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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 105071 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:42:25 pm »

LE CARTE 

"Io e il Cavaliere: quella sera gli dissi che ero minorenne"

Ruby è stata ad Arcore quindici notti in settantasette giorni: la prima volta il 14 febbraio, l'ultima il 2 maggio 2010. Il presidente del consiglio le ha offerto un appartamento nella Dimora Olgettina. In quell'occasione ha rivelato la sua minore età. La preoccupazione del premier di cancellare ogni traccia del suo legame con la minorenne è stata la ragione dell'intervento in questura


di PIERO COLAPRICO E GIUSEPPE D'AVANZO


C'E' un segreto in quest'indagine. È stato ben conservato per sette mesi, custodito come una pepita d'oro. Il segreto è in tre frasi del doppio verbale d'interrogatorio di Ruby, 3 agosto 2010. Sono poche parole, pochi ricordi e risolvono con una determinante testimonianza diretta le tre questioni decisive dell'affaire: Silvio Berlusconi ha mai chiesto a Ruby di fare sesso? Due. Berlusconi sapeva che la ragazza, nella primavera del 2010, non ha ancora compiuto diciotto anni? Tre. Come nasce  -  e da chi  -  la bubbola della "nipote di Mubarak".

Ascoltiamo Ruby. Si deve tornare alla sera del 14 febbraio, giusto un anno fa. È la prima volta, dice Ruby, che incontra il capo del governo. "... Berlusconi mi prese da parte e mi condusse in una stanza dove restammo soli. Mi disse che la mia vita sarebbe cambiata e, anche se non ha mai parlato esplicitamente di rapporti sessuali, non è stato difficile per me capire che mi proponeva di fare sesso con lui". L'uomo ha 74 anni. È solo nella stanza con la ragazza. Ruby non dice di essere stata toccata. Ruby ricorda soltanto le promesse di quell'uomo immensamente ricco: "La mia vita sarebbe cambiata...". Perché non avrebbe dovuto crederci? Finalmente, pensa la ragazza.

È scappata di casa per inseguire il sogno di un'altra vita e la pazza, disperata convinzione di sconfiggere il destino già scritto in Italia per una marocchina figlia di un venditore ambulante. È fuggita da una, due comunità. Ha ballato
la danza del ventre, qui e là. È diventata cubista in disco pub lungo i viali che portano in periferia. Si è prostituita. Ha rubato. Ha creduto nelle parole di Emilio Fede che l'ha ammirata in un concorso di bellezza e convinta al viaggio verso Milano. Non ha alcun dubbio che "Emilio" l'aiuterà. Non è stato già un aiuto averla indicata a Lele Mora che l'ha accettata nella sua squadra? Non gli deve un grazie ora che, nel giorno di San Valentino, l'ha condotta ad Arcore?

Quando, la notte del 14 febbraio, Ruby entra in quella stanza da sola con il presidente del Consiglio ("un ufficio", ricorda lei), il cielo è a portata di mano, ogni pena è finita, il passato sta per essere cancellato. L'uomo di 74 anni, quella notte, non promette soltanto. Dimostra di voler fare sul serio, davvero avrebbe fatto la fortuna di quella ragazza. Ascoltiamo Ruby: "Berlusconi mi consegnò una busta con 50mila euro..." e la ragazza non aveva mai visto tanti soldi e tutti insieme.

I ricordi di Ruby sono decisivi per il processo (e anche per un giudizio extraprocessuale, politico). Fin dalla prima volta che l'incontra dunque, Berlusconi chiede a Ruby sesso, parla di sesso e nient'altro che di sesso. Si dice disponibile a pagare. Molto, tantissimo.

Quante volte l'uomo di 74 anni e la minorenne s'incontrano? Il 3 agosto 2010, la ragazza racconta ai pubblici ministeri la sua versione dei fatti: in larga parte sincera, ma con qualche omissione, qualche fanfaronata, qualche parola di troppo o di troppo poco. I pubblici ministeri "tracciano" il suo telefono e scoprono che Ruby non è stata ad Arcore tre volte, come dice, "per una cena", o "per una notte". È stata a Villa San Martino ininterrottamente dal 24 al 26 aprile 2010, per dire. Silvio Berlusconi, quel giorno, è stato alla Scala con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e si è detto "radioso". Poi raggiunge Vladimir Putin e l'accompagna ad Arcore. Il giorno dopo, conferenza stampa a Villa Gernetto, ma ritorno a Villa San Martino. Ad Arcore chi c'era? Ancora la giovane ed entusiasta Ruby, la quale "notte e giorno era presente", come hanno stabilito i tecnici che analizzano il traffico telefonico per conto della Procura. C'era anche a Pasqua e Pasquetta, c'era il Primo Maggio, quattro settimane prima di quella notte in cui, accusata di furto da un'amica ballerina, finisce in questura, in via Fatebenefratelli: è la notte in cui Silvio Berlusconi telefona, spiegando che avevano a che fare non con una "scappata di casa", ma con la "nipote di Mubarak".

Tra il 14 febbraio e il due di maggio, Ruby è ad Arcore il 14 (domenica), il 20 (sabato), il 21 (domenica), il 27 (sabato), il 28 (domenica) febbraio 2010. E ancora, il 9 (martedì) marzo 2010 ; il 4 (domenica), il 5 (lunedì), il 24 (sabato), 25 (domenica - Festa della Liberazione), 26 (lunedì) aprile 2010. A maggio, il 1 maggio (sabato - Festa del lavoro) e il due (domenica). Quindici notti. In settantasette giorni, si contano sessantasette contatti telefonici. Quasi uno al giorno.

La costante frequentazione nella primavera non scioglie l'altro decisivo quesito processuale: Berlusconi sapeva degli anni di Ruby? Era consapevole della sua minore età?

Ancora una volta ascoltiamo la novità di Ruby: "Fino a quel momento, la sera del 14 febbraio, Berlusconi sa che ho 24 anni. La volta successiva, mi ricordo era in marzo, l'autista di Emilio Fede viene a prendermi in via Settala, dove abitavo allora. Torno ad Arcore e là, parlando con le altre ragazze invitate, vengo a sapere che chi stava con lui, con Silvio, poteva avere la casa gratis. Alcune ragazze mi dissero di avere avuto a Milano 2 un appartamento con cinque anni di affitto pagati". Parliamo della Dimora Olgettina, dove vivono Marysthell, Barbara, Iris, Imma e le altre. Ruby conosce quelle vite. Sa come possono essere comode e lussuose.

Fermiamoci un attimo: una casa, a Milano 2, gratis, per cinque anni. Per Ruby è più di un sogno, è una vittoria contro il destino di una "scappata da casa", da Letojanni provincia di Messina. La proposta non è il primo passo verso il successo. È il successo, il primo di un rosario di successi. Ruby pende dalle labbra di Berlusconi, che fa la sua mossa. Quella sera le parla della possibilità di una sistemazione. Di un appartamento lì all'Olgettina. Finalmente da sola, finalmente autonoma, in un appartamento tutto suo. Ruby è incredula davanti a tanta fortuna. Sa che la casa dimostra che è entrata nel "cerchio stretto" delle favorite del Sultano. C'è un solo pensiero che disturba quella felicità. Ora lo ricorda ai pubblici ministeri che la interrogano: "A Berlusconi avevo detto falsamente di avere ventiquattro anni e di essere egiziana. Quando mi propone di intestarmi quella casa, dovevo dirgli come stavano le cose. Non potevo più mentire. Gli dissi la verità: ero minorenne ed ero senza documenti". Berlusconi non fa una piega, a quanto pare. Non si stupisce. E lancia l'idea che ora lo danna come imputato di concussione. Le suggerisce: "Dirai a tutti che sei la nipote di Mubarak così potrai giustificare le risorse che ti metterò a disposizione". È allora il Cavaliere a inventarsi la fanfaluca che, con impudenza, evoca oggi in Parlamento per salvarsi dal processo milanese.

Siamo ad agosto e pubblici ministeri più avventurosi avrebbero cominciato ad indagare il presidente del Consiglio. Alla Procura di Milano, al contrario, appare urgente rintracciare conferme al racconto della minorenne prima di muovere verso Silvio Berlusconi. Ruby mente? E in che cosa mente?

Le indagini in via preliminare hanno da accertare se davvero Ruby conosce il Cavaliere; se davvero è stata ad Arcore con lui; se davvero le ragazze che dice di aver incontrato a Villa San Martino frequentano abitualmente le feste e le cene del premier; se davvero esiste un "qualcosa" chiamato bunga bunga, sino a quel momento, un assoluto inedito. Ognuno di questi passaggi trova più di un riscontro nei documenti acustici raccolti e anche in testimonianze dirette: tre ragazze - M. T., amica di Nicole Minetti, Maria Magdoum e la giovane Natascia, amica di Aris Espinoza, una delle più assidue frequentatrici a pagamento del premier - descrivono alla stessa maniera la cerimonia erotica, la sala sotterranea, le scene, i balletti, il premier che tocca, le ragazze che ballano sempre più scollacciate davanti a lui. È quello che Ruby chiama nell'interrogatorio "il rito dell'harem".

Il quadro indiziario s'è fatto a questo punto più preciso, addirittura nel dettaglio. Il 6 ottobre, i pubblici ministeri afferrano la prova evidente che li convincerà di essere sulla buona strada: Ruby viene interrogata da un emissario di Berlusconi, alla presenza di Lele Mora e di un avvocato, che le chiedono di ripetere quel che ha raccontato un paio di mesi prima in procura. Vogliono sapere tutto, anche quello che Ruby preferirebbe tacere. "Le scene hard con il pr...", come riferisce al telefono, Luca Risso, l'attuale fidanzato di Ruby. Si può qui lasciar perdere quel che appare chiaro ai pubblici ministeri. Berlusconi sa delle indagini, sta tentando di mettere riparo alla catastrofe che lo minaccia e i detective devono affrettarsi per evitare l'inquinamento di prove e testimonianze. Qui interessa dire altro. La preoccupazione del premier di cancellare ogni traccia del suo legame con la minorenne è stata anche la ragione del suo malaccorto intervento, la notte del 27 maggio, alle 23.45, sul capo di gabinetto della questura milanese. È l'episodio chiave della partita giuridica.

Lo affronta il giudice delle indagini preliminari Cristina Di Censo. Deve decidere se Milano è competente e se la procura ha raccolto prove così evidenti da rendere inutile l'udienza preliminare e legittimo un processo con rito immediato. La telefonata in questura risolve il caso. Berlusconi non chiama nelle sue funzioni di presidente del Consiglio, perché il capo del governo non è funzionalmente sovra-ordinato al capo di gabinetto di una questura, come lo sarebbe il ministro dell'Interno. Il Cavaliere mette sul tavolo, quella notte, la sua qualità di pubblico ufficiale; la sua influenza e non la sua funzione; il suo peso e la sua forza e non i suoi compiti istituzionali.

Questa differenza "radica", come si dice, la competenza nella procura territoriale e non presso il tribunale dei ministri, come sarebbe avvenuto se avesse speso la sua funzione. La "balla della nipote di Mubarak", come dice il questore dell'epoca, non cambia di una virgola la prospettiva. Come nulla cambia che gli atti sessuali con una prostituta minorenne siano stati compiuti ad Arcore, perché il reato più grave  -  la concussione  -  "attrae" come una calamita il reato minore, in questo caso la frequentazione con la diciassettenne Ruby in "un contesto" sessualmente molto equivoco, che però ha dei punti fermi. Il giudice li elenca in quindici pagine di "fatti storici" e accertati, o detto in altro modo, di prove evidenti. Da quei verbali di Ruby se n'è fatta di strada e solo a dicembre (21) Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati. Quel che sa, quel che ha fatto, prima e dopo il 27 maggio è sufficientemente dimostrato. Intorno a lui Lele Mora, Emilio Fede e la consigliere regionale Minetti organizzano a Milano un vivamaria di ragazze, e per dirla con Nicole ci sono "zoccole" e "ragazze venute dalle favelas" e "zingare". Qui interessano le "zoccole" perché sono loro ad annunciare il reato. Per Lele, Emilio e Nicole, perché il capo del governo è soltanto l'"utilizzatore finale", e sin qui estraneo a ogni contestazione penale. È la "zoccola" minorenne che mette nei guai il presidente del Consiglio. O meglio, se ha ragione Ruby, il capo del governo si mette nei guai da solo. È vero, il 14 febbraio pensa che Ruby abbia 24 anni e le promette mari e monti.

Sconveniente forse per chi ha liberamente scelto di assumere responsabilità pubbliche e dovrebbe per precetto costituzionale svolgere i suoi doveri con dignità e onore, ma in ogni caso non un reato. Il pasticciaccio che rovina Berlusconi si consuma a marzo, quando vuole consegnare un appartamento alla ragazza. In quell'occasione, la ragazza gli racconta la verità e dunque Berlusconi conosce la realtà dell'anagrafe, ma non si arresta. Vuole Ruby accanto a sé e la consapevolezza della minore età della ragazza non ferma il suo desiderio. Ruby ne è così consapevole che si vanta del capriccio che sollecita in quell'uomo di 74 anni: "Quell'altra, Noemi, è la pupilla, io sono il culo". Il Cavaliere sembra trovare le ragioni della prudenza soltanto dopo l'agitata notte del 27 maggio.
Non vedrà mai più, per quel che se ne sa oggi, Ruby. Si sentiranno soltanto al telefono. E Ruby mette a verbale l'ultima frase di Silvio Berlusconi: "Ci potremo rivedere una volta che hai compiuto la maggiore età". 

(16 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da repubblica.it/politica
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« Risposta #196 inserito:: Marzo 03, 2011, 12:35:46 pm »

IL COMMENTO

Il fuorilegge istituzionale

di GIUSEPPE D'AVANZO


QUEL che conta per Silvio Berlusconi è scegliersi i giudici per levarsi di torno la disgrazia di Milano. Lo reclama.
Se si vuole, la notizia è questa: nella civile Europa  -  e non nel Maghreb  -  c'è un capo di governo che pretende di poter decidere da solo l'identità del pubblico ministero e del giudice, il luogo del suo processo e infine scrutinare anche la sentenza. Ritiene di poterlo fare abusando del suo potere politico e agitando tre formule magiche e definitive: "competenza del giudice", "procedibilità del processo", "sospensione del giudizio". Il Sovrano, chiuso nella sua Villa, circondato dai suoi avvocati, decide d'imperio contro la legge e la Costituzione che quelle decisioni siano appannaggio del Parlamento, e quindi della maggioranza che controlla o paga.

Era scritto che Berlusconi si muovesse lungo la strada di un illegalismo istituzionale.
"Sarà l'intervento del Parlamento che toglierà il caso alla procura di Milano". Il presidente del Consiglio lo dice il 18 gennaio, martedì. A Villa San Martino riunisce il "tavolo di crisi", avvocati, consiglieri, consigliori, qualche ministro, a quanto pare. Lettura collettiva delle 389 pagine dell'invito a comparire della procura di Milano. Sconforto anche per i chierici dallo stomaco forte: è vero, concludono, in quelle carte ci sono "prove evidenti" dei due reati (concussione, prostituzione minorile) che vengono contestati al capo del governo. Appare subito chiaro (Repubblica, 26 gennaio) che la difesa di Berlusconi non sarà "tecnica" e soprattutto non avverrà in tribunale. Quel processo può essere vinto a Roma e la "linea del Piave" sarà il Parlamento. Sarà il potere politico a dover fermare i passi della magistratura e a scongiurare ogni accertamento di responsabilità. Abituato a usare le Camere come bottega sua, Berlusconi ordina agli avvocati che vi ha nominato di "togliere alla procura di Milano il caso". Il giorno dopo, 19 gennaio mercoledì, si fa beffe dell'appello di Napolitano a "fare chiarezza perché il Paese è turbato" e squaderna il canovaccio: "I fatti che mi sono contestati sono stati commessi nella qualità di presidente del Consiglio, la procura avrebbe dovuto trasmettere tutti gli atti al Tribunale dei ministri. È gravissimo che la procura voglia continuare ad indagare pur non essendo legittimata a farlo". Subito dopo gli azzeccagarbugli del Sovrano confondono e intricano le questioni per nascondere la violenza istituzionale delle mosse del Cavaliere.

Ciò di cui si discute è più semplice di quanto si possa immaginare. La domanda è sempre una, in ogni passaggio di questa storia: chi deve decidere? Berlusconi sostiene che non può indagare il pubblico ministero di Milano, ma il Tribunale dei Ministri perché il reato, se reato c'è stato, è ministeriale. Senza entrare nel merito se quel reato (concussione) è stato svolto nella funzione di presidente del Consiglio (reato ministeriale) o con la qualità della sua responsabilità pubblica (reato comune), chi decide se a indagare deve essere la procura o il Tribunale dei Ministri? In un rito ordinario, con un imputato ordinario, le questioni della competenza si sollevano nel processo con la possibilità di impugnarle in appello e in Cassazione. Berlusconi non ci sta. Vuole confiscare ai giudici naturali quella decisione e assegnarla illecitamente al Parlamento che è come dire attribuirla a se stesso. Ordina che l'aula voti a favore del Tribunale dei Ministri, come se questo dovesse chiudere l'affaire.

In Parlamento, il capo del governo ha due carte da giocare: il conflitto di attribuzione e l'improcedibilità. Anche qui non bisogna farsi spaventare dalle formule. Il conflitto di attribuzione è stato appena sollevato dalla maggioranza. La filastrocca è sempre quella: la procura di Milano si è attribuito un potere che non ha perché il reato ministeriale non gli compete. Ora deciderà la Corte Costituzionale. Almeno su questo non ci sono obiezioni. Anche se affiora qualche tentativo di condizionamento. C'è qualche analfabeta che auspica una moral suasion del Capo dello Stato sui giudici costituzionali mentre, per farsi forza in quest'avventura, gli azzeccagarbugli citano a capocchia una pronuncia della Corte (sentenza n. 241 del 2009) che ha accolto la denuncia di conflitto proposta dal ministro Altero Matteoli. Questa sentenza non c'entra nulla con l'affaire Berlusconi. Al contrario, dà una mano a chi giustamente sostiene che non spetta alla Camera stabilire se il reato abbia carattere ministeriale e la competenza a svolgere le indagini sia quindi del Tribunale dei Ministri. In quell'occasione, come scrive la Corte per il caso Matteoli, la Camera non ha rivendicato "il potere di apprezzare in via esclusiva il carattere ministeriale del reato". Chiedeva soltanto di "poter esprimere, secondo le apposite cadenze procedurali, una autonoma valutazione al riguardo". Nel caso Berlusconi, la Camera ha già espresso "la sua autonoma valutazione" sul "carattere ministeriale del reato" di concussione (boccia la perquisizione dell'ufficio del ragioniere pagatore delle ragazza di Arcore). Anche se con procedure stravaganti, potrebbe ancora ribadirla con una delibera di "improcedibilità". La valutazione del Parlamento, per quanto qualificata, non può sequestrare le prerogative del tribunale di Milano perché la Camera non ha  -  appunto  -  "il potere di apprezzare in via esclusiva il carattere ministeriale del reato".

La seconda carta che Berlusconi intende giocare è l'improcedibilità. Anche questa è un papocchio se ci si chiede: chi decide? Il Parlamento non può dichiarare improcedibile un processo. Non gli spetta. Non è tra i suoi poteri. Le cose stanno così. Il Tribunale dei Ministri non è un giudice. Lavora come un pubblico ministero nei procedimenti comuni. A conclusione delle indagini, il Tribunale dei Ministri, se ritiene che l'indagato meriti il rinvio a giudizio, chiede al Parlamento l'autorizzazione a procedere. Se l'autorizzazione viene negata, il Tribunale dei Ministri prende atto che non ci sono le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge e dispone l'archiviazione del procedimento. Non può far altro. L'"improcedibilità", dunque, può e deve essere dichiarata soltanto dal Tribunale dei Ministri e unicamente come l'esito insuperabile del rifiuto dell'autorizzazione a procedere. Una dichiarazione di improcedibilità non è tra le competenze del Parlamento, che non ha il potere di negare preventivamente un'autorizzazione non richiesta. Se lo fa, è un abuso, un atto di violenza istituzionale. Resta l'ultima questione, la sospensione del giudizio. Chi la decide? Anche in questo caso, non c'è alcun dubbio. Né il conflitto di attribuzione né una fantasistica delibera parlamentare di "improcedibilità" possono paralizzare il processo di Milano. È il terzo abuso di potere che Berlusconi pretende. Esige che in ogni caso il processo si blocchi. Anche questa pretesa è illegittima. Vediamo che cosa accade per il conflitto di attribuzione. Bisogna leggere delle "norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale" (legge 11 marzo 1953, n. 87). Anche un non addetto ai lavori comprende, leggendo l'art. 37 e le disposizioni del 23, che l'autorità giurisdizionale, sospende il giudizio in corso soltanto quando la questione non gli appaia manifestamente infondata e finora è apparsa manifestamente infondata al giudice di Milano. Chi decide? È la questione che impegnerà Parlamento, magistratura ordinaria, Corte Costituzionale. Fin da ora si deve dire che, a due secoli dall'Ancien Régime, né l'imputato né il suo governo né una maggioranza di nominati e comprati può decidere del processo come esige il nostro dispotico capo del governo.


(03 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica
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« Risposta #197 inserito:: Aprile 06, 2011, 03:55:40 pm »

L'ANALISI

Abuso di Parlamento

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL PARLAMENTO, senza arrossire di vergogna per il degradante disonore che gli viene inflitto, sostiene che Berlusconi davvero crede che Karima El Mahroug ("Ruby") sia la nipotina minorenne del rais egiziano Hosni Mubarak. Così, nella notte tra il 27 e 28 maggio 2010, il buon uomo si muove per evitare al Paese un conflitto internazionale nella sua funzione di premier, primo responsabile della politica estera della Repubblica. È la grottesca frottola che nemmeno un sempliciotto butterebbe giù senza riderne.

Nominati o comprati, i rappresentanti del popolo devono bere l'intruglio per sostenere che il Cavaliere quella notte e nelle conversazioni con il funzionario della questura (il capo del governo chiede l'immediata liberazione della sua giovanissima concubina, accusata di furto) esercita addirittura l'autorità ministeriale. Quindi, se reato c'è stato, è ministeriale e di competenza del Tribunale dei Ministri, conclude l'aula di Montecitorio. Accettato di trangugiare senza turbamento la favoletta buffonesca di un premier sprovveduto e credulone - insomma, uno sciocco di 75 anni che crede alla prima balla che gli racconta una ragazzina di diciassette - il Parlamento deve muovere un passo abusivo: sostenere che è potere esclusivo delle Camere decidere se un reato sia ministeriale o meno. In questo caso lo è - sragiona Montecitorio - e solleva il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale cui la Camera chiede di sottrarre al tribunale di Milano il processo per concussione e sfruttamento
della prostituzione contro il Cavaliere.

I giuristi ridono degli sgorbi che vedono raccolti nella decisione di un Parlamento ubbidiente alla volontà e agli interessi del presidente del Consiglio. Lo ha già scritto qui Franco Cordero: "Finché esiste l'attuale Carta, la giurisdizione non ammette interventi esterni". Naturalmente è legittimo porre la questione della competenza del giudice, ma non spetta a un corpo politico sbrogliare la matassa, ma ai giudici e nel processo. Come ha deciso anche recentemente la Cassazione (3 marzo), "rientra nelle attribuzioni dell'autorità giudiziaria verificare i presupposti della propria competenza" e sarà il giudice ordinario a decidere se un reato ha natura ministeriale.

Questi pochi segni liquidano la questione giuridica (la Camera rivendica un potere che non ha) e rivelano la qualità politica della questione o, detto in altro modo, le potenzialità eversive di questa stagione italiana. Berlusconi non può affrontare il processo, non può argomentare e soprattutto provare l'"eleganza" dei convegni di Arcore, la correttezza dei suoi comportamenti, l'invulnerabilità o la non ricattabilità della sua persona. Davvero qualcuno ha creduto che l'uomo che ci governa avrebbe accettato di farsi processare? Come ci è già apparso chiaro a gennaio, Berlusconi deve rinserrarsi nel ridotto di Montecitorio e, protetto dalla sua maggioranza, rifiutare il processo, ricattare le più alte istituzioni dello Stato, scatenare la politica contro la magistratura, gridare al coup d'Etat - addirittura ieri al "brigatismo" delle toghe - perché ogni controllo che lo sfiora è già un colpo di Stato giudiziario che impone, dice, la punizione dei giudici, il castigo per magistratura, la sacralizzazione della sua persona con un'impunità definitiva (sono l'eletto del popolo). Anche a costo di demolire le istituzioni e trascinare il Paese in un conflitto senza vie di uscita, Berlusconi pretende di essere legibus solutus. Il Cavaliere è già al lavoro. Fin d'ora avvelena i pozzi dell'opinione pubblica con cadenza quotidiana e, come sempre, rifiuta ogni domanda e ogni contraddittorio, senza coraggio. Organizza piazze. Ordina figuranti. Sistema il suo esercito mediatico per la manipolazione che, cancellati i fatti e soprattutto la violenza su una minore, dovrà trasformare il "caso Ruby" in uno spettacolino plausibile come il Grande Fratello e il responsabile delle torsioni di un corretto gioco democratico nella vittima di un complotto politico.

È il pericoloso incrocio in cui ci ha portato un premier incapace di controllare la sua vita, determinatissimo a non accettare alcuna responsabilità e giudizio. Ma se ieri, per evitare ogni responsabilità e giudizio, il presidente del Consiglio comprava i giudici (Mondadori) e corrompeva i testimoni (All Iberian), oggi queste manovre non sono più necessarie per allontanarsi dall'incomodo giudiziario. Non ha più bisogno giocare con baratti sotto il banco perché, per cancellare oneri e obblighi, egli può agitare pubblicamente contro l'accertamento dei fatti una politica corrotta, Camere diventate bottega sua, parlamentari diventati servitù. È la partita finale che stringe in un solo nodo tutte le questioni che ha posto al Paese il potere di Silvio Berlusconi. È la stagione che ci dirà se nel nostro futuro ci sarà ancora uno Stato con una pluralità di poteri divisi o ai quattro poteri accumulati oggi dal Cavaliere (esecutivo, legislativo, economico, mediatico) si aggiungerà presto il dominio incontrollato del quinto (giudiziario).
 

(06 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #198 inserito:: Aprile 07, 2011, 12:00:31 pm »

IL COMMENTO

La Costituzione virtuale

di GIUSEPPE D'AVANZO

LE PAROLE ingannano soltanto quando  -  e se  -  glielo consentiamo.
Le parole che si odono in queste ore in un Parlamento imbarbarito, ingaglioffito, in qualche caso analfabeta, disegnano un mondo che non c'è e che soltanto Berlusconi e i suoi dignitari pretendono che sia reale. Ad ascoltare i campioni della libertà che discutono di giustizia, di leggi, di diritti si può credere che sia già in vigore una nuova disciplina costituzionale, non si sa quando discussa e da chi approvata.

È un regime che immagina di aver già cancellato l'autonomia e l'indipendenza dei magistrati e incluso il potere giudiziario nel bouquet dei quattro poteri nelle mani di Berlusconi (esecutivo, legislativo, economico, mediatico). È un sistema politico virtuale che ha insediato procureurs impériaux che stanno al ministro di Giustizia come i prefetti al ministro dell'Interno. Avevamo inteso che Berlusconi avesse l'ancien régime nel sangue, ma non ci eravamo accorti che fossero già legittime le lettere grazie a cui alcune teste possono liberarsi delle giurisdizioni usuali per ricorrere a una corte sovrana (si chiamavano "Committimus") o che fossero già conformi alla legge le lettres de cachet, gli ordini reali che recludono o liberano in via diretta. Ascoltiamo le parole di un dignitario del Sultano. Denis Verdini è il coordinatore del partito delle libertà: "I magistrati devono fermarsi ora, rispettare il Parlamento e aspettare il verdetto della Consulta. (Nel "processo Ruby") non possono assumersi la responsabilità di andare avanti comunque. Se lo facessero sarebbe un atto di sfida politica alla Camere". Nel mondo, ordinato da una Costituzione che non c'è, nella "iustitia secundum Berlusconem", è il Parlamento che decide della giurisdizione, non più i giudici.

Le platee bevono. Sono litanie che scavano nelle teste più docili e purtroppo anche nelle meno accomodanti. In queste fantasie deformi si scopre che la procura di Milano è abitata da avventurosi picchiatelli (o consapevoli farabutti) perché  -  si legge e si ascolta in televisione  -  i pubblici ministeri non distruggono le intercettazioni di Silvio Berlusconi, come dovrebbero. Perché conservano le memorie acustiche; peggio, in qualche caso trascrivono addirittura le parole dell'Augusto. Si conclude (e ci sia un'anima buona che controargomenti da qualche parte): quei pubblici ministeri ignorano che le parole del presidente del Consiglio, come di ogni altro parlamentare, non possono essere utilizzate e vanno considerate come mai dette, mai raccolte, mai ascoltate, mai esistite e quindi distrutte. È davvero così? Davvero quando incappano nella voce di un parlamentare  -  e ancora di più nel presidente del Consiglio  -  i pubblici ministeri devono diventare sordi? È questo l'obbligo che la legge prescrive ai procuratori?

Accade che si scateni un putiferio perché l'Espresso e il Corriere della sera pubblicano alcune intercettazioni di Berlusconi. I più servili parlano di "reato": sono pagati dal Sultano, è il loro mestiere chiedere l'arresto di chi infastidisce il Padrone con un'indagine penale. Non sorprende che al coro si unisca qualche anima fioca sempre in cerca di alibi per non prendere posizione. Stupisce che qualche addetto di lungo corso, che pure la legge conosce, soffi contro la procura di Milano parole come "errore", "negligenza" insinuando  -  lieve  -  anche la colpa senza dolo o magari il dolo tout court, l'intenzione di sputtanare in pubblico il premier. Troppo tardi il procuratore di Milano decide di fare chiarezza.

L'affare, nel suo racconto, è più semplice di come si può immaginare. Si indaga su una congrega che favorisce la prostituzione di giovanissime donne. Si ascoltano le parole di tre indagati e delle falene che organizzano. Con gli uni e con le altre, nell'agosto 2010, chiacchiera Silvio Berlusconi (non è ancora indagato). Le sue conversazioni  -  un paio  -  sono allegate a una richiesta di proroga delle intercettazioni (autorizzate di 15 giorni in 15 giorni). Quando le indagini si concludono, la trascrizione di quei colloqui è consegnata, come tutti i documenti dell'inchiesta, agli avvocati del Sultano affinché possano verificare il rispetto anche formale delle procedure d'intercettazione. Potevano farlo? Dovevano farlo? Chi crede nella Nuova Costituzione Virtuale, che ha già reso immune tutti i parlamentari, pensa che non potevano farlo. Lo ripetono i caudatari alla Camera pretendendo penitenze esemplari.

Per capire come stanno le cose, è necessario leggere quel che ha scritto il "giudice delle leggi", la Consulta che garantisce la Costituzione, quella vera e ancora in corso. Nella sentenza n. 390 del 2007, che dichiara l'illegittimità costituzionale dei commi 2, 5 e 6 dell'art. 6 della legge Boato (regola la materia), la Consulta stabilisce che non è necessario richiedere il placet della Camera per poter far uso dei dialoghi intercettati cui abbia preso parte un parlamentare (nel nostro caso, Berlusconi), qualora l'autorità giudiziaria voglia utilizzare le intercettazioni (processualmente rilevanti) contro un indagato non parlamentare (per noi, Minetti, Fede, Mora). La Corte aggiunge: se pubblici ministeri o giudici ritengono necessario utilizzare quelle memorie foniche contro un parlamentare è necessario chiedere il nulla osta preventivo alla Camera di appartenenza. La procura di Milano non ha chiesto l'autorizzazione della Camera perché nessuna intercettazione di Berlusconi è stata utilizzata come fonte di prova nel processo che lo ha imputato. E comunque  -  dispone la Consulta  -  anche quando l'autorizzazione non è concessa, il contenuto delle intercettazioni non deve essere distrutto, ma conservato perché le intercettazioni sono utilizzabili "limitatamente ai terzi non parlamentari".

Chiaro, no? Le parole intercettate di un parlamentare possono essere utilizzate senza autorizzazione contro chi parlamentare non è. Soltanto con il consenso della Camera, se l'imputato è un parlamentare. E allora, perché la procura di Milano avrebbe dovuto distruggere le intercettazioni di Berlusconi? Perché non dovrebbe utilizzarle "contro terzi" che non siano Berlusconi? Non si sa, a meno di non volere bere la storia che siano in vigore i codici virtuali e la Costituzione Virtuale approntata nella cucina verbale del Sultano.

(07 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #199 inserito:: Aprile 11, 2011, 08:39:20 pm »

IL COMMENTO

Il grande imbroglione

di GIUSEPPE D'AVANZO


BERLUSCONI mente con costante insolenza. È una consuetudine che da sempre sollecita molte attenzioni per afferrarne le ragioni, per così dire, costitutive. Per dirne una. C'è chi vede, in quella coazione a mentire, l'archetipo del Bambino come se alloggiasse nell'inconscio del Cavaliere una personalità che "ragiona" in base al principio di piacere e non al principio di realtà. Lungo questa via è suggestiva l'interpretazione di chi avvista Berlusconi afflitto da "pseudologia phantastica".

«Una forma di isteria caratterizzata dalla particolare capacità di prestar fede alle proprie bugie. Di solito succede - scrive Carl G. Jung - che simili individui abbiano per qualche tempo uno strepitoso successo e che siano perciò socialmente pericolosi». Sono accostamenti utili e intriganti, ma rischiano di annebbiare quel che è semplice e chiaro da tempo: se l'imbroglione è, come si legge nei dizionari, «una persona che ricorre al raggiro come espediente abituale», Berlusconi è innanzitutto un imbroglione.

È un imbroglio, un abituale inganno l'ultimo flusso verbale del capo del governo - che come sempre parla soltanto di se stesso, soltanto del suo prezioso portafoglio, soltanto dei complotti che gli impedirebbero di governare e arricchirsi. Berlusconi manipola fatti, eventi e contingenze della sua storia di imprenditore e di politico per mostrarsi vittima di un'aggressione, nell'una come nell'altra avventura. Deve farlo, il Cavaliere, poverino.
Non solo per una fantasia di potenza adolescenziale (anche per quello), ma (soprattutto) per la consapevole accortezza di dover nascondere il catastrofico fallimento della sua leadership e i sistemi che ne hanno fatto un uomo di successo.

Dice il Cavaliere: «Mi trattano come se fossi Al Capone». Il fatto è che Berlusconi, con Al Capone, condivide il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l'avidità, una capacità di immaginazione delirante. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta - ne è il simbolo - l'Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. Berlusconi è tutt'uno con quella storia e senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato un "delinquente abituale".

Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. La fortuna del premier è il risultato di evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il dominio nell'informazione e il controllo pieno dei "dispositivi della risonanza", sarebbe chiaro a tutti come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

Deve farlo dimenticare e deve mentire per tenere in vita la mitologia dell'homo faber e il teorema vittimistico. È quel che fa per nascondere il passato e salvare il suo futuro. Confondendo come sempre privato e pubblico, Berlusconi ora denuncia anche un assalto al suo patrimonio, la sola cosa che ha davvero a cuore. Si lamenta: «Contro di me tentano anche un attacco patrimoniale: a Milano c'è un giudice, di cui potrei dire molto, che ha formulato un risarcimento di 750 milioni per la tessera numero 1 del Pd, De Benedetti, per un lodo a cui la Mondadori fu costretta. È una rapina a mano armata».

Si sa come sono andate le cose. La Cassazione dice colpevoli il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora (assistono la Fininvest nella guerra di Segrate): hanno barattato la sentenza del 1991 sul cosiddetto "Lodo Mondadori" che, a vantaggio di Berlusconi, ha sottratto illegalmente la proprietà della casa editrice a De Benedetti (editore di questo giornale). Sono i soldi della Fininvest che corrompono il giudice, ma Silvio Berlusconi si salva per una miracolosa prescrizione.

Per il suo alto incarico (nel 2001 è capo del governo) gli vanno riconosciute - sostengono i giudici - le attenuanti generiche e quindi la prescrizione e non come sarebbe stato più coerente, proprio per le sue pubbliche responsabilità, le aggravanti e quindi la condanna insieme agli uomini che, nel suo interesse, truccarono il gioco. «Corresponsabile della vicenda corruttiva», il Cavaliere con Fininvest deve ora risarcire - come ha deciso la Cassazione - i danni morali e patrimoniali quantificati in primo grado in 750 milioni di euro. Troppo o troppo poco, lo dirà il giudice dell'appello che deciderà degli interessi di due privati e non, come vuole far credere l'Imbroglione, di due fazioni politiche.

È altro quel che qui conta ripetere, una volta di più semmai ce ne fosse bisogno. Come dimostra il tentativo di gettare nel calderone delle polemiche anche un suo affare privato, dietro la guerra scatenata dal capo del governo contro la magistratura ci sono soltanto gli interessi personali del premier. Null'altro. Riforma costituzionale, riforma della giustizia, asservimento del pubblico ministero al potere politico, che oggi paralizzano la vita pubblica del Paese, sono soltanto gli espedienti ricattatori di Berlusconi per ottenere un salvacondotto che lo liberi dal suo passato illegale, da una storia fabbricata, oggi come ieri, con l'imbroglio.

(10 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/10
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« Risposta #200 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:34:39 pm »

IL PROCESSO

La finzione di Berlusconi in aula "I pm lavorano contro il Paese"

Lo show del presidente del Consiglio in aula e poi fuori dal Tribunale.

"I magistrati sono ormai un'arma di lotta politica".

E sul caso Ruby: "L'ho sottratta alla prostituzione"

di GIUSEPPE D'AVANZO


L'homme d'Etat entra in aula dalla porticina laterale. Ha gli occhi bui, la faccia contratta. Seminascosto, si trattiene sulla soglia quasi in apnea, prima di affrontare l'emiciclo della grande aula. Silvio Berlusconi s'acconcia la cravatta; sistema la giacca sul ventre; distende il viso raggrinzato in un sorriso stereotipato.

Dicono che sia il massetere a fare quel repentino prodigio. Chiedo che cosa è il massetere. Mi rispondono che è un muscolo della faccia, corto e solido, a ridosso della mandibola. Chiedo: bene, ma che cosa c'entra il massetere con il sorrisone che il premier esibisce ora che attraversa trasversalmente l'aula da sinistra verso destra? Mi rispondono che il segreto del suo sorriso inalterabile, di pronto impiego è in quel muscolo, il massetere. Lo controlla come il dito di una mano. Lo irrigidisce a comando, dicono, sollevando appena e senza sforzo il lato destro della bocca e il gioco è fatto perché il volto e gli occhi "si dinamizzano", coinvolgendo tutto il viso. Sarà il massetere allora a mostrare del Cavaliere la finzione di una fisionomia spensierata, quasi di buonumore. Messa su quella, si può far vedere finalmente dal pubblico scarso; dai giornalisti numerosi; dalla corte degli avvocati in toga; dai pubblici ministeri con il capo chino sulle carte che hanno sul banco, per non dargli soddisfazione.

Berlusconi simula serenità, quasi una indifferente euforia. Stringe mani come se tutti gli avvocati fossero convenuti lì per salutarlo e proteggerlo; tutto il pubblico per incoraggiarlo; tutti i giornalisti per celebrarlo. Si fa incontro ai procuratori che lo accolgono freddamente. Come un primo attore che non vuole perdere il proscenio, ripiega verso i banchi, le seconde, terze, quarte file degli avvocati. Già guarda sottocchio il suo vero obiettivo, i giornalisti laggiù in fondo. Saranno loro il megafono che documenterà, come ha promesso, la volontà del presidente del Consiglio di farsi processare: "Non ho nulla da temere che le accuse contro di me sono inventate". Con un paio di passi rapidi è già davanti allo scranno che separa i cronisti dagli avvocati. Berlusconi ha pronto il consueto flusso verbale da incantatore da fiera. Sa di poter cavare il massimo del profitto da quelle operazioni vocali sulla psiche degli italiani. Domina l'arena mediatica e la stregoneria gli riesce sempre. Finora la platea l'ha bevuta. La ripete. Da sciocchi attendersi self-restraint. Ha in mano il controllo pieno di buona parte dell'informazione, è naturale che voglia adoperarla pro se e senza risparmio, soprattutto quando i tempi per lui si fanno difficili. "Invece di governare, sono qui..." dice e, con autocompianto posticcio, fa spallucce da uomo rassegnato, dimentico che imprese e sindacati, docenti e studenti, Comuni e Regioni, Nord e Sud, Europa e Africa, hanno in mano la misura dell'inettitudine della sua leadership e, chiara, la sincope del suo governo. Parla, parla, parla senza una pausa. "Sappiamo che questi sono processi mediatici. Non riesco a capire come un presidente del Consiglio si possa trovare davanti a una situazione come questa con accuse che sono infondate e demenziali. Solo invenzioni dei pubblici ministeri staccate completamente dalla realtà".

Implacabilmente, ogni frase è un luogo comune. Mai un fatto, mai un evento, mai un argomento. Soltanto ideologia. Se ne avesse - di argomenti - discuterebbe nel processo perché il processo nasce per quello: macchina retrospettiva, stabilisce se qualcosa è avvenuto e chi l'abbia causato; accusa e difesa formulano delle ipotesi; il giudice accoglie la più probabile, secondo i canoni. Quale migliore opportunità di mostrare i suoi motivi, di illustrare finalmente le ragioni insuperabili che dice di avere in tasca. Niente, non ci pensa. Lui non ci casca: i fatti gli sono sempre scomodi.

Il massetere ora sembra allentato. Il volto mostra ira, quasi un tenace furore quando la logorrea farfallina cede all'umore, alle viscere. Sembra che si afferri il vero volto del Cavaliere, sempre accortamente nascosto nella perfomance mediatica. Condanna e ghigna perché il canovaccio che gli hanno preparato (o che si è preparato) ora affronta non più il suo processo, ma chi lo ha promosso. "La magistratura oggi è come un'arma di lotta politica e per questo bisogna riformare la giustizia". Gli chiedono: riforma della giustizia o riforma del pubblico ministero, presidente? Niente. Finge di non sentire e tira innanzi con il sermone. Non ammette interlocutori né domande né intoppi al monologo. Ribadisce la lezione imparata (a memoria): "La riforma che il governo intende approvare non sarà una riforma punitiva, ma servirà per riportare la magistratura a quelle che deve essere, non quello che è oggi: ripeto, è un'arma di lotta politica e questo non funziona".

Prende fiato per un attimo. Si riesce a mettergli lì tra i piedi il "caso Ruby". Il comizio ha ingrassato il suo Io e il sentimento narcisistico d'onnipotenza si divora ogni prudenza confermando una regola: quando gli capita di affrontare la realtà e di parlare di fatti si confonde, si contraddice, reinventa senza cautela, si autoaffonda. Offre un'altra versione (l'ennesima bugia, prima o poi bisognerà dare conto dell'intero repertorio) di come andarono le cose in questura nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010. "Io ho chiesto un'informazione con la mia solita cortesia, preoccupato che la situazione potesse dar luogo a un incidente diplomatico. Mi hanno detto che non era egiziana ed è caduto tutto". È spudorato. Sa (e ora lo sanno tutti) che quella notte non ci fu soltanto una telefonata, ma ripetute telefonate. Voleva che liberassero la sua concubina; la disse "nipote di Murabak"; pretese che la consegnassero a una sua incaricata (Nicole Minetti). Il capo del governo lo ha ribadito alla Camera reclamando il conflitto di attribuzione per sottrarre il processo a Milano: "Ho evitato una crisi internazionale, credevo che fosse la nipote di Mubarak". Parlamentari servili gli hanno creduto e ora il malaccorto lascia tutti di princisbecco: quella notte ho saputo che non poteva essere la nipote di Mubarak perché mi dissero che era marocchina!

L'Imbroglione cucina un'altra frittata quando racconta l'aiuto offerto a Ruby. "L'ho aiutata e le ho dato perfino la chance di entrare con una sua amica in un centro estetico. Doveva fornire un laser antidepilatorio. Costava, se ricordo bene, 45 mila euro anche se Ruby dice che gli euro erano 60 mila. Così ho dato l'incarico di darle questi soldi per sottrarla a qualunque necessità, per non costringerla alla prostituzione, ma per portarla nelle direzione contraria". Berlusconi non si rende conto che le sue parole confermano quale fosse l'esclusiva fonte di reddito di Ruby, prima e dopo gli incontri di Arcore.

Lo portano via prima che faccia altri danni a se stesso e alle troppe frottole che ha distribuito negli ultimi tre mesi. Conclusa l'udienza, si rimette al lavoro. No, al processo non pensa. Pensa di nuovo ai giornalisti. Affida loro un'altra omelia. "Questa mattina ho sentito dei testi e ne vengo via con l'impressione abbastanza drammatica del tempo che si perde su delle accuse che sono frutto soltanto della fantasia di certi pubblici ministeri. Incredibili questi processi, che sono soltanto processi mediatici fatti per buttare fango sull'avversario politico, che si considera un nemico da eliminare perché è l'unico ostacolo alla sinistra per tornare al potere". Liquida l'accusa con un farfuglio che non ha né capo né coda. "L'accusa è che io sarei stato socio occulto di un'azienda che vendeva diritti a Mediaset. Questa azienda si è appurato che ha pagato al capoufficio acquisti di Mediaset 21 milioni di cresta per farseli comperare. I diritti venduti in un anno sono stati 30 milioni di dollari. L'accusa è che io sarei stato al 50% di questa azienda. Allora, io sarei stato così stupido da pagare la metà di 21 milioni al capoufficio acquisti della mia azienda a cui avrei potuto fare una telefonata dicendogli: "Entro stasera alle 6 devi firmare questo contratto di acquisto". Ma questa è solo la prima delle cose paradossali. La seconda è che questo capoufficio acquisti era lì in una struttura che comperava diritti per mille milioni di dollari all'anno, quindi quei ventuno milioni li pigliava per trenta milioni di acquisti all'anno per diversi anni. Qual è quell'imprenditore che è così folle che può tenere per più anni a capo dell'ufficio acquisti della sua azienda un corrotto che acquista dei diritti per la sua azienda e si fa pagare una cresta a danno dell'azienda? Non c'è imprenditore al mondo che possa fare una cosa del genere. Un signore che conosco aveva saputo che un suo parente faceva la cresta dell'acquisto delle carote e lo ha licenziato".

Alzi la mano chi ci ha capito qualcosa. In ogni caso, le sue ragioni avrebbe potuto spiegarle ai giudici nel processo. Erano lì. Lui era lì. La cosa si poteva combinare con il comodo di tutti. No, il Cavaliere ostinatamente muto (e assopito) durante le udienze, diventa un incontenibile parolaio fuori del processo, a udienza chiusa. Quel che conta per lui è lo show. Il modello è la fiera. A Berlusconi bisogna dare soltanto il palco e un pubblico adorante. Se il pubblico non lo è, Berlusconi tracolla, ondeggia. Il potere dell'adulazione è incalcolabile e rende cieca anche la persona più intelligente. Abituato alla riverenza e alla corvée servile offerta dai coatti che attendono un premio, un onore, una poltrona, lo scuote anche soltanto un'interruzione. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori né - naturalmente - una domanda. Porgliela rivela il suo stile (le style c'est l'homme). Le parole che butta come una fontana si fanno viscerali fino all'invettiva e al ringhio. Una domanda (lo portano via di nuovo e di peso) lo fa ancora scappare verso luoghi più protetti: in strada, davanti a un paio di centinaia figuranti. Ora tra gli applausi, può celebrare, in un delirio narcisistico, se stesso, le sue virtù, la sua vita e aizzare i campioni della libertà contro la magistratura "nemica dell'Italia".

L'ultimo atto della giornata sarebbe triste e grottesco se non facesse paura. Quest'uomo, prigioniero delle sue ossessioni, inabile a dire la verità, sempre più chiaramente vuole spingere il Paese in un conflitto fatale soltanto per salvare se stesso.

(12 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #201 inserito:: Aprile 25, 2011, 12:21:07 pm »


L'ANALISI

Il Quirinale in campo

di GIUSEPPE D'AVANZO


DINANZI alle parole violente e alle iniziative aggressive di un uomo che ha preso dimora stabile nell'inimicizia, si attendeva una parola saggia del presidente della Repubblica. Una parola che potesse indicare a tutti  -  e soprattutto a Silvio Berlusconi  -  un limite. Il confine insuperabile per una democrazia e per le istituzioni che la governano prima che quell'inimicizia privatissima e ostinata e ossessiva le distrugga. Prima che la stessa identità del sistema diventi rovina, macerie.

Quella parola saggia ora è arrivata dal Quirinale. Con una lettera al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giorgio Napolitano ha deciso di dedicare "il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi" (il 9 maggio) ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. "Tra loro  -  scrive il capo dello Stato  -  si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democratica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche".
Ricordiamone i nomi: Emilio Alessandrini, Mario Amato, Fedele Calvosa, Francesco Coco, Guido Galli, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione.

Non c'è alcun convenzionalismo nella mossa del Capo dello Stato. Napolitano non tace le ragioni più autentiche della sua scelta. Che è esplicita e suona come un atto di accusa contro chi, come il capo del
governo, da settimane aggredisce, insinua, minaccia, ingiuria, calunnia cianciando di "brigatismo giudiziario", premessa politica  -  e mandato morale  -  per un figurante, candidato a Milano nella lista del Pdl, che ha fatto affiggere manifesti che diffondono, con gran dispendio di mezzi, la stessa convinzione del premier: "Via le Br dalle procure".

"La scelta che oggi annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria  -  scrive Giorgio Napolitano  -  costituisce una risposta all'ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta "Associazione dalla parte della democrazia". Quel manifesto rappresenta una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle Br, magistrati e non. Essa indica come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull'amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti".

Napolitano indica un confine, abbiamo detto. Si può dire, un primo limite, un primo confine alla "strategia del ricatto" che Berlusconi ha inaugurato per rendersi immune dai processi che possono svelare quanto corrotta sia stata la sua avventura imprenditoriale (Mills) e quanto disonorevole e ricattabile e irresponsabile sia la sua vita di capo del governo (Ruby).

Il dispotico egomane pretende di essere "tutelato", come dice. Strepita, gesticola, urla, aizza rumorose pattuglie di comparse a pagamento. Esige che il Parlamento diventato cosa sua, proprietà personale, approvi leggi che lo liberino dalle accuse, dai processi, dai giudici di Milano: le manifestazioni che organizza dinanzi al palazzo di giustizia palesemente vogliono costruire le condizioni di un trasferimento dei dibattimenti in un'altra sede "per gravi motivi d'ordine pubblico", un espediente per allontanarlo dal giudice naturale. La prescrizione ancora più breve (approvata alla Camera, ora al Senato) non gli può bastare. Reclama che anche il processo per concussione e prostituzione minorile sia sospeso in attesa che la Corte costituzionale decida se il Parlamento può stabilire contro i giudici la "ministerialità" dei reati contestati al Cavaliere. In caso contrario, una nuova legge è già pronta. Per condizionare le volontà della magistratura, influenzare le scelte della Consulta, ottenere (come dicono spudoratamente gli araldi del potere berlusconiano) un impegno di Giorgio Napolitano "in una sorta di moral suasion sulla Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi", il premier spinge la riforma costituzionale della magistratura; la responsabilità civile delle toghe; la legge bavaglio sulle intercettazioni; l'introduzione del quorum dei 2/3 per le decisioni della Consulta che abrogano una legge per incostituzionalità. Berlusconi le chiama "riforme". Sono soltanto le poste del ricatto che egli lancia contro le istituzioni della Repubblica. Il programma, dimentico delle vere necessità di un Paese in crisi abbandonato al suo destino da un governo fantasma, ha un solo obiettivo: mostrare come il premier sia disposto  -  se non ottiene la "tutela" immunitaria  -  a "decostituzionalizzare" la nostra democrazia, come dice Stefano Rodotà, ribaltandone i principi, le regole, gli equilibri, i poteri.

Napolitano è il primo e più autorevole ostacolo a questo disegno ricattatorio. Dovrà decidere della ragionevolezza della prescrizione breve. Giudicare l'esistenza di una palese incostituzionalità di un riforma del pubblico ministero che affida a leggi ordinarie  -  e quindi a chi governa momentaneamente in Parlamento  -  materie oggi protette dalle garanzie della Carta fondamentale. Difendere l'indipendenza della Corte costituzionale dalla longa manus del potere politico. Vigilare sui diritti dell'informazione. Le sagge parole di oggi, ricordano a chi vuole screditare le istituzioni e ribaltare l'equilibrio democratico che c'è un limite oltre il quale si manifestano "degenerazioni" che egli non tollererà. A Napolitano è toccato in sorte il più ingrato dei ruoli politici. È il custode della Costituzione. È chiamato a difenderla e proteggerla da partiti e uomini che, in quella Costituzione, non credono; che quella Costituzione disprezzano e umiliano. È la condizione estrema in cui si trova il nostro presidente della Repubblica. Avrà bisogno del sostegno di tutto il Paese per affrontare i conflitti che lo attendono.
 

(19 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #202 inserito:: Luglio 05, 2011, 04:31:41 pm »

L'ANALISI

L'ultimo trucco "ad aziendam" di Berlusconi il 'padrone' del paese corrompe la democrazia

Nelle pieghe della manovra una norma per proteggere la Fininvest del Cavaliere e sospendere il pagamento del risarcimento da 750 milioni di euro per il Lodo Mondadori.

È la ventesima legge ad personam del premier

di GIUSEPPE D'AVANZO


CHI SI ERA illuso che Berlusconi, avvilito dagli scandali e depresso per le bocciature elettorali, fosse ormai al capolinea, è servito. L'uomo sarà anche all'ultimo atto - arriva sempre e per tutti un ultimo atto - ma non ha alcuna voglia o possibilità di abbandonare la scena, come lascia intendere con mosse teatrali incoronando capo del suo partito una comparsa, un attor giovane, Angelino Alfano.
 ...
La cruda verità è che Berlusconi non può abbandonare. Deve restare lì, al governo e al potere, al riparo di un macroscopico conflitto d'interessi per proteggere la sua roba e il suo destino.

L'Egoarca non ha altra preoccupazione che se stesso e non è una novità, ma ormai la consapevolezza di ventisette milioni di italiani che hanno cancellato nel voto referendario il "legittimo impedimento", di fatto dicendogli che non avrebbero più tollerato leggi personali. L'Egoarca non se ne dà per inteso. Si fece leader politico per venir fuori dai suoi guai finanziari. Era più o meno alla rovina nel 1994. Aveva debiti a medio-lungo termine per 2927 miliardi di lire e a breve per 1528 miliardi a fronte di un capitale netto di 1053 miliardi. Per non farla lunga, un fallito. Dopo diciassette anni e dopo il suo ennesimo fallimento - questa volta, politico  - stiamo ancora qui a parlare dei suoi soldi, delle sue utilità, di che cosa gli conviene, di che cosa non gli conviene.

Così mentre il governo chiede agli italiani - e agli italiani più deboli, i pensionati, i precari, i giovani - di versare lacrime e sangue per riequilibrare i conti dello Stato, Berlusconi si apparecchia il solito codicillo "ad personam" o "ad aziendam" che permetterà a lui - il Tycoon miliardario della Fininvest - di fare festa in tempi di stenti risparmiando di pagare un risarcimento di 750 milioni di euro.

I fatti sono noti e non può far velo a Repubblica prendere posizione anche se il beneficiario di quel risarcimento è l'editore di Repubblica. La ragione di questa serenità è che all'inizio di questa storia c'è un fatto provato, accertato, indiscutibile: la corruzione di un giudice. Quindi, un delitto, un reato. È un "dettaglio" che - per nulla misteriosamente - scompare sempre nelle ipocriti o servili ricostruzioni del caso.

Dunque, due imprenditori, due privati cittadini, Berlusconi e De Benedetti, hanno una contesa d'affari. In gioco è la proprietà della Mondadori. Finiscono in tribunale. Berlusconi si compra chi deve decidere della controversia, il giudice Metta. La corruzione della toga viene accertata al di là di ogni ragionevole dubbio in tre gradi di giudizio. La sentenza è definitiva e ha uno strascico: come risarcire chi si è visto privato di un bene con un crimine? Un altro giudice - un giudice civile, poi aggredito e degradato per vendetta dalla "macchina del fango" - decide che il prezzo giusto per il danno subito da De Benedetti è di 750 milioni di euro.

Berlusconi si appella. La decisione è attesa di qui a qualche giorno, ma l'Egoarca la teme. Se ne lagna, con pose da vittima, appena può. Al funerale del suo miglior amico. Al matrimonio della sua ministra. Tace di aver corrotto il giudice. "Vogliono colpirmi nel patrimonio" dice trascurando di aver colpito il patrimonio altrui. Lavora in silenzio. Non lascia trapelare un sospiro. Anche se qualche traccia rimane nel terreno.

Nei giorni scorsi, quando i manager della Fininvest presentano il bilancio della holding, svelano di non aver messo in conto nessun accantonamento, a copertura dell'eventuale risarcimento alla Cir. Sanno che "il Dottore" si sta muovendo per salvare se stesso e i conti del gioiello di famiglia. Nella bozza di manovra presentata nel pre-consiglio dei ministri il codicillo non c'è. Non c'è nella bozza consegnata ai ministri, giovedì scorso. Appare tra sabato e domenica - dunque quando materialmente il documento è ancora a Palazzo Chigi. Devono averla affatturata gli avvocati del premier. È proprio il tira e molla tra presidenza del Consiglio con i suoi legulei e il ministero del Tesoro con i suoi tecnici deve aver ritardato la trasmissione del documento al Quirinale.

A scrutinare oggi il decreto legge si scorge un metodo rituale: cambio un comma di una legge, neutralizzo la giustizia, incasso il vantaggio privato. In questo caso, si manipolano due commi del codice di procedura civile. Finora il giudice poteva sospendere le pronunce di condanna in attesa della sentenza di Appello o di Cassazione. Ora riformati il primo comma dell'articolo 283 e dell'articolo 373, il giudice deve obbligatoriamente in forza delle legge "ad personam", pensata per proteggere la Fininvest del Cavaliere, sospendere il pagamento del risarcimento.

Così l'Egoarca che nei prossimi giorni - la sentenza era prevista in settimana - avrebbe dovuto sborsare alla Cir di Carlo De Benedetti tra i 750 e i 500 milioni di euro può tenere la borsa chiusa e attendere tempi migliori per cancellare tutto, magari con un'altra legge, con un altro codicillo, con un colpo di mano che - altro che ultimo atto! - lo porti al Quirinale che poi magari dal Colle più alto è più facile ottenere obbedienza dei giudici e sentenze accomodate.

Ora a occhio nudo possiamo vedere quel che accade ancora una volta, per la ventesima volta (tante - venti - sono le leggi ad personam). Berlusconi pretende che il suo destino sia il destino dell'Italia. Con questa convinzione, si è impadronito della "cosa comune" e ne fa una "cosa propria". Impone leggi personali corrompendo la nostra democrazia. Per proteggere la democrazia dalla corruzione esiste la Costituzione. Per dirlo con le parole di Gustavo Zagrebelskj, la funzione della Costituzione "è precisamente di evitare che qualcuno, una parte soltanto, s'impadronisca della "cosa di tutti"". Come si è impadronito Berlusconi deformando a proprio vantaggio addirittura la manovra finanziaria per la quale saremo giudicati dai nostri creditori, dai Paesi con cui condividiamo l'euro, dai mercati.

Declinato così questo nuovo caso di corruzione della democrazia italiana, bisogna allora guardare al Quirinale. Giorgio Napolitano firmerà il decreto legge? Quali sono gli eventi che rendono quel codicillo (il giudice deve sospendere l'esecutività di una condanna di ammontare superiore a venti milioni di euro) "necessario e urgente" come prevede l'articolo 77 della Costituzione? È sufficiente il buon senso per rispondere. Non si avvista alcun fatto nuovo, se non la prossima soluzione di un singolo caso - la contesa Fininvest-Cir, Berlusconi-De Benedetti. Sarà per questo che la firma del decreto, come conferma la presidenza della Repubblica, non c'è stata ieri e non ci sarà oggi perché è ancora in corso un'"attenta e scrupolosa valutazione", formula che lascia trasparire tutte le perplessità di Napolitano.

Il Colle ferma così l'orologio per chiedere al governo, a Berlusconi, a Tremonti, un ripensamento. Questo più o meno il ragionamento: il governo ha inviato soltanto una bozza. Come ogni lavoro provvisorio e non definitivo, è ancora possibile emendarla e correggerla e il testo della manovra va corretto nella forzature privatistiche imposte dagli interessi di un Egoarca attento alla sua roba.

La finestra che ha aperto il capo dello Stato consentirà a molti di mostrare di quale pasta sono fatti e al Paese di apprezzarne responsabilità e senso dello Stato. Potrà Tremonti conservare intatta la credibilità di moralizzatore della finanza pubblica se non si spenderà a favore dei dubbi del Quirinale? E quali parole di sostegno alla "leale collaborazione" di Napolitano sentiremo invece da Angelino Alfano, indicato come il "cuoco della frittata" e l'ambizioso capo di un partito che si vuole "degli onesti"? Ancora poche ore e sapremo.

(05 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #203 inserito:: Luglio 10, 2011, 05:12:57 pm »

LA STORIA

"Berlusconi è il corruttore"

Illegalità per creare un impero

Le motivazioni della sentenza del processo Mondadori: decisioni cambiate a suo favore.

Il premier ha voluto, organizzato, finanziato la corruzione di Vittorio Metta che gli consegna la più grande casa editrice del Paese

di GIUSEPPE D'AVANZO

"Berlusconi è il corruttore" Illegalità per creare un impero Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti in una foto degli anni 80
Se non si ricorda come sono andate le cose venti anni fa, ci si può lasciare confondere dal frastuono sollevato dai commessi ubbidienti dell'Egoarca. Dunque. Due privati cittadini, capi d'impresa, si trovano in conflitto per la proprietà della Mondadori. Accade che gli eredi del fondatore (Arnoldo Mondadori) pattuiscano con Carlo De Benedetti (editore di questo giornale) la cessione della loro quota entro un termine, 30 gennaio 1991. Tra i soci c'è anche Silvio Berlusconi. Mai schietto, lavora nell'ombra. Traffica. Intriga. Ottiene che gli eredi passino nel suo campo. Nasce una lite. La decidono tre arbitri a favore di De Benedetti.

Berlusconi impugna il lodo dinanzi alla Corte d'appello di Roma. E' qui si consuma il coup de théatre, il crimine, il robo. All'indomani della camera di consiglio, il giudice relatore Vittorio Metta deposita centosessantasette pagine d'una sentenza che dà partita vinta a Berlusconi. Era stata già scritta e non l'ha scritta il giudice e non è stata scritta nemmeno nello studio privato o nell'ufficio del giudice in tribunale. Preesisteva, scritta altrove. Il giudice ha venduto la sentenza per quattrocento milioni di lire  -  il giudizio è definitivo, è res iudicata (Corte d'appello di Milano, 23 febbraio 2007, respinto il ricorso dalla Cassazione il 13 luglio 2007) .

Il corruttore è Silvio Berlusconi. Ascoltate, perché questo è un brano della storia che solitamente viene trascurato. L'Egoarca porta a casa la ghirba per un lapsus del legislatore. Il parlamento vuole inasprire la pena della corruzione quando il corrotto vende favori processuali. Ma i redattori della legge dimenticano, compilandola, il "privato corruttore". Così per Berlusconi  -  è il "privato" che corrompe il giudice  -  non vale la nuova legge più severa (corruzione in atti giudiziari), ma la norma preesistente più blanda (corruzione semplice). Questa, con le attenuanti generiche, decide della prescrizione del delitto. Un colpo fortunato sovrapposto a un "aiutino" togato. Nel 2001, l'Egoarca è a capo del governo. Per il suo alto incarico gli vanno riconosciute  -  sostengono i giudici (e poi, irriconoscente, il Cavaliere si lamenta delle toghe)  -  le attenuanti generiche e quindi la prescrizione e non come sarebbe stato più coerente, proprio in ragione delle pubbliche responsabilità, le aggravanti e quindi la condanna insieme agli uomini (gli avvocati Previti, Acampora e Pacifico) che, nel suo interesse, truccarono il gioco.

Allora, per chi vuole ricordare, le cose stanno così: Berlusconi ha voluto, organizzato, finanziato la corruzione di Vittorio Metta che gli consegna  -  come il bottino di una rapina  -  la più grande casa editrice del Paese, ma non può essere punito.
Con buona pace di Marina Berlusconi e dei suoi argomenti ("un esproprio") e arroganza ("neppure un euro è dovuto da parte nostra"), dov'è la politica in questa storia? C'è soltanto la contesa di mercato tra due imprenditori. Uno dei due, Berlusconi, si muove come un pirata della Tortuga. Non gli va bene. Lascia troppe tracce in giro. Lo beccano. La sentenza della Corte d'appello civile è molto chiara in due punti decisivi.

1. Berlusconi è il corruttore. Scrivono i giudici: "Ai soli fini civilistici del giudizio, Silvio Berlusconi è corresponsabile della vicenda corruttiva".
2. Con la corruzione del giudice, Berlusconi non ha soltanto sottratto a De Benedetti la chance di prevalere nella causa sul controllo del gruppo Mondadori-Espresso (come ha sostenuto la sentenza di primo grado), ma gli ha impedito di vincere perché De Benedetti senza la corruzione giudiziaria avrebbe di certo conquistato un verdetto favorevole alle sue ragioni.

Oggi a distanza di venti anni, che non sono pochi soprattutto per chi ha patito l'inganno, Berlusconi  -  evitato il castigo penale  -  paga il prezzo della rapina, risarcendone il danno. Tutto qui?
Andiamoci piano. E' un "tutto qui" che ci racconta molte cose di Berlusconi e qualcuna sul berlusconismo.
Si sa, il Cavaliere si lamenta: "Mi trattano come se fossi Al Capone". Lo disse accompagnando la sentenza di primo grado, in questo processo civile. La sentenza di appello ci consente di comprendere meglio che cosa l'Egoarca condivida con Al Capone: il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l'avidità. Lo abbiamo già scritto in qualche altra occasione. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta  -  ne è il simbolo  -  l'Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. E' infatti irrealistico immaginare Berlusconi fuori dal corso di quegli eventi: capitali oscuri, costanti prassi corruttive, liaisons piduistiche, un'ininterrotta presenza nel sottosuolo pubblico dove non esiste un angolo pulito. Berlusconi è quella storia e senza amnistie, senza un incessante e rinnovato abuso di potere, senza riforme del codice e della procedura preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato oggi un "delinquente abituale".

Accostiamo, per capire meglio, la sentenza di ieri della Corte d'appello civile di Milano con gli esiti processuali di un altro processo per corruzione. Questa volta non di un giudice, ma di un testimone, David Mills.
Lo si ricorderà. David Mills, per conto e nell'interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento "diretto e personale", crea e gestisce "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest", dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come "i politici costano molto ed è in discussione la legge Mammì"). E ancora, il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma tra i quali (appunto) Vittorio Metta; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. In due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), David Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere dai guai, da quella galassia societaria di cui l'avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio "enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali", come si legge nella sentenza che lo ha condannato.

Sono sufficienti questi due approdi processuali (Mondadori e Mills) per guardare dentro la "scatola degli attrezzi" di Silvio Berlusconi e lasciare senza mistero la sua avventura imprenditoriale. Da quelle ricostruzioni, che non hanno mai incontrato un'alternativa accettabile, ragionevole, credibile nelle parole o nei documenti del Cavaliere, si può comprendere come è nato il Biscione e di quali deformità pubbliche e fragilità private ha goduto per diventare un impero. Se solo la memoria non avesse delle sincopi, spesso determinate dal controllo pieno dell'informazione, che cosa ne sarebbe allora del "corpo mistico" dell'ideologia berlusconiana, della sua agiografia epica? Chi potrebbe credere alla favola del genio, dell'uomo che si fatto da sé con un "fare" instancabile, ottimistico e sempre vincente, ispirato all'amore e lontano dal risentimento?

La verità è che finalmente, dopo un ventennio, comincia a far capolino e  -  quel che più conta  -  a diventare consapevolezza anche tra chi gli ha creduto come, al fondo della fortuna del premier, ci sia il delitto e quindi la violenza. Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. Salta fuori il resoconto degli "attrezzi" del Mago: evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il controllo dei "dispositivi della risonanza"  -  ripeto  -  sarebbe chiaro da molto tempo come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.
Oggi come ieri per far dimenticare la sua storia, per nascondere il passato, salvare il suo futuro, tenere in vita la mitologia dell'homo faber, Berlusconi non inventerà fantasmagoremi. L'Egoarca muove sempre gli stessi passi, ripete sempre le stesse mosse. Come per un riflesso automatico, si esibirà nell'esercizio che gli riesce meglio: posare da vittima "politica", bersaglio di un complotto politico-giudiziario. Confondendo come sempre privato e pubblico, con qualche metamorfismo mediatico  -  ha degli ordigni e sa usarli  -  trasformerà la sua personale e privatissima catastrofe di imprenditore, abituato all'imbroglio e al crimine, in affaire politico che decide del destino della Nazione. Ha cominciato la figlia Marina, accompagnata dalla volgarità ingaglioffita e aggressiva dei corifei. Domani  -  comoda la prognosi  -  sarà il Cavaliere a menare la danza in prima fila. Con un mantra prevedibile e in attesa di escogitare un qualche sopruso vincente, dirà: "Contro di me tentano un attacco patrimoniale".

Vedremo così allo scoperto il più autentico statuto del berlusconismo: l'affermazione di un potere statale esercitato direttamente da un tycoon che sfrutta apertamente, e senza scrupoli, la funzione pubblica come un modo per proteggere i suoi interessi economici. Ieri, ne abbiamo già avuto un saggio nella tempesta declamatoria dell'intero gruppo dirigente del "partito della libertà" dove si è distinto Maurizio Lupi, che nella settimana che si apre sarà addirittura ministro di Giustizia. Le sue parole sono quasi il paradigma della devastazione della legalità che il berlusconismo ha codificato. L'uomo spesso posa a riformista dialogante, ma nell'ora decisiva mostra il suo volto più reale. Dice: "In qualsiasi Paese una sentenza che intima al leader di maggioranza di risarcire il vero leader dell'opposizione (De Benedetti ha la tessera n. 1 del Pd) avrebbe suscitato unanime condanna". Davvero in qualsiasi Paese, con l'eccezione di un'Italia gobba afflitta da malattie organiche, un imbroglione avrebbe potuto nascondere agli elettori le sue tecniche fino a diventare capo del governo? In quale altro Paese, scoperto l'imbroglio, il neoministro di Giustizia quasi come atto programmatico ne invoca l'impunità pretendendo la severa punizione dell'eretico che, truffato, ha chiesto il rispetto dei suoi diritti? In quale altro Paese un delitto commesso da un privato può essere cancellato in nome della sua funzione pubblica? Nelle poche parole del neoministro si può rintracciare il compendio delle "qualità" del ceto politico berlusconiano, i suoi strumenti, il suo metro: ignoranza, immoralismo cinico, illegalismo istituzionale, chiassosi stereotipi, menzogna sistematica e la totale eclissi dei due archetipi del sentimento morale: la vergogna e la colpa. Con tutta evidenza, siamo soltanto all'inizio del triste spettacolo che andrà in scena nelle prossime settimane perché  -  è chiaro  -  Berlusconi può abbozzare sulla manovra fiscale che riguarda gli altri, ma qui parliamo di lui, della sua "roba". E' per la "roba" che si è fatto politico e con la politica che vorrà salvare la sua "roba". Costi quel che costi.

(10 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #204 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:17:48 am »

LA MORTE DI D'AVANZO

Dalla lotta alla mafia all'ultima pedalata i miei venticinque anni accanto a Peppe

Falcone non parlava molto con i giornalisti, ma quando lo conobbe rimase affascinato dal suo modo di lavorare.

Giorgio Bocca, seduto con lui nell'aula bunker al processo Andreotti gli chiedeva: "Ma tu come le sai tutte queste cose?"

di ATTILIO BOLZONI


ROMA - L'ultimo pezzo di strada che abbiamo fatto insieme è stato lungo venticinque anni. L'amico di una vita. Al giornale e fuori dal giornale. È cominciato tutto a Palermo tanto tempo fa e sarebbe ricominciato tutto un'altra volta a Palermo fra qualche settimana. A Peppe piaceva la mia Sicilia, Palermo lo rapiva. C'eravamo conosciuti prima ma amici siamo diventati dopo. Quando lui era già venuto in cronaca a Roma - da Napoli, dove prima era alla redazione di Paese Sera e poi corrispondente di Repubblica - e io stavo ancora laggiù a farmi mangiare dalla paura. Scrivevo di mafia. Solo Peppe aveva capito sino in fondo la mia solitudine e con la sua generosità aveva fatto capire a tutti gli altri cosa significava fare quel mestiere a Palermo. Era l'inizio del 1987, forse primavera. Sulla sua pelle c'erano ancora i segni di chi era sopravvissuto in terra di camorra. Lui il Natale di due anni prima l'aveva passato nel carcere di Carinola, arrestato per avere pubblicato un articolo su capi crimine e neri coinvolti nella strage del rapido 904. Uno scoop. Il primo di tantissimi altri scoop che hanno fatto la storia di Repubblica.

Viveva per quello Peppe. Era giornalista. Un vero giornalista. Con il carattere che aveva, la sua lealtà, il suo metodo - non a caso si era laureato in filosofia - era il migliore di tutti noi. Cronisti che viaggiavano nel profondo Sud per descrivere le facce sconce di coloro che se n'erano impossessati, denunciare i maneggi di quei politicanti amici dei boss. Ma Peppe andava sempre oltre, scavava di più, "vedeva" sempre più lontano. Arrivava su una strada per un omicidio eccellente o entrava in una stanza per intervistare qualcuno, con cura maniacale prendeva appunti, non perdeva mai tempo in cerimonie: "La palla: dobbiamo seguire sempre la palla", mi diceva scherzando quando io o altri colleghi ci concedevamo una piccola distrazione.

Di questo suo stile - asciutto, rigoroso - se ne accorse un giorno Giovanni Falcone, uno che con i giornalisti non parlava molto. Diffidente com'era, fu una sorpresa per tutti scoprire che il giudice istruttore più famoso e più guardingo d'Italia era rimasto affascinato da Peppe. "Proprio tu che sei napoletano?", lo prendevamo in giro noi amici siciliani, sempre superbi nei confronti degli altri meridionali. Sarà stato anche napoletano ma Falcone intuì che lui aveva capito tanto della Sicilia. E sapeva quanto era svelto di cervello, intransigente, determinato. Così Peppe cominciò a scendere sempre più spesso a Palermo. Per la Tangentopoli siciliana che scoppiò prima di quella milanese, per gli intrighi dei reparti speciali contro la procura di Caselli, per rintracciare i grandi pentiti di Cosa Nostra. Memorabile la sua intervista a Tommaso Buscetta appena tornato dagli Usa, firmata a quattro mani con Eugenio Scalfari.

Le incursioni a Corleone per ricostruire la vita di Totò Riina, le sue denunce sul sistema giudiziario corrotto, i commenti incisivi sui pentiti manovrati. E poi le cronache delle udienze al processo Andreotti, con Giorgio Bocca seduto nell'aula bunker che lo guardava stupefatto e gli chiedeva: "Ma tu, come le sai tutte queste cose?". Peppe si lisciava il baffo folto e cominciava a raccontare i retroscena dell'ultimo mistero palermitano, il vecchio Bocca ogni tanto scriveva qualcosa su un quaderno e poi a cena lo tormentava con le domande. Aveva fonti di primissima mano. Ed era autorevole con le sue fonti. Da Palermo si spostava a Milano, scendeva nella sua Napoli, tornava in Sicilia. Quando uccisero Giovanni Falcone è come se avesse perso un fratello.

In quei mesi c'era Palermo ma c'era anche Milano. Il pool di Mani Pulite, le inchieste sulla corruzione, i ritratti dei grandi protagonisti. Tutti pezzi in prima pagina con la sua firma. Un passo sempre avanti agli altri. Un giorno mi chiama e dice: "Devi venire subito a Roma". Era il 19 marzo del 1994. Anche quella volta Peppe aveva la notizia. Il giorno dopo Repubblica titolò in prima pagina: "Quell'affare di mafia e mattoni". Aveva ricevuto la notizia giusta: qualcuno faceva il nome di Silvio Berlusconi alla vigilia della sua "discesa in campo". E raccontava di latitanti "in una tenuta fra Milano e Monza" amministrata dal boss di Publitalia Marcello Dell'Utri, degli "interessi" palermitani del Cavaliere, delle sue frequentazioni sospette. Era l'inizio di quell'indagine infinita su Berlusconi e la mafia che è ancora sospesa. È stato Giuseppe D'Avanzo a cominciarla. E a continuarla poi sul fronte di Milano, le dieci domande a Berlusconi su Noemi Letizia, gli altri scoop su Ruby. E poi sempre a fare da cane da guardia al potere. Su Gladio e Telekom Serbia, sul Nigergate e il rapimento di Abu Omar.

Con Carlo Bonini aveva scritto un libro sul mercato della paura e la guerra al terrorismo islamico, con lui avevo pubblicato tre libri negli anni '90 su mafia e dintorni. L'ultima nostra passione erano le bici da corsa. Dove avremmo mai potuto passare le vacanze pedalando?
In Sicilia, naturalmente. Ma Peppe ieri mattina se n'è andato, sulla strada che ancora una volta facevamo insieme per raggiungere una montagna dove non eravamo stati mai.

(31 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #205 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:20:59 am »

31/7/2011

Giuseppe D'Avanzo amava il rugby duro con regole leali

MARIO CALABRESI

Peppe D’Avanzo era un giornalista che viveva e si identificava completamente con i suoi articoli, che erano specchio fedele del suo modo di intendere l’esistenza e il lavoro: nessun compromesso, una cura ossessiva per i particolari, una vis polemica difficilmente mediabile e in ogni cosa una scelta di campo che non ammetteva ragioni.

Se n’è andato all’improvviso, in un giorno d’estate, e sembra impossibile che quella vitalità prorompente possa essersi spenta. Il suo giornalismo ha sempre fatto rumore, in Italia e all’estero, e gli ha procurato polemiche e scontri, ai quali non si è mai sottratto.

A me piace ricordarlo però come un grande cronista, dotato di quel metodo che è l’unica ricetta per andare a scoprire il fondo ultimo di ogni storia: leggeva tutto, sottolineava, appuntava, riempiva taccuini con la sua penna stilografica e si metteva a scrivere solo quando era convinto di aver esplorato ogni angolo. E poi aveva una tenacia non comune con le fonti, le coltivava ogni giorno, non solo quando ne aveva bisogno, e al dunque le cercava senza sosta. Stava ore davanti al telefono a provare e riprovare un numero che suonava a vuoto.
Amava il rugby, gioco duro ma con regole leali.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9042
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« Risposta #206 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:24:38 am »

L'ARCHIVIO

Giuseppe D'Avanzo, le grandi inchieste

Da Cosa Nostra allo scandalo Ruby, alcuni dei più importanti articoli della firma di Repubblica
 


Quando la Cia non credette ai nostri 007 1 (8 gennaio 2001)
 
Quelle e-mail rubate dal computer di Biagi 2 (29 giugno 2002)

Cosa Nostra, rapporti segreti: "Previti e Dell'Utri nel mirino" 3 (7 settembre 2002)

Telekom, il ruolo degli 007 così inquinarono l'inchiesta 4 (9 ottobre 2003)

Quattro destini incrociati tra armi, segreti e misteri 5 (17 aprile 2004)
 
L'imam rapito dalla Cia, silenzi e complicità con Washington 6 (28 giugno 2005)

Doppiogiochisti e dilettanti, tutti gli italiani del Nigergate 7 (24 ottobre 2005)

Le responsabilità italiane nella guerra sporca Usa 8 (11 maggio 2006)

Quella patacca del Sismi per infangare Prodi 9 (7 luglio 2006)

La riscoperta dell'America, nuovo fronte di Cosa Nostra 10 (12 luglio 2007)

E Tronchetti mi disse: "Le abbiamo chiesto troppo" 11(21 luglio 2008)

Le dieci domande a Berlusconi 12 (15 maggio 2009)

Su Boffo una velina che non viene dal tribunale 13 (30 agosto 2009)

Ruby: "La mia verità sulle notti di Arcore" 14 (28 ottobre 2010)

Berlusconi corruttore: illegalità per comprare un impero 15 (10 luglio 2011)


(30 luglio 2011) © Riproduzione riservata

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