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Autore Discussione: MARIO CALABRESI.  (Letto 72781 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 06, 2009, 09:42:59 am »

6/11/2009

Washington-Roma rapporti faticosi
   
MARIO CALABRESI

La sentenza del tribunale di Milano che condanna 22 agenti della Cia per il rapimento di un imam radicale egiziano non ha precedenti nel mondo ed è vista con apprensione a Washington perché riapre uno dei capitoli più temuti e spinosi per la nuova Casa Bianca di Barack Obama. La Digos di Milano e il procuratore Armando Spataro hanno visto riconosciuta la bontà della loro indagine, che nonostante notevoli impedimenti e un clima ostile è riuscita a dimostrare come ha agito sul nostro territorio il più famoso e potente servizio segreto del pianeta.

Il loro lavoro dimostra - anche se gli americani continuano a negarlo - che è possibile ricostruire nel dettaglio i comportamenti illegali dell’amministrazione guidata da Bush e Cheney e che è possibile anche portarli davanti ad un giudice per chiedere che si pronunci sulla liceità di azioni che ledono diritti civili basilari.

Obama ha sempre denunciato queste violazioni e durante tutta la campagna elettorale ha promesso che avrebbe messo fine all’uso della tortura negli interrogatori, così come avrebbe chiuso il carcere speciale di Guantanamo e le prigioni segrete della Cia, anche se ha lasciato aperta la possibilità (inventata da Bill Clinton) di fare extraordinary rendition, ovvero rapire e trasferire sospetti terroristi come Abu Omar. Seppur con dei ritardi e non senza confusione il nuovo Presidente americano sta mantenendo la sua parola sulle torture e le carceri. Ma una cosa ha deciso di non fare: indagare sul passato.

L’America si impegna a non violare più i diritti civili in nome della sicurezza ma, sempre in nome di questa, non processerà chi lo ha fatto in passato. Obama non può permettersi di tenere la Cia sul banco degli imputati per anni mentre sono in corso ancora due guerre, il terrorismo islamico non è battuto e l’Iran lavora per diventare una potenza nucleare. E non intende mettere sotto accusa Bush e Cheney: ci penserà la storia - è il suo ragionamento - e io voglio usare il mio mandato per costruire l’America del futuro, per cambiarla e non passare il mio tempo con la testa rivolta all’indietro, mettendo al centro della scena ancora la coppia repubblicana. La sentenza di Milano rischia però di riaccendere i malumori dei liberal e della sinistra democratica, che mal avevano digerito questa scelta del Presidente, e potrebbe costituire un precedente per indagini e processi in altri Paesi europei.

Questo non significa che la magistratura milanese avrebbe dovuto farsi carico di opportunità diplomatiche e agire diversamente: di fronte ad un’ipotesi di reato di questa gravità era tenuta a procedere come ha fatto. Ma dobbiamo sapere che questo avrà inevitabilmente e ha già, come vedremo, delle ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi. Il comportamento della politica italiana, agli occhi degli Stati Uniti, è stato confuso e ingiusto, tanto che con il segreto di Stato si sono salvati gli uomini dei servizi italiani ma non quelli americani. «Non abbiamo mai agito illegalmente in Italia e ne abbiamo sempre rispettato la sovranità», ripetono da anni al Dipartimento di Stato e questo significa una sola cosa: la Cia si muoveva all’interno di un quadro concordato, nell’ambito della lotta al terrorismo, con il governo guidato da Silvio Berlusconi. Il fatto che anche l’esecutivo Prodi, con Arturo Parisi ministro della Difesa, abbia opposto il segreto di Stato non ha fatto che confermare come ci fosse un’intesa politico-diplomatica dietro tutto ciò. Ma a fare chiarezza fino a questo livello il tribunale milanese non è potuto arrivare.

I rapporti tra Stati Uniti ed Italia sono già resi faticosi dalla nostra politica di alleanza privilegiata con la Russia di Putin, così come dai nostri rapporti con Iran e Libia, e negli ultimi giorni dall’ipotesi di un disimpegno dal Libano. Ora, paradossalmente, il primo a pagare il conto di questa diffidenza americana rischia di essere non Silvio Berlusconi bensì Massimo D’Alema, ancora in corsa per diventare responsabile della politica estera e di difesa dell’Europa. Nelle ultime ore infatti si sarebbe intensificata una pressione americana in favore del candidato britannico David Miliband, dettata anche dalla volontà di non premiare l’Italia, nonostante D’Alema sia il premier dell’impegno in Kosovo e il ministro degli Esteri che ha spinto per intervenire come forza di pace per stabilizzare il Libano. La scelta di D’Alema, si ragiona a Washington, verrebbe letta come un via libera ai comportamenti dell’Italia al di là del candidato proposto. Non è un caso che, proprio ieri, un siluro alla candidatura dell’ex premier sia arrivato dal più atlantico e filo-americano dei nuovi entrati nella Ue: la Polonia. E così la battaglia ancora aperta su «Mister Pesc» si sta spostando da Bruxelles a Washington.

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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 13, 2009, 10:38:31 am »

13/12/2009

Quei fischi non rovineranno la battaglia della memoria
   
MARIO CALABRESI


Quarant’anni di lavoro tenace, la battaglia di una vita, per tenere in vita il ricordo, per farsi rispettare, per cercare di ottenere giustizia o almeno la verità storica. Poi, nel giorno in cui per la prima volta sentono accanto a loro il Presidente della Repubblica, nell’anno in cui il Paese sembra avere ritrovato la memoria, le loro voci vengono coperte dai fischi. Non riescono a parlare, a raccontare, contestati dall’ignoranza di chi è convinto di stare dalla parte del giusto perché grida contro il palco delle autorità, di volere la verità perché scandisce slogan contro la strage fascista. Chi grida, chi continua a fischiare non è in grado di capire quanta strada hanno dovuto percorrere questi uomini e queste donne, che hanno avuto la vita segnata da una bomba, per rimettere insieme i fili della Storia.

Per avere processi che arrivassero fino in fondo, per sopravvivere alle beffe, per ottenere carte, documenti, testimonianze, per vedere scritto nelle sentenze che la strage era stata sì di mano neofascista, che c’erano complicità nelle Istituzioni, che le vite dei loro padri o mariti erano state cancellate per tentare di cambiare la faccia della democrazia italiana. I familiari dei morti di Piazza Fontana e gli oltre ottanta feriti ci hanno provato di fronte ad un Paese distratto, ad una politica che li viveva con fastidio, che o li usava o cercava di rimuoverli, e ad uno Stato che troppo spesso appariva chiuso e ostile se non nemico. Per quarant’anni hanno viaggiato da un Palazzo di Giustizia ad un altro, provando umiliazione e rabbia, poi hanno testimoniato, non solo nei tribunali, ma nelle scuole, nelle università e ogni anno in Piazza Fontana.

Non tutti i parenti dei 17 morti della strage del 12 dicembre del 1969 ce l’hanno fatta ad arrivare fino ad oggi, solo una decina di famiglie sono ancora presenti, delle altre o non c’è più nessuno in vita o non c’è più la forza per partecipare. Un lungo percorso che trova al suo approdo grida, fischi e altra violenza, nel minuto in cui Milano per la prima volta si ferma. Potremmo allora dire che è stato tutto inutile, che tutto è rovinato, che le contrapposizioni, l’odio ideologico e la bava alla bocca di quarant’anni fa hanno riconquistato il Paese, che mentre si lavorava per ricostruire un dialogo, per ricomporre le memorie, non si vedeva il ritorno delle drammatiche contrapposizioni di allora. Sbaglieremmo a farlo. Concentrarsi sui fischi significherebbe gettare via un patrimonio e un percorso fecondo, significherebbe far vincere l’ignoranza. Sbaglieremmo perché quella piazza che gridava non rappresenta l’Italia, è una foto ingiallita del passato o l’ingrandimento di una curva di tifosi ultrà.

La tristezza per quanto è successo resterà, ma resteranno anche i miracoli di questi ultimi anni: la voce ritrovata dei parenti delle vittime del terrorismo e delle stragi, una diversa sensibilità in televisione e sui giornali, l’istituzione del Giorno della Memoria, l’impegno di Carlo Azeglio Ciampi prima e di Giorgio Napolitano ora («Comprendo il peso che la verità negata rappresenta per ciascuno di voi, un peso che lo Stato - ha ripetuto pochi giorni fa il Presidente - porta su di sé»), l’abbraccio tra le mogli dell’anarchico Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi. C’è un sentire diverso, una solidarietà che non si conosceva: ieri a Milano c’erano anche i familiari di chi è stato ucciso dal terrorismo rosso, dalla figlia di Graziano Giralucci - prima vittima delle Br - a quelle di Walter Tobagi e Luigi Marangoni, dai figli dell’ingegner Carlo Ghiglieno a Manlio Milani che perse la moglie nella strage di Piazza della Loggia a Brescia.

Tutti convinti che sia necessario raccontare e ricordare, non lasciarsi abbattere dalla notizia che solo il cinque per cento degli studenti italiani ha un’idea di cosa sia successo in Piazza Fontana, che la maggior parte pensa la strage sia opera delle Brigate Rosse e non dei neofascisti di Ordine Nuovo. Proprio oggi pubblichiamo un’intervista a Franco Freda, riconosciuto come uno dei responsabili della bomba, è un documento illuminante del delirio ideologico che ha intossicato la società italiana, della convinzione che le idee politiche dovessero trovare compimento nella violenza. La persona che si è battuta di più per tenere viva la memoria e tenere la luce accesa sui processi per le stragi è proprio Manlio Milani, che ieri non ha potuto finire il suo intervento per colpa dei fischi. «Così si rovina tutto», ha commentato preso da un momento di sconforto, poi un attimo dopo aveva già l’agenda aperta per organizzare dibattiti nelle scuole e presentazioni di libri e memorie.

Lui non dimentica che tra il 1969 e l’84 in Italia ci furono 8 stragi con 150 morti e 690 feriti, che negli Anni di Piombo il Paese assistette a quasi 13 mila episodi di violenza grave, che fecero 342 vittime. Viviamo il tempo della testimonianza e della Memoria, di ricomposizioni e ricordi possibili, il tempo in cui una nonna - come racconta Paolo Colonnello in queste pagine - trova il coraggio e la forza di entrare nel salone della Banca dell’Agricoltura per raccontare ai nipoti perché non hanno mai conosciuto il loro nonno. Non vale la pena sciuparlo con i fischi.

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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 14, 2009, 10:16:40 am »

14/12/2009

Gli indignati a senso unico
   
MARIO CALABRESI


Ci sono momenti in cui bisognerebbe abolire due parole: ma e però. L’aggressione di un uomo, in questo caso di un primo ministro, è uno di quelli. Di fronte alla violenza non possono essere accettate subordinate, ammiccamenti o tantomeno giustificazioni. Il giorno che la politica italiana tutta lo avrà compreso fino in fondo, allora sarà davvero matura.

Il volto ferito e pieno di sangue di Silvio Berlusconi non può che lasciare sgomenti, non riesco ad immaginare una persona seria o che ami definirsi democratica e perbene che possa avere una reazione diversa.

Se invece la prima cosa che passa in testa è pensare che se la sia cercata o meritata, allora siamo entrati in uno spazio in cui la dialettica politica è degenerata.

Abbiamo ricevuto numerose lettere di persone che spiegano l’accaduto e lo comprendono come reazione ad un governo che definiscono «xenofobo», «antidemocratico» o «razzista». Sono persone che mostrano di essere solidali con gli immigrati e i più deboli, sconvolte per gli attacchi di Berlusconi ai magistrati e preoccupate per la democrazia, ma non toccate da ciò che è accaduto ieri sera. Questo modo di ragionare mi fa paura: come è possibile mostrare sensibilità a senso unico, battersi contro le violenze e poi giustificare un’aggressione, essere democratici e pacifisti e provare soddisfazione per il volto tumefatto di Berlusconi. Significa che l’ideologia continua a inquinare le coscienze, ad oscurare le menti.

Si può pensare che il presidente del Consiglio sia inadatto a governare, essere convinti che le sue esternazioni contro gli altri poteri dello Stato così come contro gli organi di garanzia siano allarmanti e sbagliate, essere preoccupati per quelle leggi «ad personam» che rischiano di peggiorare lo stato della giustizia italiana, ma niente di tutto ciò può giustificare la violenza. C’è una linea che in democrazia non si può passare, un discrimine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è a cui non si può derogare. E dire che sembrerebbe essere chiaro a tutti: tanto che anche a sinistra si invita alla mobilitazione democratica in seguito ad ogni aggressione o violenza. Questo deve valere anche per il leader di un governo di centrodestra, anche per Silvio Berlusconi.

Da ieri sera i blog e Internet sono invasi da battute, ironia, festeggiamenti e dai deliri di chi ci spiega che se l’è cercata. Su Facebook sono già nati decine di gruppi di fans dell’aggressore, Massimo Tartaglia, che in poche ore hanno raccolto migliaia di sostenitori. La rete, purtroppo, mostra ancora una volta di raccogliere il peggio di noi, ma politici e giornali hanno il dovere di non dare sponde, di essere seri e di capire che le giustificazioni ci portano su strade senza ritorno e che non si può continuare ad alzare il livello dello scontro.

E questo riguarda non solo la sinistra ma anche il premier, la sua maggioranza e i giornali che gli sono più vicini. Da mesi quasi nessuno sembra capace di sottrarsi alla tentazione di alimentare il clima terribile in cui viviamo, l’Italia somiglia sempre più ad uno stadio in cui si sente solo la voce degli ultras che gridano mentre incendiano le curve. In questo scontro continuo, in cui si parla soltanto dei destini del premier, si è persa di vista qualunque considerazione sullo stato del Paese e sui suoi bisogni.

Il presidente del Consiglio, a cui va la nostra solidarietà sincera, speriamo sia così saggio da capire che proprio lui - l’aggredito - ora può fare la differenza: può abbassare i toni e aprire la strada per un confronto più civile e rispettoso. C’è da augurarsi che anche tutta l’opposizione lo capisca e sia capace di isolare chi delira.

da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:45:02 pm »

24/12/2009 (7:0)

Il mondo da inventare
   
Il cambiamento e le certezze lasciano il posto alle sorprese


MARIO CALABRESI

Ogni neonato che verrà al mondo nella notte tra l'8 e il 9 aprile potrà vantare per tutta la vita di aver portato la popolazione del mondo a raggiungere quota sette miliardi. Lo sostiene il settimanale «Time» ma nessuno potrà dire con sicurezza se ciò accadrà davvero il prossimo anno o se dovremo aspettare il 2011. L'incertezza è la cifra del tempo che viviamo, una stagione della storia in cui la fede nel progresso e nel miglioramento del tenore di vita di ogni generazione è crollata.

Nessuno si azzarda a scommettere che la recessione sia finita davvero, la crisi superata e il futuro roseo, ma la storia ci rincuora raccontandoci che i cicli economici si alternano e i primi segnali di luce si cominciano a vedere. Finisce un decennio faticoso, cominciato con l'euforia dell'euro ma subito segnato dal crollo delle Torri Gemelle, dall'affermarsi del terrorismo islamico e dal dilagare della paura nelle società occidentali, concluso con la più grande distruzione di ricchezza e di lavoro dalla Seconda guerra mondiale. Abbiamo vissuto anni cupi, in cui è cambiato il nostro modo di vivere, viaggiare e relazionarci con gli altri, oggi non possiamo che sperare di tornare a respirare, a crescere e a costruire.

Il panorama che abbiamo davanti, superate le macerie di un crollo senza precedenti, sarà però sostanzialmente diverso da quello che eravamo abituati a conoscere: dopo aver parlato per anni della Cina come di una affascinante novità, ora dovremo prendere atto - come ci suggerisce l'«Economist» - che è diventata una nazione «indispensabile». Nel 2010 dovrebbe superare il Giappone come seconda economia mondiale e sarà cruciale per ogni decisione internazionale, dal commercio all'ambiente.

Anche le altre grandi economie «emergenti», dal Brasile all'India fino all'Indonesia, sono diventate una realtà: attori che hanno conquistato la scena mondiale e hanno sancito che il nuovo G20 conta ben più del G8, il vecchio club dei grandi della Terra. La geografia del pianeta è sconvolta, mentre il cuore dei consumi del lusso sarà sempre più Pechino e il calcio celebrerà il suo evento più importante in Africa, l'Europa dovrà fare i conti in fretta con la sua progressiva emarginazione. Non è più tempo per rendite di posizione e per coltivare antiche idee di grandezza, se non vogliamo scomparire dal tavolo delle decisioni più importanti - come è accaduto al vertice sul clima di Copenhagen - noi europei dobbiamo imparare a parlare con una voce sola. E i giovani del Vecchio Continente, dipinti come senza avvenire, vanno guidati verso i lavori del futuro: ingegneri innanzitutto, capaci di costruire le nuove «energie verdi».

Le bolle speculative che hanno distrutto l'economia e la finanza mondiale restano in agguato: il nuovo anno non può dimenticare nuove regole internazionali, così come la ripartenza richiederà di abbandonare la logica del breve termine per adottare una filosofia dello sguardo lungo, capace di programmare uno sviluppo graduale e sostenibile.

Sarà un anno cruciale per il presidente americano Barack Obama, che sarà costretto a far ripartire l'America e a dimostrare che il suo idealismo non è solo affascinante esercizio verbale ma può avere effetto sulla realtà. I suoi concittadini daranno il loro verdetto a novembre quando si rinnoveranno l'intero Congresso e un terzo del Senato. Dall'altra parte dell'Atlantico, in Gran Bretagna, alla fine della primavera potrebbe essere archiviata la lunga stagione laburista.

Gli italiani, «Popolo che vive in apnea, resiste ma non crea», secondo la definizione dell'Istat, saranno chiamati a votare alle elezioni regionali ma la vera scommessa sarà tirare fuori la testa dall'acqua. Questo 2009 è stato un anno di veleni, risse e rabbia, e anche se non si ha nessuna fiducia in un vero percorso di riforme è difficile immaginare che possa andare peggio. L'Italia perde peso nel mondo ma il nostro sistema continua a produrre eccellenze: alla premiazione del Nobel i fiori arrivavano da Sanremo e i nostri astronauti Vittori e Nespoli in autunno raggiungeranno la Stazione spaziale internazionale, che verrà completata con gli ultimi due moduli abitativi completamente progettati e costruiti in Italia. Si chiameranno Nodo 3 e Cupola, quest'ultimo servirà per alzare gli occhi e guardare le stelle: il migliore augurio per il nostro futuro.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Dicembre 30, 2009, 05:28:20 pm »

30/12/2009

Obama e l'Europa perduta
   
MARIO CALABRESI


Il decennio che si chiude domani, i tormentati Anni Zero, segna l’affermazione definitiva di un mondo nuovo, senza autorità e senza chiare gerarchie, il mondo multipolare.

Proprio ieri, a sottolineare il caos in cui viviamo, sono arrivate tre sfide simboliche all’America e all’Occidente da Russia, Iran e Cina. Tre sfide che mostrano un futuro pieno di incertezze e che richiamano noi europei al dovere di decidere chi siamo, cosa vogliamo e in che mondo desideriamo vivere.

Poco meno di due mesi fa abbiamo celebrato il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, per anni si è teorizzato che la storia era finita allora con la vittoria del modello occidentale, della democrazia e del capitalismo. Non è andata così. Anzi, la storia si è messa a correre, le voci si sono moltiplicate e i nuovi attori sulla scena non sono più per forza gli Stati nazione, ma vanno dalle organizzazioni terroristiche alle multinazionali, passando per le lobby internazionali di ogni genere.

La chiave di questo decennio però resta quella che lo ha aperto con gli attentati dell’11 settembre e che ha sperato di chiuderlo pochi giorni fa su un aereo in atterraggio a Detroit: il tentativo di colpire l’America - l’ultima superpotenza tradizionale - nei suoi punti vitali.

Assistiamo ad una apparente ripresa di vigore del terrorismo islamico e si potrebbe sostenere che la Russia di Putin che alza la voce con Washington, la Cina che mette a morte un cittadino di passaporto britannico e non accetta critiche e il regime iraniano che procede con la sua spietata repressione intimando all’Occidente di non intromettersi, siano tutti galvanizzati dalla debolezza del nuovo Presidente americano.

Ma un anno fa, due o cinque - va bene ognuno degli ultimi nove - accadeva lo stesso: Ahmadinejad minacciava Israele, gli Usa e i loro alleati e progettava l’atomica, Putin prometteva di puntare i suoi missili contro l’Europa sempre per rappresaglia contro il progetto di scudo americano, Al Qaeda faceva stragi e rapimenti, la Corea del Nord lavorava alla sua paranoia nucleare, Pechino non accettava critiche alle sue violazioni dei diritti umani e i vari dittatori, da Castro a Chávez, lanciavano proclami contro l’Occidente.

Anche allora si diceva che la colpa era della Casa Bianca, ma in quel caso che la responsabilità andava addebitata ad un presidente troppo sicuro di sé e muscolare.

Oggi la realtà dei fatti ci racconta un mondo frammentato in cui non c’è più un’autorità riconosciuta, in cui né l’Onu né i nuovi summit internazionali - dal G2 al G20 - sono in grado di indicare strade condivise, imporre regole e codici di condotta o garantire stabilità. L’unica logica riconosciuta sembra essere quella della ricchezza, della forza negli scambi commerciali e del possesso di materie prime. Per questo oggi l’Occidente, colpito in modo devastante dalla crisi, dalla recessione e da una crescente disoccupazione, appare ancora più debole.

Si potrebbe dire che da sempre la logica economica è quella prevalente ma dimenticheremmo il peso della forza militare che per decenni, insieme al dollaro, ha dato all’America e alla Nato la supremazia nel mondo. Oggi il potere dell’esercito a stelle e strisce appare ridimensionato dal fatto che i suoi soldati sono impantanati in due guerre e non hanno energie supplementari da utilizzare in altri scenari. Un quadro che può essere letto come un «liberi tutti», come un invito ad alzare il tiro contro l’Occidente, le sue regole e i suoi valori.

Inoltre, di fronte alle minacce iraniane, cinesi o russe gli europei si muovono in ordine sparso, ognuno preoccupato del suo particolare, delle sue commesse o dei suoi contratti energetici, tanto da non riuscire mai ad avere una posizione comune efficace e capace di farsi sentire. È tristissimo ed allarmante pensare che né la repressione iraniana né la pena di morte cinese siano in grado di indignare l’Europa e renderla protagonista.

Così non ci resta che guardare alla Casa Bianca, perché il progetto di Obama resta l'unico possibile per cercare di immaginare un pianeta più equilibrato e vivibile. Non si vedono oggi altre strade percorribili oltre all'idea obamiana di un mondo multipolare in cui l'America possa avere un ruolo guida e in cui i diritti siano al centro della scena. Il Presidente americano, per risultare più credibile, deve però rafforzarsi innanzitutto in casa sua: varare la riforma della sanità, rilanciare l'economia e ridurre la disoccupazione. Sono questi i tre passaggi cruciali del suo destino. Solo allora sarà un interlocutore più rispettato dai cinesi come dai russi. Inoltre dovrà essere capace di smascherare senza paura ogni bluff, specie quelli - come ci racconta oggi Moises Naim - che servono per nascondere le divisioni interne di Mosca o Teheran.

Il vero buco nero resta l'Europa, con una Gran Bretagna smarrita che attende di sapere da chi sarà guidata e come, una Francia in cui la grandeur di Sarkozy non si è ancora trasformata in nulla di concreto e visibile, una Germania incapace di prendere le redini del Continente e un’Italia che sperimenta alleanze non tradizionali e procede per conto proprio. Così o l’Europa si convince che solo unita può contare qualcosa o è destinata a somigliare sempre più ad una compagnia di nobili decaduti che si svendono e trattano, ognuno per sé, favori e attenzioni dai nuovi ricchi.

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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 29, 2010, 03:51:01 pm »

29/1/2010 (7:34)  - DOPPIO APPUNTAMENTO

La Stampa: che storia!

Carlo Fruttero e Massimo Gramellini

Una Storia tutta da raccontare

MARIO CALABRESI
   

Ogni sabato l'epopea del Risorgimento attraverso la biografia di Cavour. Ogni domenica il racconto in 150 date dei 150 anni dell'Italia unita

A partire da domani, ogni sabato e domenica, «La Stampa» fissa con i lettori due importanti appuntamenti in ultima pagina per avvicinarci al 2011, quando, a cominciare da marzo, verrà celebrato il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Ogni sabato, nell’ultima pagina, Giorgio Dell’Arti, giornalista, scrittore e conduttore radiofonico, già autore di una celebre biografia del grande statista piemontese («Vita di Cavour», Mondadori), narra la vita del geniale e visionario primo ministro di Casa Savoia. Un racconto, ricco di aneddoti ed episodi sconosciuti, che prende forma in un’intervista immaginaria e permetterà di conoscere gli aspetti più curiosi e meno noti della vita di un uomo politico molto citato, ma pochissimo conosciuto.

Da domenica 31 gennaio, invece, Carlo Fruttero, scrittore, e Massimo Gramellini, giornalista e vicedirettore del nostro giornale, ripercorreranno la storia d’Italia in 150 date. In un ideale passaggio di testimone il loro racconto comincia là dove finisce quello di Dell’Arti - con la proclamazione dell’Unità d’Italia il 17 marzo 1861 - e, dopo una cavalcata nel secolo e mezzo di vicende italiane, finirà con una notizia del 2011 ancora tutta da vivere.

L’idea di partenza è quella di divulgare in modo sintetico e leggero, ma non superficiale, la storia del nostro Paese a chi non la conosce e a chi crede di conoscerla. Come filo conduttore gli autori hanno deciso di utilizzare le date, simbolo di quel nozionismo da tanti osteggiato ai tempi della scuola, e magari oggi rimpianto.

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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 29, 2010, 03:54:01 pm »

29/1/2010

Una Storia tutta da raccontare
   
MARIO CALABRESI


Cosa sappiamo della vita di Camillo Cavour? Ricordi confusi dei tempi di scuola, qualcosa di grigio e lontanissimo. Poche le scuole a lui dedicate, in stato di abbandono la sua tomba a Santena, chiuso il parco secolare della villa di famiglia, che resta aperta solo grazie a 200 volontari che navigano in un mare di debiti. E le date della storia d’Italia? Archiviate da tempo insieme al nozionismo come qualcosa di inutile e polveroso. Lecito dimenticarle. Tra poco più di 13 mesi - il 17 marzo 2011 - l’unità d’Italia compirà 150 anni ma, a differenza di francesi e americani che hanno celebrato in grande stile i loro anniversari, noi festeggiamo i nostri con stanchezza e quasi con fastidio.

Questo giornale è di soli sei anni più giovane, essendo nato nel 1867, e forse per questo destino abbiamo pensato di fare qualcosa che non va più di moda: raccontare la storia dell’Italia e degli italiani, a partire dal primo dei suoi presidenti del Consiglio, quel Cavour di cui molti oggi sbagliano perfino il nome mettendo l’accento sulla “a”.

La scommessa però era di farlo in modo originale, brillante, appassionato, per restituire vita e luce al passato, per capire chi siamo, come siamo cresciuti e perché oggi l’Italia è questa. Per farlo si è formata una nuova coppia, Fruttero & Gramellini, che nella casa dello scrittore, a Castiglion della Pescaia, ha cominciato a giocare con le date, percorrendole tra rigore storico e inevitabile - visti i due caratteri - ironia.

Poi è arrivata la passione di Giorgio Dell’Arti per Cavour: «Camillo era un uomo di grande passione, lontanissimo da quel mito che lo dipinge come un freddo calcolatore e un cinico tessitore. Me ne sono innamorato e da anni penso che sia un delitto averlo dimenticato». Così, ogni sabato, in ultima pagina - quella che durante la settimana dedichiamo alle domande e risposte - troverete un’intervista immaginaria che racconta la vita del conte, con la diplomazia, l’arte di governo, i vizi, gli amori, i sigari e l’atmosfera della società dell’Ottocento.

Se Dell’Arti arriverà fino al 1861 - perché l’anno in cui nasce l’Italia è quello in cui muore Cavour - Fruttero e Gramellini partiranno da lì per arrivare ad un tempo che non abbiamo ancora vissuto: il 2011. Ogni domenica, concentrandosi su due date significative degli ultimi centocinquant’anni, ci accompagneranno da Vittorio Emanuele a Berlusconi, passando per il fascismo e il terrorismo. Naturalmente la presenza di uno scrittore come Fruttero ci permetterà di raccontare non solo le date della politica ma anche i personaggi e gli eventi della cultura che hanno fatto il nostro costume, da Giuseppe Verdi al De Amicis di Cuore, da D’Annunzio alla Dolce Vita di Fellini fino a Lucio Battisti.

L’idea che ci ha spinto non è quella di essere enciclopedici, di volervi raccontare tutto, ma solo di stuzzicare la vostra curiosità, la voglia di saperne di più e provare a scalfire quel muro di disinteresse verso il nostro passato che fa di noi un Paese di smemorati.

da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 13, 2010, 04:59:53 pm »

13/2/2010

Mani pulite la memoria è finita
   
MARIO CALABRESI

Per cancellare il ricordo, ogni prudenza e la paura, per ricostruire la spavalderia, il senso di impunità e l’arroganza sono serviti 18 anni. Una generazione. Un giro completo di giostra che sembra riportarci alla casella di partenza: 17 febbraio 1992.

Diciotto anni fa, l’anniversario esatto cade mercoledì prossimo, veniva arrestato il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio - ospizio per anziani milanese - mentre riceveva una tangente di sette milioni di lire. Si chiamava Mario Chiesa e con quelle manette prendeva il via la stagione di Mani Pulite. In quei giorni si affacciavano sulla scena politica di Milano facce nuove, pulite, che promettevano di parlare una lingua diversa: tra queste quella del leghista Pier Gianni Prosperini e di un gruppo di ragazzi della Gioventù liberale. Il primo è finito in carcere prima di Natale con l’accusa di aver incassato una tangente da 230 mila euro, mentre per uno dei giovani liberali - Camillo Pennisi detto Milko - le manette dei carabinieri sono scattate giovedì, mentre si faceva dare da un imprenditore cinquemila euro in contanti nascosti in un pacchetto di sigarette.

Se li era fatti portare nella piazzetta alle spalle di Palazzo Marino, durante la seduta del Consiglio comunale, con la naturalezza di chi esce dall’Aula un momento per fumare.

Nelle stesse ore è stato arrestato il presidente della Provincia di Vercelli e l’Italia ha cominciato a interrogarsi su quale sia la vera faccia di Guido Bertolaso e dei miracoli della Protezione civile.

Il presidente del Consiglio sostiene che i pubblici ministeri dovrebbero vergognarsi e si potrebbe essere tentati di leggere tutto questo come l’offensiva pre-elettorale di una magistratura politicizzata contro la maggioranza di governo a cui appartengono tutti questi personaggi. Ma i conti non tornano: sono in corso inchieste in otto delle tredici regioni che andranno al voto questa primavera, peccato però che i politici coinvolti in ben sei di queste appartengano al centrosinistra. Dal sindaco di Bologna allo scandalo della sanità pugliese, dagli avvisi di garanzia al candidato del Pd in Campania alla bufera sull’ex presidente del Lazio, fino alle inchieste in Calabria e all’indagine sugli appalti a Firenze. La magistratura ha colpito a destra - nel mirino la sanità lombarda - e a sinistra e i carabinieri sono intervenuti a Milano, come a Vercelli o a Roma perché c’erano imprenditori che hanno fatto denuncia, stanchi di pagare.

Ogni giorno emergono storie che ci raccontano come la sanità italiana e i suoi appalti siano diventati fonte privilegiata di approvvigionamento per gli appetiti della politica di ogni colore e schieramento. Si ha la sensazione che si sia davvero tornati al punto di partenza, con la differenza che non si agisce più per conto dei partiti, che nel frattempo non esistono più nella forma che conoscevamo vent’anni fa, ma prevalgano gli individui, le loro carriere e la voglia di avere vite private esagerate.

Ad essere tornata identica è la facilità con cui si chiedono tangenti, contributi, viaggi, automobili, prostitute, orologi, gioielli e carte di credito agli imprenditori che vogliono fare il salto di qualità. È la naturalezza con cui tutto ciò avviene e con cui si arraffa a fare impressione.

Lo spavento di un’intera classe politica, il senso di vergogna, i tabù e la prudenza che sembravano essere entrati nel dna della classe politica dopo Tangentopoli sono completamente svaniti. La rievocazione di Bettino Craxi a dieci anni dalla sua morte, che si è tenuta poche settimane fa, con quell’insistenza sui meriti storico politici dell’azione di governo dell’ex segretario socialista e la rimozione della corruzione e delle tangenti sono segno dei tempi. Segno che la memoria è svanita. Tanto che l’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli può permettersi di dire serenamente che le tangenti erano «solo» del tre per cento, come se questo le rendesse accettabili.

In questi giorni diventa maggiorenne la generazione nata in quel 1992, una parte di questi ragazzi andrà al voto per la prima volta tra poche settimane, siamo andati a cercarli e abbiamo avuto la conferma che Mani Pulite non è materia di ricordo. C’è smarrimento in chi andrà alle urne e dovrà sostenere la Maturità, davanti alla storia recente e ai comportamenti della politica di oggi. E aumenta la sfiducia.

Il moltiplicarsi delle inchieste porta con sé anche una sensazione di stanchezza, di assuefazione dell’opinione pubblica; certa spettacolarizzazione della giustizia - un discutibile protagonismo di magistrati che parlano prima dei loro atti - crea disagio e contribuisce allo sfarinamento del vivere civile. Penso a questa divulgazione continua di particolari - meglio se sessuali o pruriginosi - dati in pasto ai mezzi di comunicazione per far salire il livello di attenzione. Una strategia pericolosa e dubbia: si finisce per giudicare un politico per la sua moralità sessuale e si perde di vista la sostanza. Certo è evidente che il sesso sta diventando parte integrante del sistema della corruzione, ma concentrarsi sugli aspetti «pecorecci» finisce per far passare in secondo piano ruberie e spoliazioni della cosa pubblica. Sono convinto che sia poco importante passare giornate a discutere se Bertolaso curasse o no il mal di schiena in un centro sportivo romano, quanto è invece fondamentale capire come funzionava la macchina degli appalti della Protezione civile.

I cittadini avvertono un senso di nausea e la politica dovrebbe farsene carico con urgenza, riscoprendo lei il senso della misura e quello della vergogna.

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:18:05 am »

3/3/2010
La politica cancella la scienza
   
GIORGIO CALABRESE


L’Unione europea, con un diktat politico e non scientifico, disattendendo il desiderio di approfondimento del presidente Barroso, ha liberalizzato una patata Ogm.

Dal tubero geneticamente modificato si ricava amilopectina pura, uno dei componenti dell’amido, che viene utilizzata per carta, calcestruzzo e adesivi. Questo stesso amido è utilizzato come mangime animale e il gruppo Basf che lo produce ha dichiarato che non è previsto alcun utilizzo alimentare. Inoltre, sono stati liberalizzati altri tre tipi di mais per l’alimentazione umana e animale.

Si tratta della prima autorizzazione Ue ai prodotti Ogm, dopo anni di dibattiti pieni di dubbi sulla natura di questo tipo di coltivazioni. La nuova Commissione, insediatasi qualche settimana fa, ha iniziato male il suo lavoro. In particolare, mi riferisco al commissario Ue all’Ambiente, il maltese John Dalli.

Considerando il lungo dibattito in corso sulle colture transgeniche, i lettori potrebbero pensare che le ricerche sugli Ogm siano sempre super partes e che i loro risultati derivino da un’approfondita ricerca sul campo e sul prodotto. Non è così. Quando gli scienziati del panel degli Ogm dell’Efsa (l’Autorità Europea della Sicurezza Alimentare che si trova a Parma) danno un giudizio, questo non deriva da uno studio incrociato, ma il panel valuta solamente la letteratura scientifica (quando c’è ed è sufficiente) e inoltre valuta i lavori presentati dalle singole aziende produttrici (in questo caso la Basf). Questo modo di procedere non porta quasi mai a un voto unanime, perché si basa più che sulla reale verità scientifica, esclusivamente su giudizi votati a maggioranza, dove pesano soprattutto scienziati anglo-sassoni.

Questa scelta impone soluzioni politiche a problemi scientifici e questo non è giusto. Mi sembra di essere tornato all’epoca della cura «Di Bella» quando il dibattito si ridusse a definire il cancro di sinistra o di destra, senza valutare la reale efficacia terapeutica di quei farmaci. Come abbiamo visto, nel campo degli Organismi geneticamente modificati (Ogm) la ricerca è assolutamente di parte, sia a favore (multinazionali) sia contraria (Verdi e Ambientalisti), per cui chi è a favore presenta lavori che li esaltano, omettendo i dati negativi che debbono necessariamente esserci come in tutti i veri papers pubblicati; chi è contro sottolinea solo i lati negativi, senza tener conto di qualche spunto positivo che potrebbe esserci. Quale soluzione? Propongo che l’Unione europea finanzi con giusti fondi una ricerca super partes che entri nel merito degli effetti sulla salute umana, prima su cavia e poi sull’uomo, affidandola a centinaia di scienziati, pro e contro gli Ogm. Alla fine, un «board» molto qualificato, come alcuni Nobel della Scienza, valutino i lavori e diano un giudizio definitivo di eventuali danni o no alla salute umana. Sembra semplice e ovvio ma, proprio perché lo è, contrasta con il monopolio di cinque multinazionali che trovano nei Paesi anglosassoni dei fedeli difensori di prodotti che mortificano i nostri alimenti del Sud Europa, eccellenti per il loro gusto e che soprattutto garantiscono effetti salutisti al consumatore.

Spero che l’Europa non faccia questi passi avventati in avanti senza i giusti presupposti, perché nel tempo potrebbe pentirsene e trovarsi costretta a fare marcia indietro. Ciò non è mai politicamente e scientificamente corretto, perché nel frattempo qualcuno potrebbe essersi ammalato.

da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:18:54 am »

3/3/2010

Basta fatti vogliamo promesse
   
MARIO CALABRESI

Dove sono finite le idee, i progetti, i programmi, i sogni o anche le affabulazioni che la politica dispensava a piene mani prima di ogni elezione? Scomparse. Inghiottite da un malessere diffuso, da una cupezza che sembra aver coperto tutto. Le giornate sono scandite dagli scandali, dalle risse intestine e dalla sciatteria. La campagna elettorale esprime pochissima passione e nessuna energia, prigioniera della stanchezza e del risentimento.

Il fallimento della macchina organizzativa del primo partito italiano, incapace di presentare in Lombardia e nel Lazio liste rispettose dei regolamenti, racconta molto dei tempi che stiamo vivendo. Ci racconta come anche nelle incombenze più semplici e ordinarie sia venuta meno la capacità di fare le cose per bene, con rigore e attenzione. Il peggiore dei contrappassi per una forza che era nata promettendo la politica del fare e il trasferimento nella sfera pubblica dello spirito imprenditoriale.

Viene da chiedersi dove sia la testa dei nostri politici e che cosa li distragga. Sembrano essere concentrati in lotte fratricide, intenti a controllarsi e a cercare di piazzare una pedina fondamentale in vista di una resa dei conti che però non pare imminente. A livello locale si assiste a uno spettacolo ancora più squallido con le seconde file impegnate a strappare qualche posizione nelle liste o a rinfacciarsi la paternità di un candidato impresentabile.

È difficile immaginare che questa trascuratezza, questi veleni e questo pressappochismo possano poi trasformarsi in illuminata capacità di governo. La politica oggi sembra tornata sideralmente lontana dai problemi reali e chiedere conto dei programmi sulla sanità, le tasse o la sicurezza appare quasi naïf.

La sciatteria è figlia anche dell’arroganza e del disinteresse, due sentimenti che connotano chi si sente troppo forte, intoccabile, senza opposizione e senza alternativa. Non è un caso che gli incidenti delle liste siano accaduti in due regioni che il centrodestra considerava già vinte e non in discussione. Un eccesso di confidenza che non si è registrato, ad esempio, in Piemonte, dove la partita è aperta e la sfida non consente errori e distrazioni, tanto che, a tratti, si sente anche parlare di politica e di programmi.

Anche a livello nazionale si sente la mancanza di un’opposizione che tenga alta la tensione, che spinga chi governa a conquistare consenso ogni giorno invece di perdere tempo a spegnere programmi televisivi e a cercare silenzi complici.

Come in ogni fase di sfarinamento e di difficoltà è partito l'esercizio delle previsioni: si scruta Palazzo Chigi per capire se tutto questo sfocerà in una crisi, se una stagione della politica italiana volge al termine. Mi pare un esercizio sterile: oggi non sembra esistere una possibile alternativa di governo pronta e vincente e questa volta non si riesce a vedere chi abbia la forza o la voglia di far cadere il Cavaliere. La Lega - l’unico partito con i numeri per fare la differenza - si è sistemato nella posizione ideale per intercettare gli scontenti e per approfittare della crisi della Seconda Repubblica come fece con quella della Prima. Bossi non ha nessun interesse a cambiare cavallo e precipitare le cose, visto che le disgrazie altrui non fanno che rafforzarlo. Aspetterà il naturale evolversi delle cose, cercando nel frattempo di assicurarsi il controllo del Nord, puntando a governare Veneto e Piemonte.

Si dice da mesi che gli ultimi tre anni della legislatura, un periodo insolitamente lungo senza nessun appuntamento elettorale nazionale, potrebbero essere una grande occasione per fare riforme. Ma non si capisce quali e guidate da quale visione. Però non è immaginabile pensare di vivere 36 mesi in cui la politica si prepara soltanto ad un ipotetico dopo-Berlusconi.

L’unica certezza è che avremmo bisogno di molto più dibattito, di proposte, idee e parole e di molti meno silenzi. Non è blindando tutto che si riconquista la fiducia degli elettori, una fiducia che sta scendendo ai livelli più bassi: i cittadini sembrano aspettarsi qualunque cosa o forse sarebbe meglio dire che non si aspettano più niente dalla politica. E questa è la cosa che allarma di più. Viene da rimpiangere quell’ironica richiesta scritta con la vernice pochi anni fa su un muro di Brescia: «Basta con i fatti, vogliamo promesse».

da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 10, 2010, 09:19:25 am »

10/3/2010

Un anno alla finestra: un punto di vista privilegiato

   
MARIO CALABRESI

Siamo convinti che Torino sia un punto di vista privilegiato in cui osservare l’Italia unita che si avvia a compiere un secolo e mezzo di vita. Con la sua storia di cambiamento, da capitale a città fabbrica, dalla crisi alla nuova vita post-olimpica, spesso ha precorso i tempi. Per questo abbiamo pensato di osservarla dalle sue finestre e ascoltarne i racconti e la persona giusta per farlo era un osservatore esterno come Matteo Pericoli, sbarcato a Torino dopo 14 anni di vita a Manhattan.

La sua maniacale cura del dettaglio, capace di illuminare una scena e svelarcela, non gli ha impedito di dare vita all’immenso murale - lungo 120 metri - che accoglie i passeggeri al terminal dell’American Airlines all’aeroporto Kennedy di New York. Ma questa volta i suoi disegni mostreranno qualcosa di molto più intimo come la vista sulla città di personaggi famosi del presente e del passato, ma anche cittadini comuni. Un viaggio lungo un anno per riscoprire anche ciò che pensiamo di conoscere benissimo.

da lastampa.it
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 28, 2010, 07:25:59 pm »

28/3/2010

Un errore chiamarsi fuori
   
MARIO CALABRESI

Forse per capire che giorni ci aspettano varrebbe la pena interrogare un meteorologo: il voto di oggi e domani dovrà stabilire se, come spera Bossi, soffia impetuoso da Est a Ovest il vento del Nord, o se, come scommettono a sinistra, il vento è cambiato e non gonfia più la vela di Berlusconi. E nelle ultime ore è sempre più chiaro che l’area su cui concentrare l’attenzione, la regione in cui verranno misurate la direzione e la forza del vento, è il Piemonte.

Certo si tratta di elezioni regionali, non va dimenticato, e la nostra scelta determinerà soprattutto il modello di sanità che vogliamo, ma anche gli investimenti per le case, il lavoro, i trasporti o il turismo. È per questo che abbiamo preso un’iniziativa originale e impegnativa come quella di pubblicare domenica scorsa un dossier curato da Luca Ricolfi dove poter valutare in modo obiettivo come sono state governate le tredici amministrazioni per le quali siamo chiamati a votare. Quel dossier che potete consultare ancora sul nostro sito (www.lastampa.it/elezioni2010) è stato realizzato sulla base di dati oggettivi, sui quali misurare come si sono comportate le persone che oggi si presentano al vostro giudizio. Non abbiamo dato alcuna indicazione di voto, com’è tradizione di questo quotidiano, ma riteniamo di aver dato in modo onesto a ciascuno la possibilità di farsi un’idea e di scegliere. La capacità di fornire analisi e contesti pensiamo sia uno dei compiti fondamentali che hanno i giornali nell’epoca in cui si è bombardati ventiquattr’ore al giorno dall’informazione.

Detto ciò non possiamo fare finta che si risolva tutto all’interno dei confini regionali e nascondere che, come in ogni tornata elettorale che coinvolge una maggioranza dei cittadini italiani, la partita è più complessa e questa volta capace di condizionare la sorte e le dinamiche degli ultimi tre anni della legislatura.

Così non è campanilismo sostenere che il voto in Piemonte ha assunto una valenza particolare, ma la consapevolezza che tra Novara e Cuneo si è aperto un grande laboratorio che dovrà dare almeno tre risposte fondamentali: 1) la spinta propulsiva che due anni fa ha dato una grande vittoria al presidente del Consiglio e ha continuato a tenere il suo gradimento a livelli record è in grado di fargli conquistare tutte e tre le grandi Regioni del Nord o sta perdendo forza? 2) la Lega, che prova il sorpasso sul Pdl, è capace di affermarsi anche a Ovest del Ticino e di prendere il governo di una seconda Regione chiave oltre al Veneto, diventando così la forza politica capace di decidere i futuri assetti del Nord? 3) l’alleanza tra il Pd e l’Udc è vincente o gli elettori di Casini non sono disposti a guardare a sinistra e preferiscono tornare nella casa berlusconiana?

I verdetti che verranno disegneranno le coalizioni del futuro e saranno la base per costruire programmi, strategie e per scatenare richieste e rese dei conti a destra come a sinistra.
La posta in gioco, in qualunque modo la pensiate e qualunque sia la risposta che avete in testa per le tre domande, dovrebbe spingervi ad andare a votare. Si è parlato molto in questi ultimi giorni di astensionismo per effetto della sorpresa delle regionali francesi, dove sono andati ai seggi meno della metà degli elettori. Un segno grave di distacco e indifferenza in un Paese che, quanto e più del nostro, è storicamente appassionato al dibattito politico. Certo è una tendenza generale, ha l’aria di una malattia comune alle democrazie occidentali. Negli Stati Uniti o in Inghilterra, dove i sistemi democratici sono ben più maturi del nostro, i tassi di partecipazione al voto sono tradizionalmente molto più bassi. Il che significa che spetta al cittadino scegliere non solo per chi votare ma anche eventualmente di non votare. Qualcuno l’ha definito una forma di obiezione civile. Nel dominio del dibattito astratto è tutto vero, ma noi ci ostiniamo a pensare che non votare sia in definitiva la rinuncia a un diritto e anche un po’ a un dovere.

Per quanto negativo possa essere il nostro giudizio sull’insieme della politica, o sull’uno e sull’altro dei candidati, per quanto nauseabonda sia stata questa campagna elettorale, il momento in cui decidiamo di restare a casa corrisponde ad una resa. Non illudiamoci così di punire i partiti: astenersi significa chiamarsi fuori, non farsi carico del futuro del Paese, rinunciare a dare un’indicazione della direzione che vorremmo. E chi rinuncia a dire la sua non ha mai ragione.

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Marzo 31, 2010, 03:04:33 pm »

31/3/2010

Le emozioni, la ragione e la realtà

MARIO CALABRESI

La distanza tra la parte razionale e quella emotiva del cervello certi giorni appare immensa e insormontabile. Soprattutto se una parte dei cittadini, dei giornalisti e dei politici usa soltanto la prima e una parte consistente degli elettori invece va alle urne guidata dalla seconda.

Ieri mattina le analisi del voto e del successo della Lega, che in cinque anni ha raddoppiato i suoi consensi, parlavano di federalismo, di protesta e di voglia di rottura. Le motivazioni di chi ha scelto il partito di Umberto Bossi appaiono invece completamente diverse e si richiudevano in tre parole: serenità, normalità, sicurezza.

Questa distanza di percezione e interpretazione ci racconta che anche in Italia politici e analisti fanno riferimento solo ad una parte della nostra mente, quella più fredda, razionale e calcolatrice, cadendo così in errore e restando spiazzati di fronte ai risultati elettorali. Prima delle ultime presidenziali americane, Drew Westen, noto professore di psicologia e consulente politico, lo ha spiegato in un libro di successo. I conservatori, sostiene, sanno fin dai tempi di Nixon e poi di Reagan che la politica è soprattutto una «questione di racconto».

I progressisti, aggiunge Westen, hanno perso elezioni a ripetizione concentrandosi solo su questioni astratte e razionali, che non chiamano mai in causa cuore e pancia. Un candidato emergente di nome Barack Obama ha preso appunti e mettendo a frutto la lezione di Westen è riuscito a trasformare le tematiche più «cerebrali» in una «narrativa» capace di coinvolgere i suoi concittadini. E ha vinto.

I leader della Lega probabilmente non conoscono il professore americano, ma istintivamente ne hanno messo in pratica gli insegnamenti, mentre gli esponenti del centrosinistra, pur guardando ad Obama come a un esempio mitico, ripetono regolarmente gli errori storici dei democratici americani.

Il successo della Lega non penso sia figlio delle battaglie sul federalismo, o almeno non in modo preponderante in questa fase, ma nasce dalla voglia di dare il consenso a una formazione politica che viene vissuta come più prossima, più vicina e che parla un linguaggio di certo assai semplificato ma diretto e comprensibile. Difficile ignorare che i toni e le battaglie contro gli immigrati e l’integrazione hanno creato apprensioni e disagio in molti, così come appare irritante una semplificazione della realtà che tende ad identificare il diverso come ostile, ma leggere la vittoria di Bossi come uno scivolamento del Paese nel razzismo sarebbe ingannevole e non spiegherebbe cosa è successo.

La risposta alle politiche leghiste non può ridursi alla demonizzazione e a un nuovo allarme per la calata dei barbari, ma dovrebbe partire da un impegno reale sul territorio. La sede della Lega a Torino, il luogo dove è stata festeggiata la conquista del Piemonte, si trova a Barriera di Milano, in una delle periferie più difficili della città e gli arredi si limitano a foto di militanti sui muri e ad una serie di sedie di plastica verde. La piccola carovana leghista che dopo le due del mattino si è spostata in una deserta piazza Castello, per festeggiare la presa del potere, appariva fuori posto nel centro della città sabauda. Ma questa è sembrata essere la sua forza.

La prima volta che ho incontrato Roberto Cota gli ho chiesto di spiegarmi quali erano le prospettive politiche della Lega in Piemonte e lui mi ha risposto parlandomi per un quarto d’ora sui danni della grandine. Mi sembrava un marziano, ma i risultati della Lega nelle campagne del Cuneese come in quelle del Veneto ci dicono che anche lì c’era uno spazio vuoto che da tempo aspettava di essere riempito.

La teoria del cervello emotivo calza alla perfezione anche con Berlusconi: dopo un anno di scandali, feste dei diciott’anni, escort, processi, leggi ad personam, scontri sulla televisione, è riuscito a tenere in piedi la sua maggioranza e a portarla ad un’altra vittoria. Ha visto un calo dei suoi voti, ma la politica di alleanze che ha messo in piedi 16 anni fa - con la Lega al Nord, con gli eredi della Dc e dell’Msi al Sud - ancora regge e il suo potere di seduzione non si è esaurito. Non è certo tutto merito suo, ma anche della stanchezza di un elettorato che non vede maggioranze o progetti alternativi capaci di spingere ad un cambio di direzione.

La mancata sconfitta di Berlusconi, date le evidenze degli ultimi dieci mesi, dovrebbe allora farci pensare che quei temi che domenica scorsa Barbara Spinelli ci indicava come cruciali - le regole, la legalità, l’indipendenza dell’informazione e i diritti - siano inutili e non efficaci? Non rispondano a esigenze fondamentali? Nient’affatto, dovrebbero far parte del dna dei giornali, delle forze politiche, dovrebbero essere lo sfondo condiviso di una democrazia e sarebbe troppo pericoloso ignorarli. Ma forse dovremmo convincerci, una volta per tutte, che non possono essere i temi esclusivi di un programma elettorale e che da soli non sono capaci di dare la vittoria. La differenza la fanno la capacità di intercettare i bisogni, i desideri e le paure degli elettori e, facendosene carico, dare risposte concrete in un quadro che abbia come riferimento proprio le regole, la legalità e la separazione dei poteri.

Non si può pensare che una battaglia, per quanto corretta e incisiva, sulle firme, sui timbri o sulle procedure di presentazione delle schede sia capace di invertire il risultato di un’elezione, di rispondere ai bisogni dei cittadini.

L’avanzamento della Lega anche in Emilia e in Toscana ce lo ricorda, così come lo sottolineano gli inaspettati successi delle Liste Grillo. Mercedes Bresso - lo ha candidamente confessato l’altra notte di fronte alle telecamere - non immaginava neppure che potessero conquistare un voto. Non era la sola: i giornalisti al completo (noi compresi) le avevano sottovalutate nella stessa misura.

Ma non sarebbe stato impossibile capirlo: sarebbe bastato leggere con attenzione i giornali che produciamo ogni giorno. Non le pagine politiche ma quelle di società, ambiente e costume, dove parliamo degli italiani che si muovono in bicicletta, che chiedono più piste ciclabili, più verde e aria pulita per i loro figli, che si preoccupano per l’effetto serra, che comprano equo e solidale, che riducono i consumi di carne, fanno attenzione a non sprecare acqua e usano Internet e i social network. Nessuna delle forze politiche tradizionali si è però preoccupata di intercettarli, di dare loro rappresentanza, tranne un comico che, non per caso, è stato premiato.

da lastampa.it
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« Risposta #43 inserito:: Aprile 21, 2010, 03:14:25 pm »

21/4/2010 (6:58)  - INTERVISTA

Montezemolo: "Si apre una nuova fase, il mio lavoro è compiuto"

Montezemolo: dimissioni non legate a spin-off
   
«Non intendo entrare in politica, ma ora potrò esprimermi con più libertà»

MARIO CALABRESI

«Sono molto sereno e soddisfatto perché ho portato a termine il mandato che mi era stato assegnato: dovevo fare il traghettatore e adesso che viene presentato un nuovo piano forte e ambizioso, che si apre una fase nuova nella vita della Fiat, sono arrivato al traguardo». Luca Cordero di Montezemolo è nel suo ufficio d’angolo nella palazzina storica del Lingotto, da poco più di un’ora ha annunciato che lascerà la presidenza della Fiat, si guarda in giro e ogni oggetto gli ricorda un momento di questa avventura. Parla della fine di un percorso e ripete che «ha passato la bandiera a scacchi», quella che si usa all’arrivo dei Gran Premi di Formula Uno per i vincitori, forse gli è venuta in mente perché viene interrotto da due telefonate, sono Alonso e Massa, i due piloti della Ferrari.

Prima di volare a Torino è stato a Roma a dare la notizia al presidente Napolitano, al governatore Draghi e a Gianni Letta, poi ha parlato al telefono con Silvio Berlusconi. Con loro ha ragionato degli obiettivi raggiunti. «Sono abituato a dire che bisogna sempre guardare avanti, ma oggi è giusto vedere da dove si è partiti: non posso dimenticare quei giorni drammatici alla fine di maggio del 2004, quando la Fiat era vicina al fallimento, avevamo la pressione costante delle banche e il problema del convertendo. La famiglia aveva appena perso Umberto Agnelli, una delle persone a cui ero più legato, a poco più di un anno di distanza dalla morte dell’Avvocato. Non c’erano più leader. Così ricevetti la richiesta di Gianluigi Gabetti, una di quelle richieste pressanti a cui non si può dire di no, di fare il presidente. Scelsero me perché tra gli esterni ero quello più di famiglia. Ma ero appena diventato presidente di Confindustria e continuavo ad avere la responsabilità della Ferrari, così non avrei mai pensato che sarei rimasto qui fino al 2010».

Come sono maturate le condizioni per il passaggio di consegne con John Elkann?
«Le due condizioni che avevano spinto a nominarmi sono venute meno: l’azienda è sana e competitiva e adesso c’è un componente della famiglia che ha le carte in regola per assumersi la massima responsabilità. John, che allora aveva appena compiuto 28 anni, oggi ha un ruolo pari a quello dell’Avvocato Agnelli e soprattutto ha partecipato a tutte le scelte che sono state fatte in questi sei anni da Sergio Marchionne e da me. Era giusto che ora, nel momento in cui si apre una nuova fase, che guarda lontano e lancia un nuovo progetto verso il 2014, io facessi un passo indietro».

Quando è stato deciso?
«La decisione è maturata poco meno di un mese fa, nel momento in cui è stato chiaro che si poteva presentare un piano veramente nuovo e innovativo che farà fare all’azienda un salto epocale. Adesso mi sento in pace e contento».

Quali sono stati i momenti più difficili di questi sei anni?
«Ricordo l’angoscia delle prime notti che mi toglieva il sonno e un incontro difficilissimo con le banche, nel maggio del 2005, per discutere del convertendo. Non c’era nessuna fiducia in noi e tutto sembrava essere ostile alla salvezza della Fiat. I primi due anni sono stati i più difficili ma anche quelli cruciali per la rinascita».

E le soddisfazioni più grandi?
«Il ritorno della Fiat tutta italiana quando chiudemmo la partita con Gm e la grande soddisfazione, un anno fa, per l’accordo con la Chrysler e per aver sentito il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, parlare della Fiat come un esempio di tecnologia».

Come si sente oggi?
«Mi fa piacere tornare ad essere quello che ero prima della morte di Umberto: il presidente della Ferrari che siede con Marchionne e Elkann nel consiglio d’amministrazione della Fiat».

Cosa farà da domani?
«Avrò più tempo da dedicare a quella che, dopo la famiglia, è la cosa più importante della mia vita: la Ferrari. E poi ho messo in piedi la grande sfida del primo treno privato ad alta velocità, che comincerà a viaggiare nel settembre del 2011 e aprirà al mercato e alla concorrenza anche il trasporto su rotaia. E poi, detto con franchezza, spero di stare un po’ di più in famiglia».

Ma è l’anno giusto per la Ferrari in Formula Uno?
«Questa volta dobbiamo puntare al Mondiale e siamo competitivi per farcela, sono convinto che possiamo giocarcela davvero».

Le farò la domanda che è nella testa di tutti in queste ore: nessuna tentazione di entrare in politica?
«Devo dire proprio di no, per gli impegni che ho e perché vorrei provare a vivere un po’ meglio dopo anni di fortissimi sacrifici fisici e familiari. Quello che è certo è che il fatto di non essere più il presidente della Fiat mi permetterà di esprimere le mie opinioni con maggiore libertà».

Significa che si impegnerà di più con la sua Fondazione?
«Continuerò a farlo come ho fatto fino a oggi e mi impegnerò, come esponente della società civile, per il bene comune del nostro Paese». E si gira per indicare, sopra la scrivania un grande tricolore d’artista con ricamata la scritta: «Un paio di metri quadri sentimentali».

Che cosa le mancherà di più?
«Il contatto con i prodotti, con il Centro Stile, con le persone che lavorano qui e con l’automobile pura, nella fase in cui viene pensata e realizzata. E mi mancherà il rapporto con Torino, che ho visto cambiare tanto e in meglio, dove approdai nel 1976».

Alla fine, mentre passa in rassegna le foto che dovrà togliere dalla libreria, che lo ritraggono insieme all’Avvocato in montagna, per un attimo si commuove: «Ho svolto un compito storico, promuovendo un cambio generazionale nella tradizione degli Agnelli. Sono contento di aver contribuito alla crescita di John Elkann ed è fondamentale che ora l’azionista sia anche presidente. Ma io continuerò a sentirmi parte di questa squadra».

da lastampa.it
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« Risposta #44 inserito:: Aprile 24, 2010, 11:24:36 pm »

24/4/2010

Una politica staccata dalla realtà

MARIO CALABRESI

La notizia che ha colpito di più gli italiani questa settimana è stata la morte a Ventotene di due ragazze di quasi 14 anni schiacciate da un masso. Il mondo politico, concentrato sullo scontro senza precedenti tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera, non se ne è neppure accorto. Ma i sondaggi, che commissiona quotidianamente, lo hanno ricordato ieri mattina a Berlusconi prima che entrasse in Consiglio dei ministri per essere investito dalle minacce di una crisi di legislatura lanciate da Bossi. Archiviate le elezioni regionali doveva cominciare una nuova fase di riforme costituzionali e di politiche capaci di rispondere alle necessità di un’Italia a cui mancano una bussola, una prospettiva e un disegno di largo respiro. E a cui manca una politica di difesa e di messa in sicurezza del territorio, che risolviamo con il suo contrario: i condoni.

C’era la promessa di occuparsi di federalismo, di tasse, dei costi della politica, dell’efficienza della giustizia e del rilancio dell’economia. Si ragionava sul fatto che finalmente c’era tutto il tempo - addirittura tre anni senza elezioni di portata nazionale - per affrontare nodi irrisolti da decenni. Invece si discute addirittura della possibilità di elezioni anticipate e lo slancio riformista sembra già miseramente crollato. Difficile aspettarsi che i cittadini comprendano le ragioni per tornare alle urne, più facile immaginare che il numero dei disillusi e dei disgustati cresca ancora. Alle regionali quattro elettori su dieci sono rimasti a casa o hanno lasciato la scheda bianca, ma quanto deve ancora crescere l’area dello scontento per mettere in allarme una politica che ha perso ogni contatto con la realtà? Certo è assai improbabile che si vada al voto già questo autunno - i tempi per farlo prima dell’estate non ci sono - e allora viene da chiedersi cosa dobbiamo aspettarci da questa legislatura. Il tentativo di riformare globalmente la Costituzione è già fallito tre volte e i presupposti in passato erano assai più forti.

Come pensare che possa riuscirci un Parlamento in cui maggioranza e opposizione non trovano nessun filo di dialogo e in cui la maggioranza stessa è impegnata in un duro regolamento di conti interno? Vennero affondate la commissione Iotti e la bicamerale di D’Alema, nonostante un clima bipartisan che portava a scommettere sulla loro riuscita, così come furono gli elettori a bocciare, con un referendum, la riforma federalista approvata a maggioranza dal centrodestra nella penultima legislatura. Nelle ultime settimane il dibattito si era acceso immaginando di dare all’Italia un Presidente eletto direttamente dai cittadini, ogni giorno però cambiava il modello straniero di riferimento, adesso sembra già tutto svanito. Sulla scrivania del Capo dello Stato, al Quirinale, è ancora appoggiata la cartellina gialla con la dicitura Presidenza del Consiglio dei ministri che Roberto Calderoli ha lasciato a Giorgio Napolitano. Quella cartellina, che contiene una bozza di riforme, doveva servire a far decollare il dibattito, invece è servita a farlo precipitare.

La cartellina gialla infatti è stata la goccia che ha scatenato l’ira di Gianfranco Fini nemmeno avvisato della visita al Quirinale del ministro leghista. Il presidenzialismo, poi, sembra già non interessare più né al premier che negli ultimi giorni ha confidato di averlo lanciato per provare a stanare proprio Fini (che dell’elezione diretta aveva fatto una sua storica bandiera), né alla Lega realmente interessata solo al varo del federalismo fiscale. Viene da chiedersi adesso perché proprio da lì si era pensato di cominciare. Il Capo dello Stato, in tempi in cui anche i presidenti di Camera e Senato si sono gettati nella mischia politica, sembra essere l’unico punto di riferimento istituzionale, l’unico che non partecipa alle risse, che non grida e non minaccia. Penso che così si spieghi perché nei sondaggi continua ad avere l’indice di gradimento e di fiducia più alto.

Eliminare quella che appare come l’ultima figura di garanzia del Paese, per trasformarla con l’elezione diretta nella massima espressione di una parte, non sembra un’idea geniale di questi tempi. Bisognerebbe prendere atto che non esiste un clima da Grandi Riforme, che non c’è più tempo da sprecare in dibattiti sterili, e mettere a fuoco riforme mirate puntando su quelle su cui è possibile raccogliere un consenso più ampio, su passi capaci di dare segnali positivi al Paese. Si dovrebbe avere il coraggio di discutere di cosa ha bisogno l’Italia, su quale ruolo vuole avere oggi in un mondo che è cambiato drammaticamente. Alla politica si chiedono certezze, stabilità, la capacità di non farci sconfiggere dalle sfide globali. Invece siamo qui a guardarci l’ombelico, a preoccuparci delle insegne dei negozi, a mettere in competizione gli insegnanti nati a cento chilometri di distanza, a pensare di chiuderci all’interno delle nostre regioni, dimenticando che il mondo corre e può tranquillamente passare oltre. Nel 2009 in Francia i turisti cinesi hanno speso il doppio di quelli americani e a Parigi si costruiscono in gran corsa alberghi per ospitare i nuovi ricchi orientali. Più che il dialetto lombardo dovremmo far studiare ai nostri figli il mandarino e chiedere ai nostri politici di indicarci le opportunità del mondo nuovo e preparare il Paese a prenderle al volo.

da lastampa.it
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