hanno ancora negli occhi, come certamente succede al Presidente della Repubblica, le immagini delle folle di Milano, Torino, Roma e Varese, che hanno festeggiato l’Unità d’Italia riempiendo le città di tricolori, allora la reazione di disagio deve essere ancora più forte.

Così ieri sera il Capo dello Stato ha convocato i capigruppo della maggioranza e dell’opposizione al Quirinale, per lanciare loro il suo allarme: il Paese non può e non deve più assistere a questo spettacolo. È passato poco più di un mese da quando Napolitano, dopo aver incontrato Berlusconi, diffuse una nota in cui spiegava che la legislatura era a rischio se non si fossero contenuti gli scontri e le tensioni.

Ieri mattina, in questa prima pagina, Luigi La Spina scriveva che in Parlamento era andato in onda uno spettacolo al di sotto della decenza: si poteva pensare che il fondo fosse stato toccato. Sono bastate poche ore e in molti a Montecitorio si sono affrettati a smentire gli sparuti ottimisti e a confermare ai pessimisti che il fondo sembra non esistere più. Insulti, grida, lancio di giornali, un crescendo di tensione in cui il senso dei gesti e delle parole è ormai completamente logorato. E siamo soltanto all’inizio, le «schermaglie» di questi due giorni possono essere considerate soltanto l’antipasto, non una coda impazzita di vecchie polemiche. La prossima settimana infatti ci regalerà una serie di appuntamenti che promettono di incendiare ulteriormente gli animi. Si dovrà votare il conflitto di attribuzione sollevato dalla Camera sul caso Ruby (il cui processo a carico di Berlusconi comincerà giusto mercoledì prossimo) ma anche la responsabilità civile dei magistrati e il processo breve.

Un mix talmente esplosivo che ci fa capire la ragione dell’allarme lanciato dal Presidente della Repubblica, tanto che tutti gli interlocutori, all’uscita dal Quirinale, avevano la sensazione che Napolitano non sia più disposto ad assistere a questo spettacolo e che una fine della legislatura possa essere tra gli esiti probabili di questa delirante escalation.

Ma si può pensare di andare avanti senza freni, di continuare a non tenere minimamente in conto i disagi, le preoccupazioni e le difficoltà del Paese? Lo scollamento che si percepiva in questi giorni, nel vedere i ministri della Difesa e degli Esteri occuparsi dei problemi giudiziari del premier mentre si sparano missili alle porte di casa nostra, mentre barconi carichi di clandestini sbarcano sulle nostre coste o fanno naufragio nelle nostre acque, non ha precedenti.

Il Parlamento e le classi dirigenti sono lo specchio del Paese? I politologi, i sociologi e gli storici ne dibattono da sempre evidenziando come chi ci rappresenta in fin dei conti finisca per riprodurre i nostri vizi e i nostri difetti. Potremmo anche ricordare che le risse ci sono sempre state, ma dovremmo avere l’onestà di aggiungere che c’erano anche le classi dirigenti che ne prendevano immediatamente le distanze.

Ma siamo sicuri che oggi la classe politica somigli ai cittadini che governa? Questa volta spero proprio di no, e penso che siano rimaste solo piccole minoranze a tifare e a scaldarsi di fronte a chi grida e minaccia in Aula. Così come mi pare simbolica la risicata presenza di cittadini fuori da Montecitorio nella giornata di ieri. Si potrebbe interpretare questa assenza come il segno di una totale assuefazione, io penso invece che sia il risultato del disincanto, che sia un fastidio arrivato a tale livello da spingere la maggioranza dei cittadini a tenersi lontana. Le persone dotate di senso sanno anche che da questa paralisi non si esce andando a lanciare monetine fuori dal Parlamento.

Non conosciamo il destino di questa legislatura, così come non sappiamo dove sia il fondo e cosa ci aspetta ancora, ma se guardo al futuro non posso che augurarmi almeno che la prossima volta ci facciano votare con un’altra legge elettorale. Una legge che ci permetta di tornare a scegliere e giudicare chi ci rappresenta, e magari a dare il benservito a chi insulta un portatore di handicap, o a chi non ha la minima idea di quali siano i nostri bisogni e le nostre fatiche.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Pietro Ferrero, un innovatore nel segno della continuità
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2011, 06:37:05 pm
19/4/2011

Pietro Ferrero, un innovatore nel segno della continuità

MARIO CALABRESI

Pietro Ferrero aveva ereditato dal padre due talenti: la riservatezza e l’amore per l’innovazione. Era una persona molto garbata, quasi schiva, che non amava mettersi in mostra come gli avevano insegnato i suoi genitori. In tempi di esibizionismo, è sempre stato il credo di famiglia, la discrezione è la cifra vincente e Pietro era un campione in questo. Ma il suo non apparire non significava sfuggire il contatto umano: era gentile, si fermava a salutare tutti i dipendenti e i collaboratori, rispondeva immediatamente alle mail, alle telefonate e aveva la capacità di stare in silenzio ad ascoltare.

Essere figli di un uomo geniale non è facile, si può essere vittime della competizione o cercare strade lontanissime per evitare paragoni e confronti. Pietro Ferrero invece aveva trovato un equilibrio sano nel rapporto col padre Michele. Una dinamica che era stata costruita grazie alla mediazione della madre Maria Franca, la donna che ha sempre tenuto la famiglia legata e ha garantito l’armonia nell’azienda.

Di fronte al padre, Pietro ascoltava, non cercava mai di avere l’ultima parola, ma non per questo aveva rinunciato ad avere le sue idee, a essere un innovatore, a progettare la Ferrero del futuro. Non in contrapposizione ma in continuità, con l’idea che la cosa giusta da fare fosse solidificare i successi del padre per poi dedicarsi ad allargare i mercati possibili.

Anzi, era un vulcano di idee, lanciava continuamente nuove sperimentazioni, provava decine di prodotti cercando di capire le peculiarità di ogni Paese. Guardava al mondo di oggi ma soprattutto a quello di domani come ad un sistema pieno di nicchie da soddisfare. Negli ultimi anni puntava con attenzione il continente americano, soprattutto il Sud e il Brasile. Aveva la certezza che i prodotti dolciari «Made in Alba» avrebbero fatto breccia in ognuno dei nuovi grandi bacini di consumatori che sono nati sul pianeta.

Insieme al fratello, gli piaceva raccontarlo, si interrogava anche sul fisiologico calo estivo di produzione e consumi che caratterizza ogni azienda produttrice di dolci e cioccolato. I fatturati potevano benissimo permettersi un trimestre di maggiore calma, ma Pietro si era convinto che anche in estate la Ferrero potesse fare una parte da protagonista assoluto. Era la sua scommessa sul futuro, quella a cui dedicava molta parte della sua creatività e che gli faceva sorridere gli occhi.

Le altre due sue passioni erano quelle che legano i suoi ultimi istanti di vita: la bicicletta, su cui saliva appena aveva un momento libero, ovunque si trovasse, e il Sud Africa. Pedalava in modo serio, regolare e su lunghe distanze, con una grande capacità di soffrire la fatica. L’Africa invece era il luogo dei sogni, ne amava gli spazi, i colori e di Cape Town apprezzava la forza dell’Oceano e il clima sempre incerto. Era la sua dimensione ideale.

La sua scomparsa a meno di cinquant’anni è un destino terribile e contro natura: lascia non solo una moglie e tre bambini piccoli ma anche i genitori che lo avevano cresciuto, insieme con il fratello, per passar loro il timone di qualcosa che vivevano non come un’azienda ma come un’estensione della famiglia. Di fronte a questo dolore, può sembrare strano e inaspettato quando si parla di uno tra gli uomini più ricchi del mondo, Michele Ferrero si rifugerà nella preghiera. Per lui la devozione alla Madonna è superiore ad ogni cosa e lì proverà a trovare la forza di cui ora ha bisogno una famiglia prima che un’azienda.

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Titolo: MARIO CALABRESI. L'inguaribile malattia del complotto
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2011, 05:18:22 pm
4/5/2011

L'inguaribile malattia del complotto

MARIO CALABRESI

In Italia la notizia dell’uccisione di Osama bin Laden è stata accolta da molti con scetticismo o con il pregiudizio che la notizia sia falsa, oscura o perlomeno manipolata.

Nelle lettere che riceviamo qui al giornale, nelle mail, come nelle chiacchiere che attraversano il nostro Paese emerge un vizio tutto italiano, che ci accompagna da decenni.

Ognuno di noi credo abbia avuto anche ieri la stessa esperienza: incontrare qualcuno che scuote la testa e, mentre sorride cercando complicità, dice: «Ma non è certo Osama bin Laden».

Un concetto declinato con mille variabili: ma perché dovremmo crederci? A chi fa comodo? Perché proprio adesso? Perché tutta questa fretta di gettarlo in mare? Perché non ce l’hanno fatto vedere? Il tutto poi racchiuso nella rassicurante frasetta magica: è un «giallo».

Se si prova a rispondere che quelle foto scatenerebbero la furia degli estremisti, che nessun Paese era disponibile ad accettare la salma e che si voleva evitare di creare un luogo di pellegrinaggio per fanatici e terroristi, allora si è guardati quasi con compassione. Sono così belle le teorie cospirative che ogni tentativo di spiegazione semplice e razionale viene subito respinto con disgusto.

Intendiamoci, in tutto il mondo ci sono i teorici delle cospirazioni, quelli che sostengono che l’uomo non è mai andato sulla Luna (lo sbarco sarebbe solo una sceneggiata costruita negli studios di Hollywood), che Elvis Presley è ancora vivo o che nessun aereo ha mai colpito il Pentagono l’11 settembre del 2001. Ma queste idee appartengono a minoranze antisistema, non fanno breccia in ogni strato e in ogni ambiente della società.

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia ufficialmente al mondo che i suoi militari, dopo una caccia durata quasi quindici anni, hanno individuato e ucciso Bin Laden, ma dalle nostre parti invece di discutere e dividersi se ciò sia giusto o sbagliato ci si chiede se sia vero e si pretendono le prove. Molti, a mio parere troppi, a sinistra come a destra, partono dal presupposto che il Presidente non dica la verità, o perlomeno nasconda qualcosa. Coltivare il dubbio non è un difetto, anzi una ricchezza delle democrazie, ma vivere con lo scetticismo come regola di vita rischia di essere una grande fregatura.

E stiamo parlando di Barack Obama, pensate se l’annuncio l’avesse dato George W. Bush. Si potrebbe immediatamente obiettare che proprio dalla Casa Bianca venne diffusa nel mondo la bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e ricordare come Colin Powell lo sostenne all’Onu mostrando la famosa fialetta. Dovremmo però ricordare anche il discredito che colpì Bush, Cheney e Powell quando si scoprì che non era vero, e come oggi la reputazione dei tre sia a pezzi, tanto che l’ex Presidente è forse l’unico a non essere invitato da nessuna parte a tenere lezioni e discorsi. Quei discorsi che a Bill Clinton fruttano milioni di dollari l’anno. L’America non ha mai perdonato ai suoi Presidenti il falso, basti l’esempio di Nixon e del Watergate. Negli Stati Uniti come nel resto d’Europa, ce lo hanno ricordato la Germania e la Gran Bretagna negli ultimi mesi, l’onorabilità e la reputazione sono tutto per un politico. La credibilità è l’unico patrimonio che possiede e si parte dal presupposto che sia tenuto a dire la verità, pena il licenziamento.

Da noi invece ci si contenta di non credere, di alzare le spalle o di deridere senza però presentare il conto a chi pure viene colto sul fatto. Questo accade perché la menzogna del potere è considerata una regola e il nostro rapporto con le istituzioni e con chi ci governa è totalmente rotto. In Italia è normale pensare che il capo del governo menta o manipoli le informazioni, per cui partiamo dal presupposto che tutto possa essere falso. E questo talmente ha fatto breccia dentro di noi che chi dubita di qualunque fatto lo fa a prescindere, non sente la responsabilità di cercare prove a sostegno della sua tesi, il controllo delle evidenze non lo riguarda. In questo modo però il dubbio inquina ogni cosa, mina ogni ragionamento e sfarina ogni certezza, impedendoci spesso di apprezzare e valutare serenamente gli avvenimenti.

Il tarlo italiano ha radici e motivazioni storiche, siamo il Paese di Ustica, delle bombe sui treni, del terrorismo rosso e nero, dei misteri e delle molte verità negate, e nasce certamente perché abbiamo avuto di fronte un potere opaco e sfuggente. Ma questo ha lasciato nella nostra società un modo di pensare, un vero e proprio abito mentale, che è diventato comodo e funzionale. Comodo perché divide tutto in bianco e nero e non dovendosi confrontare con le sfumature rassicura e semplifica.

Così accade di sentire, molto spesso e ad ogni livello, che non sappiamo nulla delle stragi o del terrorismo, che tutto è oscuro e coperto. Quante persone, per fare l’esempio più lampante, sostengono che non conosciamo la verità su Piazza Fontana? Sbagliano: non è così. Per la strage alla Banca dell’Agricoltura è corretto dire che non è stata fatta giustizia ma la verità storica è assodata: furono i neofascisti di Ordine Nuovo a mettere la bomba e poterono contare sulla complicità di una parte deviata degli apparati dello Stato. Ma per molti lo stereotipo e la frase fatta finiscono per essere più forti della storia e delle sue conquiste. Non vedere quello che si è ottenuto significa fare un torto a chi per anni si è battuto per ottenere la verità e lasciarsi invadere da quello scetticismo significa rinunciare a ogni partita e a ogni sfida.

Per tornare a Obama e Osama, negando a priori (ripeto: il dubbio è sano ma non il pregiudizio cieco) che questo fatto sia davvero successo ci neghiamo la possibilità di discutere e capire. Se una cosa non è accaduta perché dovremmo allora porci l’interrogativo se sia giusta o sbagliata e poi cercare di immaginarne le possibili conseguenze?

La Storia passerà avanti veloce, cambieranno gli scenari mondiali, forse ci toccherà registrare la potenza delle vendette e delle rappresaglie, ma noi non saremo stati in grado di capirle perché saremo rimasti fermi alle rassicuranti chiacchiere del bar, al sorrisetto, all’alzata di spalle.

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Titolo: MARIO CALABRESI. La magia perduta del Cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2011, 03:47:36 pm
31/5/2011

La magia perduta del Cavaliere

MARIO CALABRESI

E’ un leader radioattivo»: il soggetto è Silvio Berlusconi, la battuta politicamente scorretta è stata pronunciata al termine del G8 da un uomo di primo piano dell’amministrazione americana che viaggiava con Barack Obama. Una battuta utile a capire il disagio di molti leader stranieri di fronte a un presidente del Consiglio che li assillava con il suo incubo dei complotti giudiziari. Una battuta che può servire oggi per comprendere la fuga degli elettori dai candidati sponsorizzati dal Cavaliere.

Il voto di ieri segnala un vento fortissimo di cambiamento che, in modo molto più incisivo che nel primo turno, ha travalicato il valore amministrativo di queste elezioni.

Un vento che ci racconta come Silvio Berlusconi abbia perso la sua sintonia con la maggioranza degli italiani, con la pancia del Paese. Il premier, fin dai tempi della nascita delle televisioni private, è sempre stato un perfetto interprete degli umori e dei desideri degli italiani: li sapeva anticipare e cavalcare con un tempismo perfetto. Berlusconi ha promesso ai cittadini, consumatori prima e elettori poi, di soddisfare ogni loro desiderio, di garantire ogni loro libertà. Oggi questo meccanismo creatore di consenso appare rotto e non per colpa di qualche inchiesta giudiziaria, ma perché il Cavaliere non è riuscito a capire cosa passa in questi giorni nella testa e nella vita degli italiani.

In tempi di crisi, di difficoltà, di risparmi che si assottigliano e di giovani che non trovano lavoro, non si può pensare che il tema della separazione delle carriere o la riforma della Corte Costituzionale scaldino i cuori e riempiano le urne. E dire che Berlusconi lo sapeva bene: per anni ha promesso di non mettere le mani in tasca agli italiani e di abbassare le tasse, ora invece si era convinto che la maggioranza dei suoi concittadini fosse indignata come lui con la magistratura e la sinistra.

Così hanno vinto candidati nuovi e imprevedibili, candidati che sulla carta non avrebbero dovuto avere alcuna possibilità: troppo radicali, troppo di sinistra o anche troppo giovani e inesperti. Ma soprattutto hanno perso le forze di governo, perfino nelle roccaforti del Nord, dove si contava sulla tenuta di una Lega fino a pochi mesi fa in ascesa.

Come è potuto accadere? Per anni Berlusconi ha proposto una sua visione per il Paese mentre i suoi avversari hanno sempre reagito costruendo campagne contro di lui e demonizzandolo. Questa volta i ruoli si sono invertiti: a giocare contro è stato lui, da mesi assistiamo a campagne politiche e giornalistiche in cui gli avversari vengono trasformati in caricature e fatti a pezzi. Da questo punto di vista il trattamento riservato a Pisapia è da manuale, è stato dipinto come il leader degli zingari, dei rom e degli estremisti islamici, una campagna di una tale rozzezza da aver allontanato la maggioranza dei milanesi dal candidato sindaco del centrodestra. Una campagna così poco «positiva» da aver spaventato perfino i moderati, che cinque anni fa avevano garantito la vittoria a Letizia Moratti. E dire che per perdere Milano ci voleva davvero impegno: è stato fatto un capolavoro.

Si può pensare di essere credibili se si tappezza una città con manifesti che strillano: «La sinistra vuole i vigili solo per le multe, non per la sicurezza» o con la minaccia di vedere Milano trasformata in «Zingaropoli»? Era una campagna talmente grottesca da prestarsi a mille parodie che hanno spopolato su Internet. Il migliore spot per Pisapia sono state proprio le caricature fatte su di lui: i filmati e le canzoni che lo dipingevano ancora più estremista dei manifesti leghisti o berlusconiani.

L’errore finale, incomprensibile, è stato poi quello di andare dal Presidente degli Stati Uniti a parlargli dei suoi problemi giudiziari, a insultare un corpo dello Stato italiano. Pensate se il nostro premier, dopo aver chiamato i fotografi ed essersi messo in favore di telecamera, avesse strappato a Barack Obama un impegno sulla Libia per frenare il flusso di clandestini. Il suo gradimento non avrebbe che potuto giovarsene. Invece ha scelto di inseguire la sua ossessione.

Cosa succederà adesso è difficile da prevedere, certamente si è messa in moto una valanga dagli esiti imprevedibili. Potrebbe metterci un giorno, un mese o anche due anni ad arrivare a fondovalle e Berlusconi è persona resistente, tenace, capace di reinventarsi continuamente e che combatte fino all’ultimo. Ma il vero dato di ieri è l’incapacità di leggere cosa passa nella testa, nella pancia e nel cuore degli elettori. E quando un politico smarrisce questo fiuto e questa dote allora per lui suona la campana dell’ultimo giro.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Addio a un reporter coraggioso
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 05:36:43 pm
1/6/2011 - UCCISO IN PAKISTAN

Addio a un reporter coraggioso

MARIO CALABRESI

Ogni volta che la situazione in Pakistan si incendiava, che Al Qaeda o i taleban alzavano il livello della sfida, che un attentato o un rapimento sconvolgevano quell’area immensa che va da Mumbai a Kabul, in riunione qui alla Stampa usciva sempre la stessa domanda: «Cosa dice Saleem?».

Questo giovane giornalista laico e coraggioso era la nostra bussola, ci aiutava a capire qualcosa delle trame politiche, militari e spionistiche pachistane.

Orientarsi in quel mondo complesso dove si mescolano interessi economici, politici e religiosi è esercizio quasi impossibile per un occidentale, come è impossibile capire qualcosa delle zone grigie che coprono o sponsorizzano il terrorismo islamico. Per questo contattavamo Saleem cercando di parlargli con Skype o, quando era in giro per i suoi reportage, lasciandogli una mail nella speranza che la vedesse prima della chiusura del giornale.

Il suo lavoro era prezioso anche per noi italiani in tempi in cui il Pakistan è diventato cruciale per la sicurezza globale come per il contingente che abbiamo in Afghanistan. Ma Saleem, papà di tre bambini, non era solo un buon giornalista, di quelli che si limitano a raccontare quello che succede sulla scena. Era un coraggioso analista, un reporter investigativo capace di smascherare quei legami pericolosi che hanno permesso a Osama bin Laden di vivere indisturbato per anni a poca distanza da una base militare. Non si era mai fatto scrupolo Saleem di raccontare i doppi e tripli giochi dell’Isi, il servizio segreto di Islamabad. Ma negli ultimi giorni aveva alzato il tiro con un reportage in cui sosteneva che un gruppo di ufficiali della marina militare pachistana dava copertura a una cellula di Al Qaeda. Era la prova delle continue infiltrazioni terroristiche dentro gli apparati di intelligence e militari del Pakistan.

Questa volta però, dopo le accuse americane per la copertura a Osama, il potere occulto non ha più sopportato la pretesa di fare vero giornalismo e ha deciso di spegnere quella luce che Saleem teneva accesa con un lavoro solitario e straordinariamente coraggioso.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Governo, la grande recita
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 09:56:17 am
24/6/2011

Governo, la grande recita

MARIO CALABRESI

Da almeno un anno nella politica italiana esistono due universi paralleli: quello della realtà e quello della finzione. La realtà, così come la raccontano ministri, sottosegretari, senatori, deputati, faccendieri, lobbisti, manager delle grandi aziende e diplomatici di ogni nazionalità, è che il governo è paralizzato, il presidente del Consiglio totalmente assorbito dalle sue vicende personali e la maggioranza lacerata da rivalità, invidie e lotte di potere.

La realtà però viene solo sussurrata: al telefono, nelle cene private o a margine degli incontri di lavoro. Da un anno capita di ascoltare esponenti di primo piano dello Stato e del governo ripetere che una stagione è finita, il Paese non più governato e che ormai si vive nella palude. E fin qui siamo all’analisi politica, poi si viene investiti da una serie di lamentele, sfoghi e pettegolezzi sul premier e sui suoi ministri che, al confronto, tutto quanto è stato letto sui giornali risulta perfino pallido e stinto.
Al posto della realtà va in scena una grande rappresentazione, in cui appare una corte che ancora crede nell’invincibilità del sovrano, nella sua capacità di tornare in sella e soprattutto nell’unicità del suo carisma.

Se si vanno a ricercare le dichiarazioni pubbliche degli esponenti del centrodestra è difficile trovare traccia di critiche, prese di distanza o dubbi sull’operato di Berlusconi o del governo. Eppure le occasioni non sono mancate, da Noemi a Ruby, dal bunga bunga alle pressioni per cancellare programmi e conduttori Rai, dalle assenze nella politica internazionale (la nostra incapacità di avere un ruolo di primo piano nelle crisi in Tunisia, Egitto e Libia) fino alla mancata crescita e al nostro declino.

Molte volte, di fronte a situazioni estreme, è venuto da chiedersi come fosse possibile che il mondo del centrodestra digerisse tutto, senza mai muovere una critica o indignarsi.

Lo scorso autunno incontrai un giorno Bisignani, che non avevo mai visto prima, e, come molti altri esponenti del governo nelle stesse settimane, mi raccontò di un presidente del Consiglio assente e distratto dal suo privato e di una maggioranza completamente allo sbando. Rimasi colpito dal doppio registro della narrazione: un racconto privato che divergeva totalmente dalla rappresentazione pubblica

Poi sono arrivate le intercettazioni del caso Ruby, i file di Wikileaks (con le confidenze agli americani di molti nostri politici e manager) e perfino le telefonate di Briatore nell’inchiesta sul suo pànfilo. Così abbiamo scoperto giudizi taglienti e senza appello su Berlusconi, i suoi comportamenti e sullo stato del governo, scagliati da persone che credevamo vicinissime e fedeli.

Da qualche giorno infine, con le migliaia di intercettazioni dell’inchiesta chiamata P4, il velo è completamente caduto e leggiamo attoniti delle risse, degli insulti, degli odii che lacerano il governo e circondano Berlusconi. Al di là degli aspetti penali e del malcostume di un sistema che sembra aver abolito ogni trasparenza e ogni criterio di merito, emerge uno scenario in cui i veleni hanno conquistato ogni spazio del discorso pubblico.

Scopriamo che anche i ministri o gli amici di una vita dileggiano Berlusconi (così come facevano le ragazze ospiti delle feste ad Arcore), lo considerano finito e organizzano continue guerre intestine. La reazione naturale sarebbe stata quella della resa dei conti, della cacciata degli infedeli, ma invece nulla è successo. Perché per sopravvivere c’è bisogno di tutti, si è costretti a scendere a patti con chiunque e a qualunque prezzo: l’unico problema appare quello di chiudere il rubinetto della realtà, di ripristinare in fretta la finzione.

Così vediamo una ministra, che abbiamo appena saputo ritenere il premier «poco intelligente», sedersi ai banchi del governo, o molti altri stringersi la mano e sorridersi nonostante sia stato reso noto che si detestano e tramano uno contro l’altro.

Così si corre a cercare di rimettere in pista ogni strumento per bloccare le intercettazioni e la loro divulgazione: il problema non è la sostanza ma la rappresentazione. Bisogna impedire in fretta di far sapere agli italiani non tanto di eventuali scandali ma cosa pensano davvero parlamentari e ministri. Dobbiamo credere che regni ancora l’armonia, per farlo è necessario chiudere al più presto porte e finestre affinché la rissa si svolga tutta tra le porte di casa. L’urgenza adesso è quella di rimettere in piedi la Grande Recita, i problemi veri possono aspettare ancora un giro.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Un sito web per l'Italia e il mondo
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2011, 05:05:38 pm
30/6/2011

Un sito web per l'Italia e il mondo

MARIO CALABRESI

Le televisioni e i giornali di tutto il mondo che tengono ancora aperto un ufficio di corrispondenza aRoma lo fanno per un solo motivo: non per la nostra politica, nemmeno per il nostro cinema, il Colosseo o l’economia, ma perché c’è il Papa. Il Vaticano continua a fare notizia nel mondo, ogni giorno, con decisioni, discorsi o documenti, che si tratti dinucleare, di ricerca scientifica, dimedicina, di educazione, di famiglia, di matrimoni gay, di fame nel mondo, di giustizia sociale o di scandali legatialla pedofilia

Per molti osservatori e lettori, italiani e stranieri, comprendere le dinamiche delle scelte prese dalla Chiesa cattolica, analizzarle e metterle nel giusto contesto può essere complicato. Le porte del Vaticano, inteso come luogo delle decisioni, spesso appaiono poco trasparenti e difficilmente accessibili.

Me ne sono reso conto parlando con molti giornalisti e direttori di giornali a Berlino, come a Londra, a New York e a Hong Kong. Tutti mi sottolineavano quanto incrociassero le nostre vite i temi religiosi, i dibattiti sui temi etici e quanto fosse difficile avere notizie fresche, attendibili e di prima mano.

Per questo abbiamo pensato di dare vita ad un canale online di informazione in tre lingue, dedicato a un’audience globale, che racconti in modo serio e indipendente cosa accade Oltre Tevere. Questo luogo di informazione si chiama Vatican Insider ed è una novità assoluta nel mondo editoriale: è il primo sito di informazione sul Vaticano non legato alla Chiesa, a congregazioni religiose e comunità di fedeli, ma promosso da un quotidiano laico, generalista e indipendente.

La Stampa ha una grande tradizione laica, a cui intendiamo tenere fede perché è parte fondamentale del nostro Dna oltre che una garanzia per i lettori. Ma ha anche una grande tradizione di innovazione e approfondimento e mettendo insieme tutte queste sue caratteristiche abbiamo pensato di lanciare qualcosa di completamente nuovo.

L’idea è quella di aprire una finestra che racconti, senza pregiudizi e in totale libertà, le discussioni e i dibattiti sui temi etici e religiosi. Che dia ogni giorno notizie esclusive, che sia capace di proporre inchieste, retroscena e approfondimenti per aggiungere un tassello alla comprensione del mondo in cui viviamo.

Oltre ai temi di giornata, troverete interviste e interventi di protagonisti del dibattito religioso provenienti da esperienze e da posizioni le più diverse e plurali. Il primo, che ospitiamo oggi anche sulle pagine della Stampa, è l’ex premier britannico Tony Blair.

Per lanciare Vatican Insider abbiamo costruito una squadra in cui convivono alcuni tra i migliori vaticanisti, esperti e analisti che ci siano sulla piazza globale e siamo orgogliosi di poter offrire un prodotto italiano multilingue che nei suoi primi giorni di lancio ha già trovato oltre il quaranta per cento dei suoi lettori fuori dai nostri confini.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8919&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MARIO CALABRESI. La grande carestia che sta uccidendo il Corno d'Africa
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2011, 03:38:51 pm
14/7/2011 - UN INCUBO CHE RITORNA: COLPITE 11 MILIONI DI PERSONE DALLA SOMALIA ALL'ETIOPIA

La grande carestia che sta uccidendo il Corno d'Africa


MARIO CALABRESI

Aden Salaad è un bambino somalo di due anni, è malnutrito, ma tre giorni fa ha avuto la fortuna di arrivare vivo, insieme alla mamma, all’ospedale di Medici senza Frontiere messo in piedi nel più grande campo profughi del mondo, a Daab in Kenya. Qui si sono rifugiate 400 mila persone in fuga dalla fame e dalla carestia. Abbiamo scelto questo scatto, crudo e sconvolgente, perché in un’Italia concentrata sugli scandali politici, sulle tasse, i ticket e le vacanze, si sappia che nel Corno d’Africa per colpa della siccità c’è uno dei peggiori disastri umanitari dell’ultimo mezzo secolo e che oltre due milioni di bambini rischiano la vita. Per molti di loro anche una bacinella di plastica rotta dove fare il bagno resterà un miraggio.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8980


Titolo: MARIO CALABRESI. Africa, non bisogna chiudere gli occhi
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2011, 04:24:33 pm
3/8/2011

Africa, non bisogna chiudere gli occhi

MARIO CALABRESI

Più di quarant’anni fa il mondo scoprì le immagini del Biafra: bambini denutriti, scheletrini con il pancione gonfio.
Erano le grandi carestie a cavallo degli Anni 60 e 70 che sconvolsero l’Occidente.

Quelle prime foto in bianco e nero portarono nelle nostre case il significato della morte per fame, della malnutrizione cronica, della siccità che distrugge ogni possibilità di sopravvivenza. Quelle stesse scene le avremmo riviste vent’anni dopo in Somalia, poi in Etiopia e pochi anni fa in Sudan. Allora l’Africa era lontana dalle nostre vite e molte volte in questi quattro decenni il mondo si mobilitò commosso portando aiuti e inviando dottori e medicinali.

Oggi l’Africa arriva ogni giorno sulle nostre coste, la fame la potremmo leggere guardando i volti di chi attraversa il Mediterraneo stipato in un barchino e spesso perde la vita nel lungo viaggio, ma non sempre ci riusciamo: la paura dell’immigrazione, l’eccesso di immagini e la nostra crisi economica ci chiudono gli occhi.

Ho parlato con un medico che ha combattuto la grande carestia del Corno d’Africa nel 1972 e ’73, ricorda bambini rovistare nella spazzatura per cercare bucce di banana, ricorda famiglie che cercavano di sfamarsi con le foglie o mangiavano crudi i semi che erano stati appena distribuiti per la semina. Ricorda l’inedia e gli occhi vacui di chi ormai non ce la fa più e mi ha spiegato che vediamo solo donne e bambini perché gli anziani se ne sono andati per primi.

Oggi sappiamo che sta succedendo di nuovo e in proporzioni e con una violenza che non si vedeva da molto tempo. Gli abitanti di interi villaggi sono tornati a percorrere a piedi piste di terra lunghe centinaia di chilometri nella speranza di incontrare acqua o cibo. Sono migrazioni - come vi raccontiamo in queste pagine e come testimoniano i primi operatori umanitari che riescono a lavorare laggiù - in cui si abbandona per strada ogni avere e si cerca soltanto di sopravvivere.

Tre anni fa ho incontrato una famiglia che era fuggita dalla guerra del Ruanda, avevano vissuto per anni in un campo profughi prima di ottenere lo status di rifugiati e approdare in America. Arrivarono all’aeroporto di Newark nel New Jersey - padre, madre e quattro figli - solo con una busta in mano. Gli chiesi dove fossero i bagagli e loro mi risposero che non avevano più nulla da quattordici anni, ma il padre serio aggiunse: «Però pensiamo di essere fortunati, molto fortunati, perché abbiamo ancora la vita». E’ la frase che più mi risuona in testa ogni volta che parliamo delle nostre difficoltà quotidiane e perdiamo di vista ciò che conta davvero.

In questo momento nel Corno d’Africa ci sono 12 milioni di persone che sono colpite dalla carestia e non hanno cibo, oltre un milione di bambini rischia la vita. Per questo abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di permettere a chi desiderasse fare qualcosa di potersi muovere, di sentirsi utile. Abbiamo ricevuto numerose sollecitazioni negli ultimi giorni e prima di lanciare una sottoscrizione abbiamo voluto individuare un progetto serio in cui i soldi dei lettori della Stampa potessero fare davvero la differenza ed essere ben spesi. Adesso lo abbiamo trovato: è un reparto pediatrico che si sta costruendo in Somalia proprio per assistere bambini denutriti. Lo sta costruendo un’associazione torinese, ma non ha fondi sufficienti. Grazie a Specchio dei tempi siamo sicuri che si farà in fretta a terminarlo. Ma se la vostra generosità e le sottoscrizioni saranno tante, allora siamo pronti a trovare altri progetti e altre iniziative pratiche e ben fatte da sostenere. Grazie a tutti quelli che saranno con noi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9053


Titolo: MARIO CALABRESI. Ragazzi, attenti all'estate delle maxibevute
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:52:22 am
4/8/2011

Ragazzi, attenti all'estate delle maxibevute

GIORGIO CALABRESE

Drammatica festa hawaiana. È una tradizione, a Sestri Levante, in Liguria, la città dei Due Mari e della movida della Riviera. È nata come festa d’estate, una sorta di Carnevale che invade le spiagge, le strade, le piazze. Un party innocuo. Poi, con gli anni, questa serata è diventata sempre più popolare, nel senso che, tra passaparola e Facebook, si è trasformata in un appuntamento da 25-30 mila ragazzi. È diventata un assedio, una corrida sfrenata alimentata dall’alcol. Anzi, dall’abuso d’alcol, da parte soprattutto dei più giovani. È la moda del «binge drinking», cioè dell’abbuffata di un mix di bevande altamente alcoliche: uno dei nuovi mali di questa nostra società molto ammalata.

Del resto, se si organizza una festa di questo tipo, bisogna essere coscienti che l’alcol sarà il protagonista principale della kermesse. Emettere un’ordinanza severa in merito alla vendita di sostanze alcoliche, controllare zaini e giubbotti all’ingresso della città, sguinzagliare i vigili nei bar e negli altri locali, va bene. Ma evidentemente non è bastato. O non ha funzionato. E poi, come fai a controllarne 25-30 mila? Cinquantun ragazzi sono finiti all’ospedale per etilismo acuto, altri ci sono andati vicinissimi. Vino, anche. Ma in particolare gin, tequila, rhum, che sono corsi a fiumi.

Questi superalcolici già da soli danneggiano prima la mucosa boccale, poi l’esofago, quindi lo stomaco per poi finire malamente nel fegato, che patisce più di tutti gli organi. Da qui, sotto forma di acetaldeide passano la barriera ematoencefalica, e quindi vanno nel cervello. Ecco spiegato lo stato di alterazione in cui si incorre, che viene definito etilismo acuto. I segni? Grave nausea, bruciori di stomaco di forte intensità, vomito continuo e perdita di coscienza.

Se si intende dare veramente il via libera a questo tipo di feste, bisogna agire drasticamente. In modo che i superalcolici spariscano dalla portata dei più giovani (ma sarebbe giusto limitarli fortemente anche agli adulti). È necessario chiedere, ottenere la presenza delle forze di polizia, specie quella municipale, e pretendere controlli capillari negli esercizi pubblici. Per impedire che somministrino, senza alcuna verifica dell’età e dello stato di sobrietà, i superalcolici. Occorrono divieti, ma occorre anche farli rispettare.

Prevenzione, però, è anche educazione. Bisogna allora iniziare ad educare i giovani a scuola, soprattutto illustrando gli effetti negativi del «binge drinking», talvolta anche duraturi nel tempo, fino alla irreversibilità nota come etilismo cronico.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9057


Titolo: MARIO CALABRESI. In cerca di un'idea di futuro
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2011, 07:21:41 pm
14/8/2011

In cerca di un'idea di futuro

MARIO CALABRESI

La crisi arrivata al suo culmine italiano nelle ultime settimane è cominciata tre anni fa, quando le televisioni di tutto il mondo iniziarono a trasmettere le immagini di persone con la faccia stravolta e uno scatolone tra le mani che uscivano da un grattacielo sulla Settima Avenue di Manhattan. Erano i lavoratori del quartier generale newyorchese di Lehman Brothers che avevano appena avuto la notizia del fallimento della banca d’affari americana.

Da quel momento il nostro mondo è profondamente cambiato. Chi ci governa e chi ha governato l’economia italiana in tutto questo tempo ha ripetutamente ridimensionato il problema e sembra essersene accorto soltanto nelle ultime settimane.

Certamente in questi giorni c’è stata un’escalation in tutto il pianeta e la situazione si è fatta drammatica, ma sostenere che non era prevedibile quando si ha il quarto debito pubblico del mondo e si ha una crescita bassissima non è credibile.

E non dimentichiamo che la crescita dello spread tra i titoli di Stato italiani e i Bund tedeschi è cominciata dopo l’emergere di divergenze e tensioni tra il nostro premier e il ministro dell’Economia, così come il deficit di credibilità è anche figlio di una manovra - quella di luglio - che rinviava troppo in là nel tempo i suoi effetti.

La manovra straordinaria varata in questa drammatica vigilia di Ferragosto ha il pregio di riconoscere la gravità della situazione, di provare a dare una risposta forte e di metterci - auspicabilmente - al riparo da nuovi attacchi speculativi e da ondate di vendite dei nostri titoli e delle nostre azioni.

Agli aspetti positivi, che si possono riassumere nella velocità con cui sono state fatte scelte altamente impopolari come spiega in questa pagina Luca Ricolfi, si accompagnano una serie di preoccupazioni e di amarezze di segno diverso tra loro.

La prima è quella di tutti coloro che negli ultimi anni avevano lanciato l’allarme sulla crisi e che erano stati regolarmente bollati come disfattisti e anti-italiani. Avere ragione col senno di poi non è mai di grande consolazione, soprattutto se si pensa che avere aspettato tre anni non ha che aggravato la situazione.

Chi si vede alzare le tasse (quando ancora in primavera si riproponeva la favola di un abbassamento delle aliquote) non può fare a meno di chiedersi se tutto questo non poteva essere evitato: con interventi sulla spesa più incisivi e tempestivi e favorendo la crescita.
Sì perché il vero problema italiano è quello di non riuscire a crescere e questa manovra, come le precedenti, non contiene una ricetta chiara e riconoscibile di sviluppo, né liberista né keynesiana. Mancano ancora le riforme, se si fa eccezione per gli interventi sul mercato del lavoro - che puntano a renderlo un po’ meno ingessato - e quelli sul sistema pensionistico. Ci preoccupiamo di tenere sotto controllo i conti, ma manca un’idea di futuro, un disegno per il Paese di domani.

Mettendo le mani in tasca in maniera pesante a quegli italiani che le tasse le hanno sempre pagate ci saranno inevitabilmente meno soldi da spendere: si taglia un pezzo di domanda e il rischio non è solo quello di non garantire nuova crescita ma di cominciare a decrescere.
Se da un lato nessuno si può tirare indietro in momenti di grave crisi, così come è giusto chiedere maggiori sacrifici a chi più ha, dall’altro si consolida ancora una volta l’iniquità di colpire sempre gli stessi. Perché il cosiddetto «contributo di solidarietà» (da considerarsi come un aumento delle aliquote più alte, capace di regalarci tasse record) viene scaricato non tanto sugli italiani più ricchi - come si cerca di far credere - ma su quelli più controllati e colpibili, quelli che dichiarano completamente il loro reddito, i cui guadagni sono tutti alla luce del sole.

In molti si sono già chiesti perché si sia deciso di intervenire solo sui redditi da lavoro e non sui patrimoni, come se il possessore di dieci appartamenti sia da considerare più sacro e intoccabile del padre di famiglia che porta a casa cinquemila euro al mese. Così come in molti si stanno chiedendo in queste ore perché mai i tagli alle poltrone si concentrino su Province e Regioni e non sui parlamentari nazionali o perché deputati e senatori non paghino tasse sulle loro liquidazioni, mentre il Tfr (tassato) dei dipendenti pubblici verrà pagato con due anni di ritardo.

La manovra andava fatta, le medicine amare non erano più rinviabili e ognuno di noi dovrà fare la sua parte (comprese le opposizioni e le parti sociali), ma i tagli andrebbero sempre accompagnati da misure di stimolo e di rilancio, da investimenti di lungo periodo, o perlomeno da quelle riforme a costo zero che non richiedono nuove spese ma il coraggio di scontentare settori di popolazione.

La sensazione che questo governo dell’economia ci trasmette è invece di profonda sfiducia nell’Italia, quasi che il declino sia una condizione obbligata, da cui è impossibile sfuggire e a cui è inutile opporsi.

Un Paese però non può pensare di vivere solo in difesa, di chiudersi in una trincea sempre più stretta e soffocante, deve scommettere su se stesso, coltivare non solo la paura ma anche la speranza. Deve puntare sui giovani, fare investimenti in quella direzione, solo così tagli e tasse possono apparire un po’ più accettabili. Ma se il disegno e il futuro mancano, allora restano solo la paura e l’incertezza e nuove tensioni a dividere un italiano dall’altro.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9094


Titolo: MARIO CALABRESI. 11 - Settembre, perchè è un anniversario unico
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2011, 03:35:45 pm
11/9/2011

11 - Settembre, perchè è un anniversario unico

MARIO CALABRESI

Siamo arrivati al giorno esatto del decimo anniversario degli attentati del 2001, ma è da una settimana che ne parliamo: la Stampa ha dedicato due supplementi - uno domenica scorsa e uno oggi - pagine di analisi e commenti.

Perché tutto questo spazio a un avvenimento che fece sì quasi tremila morti ma che non è unico nella storia?
Quanti altri massacri, stragi o genocidi - mi vengono in mente il Ruanda o la Bosnia per primi - dovremmo e potremmo ricordare con lo stesso impegno e spazio? Certamente molti - non esistono unicità senza precedenti come ci spiega accuratamente Enzo Bettiza sulla copertina dell’inserto che trovate al centro del giornale - ma c’è qualcosa che caratterizza l’11 settembre, che lo rende eccezionale, al di là del doveroso ricordo di quelle donne, di quei bambini e di quegli uomini che persero la vita. E’ il fatto che l’11 settembre ha accelerato molti fenomeni che germogliavano da anni, ma che dopo quegli attentati trovarono la strada spianata e hanno cambiato in modo significativo le nostre esistenze e gli equilibri del mondo in cui viviamo.

Il primo fenomeno, il più dirompente, mi sembra possa essere la crescita impetuosa e senza ostacoli dell’economia cinese. Il 10 settembre del 2001 i centri di ricerca e gli analisti di mezzo mondo prevedevano un decennio di sfida Pacifica: gli Stati Uniti avrebbero dovuto tenere a bada e rintuzzare la crescita cinese e le mire di Pechino sulle materie prime sparse sul globo. Dovevano essere dieci anni di battaglie economiche e geopolitiche ma non sarebbe stato così.

L’11 settembre ha cambiato l’agenda dell’Occidente, ha messo al primo posto la lotta al terrorismo islamico, ha dirottato immense quantità di denaro e di energie al compito di contrastare Al Qaeda e di difendere le capitali americane e europee. L’America ha girato la testa da un’altra parte, ha speso tra i due e i tre miliardi di dollari in due guerre - quei soldi che oggi appesantiscono il suo debito e impediscono politiche di rilancio dell’economia - e ha lasciato campo libero non solo alla Cina ma anche alla crescita di Paesi vincenti come India e Brasile.

Mentre Washington dava la caccia ai taleban e alle cellule terroristiche di Bin Laden, Pechino dava la caccia alle materie prime di continenti interi, dall’Africa al Sud America. Basta atterrare all’aeroporto di Nairobi in Kenya per rendersi conto di quanti cinesi ci passano ogni giorno per affari, così come il giorno in cui è scoppiata la guerra in Libia abbiamo improvvisamente scoperto che a Tripoli lavoravano decine di migliaia di operai con il passaporto di Pechino, a significare che stavano conquistando il monopolio delle costruzioni perfino sulla sponda Sud del Mediterraneo.

In questo decennio i rapporti di forza tra le varie aree del mondo sono profondamente cambiati, dal G8 si è passati al G20, e il debito americano, come parte di quello europeo sono in mani asiatiche. Negli ultimi giorni ha viaggiato in Europa una delegazione con i vertici del Fondo sovrano cinese, quello che compra partecipazioni e sottoscrive appunto il debito degli stati nazionali, chi li ha incontrati racconta non solo la preparazione e la puntualità di questi alti funzionari di Pechino ma anche la loro coscienza di essere saliti sui gradini più alti del pianeta e la loro convinzione di potersi permettere di guardare molti di noi dall’alto verso il basso.

Viviamo in un altro mondo, un mondo in cui le tensioni religiose si sono accresciute - fortunatamente senza esondare in maniera irreparabile come sottolinea proprio oggi Enzo Bianchi -, in cui il nostro modo di viaggiare, di muoverci e di guardare agli altri è cambiato, in cui le paure per molto tempo hanno trionfato sulla razionalità e in cui molte realtà - a partire dal mondo arabo - sono state terremotate. Oggi non ci sono più Osama bin Laden e Saddam Hussein, così come non dettano più legge Mubarak e Gheddafi: se quell’11 settembre fosse stata una mattina normale molto probabilmente sarebbero ancora al loro posto.

Gli aerei che hanno colpito le Torri Gemelle e il Pentagono non hanno distrutto le nostre economie ma hanno dato vita a fenomeni esiziali, penso per esempio alla necessità americana di reagire con un ottimismo dei consumi che non aveva ragion d’essere e che avrebbe indebitato una nazione fino all’inevitabile scoppio della bolla immobiliare che ha dato vita alla recessione da cui non siamo ancora usciti oggi.

Per questi motivi si tratta di un anniversario diverso dagli altri, per gli effetti sul nostro presente e sul nostro futuro. Per questo quella mattina di luce meravigliosa, in cui è finita un’epoca, merita una grande attenzione e uno sforzo di comprensione. Noi pensiamo di avervi dato le nostre firme migliori per aiutarvi a capire, anche se in questa giornata resta solo un dovere: quello della memoria.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9182


Titolo: MARIO CALABRESI. L'Italia merita qualcosa di meglio
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2011, 10:44:27 am
16/9/2011

L'Italia merita qualcosa di meglio

MARIO CALABRESI


Ci sono giorni in cui il destino ti mette sotto gli occhi tutto quello che non vorresti vedere, da cui scappi, e lo fa con una chiarezza che non lascia scampo.

Ieri è stato uno di quei giorni per Silvio Berlusconi e per l’Italia. Una micidiale coincidenza ha messo in fila i nuovi guai giudiziari del nostro premier, la drammatica situazione economica con il crollo della nostra credibilità internazionale e l’assenza del nostro Paese dalla politica internazionale che conta. Partiamo da quest’ultima. Ieri a Tripoli il Presidente francese e il premier inglese sono stati ricevuti da una folla festante, accolti come liberatori, per Sarkozy perfino i fiori. Nessun italiano nelle immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo. Eppure alla guerra in sostegno dei ribelli contro Gheddafi abbiamo partecipato anche noi, ma ci siamo accodati malvolentieri e oggi abbiamo altro a cui pensare. Mentre francesi e inglesi costruiscono il loro futuro sulla sponda del Mediterraneo di fronte a casa nostra - compito che si è dato anche il premier turco Erdogan, pure lui in visita in Libia, dopo essere stato in Egitto.

Il nostro presidente del Consiglio invece ha passato la giornata in silenzio, chiuso con i suoi avvocati a studiare le carte e le grane giudiziarie che arrivano da Bari, Milano e Napoli.

Ieri la Banca d’Italia ha certificato la fuga degli investitori stranieri dai titoli di Stato italiani: nel solo mese di luglio ci sono state vendite dall’estero di titoli di debito italiani per 21 miliardi di euro. Gli stranieri vendono e a comprare, per non far saltare il Paese, sono le banche italiane e la Banca d’Italia. Ma a liberarsi del nostro debito - come spiega in queste pagine il professor Franco Bruni - non sono speculatori ma fondi pensione europei e americani, seri e rispettabili, che lasciano i titoli italiani perché non danno loro più fiducia. Non siamo credibili, ripetono ormai con micidiale costanza analisti e giornali di tutto il mondo. Difficile dare loro torto, se in contemporanea le agenzie italiane diffondevano l’elenco dettagliato delle ragazze «indotte all’attività di prostituzione in favore di Silvio Berlusconi», premurandosi di specificare anche le ville o i palazzi dove ognuna delle donne ha partecipato alle «serate galanti». A Milano nel frattempo si chiedeva di processare il premier per aver avuto un ruolo nella divulgazione dell’intercettazione della famosa telefonata tra Piero Fassino e l’assicuratore Giovanni Consorte in cui si parlava dell’acquisto da parte di Unipol della Bnl. A Napoli intanto i pubblici ministeri attendono di sapere se Berlusconi si farà interrogare nel procedimento che riguarda i ricatti da lui subiti dalla coppia Tarantini-Lavitola, a cui ha pagato diverse centinaia di migliaia di euro nell’ultimo anno.

Siamo immersi in una nuova bufera giudiziaria, il premier può accusare i magistrati di accanimento ma questa volta non può più giustificarsi sostenendo che si tratta di vecchie vicende, dei tempi in cui faceva l’imprenditore, perché tutte le indagini aperte riguardano gli ultimi due anni e sono figlie della sua vita spericolata.

Per molto tempo ci siamo permessi il lusso di essere guidati da un uomo che doveva dedicare molto tempo per difendersi nei processi o più spesso dai processi, siamo mancati come Paese sulla scena internazionale perché le priorità del premier erano altre, ora però il gioco è diventato troppo pericoloso e devastante per tutti. Avere un presidente del Consiglio che deve passare ore con i suoi avvocati per mettere in piedi strategie difensive è indubbiamente un danno per una nazione, quel tempo è inevitabilmente sottratto alle attività istituzionali, siano queste la politica estera o le finanze pubbliche. In passato però non c’era modo per quantificare con sicurezza quanto questo costasse alla collettività e ai cittadini italiani. Oggi purtroppo tutto ciò è immediatamente percepibile: sono il crollo drammatico dei valori delle azioni, l’innalzarsi degli interessi che dobbiamo pagare per riuscire a piazzare i nostri titoli di Stato e il conseguente aumento di tasse varie a cui siamo sottoposti in conseguenza. Non sto dicendo che la profonda crisi economica sia conseguenza diretta dei processi berlusconiani, anche se oggi la credibilità e la serietà sono le merci più apprezzate sui mercati, ma che in un momento così delicato abbiamo bisogno di una guida che pensi soltanto a come salvare il Paese, che metta l’interesse nazionale molto sopra al proprio. Che non pensi a come bloccare le intercettazioni ma a come partecipare alla ricostruzione della Libia e che sia pronto per il verdetto delle agenzie internazionali di rating che potrebbe esserci recapitato questa sera.

Sono passato alla Camera dei Deputati l’altro ieri pomeriggio, non ci andavo da parecchio tempo, e sono rimasto colpito dalla sensazione di lontananza dal Paese reale che si respira. Mentre fuori scoppiavano due bombe carta e gli elicotteri della polizia volteggiavano su Montecitorio, dentro il Palazzo non si avvertiva quell’urgenza e quell’emergenza che oggi ogni cittadino sente sulla sua pelle. Ho visto grandi conciliaboli per discutere come salvare dall’arresto Marco Milanese, l’ex braccio destro di Tremonti, ho visto il responsabile Scilipoti proporre allegramente nuovi condoni e un gruppo di ministri valutare l’opportunità di un decreto di urgenza per bloccare la pubblicazione sui giornali delle intercettazioni.

Alcuni pensano che non si possa andare avanti così, ma nessuno lo dice ad alta voce e la convinzione comune è che si continuerà navigare a vista, giorno dopo giorno. «Li vede - mi ha detto un ministro indicando la folla dei deputati che usciva dall’Aula - nessuno di loro vuole andare a casa, perché la gran parte dei parlamentari è convinta che non verrà mai più rieletta e allora resistono e garantiscono la maggioranza». Una maggioranza esiste, un governo anche, ma l’Italia sta affondando e diventa sempre più piccola. Ogni giorno ci sembra d’aver toccato il fondo ma con angoscia scopriamo che si può scendere ancora. Il Paese ha bisogno di essere governato, di avere una direzione e un po’ di speranza. Gli italiani non meritano di vivere in quest’angoscia.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9207


Titolo: MARIO CALABRESI. Perché succede solo qui
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 05:17:27 pm
16/10/2011

Perché succede solo qui

MARIO CALABRESI

Ieri in 951 città di 82 Paesi del mondo sono scesi in piazza cittadini di ogni età, ma soprattutto giovani, per protestare contro un sistema economico che si preoccupa di salvare le banche prima dei cittadini. Sono i cosiddetti «Indignati», che hanno preso il nome dai manifestanti spagnoli che in primavera hanno occupato la Puerta del Sol a Madrid per denunciare la disoccupazione crescente, la precarietà dilagante e i privilegi della casta economica e di quella finanziaria.

La protesta ha fatto proseliti e in queste settimane i riflettori si sono concentrati a New York sugli «occupanti» di Zuccotti Park, una piazza poco lontana da Wall Street, dove è stato costruito un piccolo accampamento che intende contrapporre l’uomo della strada, che soffre la crisi, ai broker della Borsa che sono tornati a prendere bonus milionari. La mobilitazione americana non è mai sfuggita di mano e, di fronte alle accuse del sindaco di sporcare e deturpare, gli occupanti si sono messi al lavoro per lavare e pulire.

Poi ieri c’è stata la prova mondiale di un movimento che sta raccogliendo la comprensione di giornali, televisioni, comuni cittadini, politici e perfino di banchieri.
In 950 città le manifestazioni sono state assolutamente pacifiche: colorate, rumorose ma ordinate.
In una soltanto si è scatenata una violenza spaventosa e senza freni: a Roma. Anche ieri abbiamo mostrato al mondo un’anomalia italiana.
Anche oggi ci tocca vergognarci.

Mentre a New York i ragazzi indossavano distintivi pacifisti ed erano armati solo di scope e spazzoloni per pulire, da noi indossavano caschi e erano armati di bombe carta.
La colonna sonora a Manhattan è quella del tamburino che suona i bonghi (e il dibattito tra le tende è se debba fermarsi dopo pranzo per non disturbare chi riposa nelle case vicine) o dei buddisti che pregano ripetendo «Om». L’odore è quello degli incensi di attempati figli dei fiori.

La nostra colonna sonora invece, come troppe volte nella storia italiana, è quella delle sirene dei blindati di polizia e carabinieri, dei rotori degli elicotteri che sorvolano gli scontri e delle esplosioni, mentre l’odore è quello acre dei lacrimogeni o del fumo delle auto incendiate.
Perché è accaduto a Roma, perché è accaduto solo da noi, perché alcune migliaia di ragazzi che volevano solo la guerriglia sono riusciti a prendere in ostaggio una città, un movimento nascente e a distruggere ogni possibilità di mobilitazione pacifica e fruttuosa?
Perché l’Italia si ritrova ancora prigioniera della violenza e degli estremisti? Perché siamo sempre condannati a veder soffocare le spinte per il cambiamento tra i lacrimogeni?

Penso spesso al nostro destino beffardo: da questa parte dell’Oceano le proteste del ‘68 si sono trasformate nel terrorismo o negli scontri del ‘77, uccidendo non solo uomini ma anche idee e ideali. Dall’altra parte la violenza non ha vinto e il movimento che sognava di cambiare il mondo è riuscito a farlo inventandosi le energie alternative o la Silicon Valley: al posto dei leader dell’Autonomia l’America ha avuto Steve Jobs, che faceva uso di droghe ma le sue visioni erano futuristiche e non apocalittiche.

Da noi accade ancora perché non abbiamo mai preso (uso il plurale perché dovrebbe farlo la società tutta) le distanze in modo netto e definitivo dalle pratiche violente. Perché siamo i massimi cultori del «Ma» e del «Però», che servono a giustificare qualunque cosa in nome di qualcos’altro. Per guarire dovremmo eliminarli dal vocabolario. Smettere di relativizzare la violenza perché, a seconda dei tempi, a giustificarla c’è il regime democristiano, quello berlusconiano, l’alta velocità o qualche riforma indigesta.

Milioni di italiani sono indignati dalla nostra classe politica, dalla lontananza che chi ci governa mostra verso i problemi reali dei cittadini, e dalla mancanza di investimenti sul futuro dei giovani. Ma non per questo pensano di scendere per strada a bruciare l’auto del vicino e non per questo sono meno indignati, arrabbiati o sfiniti. Di certo considerano quei manifestanti dei vandali e dei criminali, che non conoscono il valore del rispetto e non hanno mai faticato per guadagnarsi da vivere.

Ora la rabbia è grande, ma state sicuri che tra tre giorni quando le forze dell’ordine avranno identificato alcuni di questi ragazzi e un magistrato li indagherà, allora si alzeranno voci pronte a difenderli, a giustificarli e a mettere sul banco degli imputati giudici e poliziotti colpevoli di non capire e di essere troppo severi. Ma la democrazia si preserva difendendo la convivenza e il diritto delle migliaia che volevano manifestare pacificamente, non schiacciando l’occhio agli estremisti.

Tutto questo da noi accade però anche per un altro motivo: perché la nostra malattia è la mancanza di un pensiero costruttivo. Se ripetiamo continuamente ai giovani che non c’è futuro ma solo declino e precarietà, se li intossichiamo di cinismo, scenari catastrofici e neghiamo spazio alla speranza, allora cancelliamo ogni occasione per una spinta al cambiamento. Ai giovani allora restano solo due possibilità: un atteggiamento di rassegnazione e di apatia che trova riscatto momentaneo solo nello sballo degli Happy Hour (le ore del lungo aperitivo che dal tramonto si trascina fino a notte fonda) o un atteggiamento di rottura. Perché se si dice che nulla si può costruire, allora non resta che la pulsione a sfasciare e distruggere.

Una sola speranza ci resta ed è legata a quei giovani che non ascoltano, che si tappano le orecchie di fronte ai discorsi improntati al pessimismo e che nel loro cuore sognano e sperano. Ce ne sono ben più di quanto si possa immaginare e molti erano in piazza ieri: li abbiamo visti battere le mani a polizia e carabinieri, li abbiamo visti provare a cacciare dal corteo gli incappucciati, li abbiamo visti piangere di rabbia. Ragazzi, il futuro è vostro se imparate subito a rifiutare la violenza, a non tollerarla mai, a isolare chi la predica e la mette in atto, a denunciarla il giorno prima e non quando ormai il corteo è partito. Il futuro esiste se ve lo costruite con speranza e tenacia e se non ve lo fate scippare da chi non crede in nulla.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9324


Titolo: MARIO CALABRESI. La scelta che il premier non può più rinviare
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:19:25 pm
24/10/2011

La scelta che il premier non può più rinviare

MARIO CALABRESI

E’ odioso essere commissariati, essere cittadini di uno Stato a sovranità limitata, a cui premier stranieri dettano l’agenda delle riforme e impongono tre giorni di tempo per dare risposte.

È irritante assistere ai risolini e agli ammiccamenti di Merkel e Sarkozy quando sentono parlare d’Italia e di Berlusconi: ciò non è accettabile ed è irrispettoso.

È umiliante ascoltare che l’Europa ci considera alla stregua della Grecia, anzi - a quanto ci risulta - al vertice di ieri è stato detto che «in questo momento non solo l’Italia è in pericolo, ma è il pericolo».

Il rispetto però ce lo si conquista con la credibilità e mantenendo gli impegni e tutto questo a noi manca da troppo tempo. Siamo il malato d’Europa perché il governo è paralizzato e non riesce a indicare una direzione di crescita e riforme. In tutto il Continente, pur tra mille divisioni, si concorda su una cosa: o il premier italiano cambia improvvisamente marcia o - per il bene di tutti - si fa da parte seguendo l’esempio spagnolo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9357


Titolo: MARIO CALABRESI. Il punto di non ritorno
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2011, 11:30:09 am
5/11/2011

Il punto di non ritorno

MARIO CALABRESI

In altri tempi Silvio Berlusconi tornando dalla Costa Azzurra si sarebbe fermato a Genova, in altri tempi avrebbe speso un poco del suo tempo per mostrare attenzione verso una regione in cui le acque hanno ucciso 16 persone in meno di una settimana.
Il nostro premier ogni giorno di più mostra di aver perso il contatto non solo con l’Italia ma anche con la realtà.

C’è la moda passeggera di assaltare i titoli di Stato italiani», ha detto ieri alla conferenza stampa finale del G20, fingendo di non sapere che se i risparmiatori di tutto il mondo abbandonano o non comprano i nostri titoli è perché abbiamo un gigantesco problema di credibilità. Lo abbiamo dovuto sentire dalla viva voce del direttore del Fondo monetario Christine Lagarde, lo stesso organismo che insieme all’Unione europea dovrà monitorare i passi dell’attuazione della lettera con cui ci siamo impegnati al risanamento e al rilancio. Siamo sorvegliati speciali, ma anche di questo fingiamo di non accorgerci.

Nella rappresentazione della realtà del Cavaliere in Italia «non c’è una forte crisi» e lo dimostrerebbero i ristoranti pieni e gli aerei in cui è difficile trovare un posto. Per la mancanza di un contatto vero con i suoi concittadini, il premier non sa che in quei ristoranti gli italiani spesso si stanno mangiando i loro risparmi.

Ieri sera, secondo i conti di Verdini e Alfano, il governo non ha più la maggioranza alla Camera, per questo sono andati a Palazzo Grazioli a riferirglielo. Ma anche qui Berlusconi non ha mostrato di comprendere che il suo partito si sta sgretolando, sembra non sentire il disagio terribile che attraversa ormai anche i suoi fedelissimi, che a più riprese - anche se non pubblicamente - gli hanno suggerito di fare un passo indietro. Si dice sicuro di recuperare qualche voto nei prossimi due o tre giorni, puntando ancora una volta su quel calcio-mercato politico di cui si è mostrato a più riprese maestro.

Forse la trincea potrebbe reggere ancora, ma ormai senza nessuna prospettiva futura, con il solo fine di non uscire di scena, di restare al governo una settimana in più.
Secondo il «Financial Times» Giulio Tremonti avrebbe messo in guardia Berlusconi che la sua permanenza a Palazzo Chigi potrebbe significare un disastro per l’Italia sui mercati. Si guarda all’apertura delle Borse di lunedì con ansia, si guarda al crescere dell’ormai famoso spread (la differenza tra il rendimento dei nostri titoli di Stato e quelli tedeschi), che ormai punta pericolosamente a raggiungere quota cinquecento, si guarda a quanto siamo costretti a pagare d’interesse per far acquistare il nostro debito. Gli occhi di tutta Europa sono puntati su queste cifre, solo quelli del premier sembrano essere puntati in un’altra direzione. Se la barriera costruita intorno alle nostre emissioni ancora regge è solo grazie ai continui acquisti della Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Ma se i nostri partner, a partire da Francia e Germania, lanciassero il segnale che non si possono continuare a spendere i denari di tutti per tenere a galla l’Italia allora il disastro sarebbe assicurato.

Per questo è diventato obbligatorio chiedersi come Berlusconi speri di salvarsi e di salvarci, cosa possa ancora fare per cercare di far cambiare rotta agli eventi. Siamo vicini al punto di non ritorno, al momento in cui il cambio di governo sarà dettato da eventi esterni, possono essere questi i mercati o i partner europei, oppure da una drammatica votazione parlamentare su provvedimenti economici. Nessuno si merita una situazione e un finale di questo tipo, non l’Italia e nemmeno Berlusconi.

E’ ancora in condizione di scegliere lui i tempi e i modi per un passo indietro, sarebbe un gesto sensato verso il Paese, verso la sua maggioranza e i suoi elettori. Per farlo però dovrebbe aprire gli occhi e guardare a quanto è cambiato lo scenario che lo circonda, scoprirebbe che la crisi stringe l’Italia e l’Europa, che gli italiani hanno bisogno di normalità e tranquillità e sono sfiniti dalle prove di forza, dai giochi di Palazzo e dalle battute.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9399


Titolo: MARIO CALABRESI. Quei privilegi non più tollerabili
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2011, 11:43:58 am
15/11/2011

Quei privilegi non più tollerabili

MARIO CALABRESI

Mario Monti ha pochissimo tempo davanti, l’Italia non può stare a lungo senza un governo in questa situazione, ma per cominciare la sua navigazione deve riuscire a conquistarsi un patrimonio di credibilità con i cittadini e a costruirsi una tenuta politica che ne eviti il naufragio precoce.

Una sfida difficile in un Paese che ancora oggi mostra di non avere consapevolezza delle difficoltà che affrontiamo: lo dimostrano quei leader politici che continuano a giocare e a opporre veti e tutti quei cittadini che sono pronti ad accettare ogni sacrificio, basta che tocchi qualcun altro e non loro.

Il premier incaricato però, pur con quella sua aria distante e un po’ lunare, ha mostrato ieri sera di essere un attento ascoltatore degli umori degli italiani, ha capito che stava crescendo il malessere per un governo che si prevedeva composto solo da uomini e di grande esperienza. Così ha corretto l’impressione sottolineando che la sua squadra sarà orientata a dare risposte ai bisogni delle donne e dei giovani, che perseguirà la crescita e l’equità e non avrà come motto: «Lacrime e sangue».

Se tende ancora l’orecchio allora gli sarà chiaro che, per conquistarsi un ampio consenso e il sostegno della maggioranza degli italiani, dovrebbe mettere al primo punto del suo programma un intervento vero sui costi e sui privilegi della politica.

In tempi di sacrifici e di tagli l’esempio deve venire dall’alto, da chi ci governa: solo se si hanno le carte in regola allora si può chiedere agli italiani di fare rinunce o pagare nuove tasse. La maggioranza uscente ha sottovalutato il problema in questi anni, non ha capito quanto fosse grande nel Paese l’insofferenza verso la cosiddetta «casta», e anche per questo ha perso il consenso di chi l’aveva votata.

E’ necessario un gesto di discontinuità, le possibilità sono moltissime perché moltissimi sono i privilegi e i costi delle burocrazie e della politica (lo hanno spiegato con grande chiarezza ieri Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera , ricordandoci tra l’altro che a Palazzo Chigi ci sono ben più del triplo dei dipendenti che nella sede del primo ministro britannico). Molte sono le cose inaccettabili, per esempio non si capisce perché ogni cittadino italiano abbia una trattenuta sulla liquidazione del 23 per cento (fino a 15 mila euro, perché sopra questa cifra l’aliquota sale al 27) mentre i parlamentari invece non pagano tasse sulla loro indennità di fine mandato. E, come abbiamo raccontato in un’inchiesta di Carlo Bertini, dopo una sola legislatura l’indennità è di ben 46 mila euro netti. E’ chiaro che i tagli alla politica non faranno la differenza nel bilancio dello Stato e non saranno certo determinanti per ridurre il nostro debito, ma è certo che faranno un’immensa differenza nella percezione dei cittadini e nella loro propensione ad accettare i sacrifici necessari a rimettere in equilibrio il Paese. E’ un’impresa difficile e coraggiosa a ogni latitudine (ieri i parlamentari francesi hanno rigettato la proposta di tagliarsi gli stipendi del dieci per cento, preferendo un ben più modesto 3 per cento e non da subito), ma è il necessario punto di partenza.

Ma se ha bisogno dei cittadini, Monti ha bisogno anche del sostegno convinto del Parlamento, per questo ieri sera è stato attento a mostrare rispetto per la politica, i suoi tempi e i suoi percorsi necessari. Anche se non può sfuggire che se la giornata è stata nuovamente drammatica ciò è accaduto perché non c’è ancora un nuovo governo e non ci sono certezze sui tempi.

Alla politica l’ex commissario europeo si è rivolto mostrando la possibilità di trasformare un momento difficile in una vera opportunità di rilancio e speranza. Dovrebbe essere chiaro a tutti i nostri leader di partito che Monti è l’ultima scialuppa di salvataggio sia per loro sia per l’Italia. Ma non tutti l’hanno capito e questa mattina sarà cruciale per misurare la reale volontà dei due partiti maggiori di sostenere il nuovo governo.

Monti avrebbe voluto avere nel suo esecutivo esponenti di peso legati alle tre maggiori forze politiche del Parlamento, non voleva dire tornare indietro o chiedere ai segretari di partito di farne parte, ma costruire un filo diretto con il Parlamento che desse maggiore tenuta al nuovo esecutivo. Si parlava di Gianni Letta e Giuliano Amato, ma questa soluzione è rimasta schiacciata tra i veti incrociati di Pd e Pdl, che non riescono a uscire dalla stagione della contrapposizione e della battaglia. Monti non ha ancora abbandonato la speranza di rafforzare il suo governo, cosciente insieme al Presidente della Repubblica che ad un governo puramente tecnico è più facile «staccare la spina», e ai partiti ha detto chiaramente che è «indispensabile un appoggio convinto».

Quest’uomo, che appare un marziano delle scene politiche per come risponde o non risponde - alle domande, sembra avere presente meglio di quasi tutti noi la gravità del momento. Intorno a lui, nei partiti e nell’opinione pubblica, la memoria sembra essere brevissima, non più lunga di una giornata. Accade perché il cambiamento non ce lo siamo conquistato, perché questa situazione è figlia di spinte esterne più che di una consapevolezza maturata all’interno. Ora abbiamo davanti una seconda occasione, dopo quella seguita al crollo della Prima Repubblica, per riformare il sistema, per ripartire e per ricostruire. Una terza probabilmente non ce la darà nessuno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9439


Titolo: MARIO CALABRESI. Giù il sipario sulla politica spettacolo
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 04:51:44 pm
17/11/2011
 
Giù il sipario sulla politica spettacolo
 
 
MARIO CALABRESI
 
Fotografi e giornalisti si chiedevano a vicenda chi fossero quei ministri, scrutavano le facce del nuovo governo cercando di abbinare nomi e volti in modo corretto.

La prima rivoluzione andata in onda ieri, durante il giuramento al Quirinale, è stata la fine della politica spettacolo: nessuno dei presenti era un personaggio già reso famoso dalla televisione, noto per una litigata, per le sue battute o per gesti eclatanti. Per scoprire chi sono questi ministri bisogna andare a spulciare i curriculum o cercare negli archivi. E questa è già una rivoluzione.

Naturalmente ogni stagione ha la sua rappresentazione e in tempi di crisi è indicato mostrarsi sobri e asciutti. Ma, al di là dell’immagine, la sensazione positiva che offre il governo Monti si lega a quattro parole: credibilità, crescita, coesione e ricerca.

Nel Salone delle Feste del Quirinale non c’erano mai state tante televisioni straniere e questo è il motivo per cui, anche se non ne fossimo convinti, abbiamo il dovere di essere credibili: siamo un Paese sotto osservazione che ora deve onorare con tempismo la parola data. Credibili nel taglio delle spese, credibili nei modi e nei tempi di attuazione delle riforme e credibili nella direzione che verrà data all’Italia. La sensazione positiva in questo caso viene dall’aver scelto persone che hanno idee molto chiare e approfondite sui temi di competenza, che da una vita ragionano su problemi specifici (in questo caso penso a Elsa Fornero che ha indicato con chiarezza come debbano essere corretti gli squilibri e le ingiustizie del sistema pensionistico e di tutto il nostro Stato sociale).

Se Monti ha scelto di tenere per sé il ministero dell’Economia, proponendosi come guardiano e garante dei conti, ha però voluto creare per Corrado Passera un vero ministero dello Sviluppo capace di tenere insieme anche i trasporti e le infrastrutture, perché gli investimenti non possono che puntare sulla modernizzazione delle nostre reti, quelle materiali (strade, ferrovie, energia) e quelle immateriali (nuove tecnologie, a partire dalla banda larga per avere finalmente Internet veloce, allo sviluppo verde) per creare lavoro.

La crescita però non appare possibile senza coesione, senza provare a ricostruire un tessuto sociale che tenga insieme i territori ma anche tutta la nazione, e questo è il credo più profondo del nostro presidente della Repubblica. In quest’anno di celebrazioni dell’Unità d’Italia Napolitano non ha fatto che ripetere come sia necessario far crescere il Paese in modo armonico, perché se il divario tra Nord e Sud si amplia siamo destinati tutti al declino. Per questo è stato creato un nuovo ministero, alla Coesione territoriale, a cui si va a aggiungere un dicastero per l’Integrazione: la messa in pratica del discorso del Presidente a Mario Balotelli sulla necessità di dare un’appartenenza ai nuovi italiani.

Infine la scelta di Francesco Profumo, che ha trasformato il Politecnico di Torino ed era appena approdato al Cnr, ci dice che la ricerca può tornare finalmente al centro dell’agenda del Paese.

Abbiamo bisogno di guardare avanti, di scommettere sulle energie delle nuove generazioni, di dare una possibilità qui a chi fino a oggi ha preferito emigrare.

Ci sarebbe ora da ragionare sul quadro politico e sulla possibilità che questo governo possa procedere spedito in un Parlamento che è lo stesso della settimana scorsa, così si potrebbe essere tentati dal pessimismo, ma di fronte a qualcosa che nasce si ha l’obbligo di sperare. Intanto non possiamo che registrare con stupore l’energia di un Capo dello Stato che ha impresso una tale spinta da essere riuscito a garantire all’Italia un nuovo governo in meno di una settimana.

Ora che il governo c’è, il premier non sottovaluti l’attesa degli italiani per un segnale forte e chiaro: i primi tagli devono essere indirizzati verso le spese e i privilegi della politica, esempio virtuoso che renderebbe accettabile tutto il resto.

Con le professionalità messe in campo un primo passo fuori dalla palude è già stato fatto, tanto che il direttore di un giornale straniero mi ha chiamato mentre chiudevo questo pezzo per dirmi che aveva visto le immagini del giuramento: «Sembrate un altro Paese rispetto a quello della settimana scorsa, siete sempre capaci di stupirci, ma questa volta in positivo». Per una volta ho tirato il fiato.

Ps: La positiva sensazione di asciuttezza di Monti e del suo governo verrà certamente apprezzata dai nostri lettori e da molti italiani che da tempo desideravano un serio amministratore e non più un dispensatore di sogni, ma per noi giornalisti verrà una stagione di traversata del deserto: «Ci siamo dati la consegna del silenzio» hanno già risposto cortesi molti nuovi ministri, gettando nello sconforto la redazione. Ogni problema però è un’occasione, servirà anche a noi a ripensare il modo di fare informazione, sempre che tra una settimana l’aria dei Palazzi non faccia cambiare costumi anche ai nuovi inquilini.

 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9444


Titolo: MARIO CALABRESI. Il buon giornalismo sa valutare le notizie
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2011, 03:24:03 pm
27/11/2011

Il buon giornalismo sa valutare le notizie

MARIO CALABRESI

Siamo ancora necessari, ma il mondo fuori è completamente cambiato: i cittadini e i lettori non sono più passivi ma vogliono sapere tutto e su tutto vogliono intervenire», il direttore di El País ha vissuto in prima persona la grande tempesta e ora cerca di tracciare il profilo del nuovo mondo dell’informazione. A un anno esatto dall’esplosione del fenomeno Wikileaks sono andato a trovare Javier Moreno a Madrid per ragionare su cosa è successo ai giornali e ai loro lettori, su cosa è successo dal giorno in cui Assange gli consegnò una chiavetta contenente 250 mila documenti riservati, provenienti da 274 ambasciate americane. El Paìs selezionò un gruppo di giornalisti e li mise al lavoro giorno e notte, nel segreto più totale («ordinai a tutti - mi racconta - di non riferire a nessuno cosa stavano facendo, di non parlarne nemmeno agli amici più fidati, nemmeno ai mariti o alle mogli») per scoprire cosa ci fosse di valido in quelle centinaia di migliaia di dispacci diplomatici.

Il fatto che Assange, dopo aver messo in rete per anni milioni di documenti, si fosse deciso a consegnarli in anticipo a quattro quotidiani (tre europei e uno americano) e a un settimanale fu la dimostrazione del valore del metodo di analisi tradizionale, del fatto che il giornalismo mantiene intatta la sua missione. Di fronte a una tale massa di informazioni indistinte il lettore è destinato ad affogare e così tutto si perde nel mare della rete, senza riuscire a fare rumore e a provocare reazioni. Il lavoro giornalistico è stato invece capace di selezionare ciò che era degno di nota, che messo nel giusto contesto poteva servire a raccontare qualcosa di inedito e a scuotere il potere. Certo chi pensava che il giornalismo tradizionale sarebbe caduto sotto l’offensiva dei nuovi modi di comunicare, blog, social network e tonnellate di documenti diffusi in rete, ha preso un grande abbaglio, perché nessuno ha ancora mostrato di avere la capacità di trovare notizie e diffonderle come i mezzi di comunicazione tradizionali. «È vero - concorda Moreno - la nostra capacità di sintesi e analisi è ancora vincente ma fuori c’è tutto un mondo che non controlliamo più: il lettore grazie alla tecnologia vuole vedere ancora più a fondo e sapere sempre di più. Così a molta gente i giornali appaiono antichi, superati, troppo lenti e con meccanismi opachi».

Chi di noi - in questo caso parlo della categoria dei giornalisti - sottovalutasse il cambiamento (a partire proprio dall’atteggiamento diffidente e problematico dell’opinione pubblica nei confronti non solo del potere ma anche dell’informazione) è destinato a una lenta ma inesorabile estinzione. La rete e il moltiplicarsi delle informazioni che trasporta hanno modificato non solo la quantità di notizie che riceviamo ma anche la percezione con la quale le riceviamo: «Nei lettori - sottolinea il direttore del País - c’è sempre il sospetto che si nasconda qualcosa. Noi pensiamo di controllare il potere ma decine di migliaia di internauti controllano noi, assimilandoci all’establishment. È una relazione proficua ma anche tesa». Molti giovani, aggiungo io, non ci considerano cani da guardia del potere (il ruolo che la tradizione ci aveva assegnato) ma parte integrante del potere, una costola di questo. Eppure più del 90 per cento delle notizie, delle rivelazioni e degli scandali (il dato emerge dalla più seria ricerca mai fatta sull’argomento da parte del Pew Research Center di Washington) che oggi si possono leggere in rete sono venute a galla grazie al lavoro del giornalismo tradizionale.

«Una delle incomprensioni e il principale motivo della diffidenza - ne è convinto Moreno - nasce di fronte alla richiesta dei lettori di pubblicare tutto. Per esempio noi abbiamo avuto pressioni fortissime affinché pubblicassimo integralmente, sul nostro sito, tutti i 34 mila documenti riguardanti la Spagna. Ma io ho detto di no, che non volevo: avremmo creato un pericoloso precedente e saremmo venuti meno al nostro ruolo. Un giornale si definisce per quello che pubblica e per quello che non pubblica, se scaricasse tonnellate di documenti in rete allora abdicherebbe alla sua funzione». D’altronde gli ricordo il motto del New York Times «All the news that’s fit to print», tutte le notizie che vale la pena pubblicare, dove la parola chiave è «vale la pena». Non si pubblica qualunque cosa che si riceve, ma ciò che si ritiene portatore di valore, che serve a capire un fatto a svelare una storia. «Il giornalismo è decidere e scegliere - conclude - ma oggi il lettore vuole partecipare e dobbiamo imparare a metterci al suo stesso livello, ad ascoltarlo e a discuterci. Viviamo in un mondo completamente diverso e dobbiamo essere capaci di starci dentro, in tempo reale, ma senza perdere la nostra capacità di scelta».

Anche il potere dovrebbe riflettere sulla forza di questo cambiamento, sulla richiesta di trasparenza che arriva dai cittadini di tutto il mondo, e dovrebbe capire che al Cairo come a Milano o New York grandi cambiamenti sono spinti dalle tecnologie e dalla voglia di cambiare i rapporti di forza. I governi potrebbero essere tentati di dire che dopo una tempesta di notizie tutto è tornato come prima, in fin dei conti il sito allora più citato del mondo è ormai quasi silente, il suo fondatore è stato reso inoffensivo e aspetta un’estradizione, e le diplomazie (anche se un po’ malconce) hanno reso più sicuri e controllati i loro modi di comunicare. L’osservatore più superficiale o distratto potrebbe così pensare - commettendo un drammatico sbaglio - che 12 mesi dopo il mondo ha espulso le eresie e che il potere, in ogni sua forma, ha ristabilito i suoi codici. Invece come abbiamo visto, chiunque abbia sottovalutato la forza del cambiamento è stato spazzato via. Un anno dopo ci siamo chiesti però cosa abbia davvero significato Wikileaks, quali conseguenze abbiano avuto le sue rivelazioni e cosa sia cambiato. Per questo abbiamo pensato a questo inserto, per fare un po’ d’ordine nel grande rumore di fondo, per tirare i fili del discorso e per aiutarvi a capire, perché questo è ancora il dovere del nostro mestiere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9488


Titolo: MARIO CALABRESI. 2012, dato per morto potrebbe stupirci
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2011, 11:28:39 am
24/12/2011

2012, dato per morto potrebbe stupirci

MARIO CALABRESI

Il 2012 è un anno che nasce con lo strano destino di essere già stato giudicato: sarà nero. Nessuno sembra disposto a dargli un minimo di fiducia, una possibilità e nemmeno a sperare in un momento di luce. Tutti, anche quelli che in passato si professavano ottimisti, hanno già preso le distanze dai prossimi dodici mesi e mettono le mani avanti: «Meglio non aspettarsi niente» e passano direttamente a parlare del 2013.

Come tutti quelli che non hanno niente da perdere perché sono già stati dati per persi, il 2012 potrebbe riservarci invece delle sorprese e stupirci. Prima di tutto perché in un anno che parte dichiaratamente all’insegna delle difficoltà saremo costretti a prendere delle decisioni, personali e collettive. Lo dovrà fare l’Europa, spinta dai debiti, dalle pressioni dei mercati e dalla concorrenza asfissiante dei giganti che le stanno crescendo intorno. Lo dovrà fare l’Italia, a partire dalla sua classe dirigente e politica a cui nessuno sembra più disposto a perdonare i vizi storici dell’eterno rinvio, del privilegio e dello spreco. Lo dovremo fare noi cittadini che, messi di fronte all’impossibilità di continuare a vivere e a consumare come abbiamo fatto negli ultimi trent’anni, dovremo finalmente scegliere. Quando ci si trova di fronte ad un muro o si pensa di aver toccato il fondo è quello il momento di mettere da parte la paura e scegliere una strada per provare a uscire. Sapendo con chiarezza che stare fermi e mettersi in difesa non significherà conservare la posizione ma scivolare irrimediabilmente ancora più in basso.

Scegliere significa alzare lo sguardo dalle polemiche quotidiane e ricominciare a immaginare un futuro, significa capire che per investire su qualcosa che vale bisogna saper rinunciare a qualcos’altro che sembrava scontato. Scegliere significa smettere di tenere i propri figli protetti e al caldo ma insegnargli a avere di nuovo fame, a guardare lontano. Anche il resto del mondo sarà chiamato a scegliere, come vi raccontiamo in questo inserto che propone le migliori analisi del settimanale The Economist. Lo faranno gli americani, i francesi e i russi che dovranno decidere se cambiare gli inquilini di Casa Bianca, Eliseo e Cremlino, e lo faranno i cittadini di un Egitto che non sappiamo in che direzione andrà, come tutto ciò che resta delle primavere arabe.

La premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi ci racconta che questo sarà l’anno della ricerca di un nuovo equilibrio, in un mondo che - lo potete leggere nelle pagine dei commenti - è spinto verso modelli economici più consapevoli e rivaluta concetti come rispetto e frugalità. Ma sarà anche un anno di sfide olimpiche e di scoperte scientifiche, di matrimoni e di neonati soprattutto nel Paese più popoloso del mondo, la Cina, che considera l’anno del Drago il più fortunato per ricchezza e potere, quello in cui è ideale mettere al mondo un figlio. La citazione migliore per un anno delle scelte è di Albert Einstein: «Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9585


Titolo: CALABRESI. Monti: Grande Coalizione nel 2013? E' possibile, la guarderò da fuori
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2012, 05:02:48 pm
Politica

04/04/2012 - IL BILANCIO DEL LUNGO VIAGGIO IN ANSIA, LE RIFORME, I RAPPORTI CON LA MAGGIORANZA, GLI SCENARI

Monti: "Grande Coalizione nel 2013? E' possibile, la guarderò da fuori"

Il presidente del Consiglio spinge sulle riforme: «Importante non perdere il momentum»

Mario Calabresi
Roma

L’Italia deve diventare un Paese «prevedibile». Per Mario Monti, appena rientrato dal lungo viaggio asiatico, questa è la chiave della nostra ripresa e del recupero di credibilità. Essere prevedibili non è solitamente considerato un complimento ma, per l’uomo che ha fatto della normalità una bandiera, proprio di questo abbiamo bisogno per attrarre investimenti e capitali.
La scrivania di Monti a Palazzo Chigi è coperta di dossier economici e da tutte le classifiche esistenti sulla competitività: la sua missione è quella di cambiare la nostra immagine nel mondo. Per questo ripartirà già questo fine settimana, non prima però di aver portato al Quirinale il testo del disegno di legge sul lavoro, che non potrà «discostarsi significativamente» da quello varato. Il premier, che indossa una cravatta rossa, appare sereno e spera di farcela in tempi brevi.

Lei è appena tornato dall’Asia, dopo essere stato negli Stati Uniti e nelle maggiori capitali europee, che percezione ha trovato dei cambiamenti dell’Italia?
«La cosa che mi ha colpito di più è stata proprio l'intensità di questa percezione e la sua diffusione, in qualche modo me l'aspettavo da quando le cose hanno cominciato a girare bene, ma non che interlocutori come il presidente cinese, il primo ministro indiano o quello pakistano fossero così informati sulla nostra azione di contenimento del disavanzo e sulla velocità con cui abbiamo approvato la prima parte delle riforme. C'è la chiara sensazione che l'Italia possa fare la differenza ai fini della salute finanziaria dell’Eurozona».

Ci sono state critiche per la lunghezza del suo viaggio in Asia.
«In Italia ho sentito dire che la Cina è la fonte di tutti i problemi, ma queste reazioni mi sembrano non solo sottovalutare l'importanza che ha oggi, ma anche quanto sia utile per l'Italia. Ho fatto questo viaggio sia perché credo che l'attenzione verso questi Paesi sia nei nostri interessi, sia per abituare gli italiani a considerare questi Paesi cruciali per la crescita economica e a non ragionare più soltanto in ottica di decisioni europee. E' tempo di cambiare i giudizi che diamo un po’ superficialmente e in base ai vecchi tabù. Non mi riferisco qui alla questione dei diritti umani, che è estremamente seria e che ho sollevato con gli interlocutori cinesi, ma al fatto che consideriamo i cinesi dei pubblici disturbatori di un mondo del passato che crediamo esista ancora e del quale siamo convinti di fare tuttora parte».

In questo mondo nuovo e in evoluzione cosa ci manca per essere competitivi e attrarre investimenti stranieri?
«Direi che ci manca una coltivazione sistematica e di lungo periodo dell’immagine del Paese. Non tanto in senso superficiale quanto nel fare in modo che i principali Paesi investitori e le loro imprese possano capire come ragiona l'Italia e considerino quindi prevedibile e stabile la sua politica economica nel tempo. Questo richiede un’opera pedagogica sia all’esterno sia all’interno: è importante che le élite economico-politiche internazionali sentano che l'Italia è un’entità comprensibile, prevedibile e che, pur con le sue particolarità, è come uno di loro».

Ma cosa dobbiamo fare nel concreto?
«Per creare un ambiente favorevole agli investimenti ci sono ancora progressi da fare sulla sicurezza e sulla lotta alla criminalità, motivo per cui domani andrò a Napoli e prossimamente a Palermo. Ci sono poi l'alleggerimento della burocrazia, la tempestività della giustizia per le imprese e una carenza di infrastrutture e c’è l’aspetto cruciale della prevedibilità delle regole».

Lei insiste molto su questo concetto di prevedibilità, cosa significa?
«Le confesso che quando alla fine di dicembre abbiamo visto scattare, per un automatismo delle convenzioni, oltre ai tanti aumenti da noi determinati per esigenze di bilancio, anche quello abbastanza cospicuo dei pedaggi autostradali, abbiamo avuto la tentazione di bloccarli o di differirli. Ma quella sarebbe stata una modifica di contratti in essere e sarebbe stato un argomento in più per dire che gli italiani sono quelli che cambiano le carte in tavola. Se vogliamo invece avere investimenti dobbiamo essere prevedibili».

Lei sembra usare i viaggi come termometro della sua azione di governo.
«Oltre all’Asia per me è stato molto significativo il viaggio a Belgrado dove ho incontrato parecchi imprenditori italiani che si sono stabiliti anche in Serbia, come ha fatto da ultimo la Fiat, e mi sono chiesto se la loro sia o no una delocalizzazione perversa. Perché non sia perversa bisogna poterla vedere come una internazionalizzazione di imprese che mantengono il loro baricentro in Italia. Ma se le condizioni di accoglienza in Italia non sono competitive e attraenti allora gli imprenditori non ci penseranno troppo prima di spostarsi del tutto all’estero. Il caso della Serbia mostra che la battaglia per rendere più attraente l'Italia come luogo di produzione è una battaglia importante sia per attrarre investimenti all'estero sia per far sì che una buona parte degli investimenti delle nostre imprese avvenga in Italia. E questo naturalmente ci riporta al mercato del lavoro».

Questo ci riporta al centro del dibattito italiano, Bersani chiede di vedere cambiamenti alla riforma del lavoro, fino a che punto possiamo aspettarceli?
«Io credo che dovremmo cercare tutti di ragionare meno in termini brevi per essere capaci di orientarci al medio-lungo periodo, soprattutto quando si ragiona di politiche pubbliche. Non si può fare la quotazione oraria delle probabilità che una riforma vada in porto, purtroppo o per fortuna la natura, le persone, i documenti, le carte e le idee hanno dei tempi di evoluzione e di maturazione. È curioso che l’altroieri, mentre volavo sui cieli dell’Asia, o forse proprio per quello..., c’era ottimismo sulla possibilità di un accordo sulla riforma del mercato del lavoro e poi invece ieri meno».

Che tipo di modifiche è disposto ad apportare?
«Il disegno di legge che è in corso di finalizzazione da parte del governo non si discosterà significativamente da quanto è stato tratteggiato nel documento che varammo al Consiglio dei ministri».

Quando sarà sottoposto al capo dello Stato?
«Al più presto».

In che tempi pensa possa essere approvato?
«Molto rilevanti per l’impatto complessivo della riforma non sono soltanto i suoi contenuti ma anche la velocità con la quale il Parlamento svolgerà il suo doveroso e attento esame. Se, anche senza il decreto legge, i tempi saranno rapidi allora questo gioverà molto e servirà a mostrare all'Italia e al resto del mondo che il processo di riforme non ha subito un momento di arresto. È importante non perdere il “momentum”».

Cosa chiederà ai leader politici nei suoi incontri?
«Nelle prossime ore cercheremo di avere un alto grado di consenso delle tre principali forze politiche in modo da avere la fondata attesa di un percorso rapido e non tale da mutare la fisionomia del disegno di legge».

Ma come è possibile conciliare l’alto grado di consenso con la scelta di non modificare significativamente il disegno di legge?
«Noi consideriamo esaurita la fase di consultazione con le parti sociali, sappiamo che ogni partito ha il suo retroterra in termini di parti sociali e di culture, ma penso che ogni leader dovrà esercitare capacità di leadership, senza aspettare che il cento per cento del suo mondo di riferimento sia d'accordo con lui. Ma quando parlo di alto grado di consenso mi riferisco al rapporto tra i tre partiti e il governo, un accordo per dare una fiduciosa speranza che il percorso sia abbastanza scorrevole, pur tenendo conto che di mezzo ci sono le elezioni amministrative e che questo non semplifica né il calendario né la serenità dei lavori».

Pensa che questo obiettivo potrà essere raggiunto?
«Se riusciremo in questo, facendo appello ancora una volta a quel notevole grado di responsabilità di cui hanno dato prova i partiti che ci sostengono, allora non solo avremo portato a casa in tempi ragionevoli la quarta e cruciale riforma ma lanceremo un ulteriore segnale di fiducia anche all’estero. E questo significherebbe che l'Italia sta davvero cambiando, al di là di questo particolare e breve governo».

E’ necessario un nuovo vertice con i partiti di maggioranza su questi temi?
«Vertici ce ne sono stati e ce ne saranno, il fatto che mi incontri con i tre leader di partito non deve essere considerato un segnale di emergenza, è assolutamente naturale».

In questa intervista ha sottolineato come il mondo chieda all’Italia di essere «prevedibile» e insieme ha parlato di governo breve, anche lei sa che il grande interrogativo è proprio legato a questa incertezza su cosa succederà tra un anno. Chi garantisce che questi comportamenti virtuosi non verranno abbandonati?
«La garanzia non la può dare nessuno. Io però sono fiducioso che questo avverrà perché se questi partiti hanno avuto la capacità di intesa e di trovare un terreno comune pur senza avere il beneficio del protagonismo diretto, allora anche in una nuova fase di governi politici, in cui si assumeranno in prima persona la responsabilità di governare con i loro leader, l'interesse al buon esito sarà ancora maggiore».

Ma in che quadro politico immagina tutto ciò?
«Se la situazione del Paese lo richiederà ancora, allora immagino che saranno anche disposti a mettere a frutto l’acquisita capacità di dialogo tra loro per pensare a soluzioni larghe, a grandi coalizioni. Penso a quelle formule che in passato venivano auspicate ma subito fatte oggetto di sorriso benevolo, in quanto dichiaratamente impossibili, ma che proprio l'esperienza attuale mostra come possibili. Già in un’intervista a La Stampa nel 2005 avevo detto che ci sarebbe voluta una grande coalizione per fare le riforme: mi attirai solo critiche o giudizi di irrealizzabilità ma alla fine mi pare che proprio questo sia successo».

Lei insiste anche sulla necessità di cambi culturali nel Paese.
«In questa fase abbiamo visto come reagiscono gli italiani a sentirsi dire, anche con linguaggio schietto, che occorre fare certe cose che pesano. Per cui ogni volta che penso ai cambiamenti nella società e nella politica mi convinco ancor di più che i comportamenti virtuosi non saranno abbandonati. E sarà bello guardare tutto questo dal di fuori».

La Commissione europea, in un documento circolato a margine dell’Eurogruppo riportato ieri da «La Stampa» e dal «Financial Times», sostiene anche che gli sforzi dell’Italia «potrebbero essere minacciati da un profilo di bassa crescita e tassi di interesse relativamente alti» tanto che il suo governo «deve essere pronto a prendere eventuali altre iniziative di bilancio».
«Abbiamo assunto tutte le misure per centrare gli obiettivi e ci siamo anche presi dei margini di sicurezza che consentirebbero il risultato del bilancio in pareggio anche con ipotesi più sfavorevoli di quelle previste a dicembre. Prima di tutto non abbiamo calcolato nessun provento dalla lotta all’evasione, che pure abbiamo molto potenziato, e poi abbiamo tenuto un'ipotesi di tassi di interesse sul debito pubblico per tutto il 2012 al livello di fine novembre (il 7 per cento sui titolo decennali), un'ipotesi che si è rivelata, almeno per ora, effettivamente pessimistica.
«Abbiamo un obiettivo molto ambizioso ma ci siamo lasciati dei margini e per questo non crediamo proprio che un eventuale andamento più negativo dell’economia reale imponga una nuova manovra».

Ma perché l’Italia deve avere un obiettivo così impegnativo?
«Non ho scelto io l'obiettivo del bilancio in pareggio nel 2013 ma è stato stabilito dal presidente Berlusconi, durante la scorsa tumultuosa estate, per dare il senso dell’intensità dell’impegno dell’Italia. Quando sono arrivato qui ero ben consapevole che era un obiettivo più ambizioso di quello di gran parte dei Paesi europei, ma abbiamo valutato che non sarebbe stato opportuno rimetterlo in discussione, pena una perdita di credibilità».

Lo spread lo guarda spesso?
«Sì, sì, ma meno di altri. Nei vari incontri avuti con la signora Merkel mi sono sentito dire che negli ultimi dieci minuti c'era stato un miglioramento…».

Sotto che soglia siamo al sicuro?
«Si potrebbe dire zero, ma è meglio guardarsi dalle affermazioni temerarie. Sono giudizi relativi, l'importante è che lo spread con il bund continui a scendere».

Non la preoccupa un Paese che non cresce?
«Abbiamo lavorato per evitare la soluzione peggiore: le misure prese stanno avendo e avranno un effetto recessivo ma che va comparato con lo scenario greco, non con uno scenario di crescita che non era dato. Abbiamo evitato di finire come la Grecia, ora i provvedimenti di crescita richiedono più tempo. Mi rendo conto che sarebbe bello avere un maggiore tasso di crescita economica, non solo per il benessere dei cittadini italiani e per avere più occupazione ma anche perché questo renderebbe il nostro mercato interno più appetibile per le imprese straniere. Questo siamo convinti che verrà, grazie alle riforme, ma non è purtroppo una cosa realizzabile nel brevissimo periodo, dove semmai avremo effetti opposti dovuti alle misure di contenimento del disavanzo».

La disoccupazione aumenta, soprattutto quella giovanile, e c’è un effetto di calo dei consumi dettato dall’aumento delle tasse e dall’inflazione, quando si vedranno gli effetti positivi delle manovre?
«La crescita in Italia è da 12 anni almeno pari alla metà di quella dell’eurozona: ho spesso elogiato l’attenzione prestata dal governo precedente alla tutela dei conti pubblici ma ho anche criticato la tardiva presa di consapevolezza, dopo una lunga sottovalutazione del problema, dell’inadeguatezza della crescita italiana. Per lungo tempo non sono state fatte le riforme strutturali necessarie e tutto quello che riguardava le liberalizzazioni veniva ritenuto impossibile o poco realistico a meno che si modificasse l'articolo 41 della Costituzione. Per inciso, noi ne abbiamo fatte molte ma la Costituzione non l'abbiamo toccata. Ciò che abbiamo cercato di fare è stato conseguire gli obiettivi di consolidamento mettendo però dosi di rispetto della crescita e con la riforma delle pensioni abbiamo tolto un elemento di squilibrio grave e di lungo termine».

Non c'è niente che si può fare nel breve periodo?
«Certo non possiamo disinteressarci degli aspetti sociali di sofferenza e per questo stiamo pensando a degli interventi, ma i margini sono effettivamente ristretti e saranno molto selettivi perché non sono più possibili iniezioni di spesa pubblica in disavanzo. È però vero che la riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico dà un po’ di respiro e che se riprendono afflussi di capitali finanziari e investimenti industriali dall’estero tutto questo comincerà a avere effetti e cambierà non solo la situazione ma anche il vissuto psicologico».

Intanto assistiamo anche a fatti terribili come i suicidi di imprenditori e artigiani.
«Sono cose drammatiche, anche in Grecia i suicidi sono molto aumentati, l’unica risposta adeguata e seria che possiamo dare è quella di risanare e rilanciare il Paese».

Da chi si sente più sostenuto nell’azione di governo?
«Sinceramente molto più di quanto immaginassi dai governi esteri, ma sostanzialmente dai due estremi: dall’opinione internazionale e da coloro che sulla carta avrebbero dovuto essere i più sofferenti, cioè i tre leader della maggioranza».

Com'è il rapporto con Silvio Berlusconi?
«Superata una fase iniziale di normale adattamento a una situazione nuova, il mio predecessore ha manifestato un importante e continuo sostegno. Sulle grandi questioni internazionali lo tengo informato e partecipe e gli chiedo suggerimenti».

Qual è stato il momento personale più positivo di questi mesi?
«È stato un momento non negativo: quando sono andato in Parlamento per la prima volta a presentare il programma e ho visto che reggevo a questa situazione per me totalmente nuova, allora ho capito che, pur da estraneo, avrei potuto cercare di operare in questo mondo, pro tempore».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/448969/


Titolo: MARIO CALABRESI. Fornero: E' il teatrino delle parti sociali
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2012, 03:23:21 pm
Politica

06/04/2012 - INTERVISTA AL MINISTRO

Fornero delusa da Marcegaglia: "E' il teatrino delle parti sociali"

«Sconcertata dalle demonizzazioni. Abbiamo pensato all'interesse generale e non a favorire una parte o l'altra, facciano tutti così»

MARIO CALABRESI

Per anni hanno biasimato il “teatrino della politica” e ora ci tocca assistere al “teatrino delle parti sociali”: io sono sconcertata da questi cambi di fronte e dal fatto che sia sempre necessario demonizzare qualcuno, è davvero un segno di immaturità del Paese». A tarda sera Elsa Fornero non riesce a trattenere l’irritazione per l’offensiva del mondo imprenditoriale contro la riforma del lavoro e per le dichiarazioni fortemente critiche rilasciate da Emma Marcegaglia in un’intervista al Financial Times. «E’ una reazione incomprensibile - sottolinea il ministro del Lavoro - di fronte a un cambiamento marginale e ragionevole che non stravolge certo il senso della riforma».

Il presidente uscente di Confindustria ha detto testualmente: «The text is very bad», ossia che la riforma del lavoro è pessima.
«Prima di tutto bisognerebbe essere responsabili anche nei messaggi che si mandano ai mercati e all’estero, bisognerebbe davvero recuperare una rappresentazione corretta e non distorta delle cose e poi, prima di rilasciare certe dichiarazioni, l’articolato avrebbe meritato una lettura più pacata e attenta».

Vi si accusa di aver fatto marcia indietro.
«Il governo non ha fatto nessuna marcia indietro, le modifiche apportate non sconvolgono l’impianto né fanno venir meno la spinta innovativa della riforma: l’unica novità che c’è nella riforma dell’articolo 18 è aver inserito la clausola della “manifesta insussistenza” dei motivi economici come possibilità di reintegro».

Però la variazione ripropone il reintegro anche nei licenziamenti per motivi economici.
«La verità è che abbiamo modificato lievissimamente la riforma dell’articolo 18, abbiamo solo inserito la norma secondo cui in caso di manifesta insussistenza il giudice può stabilire il reintegro, il resto è rimasto uguale. Il giudice non viene chiamato ad entrare nello specifico del motivo economico o nel merito della gestione di un’azienda ma può solo stabilire se c’è una insussistenza chiara e manifesta del motivo e poi abbiamo scritto “può” non “deve” reintegrare».

Marcegaglia però ha spiegato che il testo non è quello che avevate condiviso, riferendosi alla prima proposta del governo, presentata alle parti sociali.
«Con le parti sociali c’è stato un lungo dialogo ma nessun accordo e nessuna concertazione, l’accordo invece bisognava trovarlo con i partiti politici che sostengono questo governo e che dovranno approvare il disegno di legge in Parlamento».

E cos’è successo al vertice di martedì sera?
«C’è stato un lungo confronto e poi Alfano e Casini hanno teso la mano a Bersani, nel senso che gli sono andati incontro per cercare una sintesi tra le forze che insieme sostengono il governo. Così si è deciso di aggiungere la possibilità di reintegro del lavoratore da parte del giudice, ma con limiti ben precisi, una cosa di assoluto buon senso».

Non può negare che ci sia stata una concessione a Bersani e alla Cgil nel vertice.
«Non ci sono vincitori e vinti ma una soluzione equilibrata che non ha smantellato l’impianto, mi sembra un tantino esagerato questo cantare vittoria da parte della sinistra».

Che cosa la disturba di più nelle critiche di questi ultimi due giorni?
«Siamo partiti che l’articolo 18 era un totem intoccabile, tutti scommettevano che non saremmo riusciti a fare alcuna modifica, invece noi l’abbiamo riformato e adesso le imprese ci dicono che non è cambiato niente. E poi sembrano far finta di non vedere le cose che hanno portato a casa».

A cosa si riferisce?
«Sembrano dimenticare che nello stesso vertice però si è venuti incontro anche alle esigenze delle imprese allungando da un lato i tempi e dall’altro allentando le restrizioni messe sui contratti non a tempo indeterminato. Per esempio: le aziende avranno un anno di tempo per far emergere i rapporti di lavoro a tempo indeterminato che oggi sono presentati come partite Iva; poi abbiamo tolto la necessità della causale per i contratti a tempo determinato di sei mesi e per i primi contratti. Per quanto riguarda l’apprendistato abbiamo cambiato il rapporto tra lavoratori e apprendisti: prima era uno a uno, adesso puoi avere tre apprendisti ogni due lavoratori. Inoltre prima potevi assumere nuovi apprendisti solo se ne avevi confermati almeno la metà nel triennio precedente, invece adesso per i prossimi tre anni la soglia è abbassata al 30 per cento. Ma non solo: rispetto alla stesura precedente è stato ridotto l’indennizzo che era previsto in una forbice tra le 15 e le 27 mensilità e che ora sarà tra 12 e 24. Infine abbiamo lavorato per rendere più rapidi e veloci i processi e abbiamo inserito l’elemento della conciliazione preventiva. Perché tanta sfiducia?».

Certamente uno dei motivi della reazione è legato al ricorso ulteriore alla magistratura.
«Beh, le dirò che non mi aspettavo una sfiducia così aperta nei confronti dei giudici, se si vuole il cambiamento non lo si può costruire sui pregiudizi. Salvo che si pensi che i giudici sono tutti ideologizzati: cosa difficile da sostenere. E’ una reazione incomprensibile che mi sembra risponda più a logiche interne che a fatti reali».

Niente da rimproverarsi?
«Il governo ha pensato al Paese, non a favorire una o l’altra parte, lo facciano tutti, sono anni che chiedono a gran voce di far prevalere l’interesse generale e ora c’è l’occasione..., bisognerebbe smettere di pensare solo alla propria parte, solo agli interessi di bottega».

E adesso cosa farà come ministro del Lavoro?
«Sarei ben felice di fare un confronto pubblico, anche in televisione, con Emma Marcegaglia per spiegare la riforma e come stanno le cose, perché bisogna fare chiarezza e perché non è possibile fare marcia indietro in questa maniera».

In che senso marcia indietro?
«Nel senso che non è cambiato quasi nulla rispetto ad un testo che era accettato da tutti tranne che dalla Cgil e adesso sembra di essere passati all’opposto: io faccio ancora fatica a comprendere questa giostra».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/449223/


Titolo: MARIO CALABRESI. Strage di Brescia, ora il governo cancelli l'ultima ferita
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2012, 11:29:44 am
15/4/2012

Strage di Brescia, ora il governo cancelli l'ultima ferita

MARIO CALABRESI

La sentenza pronunciata ieri non chiude per sempre una storia di dolore cominciata il 28 maggio 1974 in una piazza del centro di Brescia. Non è l’ultima parola: non dobbiamo e non possiamo pensare di essere condannati a vivere nella nebbia e nei misteri.

Ora la verità storica dovrà colmare le lacune della giustizia mancata. Molta strada è stata fatta, tanto che sono chiare responsabilità e complicità, ma molto resta da fare, perché dagli archivi dello Stato possono ancora uscire carte importanti per dare un quadro definitivo della stagione delle stragi.

Ma prima di ogni altra cosa il governo Monti deve cancellare un insulto: deve farsi carico delle spese processuali, al cui risarcimento sono stati condannati i familiari delle vittime. E’ una cosa intollerabile, che richiede un gesto forte e chiaro.

Non è la prima volta che accade: già nel 2005, al termine dell’iter giudiziario per la strage di Piazza Fontana, alle parti civili - anche allora rimaste senza giustizia - la Cassazione chiese di pagare i costi del processo. La sentenza fece scalpore, tanto che il governo Berlusconi decise di farsi carico di tutte le spese processuali, sottolineando di «considerare tale impegno come un atto di doveroso rispetto e di solidarietà per i familiari delle vittime». Anche oggi non resta che correre ai ripari per evitare una doppia ferita a chi ieri sera è tornato a casa svuotato e pieno di amarezza dopo decenni di battaglie dentro e fuori dai tribunali.
Certo questa beffa si sarebbe potuta evitare modificando la legge in modo da non ripetere scandali come questo.

La sentenza di assoluzione però non era inattesa, come racconta - intervistato da Michele Brambilla - il fondatore della Casa della Memoria di Brescia, Manlio Milani: «Sulle responsabilità personali le prove non erano sicure e capisco che i giudici vogliano certezze». Ma restare senza giustizia è doloroso e umiliante.

Questo processo però non è stato inutile, le oltre millecinquecento testimonianze raccolte negli anni e le centinaia di migliaia di pagine di documenti ci offrono un quadro di verità che va divulgato e consolidato: la strage di Piazza della Loggia fu pianificata e realizzata da estremisti di destra che godettero prima e dopo il massacro di complicità e coperture da parte di uomini dei nostri servizi segreti.

Perché questo quadro possa entrare nei libri di storia è ora fondamentale una sentenza che, pur assolvendo, sia capace nelle sue motivazioni di indicare i punti fermi a cui si è potuti giungere nel dibattimento. Per consolidarlo però è necessario l’intervento della politica che, come sottolinea Milani, deve ancora emanare i decreti applicativi della legge del 2007 sul segreto di Stato. Si potrà così capire se esistono ancora armadi da aprire capaci di rischiarare definitivamente la stagione delle stragi.

E’ fuori dai tribunali e dal Parlamento però che dovrà continuare la battaglia più importante, quella per tenere viva la memoria, per non lasciar sprofondare il Paese nell’ignoranza e nel disinteresse.

Pochi giorni fa sono stato al liceo Majorana di Moncalieri dove i docenti di storia hanno fatto un’indagine tra gli studenti per capire che percezione avevano degli Anni di Piombo. Hanno chiesto a 278 di loro chi fossero gli autori della strage di Piazza Fontana: secondo il 45 per cento sono state le Brigate Rosse, per il 23 per cento la mafia, mentre solo il 16 per cento ha indicato correttamente gli estremisti di destra di Ordine Nuovo.

I professori però non si sono fatti prendere dallo sconforto e, come sta succedendo in molte scuole italiane, hanno organizzato un lavoro approfondito per far conoscere la verità storica. Ora i ragazzi hanno chiaro cosa è successo nel nostro Paese negli Anni Settanta e quel sondaggio può essere dimenticato.

Di questo lavoro prezioso di testimonianza Manlio Milani è uno dei più instancabili protagonisti, la sua Casa della Memoria è uno degli esempi migliori dell’Italia che non si arrende all’oblio. Nonostante la sentenza di ieri provochi sgomento, il suo impegno non è stato sprecato, anzi assume un valore ancora maggiore.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9996


Titolo: MARIO CALABRESI. Anna Lisa Russo "Toglietemi tutto ma non il sorriso"
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2012, 12:05:31 pm
Cultura

17/04/2012 -

Anna Lisa, il coraggio di parlare e condividere rompendo il muro delle frasi fatte

Dal libro di Anna Lisa Russo "Toglietemi tutto ma non il sorriso" (Mondadori), riproduciamo la parte finale dell’introduzione di Mario
Calabresi.


MARIO CALABRESI

Anna Lisa ha avuto il coraggio di essere leggera, ironica, spiritosa, perfino sfrontata, anche se questo può sembrare fuori posto a chi pensa che i malati debbano stare chiusi nella loro condizione e non sfidarci a rompere luoghi comuni e tabù: «Credo che la mia autoironia» ha scritto pochi giorni prima di cominciare un ciclo di chemio «stia dando fastidio a molti. Sono troppo dissacrante, cinica a volte, too much ironica. Gente mia, dovrei ammazzarmi di già? Non ne ho ancora voglia... Sabato, per esempio, sono andata dalla parrucchiera. Mi son fatta una testa tutta riccioluta. Fra due giorni saranno lisci come prima, però avevo voglia di vedermi così (strafica) per l’ultima volta. Che male c’è?».

Non c’è nessun male – viene da risponderle –, anzi, solo grazie a te capiamo quante piccole umiliazioni e prove ci siano in un percorso di cure. Anna Lisa rifiutava l’idea di tagliarsi i capelli prima di cominciare la chemioterapia, non voleva, resisteva, le sembrava di darla vinta alla malattia. Così le venne in mente di mettere a punto un decalogo di «Frasi da non dire» a chi è malato, frasi da evitare perché, sotto l’apparente incoraggiamento, nascondono umiliazione e aggiungono dolore.

La seconda lezione di questo decalogo recita che è vietato dire: «Tanto i capelli ricrescono» oppure «Vedrai come sarai bella del tuo colore». «Ok,» replicava Anna Lisa «allora rasatevi tutti a zero. Oppure fatevi un giretto di chemio». E a proposito del colore naturale: «Se mi piacevo del mio colore mi facevo bionda?».

Frasi da non dire, sesta lezione: «Ma non te ne eri mai accorta? E nemmeno il tuo ragazzo?». «Sì, ce ne eravamo accorti entrambi, ma era il nostro segreto. Peccato, ci hanno scoperto».

In questo suo modo sfrontato di rispondere c’è il coraggio di raccontare, di parlare, di condividere, di rompere la crosta dell’indifferenza e il muro delle frasi fatte, delle uscite di circostanza. E sotto si sente la voglia di continuare ogni giorno a sognare, a sperare, a progettare.

Si potrebbe cinicamente obiettare che tanto poi non ce l’ha fatta, ma io non dubito che Anna Lisa sia stata vincente: ha vissuto fino alla fine, nel significato più vero del termine.

Ha vissuto con coraggio, ha avuto giorni di dolore, di pianto, di vuoto, di paura, molti di rabbia, ma è riuscita a trovare attimi di gioia, di speranza; e vivere così, senza abbandonarsi alla disperazione, è il regalo migliore che ognuno di noi si possa fare. Se ci può essere ancora un attimo di felicità o di amore, anche lì dove tutto appare finito, perché rinunciarci?

E allora la scopriamo ormai malatissima che fa un corso per diventare sommelier e poi uno di apicoltura, con curiosità e passione vera, profonda. Grazie a questo, a me ora, oltre a un’indimenticabile lezione di vita, resta il miele d’acacia dell’Apicoltura AndreAnna, l’ultima delle sue fragole. Sull’etichetta ha messo una poesia di Trilussa: «C’è un’ape che si posa su un bottone di rosa: lo succhia e se ne va… Tutto sommato la felicità è una piccola cosa». Lo mangio a piccolissime dosi e guai a chi me lo tocca. Vorrei solo che non finisse mai. Grazie Anna Lisa.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/450424/


Titolo: MARIO CALABRESI. Il dovere di "farsi carico"
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2012, 11:38:11 pm
10/5/2012

Il dovere di "farsi carico"

MARIO CALABRESI

Esiste un’idea capace di salvare la politica, di restituirle quella dignità che sembrerebbe irrimediabilmente perduta? Ieri mattina ho ascoltato Giorgio Napolitano celebrare per l’ultima volta il Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi e ho pensato che la risposta è racchiusa in due sole parole: «Farsi carico».

Mentre il Presidente parlava mi è tornata in mente una sera di quattro anni fa quando, nella stazione dei vigili del fuoco di un piccolissimo paesino dell’Iowa, mi capitò di ascoltare Hillary Clinton parlare a un gruppetto di elettori del suo partito. Uno le chiese cosa fosse la politica e lei rispose: «Fare la differenza nella vita della gente». Alla fine, prima di andarsene, si accorse che vicino all'uscita era rimasta solo un’anziana madre con un figlio disabile sulla sedia a rotelle. Non c’erano telecamere o fotografi, se ne erano andati tutti, ma Hillary si avvicinò e si mise ad ascoltare il lungo sfogo di questa donna che le parlò delle paure per il futuro del suo ragazzo.

La Clinton si mise a spiegarle a quali assistenze avrebbe potuto rivolgersi e le raccontò come avrebbe voluto cambiare una legge. Andarono avanti per quasi venti minuti. Guardando il volto rasserenato di quella donna, che si sentiva finalmente compresa, mi resi conto di cosa significa «farsi carico» dei problemi dei cittadini.

Significa prima di tutto ascoltare, capire di cosa c'è bisogno, immedesimarsi nelle difficoltà delle persone e poi avere il coraggio di sfuggire dagli slogan, per cercare soluzioni oneste e rispettose della complessità.

Cinque anni fa la memoria del terrorismo e delle stragi e delle sue vittime era un campo di macerie, pieno di rabbia, dolori, rancori e polemiche ideologiche. La prassi politica corrente avrebbe suggerito di tenersene alla larga, limitandosi a qualche ricordo di maniera. Giorgio Napolitano invece ha avuto il coraggio di accollarsi il problema, di dare un contenuto vero a una giornata che il Parlamento aveva appena istituito ma che era tutta da inventare. «Queste Giornate ha spiegato -, il ricordo di quegli uomini e di quelle donne come persone, la vicinanza al dolore delle loro famiglie, la riflessione intensa su quelle vicende, su quel periodo di storia sofferta, di storia vissuta sono stati in questi anni tra gli impegni che più mi hanno messo alla prova e coinvolto non solo istituzionalmente, ma moralmente ed emotivamente. Hanno messo alla prova la mia capacità di ascoltare e di immedesimarmi, la mia responsabilità di lettura imparziale, equanime di fatti che chiamavano in causa diverse ed opposte ideologie e pratiche politiche».

E’ stata fatta una grande opera di ricomposizione, di ricostruzione e di trasmissione della memoria, si sono costruiti percorsi preziosi e utili in tempi di nuova crisi «per porre un argine insuperabile a ogni rigurgito di violenza». Giorgio Napolitano si è emozionato e commosso ricordando la delusione per la «giustizia incompiuta» e il coraggio di chi ha superato barriere un tempo considerate insormontabili.

Questo suo impegno è stato capace di fare la differenza, di diventare un punto di riferimento e resterà un esempio di cosa possono essere la politica e le Istituzioni.

Perché l’unico antidoto all’insulto, allo smarrimento, a quell’aridità che ci condanna a non avere più sogni e fame di futuro è la fatica dell’impegno quotidiano, è la capacità di farsi carico dei problemi e dei bisogni che ci circondano ed è anche la capacità di commuoversi. Per non essere condannati al cinismo abbiamo bisogno di ascoltare e di lasciarci coinvolgere, di riconoscere i bisogni di chi fa parte della nostra comunità, e questo vale per tutti, non solo per i politici o per i presidenti.

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10085


Titolo: MARIO CALABRESI. Il dramma dei suicidi oltre le cifre
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:36:49 pm

11/5/2012

Il dramma dei suicidi oltre le cifre

MARIO CALABRESI

La nostra paura del futuro aumenta ogni giorno, c’è una continua perdita di fiducia e di speranza e l’attenzione degli italiani è calamitata dalle notizie di chi si toglie la vita, le più lette in assoluto nelle ultime settimane.

Un lettore di Modena, rappresentativo delle centinaia di e-mail che arrivano qui al giornale da settimane, mi scrive angosciato che «suicidi per motivi economici, fallimenti di impresa e debiti anche fiscali, stanno aumentando di giorno in giorno in maniera preoccupante». Il presidente del Consiglio e il primo partito della sua maggioranza duellano sulle responsabilità della crisi e sulle sue conseguenze, evitando solo di pronunciare la parola suicidio, di gettarsi addosso l’accusa più grave e infamante.

Ma stiamo discutendo di un fenomeno davvero nuovo, che non conoscevamo prima, esploso soltanto negli ultimi tre mesi, o di qualcosa che per anni non abbiamo visto e abbiamo sottovalutato? I numeri sembrano dare ragione alla seconda ipotesi e ci dicono quanto la nostra percezione dei fatti possa cambiare influenzata dalle nostre ansie e dall’enfasi con cui le notizie vengono date sui mezzi di informazione.

Se guardiamo al 2010, l’anno più vicino su cui ci siano cifre ufficiali, scopriamo con spavento che ci sono stati 3048 suicidi, di cui, secondo l’Istat, 187 «per motivazioni economiche». Uno ogni due giorni, una frequenza apparentemente maggiore di quella che abbiamo registrato dall’inizio dell’anno (nel 2012 i casi di questo tipo sembrerebbero essere una quarantina). Secondo l’istituto di ricerche economiche e sociali, l’Eures, le morti dettate da ragioni di fallimenti, debiti e disoccupazione nel 2010 erano addirittura una al giorno. La prima cosa che mi colpisce è il silenzio che abbiamo dedicato a queste persone, li abbiamo lasciati andare via senza accorgercene, senza nemmeno saperlo, senza che nessuno si stringesse alle loro famiglie. Alcuni di loro forse hanno conquistato una notizia nelle pagine locali, per molti altri solo il silenzio della sepoltura.

Tutta colpa dell’informazione, che prima ha sottovalutato e adesso gonfia? Ma se i suicidi non sono aumentati, allora cosa sta succedendo? La risposta, come quelle che sono davvero credibili, non si può racchiudere in una parola ma ha più motivazioni.

La prima si può spiegare leggendo l’ultima notizia arrivata ieri: a Pompei un imprenditore edile si è sparato nel parcheggio del Santuario lasciando una lettera di scuse per la famiglia e una di accuse contro Equitalia.

Ecco che cosa è cambiato: prima il suicidio, che è innanzitutto un dramma personale e familiare si teneva nascosto, c’era la vergogna di pubblicizzarlo, il dolore era muto e il silenzio totale. Perfino i giornali hanno sempre mostrato pudore. C’era poi nella nostra tradizione e nella dottrina cattolica il problema dei funerali, che potevano essere negati a chi si toglie la vita.

Oggi, invece, chi sceglie questo gesto estremo e senza ritorno lasciando lettere di denuncia fa sentire la rabbia del proprio gesto, lo trasforma in un atto di accusa. E le famiglie non nascondono più ciò che è successo, alcune hanno preso il coraggio di parlare, di aprire le porte ai giornalisti, di fare perfino manifestazioni pubbliche. Lo fanno perché sentono che la società può comprendere e di certo non accuserà e non metterà all’indice e nessuno si sognerà di negare esequie in Chiesa.

Ma soprattutto tutti noi siamo più attenti e ricettivi perché la crisi tocca tutti, almeno a livello di ansie e insicurezze, oggi è il malessere diffuso a fare da amplificatore.

Non si può però nascondere il rischio insito in questa mediatizzazione, il pericolo di stimolare un effetto emulazione. Due giorni fa sul sito Internet del mensile Wired è apparsa un’analisi molto ben fatta, in cui il direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano Claudio Mencacci, spiegava come «Studi epidemiologici internazionali dimostrano con certezza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, inducono altri suicidi, innescando un pericoloso effetto domino».

Così se anche i numeri ci possono dimostrare che non siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, è fondamentale e urgente trattarlo con cautela per non farlo esplodere ulteriormente. La prima responsabilità di chi fa informazione è di non far crescere una retorica che stimoli e giustifichi i gesti estremi.

Ma, come ha scritto su queste pagine Massimo Gramellini, è tempo che il governo e le forze politiche se ne facciano carico, agiscano per creare condizioni di speranza per il futuro, prospettive di crescita, e mettano in campo politiche nuove capaci di arginare il fenomeno. Perché se è vero che il numero dei suicidi non è aumentato è altrettanto vero che adesso sappiamo: conosciamo la disperazione, è sotto i nostri occhi ogni giorno e non possiamo più avere alibi o far finta di non vedere. Gli italiani hanno bisogno di un traguardo, di immaginare la luce in fondo al tunnel.

La soluzione non è certo quella di cercare colpevoli, soprattutto non nelle file di chi si limita a far rispettare le leggi che sono uguali per tutti e non accettano favoritismi, ma dovrebbe essere quella di cercare responsabili. A ogni livello: nel governo, nella politica, nell’amministrazione delle tasse e delle riscossioni, nelle banche, ma anche nei giornali, come nelle famiglie e in ogni comunità. Abbiamo bisogno di rigore ma anche di umanità e di capacità di comprendere e distinguere.

Tutto questo deve essere fatto non solo per chi è adulto e segnato dalla crisi, ma anche per le generazioni più giovani che stanno crescendo in un clima che nega alla radice la possibilità di costruire un Paese migliore.

Ogni volta che incontro un gruppo di ragazzi di una scuola o universitari che si affacciano al mondo del lavoro faccio sempre la stessa domanda: «Se vi dico la parola futuro cosa pensate?». Non ce n’è uno che mi dia una risposta positiva, incoraggiante o colorata. Le parole che sento ripetere sono: «Paura, incertezza, precarietà». I più intraprendenti mi dicono che se ne vogliono andare all’estero, che fuggiranno appena sarà possibile.

Questo gli è stato trasmesso dalla televisione, dalla scuola, dalle famiglie e questo pessimismo è diventato il loro cibo quotidiano. È chiaro che non ce lo possiamo permettere, non possiamo crescere una generazione nel messaggio che dal fondo di questo pozzo non si riemergerà mai.

La passione e la fiducia nella vita sono l’ingrediente fondamentale con cui si concima il futuro, non esistono altre soluzioni che ci possano salvare dalla disperazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10089


Titolo: MARIO CALABRESI. Un Paese che cambia abitudini
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:46:42 am
4/6/2012

Un Paese che cambia abitudini

MARIO CALBRESI

Mentre l’Italia è prigioniera delle polemiche, della rabbia, del disfacimento del sistema politico e sembra paralizzata, gli italiani hanno messo in atto una delle più grandi trasformazioni degli ultimi decenni.

Abituati ad aumentare, anno dopo anno, i nostri consumi, a rincorrere telefonini, televisori al plasma, viaggi e a riempirci le case di oggetti «assolutamente indispensabili», nei primi cinque mesi di questo 2012 abbiamo riscritto il nostro modo di vivere e di acquistare, non solo in modo più frugale, ma anche in una chiave più intelligente e sorprendente. Siamo diventati «scienziati della spesa»: diminuisce il valore dello scontrino ma nel carrello ci sono sempre lo stesso numero di pezzi. Cambiano i formati, le marche e soprattutto si assiste ad un ritorno a casa: a colazione, a cena, per festeggiare un compleanno e perfino all’ora dell’aperitivo.

Ogni direttore di supermercato, ogni responsabile degli acquisti di una grande catena, ogni proprietario di ristorante e i manager degli autogrill, dei colossi dell’elettronica e della telefonia, ognuno di loro si è trasformato in un sociologo e ha passato il tempo a scrutare dentro le nostre borse della spesa.

Ne ho incontrati molti negli ultimi mesi e ho raccolto lo stupore per una capacità di adattamento molto veloce, che ha recuperato tradizioni e comportamenti che sembravano appartenere ormai soltanto alle memorie familiari.

Perché il cambiamento più interessante da notare non è quello che porta alla rinuncia ma quello che punta sulla trasformazione: il bilancio familiare si fa quadrare non rinunciando alla carne ma cambiando il taglio, non smettendo di mangiare la torta alla domenica ma tornando a farsela nel forno della cucina, non cancellando il rito dell’aperitivo ma trasferendolo a casa.

Si è anche rimodulata la settimana: le rinunce si possono fare dal lunedì al venerdì pomeriggio ma non nel week-end.

I dati di vendita dei supermercati sono una spia perfetta di questa trasformazione: crescono a due cifre gli alcolici, perché l’happy hour si continua a fare con gli amici ma non più al bar; così la colazione la mattina che è tornata prepotentemente in cucina, come ci raccontano il boom dei frollini e delle merendine; e la voglia di pizzeria è in parte soddisfatta dalle pizze surgelate

Se lo scorso anno c’era stata un’impennata dei preparati per le torte e i budini - segno che al dolce nessuno vuole rinunciare, anche se lo si compra di meno in pasticceria - quest’anno a crescere sono addirittura gli ingredienti base: zucchero, farina, uova, cioccolato in polvere e in tavolette. Perfino il pane si ricomincia a fare in proprio, come racconta il successo di un elettrodomestico di nicchia come la macchina del pane.

Ci sono poi le tendenze che determinano la nostra dieta: è noto a tutti un calo della carne rossa in favore di quella bianca, ma le cose sono un po’ più complesse e anche qui parlano di uno spostamento più che di una trasformazione. Si mangia meno la fettina e si comprano più hamburger, si riscoprono tagli meno pregiati che non consideravamo più (la guancia, il collo, la schiena, la spalla, per spezzatini, stracotti e polpette), tanto che, per dirla con Carlin Petrini, «si rimangia tutta la mucca» magari presentata sotto forma di carpaccio. Sugli scaffali sono tornate le ali di pollo che insieme alle cosce stanno surclassando il petto, più costoso e meno richiesto.

A pagare la crisi e il cambio dei menù sono soprattutto il pesce (che cala quasi del 10 per cento), considerato troppo caro, e la frutta. Quest’ultima è vittima del fatto che non viene considerata una portata essenziale del pasto e così la si può tagliare senza avere la sensazione di aver perso qualcosa (diverso naturalmente è il discorso dietetico e di salute).

La verdura invece tiene meglio, perché gli ortaggi fanno parte del pranzo e della cena e anzi possono sostituire una portata: dal contorno spesso vengono promossi a piatto forte. Da notare che un comportamento che sembrava elitario come la riscoperta dei prodotti locali e stagionali ha preso piede in comportamenti di massa, perché è chiaro che ciò che percorre meno chilometri ed è di stagione costa meno.

E la capacità di cucinare, di inventare e di recuperare gli avanzi è tornata ad essere un’arte apprezzata, come ci racconta il fatto che è diminuito il volume della spazzatura e degli scarti di generi alimentari.

Nel fare la spesa gli italiani si stanno spostando sui primi prezzi e sulle “private label”, cioè su quei prodotti che portano il logo delle grandi catene e costano meno dei corrispettivi prodotti di marca. Anche i formati cambiano perché lo scontrino deve calare ma nella busta della spesa ci deve essere lo stesso numero di prodotti, così dopo anni di corsa verso flaconi e confezioni sempre più grandi ora si torna ad acquistare in piccole dimensioni. La spesa si fa con più frequenza, spesso più vicino a casa, e a farne le spese sono le confezioni famiglia. Un’inversione di tendenza che sta spingendo le aziende a ripensare in gran fretta le dimensioni dei contenitori.

Se si cerca di non sprecare, si cerca anche di razionalizzare eliminando quei prodotti di cui non si sente più una necessità impellente, dai deodoranti per l’ambiente ai detersivi di alto prezzo.

Il ritorno a casa significa anche «portato da casa»: basta entrare nell’atrio di un’università tra l’una e le due per notare quanti studenti mangiano panini con la frittata, paste fredde, insalate di riso o di pollo conservate nei contenitori di plastica che sono stati riempiti la mattina presto. Ogni dialetto ha il suo modo di definire la pietanziera, ma quello che gli americani chiamano «lunch box» è davvero tornato di moda, se ne sono accorti anche negli autogrill dove i camionisti entrano sempre più spesso solo per il caffè.

Lo spettro della benzina a due euro ha fatto calare le presenza sulle autostrade, ridotto i tragitti e i fine settimana (ormai da un anno lo notiamo anche guardando ai dati di vendita di questo giornale e notando che lo spostamento di copie e lettori verso il mare e la montagna nel week-end si è ridotto).

La fuga nel fine settimana dalle grandi città, che sembrava un fenomeno inarrestabile negli ultimi due decenni, segna il passo. La crisi ma anche un’offerta sempre più intensa di manifestazioni, festival, corsi e gare sportive hanno cambiato il nostro modo di vivere il tempo libero. Anche in questo caso rimanere a casa non è più vissuto come una rinuncia o un’umiliazione.

La mania per i telefonini e l’elettronica sembra invece continuare a stregare gli italiani: non si cambia più il forno, il frigo, la lavatrice, se non in caso di guasto irreparabile, ma lo smartphone quello sì, continua a vendere nonostante sia ben più caro di un semplice cellulare.

Tra gli elettrodomestici uno solo sta vivendo una stagione felice: l’aspirapolvere robot, capace di alleviare fatiche e sensi di colpa in una botta sola. Accanto sta rispuntando un oggetto di modernariato: la macchina da cucire, segno che la cultura dell’usa e getta ha perso il suo fascino e perché l’Italia di oggi ha bisogno di essere rammendata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10186


Titolo: MARIO CALABRESI. Si abbandoni la filosofia della lentezza
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2012, 09:09:49 am
22/6/2012

Si abbandoni la filosofia della lentezza

MARIO CALABRESI

Una settimana per evitare di trovarsi di fronte a uno scenario da incubo, una settimana che comincia oggi a Roma e si concluderà alla fine del mese a Bruxelles. Una settimana per accantonare quella «filosofia della lentezza» che sembra aver ispirato l’Europa nell’ultimo anno. Una sola settimana per scongiurare «attacchi speculativi sempre maggiori» e «tassi di interesse sempre più alti». Mario Monti ha accettato di parlare direttamente all’opinione pubblica dei sei maggiori Paesi europei per mostrare un percorso virtuoso capace di convincere i cittadini e i mercati che l’euro è «indissolubile e irrevocabile».

Il Professore è convinto che le possibilità per farcela esistano e rivendica per l’Italia il rispetto degli impegni e la capacità di fare da ponte tra Francia e Germania.

Sono passati pochi mesi da quel vertice autunnale di Cannes in cui Silvio Berlusconi si trovò nell’angolo e il nostro Paese sotto accusa, ma oggi sembra passato un secolo tanto che è stato Monti ad invitare a Roma Merkel e Hollande per rafforzare il percorso verso il summit di Bruxelles. E il nostro ruolo non è più quello dell’«appestato» quanto quello di un Paese «ascoltato» che può aiutare a trovare una mediazione tra le ricette differenti di Francia e Germania.

Nell’intervista che ha accettato di dare proprio per sollecitare i cittadini comuni a comprendere il valore dell’Europa, Monti si rivolge direttamente ai tedeschi, ai francesi e agli spagnoli, come ai polacchi e agli inglesi, affinché archivino stereotipi e luoghi comuni. «Perché - sottolinea - diversi Paesi si trovano a far sempre più fatica a far comprendere alle opinioni pubbliche che politiche giuste vanno continuate».

Ma è anche la nostra classe politica a preoccuparlo, tanto che Monti denuncia il rischio della disaffezione nella sua maggioranza: «Un rischio che vedo persino nel nostro Parlamento, che tradizionalmente è sempre stato europeista e non lo è più».

Nelle parole del premier, appena tornato dal G20 messicano, c’è invece l’orgoglio per la strada percorsa dall’Italia e per la capacità mostrata di rispettare gli impegni presi. Quella che spesso è presentata come la rigidità e l’ostinazione del premier-professore viene - nelle sue parole - implicitamente trasformata nell’unica possibilità che abbiamo per tornare ad essere credibili e protagonisti.

Ma, non basta, di fronte alla speculazione è necessario varare «un insieme di misure più efficaci per dare stabilità finanziaria all’eurozona». Un’eurozona che - ricorda con un filo di polemica - «presenta nel suo assieme disavanzo e debito pubblico che, in rapporto ai rispettivi Pil, sono inferiori a quelli del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone».

La fretta di Monti, il suo richiamo a abbandonare la «lentezza», è figlia della convinzione che nessun paziente può reggere a lungo a una «situazione di sveglia acuta, di insonnia e di convulsioni». Per questo ritiene indispensabile individuare in questa settimana «uno strumento, uno “scivolo” di passaggio verso un mercato più ordinato e sostenibile in termini di tassi di interesse» per quei Paesi che, pur rispettando le regole date e procedendo sulla via delle riforme strutturali, scontano spread troppo alti.

Nell’intervista, fatta ieri mattina presto a Palazzo Chigi, Monti ha accettato la sollecitazione della collega tedesca di provare a parlare direttamente ad un immaginario signor Müller, il pensionato tedesco spaventato dall’idea di dover pagare per tutti. E qui il professore ha rotto il suo aplomb, si è immaginato a tavola - in compagnia di due birre - e ha invitato il suo commensale a rilassarsi, «perché l’Italia finora non ha chiesto prestiti, ne ha dati molti» e non è vero che «stai mantenendo l’eccessivo tenore di vita degli italiani». C’è da augurarsi che oggi pomeriggio convinca anche la signora tedesca che si troverà di fronte.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10253


Titolo: MARIO CALABRESI. D'Ambrosio, il dramma di una storia rovesciata
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2012, 11:53:12 am
27/7/2012

D'Ambrosio, il dramma di una storia rovesciata

MARIO CALABRESI

Di fronte alla morte di un uomo si resta sconvolti. Se poi quell’uomo era al centro di una polemica furibonda non si può non chiedersi se i toni usati fossero corretti o invece eccessivi e perfino micidiali.

Loris D’Ambrosio è morto da uomo angosciato, si sentiva braccato e provava rabbia e frustrazione per vedersi completamente privato della sua storia, che non è certo storia di collusioni, di contiguità o di zone grigie con poteri mafiosi o criminali.

Provava rabbia nel vedersi confuso, nel gioco delle semplificazioni mediatiche e nel turbine che indica ogni cosa che appartenga alla politica o alle istituzioni come marcia e corrotta, con gli accusati della trattativa tra lo Stato e la mafia. D’Ambrosio con quella non c’entrava niente, la sua colpa era un’altra, aver troppo ascoltato e rassicurato un ex ministro dell’Interno ed ex presidente del Senato, Mancino, che protestava la sua estraneità e chiedeva aiuto per non essere coinvolto nell’inchiesta palermitana.

La diffusione delle telefonate tra i due ha sollevato tanto clamore da far passare in secondo piano l’oggetto delle indagini: fare finalmente luce su uno dei momenti più bui della nostra storia, chiarire se, mentre Falcone e Borsellino venivano uccisi, c’era chi, nei palazzi del potere, cercava con i boss un accordo che mettesse fine alle stragi.

Di sapere questo abbiamo bisogno, per scongiurare di trovarci ancora una volta a poggiare la nostra storia su verità mancate e giustizie tardive.

E’ appena stato richiesto un processo e tra le persone per le quali si chiede il rinvio a giudizio c’è anche Mancino. Questo mostra che quelle telefonate non hanno avuto gli esiti sperati e che la giustizia non è stata intralciata. Ma D’Ambrosio è stato stroncato da un infarto prima di vedere la conclusione di questa vicenda e la sua morte lascia una tale quantità di tensione che finirà per avvelenare ulteriormente il dibattito in questo Paese.

E’ stato Giorgio Napolitano a dare la notizia della scomparsa del suo collaboratore, con un comunicato scritto di suo pugno da cui emerge tutta l’angoscia e il dolore del Presidente della Repubblica per una «campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose, senza alcun rispetto per la sua storia». Sì, perché la storia di Loris D’Ambrosio era tutt’altra, era fatta di battaglia per la legalità, di impegno antimafia, di conoscenza eccezionale delle leggi.

Anzi, vale la pena ricordare come per anni sia stato accusato, in modo più o meno velato, di essere tutt’altro, di essere l’ispiratore delle motivazioni giuridiche capaci di bloccare, ritardare o bocciare le leggi berlusconiane. E molti di quelli che ieri sera lo hanno indicato come vittima dei pubblici ministeri fino a non troppo tempo fa lo vivevano come una spina nel fianco.

Avevo avuto modo di conoscere Loris D’Ambrosio nella preparazione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi e proprio lo scorso aprile – dopo la sentenza che ha chiuso senza condanne la strage di Piazza della Loggia – mi aveva parlato della necessità di dare attuazione alla legge sul segreto di Stato bloccata da anni.
C’era in lui una sincera volontà di far fare un passo avanti alla conoscenza che abbiamo dell’altra grande stagione di misteri italiani, di spendersi perché si aprissero finalmente gli archivi riservati.

Questa era la persona che avevo incontrato e che il pubblico ministero Ilda Boccassini ha ricordato come «un uomo che ha sempre salvaguardato l’autonomia e l’indipendenza della magistratura».

Ma la barbarie che si è impossessata di molti italiani, anche di quelli che chiedono a gran voce verità, giustizia e che dovrebbero avere perlomeno senso di legalità, ha fatto sì che una gran quantità di commenti apparsi su Internet alla notizia della morte siano assolutamente osceni.

Nessuna pietà, nemmeno il più elementare rispetto dei morti, ma dileggio, ironia e complottismi.

Un fetore nauseabondo, un vizio tutto italiano che dura da decenni e di cui non riusciamo a liberarci. O recuperiamo il senso delle proporzioni e il rispetto per gli altri, abbandonando
l’istinto al linciaggio e alla demonizzazione, oppure saremo davvero perduti.

twitter @mariocalabresi

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10379


Titolo: MARIO CALABRESI. Quei miti andati in frantumi
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 02:50:38 pm
22/9/2012

Quei miti andati in frantumi

MARIO CALABRESI

Tre certezze ci hanno guidato in questi ultimi anni dominati dal malgoverno e dalla corruzione, erano tre pilastri su cui abbiamo pensato fosse possibile costruire una politica nuova: prima di tutto il federalismo, con la dote della maggiore vicinanza degli eletti agli elettori che rende possibile un controllo più serrato, poi il ricambio generazionale, con l’ingresso di giovani e volti nuovi non compromessi, infine una nuova legge elettorale per restituire il potere di scelta ai cittadini, con l’auspicato ritorno delle preferenze.

Gli scandali delle ultime settimane e, in particolare, quest’ultimo della Regione Lazio, sbriciolano queste certezze, mostrandoci come federalismo, giovani e preferenze non garantiscano di per sé alcuna redenzione del sistema se non preceduti da una riforma dei meccanismi della politica che metta al centro la trasparenza e il principio di responsabilità.

Partiamo dal federalismo: senza controlli, senza procedure chiare e facilmente verificabili, sprechi e scandali proliferano al centro come in periferia, sono possibili nel Parlamento nazionale come in un Consiglio comunale.

Se non ci sono meccanismi di vigilanza e sanzioni immediate e certe non fa differenza che i centri decisionali siano accanto a casa nostra o a centinaia di chilometri di distanza. E i privilegi non abitano solo a Montecitorio ma possono essere anche locali, basti sapere che il caffè al bar interno del Consiglio regionale del Lazio costa solo 45 centesimi (un panino un euro…) contro gli 80 di Camera e Senato.

Allo stesso modo se il sistema permette di arricchirsi e di fare la bella vita con i soldi pubblici allora ne saranno attratti i furbi e i gaglioffi di ogni età. Avete guardato le biografie dei personaggi coinvolti nel banchetto laziale? È pieno di facce giovani e pulite, baldanzosi trentenni che hanno immediatamente preso il vizio di usare le tasse dei cittadini per pagare servizi fotografici, interviste televisive, automobili, pranzi e cene. Forse anche inebriati dalle cifre senza senso che vengono garantite ai consiglieri regionali (Francesco Fiorito, ormai famoso alle cronache come «er Batman di Anagni», ha spiegato ai magistrati di guadagnare 30 mila euro al mese sommando le indennità regionali, più di Napolitano e Monti messi insieme).

Essere giovani non significa necessariamente essere onesti e il ricambio generazionale ha un senso solo se la casa viene ripulita prima di dare ospitalità a nuovi occupanti e se questi mostrano di essere fatti di una pasta diversa. Per scoraggiare approfittatori e sciacalli in cerca di scorciatoie verso la ricchezza basterebbe ridurre drasticamente stipendi e indennità così da spingere in politica chi ha a cuore la cosa pubblica più di chi ha a cuore il proprio portafoglio.

Veniamo infine alla legge elettorale: Fiorito, così come l’esponente romano del Pdl Samuele Piccolo coinvolto in un altro scandalo di fatture false poche settimane fa, erano campioni assoluti delle preferenze, candidati capaci di accaparrarsene decine di migliaia proprio grazie ad un uso disinvolto dei fondi pubblici o a macchine elettorali costruite con metodi poco raccomandabili.

Vent’anni fa le preferenze vennero abolite, grazie a un referendum, proprio perché erano volàno di malaffare (oltre a far lievitare in modo astronomico i costi della politica), stiamo attenti oggi a non illuderci che rimetterle significhi eleggere i migliori. Ai cittadini va garantito il diritto di scelta ma questo si può ben fare anche con i collegi uninominali dove a sfidarsi sono i candidati dei vari partiti, auspicabilmente scelti con il meccanismo delle primarie.

Perché il sistema funzioni è però necessario che non solo i cittadini ma anche l’informazione svolga il suo ruolo di controllore, di «cane da guardia» del potere. Se però scopriamo che in molte realtà locali i politici hanno l’usanza di fare veri e propri contratti con le televisioni, versando migliaia di euro in cambio di interviste, allora si capisce che il meccanismo di controllo non esiste più.

Il ricambio italiano nasce da un’assunzione di responsabilità individuale che deve coinvolgere tutti, politici, giornalisti, insegnanti, imprenditori e semplici elettori, perché ognuno deve imparare a mettere davanti l’interesse generale, a pretendere senso di responsabilità ma anche a essere responsabile.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10553


Titolo: MARIO CALABRESI. La coalizione che ridisegna gli Stati Uniti
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2012, 11:25:48 pm
Editoriali
08/11/2012

La coalizione che ridisegna gli Stati Uniti

Mario Calabresi

La vittoria di Barack Obama di ieri notte non è sorella di quella di quattro anni fa. 


Nel 2008 la Casa Bianca fu conquistata grazie a un messaggio potente di cambiamento e novità. A incantare la maggioranza degli americani furono l’immagine e la retorica di un giovane senatore nero, che rompeva gli schemi della politica tradizionale e le barriere razziali.

 

Oggi quell’incanto e quella speranza sono svaniti, sostituiti però dalle speranze individuali di milioni di persone che in quel Presidente, che nel frattempo ha compiuto i cinquanta, vedono ancora la possibilità di una loro realizzazione.

 

Per me il volto della vittoria di ieri sera è quello di Jacky Cruz, che ho intervistato all’inizio di settembre a Tampa. Jacky, 21 anni, è una perfetta ragazza americana, parla inglese senza accenti stranieri, è stata la prima della classe dalle elementari alle superiori, fa volontariato, ha sempre lavorato per contribuire a pagarsi gli studi ma ora non può frequentare l’università. La sua colpa è di essere entrata illegalmente negli Stati Uniti quando aveva tre anni, insieme ai genitori venuti a raccogliere mirtilli nei campi della Florida, e di non esserne mai più uscita. E’ una clandestina e da quando è maggiorenne ha scoperto anche di essere invisibile, come due milioni di ragazzi con la sua stessa storia, che scommettono su Obama per non essere più fantasmi.

 

La vittoria di ieri notte è sorella di Jacky. 

 

Ed è figlia della sapiente costruzione di una coalizione elettorale capace di saldare una serie di minoranze che da sole risulterebbero ininfluenti e perdenti.

 

Per riuscirci e per vincere le elezioni bisogna conoscere il proprio Paese, sapere esattamente chi sono, cosa pensano e cosa vorrebbero per il loro presente e il loro futuro i cittadini. La capacità della squadra di Obama è stata di farlo con precisione millimetrica: preso atto che la maggioranza degli elettori maschi bianchi si stava spostando verso destra, verso il candidato repubblicano, era tempo di creare un nuovo blocco di interesse ripetendo l’operazione che Franklin Delano Roosevelt fece esattamente ottant’anni fa, quando mise insieme gli agricoltori bianchi del Sud e i nuovi lavoratori italiani e irlandesi garantendo ai democratici due decenni di predominio.

 

Oggi, che come nel 1932 viviamo sprofondati nella recessione, era possibile osare un cambio di paradigma, perché la crisi economica ha cambiato il sentimento profondo dell’America. 

 

Così è nata una nuova coalizione che si può permettere di vincere anche contro il pensiero economico dominante da decenni, anche se è portatrice di un’idea di Stato pesante e presente, un concetto considerato a lungo una pericolosa bestemmia per chi volesse entrare alla Casa Bianca. Una coalizione che ha permesso di vincere nonostante il sessanta per cento degli elettori bianchi abbia scelto Mitt Romney e che ha sancito che l’America bianca, anglosassone, dello Stato leggero e del conservatorismo sociale non è più in grado di dettare legge da sola: è andata in minoranza.

 

Le paure di Samuel Huntington, l’uomo dello «Scontro di civiltà», ieri notte si sono avverate. Tre anni prima di morire, nel 2005, il professore di Harvard aveva teorizzato la fine di quell’America «wasp», con il mito dell’individualismo e del libero mercato, che per due secoli era stata capace di integrare ogni ondata migratoria nella sua ideologia fondativa. 

 

Ora è accaduto, anche se in termini diversi da quelli catastrofici profetizzati da Huntington. Obama ha saldato una minoranza bianca progressista, intellettuale, interessata soprattutto ai diritti civili (dai matrimoni gay, all’aborto, alle tematiche di genere) con il blocco delle minoranze dell’America multietnica. I democratici hanno conquistato il voto del 93 per cento degli afroamericani, del settanta per cento degli ispanici e del 73 degli asiatici. I latinos hanno fatto la differenza in Florida e Virginia e hanno rotto il blocco conservatore del Sud-Ovest regalando al Presidente Colorado e New Mexico.

 

Eppure gli ispanici sarebbero gli alleati ideali dei repubblicani: sono cattolici, vivono per la famiglia, non amano l’idea dei matrimoni gay e sono conservatori. Potrebbero sposare un conservatorismo dei valori ma non possono permettersi un Paese in cui vinca l’idea di un welfare minimo (le loro famiglie allargate hanno bisogno di scuola e sanità pubblica) e non possono condividere una politica di espulsioni verso i lavoratori immigrati che non hanno regolare permesso di soggiorno (i clandestini sono 12 milioni). 

 

Questi gruppi sociali così diversi condividono un’idea, passatemi il paragone, più europea della società, con una presenza dello Stato che si sente. Gli operai bianchi dell’Ohio e del Michigan, a differenza dei loro colleghi di tutta America, hanno scelto di votare democratico perché si sono sentiti più garantiti dall’uomo del salvataggio pubblico dell’industria dell’auto, piuttosto che dal repubblicano che sosteneva - in nome dell’economia di mercato - che sarebbe stato meglio lasciar fallire Detroit.

 

Nello studio dettagliato degli spostamenti demografici, geografici e sociali della popolazione, la squadra di Obama ha anche capito che, non solo per una frangia radicale, ma per la maggioranza delle donne americane è cruciale la libertà di scegliere di fronte ai temi che riguardano la loro vita riproduttiva, tanto da non sopportare più di sentirsi dettare le regole da un gruppo di maschi bianchi. E così la campagna mirata di Obama sui diritti delle donne gli ha garantito il voto del 55 per cento delle elettrici americane.

 

Questa coalizione vincente, destinata a crescere con il boom demografico ispanico, mette in grave crisi il partito repubblicano e gli imporrà di ripensarsi profondamente, ma consegna al Presidente in carica un Paese profondamente diviso e polarizzato. Da questa mattina, anzi già da ieri notte con il discorso della vittoria, Obama dovrà dimostrare di saper anche ricucire l’America.

 

twitter @mariocalabresi 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/08/cultura/opinioni/editoriali/la-coalizione-che-ridisegna-gli-stati-uniti-Bhrm7yy3SAKNxtNU6uZacO/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Il gesto limpido del Premier
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2012, 10:00:55 pm
Editoriali
09/12/2012

Il gesto limpido del Premier

Mario Calabresi


Mario Monti si è preso un giorno per riflettere, poi ha fatto un gesto, l’unico, che fosse in linea con la sua persona, la sua vita e il suo modo di governare: assicurare la legge di stabilità e poi dimettersi. 

Non solo non poteva accettare di farsi mettere sotto accusa da chi gli aveva consegnato un Paese allo sfascio, non solo non ha intenzione di elemosinare per settimane la fiducia su ogni provvedimento, ma nemmeno di condividere un metro di strada con chi adesso ha deciso che tutte le colpe stanno nella moneta unica. «Io non vado in Europa a coprire quelli che fanno proclami anti-europei, io non voglio averci niente a che fare», ha detto con estrema chiarezza Monti al presidente della Repubblica mentre, ieri sera, gli annunciava il suo passo indietro.

Un gesto chiaro e limpido che costringe ognuno ad assumersi le proprie responsabilità e lascia Berlusconi solo con le sue convulsioni e i suoi voltafaccia. Non è in discussione il diritto del Cavaliere di ricandidarsi (anche se per un anno aveva assicurato il contrario), ma non è tollerabile che l’azionista di maggioranza del governo tecnico, che per inciso è anche il premier che aveva lasciato l’Italia sull’orlo del baratro, una mattina si svegli e se ne chiami fuori. 

 

Non è tollerabile che indichi l’azione di Monti come responsabile di ogni problema italiano, senza riconoscere tutto il lavoro fatto in un anno.

L’esecutivo tecnico era nato di fronte all’incapacità di governare e alla profonda sfiducia degli italiani nel sistema dei partiti, doveva servire a mettere in sicurezza i conti e a traghettarci verso nuove elezioni. Il patto era che ognuno si assumesse la sua parte di responsabilità (e di impopolarità) per provare a evitare il crac del Paese, senza cavalcare il populismo e il malessere sociale.

 

Stando così le cose, come poteva pensare Alfano che il premier potesse andare avanti dopo che lui lo aveva sfiduciato ufficialmente nell’Aula di Montecitorio? E dopo che oggi il centrodestra aveva minacciato di bocciare provvedimenti e proposte di legge, a partire da quella sul taglio delle Province? Solo un politico navigato e rotto a ogni compromesso avrebbe fatto finta di niente, Monti invece ne ha preso atto e ha deciso di restituire le chiavi.

 

Così andremo a votare, per la prima volta nella nostra storia repubblicana, con il cappotto, forse addirittura nella prima metà di febbraio, se si anticiperà l’approvazione della legge di stabilità e si scioglieranno le Camere alla vigilia di Natale. 

Dopo aver provato a fare le cose con ordine per dodici mesi, siamo tornati nell’emergenza e in preda agli spasmi della peggiore politica. Con tutti gli sforzi e i sacrifici fatti non ce lo meritavamo.

Sarebbe tempo che anche l’Italia diventasse un Paese normale, prevedibile e magari anche noioso. Un Paese di cui non ci si deve vergognare, che può sedere in Europa e riuscire a farsi ascoltare. Per un anno ci siamo andati vicino.

da - http://www.lastampa.it/2012/12/09/cultura/opinioni/editoriali/il-gesto-limpido-del-premier-b4sV40d7UNvoSv3hqiIVYJ/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Sarà l’anno della cittadinanza
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:48:33 pm
Cronache
24/12/2012

Sarà l’anno della cittadinanza

Da stranieri in patria a nuova linfa per la società


Mario Calabresi

Sarà l’anno della cittadinanza per chi vive da troppo tempo nel limbo, per chi è cresciuto, ha giocato, studiato e sognato in un solo Paese ma ne è escluso, colpevole di essere nato fuori dai confini della Terra in cui vive e a cui sente di appartenere. I protagonisti del dibattito politico del 2013 saranno i bambini nati in Messico o in Guatemala arrivati piccolissimi negli Stati Uniti, o quelli con passaporto cinese, filippino, peruviano, marocchino o rumeno ma che sono nati in Italia, tifano per gli azzurri e sognano di vincere «X Factor». Dopo anni di dibattito acceso, che ha visto in prima fila il presidente Napolitano e la Chiesa, sembra arrivato il momento: se in Italia Bersani vincerà le elezioni il suo primo provvedimento sarà sulla cittadinanza perché «un figlio di immigrati nato qui e che studia qui è un italiano». Negli Stati Uniti Barack Obama ha riconquistato la Casa Bianca anche grazie alla promessa di dare sostanza al sogno, di approvare finalmente il «Dream Act», per regolarizzare i due milioni di ragazzi e i dieci milioni di adulti che vivono in clandestinità, ma si sentono americani a tutti gli effetti: studiano, lavorano, costruiscono casa e famiglia e non hanno mai commesso reati. Il loro inserimento permetterebbe di farli uscire dal limbo e dal lavoro nero, diminuendo il deficit, aumentando le entrate fiscali e, come sottolinea il sindaco di New York, Michael Bloomberg, di inserire nuova linfa nelle nostre stanche società.

da - http://lastampa.it/2012/12/24/italia/cronache/sara-l-anno-della-cittadinanza-da-stranieri-in-patria-a-nuova-linfa-per-la-societa-glIvppAScBMvvnzo2pGqFO/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Una società che non lascia invecchiare
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2013, 05:32:13 pm
Editoriali
13/02/2013

Una società che non lascia invecchiare

Mario Calabresi

Le dimissioni di Benedetto XVI, guardate ad un giorno di distanza e superato lo stupore per il gesto, ci raccontano anche una storia emblematica del tempo in cui viviamo: la difficoltà di essere anziani nella società della tecnologia e dell’informazione. 

 

Una società che richiede come presupposti fondamentali la velocità, la capacità di adattarsi e di reagire in tempo reale. Uno scenario dominante di fronte al quale il Papa ammette la sua debolezza con una consapevolezza disarmante e con parole chiarissime: «Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il Vangelo è necessario anche il vigore sia del corpo sia dell’animo. 

Vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale…». 

 

Un gesto quasi di resa di fronte al mondo che cambia a un ritmo che un uomo nato nel 1927 non avrebbe mai immaginato. Non cambia solo nei modi e nei tempi della comunicazione ma richiede di commentare tutto e subito. Eppure quest’uomo prossimo agli 86 anni, mentre già pensava di lasciare il pontificato, aveva tentato di inseguire quella contemporaneità frastornante, sbarcando perfino su twitter. Piegandosi alla necessità di comunicare con messaggi brevi e sincopati di soli 140 caratteri. Aveva cercato, non senza fatica e dopo dolorose e laceranti incomprensioni, di aderire all’agenda globale con i tempi dettati dai media che trasmettono 24 ore su 24. Un’agenda che ogni giorno sposta i confini dell’etica e delle convenzioni sociali. Una rincorsa spasmodica e innaturale per un uomo che aveva formato la sua vita sullo studio, sulla riflessione, sulla meditazione silenziosa. Sembra di scorgere nelle sue parole e nella sua scelta un cortocircuito tra i suoi studi approfonditi sulla vita di Gesù e quel dover ribattere colpo su colpo a cui è difficile sottrarsi. Quel propagarsi di scandali, polemiche, fughe di notizie su scala planetaria a cui sembra suggerirci può tenere testa solo chi è più giovane: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte…». 

Ma non è sempre stato così. Senza bisogno di tornare indietro di un secolo e mezzo, quando Pio IX – era il 1854 – fece un viaggio di un mese nelle Legazioni pontificie arrivando fino in Emilia senza fare un solo discorso ma limitandosi a impartire benedizioni, basterebbe pensare al ritmo del Vaticano di Paolo VI. Per trovare una risposta del Papa era necessario attendere l’Angelus della domenica o l’udienza del mercoledì. Poi, con papa Wojtyla, sono esplosi i viaggi e il ritmo ha moltiplicato le occasioni e i discorsi. 

 

Ma è questo un treno lanciato che non ha altra possibilità che accelerare? Si osserva che la Chiesa vive nel mondo e non può che adattarsi al mondo se vuole incidere ed essere ascoltata. Eppure nel sapersi anche sottrarre, nel celarsi, nel rifiutare di cantare sempre nel coro, perfino nell’assenza si nasconde una grande forza. Immaginate i politici di oggi, costretti a dichiarare trenta volte al giorno, pesate la loro credibilità e la loro durata e paragonatele a quelle di Alcide De Gasperi, Aldo Moro o Enrico Berlinguer le cui interviste, in un anno non in un giorno, si potevano contare sulle dita di una mano.

 

Si potrebbe replicare che i tempi della Chiesa millenaria (e della politica lenta) erano possibili quando le informazioni non passavano attraverso i muri, quando i telefonini non erano un’estensione del nostro corpo, quando i maggiordomi non facevano fotocopie, fax e mail e quando le Mura vaticane trattenevano discorsi e segreti. Ma quei tempi e quella capacità di visione le avevano garantito una centralità lunga venti secoli. 

 

Ma allora, in questo arrendersi all’età, nel riconoscere invece quasi una centralità determinante alla giovinezza, alle energie e alla velocità che spazio e che valore hanno ancora il sapere meditato, la saggezza e l’esperienza? Benedetto XVI che sceglie di tornare ad essere Joseph Ratzinger ci ha dato la sua risposta ma questa domanda resta centrale e irrisolta, anche perché la risposta plasmerà la nostra società, deciderà se si può accettare di vivere nella frammentazione, alleggeriti della memoria e dei progetti di lungo respiro.

 

Non si risolve naturalmente solo in questa domanda e nella sua risposta la travagliata decisione del Papa, che è necessariamente figlia di una complessità di problemi su cui si scriveranno libri per un tempo infinito. Ma l’età è il passaggio nodale della dichiarazione resa nella lingua più antica, quasi a sottolineare la volontà di sottrarsi alla dittatura della contemporaneità.

 

C’è in Ratzinger, l’uomo che oggi tutti paragonano nel suo passo indietro al Wojtyla del calvario coraggioso, della croce portata fino alla fine, anche la consapevolezza dei danni che può seminare la mancanza di energie. Benedetto XVI sa che il prezzo del calvario del suo predecessore fu anche un’assenza di governo della Chiesa, lo sa perché ne ha ereditato tutti i problemi irrisolti, insieme alle lotte intestine. Li ha affrontati con coraggio, a partire dalla pedofilia, ma forse anche questa consapevolezza lo ha spinto a ricordarci che ci vuole forza per governare, lo ha indotto a fare un passo indietro, ora, per non lasciare un altro percorso in salita al suo successore. E’ forse questo il gesto più rivoluzionario che ha fatto.

da - http://lastampa.it/2013/02/13/cultura/opinioni/editoriali/una-societa-che-non-lascia-invecchiare-H77WAwIQbo5xnkNgk8FoSL/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Il realismo che serve al Paese
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2013, 03:58:37 pm
Editoriali
24/02/2013

Il realismo che serve al Paese

Mario Calabresi

Finalmente oggi si vota, la campagna elettorale delle promesse più miopi della storia è finita e si torna alla vita reale. Miopia è avere la vista talmente corta da cercare soluzioni della durata di una settimana dimenticando che la politica e la capacità di governare dovrebbero invece preoccuparsi di costruire progetti per un futuro più decente. Miopia è pensare che esistano soluzioni catartiche, capaci di risolvere ogni problema in un istante spazzando via tutto quello che non ci piace: è illusoria (e alla prova dei fatti dolorosa) l’idea che tutto possa cambiare per miracolo in un sol giorno. E’ un’illusione soprattutto se noi tutti continuiamo a essere gli stessi di prima, se non abbiamo il coraggio di rimetterci in gioco, se non abbiamo l’onestà di riconoscere la complessità e ci rifugiamo nell’autocommiserazione, nella lamentela o nell’eterno gioco di scaricare le colpe su qualcun altro.

«Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose», ci ammoniva Albert Einstein e lo penso ogni volta che vedo gli italiani gridare agli sprechi e nello stesso tempo indignarsi per i tagli che cercano di eliminare quegli sprechi.

Ci vuole serietà, non si può chiedere una sanità più efficiente e ospedali capaci e contemporaneamente pretendere di avere un reparto maternità in ogni paese o in ogni quartiere. La vita reale che ci aspetta da domani è ancora fatta di difficoltà, di piccoli passi, di tentativi, ma dovrebbe essere fatta anche di speranza e di volontà. 

Per questo dico che è stata una campagna elettorale deludente, complice l’oscena legge elettorale, perché tutta puntata sull’immediato e senza idee che parlassero di futuro, idee capaci di accendere l’immaginazione, di dare coraggio, di spingere all’impegno. Le campagne elettorali hanno però due soggetti, i politici e gli elettori. Anche noi siamo chiamati ad essere responsabili e credibili: nelle richieste che facciamo come nel voto che esprimiamo.

Abbiamo il dovere della memoria innanzitutto: spiace notare come né i candidati e nemmeno noi elettori siamo stati capaci di attribuire il giusto valore agli sforzi e ai sacrifici fatti nell’ultimo anno, dimenticandoci, immersi come siamo in un pessimismo e in una visione negativa che sembrano impedirci qualunque possibilità di ripartenza, che non saranno certo tsunami o facili scorciatoie a regalarci un Paese sano e migliore. 

E abbiamo tutti il dovere di tenere la testa alta. Di pensare non soltanto a noi e all’immediato ma anche al Paese che vogliamo costruire per i nostri figli o i nostri nipoti. Dovremmo imparare a non illuderci di fronte a ricette di cortissimo respiro: ti rimetto in tasca alcune centinaia di euro, come una sorta di una tantum, ma ti nego la possibilità di pensare ad una sanità migliore, che riduca le umilianti liste d’attesa, a un welfare più al passo coi tempi, in cui una madre non sia costretta a scegliere tra il lavoro e la cura dei figli, a una scuola che rispetti gli insegnanti, valorizzi i bambini e non costringa i genitori a portare ogni settimana sapone, fogli e carta igienica.

Quando penso alla responsabilità di essere cittadini penso che questo contenga la necessità di non raccontarsi storielle facili e consolatorie: non è solo eliminando la cosiddetta «casta» che si risolveranno i nostri problemi. Non è sufficiente: è solo sostituendo i ladri, i corrotti e gli incapaci con persone più degne e preparate che ci incammineremo sulla strada giusta.

Il prossimo Parlamento, grazie alla pressione dell’opinione pubblica, avrà il merito di essere più giovane, di avere più donne, più volti nuovi e una percentuale di gran lunga inferiore di inquisiti e screditati. Questa è un’indubbia conquista, ma non pensiamo che questo sia tutto: ci vogliono idee per costruire e capacità di farlo, a questa sfida saranno chiamati tutti gli eletti.

Pensare che basti essere giovani e nuovi per aver risolto ogni problema è un po’ infantile e non riconosce nessun valore all’esperienza e alla capacità: mi immagino il futuro dell’Italia come un pullman che deve superare un passo di montagna, ci sono curve ghiacciate, salita e discesa, vorrei che a bordo con me ci fosse gente per bene, simpatica e solidale, ma mi farebbe anche piacere avere un autista che ha idea di dove andare, che conosca il percorso e magari non sia alla sua prima esperienza di guida…

Mi ha colpito, in questo senso, la seria prudenza con cui il sindaco di Parma Federico Pizzarotti ha parlato sul palco di Piazza San Giovanni dopo il roboante comizio di Beppe Grillo, perché ha riconosciuto che le cose si possono cambiare ma per gradi. La verità è che nessuno ha la bacchetta magica e i debiti le persone per bene li onorano, tanto che la giunta grillina – soffocata dall’immenso debito ereditato - ha dovuto aumentare le rette degli asili nido, l’Imu e le tasse e non sembra in grado di fermare il famoso inceneritore.

Oggi andiamo a votare e l’augurio migliore che posso fare a tutti noi e al Paese è che la prossima legislatura sia stabile, riesca a funzionare e soprattutto sia efficace: si sintonizzi sui bisogni degli italiani e provi a dare risposte vere e credibili. I nuovi deputati e senatori sono chiamati a dare prova di realismo, a convergere sulle leggi di cui abbiamo bisogno e a scegliere le priorità, non a cercare di difendere vecchi privilegi e rendite di posizione ma nemmeno a fare guerre di religione di stampo ideologico. Non si sente il bisogno di nuove macerie e di personalismo ma di ricostruire un’Italia in cui il lavoro non appaia un miraggio irraggiungibile a ogni ragazzo che finisce gli studi e in cui gli anziani pensionati possano andare al mercato a testa alta per comprare ai banchi e non a testa bassa per rovistare tra la frutta gettata via.

da - http://lastampa.it/2013/02/24/cultura/opinioni/editoriali/il-realismo-che-serve-al-paese-VtjcsXKLCFVKcH0FCBzogM/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Il dovere di scelte coraggiose
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:19:39 pm
Editoriali
26/02/2013

Il dovere di scelte coraggiose

Mario Calabresi


Nelle prime elezioni sotto la neve sono venuti al pettine i nodi che la politica non ha sciolto negli ultimi vent’anni: il rapporto con i cittadini prima di tutto, quel senso di incomunicabilità che ha portato a esprimere una protesta che non ha precedenti. 

Ora abbiamo un Parlamento in cui nessuno schieramento è in grado di dare vita a una maggioranza di governo, in cui un quarto dei votanti ha scelto il Movimento di Beppe Grillo e in cui la doppia ribellione dei cittadini verso la «casta» da un lato e verso i tagli e i sacrifici dall’altro è la vera vincitrice.

L’Italia reale ha espresso tutto il suo malessere e dentro questo voto si sentono le voci e le storie di chi non trova lavoro, di chi non riesce ad arrivare alla pensione o alla fine del mese, di chi pensa di non avere futuro e fugge all’estero, di chi ha vissuto le nuove tasse come un’insopportabile angheria.

C’è stata nel governo e nei partiti, ce lo dicono le urne, una sottovalutazione dell’impatto sociale delle politiche di austerità, una mancanza di sensibilità drammatica. A cui si deve sommare la rabbia maturata per la distanza percepita tra i sacrifici richiesti ai cittadini e quelli rifiutati dai politici. 

La scelta di Monti di partecipare alla campagna elettorale e l’offensiva dei due partiti maggiori contro le politiche del suo governo hanno anche impedito di dare un senso ai sacrifici, di valorizzarli come passo fondamentale verso la ripresa dell’Italia. Sulla pelle sono rimasti solo tagli che hanno perso via via senso, in un coro sguaiato di promesse impossibili. Così il nostro ancoraggio all’Europa, il recupero di credibilità, la possibilità di far sentire la propria voce ai tavoli internazionali sono stati dimenticati in fretta. Eppure, non illudiamoci, solo grazie a queste conquiste siamo stati messi al riparo dal disastro e da oggi torniamo a rappresentare un pericolo e un segnale di allarme e instabilità per tutti.

Di fronte al malessere del Paese Beppe Grillo è stato capace di parlare un linguaggio eccessivo ma immaginifico che ha raccolto e dato cittadinanza ad ogni tipo di protesta e di rabbia, mentre Berlusconi, come avevano intuito per tempo su queste pagine Luca Ricolfi e Michele Brambilla, è stato il più abile ad intercettare la rivolta contro le tasse e i controlli fiscali. Pier Luigi Bersani invece ha confidato troppo nel risultato delle primarie, nell’assenza dell’avversario, nella corrente che lo avrebbe portato a Palazzo Chigi senza troppa fatica. Così al Pd sono mancati un progetto ma anche un sogno capaci di scaldare i cuori degli elettori, di dare risposte forti e convincenti al malessere, di indicare una direzione per il futuro.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti e ci racconta un’Italia nuova, provata e spaventata dalle dinamiche nuove del mondo globale, dove il lavoro si sposta senza badare ai confini, dove sarebbe necessario rimettersi a studiare e ripensarsi ogni giorno. Ma anche un’Italia profonda che continua a mostrare diffidenza verso gli eredi del vecchio Pci, tanto da non concedergli più di un terzo dei voti.

Ora rimettere a posto i pezzi di questo sistema piombato nel caos appare impresa di difficile soluzione. Ci vorrebbero coraggio, spirito di sacrificio e saggezza, doti che scarseggiano. 

A scrutinio non ancora concluso si è già sentito parlare di nuove elezioni da tenere dopo aver approvato una nuova legge elettorale, una prospettiva che appare ancora più drammatica e irreale. Per fare una legge elettorale è necessaria una maggioranza in Parlamento, quella maggioranza che non c’è stata nell’ultimo anno nonostante i numeri ci fossero e fossero abbondanti. E pensare che il presidente della Repubblica ha insistito fino all’ultimo per riformare il sistema di voto, chiedendo che fosse ristabilito un rapporto tra elettori e eletti, affinché i cittadini potessero scegliere i propri rappresentanti e non fossero chiamati solo a ratificare le scelte dei partiti, e che venisse eliminato il mostruoso premio di maggioranza della Camera. Ma la miopia di chi pensava di avere la vittoria in tasca e di chi era convinto di poter ancora lucrare una rendita di posizione hanno avuto la meglio. La stessa miopia che ha fatto gettare via ogni modifica istituzionale: così non è stato diminuito il numero dei parlamentari, si sono mantenute le province e si è data l’idea di voler salvare l’esistente con tutti i suoi privilegi.

Immaginate adesso se il primo atto di queste nuove Camere fosse accordarsi per dare vita a una nuova legge elettorale, immediato sorgerebbe il sospetto nei cittadini di trovarsi di fronte all’ultima disperata mossa del sistema dei partiti per salvare la propria esistenza. La rivolta salirebbe ancora più forte.

Abbiamo invece bisogno di passi chiari, di scelte nette e coraggiose. Si provi a vedere in Parlamento se sono possibili convergenze per dare risposte urgenti ai cittadini, senza trattative incomprensibili. Dopo il voto di ieri e domenica una cosa è certa: ogni passo politico deve essere fatto alla luce del sole e deve essere leggibile e comprensibile da parte di tutti. In Parlamento si possono e si dovranno trovare convergenze, tra i partiti tradizionali ma anche tra i nuovissimi parlamentari Cinque Stelle che ora vantano come un merito la loro inesperienza politica e il loro candore. Vanno trattati come una risorsa, non come dei nemici. Sono rappresentanti degli italiani, come tutti gli altri. La politica quand’è nobile cerca soluzioni e quand’è efficace, le trova. Non c’è più tempo per giochi oscuri. Il voto degli italiani lo ha detto chiaramente.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/26/cultura/opinioni/editoriali/il-dovere-di-scelte-coraggiose-ywrZdeTwqKfosOFTOj7dFI/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Le risposte che il Paese aspetta
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2013, 06:19:30 pm
Editoriali
22/03/2013

Le risposte che il Paese aspetta

Mario Calabresi

La buona notizia della giornata di ieri è che finalmente è stata fatta chiarezza: ogni ipotesi di dare vita ad un governo con i voti di Grillo sembra definitivamente tramontata. Dovrebbe così finire l’affannosa e a tratti grottesca rincorsa dei favori del Movimento 5 Stelle.

 

La brutta notizia è che per prendere atto di questa indisponibilità ci sono voluti 25 giorni. Più di tre settimane passate a coltivare un’illusione, nonostante Grillo e i suoi non avessero mai lasciato margini di trattativa. Più di tre settimane in cui la cronaca ha registrato come dall’inizio dell’anno abbiano chiuso 167 negozi al giorno, che i fondi per la cassa integrazione in deroga stanno per finire, che i consumi sono in picchiata e perfino che gli immigrati filippini abbandonano l’Italia per trasferirsi in Germania. Il Paese ha bisogno di un governo subito, di risposte, di dare fiato alle imprese per non deprimere ulteriormente l’occupazione, e non di un’eterna campagna elettorale.

 

Ora, se il presidente Napolitano darà a Pierluigi Bersani l’incarico di verificare se esistono in Parlamento le condizioni per dare vita a un governo, gli schemi di gioco andranno completamente cambiati. 

 

Il campo di gioco ora sarà limitato alle forze politiche che rappresentano il 75 per cento degli italiani che non hanno votato per Grillo. Il segretario del Pd dovrà infatti per forza rivolgersi agli altri partiti che siedono in Parlamento: Il Pdl, la Lega e i gruppi che fanno riferimento a Mario Monti. Un dialogo e una linea che non sono certo quelli usciti dalla direzione del Pd, da cui Bersani aveva ottenuto un mandato chiaro: trattare con Grillo o elezioni. Ma ora che Grillo ha sbattuto la porta è doveroso un tentativo per evitare le elezioni.

 

La novità che si può scorgere nelle parole pronunciate da Bersani ieri al Quirinale è l’allentarsi delle pregiudiziali, l’apertura a tutti i parlamentari senza distinzione. Certo resta ferma l’indisponibilità a formare governissimi, a dividere la patria potestà dell’esecutivo con Berlusconi, ma sembrerebbe essersi affievolito il rifiuto assoluto dei suoi voti (o di una sua astensione) se servissero a far nascere un esecutivo a guida Pd con ministri scelti nella sinistra o nella società civile.

 

Il percorso appare strettissimo, quasi impossibile, e il filo difficilissimo da riannodare, soprattutto dopo gli scontri e le tensioni delle ultime settimane, e dopo aver evitato ogni accordo per eleggere i presidenti di Camera e Senato. Ogni dialogo non potrà poi prescindere dalla scelta del prossimo presidente della Repubblica, l’unica carica che durerà ben di più sia di qualunque governo nascente sia del nuovo Parlamento. Una casella che è stata lasciata per ultima, anche se forse sarebbe stato più saggio partire proprio da lì, da una strategia che mettesse al centro l’unico punto fermo del nostro futuro.

 

Le strade che si è trovato davanti Bersani sono tutte di difficile gestione: prima c’era il Movimento 5 Stelle, quello che domani porterà tutti gli eletti a manifestare ai cantieri della Tav in Val di Susa, adesso il Pdl che i parlamentari prima li ha portati a manifestare sulle scale del Palazzo di Giustizia di Milano e ora in piazza a Roma. 

 

L’unica chiave, per non arrendersi a tornare alle urne quest’estate, per non rifare un’altra sterile campagna elettorale, è mettere al centro i provvedimenti più urgenti per ridare fiato al Paese. Insieme si dovranno dare risposte alla rabbia dei cittadini, che chiedono di rivedere privilegi, finanziamenti e costi della politica. Ma tutto ciò va fatto per gli italiani, non per ingraziarsi Grillo, a cui i partiti non andranno mai a genio qualunque cosa facciano e a cui parole come responsabilità e governabilità non dicono nulla. Tutto ciò va fatto in modo serio e non propagandistico e senza dimenticare che mentre discutiamo il dimezzamento del numero dei parlamentari rischiamo il dimezzamento delle aziende in grado di stare in piedi nel Paese.

da - http://lastampa.it/2013/03/22/cultura/opinioni/editoriali/le-risposte-che-il-paese-aspetta-H2TbzswaFcBnYmTbd6GbYK/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. C’era una volta il Pd
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2013, 12:18:57 pm
Editoriali
20/04/2013

C’era una volta il Pd

Mario Calabresi


C’era una volta un partito che appariva come il più attrezzato per affrontare l’antipolitica, che era rimasto l’unico organizzato sul territorio e che si poteva permettere il lusso di lasciare in panchina un leader giovane che pescava consensi trasversali. Quel tempo era soltanto tre mesi fa.

 

Ora c’è un partito senza direzione, senza guida e diviso in correnti che si fanno una guerra spietata arrivando a usare le schede per l’elezione del Presidente della Repubblica come uno stratagemma per contarsi e controllarsi. Ogni corrente ha un modo diverso di scrivere il nome del candidato: solo il cognome, anche il nome per intero o con l’iniziale puntata, messa prima o dopo.

 

Questo partito non è più in grado di decidere quali sono gli amici con cui allearsi e quali i nemici a cui dare battaglia e allora si è cullato nell’illusione di un’autosufficienza impossibile. Questo partito in sole 24 ore ha bruciato due linee politiche, il padre ispiratore e il segretario, lo ha fatto perché ha smarrito ogni solidarietà interna e perfino l’istinto di sopravvivenza, cancellato dalle paure, dagli egoismi e dalla mancanza di visione.

Pierluigi Bersani ha annunciato ieri sera le sue dimissioni, ma lo ha fatto quando ormai il disastro della sua indecisione aveva già prodotto i massimi risultati possibili: il primo partito italiano non è riuscito ad andare al governo e nemmeno a indicare il Presidente della Repubblica, dopo aver rinunciato a mettere uomini suoi alla guida di Camera e Senato. Questo è successo perché la legislatura è cominciata senza una visione generale delle cose, in cui ogni passaggio è una tessera del mosaico. Prima di tutto si doveva decidere una strategia per eleggere il successore di Giorgio Napolitano, non era tanto importante il nome ma il metodo e soprattutto con quali compagni di strada. Da questa scelta era chiaro che sarebbe disceso tutto il resto, le presidenze delle Camere, le alleanze di governo e il futuro della legislatura. 

 

Invece ogni mossa è apparsa non coordinata con le altre, tanto che si sono annullate a vicenda. Se la tua preoccupazione è parlare a Grillo e recuperare gli elettori conquistati dall’antipolitica allora Grasso e Boldrini hanno un senso, ma allora non puoi presentare una rosa a Berlusconi per eleggere il nuovo capo dello Stato con lui. Perché se avverti l’urgenza di dare segnali di novità e cambiamento, tanto da aver eletto capogruppo alla Camera un trentenne alla prima esperienza parlamentare, poi non candidi l’ottantenne Franco Marini, segretario del Ppi in un’altra era politica. 

 

Se invece pensi che la pacificazione italiana passi dalla fine della guerra con il Cavaliere, allora hai il coraggio di incontrarlo alla luce del sole per definire i termini di una collaborazione. Ma perché tutto ciò accadesse bisognava aver prima capito che forma ha preso oggi la società italiana, quali sono le pulsioni che la agitano e dove stanno andando interi settori di elettorato. Operazione non certo semplice e che mette tutti a dura prova, ma senza la quale si procede a tentoni.

 

Ieri mattina Mario Monti ha accusato Bersani di aver anteposto l’interesse del partito, scegliendo Prodi per provare a ricompattare il Pd, all’interesse generale, che sarebbe stato invece quello di pacificare la politica italiana. Questa tesi è in parte vera, ma non basta più a spiegare la situazione nella quale ci troviamo: nello schema classico la guerra era fra destra e sinistra e dall’intesa tra questi due campi passava la pace. Ma oggi l’Italia è tripolare e la pacificazione non è solo interna agli schieramenti ma anche e soprattutto tra politica e antipolitica.

 

Dopo aver provato a eleggere il Presidente della Repubblica insieme a Berlusconi, il Pd si è reso conto che la guerra di cui ha più paura è quella con Grillo e con quella parte ampia della sua base che gli sta voltando le spalle, conquistata dalle parole d’ordine della rete e della lotta alla casta. E’ una battaglia che sente di non poter vincere o di cui ha troppa paura, perché avviene dentro casa, nella propria metà del campo, perché sfascia appartenenze, amicizie e fedeltà antiche. Per questo ieri hanno preferito tornare alle vecchia – e rassicurante – battaglia con Berlusconi, pensando che perlomeno si sarebbe svolta su un terreno conosciuto e che avrebbe ricompattato sia i parlamentari sia l’elettorato.

 

Non è successo. Perché mentre Bersani temporeggiava la Storia correva avanti strappandogli il partito e approfittando delle sue indecisioni, delle giravolte e dei silenzi. Il tempismo spesso è tutto, saper spiegare le proprie scelte con chiarezza è il resto: Prodi come scelta iniziale poteva essere vincente, mentre ora ogni nome appare vecchio e la mancanza di una strategia comprensibile ha avvelenato ogni passaggio. Ora il Pd è lacerato da spinte che tirano in direzioni opposte e sembrano inconciliabili tra loro, ma soprattutto ha perso lucidità di analisi. 

 

Una parte dei suoi deputati è angosciato dalle pressioni della base e degli intellettuali storicamente di area e vive con il telefono in mano compulsando con ansia l’ultimo messaggio su twitter o su facebook. Perdendo però di vista il fatto che tre quarti degli elettori non hanno votato per Grillo e magari preferirebbero partire dai problemi più urgenti, che sempre più spesso sono legati al lavoro e a un’esistenza decente, piuttosto che dalla riduzione del numero dei parlamentari.

 

L’altra parte invece parte dalla constatazione che ci sono più italiani nel centro e nella destra che nelle 5 Stelle e che a questi bisogna guardare per ricostruire il tessuto sociale lacerato del Paese, sono questi i deputati che spingevano per Marini e ora guardano a Cancellieri, Grasso o a una soluzione istituzionale e non partigiana. Il loro problema è che non sentono quanto forte è la stanchezza diffusa tra gli italiani per un certo modo di fare politica e così non si preoccupano di spiegare i passaggi con la dovuta trasparenza e efficacia.

 

Berlusconi silenziosamente gongola, Grillo invece lo fa rumorosamente e con il nome di Rodotà ha lanciato la sua opa sugli elettori del Pd. Probabilmente questa mattina le persone che sorridono sotto i baffi per le disgrazie del Pd e di Bersani sono maggioranza nel Paese, ma se alzassero gli occhi vedrebbero un cumulo diffuso di macerie da cui è difficile immaginare come ricostruire. Se non passa di moda in fretta il gusto di sfasciare e non ci liberiamo dall’idea che sia necessario avere sempre un nemico da eliminare, o a cui dare la colpa, rassegniamoci a uno spettacolare declino.

DA - http://www.lastampa.it/2013/04/20/cultura/opinioni/editoriali/c-era-una-volta-il-pd-dFNCCXB5oLEi9xdOedupyM/pagina.html


Titolo: David Thorne “Qui c’è troppa incertezza. L’Italia ritrovi entusiasmo e ...
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2013, 10:05:28 am
Esteri
21/07/2013 - David Thorne

“Qui c’è troppa incertezza. L’Italia ritrovi entusiasmo e scommetta sul futuro”

David Thorne, in Italia dall’agosto del 2009, andrà a lavorare a Washington con il segretario di Stato

Dopo 4 anni l’ambasciatore Thorne fa ritorno negli Usa “Napolitano è stato ed è l’uomo chiave del Paese”


Mario Calabresi
Roma

L’ultimo incidente arriva proprio sul traguardo: l’arresto a Panama e il rimpatrio negli Usa dell’ex capocentro della Cia a Milano Robert Seldon Lady, condannato in Italia a nove anni di carcere per il rapimento di Abu Omar, ma di questo proprio non vuole parlare, si capisce quanto la situazione sia delicata e tesa, tanto che l’ambasciatore americano allarga le braccia e nel più classico stile dei diplomatici pronuncia solo due parole: «No comment».

David Thorne ha già fatto le valigie e sta partendo per Washington, destinazione Dipartimento di Stato, dove lavorerà accanto al segretario di Stato John Kerry: per quattro anni ha abitato a Villa Taverna, la residenza degli ambasciatori americani alle spalle di Villa Borghese, e ha riscoperto Roma, la città in cui aveva vissuto da ragazzo. 

Della sua esperienza di ambasciatore americano in Italia cancellerebbe volentieri una sola cosa: lo scandalo Wikileaks, quei rapporti resi pubblici con giudizi assai poco lusinghieri sull’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. «È stato il momento più difficile dei miei quattro anni qui: avere l’ambasciata sulle prime pagine dei giornali non è stato piacevole, l’imbarazzo era fortissimo e tutto il nostro sistema diplomatico venne sconvolto. Abbiamo dovuto parlare e spiegare molto, ma poi il recupero è stato veloce».

In quattro anni David Thorne ha visto cambiare tre presidenti del Consiglio e la crisi investire in pieno l’Italia ma non è mai stato scettico sulle nostre possibilità di recupero e racconta di aver avuto una sola stella polare: Giorgio Napolitano. «È stato ed è l’uomo chiave per l’Italia. Ha una forza straordinaria ed è una persona incredibilmente saggia, l’ho accompagnato due volte alla Casa Bianca e mi ha colpito l’enorme rispetto che Obama ha per lui. Ha il merito di aver guidato il Paese in un periodo assai complicato. Non credo volesse il secondo mandato, ma lo ha accettato per il Paese ed è stata la cosa giusta».

Prima di partire racconta questi quattro anni e i dossier più spinosi che restano aperti sul tavolo del suo successore, dagli F35 al sistema di comunicazione satellitare Muos, dalla frenata degli investimenti stranieri in Italia al Datagate.

L’esordio è naturalmente istituzionale: «Le relazioni tra Italia e Stati Uniti sono sempre rimaste solide in questi quattro anni, sia con Berlusconi, che è sempre stato un amico per Washington, sia con i suoi successori: i rapporti si sono rafforzati con Monti e Letta. Il mio obiettivo in questi anni è stato quello di spiegare all’America quanto vale l’Italia, di far capire che non siete solo un Paese in cui è bello vivere o venire in vacanza ma uno dei partner europei su cui si può contare di più. Penso al contributo in Afghanistan, al progetto F35, al peso che avete avuto nella guerra libica, alla vostra presenza in Kosovo o nella missione Unifil in Libano. Ma non è solo una questione geostrategica: penso al ruolo fondamentale che ha giocato Mario Monti nell’affrontare la crisi economica e nel convincere il mondo che l’Europa poteva farcela». 

Gli chiedo se, valutandolo a qualche mese di distanza, il ruolo del nostro senatore a vita sia stato davvero così cruciale: «Monti è stato fondamentale ed essenziale per tranquillizzare i mercati e far capire agli americani che l’Europa si muoveva. Obama e Monti hanno avuto un rapporto strettissimo e per il nostro presidente il professore è stato un vero punto di riferimento. Oggi quella serietà come interlocutore la ritroviamo in Enrico Letta, tanto che Obama ci ha messo pochissimo a intendersi in modo molto cordiale con lui. Si sono incontrati al G8 in Irlanda e Letta è stato molto incisivo nel porre il problema della disoccupazione giovanile, tanto che la discussione è stata guidata da lui». 

A questo punto però c’è da chiedersi dove siano i problemi, come mai gli investimenti stranieri si siano più che dimezzati e il nostro sistema produttivo stia crollando. Thorne, che ha un curriculum da imprenditore, non aspetta la fine della domanda: «Potrei rispondere con una sola parola: “Incertezza”. Per fare investimenti bisogna avere certezze e l’Italia è diventato il Paese dell’incertezza, prima di tutto nel sistema della giustizia, poi nella stipula dei contratti, negli adempimenti burocratici. Dovete assolutamente semplificare le procedure e accorciare i tempi per dare chiarezza e sicurezze a chi vuole produrre qui. Bisogna rendersi conto che attrarre investimenti stranieri è di vitale importanza e quei soldi potrebbero essere un fattore chiave per far ripartire l’Italia. Ma il primo pezzo di strada lo dovete fare voi cambiando atteggiamento». Thorne pensa all’Italia che aveva conosciuto da ragazzo tra la metà degli Anni Cinquanta e la metà dei Sessanta, erano gli anni del boom economico «quando c’era una mentalità imprenditoriale sette giorni su sette, 24 ore al giorno, e si scommetteva sul proprio futuro». «Dovete ritrovare quello spirito, stimolare i giovani a creare nuove attività, rimettere in circolo energie ed entusiasmo. L’Italia ha bisogno di credere in se stessa, non vi manca il genio e avete ancora la ricchezza necessaria per investire sul futuro e tornare ad essere competitivi. Ci vuole la volontà politica ma anche quella sociale, quella dei singoli cittadini e bisogna capire dove va il mondo». 

Dove va il mondo per un ambasciatore che nei suoi affari e nella sua attività di consulente politico si è specializzato nell’innovazione è abbastanza chiaro: «Negli Usa quasi il 40 per cento della crescita degli ultimi vent’anni è figlia proprio dell’innovazione e delle tecnologie. Quando sono arrivato non c’era traccia dell’economia digitale nella vostra agenda di governo, oggi finalmente c’è e da questo bisogna partire. Basti pensare che negli ultimi due anni sono stati raccolti più dati che nell’intera storia umana e che questo raddoppierà in un altro biennio e poi ancora nello stesso tempo. Tutto ciò cambia completamente il modo di vivere, lavorare, interagire e definirà aspetti diversissimi: dal controllo del traffico, alla proprietà intellettuale fino ai furti».

Una fiducia nelle tecnologie che Thorne condivide con i leader del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, di cui ha in passato lodato, non senza creare polemiche, la capacità di usare la rete in campagna elettorale: «Le mie parole furono completamente decontestualizzate ma resto convinto che nelle ultime elezioni il M5S abbia compreso meglio di tutti le potenzialità e il peso di internet nella politica». E come giudica la presenza del movimento di Grillo in Parlamento? «Ho visto molti giovani eletti che dovevano imparare come si lavora all’interno delle Istituzioni, ma li ho visti interessati a capire e a crescere: sono nuovi e stanno cercando di fare la loro strada, è così che funziona il mondo». Anche l’incontro a quattr’occhi con Beppe Grillo fece molto parlare: «Ci siamo visti a Milano, abbiamo parlato più di Internet che di politica, ma non voglio dare alcun giudizio su di lui, perché ogni frase verrebbe strumentalizzata per cui preferisco fermarmi qui». 

Allora torniamo alla Rete: la parola «Data», i «Big Data» di cui Thorne parla richiamano subito alla mente lo scandalo «Datagate» e la diffidenza verso un mondo in cui saremo molto più controllati. «Di certo abbiamo la necessità di discutere come bilanciare trasparenza, funzionalità e privacy. Ma il concetto di privacy sta cambiando e non saremo mai più “privati” come lo eravamo un tempo. Per esserlo ancora dovremmo spegnere il telefonino, i social network, rinunciare agli acquisti e alle prenotazioni in Rete, a usare ogni tipo di tecnologia». Ma attenzioni e precauzioni sono necessarie ovunque, tanto che in Ambasciata non è permesso entrare con il cellulare e perfino l’ambasciatore deve lasciare il telefonino appoggiato su un tavolino fuori dal suo ufficio.

In molta parte dell’opinione pubblica occidentale, dopo il caso Snowden, il timore è quello di avere il «grande fratello» che guarda nella tua posta e nelle tua vita e questo grande fratello viene dipinto a stelle e strisce. «Da sempre gli Usa sono visti come leader e come capro espiatorio, non crediate che i cinesi non collezionino dati e non cerchino di essere veloci più di noi. Ma vorrei essere chiaro su due cose: la prima è che il progetto Prism è legale e rispetta le nostre leggi, la seconda è che non vogliamo controllare il mondo. Il mio Paese non è di certo perfetto ma a muoverci è sempre stata l’idea di avere società prospere, libere, stabili e sicure, non l’idea di dominare il mondo».

Tra i dossier che Thorne lascerà al suo successore ci sono il sistema di comunicazioni satellitari Muos, che avrà una delle sue basi a Niscemi in Sicilia e che è stato fermato dal governatore Crocetta, e il progetto per la costruzione dei cacciabombardieri F35. «Il Muos è un anello fondamentale per la nostra capacità di garantire le comunicazioni sia alle operazioni militari sia a quelle umanitarie. Le polemiche sono figlie di una mancanza di informazione sulla natura del progetto e sul suo impatto ambientale, due basi dello stesso tipo sono sul territorio americano e sono più vicine ai centri abitati e non ci sono stati effetti di alcun tipo sulla popolazione. Non ci sono pericoli per la salute come è stato appena confermato dalla relazione finale dell’Istituto Superiore di Sanità». 

Sugli F35 è evidente la soddisfazione per il procedere del progetto in Italia, anche se la strada non è in discesa in tempi di crisi economica: «Stiamo tutti combattendo con i budget e in ogni nazione si studia dove si possono fare tagli e efficienze, ma gli Stati Uniti restano totalmente impegnati in questo progetto. È una collaborazione che prevede scambi che non hanno precedenti nel mondo: partecipando l’Italia si trova in prima fila nel sistema integrato di difesa e guadagna lavoro e capacità tecnologiche notevoli. Ai contrari e agli scettici dico: qual è l’alternativa per rinnovare la flotta aerea? Esistono solo alternative più costose e che portano meno benefici economici».

Ora Thorne vola a Washington, tornerà a portare la palla all’amico di una vita John Kerry. Erano insieme all’università a Yale, poi si imparentarono quando l’ex candidato democratico alla presidenza sposò la sua gemella Julia. Hanno sempre giocato a calcio insieme, Thorne a centrocampo, Kerry in attacco: «Il ricordo più bello è del 1966 quando con la squadra di Yale battemmo Harvard con una tripletta di John». Non ha mai smesso di giocare e prima di lasciare Roma farà un’ultima partita con la squadra dell’ambasciata. Poi la nuova vita a Washington: «Ma il mio rapporto con l’Italia non è finito, me lo sento addosso e continuerò a raccontare agli americani la faccia migliore del vostro Paese».

da - http://lastampa.it/2013/07/21/esteri/qui-c-troppa-incertezza-litalia-ritrovi-entusiasmo-e-scommetta-sul-futuro-V8UIjPu767EHmV6DlznvGP/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Ma il conto non lo paghi il Paese
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:19:46 am
EDITORIALI
02/08/2013

Ma il conto non lo paghi il Paese

MARIO CALABRESI

Ora c’è da chiedersi se bisogna far pagare il conto della condanna di Berlusconi al Paese, a tutti gli italiani, o se per una volta la razionalità può prevalere. Se possiamo provare ad uscire dalla crisi in cui siamo sprofondati o se ci dobbiamo imbarcare in una nuova stagione di grida, lacerazioni e campagna elettorale (sempre con la stessa terribile legge, dettaglio da non dimenticare mai).
 
Enrico Letta ieri mattina, mentre i giudici della Cassazione entravano in camera di Consiglio, si riuniva per cominciare a preparare il semestre di presidenza italiana della Ue che inizierà il primo luglio dell’anno prossimo. L’unica salvezza pare quella di guardare avanti, caparbiamente, senza farsi travolgere dai colpi di coda di un ventennio di rissa continua.
 
Il Paese può immaginare un percorso, può sperare di vedere crescere quei fili d’erba di ripresa che vengono segnalati in alcuni segmenti produttivi (grazie soprattutto alle esportazioni), può sperare di vedere il segno positivo di fronte ai dati sul Pil a partire dal prossimo anno e avrebbe diritto ad avere un governo che su questo si concentra. Oggi in Italia la domanda è una sola: i miei figli troveranno lavoro, io salverò il mio? 
 
Tutto il resto non è fondamentale di fronte all’angoscia di un futuro che si sbriciola. 
 
La Cassazione si è pronunciata, un iter giudiziario è finito, si può protestare la propria innocenza e denunciare una persecuzione ma a questo punto non esistono scappatoie, spallate o forzature. Esistono solo iter che ci si augura siano corretti e ordinati. 
 
Il presidente della Repubblica ha invitato a rispettare la magistratura, il segretario del Pd Epifani fa capire che il suo partito è pronto a portare avanti l’esperienza di governo ma non a tollerare strappi istituzionali e colpi di testa del partito di Berlusconi. Siamo a un bivio, in poche ore potrebbe sfasciarsi tutto ancora una volta o si potrebbe finalmente vivere in un Paese in cui una sentenza, che colpisce un politico nelle sue vesti di imprenditore, non determina il destino di un governo.
 
Gli italiani assistono, la gran parte come spettatori, a questo finale. Guardano da fuori chi ha in mano il loro futuro e scrutano per vedere se verrà appiccato l’incendio. Sono convinto che quelli che lo auspicano siano una minoranza, non perché la maggioranza ami l’idea di un governo di larghe intese ma perché prevale lo sfinimento e la nausea verso la guerra totale. Una guerra che non ha costruito nulla e che ha trascinato la politica in fondo alla scala del gradimento e della stima. 
 
I prossimi giorni saranno cruciali, la navigazione sarà difficilissima, ma la domanda fondamentale è se la maledizione italiana, essere sempre prigionieri del passato, condannati a vivere con la testa che guarda all’indietro, sia destinata a protrarsi o possa svanire.
 
La Cassazione mette la parola fine, è sempre così, a un percorso e a una storia giudiziaria. E non deve certo essere l’inizio della nostra fine.

da - http://www.lastampa.it/2013/08/02/cultura/opinioni/editoriali/ma-il-conto-non-lo-paghi-il-paese-LkU1ZLLeNMCaM9zwos6cPI/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. L’abbaglio dello scontro totale
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 11:43:24 am
Editoriali
04/08/2013

L’abbaglio dello scontro totale

Mario Calabresi


Dove sono gli italiani pronti a una guerra civile per contrastare la sentenza della Cassazione? In giro non se ne vedono. E chi predica lo scontro totale ha perso ogni sintonia con gli umori e i bisogni dell’Italia di oggi.

In giro si incontrano tantissimi cittadini che la guerra vorrebbero invece farla alla disoccupazione e a una crisi che ha ridotto i giorni di vacanza e i sacchetti della spesa, aumentando invece paure e incertezze. Si vedono italiani sfiniti da una politica che è tornata a girare intorno a un uomo solo, alle sue vicende giudiziarie, alla sua rabbia. 

Chi chiede rispetto per otto milioni di elettori si ricordi che il rispetto lo si deve anche agli altri 50 milioni di italiani che vivono questo Paese. E che tutti, a partire proprio dagli elettori di destra e dall’opinione pubblica moderata, non meritano tutto questo. Meritano che ci si occupi dei loro bisogni, dei negozi che chiudono, delle aziende che soffocano, delle tasse troppo alte e non che ci si infili in una nuova guerra che darà il colpo di grazia alla nostra economia.

Il percorso è uno solo: le sentenze vanno rispettate, così le forme della democrazia, e non si può immaginare di ricattare contemporaneamente il Presidente della Repubblica, il governo e gli italiani.

Resto convinto che le urne sarebbero una sconfitta tragica e ci precipiterebbero di nuovo nel caos: la stabilità oggi è un valore primario, prima di tutto per i cittadini comuni, ma per averla non si possono accettare la paralisi e lo stravolgimento delle regole. E’ tempo di normalità e non di proclami, di pazienza, di menti lucide e serene che guardino lontano. Questo si aspetta un Paese col fiato sospeso. 

da - http://lastampa.it/2013/08/04/cultura/opinioni/editoriali/labbaglio-dello-scontro-totale-H9iaDME9cF4Q0bzGMQ1HpM/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Il campioncino di arrampicata non aveva sbagliato nulla
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 11:26:01 pm
Lettere al direttore
03/09/2013

Il campioncino di arrampicata non aveva sbagliato nulla

Mario Calabresi


Riprendo a rispondere alle vostre lettere facendo un passo indietro, tornando al 10 luglio scorso. Quel giorno pubblicai una mail che parlava di Tito Traversa, il piccolo campione di arrampicata scomparso pochi giorni prima, a soli 12 anni, in una palestra di roccia francese. 

 

In quella lettera si diceva che se una colpa poteva avere il padre, era solo quella di avere trasmesso al figlio una passione profonda per la montagna.

Io avevo risposto spiegando di condividere pienamente quelle parole ma sottolineando che fino a quel momento «non ero riuscito a scrivere della morte del piccolo arrampicatore perché oscillavo tra la profonda pietà per i genitori e un sentimento di rabbia per un bambino mandato in parete così giovane».

 

Oggi mi dispiace di aver provato questi sentimenti e di averne scritto, ho avuto modo di approfondire questa storia e di parlare con il papà di Tito, Giovanni, che mi ha aiutato a capire che il bambino non stava praticando avventura, ma sport. 

Come ha scritto Reinhold Messner: «Tito non praticava alpinismo ma arrampicata libera: la stessa differenza che passa tra scendere con gli sci da una parete e sciare in pista». 

 

L’arrampicata libera è uno sport dove la caduta durante una salita al limite delle proprie possibilità non è un fatto eccezionale ma è la regola, e quindi lo si fa con tutte le protezioni necessarie e il rischio della vita non esiste. Tito non ha sbagliato nulla, non ha commesso imprudenze, ma è morto perché altri - quelli che avevano preparato l’attrezzatura - avevano sbagliato a montarla. 

Oggi anche la magistratura francese e quella italiana stanno giungendo alle stesse conclusioni.

Ci tenevo a dirlo, non solo perché era giusto nei confronti di un padre, ma anche per onorare la memoria di un bambino speciale che aveva «una gioia, una passione e un talento per l’arrampicata incontenibili».

da - http://www.lastampa.it/2013/09/03/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/il-campioncino-di-arrampicata-non-aveva-sbagliato-nulla-CLfByNBKY9a6TEkhBH8V4N/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Nuovi senatori a vita, segnale per gli italiani e per gli ...
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 11:27:23 pm
Lettere al direttore
04/09/2013

Nuovi senatori a vita, segnale per gli italiani e per gli stranieri

Mario Calabresi


Mi ricordo ancora quando il 20 giugno 2012 la dottoressa Chiara Mariotti dell’Istituto Nazionale di Fisica nucleare, con una nota di commossa passione della voce, ricordò a noi ragazzi della Scientific Summer Academy tutti gli sforzi compiuti, tutte le speranze nutrite e le sofferenze patite da centinaia di ricercatori e scienziati del Cern durante lo svolgimento del loro lavoro, il quale avrebbe presto condotto, come è ben noto, all’imminente comunicazione ufficiale della scoperta del bosone di Higgs.

Ricordo anche quando il 22 luglio scorso la dottoressa Elena Cattaneo, ricercatrice presso l’Università di Milano, ricordò ai corsisti della Normale la notevole importanza dell’impegno e della passione, binomio che deve essere costantemente presente nel lavoro di un ricercatore, in Italia spesso sottovalutato e sottopagato (poi ci si lamenta della fuga dei cervelli!); con grande professionalità e autorevolezza ci parlò inoltre delle ultime «faticose conquiste» in materia di cellule staminali, le quali, come lei stessa precisò, costituiscono di fatto la nuova frontiera delle «fantasiose cure» per le malattie neurologiche. Citando incidentalmente la Normale, non ho reso giusto spazio agli indubbi meriti di Carlo Rubbia, vincitore del Premio Nobel per la Fisica nel 1984 insieme al collega Simon van der Meer.

Ecco, è questa a mio avviso l’Italia che vale e che deve essere presentata agli occhi degli altri Stati: non i piccoli drammi interiori dei parlamentari, che ormai intessono il mondo della politica sprofondandolo in un pantano di fango e veleno; non gli scandali privati di quest’attrice o quel conduttore, che potranno essere, sì, interessanti, ma straordinariamente monotoni e ripetitivi; non l’Italia di Calciopoli e Mani pulite, in cui il personaggio storico più conosciuto è San Siro e lo scrittore più noto Fabio Volo. Non un’Italia di tangenti e corruzione, ma un’Italia di studiosi e appassionati del proprio lavoro, che possibilmente «illustrino la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»: ecco, questa è l’Italia che dobbiamo presentare agli occhi degli altri ma, prima di tutto (e soprattutto), agli occhi degli stessi italiani.

Federica Cresto, studentessa di Liceo Classico,
 

Luserna San Giovanni (TO)
 

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Abbiamo ricevuto molte lettere dopo la nomina dei quattro senatori a vita, lettere di ogni genere e sentimento, e non sono mancate quelle che criticavano la scelta stessa di fare quattro nuovi senatori, quelle che si concentravano sui soldi che avrebbero preso e quelle che si focalizzavano sull’età della scienziata Elena Cattaneo.

Grazie al cielo ce n’erano altre che coglievano il segnale mandato agli italiani e agli stranieri, che questo Paese non è solo capace di scandali e corruzione, ma anche di produrre eccellenze. La lettera che ho scelto lo spiega benissimo e io sono francamente rimasto impressionato dalla grettezza di certe polemiche, a partire da chi si è esercitato sulle possibili aspettative di vita della Cattaneo. Sembra di capire che la studiosa impegnerà una parte della sua indennità per sostenere giovani ricercatori. Sarebbe una bellissima lezione ai malpensanti di professione.

Quanto agli altri, è la Costituzione a prevedere i senatori a vita e a prevedere che siano scelti tra «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

Fa sorridere vedere che tra i critici della scelta ci siano molti che poi gridano alla sola idea di riformare la nostra Carta. La Costituzione, come le leggi, non può piacerci a intermittenza e a seconda delle nostre convenienze.


da - http://www.lastampa.it/2013/09/04/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/nuovi-senatori-a-vita-segnale-per-gli-italiani-e-per-gli-stranieri-RvnLulSWrwnl10JxGllKCN/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Una certa idea del giornalismo
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2013, 08:55:01 am
Editoriali
09/09/2013

Una certa idea del giornalismo

Mario Calabresi


Domenico è un uomo libero. Libero di raccontare: « È stata una terribile esperienza», è la prima cosa che mi ha detto «ma sai qual è la mia idea del giornalismo: bisogna andare dove la gente soffre e ogni tanto ci tocca soffrire come loro per fare il nostro mestiere». 

 

La notizia del suo ritorno è arrivata ieri sera, poco prima di cena: è stata un’emozione fortissima. Quando ho chiamato Giulietta, la moglie, non riuscivamo quasi a parlare, poi lei ha detto: «Non so neanche come sto, ma so che ce l’abbiamo fatta». La forza è stata di averci sempre creduto, di non aver abbandonato la speranza, di aver tenuto vivo un filo, anche in quei due primi terribili mesi nei quali non arrivava nessun segnale, quando Domenico sembrava scomparso nel nulla. 

 

Crederci ha significato non lasciarsi sprofondare nello sconforto e non perdere la testa. Giulietta e le figlie sono state capaci di farlo, anche con un velo di ironia, tanto che per scaramanzia non avevano voluto tagliare l’erba del prato di fronte a casa, era un lavoro del papà e spettava a lui tornare e farlo. 

 

Anche qui, al suo giornale, gli amici e colleghi hanno saputo aspettare con fiducia e hanno rispettato il silenzio, dando prova fortissima di essere una vera squadra. 

 

Poi è arrivata quella telefonata, il 6 giugno, e avevamo sperato che tutto potesse finire in fretta. È stato durissimo rendersi conto che invece sarebbe stata ancora lunga. E durissimo è stato non farsi contagiare dalle voci e dalle segnalazioni che raccontavano che era morto. 

 

Se oggi Domenico Quirico, che era stato rapito dopo essere entrato in Siria dal confine libanese, è stato liberato lo dobbiamo a un formidabile impegno di tutti gli apparati dello Stato che hanno lavorato al caso con una passione e una dedizione incredibili.

 

Avere fiducia è significato scommettere su questo lavoro coordinato dall’Unità di crisi della Farnesina - a cui hanno dato sempre il loro apporto in prima persona Emma Bonino e Enrico Letta - senza cercare strade alternative, che potevano essere allettanti ma anche disastrose.

 

Avevamo sperato che la svolta potesse arrivare proprio in questi giorni, prima di un possibile intervento americano in Siria che può creare ancora più caos in un’area che è al centro dei combattimenti. Se Domenico è libero è proprio perché sono stati intensificati gli sforzi per liberarlo, in una corsa contro il tempo. 

Domenico ora torna a casa e da oggi non troverete più il fiocchetto giallo sulla testata del giornale, ma non dobbiamo dimenticare che in quella terra tragica resta ancora rapito Padre Dall’Oglio.

 

Il nostro grazie va a tutti i lettori, ai colleghi degli altri giornali, delle radio, delle televisioni e dei siti, e a tutti gli italiani che ci hanno fatto sentire la loro solidarietà e l’affetto.

 

Adesso Domenico potrà raccontarci questa lunga storia, ma prima di tutto dovrà tagliare l’erba.

da - http://lastampa.it/2013/09/09/cultura/opinioni/editoriali/una-certa-idea-del-giornalismo-MWyZ6Dl2anaar8FlSHDNDI/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Quirico, un giorno per riscoprire il mondo
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 05:19:49 pm
Editoriali
10/09/2013

Quirico, un giorno per riscoprire il mondo


Mario Calabresi


L’aereo era appena decollato da Torino, alle 6 e 40 di ieri mattina, quando Giulietta Quirico, seduta accanto al finestrino, ha visto il cielo colorarsi di arancione e si è lasciata andare: «Non ho chiuso occhio anche stanotte ma finalmente per noi è l’alba di un nuovo giorno».

 

Nella borsa che ha preparato in fretta l’abito grigio, la camicia a righe e la cravatta regimental per quel marito che non vede da 156 giorni. All’atterraggio il traffico di Roma ritarda l’incontro previsto per le 8 alla Farnesina. Le squilla il telefono, è Claudio Taffuri, il capo dell’Unità di crisi, che le chiede dove sia finita, dice che Domenico l’attende con ansia. Allora lei con una certa ironia risponde: «L’ho aspettato per cinque mesi, adesso non sarà un dramma se mi aspetta lui per cinque minuti».

 

L’incontro è commovente, poi Domenico corre a cambiarsi e smette i panni del prigioniero, dell’uomo costretto a vegetare per quasi due stagioni: «Mi hanno rubato una primavera e un’estate, era come se fossi su Marte, sono stato tagliato fuori dal mondo». E per un giorno intero mi chiederà di aggiornarlo su tutto, con lo stupore di un bambino che deve recuperare il tempo perduto.

 

Sull’aereo che lo riportava in Italia ha chiesto chi fosse diventato presidente della Repubblica, quando gli hanno risposto Napolitano ha ribattuto: «No, intendo quello nuovo...», poi ha avuto conferma che il capo del governo è Enrico Letta. Quando era partito c’era ancora Pierluigi Bersani che cercava di formare una maggioranza, poi una sera ha intravisto dal televisore dei suoi carcerieri le immagini, su Al Jazeera, della fase finale del G8. «Ero lontano non sentivo l’audio e quando i leader si sono messi in posa per la foto ricordo ho visto un signore che non era Putin, non era Obama, non era la Merkel, non era Hollande, non era Cameron, non era giapponese e non era neanche il canadese così mi sono detto: mah... quello deve essere l’italiano e mi è sembrato Enrico Letta, però fino a ieri mi sono tenuto il dubbio. E poi i rapitori continuavano a ripetermi: “Ma tanto ci penserà Berlusconi a salvarti”, convinti che fosse sempre lui il capo del governo».

 

Quando poi al fondo della scaletta ha visto Emma Bonino si è commosso: «Mai più avrei immaginato che fosse diventata ministro degli Esteri, la conosco da vent’anni, dall’epoca del genocidio in Ruanda, che è un po’ la nostra storia ed è un po’ la storia di tutte queste terribili vicende che io racconto da anni e lei ha contrastato battendosi come ha sempre fatto». La Bonino lo ha accompagnato a Palazzo Chigi, ad incontrare Enrico Letta. Nella sala d’angolo che era stata lo studio di Berlusconi e poi di Monti e che oggi è tornata a funzionare come luogo di rappresentanza, dopo il premier è entrato Angelino Alfano e Domenico ha strizzato gli occhi. Più tardi, sottovoce e con garbo, mi ha chiesto cosa ci facesse nella sede del governo e quando gli ho spiegato che è ministro dell’Interno e vicepremier è rimasto a bocca aperta: «Quando ho visto Letta e Alfano insieme ho pensato di sognare, non riuscivo a capire, adesso invece ho capito che la politica è proprio l’arte dell’impossibile».

 

Ma a stupirlo più di tutto sono stati i fatti di politica internazionale, quelli che ha sempre seguito con passione, senza perdere mai una notizia, una sfumatura, un dettaglio e nel tempo breve del viaggio di ritorno verso Torino ha dovuto fare i conti con il nuovo sconvolgimento del Medio Oriente e la fine delle primavere arabe. Mai avrebbe scommesso sulla vittoria di Rohani alle elezioni iraniane e i suoi occhi si muovevano veloci a cercare di immaginare le conseguenze, così ha una voglia matta di capire cosa sia successo in Qatar, perché l’emiro abbia abdicato e il Paese abbia ripiegato dopo la sua politica aggressiva d’influenza su tutta la regione. 

 

Ma la cosa che lo ha sconvolto di più è stata la notizia del golpe egiziano, con l’arresto di Morsi e l’uscita di scena del Fratelli Musulmani. «Ma si sono lasciati estromettere così, senza combattere?». Quando gli ho spiegato che le piazze si sono incendiate, che l’esercito ha sparato sulla folla dagli elicotteri, allora gli è venuto un nodo in gola: «Quante cose non ho visto, quante cose avrei potuto raccontare». Solo nel momento in cui gli ho detto «... e invece hanno fatto uscire dal carcere Mubarak» mi ha guardato storto pensando che lo prendessi in giro.

 

Gli ho poi raccontato della Shalabayeva, del rimpatrio forzato in Kazakhstan della moglie e della figlia dell’oligarca dissidente Ablyazov e si è fatto ripetere la storia due volte perché non riusciva a capirla, ha chiesto chi sia favorito alle elezioni tedesche e non s’è stupito che la nostra politica sia paralizzata dalle questioni giudiziarie di Berlusconi.

 

Mi sono dimenticato di dirgli che abbiamo visto il vecchio Papa e quello nuovo pregare insieme e che gli americani sono finiti in un nuovo scandalo spionaggio, ma è stato perché, dopo una giornata intera in cui aveva raccontato a tutti della disperazione della Siria e della sua prigionia, aveva voglia di evadere un momento. 

 

Mentre atterravamo ha chiesto chi avesse vinto il campionato e i colpi di mercato del suo Milan. Prima gli ho detto della Juve e della cessione di Cavani, poi, pensando di restituirgli il sorriso, gli ho annunciato il ritorno di Kakà. Si è messo le mani davanti agli occhi: «Questa proprio non ci voleva, non l’ho mai sopportato, averlo saputo sarei rimasto in Siria...». 

da - http://lastampa.it/2013/09/10/cultura/opinioni/editoriali/quirico-un-giorno-per-riscoprire-il-mondo-P1d4d8uLtMFtVVtF184IiP/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Ora basta, pensate al Paese
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:07:39 am
Editoriali
29/09/2013

Ora basta, pensate al Paese

Mario Calabresi

A metà di un sabato pomeriggio in cui gli italiani cercavano di godersi le ultime ore di clima mite, prima della pioggia che annuncia l’autunno, è arrivato improvviso il gelo di una crisi inutile e disastrosa. 

La decisione a sorpresa di Silvio Berlusconi di far dimettere i suoi ministri, per far crollare il governo, è un colpo durissimo per il nostro Paese. Un’umiliazione che ci sprofonda nel caos, nella mancanza di credibilità, che ci rimette sotto esame, che conferma ogni peggior
stereo-
tipo sugli italiani. 

Oggi è il compleanno del Cavaliere, compie 77 anni, ma il regalo che ha fatto agli italiani è amarissimo. Non si tratta soltanto dell’aumento
dell’Iva o del rischio di dover pagare l’Imu, cosa su cui si continuerà a discutere e che fa parte delle opposte propagande, ma del lavoro e degli sforzi gettati via e dell’impossibilità di concentrarsi sul salvataggio dell’Italia.

È quasi inutile mettersi a ricordare la situazione nella quale siamo: la mancanza di lavoro, di speranze, di prospettive; il coraggio che moltissimi devono mettere in campo ogni giorno per andare avanti; la disperazione di chi deve abbassare una saracinesca per sempre o di chi ha ricevuto la lettera di licenziamento. Inutile anche gridarlo di fronte a chi è sordo ai problemi di tutti.

Nei Paesi normali, quelli noiosi in cui le elezioni si tengono a scadenze fisse, i cambi di governo sono considerati traumatici perché ogni volta bisogna rimettere in moto la macchina con guidatori nuovi. Noi ci permettiamo il lusso - suicida - di farlo per la seconda volta nello stesso anno. Con un disprezzo totale della vita dei cittadini e dei loro problemi. 

In Francia è appena stata varata una commissione che dovrà stilare un rapporto per immaginare come sarà il Paese tra dieci anni, per programmare politiche capaci di interpretare e guidare i cambiamenti. Il nostro orizzonte invece si è ridotto ad una manciata di ore. Non abbiamo nemmeno più la vista breve, sembriamo condannati alla cecità.

Nella settimana in cui dovremmo solo discutere del fatto che la prima azienda telefonica nazionale passa in mani straniere o che la nostra compagnia aerea di bandiera presto non sarà più tricolore, siamo risucchiati nel gorgo dei problemi giudiziari di un uomo solo.

Un uomo solo, che può gridare all’ingiustizia e alla persecuzione, ma che non ha il diritto di trascinarci a fondo tutti, di toglierci la possibilità di tornare a respirare.

Tra quindici giorni andrà presentata la legge di stabilità, il passaggio chiave per chi come noi ha i conti pubblici a rischio; il 15 novembre arriveranno le pagelle europee; il nostro debito è risalito pericolosamente; il Fondo Monetario proprio due giorni fa è tornato a parlare di Italia a rischio: E noi, che avremmo un disperato bisogno di uno scudo di protezione e di credibilità, ci presentiamo al giudizio nudi e disarmati.

Questa settimana Letta era a parlare a Wall Street, per rassicurare sulla nostra stabilità, pensate allo sconcerto o alle risate (a seconda che ci amino o no) che si stanno facendo in giro per il mondo. 

Avremmo bisogno di alzare la testa, dare spazio all’energia e alla razionalità e provare a immaginare e costruire, partendo dai problemi reali,
un’altra Italia. 

Un’Italia in cui alla possibilità di dare un contratto di lavoro a un giovane sia attribuita la stessa dignità e importanza dei problemi giudiziari di Berlusconi. In cui si capisca, come ci raccontava su queste pagine con grande lucidità e efficacia il professor Enrico Moretti, che avere una compagnia aerea di bandiera con una base di voli internazionali non è uno sfizio ma una necessità vitale per far crescere l’occupazione e ogni tipo di commercio.

In cui ci si interroghi sul futuro possibile della sanità pubblica, sulle cure che ci potremo permettere, sull’importanza della ricerca e degli investimenti in istruzione per ripartire.

Un’Italia in cui non si vive prigionieri delle guerre tra falchi e colombe, ma in cui il semplice cittadino che sta aspettando un colloquio e il grande imprenditore che deve decidere un investimento non vedano vanificati i loro sforzi dai risultati di un pranzo del sabato in Brianza.

Gli italiani meritano rispetto. È tempo di chiarezza, di passaggi netti, definitivi. 

Sappiamo con certezza che la maggioranza dei politici del Pdl non approva questa decisione. Sarebbe ora che trovassero la dignità e la forza di non scambiare l’affetto, la fedeltà e la riconoscenza per il Capo con l’adesione a un gesto che fa del male a tutto il Paese. 

E sarebbe il tempo in cui tutti quelli che pensano di appartenere ad una comunità fatta di sessanta milioni di persone e non ad una parte, avessero il coraggio di dire: «Questa volta viene prima l’Italia».

da - http://lastampa.it/2013/09/29/cultura/opinioni/editoriali/ora-basta-pensate-al-paese-TFT0513LINfsaXeZ24LVjN/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. La cultura dà anche da mangiare a Natale regaliamo un libro
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:50:45 pm
Lettere al direttore
19/11/2013

La cultura dà anche da mangiare a Natale regaliamo tutti un libro

Mario Calabresi

Gentile Direttore, 

si sta nuovamente avvicinando il momento del Natale, con tutta la sua strana fusione tra la celebrazione di un rito religioso e quella di un rito pagano quale può essere la corsa agli acquisti e ai regali, da donare da lì a poco. 

Ecco, a proposito di regali, sarebbe bello se in tanti si ricordassero e tenessero a memoria un vecchio manifesto dedicato al valore del Libro come regalo. Se non ricordo male, recitava così... è bello regalare un libro perché:... è un modo diverso per dire Ti amo; un modo insolito per dire Ti penso; un modo intelligente per dire Grazie. 

Poi, ora che ci troviamo in questa lunga fase di recessione, è anche un modo per sostenere qualcosa che è ancora quasi interamente prodotto in Italia, e in alcuni casi anche a livello locale. Una buona azione di civiltà, in un Paese che anche in questo caso riesce a distinguersi nel modo peggiore, essendo tra le ultime per diffusione e assorbimento di materiale culturale. 

Regaliamo tutti un buon libro, e ricordiamo così agli altri che «istituire biblioteche e librerie è come edificare granai pubblici, ammassare riserve contro un imminente inverno dello spirito» (Marguerite Yourcenar, scrittrice francese, 1903-1987). 

Angelo Farano Taranto
 


Mi sembra una bellissima idea, che sottoscrivo, perché come molti di voi stanno testimoniando ogni sabato nello spazio su «I migliori libri della nostra vita», un libro è davvero capace di allargare e allungare la nostra esistenza. E poi vale la pena sostenere tutti quelli che sono ancora convinti che la cultura dia anche da mangiare. 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/19/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/la-cultura-d-anche-da-mangiare-a-natale-regaliamo-tutti-un-libro-ruJptxc1Xut4Rp7NVDEy7L/pagina.html


Titolo: Lettere al direttore Primo Levi mi è sempre vicino per me non se ne è mai andato
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2013, 04:19:49 pm
Lettere al direttore
23/11/2013

Primo Levi mi è sempre vicino per me non se ne è mai andato

Nei primi anni Settanta frequentavo la terza media in un piccolo paese della provincia di Torino. L’insegnante di lettere decise di farci leggere collettivamente La tregua di Primo Levi; nessuno di noi sapeva chi fosse, né cosa avesse scritto, quindi l’insegnante ci presentò in una lezione l’autore. 

Era un ebreo torinese che era stato deportato nei campi di concentramento, ma questa descrizione innescava immediatamente per noi sprovveduti tredicenni altre tre precisazioni: ebreo, deportato e concentramento. L’insegnante cercò con molta delicatezza e con molta professionalità di spiegarceli, precisando che La tregua era il seguito di un altro libro: Se questo è un uomo, che raccontava l’esperienza della deportazione. 

Le chiedemmo perché eravamo passati al secondo libro saltando la lettura del primo e lei fu molto attenta nel precisare che la lettura di Se questo è un uomo l’avremmo fatta più avanti negli anni. Secondo lei la tragedia della Shoah era troppo sconvolgente per poter essere affrontata da dei tredicenni ancora all’oscuro degli abissi in cui era capace di sprofondare l’umanità, ci sarebbe stato un tempo anche per quello, ma non era quello. Volle però farci imparare a memoria la poesia Se questo è un uomo, perché secondo lei in quei versi di Primo Levi c’era condensato tutto il dramma dell’uomo nei lager. Come dargli torto:

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

La tregua riuscì ad affascinare immediatamente tutta la classe, eravamo in tanti a leggere oltre le pagine che la professoressa ci assegnava come compito, e fummo in molti a finirlo con largo anticipo. Il viaggio di questo gruppo di uomini attraverso l’Europa distrutta dalla guerra, il forte legame di amicizia che l’accompagna, i personaggi che fanno da contorno a questa sorta di Odissea ci coinvolsero al punto che finivamo per raccontarceli, come se fosse un film, prima del suono della campanella d’ingresso. 

Un storia meravigliosa, carica di speranza e di voglia di ricominciare, nonostante tutto l’orrore visto e subito. Fu così che Primo Levi entrò nella mia vita; mi è stato sempre vicino nel corso di questi anni e da allora non è mai più andato via.
Claudio Bessone

Da - http://lastampa.it/2013/11/23/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/primo-levi-mi-sempre-vicino-per-me-non-se-ne-mai-andato-Fpq6lsbdt7pxZATX6sSwgO/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Sono finiti gli Anni Settanta
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 11:43:16 am
Editoriali
10/12/2013

Sono finiti gli Anni Settanta
Mario Calabresi

Gli Anni Settanta sono finiti domenica sera, sono stati archiviati dal maggiore partito della sinistra italiana e dai suoi elettori. La notizia è significativa perché solo lì poteva accadere, come solo lì potranno essere ridisegnati i rapporti tra la politica e il sindacato in Italia.

Nel 1992 Bill Clinton venne eletto presidente degli Stati Uniti, il primo a non essersi formato durante la Seconda Guerra Mondiale come tutti i suoi predecessori e come i suoi sfidanti in quell’elezione (Bush padre) e quattro anni dopo (Bob Dole). Tra i suoi predecessori la stessa rottura era stata fatta da John Kennedy, primo presidente del Novecento a non essere nato nell’Ottocento. In entrambi i casi ci fu un cambio di retorica e di riferimenti culturali che aiutarono l’America a cambiare rotta.

Oggi abbiamo un segretario del Partito democratico che è andato in prima elementare quando erano già cominciati gli Anni Ottanta e un presidente del Consiglio che in quel decennio ha fatto il liceo. 

Di quel periodo si è già parlato ampiamente, dei riferimenti, delle mode e della cultura che si portano dietro, ma quello che colpisce ora è che nessuno dei due protagonisti del confronto sul governo, sul suo futuro e sulla legge elettorale si sia formato negli Anni Settanta, abbia partecipato a quella stagione di dibattito, abbia potuto militare nei movimenti di quel periodo o anche semplicemente votare comunista. Non è questa l’occasione per dare un giudizio di merito, ma penso che sia notevole che una tradizione formatasi in quel tempo sia stata superata con il voto determinante di cittadini la cui età anagrafica, provenienza sociale e geografica parlava invece proprio quella lingua.

Non è successo qualcosa contro, anche se i toni del Renzi rottamatore dello scorso anno andavano in quella direzione, ma qualcosa dentro. E’ dentro il mondo della sinistra che è emerso lo sfinimento per una storia che si era avviluppata su se stessa e che non aveva più alcuna spinta propulsiva. Da troppo tempo la sinistra italiana era chiusa in difesa, incapace di connotarsi con proposte innovative presa com’era a definirsi in contrapposizione: contro i cambiamenti nella scuola, nell’università, nella sanità, della Costituzione, nel mondo del lavoro, ma soprattutto legando la sua identità all’antiberlusconismo.

Tutto ciò era privo di ossigeno, incapace di costruire speranza, di rimettere in circolo idee coraggiose. Troppi dibattiti sono stati fatti in questi ultimi anni senza tenere conto della realtà in cui viviamo, senza preoccuparsi di dare risposte chiare ai bisogni e alle urgenze di oggi, ma con la testa girata all’indietro cercando le soluzioni in prassi e tradizioni vecchie di mezzo secolo.

 
Una classe dirigente che sembrava inamovibile è stata messa da parte nell’ultimo anno e più nettamente in questo fine settimana. E le conseguenze saranno molte e definiranno il futuro del nostro Paese. Prima di tutto cadrà uno degli alibi della paralisi che porta molti italiani a disimpegnarsi o a cercare vie di fuga, quello che qui nulla cambia. Oggi abbiamo il Parlamento più giovane e con più donne nella storia d’Italia, adesso di una nuova generazione sono anche i leader. 

Non c’è più la giustificazione maestra, chi è giovane da domani non potrà più denunciare lo strapotere dei vecchi, anche perché il terremoto della crisi sta spazzando via intere classi dirigenti, basta guardare cosa è successo nella Lega o nel centrodestra, dove Berlusconi cerca di sopravvivere ma si allarga il fronte di chi si affranca. Perfino nell’economia e nella finanza sono crollati santuari che a lungo erano parsi granitici e intoccabili.

Di certo i problemi di domani sono sempre gli stessi di ieri, la mancanza di lavoro e di prospettive, lo sbilanciamento delle tutele in favore di chi un posto ce l’ha e la lentezza di reazione e risposta. Non sappiamo se i nuovi protagonisti saranno migliori, perché essere giovani non significa automaticamente essere più bravi e di certo non significa essere più preparati o saggi - e la data di nascita come unico merito può giocare brutti scherzi -, ma sappiamo che potrebbero essere diversi, più in sintonia con la società in cui viviamo e con le sue richieste.

Chi prende il timone oggi deve guardarsi da tre mali che ci affliggono da troppo tempo: il cinismo, il conservatorismo e quel ritornello micidiale del «Non si può fare». Così come abbiamo fatto finora ci ha portato nella palude in cui viviamo, è tempo di provare ad andare in altre direzioni, di scardinare convinzioni consolidate e di assumersi qualche rischio con coraggio e fantasia.

C’è da augurarsi che dalle generazioni precedenti, i nostri nuovi leader non ereditino il vizio della sfida continua, che il duello Letta-Renzi non ricalchi i passi di quello decennale tra D’Alema e Veltroni, non perché non siano sane le differenze e il confronto delle idee, ma perché non sarebbe male smettere di farsi del male.

Molti oggi dicono che Renzi è arrivato troppo tardi, che il cambiamento andava fatto prima, che se è successo adesso è solo merito dell’anagrafe, ma a me viene in mente una frase che Papa Francesco ripeteva a chi doveva subire insieme a lui veti e ostracismi: «Il tempo vince sempre sullo spazio». 

E’ un bel messaggio di fede, ma quando arriva il tempo giusto e si è riusciti anche a conquistare lo spazio allora comincia la partita più complicata: dimostrare di essere all’altezza.

Da - http://lastampa.it/2013/12/10/cultura/opinioni/editoriali/sono-finiti-gli-anni-settanta-tlbCHZLKqoLTDVNO9gNYeI/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI & GRAMELLINI - Dialogo semiserio sull’anno che verrà
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:01:57 pm
Editoriali
24/12/2013

Dialogo semiserio sull’anno che verrà

Mario Calabresi e Massimo Gramellini

Calabresi: «Spieghiamo subito il titolo. Normalmente che cosa fa uno che ha perso?»

Gramellini: «In Italia? Si lamenta dell’arbitro».

Cal: «Lamentarsi non serve a niente. Farebbe molto meglio a dire: ci riproviamo».

Gram: «Ottimo proposito. Lo metterò in lista, il 31 dicembre».

Cal: «Quest’anno si ha quasi paura di fare la lista dei buoni propositi e dei desideri per il 2014. Paura di restarci male. Esiste una nuova forma di pudore, quello che frena la speranza. Invece bisogna riprovarci, anche se ci siamo fatti male troppe volte».

Gram: «Nei cuori e nelle teste è passato il principio che l’Europa abbia perso la terza guerra mondiale contro la Cina. Dovevamo essere noi a esportare i diritti civili e sindacali in Oriente. Invece sono stati i cinesi a esportare qui i loro stipendi».

Cal: «È proprio questo senso di declino inesorabile che dobbiamo combattere. Il mondo va avanti, il futuro è qualcosa di non scritto».

Gram: «Di sicuro è qualcosa che non possono scrivere gli altri per noi. Un ragazzo, simpaticissimo, mi ha mandato questa mail: “Io amo la mia Patria, anche se lei mi trascura. Ma io sono cocciuto e fedele, non smetterò mai di amarla. Perciò resto qui, fermo e fiducioso, in attesa che la Patria bussi alla mia porta con un lavoro».

Cal: «E tu cosa gli hai risposto?»

Gram: «Di andare nel mondo a cercarselo, il lavoro. Lasciando sulla porta un biglietto con il suo numero di cellulare, casomai la Patria bussasse».

 

Cal: «Guarda il lato positivo: quel ragazzo crede ancora nelle istituzioni. La nausea verso la politica è forte, ma è più forte il fastidio verso la rissa politica, le urla e le promesse mirabolanti. Gli italiani hanno un bisogno straordinario di normalità: i sondaggi dicono che la maggioranza dei cittadini non ha nessuna voglia di tornare a votare».

Gram: «Si vede che io faccio parte della minoranza. Perché avrei voglia di andare alle urne al più presto, appena qualcuno si degna di apparecchiare una legge elettorale decente. Servono un cambio di passo e un’iniezione di energia, non possiamo permetterci un altro anno di ammuina».

Cal: «Ma non ti ha colpito cosa è successo con il movimento dei forconi? Nel giro di due giorni la protesta si è sgonfiata. Ha prevalso la richiesta di normalità, il rifiuto degli scontri, dei blocchi, delle serrande abbassate. Diciamo la verità: gli italiani non sognano la rivoluzione, ma negozi aperti in cui poter tornare a comprare e strade libere per ricominciare ad andare in vacanza». 

Gram: «Ma se non torna a girare l’economia, come faranno a comprare e ad andare in vacanza? So bene che l’Italia deve pagare un mare di debiti accumulati nei secoli dei secoli, però i debiti si onorano quando si è nelle condizioni di farlo. Se per pagarli in tempi di magra si continuano a drenare le tasche dei ceti medio bassi, finiremo come quel malato di cui il medico disse: “Tecnicamente è guarito, ma purtroppo è morto”».

Cal: «Ti ripeto: io vedo in giro rabbia, indignazione, disperazione, ma anche tanto desiderio di normalità. Perfino nei gusti dei bambini. Il cartone animato dell’anno è stato Peppa Pig. I piccoli lo amano perché è semplice, lineare, solare e perché finisce sempre con una risata».

Gram: «E con una rotolata collettiva nel fango, materiale con cui - qui in Italia - abbiamo una certa dimestichezza. È stato un anno di alluvioni, insulti e scandali. Questo Paese è da ricostruire dalle fondamenta, e non è solo una metafora».

Cal: «Bisogna ricostruire e ripartire. Questo inserto che La Stampa pubblica da anni, cercando di raccontare il mondo che verrà, vuole proprio segnalare dove si torna a camminare. Ma soprattutto vuole indicare che la chiave del futuro è il coraggio di scegliere. Di prendere una strada e una direzione, senza perdersi nella rabbia e nel risentimento».

Gram: «La paura è conservatrice. Mi permetto di suggerire ai lettori l’esperimento raccontato da Chiara Gamberale nel suo ultimo romanzo: provare ogni giorno, per dieci minuti, a fare qualcosa che non hai mai fatto prima. Camminare all’indietro, telefonare a uno sconosciuto. È un gioco serissimo che ti scongela il cervello e può cambiarti la vita».

 

Cal: «Ci proverò. Dovrebbe provarci anche la nostra classe politica, anche se temo che l’appuntamento con le elezioni europee si trasformerà nel solito circo propagandistico in cui non si parlerà di Europa, di quello che ci può dare davvero, ma di irrealistici referendum sulla moneta. E, quel che è più grave, si voteranno candidati improbabili, senza nemmeno controllare se sono in grado di farsi capire a Bruxelles o di portare a casa soldi e finanziamenti».

Gram: «L’establishment sa le lingue, ma ha fallito. I cittadini lo considerano colpevole della crisi, non si fidano più. Mi ha colpito il caso Stamina, messo a nudo proprio dal nostro giornale: il fatto che gli scienziati più autorevoli abbiano bocciato il metodo non ha minimamente scalfito le certezze dei devoti. Intendiamoci: quando sei disperato hai tutto il diritto di illuderti. Ma in Italia c’è qualcosa di più, è passato il principio che qualsiasi cosa provenga dal potere ufficiale sia di per sé menzognera o comunque manipolata. Però nessuno può vivere a lungo senza credere in nulla».

Cal: «E pensare che l’establishment sta cambiando. Guarda cosa è successo in Vaticano… Ma quello che abbiamo vissuto è stato anche l’anno del ricambio generazionale nella politica italiana. Nel 2014 scopriremo se è servito a qualcosa, se i giovani sono capaci di fare meglio o perlomeno di comportarsi in maniera diversa».

Gram: «Magari peggiore, ma diversa… Scherzo: condivido in pieno il ricambio. Non si dovrebbe mai fare lo stesso lavoro per più di dieci anni. A proposito, ne approfitto per comunicarti la mia intenzione di trasferirmi in Brasile come vicedirettore del carnevale di Rio».

Cal: «Basta che mi mandi il Buongiorno anche da lì. L’unica certezza è che, con i Mondiali di calcio, nel 2014 ci ubriacheremo di Brasile. Se ne parlerà talmente tanto che samba e carioca ci verranno a nausea».

Gram: «Parla per te…». 

Da - http://lastampa.it/2013/12/24/cultura/opinioni/editoriali/dialogo-semiserio-sullanno-che-verr-p7vzTbzwD4bHW2I2vorJEK/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Lo scontro fra due velocità
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:20:55 pm
Editoriali
13/02/2014

Lo scontro fra due velocità
Mario Calabresi

Il passaggio politico in cui siamo stati tutti improvvisamente scaraventati crea a molti italiani, penso alla maggioranza, un senso di incredulità se non di disagio. Se i sondaggi, le lettere che arrivano ai giornali, i commenti sui social network e i ragionamenti che si ascoltano per strada hanno ancora valore, allora questo cambio di governo è inaspettato. Gli occhi erano puntati su un altro tema: le elezioni. La domanda più frequente, fino a tre giorni fa, era: andremo a votare questa primavera o nel 2015 con una nuova legge elettorale? Nessuno, o quasi, immaginava una sostituzione in corsa di Letta con Renzi. 

Eppure questo strappo, che si sta consumando e di cui non conosciamo ancora l’esito finale, è figlio naturale dell’opinione pubblica di questo tempo, di un Paese impaziente che chiede spallate, forzature, che sogna fuochi catartici e non sopporta più il riformismo, le attese e i tempi lunghi, anche quando possono essere giustificati e inevitabili. Gli stessi che oggi dicono di non volere il segretario del Pd a Palazzo Chigi senza un passaggio elettorale sono anche quelli che nello stesso tempo lamentano le timidezze e le indecisioni del premier in carica e del suo governo. 

Renzi lo ha capito perfettamente, perché tra le sue caratteristiche costitutive ha – oltre alla velocità – l’essere completamente dentro il suo tempo, in sintonia con gli umori profondi della nostra società. E su questo ha scommesso, sul fatto che il gesto rapido e plateale parla alla pancia del Paese più di ogni altra cosa e può dare soddisfazione a tutti coloro che identificano nell’immobilismo il principale nemico da affrontare. 

E allora i tratti peculiari di Letta, che ieri ha elencato in conferenza stampa, paiono quasi antichi e fuori moda: essere uomini delle Istituzioni, essere rispettosi, non amare il protagonismo, non riuscire ad essere sexy o accattivanti. Poche settimane fa mi ha detto che è contro la sua natura fare conferenze stampa tutti i giorni e fare uno spot per ognuna delle decisioni del governo, che le cose buone dovrebbero quasi parlare da sole. Sarebbe bello se tutto questo fosse ancora vero ma purtroppo non vale più, siamo nella società delle narrative e dell’immagine e la politica non può pensare di non giocare quella partita. 

Matteo Renzi invece pensa che correre e scartare siano doti necessarie per interpretare la modernità, ha di certo ragione se questo è necessario per non finire trascinati nel pantano, in quella densità di burocrazie, regolamenti e abitudini in cui viviamo, ma resta da chiedersi se governare non sia una maratona e se sia possibile arrivare in fondo tenendo la velocità con cui si affrontano i 100 metri.

Nell’ultimo anno e mezzo questo giornale è stato tra i primi a capire il fenomeno Renzi, a dargli spazio quando la sua corsa contro Bersani sembrava solo una testimonianza perdente, così abbiamo apprezzato la correttezza e le capacità di Letta, convinti che l’Italia meritasse finalmente un cambio generazionale. 
Si poteva sperare che fosse possibile una forma di collaborazione, un passaggio concordato e condiviso, che la nuova generazione non ripetesse gli stessi schemi di duello di quelle precedenti, invece siamo ad uno scontro feroce che lascerà il segno.

Matteo Renzi ama ripetere che non ha paura di tirare i calci di rigore, che, se glielo chiedono, va dritto al dischetto e tira anche se c’è il rischio di sbagliare. Abbiamo tutti voglia di andare in gol, di ripartire, ma questa volta c’è un dettaglio da non sottovalutare: su quel pallone ci siamo tutti noi e non vorremmo finire fuori campo o, peggio, inchiodati contro un palo. 

Da - http://lastampa.it/2014/02/13/cultura/opinioni/editoriali/lo-scontro-fra-due-velocit-66ugLOpBzonwrHGlAKcj0K/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Il dilemma della leggerezza
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 07:56:26 am
Editoriali
22/02/2014

Il dilemma della leggerezza

Mario Calabresi

Matteo Renzi voleva che il messaggio fosse chiaro: il suo è il governo più giovane (47,8 anni l’età media dei ministri, 6 anni meno della squadra di Letta, per non parlare del gruppo di Monti più vecchio addirittura di 15), con più donne e tra i più snelli della storia della Repubblica. 

La scommessa è sulla freschezza, sulla novità e sull’energia, mentre i dubbi non possono che essere sull’esperienza e sulla capacità di incidere sulla peggiore crisi economica che l’Italia abbia conosciuto dal dopoguerra a oggi. 

Nella lista letta ieri al Quirinale non ci sono colpi di scena, non ci sono quei nomi che fanno rumore che lo stesso Renzi sperava di avere con sé, troppi i no pesanti che ha dovuto ingoiare in questa settimana, figli di un governo nato all’improvviso e non dalle elezioni. Condizioni che devono aver spaventato i compagni di strada del sindaco di Firenze, proprio quelli che erano considerati le colonne del renzismo. 

Il nuovo premier allora ha scommesso sui volti nuovi, sulla statistica e sulla coesione della squadra.

Così troviamo molti alla loro prima esperienza, un dato che certo piacerà a chi è stanco delle vecchie classi dirigenti ma che non può non dare una qualche ansia. Se penso agli Esteri, ai nodi drammatici che dobbiamo affrontare – dal confronto con l’India alla guerra civile in Siria, fino al semestre europeo – mi viene spontaneo sentire la mancanza del peso di Emma Bonino. Così mi chiedo se il confronto con la burocrazia più conservatrice e tignosa del pianeta possa essere vinto da Marianna Madia. 

La situazione in cui viviamo è però talmente delicata che tornare a focalizzarsi sulle condizioni in cui questa avventura è cominciata e sulle biografie può sembrare un esercizio inutile. Ma le conseguenze e gli obblighi che l’accelerazione (e anche la ferita del defenestramento di Letta) portano con sé saranno i dati costitutivi del nuovo governo. E imporranno velocità.

Il Paese non ha pazienza, è stato capace di divorare biografie tra le più diverse nella rincorsa della novità, ma ora appare all’ultima spiaggia. Il discorso più ricorrente che ascolto ha sempre lo stesso ritornello: «Renzi ce la deve fare». E questa frase è trasversale, si ascolta a destra come a sinistra, nei genitori e nei figli. E’ la convinzione di chi non riesce più a sperare e sente che non può permettersi di essere nuovamente deluso.

Renzi ha parlato di «risposte concrete» e queste sono le uniche che possono salvare lui e noi. Le priorità le conoscono tutti, è quasi superfluo ripeterle e sono il lavoro, il fisco, la scuola e la lentezza della macchina dello Stato in tutte le sue declinazioni. Ma ci sono anche riforme a costo zero, che ci metterebbero in sintonia con la realtà del mondo di oggi, che potrebbero essere fatte subito e darebbero un chiaro segno di cambiamento: la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri (al termine di un ciclo scolastico) e una qualche forma di unione civile.

Fondamentale sarà avere un’agenda chiara, asciutta e con le priorità ben scandite. Di libri dei sogni e tonnellate di promesse non sappiamo più che farcene.

Il governo nato ieri è indubbiamente leggero, ma questo termine può avere due significati: il primo è critico e sta a indicare il contrario della forza e dell’autorevolezza e una certa superficialità; il secondo è positivo ed è l’accezione che ne dava Italo Calvino nelle «Lezioni Americane», la capacità di volare alto, di non farsi pietrificare e di non essere barocchi e pesanti. Il compito di Matteo Renzi e dei suoi ministri è di convincerci che hanno letto Calvino. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/22/cultura/opinioni/editoriali/il-dilemma-della-leggerezza-gfxbpGyeuhcToSfvIKfEfN/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Un ponte di cui essere orgogliosi
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2014, 05:45:38 pm
Editoriali
21/05/2014
Un ponte di cui essere orgogliosi

Mario Calabresi

Parlare di immigrati ormai è diventato difficilissimo, nessuno ha più pazienza d’ascoltare, i più moderati restano in silenzio, gli altri o invitano a rispedire ogni barca a destinazione o a girare la testa dall’altra parte quando fanno naufragio.

La questione è trattata solo in termini economici: prima ci si preoccupa dei costi di salvataggio e accoglienza, poi della minaccia che rappresentano per la sicurezza o per il nostro già disastrato mercato del lavoro. Inutile cercare di discutere razionalmente, guardare i numeri che mostrano che sono molti di più quelli che si stabiliscono in Germania, in Francia o in Svezia. Noi siamo terra di passaggio non meta finale.

Poi leggi il racconto di quella madre che è riuscita a tenere a galla per un’ora il figlio di otto anni, prima di morire all’arrivo dei soccorsi, e senti che qualcosa non funziona più, dentro e fuori di noi. Guardi la foto qui accanto e scopri che su questa barca verde e rossa alla deriva ci sono 133 bambini, che ieri sera sono stati asciugati, rifocillati e hanno dormito sotto una coperta grazie alla Marina Militare italiana che li ha salvati. Sono siriani, in fuga dalla guerra con i loro genitori. 

L’operazione Mare Nostrum ne ha salvati 30 mila da ottobre a oggi. Per molti è una colpa, un ponte che andrebbe ritirato al più presto. Ma forse è anche l’unica mano che tendiamo verso una serie di conflitti che non vogliamo vedere.

Il nostro sport nazionale è ripetere ad alta voce che l’Italia fa schifo, che non c’è niente da difendere, che siamo perduti. E se il nostro riscatto stesse nel riscoprire che siamo capaci di umanità? Mi attirerò una bella dose di critiche, ma ho voglia di dire che sono orgoglioso di appartenere a una nazione che manda i militari a salvare le famiglie e non a sparargli addosso. 

Da - http://lastampa.it/2014/05/21/cultura/opinioni/editoriali/un-ponte-di-cui-essere-orgogliosi-XlOGqPI2FxH0QCSmQHp1qM/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Un voto per ricucire l’Europa
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2014, 06:32:47 pm
Editoriali
25/05/2014

Un voto per ricucire l’Europa
Mario Calabresi

Con il fiato sospeso aspettiamo tutti il grande botto, l’infrangersi dell’onda populista sulle coste della Sicilia o della Normandia, come sulle scogliere di Dover. Chi con preoccupazione, chi invece con speranza nella convinzione che si debba azzerare tutto per poter ricostruire. 

Ma non sarà questa la rottura dell’Europa storica, non perché il voto sarà ininfluente, ma semplicemente perché c’è già stata. Quello che accadrà questa sera sarà solo la registrazione dei danni di un terremoto che non è cominciato questa mattina ma almeno cinque anni fa. Un terremoto di cui ognuno già conosce gli effetti: li ha osservati a casa sua, nel suo quartiere, tra gli amici e i parenti. 

Non abbiamo forse già visto spegnersi le luci di negozi che ci erano cari, di aziende e di uffici in cui lavoravamo?

Non abbiamo già visto spegnersi sogni e speranze? 

Oggi si certificano rabbia, stanchezza e frustrazione. Le motivazioni sono reali e si chiamano disoccupazione, mancanza di prospettive, tagli lineari, corruzione e burocrazia. È tutto terribilmente comprensibile e la rabbia non se ne andrà se non verrà compresa, affrontata e risolta. Esiste solo una strada: lavoro e riforme. 

Ma non può essere una strada di demolizione, non abbiamo bisogno di altre macerie, ma di ricostruire e per farlo ci vogliono competenze, attenzione e pazienza. Mi spaventa - questo sì e molto - sentir dire che la nostra salvezza è rappresentata da cittadini senza esperienza e alle prime armi. Sarebbe come sostenere, di fronte alle macerie delle nostre case crollate per il terremoto, che non vogliamo più architetti e ingegneri a progettare quelle nuove, perché anche loro sono colpevoli del disastro. E invece di cercare di capire se ci sono professionisti migliori degli altri, affidare progettazione e costruzione al panettiere dell’angolo, noto per la sua onestà, o al cartolaio di cui conosciamo la simpatia. 

Il Parlamento europeo che esce dalle urne questa sera ha bisogno di persone competenti, capaci di fare la differenza nella preparazione delle leggi, di portarci un po’ di benessere, di difendere i nostri interessi, di far contare la nostra voce non solo di farla sentire perché capace di urlare di più. Quasi ognuno di noi, se deve scegliere un avvocato, preferisce quello che conosce meglio le leggi e si fa ascoltare dalla corte a quello che si fa notare solo perché grida di più.

 
Abbiamo bisogno di ricucire l’Europa, il suo tessuto sociale, di farne uno spazio in cui la voce dei cittadini conta. Ma abbiamo anche bisogno di ricordare che cos’è l’Europa, quanto faccia la differenza - anche in positivo - nelle nostre vite. È ridicola la semplificazione che riconduce tutti i mali e i problemi all’Unione e le possibilità di salvezza alla prospettiva di rinchiuderci nei nostri Stati nazionali. Con un minimo di obiettività, ne basta poca, ci possiamo rendere conto che i problemi di noi italiani ce li siamo fabbricati in casa, non li abbiamo importati dall’estero e che molto del cambiamento è invece figlio degli stimoli di uno spazio comune europeo. Come ha ricordato su queste pagine pochi giorni fa Vladimiro Zagrebelsky, lo sono molti degli avanzamenti sociali a cui stiamo assistendo - dalla semplificazione del divorzio, alla parificazione dei figli, fino ai diritti delle coppie che necessitano di assistenza per procreare -, così come la sicurezza alimentare, dei giocattoli o della salute in un Paese che è avvelenato da troppe Terre dei fuochi.

Ricordo perfettamente la sensazione che ho provato quando ho preso in mano la mia prima banconota da venti euro, una sensazione di forza, di appartenere a qualcosa di più grande. Mi dava ebbrezza l’idea di poter pagare una birra a Berlino, una fetta di torta a Vienna, la stanza di un pescatore in un isola greca o un libro a Parigi con la stessa moneta con cui compravo il giornale sotto casa in Italia. E la fine delle frontiere, la possibilità di viaggiare senza permessi, visti, senza passaporto, di lavorare e studiare fuori dai confini, di essere più liberi. È stato un sogno, che oggi è quasi svanito, anche perché - come accade sempre - diamo per scontato tutto ciò che abbiamo conquistato.

La generazione più giovane, quella che più è attratta dal vento del populismo, è la più europea che ci sia mai stata: i ragazzi di Monaco oggi sono uguali a quelli di Manchester e di Torino, ascoltano la stessa musica, prendono gli stessi aerei, si vestono nello stesso modo, comunicano in maniera identica e hanno gli stessi problemi e le stesse speranze.

È per loro che bisogna ricucire il tessuto sociale europeo: non meritano altre macerie, scenari di rotture apocalittiche in nome della catarsi, ma uno spazio di pace e libertà in cui costruirsi il futuro. 

Non restate a casa oggi, non comportatevi come quei turisti che si tengono a distanza dai disastri, che non fanno niente per dare una mano, ma che sono pronti a scattare una foto ricordo della sciagura.

Da - http://lastampa.it/2014/05/25/cultura/opinioni/editoriali/un-voto-per-ricucire-leuropa-28LRYkrG79ySqYRLytbAbM/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. La Stampa ha la fortuna di avere lettori affezionati
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 05:55:30 pm
La Stampa ha la fortuna di avere lettori affezionati

06/08/2014

Mario Calabresi

Prima di tutto voglio ringraziare tutti quelli che ci hanno scritto, sia quelli che si sono lamentati, sia quelli che ci hanno garantito che continueranno a leggerci. Vi ringrazio perché la cosa peggiore di questi anni è l’apatia, quell’indifferenza per cui tutto è uguale e nulla ha più un senso e un valore.

Aumentare il prezzo di un giornale è una cosa che provoca sofferenza, al direttore e a tutti i giornalisti, si ha la percezione chiara che si sta chiedendo uno sforzo a chi già ti compra tutti giorni, a una persona amica con cui hai un rapporto quotidiano e continuativo. Ma vi assicuro che questa scelta è sempre l’ultima e viene dopo aver tagliato tutto il possibile, ma un attimo prima di compiere scelte che renderebbero il prodotto più povero e di minore qualità.

La Stampa, come dimostrano molte delle lettere ricevute, ha la fortuna di avere lettori affezionati che ne percepiscono il valore e che riconoscono un legame speciale. Lettori che possono comprendere che il prodotto che facciamo (non il direttore - e qui rispondo alla prima delle lettere - ma il risultato di un grande lavoro di squadra) vale almeno quanto il biglietto dell’autobus di Torino, perché non incolliamo agenzie ma continuiamo ad avere giornalisti per la strada a Saluzzo come a Gaza, a Berlino come a Ventimiglia. E abbiamo l’orgoglio di pensare di avervi dato moltissime cose diverse e speciali (oggi abbiamo un’intervista esclusiva al segretario di Stato americano) e di essere lì dove voi vorreste che fossimo.

Un piccolo ma significativo dettaglio e una promessa: il primo è che non prendiamo nessun finanziamento pubblico (così come non è vero che venditori e edicolanti guadagneranno meno), la seconda è che mi impegno a ridurre drasticamente errori e refusi.

Da - http://lastampa.it/2014/08/06/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/la-stampa-ha-la-fortuna-di-avere-lettori-affezionati-0a6FcbISgOHZfdySfsjvwI/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. La storia di un politico che mi ha aperto la mente
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2014, 05:48:37 pm
La storia di un politico che mi ha aperto la mente
04/10/2014

Mario Calabresi

Il libro che davvero ha cambiato la mia vita è stato un romanzo divertente e intrigante che, come genere, credo si possa dire appartenente alla satira politica. Il titolo del libro è Ulisse Odissea, gli autori sono Silvano Baracco e Edgardo Rossi, pubblicato dalla Lalli editore nel 1980.

Lo avevo comprato perché conoscevo uno degli autori e, devo dire, non è che avessi molta voglia di leggerlo. Allora avevo sedici anni e un pessimo rapporto con i libri, Ulisse rimase per due anni appoggiato su uno scaffale, poi partendo per una vacanza decisi di portarmelo dietro, dovevo percorrere un lungo tratto in treno e mi ero detto che un libro poteva anche essere una buona compagnia. 

Lo iniziai a leggere con poca voglia, credevo di trovarmi di fronte a chissà quale storia, invece dopo poche righe stavo già ridendo, la storia mi appassionò al punto che non smisi di leggere per tutto il viaggio e una volta arrivato continuai fino a finirlo. Si tratta di un libro di 112 pagine, ambientato nell’Italia di allora, il protagonista è Ulisse Odissea, un uomo che si trova ad essere scelto prima come candidato per l’elezione a consigliere comunale nella città di Alessandria e poi via via ricopre cariche sempre più importanti solo perché la sua ingenuità aveva convinto i dirigenti del partito di maggioranza, «la Burocrazia Quotidiana» che fosse un «utile idiota» facile da manipolare. Nel libro si narrano, in chiave comica, ma quando occorre anche seria, di un’Italia corrotta, gestita da opportunisti e incapaci, per certi versi i due autori sembravano conoscere il futuro e hanno anticipato molti dei temi che poi hanno funestato il nostro Paese. Divertentissimo è il capitolo intitolato «La notte degli equivoci», dove si narra di un improvvisato e rabberciato tentativo di colpo di Stato, con una serie di gag spassosissime. 

Capitolo che riesce in chiave comica a raccontare eventi che davvero erano avvenuti, ma passati quasi in secondo piano grazie alla distrazione di molti.

Quel libro che poi ho riletto altre 10 volte e ho letto anche ad amici e parenti, ma mai prestato perché lo sento profondamente mio, mi ha aperto all’esperienza dalla lettura, nel senso che mi ha insegnato quanto è bello leggere. Sono poi passato ad altri libri, allargandomi un po’ a tutti i generi di lettura, ma Ulisse, lo ricordo sempre così, mi ha aperto la mente.

Non so se ha fatto lo stesso effetto su altri ma per me resta il libro della mia vita.

Giovanni Jan Pampuro

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/04/cultura/opinioni/lettere-al-direttore/la-storia-di-un-politico-che-mi-ha-aperto-la-mente-J2UgI3YEO5kzBhceM8i0YJ/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Se il Paese non si libera del passato
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 10:59:41 pm
Se il Paese non si libera del passato

14/12/2014
Mario Calabresi

Il nostro campo da gioco è il mondo ma non abbiamo più voglia di dirlo anzi vorremmo negarlo e se fosse possibile dimenticarlo. «Basta con questo pianeta globale, con l’Europa, con la sua moneta e tutte queste regole, basta con gli sforzi e le riforme che ci chiedono»: queste parole, pronunciate in modo più o meno gentile e nell’ordine che preferite, sono ormai un sentire comune, rimbombano in televisione, nei bar, nelle cucine di casa ed escono dalla bocca di ogni politico che voglia presentarsi come nuovo e in sintonia con i tempi. 

Pensiamo di avere il diritto - visto il prezzo che stiamo pagando ad una crisi che non vuole finire - di chiuderci in casa ed essere lasciati un po’ in pace per mettere la testa sotto il cuscino e poter sognare i bei tempi andati.

Se servisse a qualcosa, o se non facesse danni, non sarebbe nemmeno male prendersi una pausa e lasciarsi andare alla nostalgia. Ma non è così: ogni istante che perdiamo, in cui scegliamo di stare fermi o di arretrare, in cui ci incantiamo a guardare indietro è uno scivolamento ulteriore verso il fondo, una nuova ipoteca sul futuro. Il dibattito di queste settimane è un insulto alla ragione, tutto costruito su polemiche interne mentre il Paese sprofonda negli scandali.

 Venerdì a Torino ho ascoltato per tutta la mattina un confronto tra italiani e tedeschi aperto la sera prima dai presidenti dei due Paesi. C’erano professori, diplomatici, imprenditori, giornalisti, tutti hanno parlato, in modo veramente franco e senza nessuna falsa cortesia, del rapporto ogni giorno più faticoso tra noi e Berlino. 

Solitamente mi irritano le persone che si mettono in cattedra e non sopporto chi ricorda ogni giorno che dobbiamo fare bene «i compiti a casa», ma passato un primo fastidio verso chi tende a darci lezioni, sono rimasto colpito dalla passione con cui i tedeschi parlano dell’Italia e dei suoi giovani. Il campione che avevo davanti era ampio e rappresentativo della società tedesca e delle sue classi dirigenti e ho colto uno stupore generale, che in alcuni era incredulità, per la nostra inerzia davanti al declino. Quattro frasi mi sono rimaste sul foglio che avevo davanti: «E’ immorale la disoccupazione giovanile italiana. E’ uno scandalo accettare di avere quasi la metà dei giovani senza lavoro, dovete insegnargli che possono farcela e costruirgli una chance. E’ eticamente irresponsabile che ci siano giovani che escono da scuola senza avere alcuna prospettiva professionale. Ma come potete pensare di non mettere a posto il Paese per i vostri figli, noi quando abbiamo capito che rischiavano di non avere un futuro abbiamo fatto riforme vere». Il tono di chi le ha pronunciate era realmente preoccupato e quando sono uscito mi sono infilato nel traffico congestionato dallo sciopero generale. Ho pensato a quanto abbia la testa rivolta al passato il nostro dibattito quotidiano, discussione in cui ci guardiamo i piedi, in cui non mettiamo mai la testa fuori di casa, in cui il futuro non esiste perché non si ha il coraggio di immaginarlo, ma soprattutto di costruirlo.

 

Riforme, «c’è bisogno di riforme» ci ripetono tutti, ogni giorno, con un’insistenza che appare petulanza. La parola provoca ormai allergia, rifiuto, ma se proviamo a tradurla in realtà potrebbe anche significare fare una vita migliore, diventare un Paese normale. Le riforme dovrebbero servire a far funzionare un’Italia ormai immobile, in cui nessuno investe – né da dentro né da fuori – perché non ci sono certezze. Una voce tedesca lo ha spiegato con matematica chiarezza: «E’ impossibile prevedere i tempi di apertura di un’attività, nessuno sa quanto ci vorrà per ottenere un permesso, una firma, un certificato, nessuno sa quanto potrà durare un processo in caso di contenzioso e poi ci sono troppe inimicizie e contrapposizioni e non si può sempre guardare con sospetto chi investe». Ma un po’ di certezza non farebbe bene anche a noi che paghiamo ogni giorno il conto di riti, tradizioni e burocrazie che non hanno più senso di esistere? 

Ma accanto alle riforme avremmo bisogno di un cambio culturale, di aggiornare un dibattito stantio, giornali e televisioni continuano a leggere la realtà con le lenti del secolo scorso, a rappresentare i soggetti in campo secondo schemi superati. Se pensiamo che ormai pure la parola crescita è messa all’indice, ci hanno detto che dovevamo sperare nella decrescita felice, di decrescita purtroppo ce n’è molta, ma di felicità non ne vedo nemmeno un po’ in giro e penso che sia invece naturale crescere e svilupparsi, anche perché non ho mai visto un bambino decrescere. Sosteniamo chi ha il coraggio ogni giorno di aprire un negozio, un’attività, di inventarsi un mestiere anziché partire, di sperare anziché lamentarsi.

Proviamo a fare finalmente il funerale ad un passato che non tornerà, a fare i conti con il lutto, a liberarci dei fantasmi e soprattutto a mettere da parte una conflittualità suicida che ha già rovinato troppe volte l’Italia.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/14/cultura/opinioni/editoriali/se-il-paese-non-si-libera-del-passato-5XPx0aIgjqpvNKeIjRZX2M/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. L’illusione che non ci riguardi
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2015, 04:03:43 pm
L’illusione che non ci riguardi

17/02/2015
Mario Calabresi

Viviamo circondati dalle crisi, facciamo finta che non ci siano, poi d’improvviso, costretti dagli eventi, scopriamo che non esiste solo la crisi italiana. Da un paio d’anni ormai ci guardiamo l’ombelico, come se quello che accade fuori dai nostri confini fosse ininfluente, impegnati a dibattere esclusivamente di problemi di politica interna, caparbiamente chiusi nella nostra bolla.

Così ci accorgiamo che la crisi ucraina e le sue conseguenze ci riguardano, non solo in termini di sicurezza ma anche economici, che dipendiamo dalle esportazioni verso la Russia come dai turisti di Mosca che sono scomparsi dalle nostre Alpi. Così nel mondo globale la Grecia ci riguarda e cosa fare non può essere solo un tema di simpatie o antipatie e non possiamo lasciare che il nostro giudizio sui debiti da pagare sia influenzato dal modo di vestirsi di un ministro dell’Economia.

Adesso ci è venuta addosso la Libia, con tutto il suo carico di pericoli e destabilizzazione. L’abbiamo di fronte a casa, siamo i più esposti alle ondate migratorie e al pericolo terrorismo e le spiagge dove sono stati sgozzati gli operai egiziani si affacciano sul nostro mare. Ma finora nel Parlamento che urla e grida continuamente, dove da un anno si discute di legge elettorale, non abbiamo visto nessuno alzarsi per dire ad alta voce che dobbiamo occuparcene.

L’Italia ha fatto grandi cose con l’operazione Mare Nostrum, mostrando capacità operative e coscienza umanitaria, ma anche su questo non c’è stato un dibattito profondo capace di coinvolgere l’opinione pubblica e quando abbiamo chiesto all’Europa di fare la sua parte la risposta è stata debole e poco credibile.

Ora è tempo di affrontare seriamente il tema Libia, di aprire un dibattito vero nella società e in Parlamento, in cui si valutino i rischi di un’azione ma anche i pericoli dell’inazione.

Abbiamo di fronte uno Stato che non esiste più, uno spazio occupato da bande rivali, con due governi contrapposti e in cui si moltiplicano gli avamposti di un estremismo islamico che si richiamano al Califfato. 

Tutto era cominciato esattamente quattro anni fa a Bengasi, sull’onda delle primavere arabe, quando migliaia di persone scesero in piazza dando il via alla «Rivoluzione del 17 febbraio». Prima che la rivolta venisse schiacciata nel sangue da Gheddafi cominciarono i raid aerei francesi - una scelta ancora oggi non chiara nelle sue motivazioni e nelle sue finalità - a cui si accodò la Nato.

Nessuno pianse la caduta di Gheddafi e basterebbe leggere le testimonianze delle persone torturate e imprigionate dal suo regime per farsi passare la voglia di rimpiangerlo. Ma pensare che bastasse bombardare per liberare le migliori energie, capaci da sole di costruire una società nuova e democratica era non solo una pura illusione ma un modo di lavarsene le mani.

Il dibattito pubblico europeo nel frattempo si è dimenticato della Libia, ci sono voluti i barconi dei migranti cacciati a forza in mare in pieno inverno, le immagini delle decapitazioni dei cristiani copti e le minacce dell’Isis, oltre che la precipitosa fuga degli ultimi occidentali con la chiusura dell’unica ambasciata rimasta aperta - quella italiana - per svegliare la nostra attenzione.

Ora c’è bisogno di tutto tranne che di avventate fughe in avanti, di nuovi exploit senza un disegno stabilizzatore alle spalle e c’è bisogno di avere chiaro cosa si vuole provare a fare. Parlare di missione di pace è una evidente finzione, come già in passato, perché nessuno accoglierà militari stranieri a braccia aperte, di certo non i jihadisti. 

Dall’altra parte rifugiarsi nell’illusione dell’inazione può essere pericolosissimo, non ci possiamo permettere di convivere con basi terroristiche sull’uscio di casa facendo finta di niente.

Ma perché le scelte siano serie e ponderate bisogna cominciare con il chiarire non tanto il numero di soldati necessari per un’azione militare, ma piuttosto la reale situazione della Libia e cosa si può provare a fare contro il caos. Non possiamo nemmeno pensare un intervento senza avere chiaro il peso e l’orientamento delle fazioni che sono in lotta e senza aver scelto quali potrebbero essere gli alleati sul terreno. E poi per fare cosa? Con chi? Solo a quel punto si potrà discutere se intervenire nel quadro di un mandato dell’Onu. Ma anche qui è necessario costruire le condizioni per un’operazione ampia, a cui partecipino innanzitutto i Paesi dell’area e che abbia ben chiari finalità e obiettivi.

In questo quadro però noi italiani dobbiamo tenere presente un’altra cosa: il nostro passato. La nostra avventura coloniale fu fatta di stragi e torture e dobbiamo muoverci con molta cautela, la memoria in Libia è viva e sarebbe facile denunciare un altro colonialismo e chiamare alla guerra contro i nuovi crociati. Anche per questo è necessario che qualunque iniziativa avvenga insieme ai paesi arabi dell’area e non ci siano fughe in avanti italiane o europee.

Bisogna muoversi con chiarezza e serietà. Ci siamo illusi per troppo tempo di poter chiudere la porta ai problemi del mondo, di poter discutere solo di Imu, Tasi o articolo 18, ma ora i problemi sono entrati in casa e ci è richiesto di essere responsabili. Questo mondo è troppo complicato e interdipendente per permettere a noi italiani il lusso di stare alla finestra o l’illusione di essere immuni dal contagio. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/17/cultura/opinioni/editoriali/lillusione-che-non-ci-riguardi-gX8QqhUBnyukm0ZskVISiJ/pagina.html


Titolo: MARIO CALABRESI. Repubblica e il mondo che vogliamo raccontare
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 17, 2016, 05:34:32 pm
Repubblica e il mondo che vogliamo raccontare

Di MARIO CALABRESI
16 gennaio 2016
   
DUE giorni fa avete avuto la fortuna di tornare giovani, di fare un salto indietro nel tempo prendendo in mano la prima copia di Repubblica. Io non l'avevo mai sfogliata perché, come tanti lettori, ero ancora troppo piccolo per frequentare le edicole, ma in quelle pagine ho trovato tutto quello di cui ha bisogno il giornalismo oggi: capacità di scegliere, una scrittura chiara e sintetica e un dialogo diretto con il lettore. È questa la lezione di Eugenio Scalfari per me più preziosa per rispondere alle sfide di un mondo estremamente complesso e difficile da spiegare. Viviamo in un continente in crisi profondissima: la rabbia, il disincanto, un fastidio quasi insanabile verso ogni cosa pubblica hanno preso il sopravvento, vediamo dilagare il populismo e se proviamo ad alzare lo sguardo fuori dai nostri confini assistiamo ai tormenti che lacerano società che ci parevano più solide come la Germania, la Francia o la Spagna.

Non abbiamo ancora risolto la crisi economica, che è oggi mancanza di prospettive e di lavoro, ma nuove emergenze si sono già aggiunte a partire dalla sfida terroristica che ci siamo trovati in casa.
La reazione più sconcertante è la "grande banalizzazione" in cui viviamo, per usare un termine coniato ieri nel suo editoriale di saluto da Ezio Mauro, quel fenomeno che semplifica tutto e spinge ognuno di noi, perfino le teste più accorte e preparate, a essere attratti dalle tesi più congeniali e comode anche se spesso risultano verosimili ma non vere. Il frutto avvelenato di un'epoca di divisioni, di cinismo e di impazienza è aver perso il gusto per le sfumature, aver smarrito la curiosità di scoprire somiglianze oltre che differenze.

Un manicheismo dilagante si è impossessato del nostro mondo che sembra attratto fatalmente dall'idea che esistano solo bianco o nero. L'alternativa però non sono i molti toni di grigio bensì i colori. I mille colori che danno sapore alle nostre vite. Ognuno di noi deve recuperarli e tenerli di fronte agli occhi ogni giorno, antidoto al veleno dell'apatia e viatico per la speranza. È qui che il giornalismo può fare la differenza e ritrovare una missione ma perché ciò accada deve essere capace di pazienza e fatica, strumenti necessari e indispensabili per leggere la complessità.

Un giornale come Repubblica deve avere ogni giorno l'ambizione di camminare accanto al suo lettore per aiutarlo a distinguere i segnali più importanti nel rumore di fondo in cui viviamo immersi e di offrire contesti che permettano di leggere con chiarezza gli eventi quotidiani. Nel caos informativo di oggi come nell'Italia sbandante di quel primo giornale di quarant'anni fa non abbiamo bisogno di aggiungere (emozioni, toni apocalittici, indignazione gratuita) ma di selezionare, di offrire a voi lettori ciò che è portatore di senso e stimola la vostra intelligenza e non la vostra pancia, perché alla fine, come diceva Montaigne, "è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena".

Così se dobbiamo indignarci per i dipendenti pubblici assenteisti, infedeli o corrotti abbiamo anche il dovere di sapere che accanto a loro ci sono migliaia di persone che tengono in piedi le Istituzioni con passione e onestà. Dobbiamo sapere che è pieno di sindaci che si alzano all'alba e provano a cambiare le cose e la sera a casa immaginano un futuro per il loro Comune. Parliamo della scuola allo sfascio ma non rendiamo sufficiente onore alla maggioranza degli insegnanti che in questi anni ha trovato il modo di tenere in vita l'istruzione italiana, con creatività, talento e coraggio.

Per non cadere nella disperazione abbiamo bisogno di denuncia ma anche di soluzioni, di alternative che permettano di sperare e di continuare a vivere. Il grande giornalista americano Walter Lippmann, che negli Anni Venti analizzò le distorsioni della realtà nella comunicazione evidenziando il peso degli stereotipi, ci ha regalato la spiegazione più convincente: "Il modo in cui immaginiamo il mondo determina quello che la gente farà".

Possiamo davvero pensare che basti svelare ciò che è sbagliato perché la nostra società diventi migliore? O forse possiamo sperare nel cambiamento se accanto alla denuncia proviamo a spiegare anche come si potrebbe fare diversamente? Un collega che scrive sul New York Times, David Bornstein, mi ha regalato un esempio perfetto: "Immaginate di leggere un'inchiesta su una serie di ospedali che hanno il record di parti cesarei, dove si evidenzia come ciò accada per motivi che nulla hanno a che vedere con la salute di mamma e bambino ma siano determinati dai rimborsi sanitari, dalla programmazione dei turni dei medici o dal fatto che preferiscono non lavorare il fine settimana. Alla fine dell'articolo avrete l'amaro in bocca e avrete aggiunto un tassello a quel senso di frustrazione che da anni cresce in voi. Immaginate invece che accanto a questo pezzo ce ne sia un altro che racconta anche gli ospedali che hanno il record di parti naturali, spiegando che un altro mondo è possibile. Non solo la vostra reazione sarà diversa ma avremo anche tolto un alibi a chi dice che non si può fare diversamente". Vi prometto che ci proveremo.

La nostra società, senza aspettare la politica e dividendosi più sull'asse tra conservatorismo e innovazione che su quello destra-sinistra, ha aggiornato la sua agenda. Sono emersi diritti che non hanno avuto tutela storica e organizzata: le nuove libertà civili, le difese delle minoranze, dei bambini e degli anziani e i diritti dei cittadini consumatori. Su questa frontiera Repubblica deve essere presente ogni giorno coltivando l'inclusione, il rispetto delle differenze, la convivenza, ma con razionalità e una mentalità illuminista che rifugga dalle derive oscurantiste e antiscientifiche.

È necessario rimettere al centro i diritti umani, ci siamo assuefatti alla loro violazione, al massimo bofonchiamo una piccola protesta quando in Arabia Saudita un dissidente viene decapitato per avere espresso posizioni non ortodosse o in Cina un avvocato incarcerato per pochi tweet di protesta. La conseguenza peggiore della crisi è di aver fatto trionfare una ragione economica che imbavaglia Stati e opinioni pubbliche spaventate e fiaccate, anche di fronte all'uso della tortura, delle lunghe detenzioni e della pena di morte per colpire la libertà di stampa e di espressione. Ci infiammiamo se qualcuno se ne esce con una battuta infelice o poco politicamente corretta ma risultiamo distratti mentre si sgretola quel corpus di valori che ci definisce.

Ieri mattina ho ricevuto il testimone da Ezio Mauro, un direttore che è stato capace di garantire a questo giornale una seconda vita dopo la stagione del suo fondatore, di dargli solidità e tenuta per vent'anni e di traghettarlo nel nuovo secolo. Ezio per me è stato esempio di dedizione, metodo e di passione per le cose fatte bene. Lasciandomi il suo posto mi ha parlato della solitudine di cui soffre un direttore nelle sere delle scelte difficili e del valore di una redazione affiatata e di una comunità di lettori fortissima. Iniziando questo viaggio ho messo in valigia ciò che penso sia più necessario a combattere la crisi di fiducia che oggi la società ha verso l'informazione: capacità di mettersi in discussione, di correggersi in modo trasparente e di coltivare dubbi, che per me sono il sale della vita.

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16 gennaio 2016


Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/01/16/news/il_mondo_che_vogliamo_raccontare-131367277/?ref=HRER2-1


Titolo: MARIO CALABRESI Unioni civili, metterci la faccia
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 18, 2016, 11:57:53 am
Unioni civili, metterci la faccia

Di MARIO CALABRESI
18 febbraio 2016

Era la fine dell’estate del 2011 quando a Rossana Podestà, compagna di vita da oltre trent’anni di Walter Bonatti, venne impedito di entrare nel reparto di rianimazione dell’ospedale romano dove il grande alpinista stava morendo. Il motivo? Non erano sposati.

Ieri mattina il Senato era chiamato ad approvare una legge che dovrebbe finalmente mettere l’amore di una coppia al riparo dalla cecità delle burocrazie e dalle discriminazioni. Una legge che ne contiene due: una riguarda le coppie eterosessuali e recupera le occasioni mancate dei Pacs (approvati in Francia quasi 17 anni fa) e dei Dico, opportunità sprecate per cecità e arretratezza. E dire che fin dal 2000 la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riconosce come diritti distinti il diritto al matrimonio e il diritto a costituire una famiglia. A questo secondo diritto, non tutelato dalle leggi italiane, aspirerebbero oltre 900mila coppie italiane che hanno messo su casa senza essersi sposate.

L’altra parte della legge si propone di estendere la possibilità di unione civile alle coppie omosessuali, come previsto dalla Corte costituzionale con una sentenza del 2010 in cui si afferma che a due cittadini dello stesso sesso va riconosciuto il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone il riconoscimento giuridico.

Quella al voto ieri era la pallida copia di una legge che esiste da tempo nel resto dell’Occidente, niente di rivoluzionario. Una legge che dovrebbe servire a sanare due ritardi storici e a rispondere a cambiamenti profondi delle nostre società. Pare abusato ripetere che il Paese e l’opinione pubblica hanno metabolizzato da tempo le coppie non sposate, che non desta scandalo l’amore tra due uomini o tra due donne e che il diritto di stare accanto al proprio compagno in ospedale o a non perdere la casa se uno dei due muore sono il minimo per una comunità civile.

Sembrava la volta buona, eppure abbiamo dovuto assistere ancora allo spettacolo sconfortante e penoso di un Parlamento che naviga a vista, senza orizzonte, senza coraggio. Ora siamo davanti a un percorso accidentato, pieno di incognite, che potrebbe concludersi con un naufragio.

Una situazione di caos che sta scatenando i peggiori istinti parlamentari, quelli del dileggio, della rissa e degli espedienti tattici che servono solo a lucrare un minuto di celebrità. Giochini fatti sulla pelle di chi aspettava la legge ma anche sulla pelle di un Parlamento che non si rende conto di quanto sia già screditato.

Chi sono i responsabili di questa situazione grottesca e grave? Non è difficile rispondere: il Pd, Renzi e il Movimento 5 stelle. Questi ultimi hanno dimostrato ancora una volta di non essere interessati a fare politica, nel senso nobile del termine: mettersi in gioco, fare la differenza nella vita delle persone, caricarsi scelte complesse e difficili con senso di responsabilità. La cosa che hanno imparato meglio in questi pochi anni di presenza in Parlamento è il vizio di fare giochini tattici, sono diventati professionisti di quei voltafaccia che si pensava appartenessero a stagioni passate.

Il Pd aveva un problema interno ma non è stato capace di affrontarlo per tempo e con chiarezza e alla fine, molto ingenuamente, si è fidato dei grillini nella speranza che fossero loro a sciogliere i nodi e ad evitare il confronto tra le anime del partito.

Il presidente del Consiglio ha creduto che si potesse approvare una legge di questo tipo senza metterci fino in fondo la faccia e senza un vero confronto con gli alleati di governo, nella convinzione che bastasse avere il merito di appoggiare il testo Cirinnà qualunque fosse la sorte finale. Non si può pensare che vittoria, sconfitta e pareggio siano cose ugualmente tollerabili, ci vuole il coraggio di definirsi, di scendere in battaglia, anche a costo di polemiche e rotture.

Il tutto è stato peggiorato e reso indigesto da un dibattito pubblico pessimo, fazioso, inquinato dagli estremismi e dalle falsificazioni. Un dibattito in cui è mancata la serenità da ogni parte e in cui i termini del confronto sono stati resi irriconoscibili. In nessuna parte della legge si prevede che una coppia omosessuale possa chiedere di adottare un bambino (si prevede invece che il coniuge abbia il diritto di adottare il figlio naturale del compagno) ma il messaggio è passato così in tanta parte dell’opinione pubblica. Così come non si parla mai di utero in affitto, una pratica vietata in Italia che ci rimanda allo sfruttamento di donne povere e deboli, una pratica che sembra apparsa sulla scena solo oggi per le coppie gay quando è invece utilizzata da tempo da coppie eterosessuali che non riescono ad avere figli.

Ora non resta che fare con serietà e chiarezza ciò che andava fatto molto tempo fa: un confronto serrato all’interno del Pd e della maggioranza per decidere una linea (se necessario attraverso una mediazione che oggi appare certo irritante ma che dovrebbe essere naturale in una coalizione come in una forza politica) e per portarla avanti e fino in fondo con coraggio. Mettendoci la faccia.

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18 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/18/news/unioni_civili_metterci_la_faccia-133668424/?ref=HRER2-1


Titolo: Cari ragazzi, l'Europa è vostra: non lasciate vincere i venditori di paure.
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 12:01:13 pm
Cari ragazzi, l'Europa è vostra: non lasciate vincere i venditori di paure
Oggi le paure dei vostri genitori e dei vostri nonni hanno deciso che la Gran Bretagna tornasse ad essere un’isola, che voi diventaste stranieri dall’altra parte della Manica


Di MARIO CALABRESI
25 giugno 2016

Cari ragazzi europei, siete nati in un continente di pace, non avete mai visto la guerra sotto casa, siete cresciuti senza frontiere, progettando di studiare in un altro Paese, fidanzandovi durante l’Erasmus, scambiando messaggi con gli amici sulle occasioni per trovare lavoro o sui voli meno costosi per vedere un concerto.

Non importa se siete nati a Cardiff, a Bologna, a Marsiglia a Barcellona o a Berlino, oggi le paure dei vostri genitori e dei vostri nonni hanno deciso che la Gran Bretagna tornasse ad essere un’isola, che voi diventaste stranieri dall’altra parte della Manica.

I vostri nonni, che sanno cosa è stata la guerra, dovrebbero avere a cuore un futuro di libertà per voi, ma insieme ai vostri genitori si stanno lasciando incantare da chi racconta che rimettere muri, frontiere, filo spinato servirà a farci vivere più tranquilli, sicuri e sereni. Che tornare ad avere ognuno la propria moneta riporterà lavoro, prosperità e futuro.

Vi stanno raccontando che la democrazia diretta e i sondaggi in tempo reale risolvono magicamente i problemi, che esistono sempre soluzioni semplici e a portata di mano, che non c’è più bisogno di esperti e competenze, che la fatica e la pazienza non sono più valori, che smontare vale più di costruire. Il continente è malato, ma la febbre di oggi è la semplificazione, l’idea che sia sufficiente distruggere la casa che ci sta stretta per vivere tutti comodamente. Peccato che poi restino solo macerie.

Aprite gli occhi, guardate lontano e pretendete un’eredità migliore dei debiti. Vogliamo avere pace, speranza e libertà, non rabbia, urla e paure.

Tappatevi le orecchie, non ascoltate gli imbonitori e pretendete politici umili, persone che provino a misurarsi con la complessità del mondo e siano muratori e non picconatori.

Segnatevi sul calendario la data di ieri, venerdì 24 giugno 2016, e cominciate a camminare in un’altra direzione, a seminare i colori e le speranze.

Una ragazza inglese che ha votato sì, ma non è riuscita a convincere suo padre e suo zio a fare lo stesso, ieri ha promesso ai suoi amici europei, con una voce tremante che mescolava imbarazzo e rabbia: “Verrà il nostro turno della nostra generazione e allora torneremo”. Ci contiamo.

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25 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/25/news/calabresi_brexit_giovani-142765998/?ref=HRER2-1


Titolo: MARIO CALABRESI. Referendum, se il confronto chiude il ring
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2016, 12:37:20 pm
Referendum, se il confronto chiude il ring
Possiamo provare a coltivare il confronto, a offrire ai lettori materiali di riflessione, a stimolare un dibattito che vada oltre le grida e la sfida muscolare. È un momento perfetto per chi crede che si possa parlare alla testa degli italiani: la sfida è contribuire a un confronto civile e informato

Di MARIO CALABRESI
04 ottobre 2016

MANCANO esattamente due mesi al referendum, un tempo che sarà infestato di polemiche, proclami, risse, scomuniche e richiami al giudizio universale.

È bastato l'editoriale di Eugenio Scalfari di domenica per scatenare dibattito e divisioni tra i lettori, sull'interpretazione da dare al confronto tra Matteo Renzi e Gustavo Zagrebelsky sull'oligarchia, il governo dei pochi o la democrazia diretta e su chi avesse vinto il confronto. Come sapete, Scalfari ritiene che a prevalere sia stato il presidente del Consiglio, un giudizio che non è stato condiviso da una parte dei lettori.

Non entro nel merito della discussione ma credo che i prossimi due mesi rischino di essere l'occasione perfetta per incenerire ogni possibilità di dialogo e di discussione in Italia. Così il 5 dicembre, quale che sia il risultato del referendum, ci troveremo a fare l'inventario delle macerie e a prendere nota delle lacerazioni che resteranno nel tessuto sociale italiano.

Esiste un'altra possibilità? Un giornale come Repubblica ha l'obbligo di coltivarla.

Non solo per senso di responsabilità ma anche per necessità: i nostri lettori, come i nostri editorialisti e i nostri giornalisti, non hanno tutti la stessa opinione.

Allora possiamo provare a coltivare il confronto, a offrire ai lettori materiali di riflessione, a stimolare un dibattito che vada oltre le grida e la sfida muscolare.

Garantiremo uno spazio a chi ama il confronto delle idee, evitando possibilmente di darlo a chi cerca solo visibilità e la spara grossa per conquistare un titolo di giornale.

Sono tempi ideali per chi ama allestire ring - come ha fatto già in primavera lo stesso Renzi - e pensa che i giornali e le televisioni abbiano seguito perché stuzzicano gli istinti dei cittadini, ma è anche un momento perfetto per chi crede che si possa parlare alla testa degli italiani, la sfida è contribuire a un confronto civile e informato, sapendo che il mondo continuerà anche dopo il 4 dicembre e che nel frattempo non si ferma.

Sarebbe anche notevole se chi vuole votare No fosse libero di farlo senza venire accusato di essere un irresponsabile che vuole destabilizzare il Paese, far cadere il governo ed essere contro ogni idea di futuro e cambiamento. Dall'altra parte sarebbe liberatorio e sano che chi vuole votare Sì lo possa fare senza essere marchiato come servo di Renzi o alla stregua di un distruttore della Carta costituzionale e della democrazia.

Il valore della convivenza e del dialogo sono fondanti in democrazia e bisogna cercare di aprire gli spazi, senza bollare l'avversario come alleato di CasaPound o delle multinazionali a seconda di cosa voterà.

Oggi cominciamo con una lettera aperta di Salvatore Settis a Giorgio Napolitano, a cui l'ex capo dello Stato ha accettato di rispondere e con un'analisi di Nadia Urbinati, che riprende il tema del rapporto tra democrazia e oligarchia.

Alla professoressa della Sapienza che domenica mattina mi scriveva annunciandomi che non avrebbe più comprato Repubblica dopo molti anni perché l'editoriale di Scalfari era partigiano e non si può pensare che "un furbettino semianalfabeta" abbia avuto la meglio su "un finissimo intellettuale", chiederei di aspettare 59 giorni. Dopo tanti anni di affezione a questo giornale può sopportarlo, vedrà che non abbiamo preconcetti e che una libera e franca discussione è la cosa migliore che ci possa accadere.

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04 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/04/news/referendum_se_il_confronto_chiude_il_ring-149056685/


Titolo: MARIO CALABRESI. Grillo e M5s, una nuova grammatica
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2017, 08:59:38 pm

Grillo e M5s, una nuova grammatica

Di MARIO CALABRESI
03 gennaio 2017

NON CI può essere alcun automatismo tra un avviso di garanzia e le dimissioni e questo nemmeno può significare che sia certo un comportamento grave da parte di chi si trova al centro di un’indagine. A stabilirlo è il nuovo codice di comportamento del Movimento 5 Stelle diffuso ieri da Beppe Grillo. Una reazione istintiva ci spingerebbe a criticare questa svolta radicale sottolineando che suona opportunistica nella tempistica, visto che arriva quando appare imminente un coinvolgimento nelle inchieste romane di Virginia Raggi. Un atto che, proprio in base ai canoni sempre santificati dai Cinquestelle, avrebbe imposto le dimissioni della sindaca, come preteso un anno fa nel caso del primo cittadino di Parma, anche se in quel caso a sollevare la contestazione fu la mancata trasparenza sulla vicenda.

Inoltre colpisce che questo garantismo arrivi da parte di un uomo che ha usato gli avvisi di garanzia come una clava nella lotta politica e predicato la purezza come carattere distintivo del suo movimento. Un'obiezione che però sarebbe facile muovere anche al Partito Democratico che per anni ha usato inchieste, indagini e avvisi di garanzia nella sua battaglia contro Berlusconi e il centrodestra salvo poi trovarsi numerosi indagati e condannati in casa.

Così ci sembra più corretto guardare alla sostanza per dire che l'intervento di Grillo è giusto per il principio che esprime e serve a ristabilire alcuni elementi di correttezza nel rapporto tra politica e magistratura. Le nuove linee guida dei 5 Stelle restituiscono all'iscrizione nel registro degli indagati il suo valore autentico: l'inizio di un procedimento in cui vengono raccolti e pesati gli elementi a sostegno dell'accusa e non un indizio automatico di colpevolezza.

Da quasi un quarto di secolo si ripete che l'avviso di garanzia è un atto dovuto, uno strumento difensivo che invece troppo spesso è stato impugnato come elemento offensivo. Oggi non si usa quasi più, perché le riforme alla procedura penale hanno imposto l'interrogatorio a chiusura indagini, che infatti assieme alle proroghe delle inchieste è diventato il momento giornalistico in cui si viene a conoscenza delle inchieste contro qualcuno.

Ma ribadirlo oggi può aiutare a svelenire il clima politico e può servire a restituire un sano principio di responsabilità alla politica e al mondo dell'informazione. È l'occasione per una nuova grammatica, in cui si mettono da parte automatismi e riflessi pavloviani e si analizzano i casi nella loro specificità, valutandone gravità e responsabilità.

Bisogna dire che nel corso degli anni il livello di tolleranza verso il comportamento dei politici è comunque cambiato, qualcosa che solo i 5stelle hanno ignorato. Due ministri — Maurizio Lupi e Federica Guidi — si sono dimessi senza che fossero state formalizzate ipotesi di reato nei loro confronti. Ci sono stati dibattiti parlamentari e una valutazione di quanto emergeva dagli atti delle procure che li hanno spinti a decidere: valutazioni etiche e politiche, che sono andate oltre il quadro giudiziario.

Questo è il punto da sottolineare, che deve servire come stella polare anche per l'attività giornalistica: non limitarsi alla pubblicizzazione della mera posizione di indagato, ma insistere in un lavoro di approfondimento e analisi dei comportamenti, che offra al Parlamento e ai cittadini tutti gli elementi per decidere. Quello era il senso delle dieci domande di Giuseppe D'Avanzo nei confronti dell'allora premier Silvio Berlusconi: il giornalismo d'inchiesta.

Lo stesso che ci ha portato a denunciare opacità e rischi nelle nomine e nella scelta dei collaboratori da parte di Virginia Raggi, un lavoro fatto ben prima che arrivassero avvisi di garanzia e arresti, che hanno solo confermato la bontà del lavoro di Repubblica.

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03 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/03/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_5626317-155310306/?ref=HRER2-1


Titolo: MARIO CALABRESI. Il giudice è il lettore
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 06, 2017, 02:20:08 pm

Il giudice è il lettore
Nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza

Di MARIO CALABRESI
04 gennaio 2017

L’ITALIA è al 77esimo posto nella classifica della libertà di stampa, dietro Paesi africani come Burkina Faso e Benin. Il motivo? Non quello che pensano i detrattori del nostro giornalismo, ovvero l’asservimento al potere, ma il contrario: troppi sono i giornalisti minacciati dalle mafie e dalla criminalità organizzata per le loro inchieste su malaffare e corruzione. Come se non bastasse abbiamo il record delle cause contro i giornali intentate dai politici, che mal sopportano l’idea che qualcuno faccia loro le pulci o li critichi e così ricorrono ai tribunali con evidente scopo intimidatorio.

Non da ieri si è aggiunto alla schiera dei politici che vorrebbero mettere la museruola ai giornalisti anche Beppe Grillo.  Evidentemente infastidito dall’idea che qualcuno rompa l’incantesimo a 5 Stelle e denunci corruzione, incapacità e opacità delle amministrazioni a lui legate, come sta accadendo a Roma.

Sarebbe sbagliato orchestrare una difesa d’ufficio del giornalismo italiano, senza dubbio non esente da pecche e peccati, ma nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza, per cui chiunque può concionare su vaccini, scie chimiche, chemioterapia o cellule staminali con la pretesa di avere in tasca una verità popolare, da nulla suffragata se non da un sentimento di massa.

I danni che questo nuovo conformismo della Rete sta facendo al dibattito pubblico sono incalcolabili. Grillo propone una giuria popolare di fronte alla quale trascinare i direttori per far loro ammettere gli errori a testa bassa. Se l’idea della giustizia popolare non facesse venire alla mente precedenti storici drammatici, sarebbe da riderci sopra. E quanto ai tribunali, esistono già e continuamente si occupano di direttori chiamati a rispondere per quanto scritto sui loro giornali. A Grillo piace l’idea di una giustizia fai da te, come quella che decide espulsioni e ammende all’interno del movimento.

A noi, però, preoccupa di più il danno che la propaganda grillina arreca al tessuto sociale, alla fiducia nell’informazione e il farsi strada dell’idea che il giornalismo sia establishment a cui contrapporre il popolo. Il nostro popolo è la comunità dei lettori, che è anche il nostro unico giudice. Il suo verdetto lo emette ogni mattina, decidendo se leggerci o no.

© Riproduzione riservata
04 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/04/news/il_giudice_e_il_lettore-155364421/?ref=HRER2-1


Titolo: Mario Calabresi. Il Paese che vorresti
Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2017, 06:26:43 pm
Il Paese che vorresti
Viviamo in un Paese in cui abbondano gli stereotipi e le analisi datate, troppo spesso la realtà viene letta con categorie del Novecento, con delle lenti che appartengono a un altro secolo e a un mondo che non esiste più.

L'Italia di oggi è cambiata molto più di quanto si racconti, si sono rotte tradizioni consolidate e il mondo del lavoro come quello del tempo libero si sono frammentati in mille esperienza diverse e personali. La scansione del tempo, delle giornate e delle settimane, si è rivoluzionato e così i desideri, i bisogni e le scale di valori.

La Stampa ha deciso di essere al fianco del Laboratorio sulla Società e il Territorio (il cui acronimo - LaST - somiglia tanto al nostro nome e questo non può che farci piacere) perché pensiamo che sia una grande occasione per riconoscere e raccontare i grandi flussi di cambiamento dell'Italia e degli italiani.

Per conoscerci meglio, grazie alla collaborazione di tutti voi, e per cercare di capire dove andiamo e dove potremmo andare.

Mario Calabresi


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Presentazione dell'indagine
Qual è il vero volto dell’Italia? Quali sono gli orientamenti e le aspettative degli italiani? Spesso, dai mezzi di comunicazione e dalla discussione pubblica, emerge un quadro distorto, in cui è difficile riconoscersi appieno. Immagini e rappresentazioni che rinforzano gli stereotipi e non aiutano, invece, a cogliere le trasformazioni sociali del nostro Paese.

La ricerca, promossa da Community Media Research, intende svelare la parte sommersa degli italiani, ciò che usualmente non appare o non viene rilevato dai mezzi di comunicazione: i valori e gli orientamenti, le aspettative verso la qualità della vita, le forme di coesione sociale e comunitaria. Insomma, l’altra faccia dell’Italia. Non per stenderne le lodi o per volere esaltare solo gli aspetti positivi. Ma per offrire un quadro più realistico di chi siamo.

La tua adesione a questo progetto è importante e fondamentali sono le informazioni che ci potrai offrire. Il tuo contributo ci permette di costruire un’immagine più realistica della nostra identità.

I risultati dell’indagine consentiranno di realizzare uno studio approfondito su valori, aspettative e orientamenti della popolazione italiana. Verranno impiegate metodologie innovative di analisi e rappresentazione delle opinioni sulla base delle caratteristiche del profilo.

La partecipazione al panel offre la possibilità di ricevere gratuitamente contenuti di analisi, prodotti editoriali realizzati in esclusiva per il quotidiano nazionale "La Stampa" e altri articoli, approfondimenti e discussioni pubblicati sui principali canali web.

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Il gruppo di ricerca
Community Media Research - Community Media Research è una divisione di Community, società leader in Italia nell'advisory e nella comunicazione. Avvalendosi della collaborazione di importanti docenti universitari, quale il professor Daniele Marini dell'Università di Padova, Community Media Research è specializzata nelle ricerche e sondaggi sul web per individuare trend, andamenti e opinioni. E, soprattutto, per fornire indicazioni sugli sviluppi attesi in ambito economico e sociale attraverso i dati raccolti sulla Rete.
Daniele Marini - responsabile scientifico - Professore associato di Sociologia dello Sviluppo e del Territorio presso l'Università di Padova, è Componente del Consiglio Direttivo del Dottorato in Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università di Verona. Ricopre, inoltre, i seguenti incarichi: Direttore Scientifico di Community Media Research; Editorialista del quotidiano "La Stampa"; Componente del Consiglio di Amministrazione di FriulAdria Crédit Agricole e del Direttivo Fondazione Antonveneta. Inoltre, fra gli altri, è componente dei seguenti Comitati Scientifici: EntER (Centro di ricerca Imprenditorialità e Imprenditori) dell'Università Bocconi di Milano; Rivista "L'industria" de il Mulino di Bologna; Padova University Press, Università di Padova.
Questlab - società di ricerca economica e sociale - Realizza indagini campionarie nei confronti di imprese, istituzioni e famiglie, prima società in Italia che adotta sistemi di intervista basati sul Web (CAWI) a fianco delle tradizionali modalità di rilevazione diretta e telefonica (CAPI, CATI).
Quantitas - startup innovativa - Quantitas è una startup innovativa, nata nell'agosto 2014, ha l'obiettivo di sviluppare sistemi di supporto alle decisioni in contesti ad alta complessità, creando tools e ponendosi la sfida di implementare le metodologie di raccolta, analisi, visualizzazione e diffusione delle informazioni.

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Regolamento
Possono partecipare a IndagineLaST (Laboratorio sulla Società e il Territorio) i cittadini maggiorenni residenti in Italia che vogliano condividere idee ed opinioni compilando semplici sondaggi periodici online o telefonici; l’iniziativa si rivolge ad un Panel rappresentativo stratificato per caratteristiche socio-demografiche, il campione sarà controllato a posteriori secondo distribuzioni dei dati di fonte Istat.

Per partecipare alla ricerca è necessaria l’iscrizione online o l’adesione telefonica tramite operatore; i rispondenti accettano le condizioni di fruizione dei servizi resi disponibili nelle sezioni e/o aree tematiche dedicate. Le persone iscritte accedono ad un’area riservata dove possono inserire e aggiornare il proprio profilo personale ed esprimere le proprie opinioni su temi ed argomenti di interesse posti esclusivamente a fini di ricerca.

La ricerca prevede la ripetizione periodica di sondaggi a cadenza bimestrale o trimestrale; ai partecipanti verranno richieste informazioni su orientamenti, aspettative, valori e opinioni sulla società. Il sistema, durante il periodo di realizzazione di ciascun sondaggio, invia messaggi automatici di invito a tutti gli iscritti che possono decidere se partecipare o meno, senza obbligo di risposta. I dati raccolti saranno elaborati ed analizzati in forma aggregata e pubblicati in articoli e varie pubblicazioni per la stampa ed il web.

Il tuo contributo per noi è importante. Per questo è fondamentale che, quando partecipi alle nostre attività, tu dia risposte veritiere.


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Da - http://www.indaginelast.it/il-paese-che-vorresti


Titolo: MARIO CALABRESI. Francia, Macron presidente: l'ottimismo oltre i muri
Inserito da: Arlecchino - Maggio 08, 2017, 08:46:35 pm
Francia, Macron presidente: l'ottimismo oltre i muri
Si può vincere facendo un discorso diverso dalla rabbia e dalle paure, bisogna avere la capacità di osservare e ragionare senza farsi travolgere dalle grida. È inutile per la sinistra italiana rincorrere i populismi: meglio essere se stessi

Di MARIO CALABRESI
08 maggio 2017

La vittoria di Emmanuel Macron contiene una lezione fondamentale: si può fare un discorso diverso e vincere. Diverso dalla rabbia, dalle paure e dalla promessa di rovesciare il tavolo. Macron ci indica che non si deve guardare alla società immaginandola monolitica, coltivando la suggestione che vada tutta nella stessa direzione, quella di chi urla di più. Le maggioranze non si possono misurare attraverso il numero dei decibel prodotti dai candidati e dalle campagne mediatiche. Bisogna avere la capacità di osservare e di ragionare senza farsi travolgere dalle grida.

Se entrassimo in uno stadio bendati penseremmo che tutti i tifosi sono ultrà, ma se apriamo gli occhi ci accorgiamo che chi grida a squarciagola occupa le curve e non rappresenta la maggioranza degli spettatori. Fare politica ad occhi chiusi significa pensare che gli europei e gli italiani siano tutti contro l'Europa, siano tutti terrorizzati dai migranti, siano tutti per politiche "legge e ordine" e vogliano il porto d'armi per sparare liberamente la notte.

L'elezione di Macron ci mostra invece che bisogna avere il coraggio di proporre con convinzione una visione diversa, che è inutile per la sinistra italiana rincorrere i populisti (togliere la bandiera europea per metterne sei italiane), perché quella parte del campo è già sufficientemente affollata e soprattutto perché i cittadini diffidano delle imitazioni. Meglio essere se stessi. Macron, salito alla ribalta in un tempo brevissimo e senza un partito alle spalle, per certi versi rappresenta un'incognita ma ha avuto il coraggio di posizioni nette e chiare e non si è fatto dettare l'agenda dal Front National.

La frase che mi è rimasta più impressa quando lo abbiamo intervistato nel suo quartier generale alla fine di marzo può essere considerata il suo manifesto: "Se siamo solo un po' europei, se lo diciamo timidamente, allora abbiamo già perso". Poi aveva ricordato le parole del vecchio presidente François Mitterrand, "il nazionalismo è la guerra", e aveva aggiunto: "Se davanti agli estremismi il partito della ragione si arrende e cede alla tirannia dell'impazienza, allora saremo tutti morti". Ora però deve fare i conti con la realtà, perché la Francia non è diventata tutta progressista e illuminista in una sera perché Macron ha vinto, così come non sarebbe stata fascista se avesse vinto Marine Le Pen, ma certamente i destini e la Storia sarebbero cambiati, così come sta succedendo in Gran Bretagna dove un due per cento di elettori ha messo in moto un terremoto con conseguenze che ancora non riusciamo a mettere a fuoco.

Sappiamo però che la Francia è impaurita: avevano paura della globalizzazione, degli immigrati, del terrorismo islamico e della fine del lavoro gli elettori del Front National, così come avevano paura di molte delle stesse cose ma anche di Marine Le Pen e della fine dell'Europa tutti gli altri. Così abbiamo una certezza: paure e problemi non si archiviano con il risultato delle urne ma la sfida comincia adesso è sarà difficilissimo asciugare il malessere e portare l'Europa fuori dalla palude.

Ma ha vinto chi promette di farlo senza usare l'accetta, senza alzare muri e senza fare a pezzi quello che è stato faticosamente costruito. Ha promesso nel suo primo discorso di proteggere i fragili, di calmare le paure e di rimettere al centro un concetto che è terribilmente fuori moda e quasi pericoloso da pronunciare: l'ottimismo. Si è caricato una enorme responsabilità ma altre strade e scorciatoie non esistono.
Elezioni Francia, il primo discorso di Macron presidente: "Difenderò la Francia e l'Europa"

© Riproduzione riservata 08 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/08/news/francia_macron_presidente_l_ottimismo_oltre_i_muri-164889460/?ref=RHPPTP-BL-I0-C12-P1-S1.12-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. La separazione dei doveri
Inserito da: Arlecchino - Maggio 19, 2017, 02:10:26 pm
La separazione dei doveri

Di MARIO CALABRESI

COME avviene da anni, con cadenza sistematica, siamo tornati a discutere della necessità di nuove regole sulle intercettazioni. Da più parti si invoca una legge, che poi non arriva mai, e ogni volta si biasimano i giornalisti. Nelle passate edizioni di questo dibattito si sono proposti bavagli, multe astronomiche e carcere per chi pubblica conversazioni riservate.

Ora a tenere banco è la telefonata tra Tiziano e Matteo Renzi e nell'intervista al nostro giornale il ministro della Giustizia sostiene che non doveva essere pubblicata perché non ha alcuna rilevanza penale. In questa frase di Andrea Orlando è contenuto tutto il conflitto che da anni contrappone politici e giornalisti. Il ministro della Giustizia ha certo il dovere di sostenere che quel colloquio intercettato e mai depositato nelle carte dell'inchiesta non doveva uscire, perché non ha rilevanza penale, ma non può dire che non andava pubblicato in un libro o sui giornali.

Non si può chiedere ai giornalisti di autocensurarsi, di farsi carico dell'incapacità delle istituzioni di tenere riservati pezzi di inchieste. Il dovere per chi fa il nostro mestiere è quello di pubblicare tutto ciò che è giornalisticamente rilevante, che può avere un valore per l'opinione pubblica.

In questo la valutazione diverge da quella del magistrato, che considera degno di essere trascritto e allegato agli atti solo ciò che ha rilevanza penale. Ma la rilevanza penale e quella giornalistica non sempre coincidono.

La storia della telefonata tra i Renzi ne è un chiaro esempio: non fa parte degli atti dell'inchiesta romana e non risulta sia stata mai fatta trascrivere dal pubblico ministero, quindi per la magistratura non aveva valore per sostenere l'accusa. Per l'opinione pubblica invece un valore ce l'ha, mostra il rapporto tra l'ex presidente del Consiglio e il padre e risponde a molte delle domande che i cittadini si sono fatti in questi mesi sulle relazioni e le complicità familiari. E in questo caso richiamare un diritto alla privacy non è corretto: la Corte europea dei diritti dell'uomo ha sostenuto più volte che la tutela della riservatezza si restringe quando si tratta di personaggi che hanno responsabilità pubbliche e allo stesso tempo si allarga il diritto di informare i cittadini.

Così se il testo di quella conversazione, che ha una evidente rilevanza giornalistica, fosse arrivato sulle nostre scrivanie anche noi l'avremmo pubblicato, come Marco Lillo sul Fatto Quotidiano, e saremmo ipocriti se sostenessimo il contrario.

Questo però non significa che il modo con cui quella conversazione è uscita sia legittimo e che non abbia provocato fortissima tensione tra procure e investigatori. È evidente che c'è stata una violazione del segreto d'ufficio da parte di un pubblico ufficiale ma per perseguirla non è necessaria una nuova legge, quelle che ci sono bastano e avanzano.

Se di una nuova legge c'è bisogno è invece per dare ordine e uniformità al metodo usato nei diversi tribunali italiani, per mettere un freno al fiume di intercettazioni che escono da ogni inchiesta senza distinzioni tra chi è indagato e chi finisce semplicemente intercettato. In questo caso non c'è bisogno di inventare nulla, basta rifarsi alle circolari di autoregolamentazione delle procure di Torino, Roma, Napoli, Bari, Firenze, che hanno stabilito di eliminare dagli atti le intercettazioni ritenute non rilevanti, che contengano dati sensibili o che violino il codice della privacy.

Come ha spiegato Armando Spataro, procuratore capo di Torino, queste direttive "hanno lo scopo di tornare a dare alle intercettazioni lo scopo che realmente hanno: raccogliere elementi per dimostrare la colpevolezza di un imputato". Un principio sacrosanto per un magistrato, che non lede il principio fondamentale di un giornalista: cercare e pubblicare notizie ogni volta che hanno valore per l'opinione pubblica, anche se sono riservate o penalmente irrilevanti.

Questo non vuole dire essere buca delle lettere delle procure. La consapevolezza che il giornalismo non significhi incollare paginate di verbali e intercettazioni ma fare sintesi e ricostruire contesti ci è chiara, valutare gli atti e le inchieste con spirito critico è un passo necessario, così come rispettare le persone e non distruggere vite e reputazioni. Ma tutto questo non ci può far dimenticare cos'è una notizia e cosa è rilevante per i lettori. Dovrebbe essere il cuore del nostro mestiere.

© Riproduzione riservata 19 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/19/news/la_separazione_dei_doveri-165799625/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. Proteggere il futuro
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2017, 05:03:21 pm
Proteggere il futuro
Dopo Parigi, Nizza e Berlino, a Manchester si colpisce lo spazio dell'intimità familiare.
Oggi su Repubblica in edicola uno speciale con interventi di Massimo Recalcati, Massimo Ammaniti e Eraldo Affinati

Di MARIO CALABRESI
24 maggio 2017
Lo speciale con Repubblica in edicola
 
Si diceva che ci stavamo abituando agli attentati, grazie a un misto di rassegnazione e assuefazione, invece la strage di Manchester ci lascia senza parole, ci trascina nel campo dell'inimmaginabile.

Il Bataclan aveva scosso le nostre vite, quella sera a Parigi era stata colpita la gente seduta ai tavolini dei bar o mentre ballava e cantava a un concerto. Credevamo si fosse toccato il fondo della perversione, con la scelta di attaccare il nostro modo di vivere, di divertirci in libertà.

Poi ci sono stati il camion lanciato sul lungomare di Nizza, contro una folla di famiglie che aveva appena abbassato gli occhi dal cielo, dopo lo spettacolo dei fuochi d'artificio, e quello contro il mercatino di Natale a Berlino, con il vino caldo, i giochi, lo zucchero filato.

Ora si colpisce lo spettacolo dei bambini e degli adolescenti. Si entra nella cosa più cara e preziosa che abbiamo, lo spazio dell'intimità familiare. Il kamikaze ha ucciso almeno 22 persone ma anche il gesto di generosità e coraggio di un genitore, di un fratello maggiore, di una zia, che avevano regalato un rito di passaggio. Si è voluta punire la trasgressione di un bambino: andare a letto tardi per assistere al primo concerto. Immaginate quelle madri e quei padri che si erano fatti convincere e ora si tormentano per aver avuto questa idea.
Una festa di bambini e adolescenti. Lo scoppio è avvenuto quando tutto era finito e le luci si erano riaccese. Mentre il sonno spingeva verso casa. Esplosivo e chiodi.
La malignità assoluta del gesto. La folla impazzita dal terrore che scappa calpestando chi è più fragile e piccolo. Restiamo muti e pieni di rabbia.

E ora che possiamo fare? Prima di tutto dobbiamo sconfiggere il terrorismo. Abbiamo il dovere di essere vigili, di pretendere il massimo dell'attenzione, delle precauzioni, della difesa. Dobbiamo combattere questa guerra con il massimo della determinazione e dell'energia, sapendo che non potremo mai dirci completamente sicuri, perché non esiste questa possibilità.

E in questa tragica incertezza abbiamo il diritto e il dovere di crescere i nostri figli, le nuove generazioni, alla voglia di vivere. Dobbiamo avere il coraggio di non chiuderli in casa, di garantirgli un futuro.

Ariana Grande ha fatto bene ad interrompere il suo tour, c'è bisogno di riflessione, si è sempre detto che lo spettacolo deve andare avanti, ma forse sarebbe meglio dire che la vita deve andare avanti, non per forza lo spettacolo.

Di fronte all'abisso del dolore ci sentiamo perduti ma la memoria ci deve venire in soccorso, si deve continuare a vivere senza tradire il nostro modo di vivere. La Storia ce lo insegna e non ho potuto fare a meno di tornare alla mattina di sabato 2 agosto 1980. Una bomba fece strage alla stazione di Bologna: 85 morti.
L'Italia sprofondò nell'incubo mentre andava in vacanza. Anche allora morirono i bambini, quei bambini sono i fratelli delle vittime di Manchester.

Luca Mauri aveva 6 anni, era partito da Como in macchina con la mamma e il papà ma all'altezza di Bologna ebbero un incidente e quando il meccanico spiegò loro che l'auto non era in condizione di proseguire decisero di ripartire in treno. Volevano arrivare in Puglia prima di sera senza perdere un solo giorno di mare. Sarebbero morti appena entrati in stazione.

Sonia Burri, 7 anni, invece stava facendo il viaggio al contrario, arrivava da Bari con i genitori, i nonni, la zia e le cugine. La trovarono sotto le macerie abbracciata alla sua bambola rossa. Manuela Gallon aveva finito le elementari e stava partendo per la colonia, l'esplosione la uccise insieme alla mamma, si salvò solo il padre che era andato a comprare le sigarette.

Quel giorno l'Italia si piegò nel dolore, sconvolti dall'orrore molti pensarono che non ce l'avremmo mai fatta ad uscire dalla stagione delle stragi e del terrorismo. Invece la nostra democrazia riuscì a prevalere, senza tradire se stessa e salvando i suoi principi. Ci riuscì perché la reazione fu convinta e decisa, perché gli uomini migliori dello Stato si sacrificarono al massimo, perché i cittadini non si arresero alla paura ma capirono che solo l'unità li avrebbe salvati. E perché alla fine gli assassini vennero lasciati soli, persero complicità e comprensioni.

Oggi abbiamo bisogno di nuovo di tutto questo, di coraggio, di spirito di sacrificio, di cooperazione, di fermezza e intelligenza. Ma dobbiamo sapere che la partita è più grande, che siamo uniti nella sorte a tutti gli altri europei e che le comunità musulmane devono fare la loro parte, in modo convinto e deciso. Solamente tutti insieme ci salveremo.

© Riproduzione riservata 24 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/05/24/news/editoriale_calabresi_attentato_manchester-166236448/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. Il grande errore delle elezioni anticipate
Inserito da: Arlecchino - Maggio 27, 2017, 04:15:49 pm
Il grande errore delle elezioni anticipate

Di MARIO CALABRESI

Le elezioni anticipate sono sbagliate, sarebbero un errore pericoloso e una mossa sconsiderata. Eppure stanno prendendo quota in questi giorni, tanto da non essere più da considerarsi come un gioco di immaginazione ma come una possibilità reale. Chi le vuole ha già cominciato a diffondere una seducente narrativa, che parla la lingua dell’efficienza e del buon senso. La tesi fatta circolare in queste ore dai fautori del ricorso alle urne suona più o meno così: «Cosa può fare realmente questo governo? Non vedete che è ormai paralizzato e senza spinta propulsiva e con una maggioranza sempre meno unita? Meglio votare subito per dare un nuovo esecutivo capace di rilanciare il Paese». C’è sicuramente del vero in questa posizione ma le cose non sono così semplici e lineari e soprattutto non si prendono minimamente in considerazione le conseguenze del gesto.

Votare subito significherebbe sciogliere le Camere quest’estate, fare le liste e cominciare la campagna elettorale prima ancora che riaprano le scuole, ma soprattutto rinviare l’approvazione della manovra. Quest’ultimo dato è cruciale e non può essere sottovalutato. Con le elezioni a ottobre non riusciremmo ad avere un Parlamento nel pieno delle sue funzioni prima di novembre e con l’attuale frammentazione partitica (che ci regalerà perlomeno cinque aree politiche) la formazione di un governo, ma prima di tutto di una maggioranza, sarà operazione complicatissima se non quasi impossibile.

Pensare che in queste condizioni si sia in grado di approvare una legge di bilancio è un pericoloso azzardo. Non approvare la manovra significa andare all’esercizio provvisorio e questo vuol dire mandare un messaggio forte e chiaro al mondo e agli speculatori: l’Italia ha non solo il debito pubblico più alto di tutta Europa ma quest’anno non indica nemmeno cosa vuole fare con i suoi conti. La prima conseguenza certa sarebbe l’entrata in vigore delle cosiddette clausole di salvaguardia, a partire dall’aumento automatico dell’Iva al 25 per cento.

Molti indicatori mostrano finalmente i segni di una ripresa (certamente debole e insufficiente se paragonata al resto del Continente), lo si legge nelle richieste di prestiti per investimenti fatta dalle aziende così come nella crescita dei mutui per comprare case. L’aumento dell’Iva avrebbe l’effetto immediato di tornare a gelare i consumi, con conseguenze depressive. Teniamo poi conto del fatto che sembra ineluttabile un disimpegno della Banca centrale europea negli acquisti di titoli di stato, cosa che da sola stimolerà un incremento dello spread. Sommare questi ingredienti ci porta su una strada pericolosa, dalle conseguenze imprevedibili e, pur senza evocare l’arrivo della Troika a commissariarci, possiamo ben dire che sarebbe una mossa sconsiderata.

Abbiamo bisogno di tutto questo? Abbiamo bisogno di una accelerazione innaturale dettata prima di tutto dalla necessità di tornare sulla scena, in un abbraccio francamente imbarazzante, di Renzi e Berlusconi?
L’Italia ha bisogno di normalità, non di emergenza, non di ulteriori rotture e accelerazioni. La scadenza naturale è già alle porte, la legislatura finirà a febbraio dell’anno prossimo, si può e si deve votare all’inizio della primavera, in quella stagione in cui lo si è sempre fatto nella nostra storia. Non è certo una questione di tradizioni, è una questione di sana prudenza e di senso di responsabilità.

Di fronte al richiamo alla prudenza si potrebbe rispondere portando l’esempio britannico: Theresa May ha indetto nuove elezioni all’improvviso, senza troppi riti e tentennamenti. Ma in quel caso l’intenzione è di confermare una maggioranza che c’è già, sperando di rafforzarla per darle l’autorità necessaria ad affrontare le trattative per l’uscita dall’Europa. Da noi si tratta invece di accelerare la rincorsa per un salto nel buio.

Dobbiamo allora rassegnarci a vivere nella palude e trascinarci stancamente fino all’inizio del prossimo anno? No. Questi mesi di fine legislatura potrebbero invece essere preziosi, si potrebbe con buon senso sfruttarli per portare a termine una serie di riforme necessarie. Si potrebbe provare a uscire dalla palude approvando quei provvedimenti che sono in attesa di un voto finale, si va dalla cittadinanza ai ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, una saggia risposta di inclusione in tempi di paure e terrorismo, alle liberalizzazioni, alle norme sul fine-vita, alle riforme su prescrizioni dei processi e regole delle intercettazioni fino all’inserimento nel nostro ordinamento del reato di tortura.

E dovrebbe essere il tempo per preparare un programma politico degno di questo nome. Che idee hanno il partito democratico e il suo segretario per il futuro dell’Italia? Su che basi pensano si possa costruire una grande coalizione? Oggi è tutto nebuloso, indistinto, e le elezioni anticipate, o forse sarebbe più giusto chiamarle “elezioni accelerate”, sembrano un modo per non chiarire posizioni e alleanze, ma solo per sottoporre ai cittadini un nuovo referendum: volete me o Grillo? Una sorta di rivincita sul referendum costituzionale con la speranza che funzioni anche in Italia l’effetto Macron.

Nello stesso tempo non abbiamo chiaro cosa vogliono i 5 Stelle. Sappiamo che propongono di non rubare e non è poco, ma questo non è un programma politico: è una precondizione necessaria. Ma che intenzioni hanno sull’euro, l’Europa, l’immigrazione, le politiche sociali, le alleanze internazionali? Abbiamo il diritto di saperlo prima di andare alle urne, così come abbiamo il diritto di conoscere il nome del candidato premier. C’è già sufficiente oscurità in un movimento che è guidato da un blogger, che resta chiuso in casa sua e rifiuta ogni rito democratico di confronto, e da una società inaccessibile di consulenze informatiche.
E poi chi è Berlusconi oggi, cosa vuole: intende tornare a sottoscrivere un patto con la Lega oppure si è inventato una nuova vita da spalla di Renzi e del Pd?
E Pisapia? Come si riorganizzerà e con quali idee e prospettive l’area che sta a sinistra del Pd?
Sono risposte necessarie, fondamentali per provare a costruire una legislatura che non sia l’ennesima occasione sprecata. I cittadini hanno diritto ad essere informati e poter esprimere un voto consapevole. L’unica cosa decente e preziosa che possiamo augurarci è di sottrarci all’ordalia. Non abbiamo voglia di una resa dei conti fatta sulla nostra pelle.

© Riproduzione riservata 27 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/27/news/il_grande_errore_delle_elezioni_anticipare-166517236/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. Sei riforme da non tradire
Inserito da: Arlecchino - Giugno 03, 2017, 11:42:40 am
Sei riforme da non tradire

Provvedimenti che attendono di essere varati da anni sono vicinissimi alla meta: riguardano i diritti dei cittadini, approvarli prima di andare alle urne sarebbe un atto di sensibilità oltre che  segno di civiltà

Di MARIO CALABRESI
31 maggio 2017

Andiamo di corsa verso le elezioni accelerate, senza mostrare troppa preoccupazione di mettere in sicurezza i conti del Paese. Chi vuole portarci alle urne all'inizio dell'autunno ha innanzitutto il dovere di approvare la legge di stabilità prima dello scioglimento delle Camere. Pensare che la presentazione della manovra da parte del governo basti a proteggerci dalla speculazione e dai rischi dell'esercizio provvisorio è perlomeno pittoresco se non irresponsabile.

Ma non basta, per essere decoroso questo finale di legislatura dovrebbe evitare di buttare all'aria i provvedimenti che attendono di essere varati da anni e che sono ormai vicinissimi alla meta. Sono molti, dalle liberalizzazioni all'abolizione dei vitalizi. Ma ci sono soprattutto le leggi che riguardano i diritti dei cittadini, approvarle sarebbe un atto di sensibilità oltre che un segno di civiltà.

Ne abbiamo individuate sei a cui manca il voto finale e da oggi le ricorderemo tutti i giorni, affinché lettori ed elettori possano valutare i comportamenti delle varie forze politiche che si preparano a chiedere il loro voto.

Ci sono l'attesissima legge sul biotestamento; quella sulla cittadinanza, ferma al Senato dalla fine del 2015, che prevede la possano ottenere i minori nati in Italia da padre e madre stranieri se uno dei genitori ha un diritto di soggiorno di lungo periodo, o chi arriva in Italia entro il dodicesimo anno di età dopo aver frequentato un ciclo scolastico; l'introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura; l'approvazione del nuovo codice antimafia; la legalizzazione della cannabis e infine la riforma del processo penale che introduce soprattutto le nuove norme sulla prescrizione, per diminuire il rischio che indagini e processi vengano vanificati dalla lentezza dei tempi della giustizia penale. Inoltre viene prevista una delega al governo per "garantire la riservatezza delle comunicazioni oggetto di intercettazione": una delega che ci auguriamo serva a definire il migliore equilibrio tra il diritto alla riservatezza e quello all'informazione.

Gettare il lavoro fatto fin qui è un delitto e tutti ne sarebbero responsabili. Ci sono le responsabilità della maggioranza di governo e del Pd ma anche quelle delle opposizioni che su alcuni provvedimenti hanno il dovere di chiarire da che parte stanno: può il Movimento 5 Stelle lasciare affondare il biotestamento, il reato di tortura o la cittadinanza? Se si partecipa alla riforma elettorale e si vogliono elezioni subito sarebbe nobile fare la propria parte anche nel portare al traguardo i nuovi diritti di questo Paese.

© Riproduzione riservata 31 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/31/news/sei_riforme_da_non_tradire-166848947/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1


Titolo: MARIO CALABRESI. La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2017, 06:03:18 pm
L'insano sollievo

L'editoriale.

La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa

Di MARIO CALABRESI
21 luglio 2017

QUANDO la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura.

Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti.

Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali.

Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi.

Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso.

Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.

© Riproduzione riservata 21 luglio 2017

Da - http://roma.repubblica.it/cronaca/2017/07/21/news/l_insano_sollievo-171297096/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. Perché non vinca la propaganda
Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:20:31 pm

Perché non vinca la propaganda

Di MARIO CALABRESI
08 agosto 2017

UN’ONDA melmosa, composta di false percezioni, di paure e di sconsiderata propaganda, sta sommergendo il nostro dibattito pubblico, rendendolo sterile e spaventoso. La razionalità è scomparsa da un pezzo, sostituita da emozioni, immagini forti e pericolose semplificazioni. È diventato molto complicato riuscire a ragionare chiamando le cose con il loro nome, rispettando la realtà e le sue sfumature.

Si sono persi di vista numeri e contesti: nessuno ha più il coraggio di far notare che 100mila persone che arrivano dalle coste africane sono certo tantissime e destano allarme (una richiesta di sicurezza che le Istituzioni troppo a lungo hanno sottovalutato) ma sono pur sempre quanto i tifosi di due partite della Roma o del Milan. Li si può contenere in uno stadio e mezzo di un Paese che di abitanti ne ha sessanta milioni. Questo non significa non condividere la necessità di provare a controllare e gestire i flussi migratori e il dovere di combattere i trafficanti di esseri umani, ma significa chiamare le cose con il loro nome e non accendere allarmi sociali che rischiano di devastare la nostra società. Che il senso della realtà sia smarrito lo racconta la percezione dei numeri: gli italiani sono convinti che ormai un quinto della popolazione sia di religione islamica, quando lo è meno di un trentesimo.

L'onda melmosa chiude gli occhi e rende tutto dello stesso colore, impedisce di cogliere differenze fondamentali, così un immigrato che spaccia cancella tutti quelli che riempiono le cucine dei ristoranti, scaricano le cassette ai mercati generali, fanno il pane la notte, tengono vivi i pascoli, vendemmiano o si prendono cura dei nostri vecchi.

Allo stesso modo la legge che viene definita Ius Soli è stata criminalizzata, snaturandone completamente senso e finalità. Non c’entra nulla con sbarchi e accoglienza e serve a integrare chi è nato in Italia, ma questo poco interessa a chi gioca con le paure e subdolamente insinua che i compagni di classe dei nostri figli potrebbero essere terroristi in erba.

Questa propaganda e questo imbarbarimento del discorso hanno fatto breccia e, come ci ha raccontato domenica Ilvo Diamanti, stanno vincendo.

L’ultima vittima sono le Ong, le associazioni di volontariato e quella parte della Chiesa che è più impegnata nell’assistenza. Colpevoli di non sottomettersi al nuovo politicamente corretto, che è l’esatto ribaltamento di quello vecchio e proclama a gran voce che ci siamo rotti le scatole dei bisogni e delle sofferenze degli altri. Lo slogan berlusconiano “padroni a casa propria”, coniato per favorire le ristrutturazioni, ora è diventato una filosofia e un modo di essere che giustifica qualunque comportamento e assolve da ogni responsabilità. Ammette addirittura la rinuncia al pensiero razionale. Non possono esistere due Italie: quella che sta con gli italiani e un’altra che sta con gli scafisti. È il senso profondo che si può cogliere anche nel messaggio di Mattarella: i diritti degli uomini e le regole che li governano devono stare assieme.

Certo, c’è chi ha sbagliato, ma di fronte a singoli e circoscritti episodi di presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mai — secondo gli stessi magistrati che hanno mosso l’accusa — per motivi di lucro, si criminalizza un mondo di cui invece dovremmo andare orgogliosi.

Non importa che esistano Organizzazioni non governative che agiscono su scala globale e piccole associazioni nazionali, che ci siano organizzazioni umanitarie che si dedicano all’emergenza e altre che fanno assistenza, prevenzione, non contano le storie di ognuna di loro, la competenza e la trasparenza, non hanno valore le biografie di medici, ingegneri, agronomi, sacerdoti, insegnanti, cooperanti, conta solo colpire nel mucchio per poter rafforzare il nuovo paradigma.

Perché funzioni, il discredito va diffuso ad ampio raggio, va usato come un’accetta e nessuna distinzione è possibile. Se poi si condisce il tutto con una buona dose di volgarità e di insinuazione, allora si arriva al risultato di gettare il sospetto su un intero mondo.

Un mondo che è tanto italiano, perché siamo un Paese che si è sempre speso in silenzio, dando esempi di impegno e di volontariato incredibili. Se gli si può rimproverare qualcosa è proprio di essere stati troppo silenziosi, loro che potevano spiegare a tutti noi cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo, aprendoci gli occhi sulle situazioni di crisi e le possibili ricette. Finora ci siamo accorti di quel mondo solo quando arrivava la notizia di una morte, penso a persone come Maria Bonino, pediatra piemontese morta in Angola mentre cercava di contenere un’epidemia di febbre emorragica.

Di fronte all’onda melmosa, un giornale ha una sola possibilità: restituire ai fatti e alle parole il loro significato e cercare di ripulire il dibattito dalle scorie e dai veleni.

Lo dobbiamo fare ogni giorno e per questo da oggi vi raccontiamo cosa sono davvero le Ong e chi sono le donne e gli uomini che ci lavorano.

© Riproduzione riservata 08 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/08/news/perche_non_vinca_la_propaganda-172612626/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. Regeni, il coraggio della verità
Inserito da: Arlecchino - Agosto 16, 2017, 08:51:41 am
Regeni, il coraggio della verità
La decisione di rimandare l'ambasciatore al Cairo lascia stupiti e provoca amarezza: il governo ha cambiato idea per gestire la situazione libica con l'aiuto dell'Egitto.
Ma allora perché non assumersi la responsabilità politica del gesto?

Di MARIO CALABRESI
15 agosto 2017

QUESTO giornale, insieme con la famiglia di Giulio Regeni, ha sempre pensato che fosse stato giusto richiamare l’ambasciatore al Cairo. E che non lo si dovesse rimandare finché non si fosse ottenuta la verità sul rapimento, la tortura e l’uccisione di un giovane italiano che era in Egitto per portare a termine un dottorato di ricerca. La decisione, comunicata ieri sera, alla vigilia di Ferragosto, non può che lasciare stupiti e provocare amarezza. Perché dalla verità siamo ancora distanti ma soprattutto siamo lontanissimi dalla possibilità di avere giustizia. La sensazione è che ora tutto possa passare in secondo piano, che la morte di Giulio Regeni sia diventata di intralcio agli interessi nazionali.

Partiamo dall’inchiesta. In quest’ultimo anno il lavoro della Procura di Roma e dei nostri investigatori è stato esemplare, sono state individuate responsabilità precise nella struttura dei servizi segreti egiziani, un organismo che fa capo direttamente al potente ministro dell’Interno. Ma la collaborazione della procura e delle autorità del Cairo è stata discontinua, lentissima e a tratti irridente. Ora, dopo mesi di silenzio, sono arrivati finalmente nuovi documenti, della cui bontà nessuno però è in grado di garantire. La strada sarà ancora lunga e non sappiamo se si arriverà mai al traguardo.

Tenere l’ambasciatore a Roma era considerato come il modo più efficace per fare pressione sul regime di Al Sisi. Il governo ha cambiato idea. Si può comprendere il perché. E qui entra in ballo l’interesse nazionale, che ancora una volta porta in Libia. Cercare di gestire la situazione libica e i flussi migratori senza avere rapporti diretti con l’Egitto — che è il principale sostenitore del generale Haftar e delle sue milizie — è come giocare con un braccio legato. La nostra assenza al Cairo è stata sfruttata a fondo dai francesi e si capisce l’urgenza di porre rimedio.

Ma allora perché non chiamare le cose con il loro nome? Perché non avere il coraggio di assumersi la responsabilità politica del gesto? Dire con chiarezza: abbiamo bisogno di un ambasciatore in Egitto che agisca nel pieno delle funzioni per gestire la situazione libica. Spiegarlo alla famiglia e agli italiani. Non venderlo come un modo per accelerare la verità. Questo non avrebbe diminuito l’amarezza di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, e di molti che li hanno sostenuti in questi mesi, ma avrebbe evitato la sensazione di essere presi in giro. Poi se tutto ciò viene fatto alla vigilia di Ferragosto e a Camere chiuse allora quella sensazione si ingigantisce.

La responsabilità della politica ora è di dimostrare ogni giorno, con gli atti dell’ambasciatore e in ogni sede internazionale, che ottenere giustizia per Giulio Regeni è una priorità nazionale, che interesse degli italiani è anche non accettare che un proprio cittadino venga torturato e ucciso dal governo di un Paese che si professava amico. Altrimenti il gesto di ieri potrà essere definito in un solo modo: una resa.

© Riproduzione riservata 15 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/15/news/regeni_il_coraggio_della_verita_-173069569/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. La democrazia anormale
Inserito da: Arlecchino - Settembre 16, 2017, 10:22:54 am
La democrazia anormale

Si avverte la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo

Di MARIO CALABRESI
16 settembre 2017

Ciò che sta emergendo in queste ore, attraverso la deposizione del procuratore di Modena Lucia Musti, conferma e rafforza ciò che la procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone aveva svelato ormai da mesi: una manipolazione delle carte giudiziarie per alzare il livello di un’inchiesta — che aveva e ha fondamento — affinché fosse affondato l’allora primo ministro. Colpendolo attraverso il suo punto debole, un padre discusso, con il vizio di muoversi in modo inappropriato sfruttando la posizione conquistata dal figlio.

Quando il primo colpo viene assestato, lo scorso dicembre, Matteo Renzi ha già perso il referendum, è già un ex presidente del Consiglio e la sua parabola è discendente. È stato il giudizio dei cittadini a decretare questa svolta. Non un’indagine e nemmeno le sue deviazioni. Ma questo non toglie nulla alla gravità di ciò che è successo. L’idea che sia possibile disarcionare un primo ministro o chiudere una carriera politica attraverso la manipolazione di intercettazioni e un uso sapiente delle rivelazioni ai giornali è sconvolgente.

E non può essere paragonato e confuso con tutte le inchieste che in passato hanno avuto al centro leader politici. Questo non significa infatti che non possano essere le indagini a decidere le sorti dei politici (come nel caso della recente sentenza sulle malversazioni della vecchia guardia leghista) e che l’unico giudizio utile e accettabile sia quello delle urne — come sosteneva Berlusconi, che vedeva il voto come sola legittimazione esistente e come massimo scudo da ogni istruttoria — ma ci mostra che il sistema può essere inquinato e infiltrato.

Viene naturale chiedersi: ma se il fascicolo non fosse finito a Roma, se Pignatone e i suoi pm non avessero esercitato con tempestività e urgenza uno scrupoloso controllo su ogni atto e su ogni trascrizione cosa sarebbe successo?

I tempi della giustizia italiana, ce lo indica il caso Mastella, sono talmente lunghi da non garantire una pronta riparazione degli errori o da sventare manovre oscure. Con tutto questo dobbiamo fare i conti subito. Evitando però il gioco opposto, quello di politicizzare e generalizzare, perché in Consip il marcio c’era e ce lo conferma la condanna dell’ex dirigente Marco Gasparri che ha patteggiato una pena a un anno e otto mesi per avere ricevuto una mazzetta di 100 mila euro dall’imprenditore Alfredo Romeo.

Inoltre dobbiamo riconoscere che Renzi ha permesso che le accuse che arrivavano a lambirlo fossero verosimili perché ha compiuto l’errore di inserire al vertice di Consip, la struttura che gestisce i più grandi appalti pubblici d’Italia, figure di sua fiducia. Persone della cerchia stretta che stanno intorno a lui dai tempi in cui governava la provincia di Firenze. Ma va detto con chiarezza che al momento non esiste alcuna prova di un coinvolgimento di Renzi e di suo padre negli illeciti, così possiamo tornare a giudicarlo su quello che ha fatto, quello che non ha fatto, sugli uomini e le donne che ha scelto e nominato e sulle sue idee per il futuro dell’Italia.

Resta la necessità di liberare le istituzioni da pezzi di apparati che, come troppe volte nella storia d’Italia, agiscono in modo deviato e eversivo. Non contano le finalità per cui lo hanno fatto, se si sia trattato di mettersi al servizio di interessi politici, imprenditoriali o se abbiano soltanto seguito un’idea manichea di Giustizia, che trova consenso ideologico pure in una parte della magistratura. Gli innegabili meriti conquistati dal colonnello Sergio De Caprio e dalla sua squadra con la cattura di Totò Riina non possono autorizzare proclami sul «golpe perpetrato contro i cittadini», incompatibili con il suo ruolo istituzionale. Ed è sintomatico di questo corto circuito in cui un pezzo di Arma indaga sui propri vertici sospettandoli di subalternità politica il fatto che i vertici dell’Arma e il ministero della Difesa si siano espressi solo ieri sera e molto blandamente su questi comportamenti.

Abbiamo richiamato decine di volte alla necessità di una democrazia normale, in cui l’autonomia della magistratura e il lavoro di tutti gli organi inquirenti vengano tutelati. Ma dove i cittadini abbiano diritto a un giudizio equo, senza inquinamenti e in tempi ragionevoli: tutti i cittadini, inclusi i leader politici.

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Titolo: MARIO CALABRESI. La legge sullo Ius soli e una resa senza nobiltà
Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2017, 12:33:18 pm
La legge sullo Ius soli e una resa senza nobiltà
Hanno vinto la propaganda della Lega, la furbizia di Grillo e Di Maio, le paure e le mistificazioni. Hanno perso ottocentomila ragazzi, la politica che ha il coraggio di scegliere e uno scampolo di idea che si poteva ritenere di sinistra, ma perfino di centro

Di MARIO CALABRESI
27 settembre 2017
 
Chiamiamo le cose con il loro nome, senza giri di parole o finzioni: hanno vinto la propaganda della Lega, la furbizia di Grillo e Di Maio, le paure e le mistificazioni. Hanno perso ottocentomila ragazzi, la politica che ha il coraggio di scegliere e uno scampolo di idea che si poteva ritenere di sinistra, ma perfino di centro.

Certo la legge è stata affondata da Angelino Alfano e dal suo piccolo partito, in cerca di una casa che garantisca di poter sedere ancora al tavolo del potere nella prossima legislatura. Ma questo è successo anche perché il Partito democratico non è stato capace di indicare le proprie priorità a un alleato che ha incassato enormemente più di quanto valga (basti pensare alle poltrone ministeriali collezionate da Alfano, al cui confronto impallidiscono persino i big della Prima Repubblica).

La legge che dava la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri che avessero un regolare permesso di soggiorno (da almeno 5 anni) non verrà approvata in questa legislatura ed è rinviata a un futuro indefinito. Un futuro però che possa garantire ai politici la sicurezza di non indisporre nessuno e di non rischiare nulla.

Sfruttando l’occasione del voto tedesco, Alfano ha coniato una frase di cui pareva molto orgoglioso: «Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata». E allora meglio fare direttamente una cosa sbagliata: arrendersi alla Lega, nella convinzione di poter conquistare qualche voto. Un gigantesco abbaglio. Alfano, che pretenderebbe di rivolgersi a un elettorato cattolico, e il partito di Matteo Renzi non portano a casa un solo voto in più da questa vicenda, anzi perderanno quelli di chi si chiede dove sia finito il coraggio delle proprie idee e convinzioni.

A luglio, quando la legge venne rinviata, si disse che non la si poteva approvare in un momento in cui i migranti sbarcavano in massa sulle nostre coste (stabilendo un legame tra le due cose che non ha fondamento), così venne messa in campo la strategia di Marco Minniti per fermare i flussi dall’Africa e insieme paure e ansie. Gli sbarchi sono crollati, il ministro dell’Interno ha varato un piano di diritti e doveri per i rifugiati, ma ora crolla il patto politico che voleva tenere insieme sicurezza e integrazione. Integrazione, in questo caso, non di chi è arrivato con i gommoni degli scafisti ma di chi è nato e cresciuto in Italia.

Quello che è successo è il perfetto segno dei tempi, quello in cui le grida degli ultrà vincono sulla razionalità e il buon senso, quello in cui si mescolano i piani e ci si piega alle generalizzazioni. Come ha ben spiegato su questo giornale Ilvo Diamanti, il tema immigrazione sale in cima alle preoccupazioni degli italiani ogni volta che ci sono le elezioni, sarà un caso o il frutto di una propaganda elettorale avvelenata?

Ed è un segno dei tempi pensare anche di cancellare i problemi rimuovendoli. Domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia ha messo in evidenza sul Corriere della Sera perplessità e dubbi sullo Ius soli, mettendo al centro le difficoltà culturali dell’integrazione dei musulmani — che sarebbero comunque solo un terzo dei beneficiati dalla legge — oltre che la possibilità di mantenere una doppia cittadinanza (non si capisce perché sia lecito e pacifico poter avere il passaporto italiano e quello statunitense ma sospetto mantenere quello marocchino o senegalese).

È chiaro che i problemi esistono, come sottolinea Galli della Loggia, di fronte a culture e comunità che non riconoscono alle donne gli stessi diritti degli uomini, ma allora la soluzione è negare la cittadinanza alle bambine che a 12 anni vengono rispedite nei loro Paesi per i matrimoni combinati o che non possono andare all’università anche se sono molto più brave dei loro fratelli? La soluzione è arrendersi di fronte a mentalità arretrate o difendere quelle bambine con una cittadinanza che permetta di integrarle e far progredire le loro comunità?

Arrendersi alla chiusura di quelle comunità, che vivono e continueranno a vivere nelle nostre città, è l’errore più grande che possiamo fare e che complicherà il nostro futuro. Abbiamo sprecato un’occasione gigantesca, reso inutile un finale di legislatura che poteva provare ad essere nobile e accettato di perdere la partita rinunciando a giocarla.

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Titolo: MARIO CALABRESI. Il falò della verità
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:23:41 pm
Il falò della verità
A sinistra si è scelto di giocare al massacro su un falso problema: la stagione del maggioritario e del nome del premier sulla scheda è finita e quindi il dibattito su chi debbano essere i candidati premier è demenziale

Di MARIO CALABRESI
08 novembre 2017

IL DIBATTITO su chi debbano essere i candidati premier dei vari schieramenti per le prossime elezioni non è solo fasullo, ma anche demenziale. Prima di tutto perché inganna i cittadini: il sistema elettorale con cui andremo al voto è per due terzi proporzionale e non prevede nessuna indicazione del presidente del Consiglio. Inoltre il sistema tripolare in cui ci troviamo non permetterà ad alcun partito di arrivare ad avere la maggioranza da solo. Così dopo le elezioni assisteremo a trattative e mediazioni tra le forze politiche o all'interno delle coalizioni per trovare figure che siano punti d'equilibrio.

Questo i cittadini lo devono sapere con chiarezza: la stagione del maggioritario e del nome del premier sulla scheda è finita con il referendum di un anno fa e il nuovo sistema elettorale l'ha definitivamente archiviata.
Il fatto che questo però continui a essere materia del contendere a sinistra è anche autolesionista. Infatti la coalizione che oggi sembra avere più possibilità di affermarsi, il centrodestra, ha accuratamente evitato il problema, sapendo quanto divisivo e inutile sia affrontare ora questa discussione. L'accordo tra Berlusconi e Salvini è che a indicare il possibile capo del governo sarà il partito che prende un voto in più.

Sapendo, al di là della prevedibile propaganda, che l'incarico non spetterà a nessuno di loro due. Il Movimento 5 stelle ha scelto Di Maio, per darsi una guida parlamentare e mettere fine a fibrillazioni e dibattiti interni, ma nessuno può credere che da soli conquisteranno la maggioranza dei seggi parlamentari, così - anche in questo caso - ogni ipotesi di mediazione, di coalizione o di governo che cerchi convergenze in Parlamento partirà proprio dalla scelta di una figura di area che sia meno connotata.

A sinistra invece si è scelto di giocare al massacro su un falso problema: da un lato Renzi si è arroccato in difesa, ha ricominciato a propagandare una vocazione maggioritaria e ad immaginare di arrivare al 40 per cento, dall'altro si va creando intorno a Grasso un piccolo cartello elettorale che ha come nemico proprio il Pd e non Salvini, Berlusconi o Grillo. Le aperture e le prove di dialogo, fatte in questo clima e su queste basi, sono solo finzione. Un gioco del cerino per addebitare alla controparte la responsabilità della divisione. Un combinato disposto che minaccia di consegnare la sinistra italiana all'irrilevanza, come è accaduto domenica in Sicilia.
Eppure l'obiettivo dovrebbe essere chiarissimo ed è davanti ai nostri occhi: sconfiggere i due populismi italiani che oggi si contendono la guida del Paese.

Purtroppo non c'è stato nemmeno questa volta, come non ci fu dopo la sconfitta al referendum, un vero cambio di passo da parte di Renzi. Un autentico ripensamento. La consapevolezza che i risultati propagandati non corrispondono al percepito dei cittadini. Inutile ripeterli ad ogni occasione, se non sono riusciti a fare la differenza nella vita delle persone, allora bisognerà chiedersi il perché.

Matteo Renzi aveva dato grande speranza all'Italia, ma poi ha perso il contatto con il Paese, non è riuscito a cogliere il malessere e le paure, che non andavano certo inseguite ma invece comprese e affrontate. La chiave non era andare da Obama alla Casa Bianca, farsi vedere innovatore accanto a Jeff Bezos e parlare delle eccellenze, così come oggi non potrà essere cercare una sponda in Macron, ma mostrare di capire i bisogni e le sofferenze. Quello che è mancato è l'ascolto.

Da molti anni la sinistra italiana - come ha sottolineato ieri Ezio Mauro - ha mostrato grande senso di responsabilità, lo ha fatto sacrificando spesso totem e tradizioni, lo ha fatto per superare passaggi drammatici. Ora si rende conto del costo che questo ha comportato, ma la risposta non può essere praticare l'irresponsabilità per far vedere che si è vivi e vicini alla gente.

La sinistra, o perlomeno quell'area che si usa chiamare progressista o democratica e che è in profonda crisi in tutto l'Occidente, deve avere il coraggio di guardarsi dal fascino della convenienza, del cavalcare le pulsioni del momento, le parole d'ordine dei populismi, prima di tutto perché inutile elettoralmente, secondo perché non viene capito nemmeno dai tuoi. Allora non resta che la strada della convinzione. Essere convinti delle proprie idee, avere il coraggio di aggiornarle, di metterle a fuoco e di mostrarle. Quale progetto di Paese, di società, di sviluppo, quale agenda di diritti e doveri e quale anima.

Svegliarsi una mattina e cominciare a cannoneggiare la Banca d'Italia accodandosi ai professionisti della demolizione è una scorciatoia pericolosa. Se sei forza di governo e credi ci siano stati errori e omissioni allora crei le condizioni per un cambio di Governatore, non permetti la riconferma tenendoti le mani libere per gridare allo scandalo. Allo stesso modo ci si chiarisce sull'innalzamento dell'età pensionabile, non si lascia la patata bollente al governo, come fosse altro dal Pd, per prenderne poi le distanze.

Si decide se spiegare, con coraggio, al Paese che è una scelta faticosa ma necessaria a non scaricare il costo della rinuncia sulle generazioni più giovani e meno tutelate (o per nulla tutelate) o ad avere quel di più di flessibilità che ha permesso di evitare nuove tasse o maggiori tagli alle spese. Oppure si decide di non cambiare le regole pensionistiche e di lasciare il problema in eredità al prossimo governo, ma lo si dice con forza e chiarezza sapendo che questo comporta dei costi.

Così i vitalizi, una parte del Pd non accetta di modificarli ma Renzi vuole cavalcare il tema per non lasciare questa carta nelle mani di Grillo. Anche qui le strade sarebbero due: o convinci il tuo partito della bontà della cosa o ne capisci le ragioni. Bombardare il quartier generale è l'unica mossa che dovrebbe essere evitata, soprattutto perché il quartier generale è il tuo e pensare che le macerie possano affascinare gli elettori sembra davvero un calcolo sbagliato.

Il voto siciliano dovrebbe contemporaneamente imporre una seria riflessione a Bersani e soci, i quali farebbero bene a chiedersi come mai, se sono così in sintonia con il "vero" popolo di sinistra, restano tanto minoritari e ininfluenti. Pensare che le prossime elezioni saranno l'occasione per la conta e per eliminare un segretario che è considerato un marziano è suicida. Stiamo assistendo ad uno spettacolo che non conquista i cuori e nemmeno le menti ma spinge l'elettorato progressista verso l'astensione e il disgusto.

Ci si fermi un attimo a pensare come sia possibile aver lasciato campo libero a forze neofasciste e xenofobe come Casa-Pound, che in alcuni quartieri di Ostia è arrivata al 20 per cento sostituendosi all'azione che un tempo era dei sindacati o delle sezioni e cavalcando paure e frustrazioni. Le risposte devono partire da qui, non perdendosi in gabbie burocratiche e lotte fratricide, ma parlando il linguaggio della verità

e mostrando di avere una visione del futuro. Altrimenti non ci resta che fare nostro un verso di William Yeats, citato domenica da Franco Marcoaldi nella sua rubrica su Robinson, "I migliori perdono ogni convinzione / mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità".

© Riproduzione riservata 08 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/08/news/il_falo_della_verita_-180535775/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2


Titolo: MARIO CALABRESI. Chi dobbiamo ricordare Nel giorno in cui muore Salvatore Riina
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2017, 05:35:10 pm
Chi dobbiamo ricordare

Nel giorno in cui muore Salvatore Riina, mai un segno di ravvedimento dalla ferocia, è giusto ricordare gli uomini e le donne grazie ai quali questa storia si è chiusa nel centro medico del carcere di Parma

Di MARIO CALABRESI
18 novembre 2017

Nella memoria di molti italiani, della maggior parte di noi, sono fissati indelebilmente il momento in cui abbiamo saputo che Giovanni Falcone era stato ucciso a Capaci e il dolore e la rabbia per la strage che poche settimane dopo ci tolse anche Paolo Borsellino. Più lontano nella memoria, lo sgomento per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di sua moglie Emanuela Setti Carraro, indifesi nella piccola Autobianchi A112. Tre momenti in cui lo Stato apparve perduto, incapace di fermare un’organizzazione criminale che sembrava invincibile.

Ora, nel giorno in cui muore Salvatore Riina, mai un segno di ravvedimento dalla ferocia, è giusto ricordare gli uomini e le donne grazie ai quali questa storia si è chiusa nel centro medico del carcere di Parma. I magistrati, i poliziotti, i carabinieri che si sono battuti per fermare il contagio, che hanno vinto la battaglia contro i corleonesi e hanno permesso alla Sicilia e all’Italia di tornare a vivere. Insieme a loro ci sono le vittime innocenti e la società civile, che da Palermo a Milano fu capace di mobilitarsi, di non girare più la testa dall’altra parte e di dire ad alta voce che la mafia era un’emergenza nazionale.

Penso a quegli uomini miti e silenziosi come Antonino Caponnetto, che prese il posto di Rocco Chinnici — l’ideatore del pool antimafia ucciso da un’autobomba nel 1983 — e trasferì nella lotta alla mafia le strategie utilizzate per sconfiggere il terrorismo, chiamando con sé Falcone e Borsellino. Viveva in modo monacale tra il palazzo di giustizia e la caserma della guardia di finanza che era la sua casa, i libri come unica compagnia. Una dedizione assoluta che proseguì nell’instancabile viaggio — lasciata la toga — nelle scuole italiane, per raccontare con il suo accento toscano la lotta alla mafia e per educare alla legalità.

Questa è l’Italia a cui dobbiamo guardare nel tempo in cui la ’ndrangheta la fa da padrone, in cui dilaga la corruzione e le piccole mafie proliferano a Ostia come a Modena, ricordando i molti che mai si arresero e mai si adeguarono.

L’elenco dei vivi è impossibile, quello delle vittime anche, ma ricordare alcuni nomi per tutti è doveroso. Dal dimenticato magistrato Alberto Giacomelli, assassinato — quando era già in pensione — per aver firmato anni prima il sequestro di una villetta del fratello di Riina, ai colleghi Cesare Terranova, Giangiacomo Ciccio Montalto e Antonino Scopelliti. Commissari come Boris Giuliano, Ninni Cassarà e Beppe Montana; il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, che venne colpito mentre guardava i fuochi d’artificio insieme alla figlia di 4 anni, o il professor Paolo Giaccone, medico legale ucciso per non aver accettato di cambiare la sua perizia su un’impronta digitale che incastrava un killer mafioso.

Ci sono poi gli uomini e le donne delle scorte, da Vito Schifani a Emanuela Loi e le vittime civili delle stragi e degli attentati. Penso a Barbara Rizzo, aveva 30 anni e stava portando alla prima elementare i gemelli Salvatore e Giuseppe Asta. Vennero uccisi dalla micidiale esplosione di un’autobomba progettata per eliminare il giudice Carlo Palermo e le sue inchieste sulle raffinerie di droga.

L’Italia non è guarita e la criminalità organizzata non è stata estirpata ma la Piovra, quella che organizzava le stragi, i massacri e strangolava una città, un’isola e un Paese quella è stata sconfitta. E dobbiamo a questi uomini se Salvatore Riina è morto, il giorno dopo il suo ottantasettesimo compleanno, sconfitto e isolato in un supercarcere e non nella sua Corleone.

© Riproduzione riservata 18 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/18/news/chi_dobbiamo_ricordare-181398629/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: Sergio Marchionne aneddoti storie di Mario Calabresi
Inserito da: Arlecchino - Luglio 29, 2018, 12:50:20 pm
Sergio Marchionne raccontato in 9 aneddoti

Il supermanager nel ricordo di chi lo conosceva bene: Mario Calabresi su Repubblica

26 luglio 2018, 11:22
Sergio Marchionne aneddoti storie Mario Calabresi

“Credo che nemmeno lui riuscisse a immaginarsi pensionato”. Le prime tre pagine di Repubblica di oggi sono dedicate a Sergio Marchionne, morto il 25 luglio a 66 anni in un ospedale universitario di Zurigo. A scriverle, raccontando di un rapporto consolidato nel tempo, è il direttore del giornale, Mario Calabresi. Un testo che scorre rapido, tra ricordi e aneddoti, tra descrizioni e scambi di battute. Tre pagine in cui emerge l’uomo Marchionne, dedito al lavoro e alla fatica, ma con un’umanità spesso poco sottolineata. E che emerge, prepotente, da queste nove piccole storie.

La “fame” di un emigrato che cercava riscatto
Come ricorda Calabresi, Marchionne si trasferì dall’altra parte del mondo appena adolescente. Lo fece tra mille difficoltà e limiti, ansie e desideri, con una timidezza che lo bloccava nella sfera professionale e sentimentale.

“Sono arrivato in Canada dall’Abruzzo che avevo 14 anni, parlavo l’inglese malissimo, con un marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di 6 anni a perderlo. Sei anni persi con le ragazze. L’imbarazzo di aprire la bocca mi paralizzava”.

I dettagli, la sua ossessione
Ma da quel momento in poi l’ex manager di FCA decise di reagire “per non rimanere più paralizzato”. Prese tre lauree e, una volta sbarcato nel mondo Fiat, si dedicò alla sua rinascita con una grande attenzione per i particolari. Era l’unico modo per combattere i giganti tedeschi e dimostrare di essere più caparbio di qualunque ostacolo. 

“Le pubblicità del Superbowl erano ogni anno il suo manifesto. Le curava in ogni dettaglio, diventò matto per avere Eminem, poi Clint Eastwood e infine Bob Dylan, il suo cruccio era non aver convinto Bruce Springsteen”.

25 luglio 2018,12:23
EL PAIS: Muore Sergio Marchionne, l'uomo che salvò la Fiat L'amministratore delegato era stato sollevato dalla direzione della compagnia la scorsa settimana a causa di una malattia

25 luglio 2018,12:23
BBC NEWS: L'ex capo della Fiat Marchionne muore a 66 anni. Sergio Marchionne aveva guidato Fiat-Chrysler per più di un decennio

25 luglio 2018,12:23
 WALL STREET JOURNAL: Sergio Marchionne, che fuse Chrysler e Fiat, muore all'età di 66 anni.    Ha sfidato l'ortodossia, individuando le tendenze in anticipo

25 luglio 2018,12:23
FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG (FAZ): Marchionne, per lungo tempo a capo della Fiat, è morto Già nel fine settimana, il manager era stato sostituito a capo del gruppo automobilistico Fiat Chrysler e Ferrari. La sua morte è vista da molte persone in in Italia come la fine di un’epoca

25 luglio 2018,12:23
LE MONDE: Sergio Marchionne, ex amministratore delegato di Fiat Group e presidente della Ferrari, è morto. Il Gruppo Fiat Chrysler ha annunciato mercoledì la morte del suo ex capo.

25 luglio 2018,12:23
EL MUNDO: Muore Sergio Marchionne, l'uomo che salvò la Fiat Mike Manley succede a Sergio Marchionne come capo della Fiat

25 luglio 2018,12:23
EL PAIS: Muore Sergio Marchionne, l'uomo che salvò la Fiat L'amministratore delegato era stato sollevato dalla direzione della compagnia la scorsa settimana a causa di una malattia

25 luglio 2018,12:23
BBC NEWS: L'ex capo della Fiat Marchionne muore a 66 anni. Sergio Marchionne aveva guidato Fiat-Chrysler per più di un decennio

La filosofia (e lo spot) perfetta
Il direttore di Repubblica racconta come Marchionne ritenesse uno spot, quello fatto per il lancio di Maserati negli Stati Uniti, il suo lavoro migliore. Era il 2014 e quella, forse, rimane ancora oggi una delle più importanti lezioni su come un’eccellenza italiana potesse alzare la propria voce in una cultura dominante come quella americana

“Siamo circondati da giganti, abbiamo dovuto imparare ad affrontarli e a batterli. Siamo piccoli ma veloci e sappiamo che essere svegli è più importante che essere il ragazzo più grosso del quartiere”.

L’unica vacanza in 10 anni
Marchionne non staccava mai e chi lavorava con lui spesso raccontava dei ritmi folli a cui veniva sottoposto. Una volta, però, tornò abbronzato alimentando la curiosità di molti collaboratori, amici e giornalisti. Fu lui stesso a spiegare quell’avvenimento inconsueto.

“Un fine settimana a Boston, per vedere da turista l’Università di Harvard e la Kennedy Library. Poi mi sono a leggere un libro su una panchina al sole e mi sono scottato”.

Il metodo Marchionne tra caricatori e sigarette
La sua era vita passata in viaggio tra aerei da prendere e meeting a cui presenziare. Il manager italo-canadese, secondo la descrizione di Calabresi, si muoveva con uno zainetto e due buste di plastica che contenevano le sigarette, il the freddo, e tre caricatori: uno per la Svizzera, uno per l’Italia e uno per gli Stati Uniti. La sua era una indole maniacale, difficile da emulare. Come la sua passione per la musica: “aveva migliaia di brani che teneva sul Mac, da Keith Jarrett alla Callas”.

Era fissato con il metodo di lavoro. Mai interrompere una riunione finché non era conclusa. Concentrarsi sempre su una cosa e chiuderla. E non distrarsi con i telefoni. Mettere un finto appuntamento in agenda ogni due ore per avere uno spazio dove risolvere i problemi improvvisi

Meglio la lingua inglese di quella italiana
Con John Elkann, con cui aveva un legame di grande amicizia, non usava quasi mai la lingua italiana. Non era una scelta dettata da un capriccio o da un senso di appartenenza per il mondo anglosassone. Quello che contava davvero, anche in questo caso, erano la convenienza e la rapidità.

Spesso parlavano in inglese tra loro, per fare più in fretta e capirsi. Marchionne era fissato con la velocità: “La lingua italiana è troppo complessa e lenta. Per un concetto che in inglese si spiega i due parole, in italiano ne occorrono almeno sei”.

Il giudizio su Renzi
Calabresi racconta quanto l’ex premier colpì anche Marchionne. L’uomo che aveva rimesso in piedi la Fiat con politiche coraggiose, forse si rivedeva in quel giovane politico così ambizioso e spavaldo.

Gli piacque Renzi, perché gli sembrava diverso, più dinamico, non ingessato, con un modo di parlare diretto. Pensò che avrebbe davvero cambiato l’Italia. Quando lo vide in difficoltà ragionò che aveva sbagliato a non scegliere i migliori, ma a circondarsi di una schiera di amici fiorentini.

Il rapporto con Obama e Trump
A differenza di altri, Marchionne teneva buoni rapporti con due presidenti così diversi e fautori di politiche così opposte. Non aveva remore a lodare le scelte e la visione di Obama che avevano portato al rilancio di una città in crisi, ma affamata di riscatto, come Detroit. Ma allo stesso tempo affermava di “capire” Trump.

“Chi non lo capisce non capisce l’americano medio, che non è quello che vive a New York o San Francisco, ma che sta nel mezzo. Quello che è orgoglioso di farti vedere quanto è grande il suo televisore o ti trascina in garage prima del barbecue per mostrarti la macchina nuova. Trump è esattamente quella cosa lì”.

L’amore per la sorella
Il direttore di Repubblica chiude il pezzo raccontando del loro primo incontro, a New York. Quello che emerge è un Marchionne nostalgico, assai legato alla famiglia. Un uomo attraversato, come tutti, da momenti di vulnerabilità. Momenti che però si dimostravano oltremodo passeggeri e che venivano messi da parte rapidamente. Come se non potessero rubare troppo tempo a chi tempo non ne aveva.

Mi parlò della sua infanzia e delle nostalgie che aveva di suo padre, di sua madre e degli studi di filosofia. Ma soprattutto della sorella Luciana che amava tantissimo, morta a 32 anni di cancro. Mi raccontò di quando accompagnò per l’ultima volta il figlio di lei all’ospedale per salutare la mamma. Si commosse e smise di parlare per un po’. Poi cambio discorso e ordinò una bottiglia di vino e due bistecche

Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it

Da - https://www.agi.it/economia/sergio_marchionne_aneddoti_storie_mario_calabresi-4202714/news/2018-07-26/