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« inserito:: Ottobre 03, 2007, 10:31:06 pm » |
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CRONACA
L'ANALISI Quando tornano i fantasmi del passato
di GIUSEPPE D'AVANZO
Rapina una banca. Lo beccano con tre pistole. Alle spalle, ha una condanna a tre ergastoli e un passato di terrorista che nessuno può e vuole dimenticare. Nel presente, gode di un regime di semilibertà: di giorno fuori, di notte in carcere. L'arresto di Cristoforo Piancone, brigatista di prima generazione, sollecita due interrogativi. Il primo è di natura investigativa: l'assalto alla sede centrale del Monte dei Paschi di Siena è il gesto di un disperato senza arte né parte per fare un po' soldi e magari sparire dalla circolazione o è l'azione di finanziamento di un gruppo terroristico che segnala una ripresa operativa dell'eversione, un innalzamento del livello "militare" delle sue sortite?
Il secondo interrogativo è d'ordine politico: è ragionevole o soltanto emotivo e demagogico sorprendersi per il regime di semilibertà concesso a un ergastolano?
Per trovare una risposta alla prima domanda, occorre ricordare che il ritorno in libertà dei "brigatisti irriducibili" della prima stagione di sangue preoccupa, e da qualche tempo. Non è una novità l'assillo di una possibile "fusione di estremismi vecchi e nuovi"; "il pericolo che un progetto di ispirazione brigatista possa sopravvivere al ricambio generazionale". Gli investigatori ne hanno avuto una conferma in febbraio con gli arresti, tra Milano e Padova, di quindici brigatisti del "Partito comunista politico-militare", nati tra il 1952 e il 1985, dai cinquantaquattro ai ventuno anni. È questo corto circuito tra un fondo di simpatia o nostalgia del brigatismo e il protagonismo di esponenti della "vecchia guardia" a mettere sul chi vive.
Soprattutto quando qualche "padre fondatore" delle Brigate Rosse si impegna allo scoperto in ambigue operazioni "commemorative" o di "testimonianza". Per dire, il 3 giugno di quest'anno dinanzi al carcere dell'Aquila muove un corteo di solidarietà a Nadia Desdemona Lioce (condannata all'ergastolo per l'assassinio di Massimo D'Antona e Marco Biagi). Tra gli animatori dell'iniziativa appare Paolo Maurizio Ferrari, uno dei capi storici della Brigate Rosse, libero dal 2005 dopo 30 anni di carcere (nessun fatto di sangue per lui).
Con Ferrari sfilano le aree dell'antagonismo, i centri sociali più "duri", gli anarco-insurrezionalisti, gli sventurati che ai cortei antiamericani gridano: "uno, cento, mille Nassiryia". La saldatura tra il "vecchio" e il "nuovo" è l'incubo delle polizie e dell'intelligence. Che sostanzialmente, però, individuano condizioni per un allarme in un pugno di "casi"; in non più di sei, sette nomi. Il direttore del Sisde, Franco Gabrielli, li ha proposti in un'audizione parlamentare.
Cesare Di Leonardo, arresto nel 1982, condannato all'ergastolo per il sequestro del generale James Lee Dozier. Prossimo alla libertà, ha rivendicato, in una sua apparizione in aula giudiziaria, l'omicidio di Marco Biagi. Ancora. Fausto Marini e Tiziana Cherubini, della colonna romana. Una volta fuori hanno cercato di allacciare rapporti con l'area antagonista (Marini è già stato condannato in primo grado per apologia sovversiva e istigazione a delinquere). Sono da poco fuori anche Francesco Aiosa (colonna genovese), Ario Pizzarelli (colonna Walter Alasia), Flavio Lori (colonna romana).
Cristoforo Piancone non è in quest'elenco e, oggi, l'intelligence civile e l'eccellenza investigativa dei carabinieri concludono che l'ex-operaio della carrozzeria di Mirafiori, il membro della direzione strategica delle prime Br, con il terrorismo non c'entra più nulla. "Nei molti anni di carcere - sostiene un investigatore - Piancone non ha mai dato segno di voler continuare un'esperienza che, esplicitamente, ha definito "chiusa". Mai una presa di posizione. Mai la sua firma per un documento politico. Un comportamento irreprensibile". "E' molto più probabile - spiega una qualificata fonte dell'intelligence - che Piancone sia finito in un giro criminale. Si sia associato a banditi di mestiere, come è già accaduto a qualche uomo di Prima Linea alla fine degli anni novanta, per sbarcare il lunario, per mettere da parte qualche soldo, sistemare le difficoltà della famiglia o magari tagliare la corda".
Quel che l'intelligence non dice è che questa convinzione si rafforza soprattutto per l'attenzione con cui "si cura" la Toscana dove sono in attività "componenti estremiste che hanno firmato qualche azione emulativa e intimidatoria di stampo brigatista". Anche se la polizia appare più cauta nel liquidare in fretta e così l'assalto di Siena, si può dire che il ritorno sulla scena di Cristoforo Piancone non deve farci credere a una ripresa del processo eversivo, a un nuovo ingaggio della "vecchia guardia" delle Brigate Rosse.
La convinzione delle polizie non servirà a mitigare le polemiche suscitate dalla "scoperta" che un pluriergastolano se ne andava libero per l'Italia, pistole in pugno, per poi tornare la sera nella sua cella. E' legittimo sorprendersi che anche il condannato all'ergastolo possa essere ammesso al regime di semilibertà, detenuto di notte, libero cittadino di giorno?
Quel che sorprende, in verità, è la sorpresa di chi si sorprende, come accade in queste ore a molti esponenti del centro-destra e al questore di Siena. La legge che concede anche agli ergastolani la semilibertà ("il condannato all'ergastolo può essere ammesso al regime di semilibertà dopo aver espiato almeno venti anni di pena") è in vigore da ventuno anni, approvata "per attuare pienamente - come si legge in un documento del Parlamento del 1986 - il principio contenuto nel terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione: "Non è ammessa la pena di morte"".
Allora, il legislatore fece più o meno questo ragionamento: escludere il condannato all'ergastolo è privo di senso. Egli, con la legislazione in vigore, dopo ventisei di carcere può essere ammesso alla libertà condizionale. Perché allora non prevedere anche la semilibertà come momento preparatorio di quel provvedimento nell'ottica di "un trattamento progressivo"? Infatti, ieri come oggi, la semilibertà è prevista al termine di una "sequenza premiale", come si dice, che deve assicurare la regolarità della condotta; la partecipazione all'opera di rieducazione; i progressi compiuti nel corso del trattamento; il comportamento che faccia ritenere sicuro il ravvedimento.
Se Piancone ha ottenuto la semilibertà, è lecito pensare che l'amministrazione penitenziaria gli abbia riconosciuto nel tempo buoni risultati rieducativi. Val la pena di ricordare che quella legge dell'86 fu il punto di arrivo di una serie di interventi legislativi, giurisprudenziali e di dottrina, "tesi ad umanizzare e a finalizzare in senso rieducativo la pena dell'ergastolo o addirittura ad abolirlo, perché in contrasto con la Costituzione".
Naturalmente si può non essere d'accordo con questa interpretazione del dettato costituzionale, o essere ostili a ogni flessibilità della pena, ma - va detto - nei cinque anni governati dal centro-destra, nulla è stato detto, discusso e approvato per invertire quell'interpretazione e la direzione di marcia. Non si è mossa foglia. Appare così demagogico e strumentale - mediocre teatro politico - agitare oggi l'albero quando un ergastolano - uno dei pochissimi - torna a delinquere, tradendo chi gli ha concesso fiducia e il futuro di tutto coloro che, in regime di semilibertà, non delinquono.
(3 ottobre 2007) da repubblica.it
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« Ultima modifica: Settembre 21, 2008, 11:32:05 am da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 06, 2007, 10:52:17 pm » |
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CRONACA
IL COMMENTO
Messaggi barbarici
di GIUSEPPE D'AVANZO
Annozero, che giovedì ha affrontato il "caso De Magistris", è stato una barbarie. Parola da intendere in senso proprio. La scena messa su da Michele Santoro ha creato "condizioni di vita estranee o contrarie a un modo di organizzare l'esistenza" improntato alla civiltà, alle buone maniere, a regole e responsabilità. Se precipiti nella barbarie, nessuno può ragionevolmente sperare di farcela (per questo la civiltà è soprattutto conveniente). Gesti, parole, argomenti - in un contesto primitivo - non possono che avvilirsi in una eccitata violenza che deforma ogni ragione e anche la migliore delle intenzioni. E' quel che è accaduto nella Rai del servizio pubblico lasciando sul terreno la credibilità di tutti i partecipanti, nessuno escluso. Qui ne faremo un breve elenco, cominciando dai due grandi assenti nello studio: il Consiglio superiore della magistratura e il ministro di Giustizia, Clemente Mastella. Sono i maggiori, e più colpevoli, responsabili del "caso De Magistris".
Si sa di che cosa si tratta ormai. Luigi De Magistris è pubblico ministero a Catanzaro. Indaga sul sistema di potere che governa l'afflusso dei finanziamenti europei in Calabria (8 miliardi e mezzo di euro tra il 2007 e il 2013). L'investigazione rivela una rosa di contatti che tocca il capo del governo e sfiora lo stesso guardasigilli; un network di amicizie complici che coinvolge qualche succube o attivissima toga. Per riflesso, il pubblico ministero è aggredito, vilipeso, sabotato dalle gerarchie togate di due regioni (Calabria e Basilicata).
Lo stato miserevole in cui versa la magistratura calabrese - indifferente, conformista, timida e intimidita, furbissima o connivente - è una novità per l'opinione pubblica, non per il Consiglio superiore. Avrebbe dovuto intervenire per liberare gli uffici da quelle velenose incrostazioni. Non si è mosso da lustri. Non si muove oggi, imprigionato dalla magistratura associata (Anm), in uno strategico e goffo patto con il governo. In cambio di correzioni alla catastrofica riforma dell'ordinamento giudiziario voluta dal centro-destra, le toghe si sono acconciate a uno scaltro quietismo che promette di non disturbare il manovratore, quando e dove serve.
E' una condizione che appare al ministro di Giustizia, Clemente Mastella, così favorevole da convincerlo a "infilzare" De Magistris con un'indiavolata sollecitudine e a chiedere al Consiglio - senza alcuna seria urgenza - il trasferimento del pubblico ministero per "gravi violazioni deontologiche". Quali siano ancora nessuno è in grado di dirlo davvero. Girano molte voci anche accreditate, molti "si dice", qualche "bufala", ma nessuno può dire ancora quali siano nel dettaglio le contestazioni del ministro al magistrato. In questa cornice, dovrebbe essere intelligibile per chiunque "il bene" che chiede protezione in quest'affare: l'autonomia di una funzione giudiziaria rispettosa delle regole.
Il perché dovrebbe essere chiaro. Se una giustizia condizionata o minacciata dal potere non è giustizia (l'indipendenza è il presupposto dell'imparzialità del magistrato), non è giustizia nemmeno quando si manifestano prassi in cui prevale una logica dell'efficienza coniugata alla facile idea che per la salus rei publicae bisogna guardare al reo dietro il reato, anche a costo di sacrificare il principio di stretta legalità.
Annozero comincia male, malissimo. Paragonare la "crisi calabrese" al "grande gioco" di Palermo negli anni Ottanta appare incongruo, sconveniente, di certo un errore di prospettiva che trascura le forze e i poteri che allora erano in conflitto, non rende onore ai "fatti" e alla memoria, alla sapienza e al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (nonostante la presenza in studio del fratello Salvatore).
La partecipazione di Clementina Forleo sorprende. E' il giudice che scrutina le indagini preliminari per le scalate del 2005 (Antonveneta, Unipol). Ha chiesto al Parlamento di poter utilizzare le intercettazioni D'Alema-Consorte ipotizzando anche una responsabilità penale del ministro degli Esteri. Dice: "E' ora che il Sud si liberi di Don Rodrigo e dei suoi bravi". Ora D'Alema viene eletto al sud, nella stessa regione - la Puglia - che ha dato i natali alla Forleo. E' a lui che si riferiva con quel "Don Rodrigo"? E, se non si riferiva a lui, non si dà spazio a un'ambiguità che scredita D'Alema, ma anche chi dovrebbe giudicarlo, la sua serenità di giudizio, la sua imparzialità (che dovrebbe anche apparire tale)?
Dice ancora la Forleo: "Purtroppo il giudice viene lasciato solo anche da tanti suoi colleghi. Dopo aver preso scelte scomode io e altre persone ci siamo ritrovati a non avere i soliti inviti e i contatti consueti con colleghi. Anche oggi qualcuno mi ha telefonato e raccomandato: "Sii prudente". Ora la Forleo lavora negli uffici giudiziari di Milano, che a buon titolo consideriamo d'eccellenza. Il suo j'accuse lascia pensare che le toghe di Milano siano così acquiescenti all'attuale potere politico dei Ds da isolarla per le sue decisioni, addirittura da minacciarla con discrezione.
Stanno davvero così le cose, oggi, nell'ufficio che fu di Borrelli, Colombo, Davigo, Di Pietro e che è oggi di Boccassini, Greco, Spataro e di centinaia di altri pubblici ministeri e giudici che, investiti dall'ondata di piena del berlusconismo al governo, hanno conservato il rispetto di se stessi, del proprio regolato lavoro e della Costituzione? Si fa fatica a crederlo. Per crederlo, bisognerebbe documentarlo meglio. Se non si può documentare meglio, converrebbe tacere a meno di non voler correre il rischio di diffondere, senza ragione e ragionevolezza, un ingiusto discredito su un'istituzione dello Stato e sui suoi servitori.
Il peggio, in ogni caso, lo offre Michele Santoro. Organizza una trasmissione che rende incomprensibile la "materia del contendere". Davvero quei ragazzi raccolti da Annozero (e i telespettatori) hanno compreso quali sono le circostanze e "i principi" messi in gioco dal "caso De Magistris"? La ricostruzione, gonfia di emotività, suggestioni, commozioni, li ha come rimossi. Santoro ne propone la chiave concettuale. Dice: non ci interessano le regole, la forma che doveva rispettare De Magistris, non ci interessano i suoi errori anche probabili. Ci interessa "la sostanza", il resto sono "quisquilie".
L'anchorman sembra ignorare (o voler ignorare) quanti orrori possono accadere quando un magistrato arriva al massimo dell'indignazione e, in nome della giustizia, pretende un castigo e, se non lo ottiene, avvia un ciclo di ritorsioni. Sembra non comprendere che un potere che schiaccia un magistrato, e un magistrato che non si cura delle procedure, sono due aspetti della stessa barbarie. Altro che quisquilie, perché se al politico gli si può interdire il voto, al magistrato no. L'unica garanzia che abbiamo è che rispetti le regole perché un potere sostanzialistico e punitivo ha sempre la vocazione a espandersi oltre i limiti definiti dalle norme che lo regolano. Può contagiare il costume giudiziario. Alla fine, valorizza la mano forte e metodi che possono diventare persecutori, di giustizia preventiva.
Sono questi i messaggi "barbarici" che il servizio pubblico della Rai ha diffuso con Annozero senza voler considerare la vera e propria disinformazione firmata da Marco Travaglio. Ammesso che Travaglio fosse lì come giornalista e non come leader del largo movimento d'opinione che fa riferimento a Beppe Grillo, davvero si può rappresentare l'intero sistema politico italiano come governato dal massone Licio Gelli? Si può sostenere che questo governo abbia separato le carriere di pubblico ministero e giudice?
No, perché non è vero. Si può, come se si trattasse di una notizia, sostenere che "la temporaneità degli incarichi direttivi" è un modo per liquidare i magistrati più abili e indipendenti mentre è il solo espediente che una magistratura debole e divisa ha escogitato per evitare che gerarchi in toga si installino in una stessa poltrona per un ventennio diventando parte integrante e preziosa del sistema di potere locale?
La barbarie di Annozero dovrebbe farci chiedere che cosa deve essere l'informazione del servizio pubblico. Se è "dare le notizie" e "accrescere la conoscenza", come si potrebbe ipotizzare, l'obiettivo è stato del tutto mancato: notizie alquanto confuse, disinformazione; non c'è alcuna conoscenza, soltanto un distillato di veleni in un quadro culturale che ignora le ragioni della democrazia e le convenienze dello Stato di diritto.
Annozero, viene da dire, è stato soltanto un passo verso il suicidio collettivo. Qualche tempo fa, Barbara Spinelli ha ricordato che, per Emile Durkheim, non si suicidano soltanto gli individui, ma anche le società e gli Stati. Accade quando le società perdono le regole; spezzano gli equilibri; slabbrano le istituzioni, lo Stato, la famiglia, il sindacato, le magistrature; vedono frantumarsi i legami sociali come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro (era il fantasma che avevamo visto al governo con Berlusconi). Può essere ora il lavoro distruttivo che piace alle burocrazie dell'informazione, a cinici politici in cerca di un facile consenso, agli indifferenti amministratori della Rai, ai moltissimi che sono in cerca di una leadership capace di decidere in fretta e imperiosamente, magari dopo un "vaffanculo". A noi, non piace.
(6 ottobre 2007)
da repubblica.it
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« Ultima modifica: Ottobre 22, 2007, 09:05:03 am da Admin »
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 22, 2007, 09:04:41 am » |
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POLITICA
Gli addebiti al pm De Magistris appaiono fragili e l'uguaglianza davanti alla legge è a rischio
Ecco perché va cancellato il tempo della furbizia
di GIUSEPPE D'AVANZO
IMMAGINIAMO di essere non nell'ottobre 2007, ma nello stesso mese del 2005. Un pubblico ministero indaga il capo del governo (è Berlusconi) e il suo ministro di giustizia (è Castelli). Gli sottraggono una prima inchiesta, avocata dal procuratore capo. Il pubblico ministero si mette al lavoro su un'altra inchiesta. In un passaggio dell'indagine che egli ritiene decisivo, il ministro di Giustizia (le indagini raccontano che è in buoni rapporti con due degli indagati) chiede - come una nuova legge gli permette - il trasferimento cautelare del pubblico ministero a un altro ufficio.
Sarebbe la definitiva morte dell'inchiesta. Il provvedimento amministrativo non convince il Consiglio superiore della magistratura che lo deve disporre. Non ne intravede l'urgenza, prende tempo, tira in lungo. Il pubblico ministero iscrive, allora, il ministro nel registro degli indagati: atto dovuto per l'esercizio dell'azione penale e soprattutto garanzia per l'indagato. Ventiquattro ore dopo, il procuratore generale avoca a sé - sottrae al pubblico ministero - anche la seconda indagine.
Il passo è inconsueto e appare anomalo. Gli addetti ricordano, se hanno memoria buona, qualche modesto precedente di quindici anni prima. Le ragioni del procuratore generale stanno in piedi come un sacco vuoto.
Se il motivo dell'avocazione è l'"incompatibilità" per l'"inimicizia grave" tra il pubblico ministero e il ministro indagato (ha chiesto la punizione del pubblico ministero, che ne è risentito), si tratta una fanfaluca. Se si accetta il principio, qualunque indagato che denuncia il suo accusatore potrebbe invocare l'"inimicizia grave" e liberarsi del suo pubblico ministero. Cesare Previti, in passato e ripetutamente, ci ha provato. Non è andato lontano.
Ci sarebbe - trapela dalla procura generale - un'altra ragione per l'avocazione delle indagini: l'inerzia del pubblico ministero. L'accusatore è fermo. Non va né avanti né dietro. Non esercita l'azione penale. Non richiede l'archiviazione "nel termine stabilito dalla legge". Ora, l'inchiesta del pubblico ministero è nei termini stabiliti dalla legge (è un fatto) e di quel pubblico ministero tutto si può dire tranne che sia pigro o inoperoso (è un fatto). La seconda ragione appare, se possibile, anche più debole della prima e nonostante ciò il pubblico ministero perde l'inchiesta e il capo del governo e il ministro di Giustizia tirano un respiro di sollievo, si liberano di ogni controllo (che abbiano o no responsabilità punibili è un'altra storia, naturalmente).
Siamo nell'ottobre del 2005 - lo ricordate? - e in questo modo abusivo il capo del governo (è Berlusconi) e il ministro di Giustizia (è Castelli) si grattano la rogna, guadagnano un'illegittima impunità, contraria alla Costituzione e alla legge.
L'operazione liquidatoria consiglia di gridare allo scandalo. Non siamo nella Francia ancien régime dove, grazie a lettere chiamate Committimus, le persone favorite dal potere schivano le normali giurisdizioni e si presentano dinanzi a corti più mansuete. Se questo accade (e accade) si degrada a regola fluttuante, a canone fluido l'articolo 3 della Costituzione ("I cittadini sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di condizioni personali e sociali"). E' necessario interrogarsi allora sulla qualità di una democrazia, esprimere qualche preoccupazione se il potere politico rifiuta ogni contrappeso; annichilisce l'indipendenza della magistratura. E' un obbligo chiedersi delle ragioni (e responsabilità) di una frattura istituzionale che impone a una magistratura servile di umiliare la sua stessa autonomia liberandosi delle "teste storte" convinte che atti uguali vadano valutati a uguali parametri giuridici, sia l'indagato un povero cristo o di eccellentissimo lignaggio.
Questo avremmo pensato e detto, con apprensione e qualche brivido, se nell'ottobre del 2005 fosse stata rubata l'inchiesta a un pubblico ministero "colpevole" di voler verificare i comportamenti del capo del governo (Berlusconi) e del ministro di giustizia (Castelli).
Non siamo (purtroppo?) nel 2005. Siamo nel 2007 e il capo del governo (indagato) è Romano Prodi, il ministro di Giustizia (indagato) è Clemente Mastella e l'esito dell'affare non è mai riuscito a Berlusconi, Previti, Dell'Utri, Castelli: il pubblico ministero che li ha indagati - Luigi De Magistris - si è visto trafugare l'inchiesta dal tavolo.
Se ne deve prendere atto con molta inquietudine. Ora che il "caso De Magistris" (o il "caso Prodi/Mastella"?) precipita verso un punto critico, è indispensabile che questo affare diventi finalmente, e nel mondo più rapido, trasparente. Che tutti i comportamenti, le responsabilità, gli usi e i soprusi siano squadernati in pubblico, possano essere verificati e, se necessario, presto corretti nel rispetto delle regole democratiche che assegnano a ciascuno degli attori ruolo e doveri.
Il governo governi senza condizionare l'autonomia della magistratura (se Mastella teme di cadere in tentazione, gli si assegni un altro incarico nell'esecutivo). Il pubblico ministero eserciti l'azione penale nel rispetto delle costrizioni procedurali (il Consiglio superiore ne verifichi l'ossequio, subito non in dicembre). Le gerarchie togate evitino ogni soggezione, rispettino i codici, non manipolino le procedure (la procura generale di Catanzaro receda dalla sua dissennata iniziativa).
Il presidente della Repubblica sia, come sempre è stato, il garante della Costituzione e dell'eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge. Non c'è più spazio per il compromesso, la tolleranza, la furbizia.
A meno di non voler cadere in quell'incubo che sembrava alla spalle con la sconfitta del cattivissimo Silvio Berlusconi.
(21 ottobre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 23, 2007, 05:01:55 pm » |
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CRONACA
L'ANALISI
Per il bene delle istituzioni di GIUSEPPE D'AVANZO
Per come si sono messe le cose, era necessario che intervenisse il capo dello Stato nella sua doppia funzione di garante della Costituzione e di presidente del Consiglio superiore della magistratura. Negli ultimi giorni, l'affare De Magistris/Mastella è deflagrato in ogni direzione.
Travolgendo la misura di una corretta condotta istituzionale prima che il rispetto di regole, leggi e codici. Va detto che nessuno si è tirato indietro in questa zuffa. Non si è tirato indietro il pubblico ministero, che ha replicato in pubblico, colpo su colpo e rumorosamente, all'assedio a cui è stato sottoposto, alla controversa avocazione che lo ha privato di un'inchiesta che coinvolge il presidente del Consiglio in carica e il suo ministro di Giustizia. Non si è tirato indietro un attivissimo, quasi agitato, Clemente Mastella che ha spesso confuso in pubblico - e sovrapposto negli atti ministeriali - il suo ruolo istituzionale con la condizione di indagato.
Non si è tirato indietro il procuratore generale, soltanto facente funzioni, Dolcino Favi. Giovedì scorso, il Consiglio superiore ha nominato il legittimo Pg di Catanzaro e Favi, senza attendere l'insediamento del legittimo titolare dell'incarico, appena prima di spegnere la luce e lasciare l'ufficio, ha firmato un'avocazione che è inconsueta nella più recente storia giudiziaria. Si è tirato indietro, e colpevolmente, il Consiglio superiore della magistratura da cui ci si attendeva - al contrario - un passo in avanti, chiarificatore. Avrebbe dovuto dare con celerità un esito, in un senso o in un altro, all'indagine disciplinare che coinvolge Luigi De Magistris e il suo procuratore capo Mariano Lombardi. Ha affrontato "la pratica" con l'abituale vivacità del plantigrado rinviando la decisione anche quando, con una mossa arrischiatissima, Mastella ha invocato il trasferimento del pubblico ministero con un'urgenza palesemente infondata.
Disancorata da un terreno istituzionale e quindi disciplinato, la controversia ha assunto le forme della rissa, del parapiglia dove ogni colpo inferto all'avversario, al di là di ogni regola, è buono se fa davvero male. Nessuno è sembrato curarsi che a "farsi male" davvero, a degradarsi era la credibilità delle istituzioni. L'intervento del capo dello Stato è allora saggio, opportuno e tempestivo. Giorgio Napolitano impegna la sua autorità e promette di tutelare l'insieme dei beni che appaiono in gioco in quest'affare: l'autonomia della magistratura; l'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge; i diritti dei cittadini indagati. Il capo dello stato pone innanzitutto una questione di metodo.
Chiede ai protagonisti (magistrati e governanti, l'organo giudiziario ma anche il titolare dell'azione disciplinare) discrezione, self-restraint, rispetto di leggi, codici deontologici, dettami di una leale collaborazione istituzionale. Pretende che siano verificati soprattutto i fatti secono le norme e i principi. Sono stati corretti i passi investigativi di Luigi De Magistris? Ha rispettato le procedure e i diritti dell'indagato? Il ministro ha forzato le prerogative che gli assegnano la titolarità dell'azione disciplinare? E' il lavoro che deve svolgere il Consiglio superiore della magistratura.
Napolitano ne è il presidente e con il suo intervento si impegna a che quel compito sia affrontato dal Csm rapidamente e con "ponderazione e obiettività". Ma il capo dello Stato è anche il garante della Costituzione, il custode dell'articolo 3 ("Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge"), dell'articolo 101 ("I giudici sono soggetti soltanto alle legge"), dell'articolo 104 ("La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere").
E' inutile nascondersi che la grossolanità degli interventi di Mastella, accentuata dal vittimismo di De Magistris, ha dato l'impressione (non avventata) che le ragioni del potere volessero spadroneggiare sulle ragioni di giustizia. Che la politica (Mastella lo ha ripetuto in più occasioni) non accettasse, oggi come ieri, un controllo di legalità o di "farsi processare" quali che fossero indizi, fonti di prova, qualità dei comportamenti. Napolitano, con poche secche frasi, assicura con il prestigio della sua autorità che proteggerà l'autonomia della magistratura e, nel contempo i diritti degli indagati, affinché le indagini facciano il loro corso e non siano insabbiate, come molti sono indotti a credere. Non è la soluzione del conflitto ma, se gli attori rispetteranno il canovaccio scritto ieri dal presidente della Repubblica, è almeno un buon inizio.
(23 ottobre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 31, 2007, 09:53:41 pm » |
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POLITICA IL COMMENTO
Ma un giudice non può tacere i nomi di chi lo minaccia di GIUSEPPE D'AVANZO
La denuncia di Clementina Forleo non può essere equivocata. Dice il giudice per le indagini preliminari di Milano: "Quando ero il gip delle scalate del 2005 (Antonveneta-Bnl) mi giunsero pressioni relative agli atti di quell'indagine da ambienti istituzionali". Il giudice non va oltre. Non fa nomi, non offre indicazioni, non aiuta a capire: "Allo stato ne ho riferito soltanto ai miei familiari e a persone del mio entourage" e, a quanto pare, a un suo amico Ferdinando Imposimato - già giudice e parlamentare. La ragione? La Forleo non si sente "tutelata", non si sente "protetta". Tutto quest'affare è molto bizzarro e chiede di essere chiarito nelle prossime ore, in fretta e con attenzione.
Dunque, un giudice riceve delle pressioni addirittura da "ambienti istituzionali" per manipolare le sue decisioni. La manovra configura un reato penale e il pubblico ufficiale, vittima dell'avance, ha l'obbligo della denuncia. Il professore Franco Cordero - quando Clementina Forleo è stata rumorosamente criticata per aver indicato, nella richiesta di utilizzazione di alcune intercettazioni telefoniche che coinvolgevano parlamentari, le ipotetiche responsabilità penali dei protettori politici (Massimo D'Alema e Nicola Latorre) del presidente di Unipol - scrisse che quelle "opinioni erano irrituali, non erano affar suo disquisirle. Ma (Forleo) ha scritto quel che pensa. L'atto configura una denuncia obbligatoria, art. 331, illo tempore chiamata "rapporto"" (Repubblica, 24.07.07).
L'articolo 331 del codice di procedura penale recita: "I pubblici ufficiali che, nell'esercizio delle loro funzioni e del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile d'ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia stata individuata la persona alla quale il reato è attribuito. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria". Questo stesso argomento, questo stesso articolo del codice può - deve - essere adoperato per sottolineare la timidezza del giudice, giustificata dal timore di non sentirsi protetta. Ma ora che la storia è diventata pubblica, per voce della stessa Forleo, non si può far finta che non sia accaduto nulla. Occorre che ciascuno faccia la sua parte a difesa dell'incolumità del giudice e dell'integrità dell'inchiesta milanese.
Si spera che, nelle prossime ore e non nei prossimi giorni, la Forleo voglia denunciare gli autori delle "pressioni istituzionali". Ci si augura che, nel caso ciò non avvenga, il dirigente dell'ufficio delle indagini preliminari o il presidente del Tribunale o il presidente della Corte d'Appello chiedano alla Forleo di stendere una relazione di servizio o, come si diceva un tempo, "un rapporto" sulle abusive sollecitazioni ricevute. Per il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e alle istituzioni, la sola che non è lecito fare è trasformare quest'affare, all'apparenza molto serio, in una farsa buona ad alimentare il consueto alambicco di veleni o le giostre di "una tv della simulazione".
(30 ottobre 2007)
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Il paragone impossibile con Falcone e Borsellino
di GIUSEPPE D'AVANZO
LA SCENA è confusa e alquanto spiacevole. Paragonare quel che accade oggi nella magistratura, e alla magistratura, con quanto è accaduto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino quindici anni fa è, per quel che se ne sa, iperbolico. Sentir parlare di tritolo, minacce istituzionali, poteri occulti e assassini in un Paese che ha visto i suoi uomini migliori uccisi dal tritolo o è una beffarda farsa che offende le autentiche tragedie, scimmiottandole, o è una spaventevole emergenza da affrontare subito.
In questo secondo caso, se ne vorrebbe sapere di più, al di là dell'emotività di teatri televisivi di incerta informazione che non danno conto della realtà, ma preferiscono simularla. Che cosa sta accadendo? Chi minaccia o ha minacciato Clementina Forleo? Quale potere occulto assedia Luigi De Magistris? Questo si vorrebbe sapere.
E dunque... Per un passo abusivo del ministro di Giustizia e di un'iniziativa impropria (e forse illegittima) del procuratore generale di Catanzaro, a De Magistris è stata sottratta un'inchiesta che vede indagati il capo del governo e Clemente Mastella. Se si conserva la testa fredda, in questo caso si può dire che un momento di indubbia criticità sta faticosamente trovando soluzione perché la fisiologica dialettica del sistema di controllo degli atti e verifica dei comportamenti è al lavoro.
Il Consiglio superiore della magistratura, che ha opportunamente bocciato l'urgenza del trasferimento di De Magistris proposto da Mastella, ci dirà delle responsabilità disciplinari del pubblico ministero o delle violenze che ha subito. A fine dicembre, la procura di Salerno chiuderà le indagini sui magistrati di Catanzaro che reciprocamente si sono accusati e denunciati.
Entro quindici giorni la Corte di Cassazione deciderà del ricorso contro l'avocazione presentato dal pubblico ministero privato della sua inchiesta. Presto, la procura di Roma deciderà se l'affare è di competenza del tribunale dei ministri o può tornare dinanzi al suo giudice naturale. Lungo questo percorso, con ogni probabilità, saremo in grado di comprendere anche la qualità e la correttezza dell'inchiesta calabrese e anche apprezzare il ruolo di un consulente tecnico del pubblico ministero che, per essere soltanto un privato cittadino, si abbandona a inconsueti toni minacciosi. Pare insomma che ci siano tutte le condizioni per convincere De Magistris a evitare allarmi e proclami a vantaggio di una responsabile riservatezza.
Diverso è il caso di Clementina Forleo, alla quale più che riserbo bisogna chiedere chiarezza. La denuncia del giudice non può essere equivocata. Dice: "Quando ero il gip della scalate del 2005 (Antonveneta-Bnl) mi giunsero pressioni relative agli atti di quell'indagine da ambienti istituzionali". Forleo non va oltre. Non fa nomi, non offre indicazioni, non aiuta a capire: "Allo stato ne ho riferito soltanto ai miei familiari e a persone del mio entourage" e, a quanto pare, a un suo amico, Ferdinando Imposimato - già giudice e parlamentare - custode di una lettera "a futura memoria". La ragione? La Forleo non si sente "tutelata", non si sente "protetta" dallo Stato. Tutto quest'affare è molto bizzarro e chiede di essere illuminato in fretta.
Dunque, un giudice riceve delle pressioni da "ambienti istituzionali" per manipolare le sue decisioni a vantaggio di potenti. La manovra configura un reato penale e il pubblico ufficiale, che ne è vittima, ha l'obbligo della denuncia. Articolo 331 del codice di procedura penale: "I pubblici ufficiali che, nell'esercizio delle loro funzioni, hanno notizia di un reato devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia stata individuata la persona alla quale il reato è attribuito. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria".
Perché, solitamente così ossequiente alla legge, Clementina Forleo appare timida o esitante nell'osservarla? Può essere certo una giustificazione l'apprensione provocata dall'ostilità dell'"ambiente istituzionale", ma siamo certi che il coraggio del giudice saprà superarla. E comunque ora che la storia è diventata pubblica, per voce della stessa Forleo, non si può far finta che non sia accaduto nulla. Occorre che ciascuno faccia la sua parte a difesa dell'incolumità del giudice e dell'integrità dell'inchiesta milanese.
Si spera che, presto, la Forleo voglia denunciare gli autori delle "pressioni istituzionali". Ci si augura che, nel caso ciò non avvenga, il dirigente dell'ufficio delle indagini preliminari o il presidente del Tribunale o il presidente della Corte d'Appello o il procuratore generale della Repubblica chieda alla Forleo di stendere una relazione di servizio o, come si diceva un tempo, "un rapporto" sulle abusive sollecitazioni ricevute.
Per il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e alle istituzioni, la sola cosa che non è lecito fare è trasformare quest'affare, all'apparenza molto serio, in una commedia buona ad alimentare l'alambicco dei veleni o la disordinata giostra del dibattito televisivo. Bene ha fatto allora il Csm ad aprire immediatamente un fascicolo "per conoscere e deliberare".
Male, malissimo fanno altre istituzioni (come l'Arma dei carabinieri) chiamate in causa dal giudice di Milano a tacere o, interpellate dalle sue denunce, a voltare la testa da un'altra parte. Tacciono per evidenza colpevolezza o per pubblica pavidità? Di che cosa hanno paura, delle proprie responsabilità o del sentimento popolare che potrebbe travolgerli se smentissero il magistrato? Questo si vuole sapere perché quel che si vede non convince. Sembra che siamo alle prese con una rabbiosa aggressione del potere politico all'ordine giudiziario e invece si è visto, fino a prova contraria, soltanto il goffo agitarsi di Clemente Mastella.
Sembra che siamo nel fuoco di un conflitto feroce tra magistratura e politica e invece si può prendere atto che negli uffici giudiziari, nelle forme associate della consorteria togata, nel suo organo di autogoverno, in Parlamento, nel governo, la temperatura dei rapporti tra i due poteri è nei parametri (i problemi appaiono altri). E allora che cosa ci sfugge, se nemmeno la moral suasion del capo dello Stato - i suoi impegni e moniti - sono riusciti a riportare nei binari di una leale dialettica istituzionale i casi De Magistris e Forleo? E se nulla di davvero rilevante ci sfugge, per quanto tempo dobbiamo essere imprigionati in una recita a soggetto, per di più con l'indecorosa evocazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
(31 ottobre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 02, 2007, 03:07:43 pm » |
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CRONACA
IL RACCONTO
Viaggio tra i romeni delle baracche sull'Aniene
Vita da incubo nella città di latta
di GIUSEPPE D'AVANZO
ROMA - L'odore è buono. Come in ogni casa del mondo, dove c'è una famiglia e un pranzo nel giorno di festa. Il vapore che sale dalla pentola dello stufato di maiale con l'aglio e le cipolle è denso e profumato e Iuliana - Iuliana Dumea è venuta a Roma dalla contea di Piatra Neamt, Romania, quattro anni fa, in settembre - ne è fiera. Sorride e si stringe sulle spalle lo scialletto di lana. Fuori piove. Vuole preparare un caffè tanto per levarsi di dosso l'umidità.
Iuliana racconta di sé senza disperazione, quasi orgogliosa della sua rassegnazione a una vita aspra, della sua capacità di sopportarla con dignità. Dice del suo lavoro di badante a Cerveteri, 650 euro al mese, un posto fisso, un letto caldo per sei giorni la settimana e la famiglia che l'ospita la rispetta e ha fiducia in lei. Dice della figlia Andreea, arrivata in Italia che sono sette giorni: si prepara a diventare "grande", a dicembre finalmente festeggerà i diciotto anni e potrà cercarsi un lavoro. Del marito muratore che guadagna 40 euro a giornata, anche 50, quando è fortunato a trovarlo e, se Dio vuole, quest'anno la fortuna non lo ha mai abbandonato. Dice Iuliana, delle sue preoccupazioni, ma anche della sua speranza di una vita regolare, del desiderio di trovare una casa e non la baracca dove in un angolo ora borbotta - allegra - la pentola dello stufato.
La baracca, quindici metri quadrati, è stata tirata su con gli alberi del parco dell'Aniene, con l'aiuto di Cristian Samoila che ora sta tirando su la sua poco più in là. La baracca ha un tetto di laminato d'alluminio e pareti di cartone, protette da larghi fogli di plastica e cartelloni pubblicitari. C'è anche una finestra, ma non si apre. E' lì per decoro, per simulare una casa vera. Il rifugio di Iuliana è a ridosso dell'argine destro dell'Aniene tra l'ansa di Ponte Mammolo e Casale Rocchi. E' nel mezzo di una fangosa discarica per gran parte annerita dal fuoco - televisori sventrati, marmitte e batterie d'auto, vecchie scarpe, centinaia di bottiglie di vino e di birra, monnezza, bambole, cessi sbreccati, plastica bruciata.
Se guardi il volto di Iuliana, puoi anche dimenticare la baracca e la discarica. E se dimentichi la baracca e dove sei, la vita di Iuliana può anche apparire non disperata - Iuliana non la sente disperata - difficile sì, dura come la pietra sì, ma non disperata. E' una vita che ha ridotto al minimo ogni bisogno di abitazione, di vesti, di vitto ma non l'aspettativa di giorni migliori. E ora, chiede Iuliana, che succederà dopo quel che è accaduto a Tor di Quinto a quella povera signora: noi romeni finiremo tutti nei guai? Ci cacceranno tutti? Pagheremo tutti, i delitti di pochi o di uno? Io ho un lavoro, potrò restare? E Andreea potrà restare, lei che il lavoro non ce l'ha, ma ha me? Perché non li punite? Perché non li tenete in carcere? Perché, se li arrestate, poi li scarcerate?
Può apparire un paradosso e non lo è. I romeni, quei romeni che menano una vita agra lungo l'argine dell'Aniene, in baracche di cartone, legno e plastica, a pochi metri dal fiume - "invisibili" soltanto per chi abita in un'altra parte della città - temono la violenza dei romeni quanto gli italiani. La odiano come loro. Ne sono impauriti come loro e, come loro, chiedono che chi sbaglia paghi duramente. Come duramente pagherebbero in Romania. Se rubi una gallina in Romania, sei condannato a cinque anni di carcere anche se quella gallina ti sfama soltanto per un giorno, dice Cristian - è alto, magrissimo, è un elettricista, ha ascoltato Iuliana, in silenzio, infreddolito e scosso dai brividi. Se hai la droga, puoi essere condannato a quindici anni, dice. Se la droga è troppa per essere soltanto la tua, rischi l'ergastolo. Se hai bevuto anche solo un bicchiere di birra e guidi, perdi l'auto e la patente. Perché da voi non è così?
Lungo il fiume, per chilometri, ci sono soltanto baracche di romeni, di rom, di bosniaci, dice Cristian, vai a vedere: ognuno vive, come può e come sa e, se non ti fai confondere dalla povertà e dal loro aspetto o dalla confusione delle loro baracche, la vita che vogliono fare gliela leggi in faccia. Se hanno voglia di lavorare, se cercano lavoro per mangiare, lo capisci. Se vogliono mangiare e bere senza lavorare, lo puoi intuire. Se vuoi capirlo meglio, guarda se ci sono bambini e donne in casa. Se hanno la responsabilità di bambini e donne, gli uomini non rischiano di finire in carcere per una sbronza violenta. Se ci sono bambini e non ci sono le donne, diffida di quegli uomini: mandano le loro donne a rubare.
Se vedi soltanto uomini in una baracca, stai attento: possono essere loro - proprio quelli - la maledizione che può dannarci tutti. Sono spesso uomini che non hanno nulla da perdere. Venuti negli ultimi mesi in Italia, non dai villaggi ma dalle città, Costanza, Timisoara, Iasi, Cluj Napeca, dai peggiori quartieri di Bucarest, Ferentari, Obor, Pantelimon. Magari in Romania hanno fatto già il carcere e ancora ne devono fare e non hanno nulla da perdere. Sono uomini in fuga e di nulla conoscono il valore, nemmeno della vita umana. Ogni giorno in più per loro è un giorno guadagnato e per trenta euro possono ucciderti, se hanno bevuto; e d'altronde hanno sempre bevuto perché non fanno altro, dice Cristian.
Le acque dell'Aniene, grigie come il ferro, corrono veloci e gonfie. Le baracche sono addossate all'argine melmoso, nascoste dalle canne. L'una accanto all'altra per chilometri. Sono costruite tutte nello stesso modo, più o meno. Una camera, i grandi letti, la cucina a gas, la stufa a cherosene. Una porta che dà sul sentiero interno e un'altra che si apre su una specie di terrazzino "panoramico" che guarda il fiume e l'altra riva. C'è il tavolo, un paio di sedie e, a volte, anche un divano sfondato. Qualche baracca ha il televisore e l'antenna satellitare. Non si ode un rumore, una voce, il pianto o il riso di un bambino.
Gli "uomini soli" li vedi subito, da lontano. Sono in cerchio davanti alla baracca. Fumano, chiacchierano, hanno già bevuto e sono soltanto le undici del mattino. Non hanno voglia di dire il loro nome. Farfugliano se si parla di lavoro. Dicono che sono di Timisoara. Dicono che loro "i romeni cattivi" li prendono a calci nel culo se si fanno vedere da quelle parti. Uno che sembra il capo - è il solo a parlare mentre gli altri al più annuiscono a quel che dice - racconta che l'altro giorno si presentano un paio di loro con un'auto. Vedete, quella Ford laggiù. Vogliono venderla per mille euro. L'uomo chiede i documenti, ma non c'è alcun documento. Allora, giù calci nel culo. Quelli scappano e l'auto resta lì. E' ancora lì. "Che ci posso fare? Magari qualcuno può pensare che l'ho rubata io".
Se si racconta la storia a Essan, ride e ti chiede se l'hai bevuta. Abita più in là, lungo l'argine in una larga area umida e piana. E' un bosniaco, in Italia dal 1969. 43 anni, magro come uno chiodo, otto figli, dieci nipoti. Vivono tutti con lui, in quattro baracche di legno e una roulotte in un lotto recintato da rovi di more e una rete di ferro con su un cartello "Proprietà privata, non oltrepassare". Dice Essan che gli è venuta la pelle d'oca quando ha saputo della signora di Tor di Quinto. Mai, dice, si è vista questa violenza.
Ci sono stati gli albanesi, i marocchini, che non sono roba da poco, e mai la violenza dei romeni, dei romeni sfrizzati. Essan non vuole fare il santo. E' stato un ladro, ammette. Ha rubato, ma era un altro rubare, sostiene. Mai un coltello, mai una pistola e, se entravi in una casa e qualcuno gridava, te la davi a gambe e in fretta. Se ti beccavano e magari dovevi scontare un "residuo di pena", con le vostre leggi strane che prima ti scarcerano e poi, dopo anni, ti chiedono di tornare in galera a scontare la condanna, preparavi la tua valigia e te ne andavi a Rebibbia con le tue gambe. Ma ora, dice Essan, chi ci capisce niente? "Questi t'ammazzano per cinque euro, se sono ubriachi! Io non voglio che i miei figli abbiano a che fare con quella gente lì. Abbiamo il nostro lavoro della raccolta del ferro, e questo ci basta".
Anche Nichita è il capo di una tribù, otto figli, tre generi, cinque nipoti. E' autista e si sente proprietario dello spicchio di demanio pubblico che occupa. Lo ha pagato 11.500 euro, dice. Ha un foglio di carta firmato. Glielo ha venduto un tale di nome Gino che prima aveva lì un orto. Testardo, non vuole saperne di essere stato truffato. Dice che quella terra è ormai sua e da lì non se ne andrà. Perché dovrebbe andarsene, chiede. "Perché sono romeno? E allora stai a sentire? Guarda questa mano. In questa stessa mano, non c'è un dito uguale all'altro. Questo è corto e largo. Quest'altro è lungo e magro. Quest'altro ancora non si sa che farsene se non infilarci un anello.
Un popolo è come una mano. Ognuno è diverso dall'altro. Perché non volete capirlo? Proprio voi dovreste capirlo. Per alcuni, siete tutti mafiosi. Io so che non è vero, ma allora perché, per voi, può essere vero che tutti i romeni sono ladri e assassini e ubriaconi e violenti? Noi romeni siamo come cavalli che sono stati per anni chiusi in una stalla al buio. Poi hanno aperto le porte della stalla e il sole, la luce, l'aria, la libertà ci hanno intontito e turbato. C'è chi quella libertà vuole respirarla a pieni polmoni e corre, corre, corre approfittando degli spazi liberi pensando che la vita che vuole regalare ai figli deve essere diversa da quella che lo ha imprigionato per anni e ci sono altri che non sanno che farsene di quella libertà. Quella libertà non li rende felici. Al contrario, li riempie di rancore. Li fa rabbiosi e pazzi come cani e mordono chiunque li avvicini. Perché volete confondere me, la mia famiglia, con quei cani?".
Oltre la curva dell'Aniene a Ponte Mammolo, c'è una rete di strade e in una di quelle vie cieche che scendono verso l'area di esondazione del fiume, a Pietracamela, dicono che da qualche tempo c'è un nuovo campo di romeni, nelle grotte. Sembra una leggenda metropolitana. Quelle strade sono deserte e di grotte, in apparenza, non se ne vedono. Sarebbe difficile accorgersene se non spuntasse nell'angolo di un costone roccioso una testa per scomparire subito. E' quello l'ingresso delle grotte. Dentro inzuppato in un'umidità quasi solida c'è un intero borgo.
Le baracche appoggiate alla roccia, una larga "piazza" con intorno tavoli e sedie. Nel tavolo in fondo, un uomo allampanato, avanti con gli anni, beve un tè, concentrato nel gioco enigmistico del giornale romeno che lo ha accompagnato nel viaggio dalla Transilvania a Roma. E' arrivato appena ieri, dice Marian. Marian ha 22 anni, è nato e vissuto in un villaggio di trecento abitanti nel distretto di Maramures, in Transilvania appunto. Quando vivi in un posto di trecento abitanti, dice, non sai che cos'è la violenza.
Tutti si conoscono. Qualcuno può stare sul naso di un altro, ma al peggio non gli rivolge la parola ed è il massimo della violenza in un posto così. "Io - dice Marian - la violenza l'ho scoperta qui da voi ed è una violenza figlia delle vostre abitudini. Sono qui per lavorare e il lavoro non mi manca. Non guadagno molto, ma vado avanti. Penso che domani possa andare meglio. Quando mi manca il lavoro a Roma, vado al Nord, da mio fratello, e un lavoretto lo trovo sempre. Ora faccio pubblicità per una discoteca. Cinquanta euro al giorno. Può andare. Non capisco perché vi aspettate che chi non ha voglia di lavorare non procuri guai agli altri. Se non lavori, non mangi. Se non ti cerchi un lavoro, l'unico modo per mangiare è rubare. Se hai rubato una volta, tornerai a farlo. Se hai ucciso, sarai tentato di farlo un'altra volta. C'è un solo modo per risolvere il problema, chiudere in carcere chi fa del male agli altri, come fanno in Romania. Che ci vuole a capirlo?".
Marian alza la voce, senza volerlo, come in preda a una incomprensibile rabbia. Gli viene accanto una ragazza. Si chiama Veronica. E' la sua donna. Veronica prende per mano Marian, che si calma subito. Veronica è stata una schiava. Costretta a prostituirsi, picchiata selvaggiamente quando si rifiutava di passare le notti sulla Tiburtina. Marian l'ha convinta a denunciare i suoi "padroni". Ora vogliono sposarsi, appena troveranno un posto più decente di una grotta.
(2 novembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 12, 2007, 02:34:22 pm » |
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IL COMMENTO
La catena degli errori
di GIUSEPPE D'AVANZO
L'AGENTE della polizia stradale che ha ucciso Gabriele Sandri non si è accorto della rissa. Nemmeno ha intuito che, nell'area di servizio di Badia al Pino lungo l'A1, due piccoli gruppi di juventini e laziali se le erano appena date di santa ragione. L'agente - se sono buone le fonti di Repubblica - è stato messo sul chi vive dal parapiglia. Era lontano, dall'altra parte della carreggiata. C'è chi dice duecento metri, chi cento, in linea d'aria.
Ha sentito urla e grida. Ha visto un fuggi fuggi e un'auto che velocemente - o così gli è parso - si allontanava dall'area di servizio. Ha pensato a una rapina al benzinaio. Ha azionato la sirena. L'auto non si è fermata. Ha sparato. Ha ucciso. Raccontata così dal suo incipit, questa domenica crudele e brutale in cui è precipitata l'Italia, da Bergamo a Roma, poteva non avere come canovaccio principale la violenza che affligge il mondo del calcio ma, più coerentemente, il caso, la probabilità, l'errore. Il caso che incrocia l'auto della polizia stradale con il convoglio di tifosi.
La probabilità che il proiettile raggiunga, da settanta metri, il collo di "Gabbo" Sandri che dormiva. L'errore, il doppio errore "tecnico" del poliziotto che non comprende che cosa è accaduto dall'altra parte della strada e, convinto di essere alle prese con un delitto ben più grave di una scazzottata, troppo emotivamente, troppo affrettatamente spara. Per lunghe ore, questa ricostruzione - che non allevia la tragicità dell'insensata morte di Gabriele Sandri - non è saltata fuori. In un imbarazzato silenzio, è stata eclissata.
Chi doveva svelarla - la questura di Arezzo, il Viminale - ha taciuto e - tacendo - ha gonfiato l'attesa, la rabbia, la frustrazione delle migliaia di ultras che si preparavano a raggiungere in quelle ore gli stadi, sciogliendola poi con una cosmesi dei fatti che si è rivelata un abbaglio grossolano che, a sua volta, ne ha provocato un altro ancor più doloroso. E' stato detto che l'agente della polizia stradale è intervenuto per sedare una rissa tra i tifosi e, nel farlo, ha sparato in aria un colpo di pistola ("introvabile l'ogiva") che "accidentalmente", "forse per un rimbalzo", ha ucciso Sandri.
Consapevole che non di calcio si trattava, ma del tragico deficit professionale di un agente lungo un'autostrada, il Viminale non ha ritenuto di dover fermare le partite muovendo l'ennesimo passo falso di un'infelice domenica. Il racconto contraffatto è stato accreditato di ora in ora senza correzioni. Rilanciato e amplificato dalle dirette televisive, dalle radio degli ultras, dai blog delle tifoserie, ha acceso come una fiamma in quella polveriera che sono i rapporti tra le forze dell'ordine e l'area più violenta degli stadi, prima e soprattutto dopo la morte dell'ispettore Filippo Raciti a Catania.
L'illogica catena di errori, malintesi, confusione, silenzio e furbe manipolazioni - non degne di un governo trasparente, non coerenti con una polizia cristallina - ha trasformato la morte di Sandri in altro. L'ha declinata come morte "di calcio", morte "per il calcio". E' diventata una "chiamata" per l'orgoglio tribale degli "ultras" che, incapaci di esaurire la loro identità nell'appartenenza a una passione, a vivere il calcio come una buona, adrenalinica emozione, hanno soltanto bisogno di odiare, di posare a "guerrieri", di mimare la partita come protesta e come battaglia.
Hanno bisogno di dividere il mondo in "amico" e "nemico" e devono avere - tutti insieme, amici e nemici - come nemico assoluto "le guardie". Sono non più di settantamila in tutto il Paese e ieri, per la gran parte si sono presi, in un modo o in un altro, gli stadi. Li hanno "governati" o distrutti, come è accaduto a Bergamo, per bloccare le partite in segno di lutto come accadde dopo la morte di Filippo Raciti. Come se Raciti e Sandri fossero i "caduti" su fronti opposti di una allucinata "guerra", dichiarata tanto tempo fa e ancora in corso, domenica dopo domenica, scontro dopo scontro, carica dopo carica.
Questo disgraziato 11 novembre rischia di azzerare i discreti risultati raggiunti dentro gli stadi (meno eccitazione, risse e aggressioni sugli spalti; più autocontrollo e fair play in campo; maggiore rispetto per avversari e arbitri anche negli striscioni). Impone di affrontare l'imbarbarimento che oggi - sacralizzato e protetto lo stadio - ne impegna soprattutto i dintorni e, come si è visto anche ieri a Badia al Pino, le autostrade lungo le quali è assolutamente impossibile prevedere come e dove opposte tifoserie potranno incontrarsi, per uno sventurato caso.
Questa delirante "guerra" deve avere fine. Questo "terrorismo" domenicale deve sciogliersi. Non c'è bisogno di nuove leggi, di nuovi provvedimenti, di scorciatoie amministrative. E' sufficiente proteggere quei beni di interesse collettivo - la pubblica sicurezza e l'ordinata convivenza civile minacciate - che un recente decreto legge del governo riserva a difesa dei comportamenti dei cittadini non-italiani.
Forse non è sbagliato pensare a vietare del tutto le trasferte delle tifoserie, come già è stato episodicamente deciso. E' di tutta evidenza che bande di "guerrieri" che attraversano il Paese per sostenere in trasferta la propria squadra con la voglia matta di aggredire il "nemico" non sono gestibili da nessuna polizia del mondo, a meno di non militarizzare una volta la settimana autostrade, stazioni ferroviarie e piazze. E' un divieto che mortifica il Paese. E' una sconfitta utile a evitarne di peggiori. In questa sventurata domenica non c'è chi non abbia già perso. Gabriele Sandri ha perso la vita. Il Viminale la faccia. Il mondo del calcio, per una decina di migliaia di fanatici, ancora una volta la credibilità.
(12 novembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Novembre 24, 2007, 05:01:17 pm » |
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CRONACA
IL COMMENTO
Operazione verità
di GIUSEPPE D'AVANZO
Nel bestiario italiano dei complotti, autentici o fasulli, fanno spesso capolino i ragni, i serpenti e le piovre più o meno gigantesche. La presenza in scena delle iene e degli sciacalli non è abituale, in verità. Evocati ora da Berlusconi, chi - nello scandalo delle collusioni Rai-Mediaset - ha la parte dei due tristi mammiferi? Iene e sciacalli hanno l'abitudine di cibarsi di carogne. Escluso che Berlusconi sia una carogna, come curiosamente lascia intendere una sua dichiarazione, si deve pensare - a voler stare ai fatti - che "la carogna" sia, debba essere la Rai.
E' intorno al servizio pubblico morente, infatti, che si aggiravano iene e sciacalli per divorarne le risorse, le potenzialità, l'efficienza, la missione, cioè il braccio, il cuore e l'anima. Conviene uscire dal bestiario. E' buono soltanto per alzare polveroni e mettere in moto il consueto processo di "vittimizzazione" utile al Cavaliere per liquidare la questione e parlare d'altro.
Non è la sola cortina fumogena che pretende di nascondere alla vista il focus dello scandalo. E' soltanto un diversivo manipolatorio, per dire di un'altra, discutere di intercettazioni. E' un rilievo del tutto fantasioso, una polemica ammuffita. Il presidente della Repubblica, pur non facendo esplicito riferimento al caso Rai-Mediaset, ha posto ieri la questione nei giusti termini: è bene che le intercettazioni restino nei faldoni dell'istruttoria, dove devono essere custodite, "almeno finché c'è il segreto istruttorio". E' quel che è accaduto. In quest'affare, non c'è più alcun segreto istruttorio. L'inchiesta è chiusa. Non ci saranno più atti investigativi. Tutte le fonti di prova sono state consegnate, lunedì scorso, ai collegi di difesa degli indagati che ne hanno preso visione.
Come non è persecutorio - altra cortina fumogena - che la procura di Milano abbia voluto, nel corso dell'inchiesta, sapere di più di Deborah Bergamini, direttore del marketing della Rai, già assistente personale di Silvio Berlusconi. Come scrivono i pubblici ministeri chiedendo al giudice l'autorizzazione all'ascolto, "Deborah Bergamini è un alto dirigente della Rai, amica di Luigi Crespi (l'indagato). E' a conoscenza delle vicende della società HDC spa (è la società dell'indagato) e in particolare dei rapporti intercorsi con Publitalia/Forza Italia come emerge da alcune telefonate intercorse tra lei e Crespi". Crespi è già intercettato, dunque. Ascoltandolo, si comprende che la Bergamini la sa lunga sull'oggetto dell'indagine. Il pubblico ministero chiede che le intercettazioni si estendano alle sue telefonate. E' l'onesta e abituale prassi. Punto.
La terza cortina fumogena è la più buffa. Raccontare lo scandalo Rai-Mediaset, si dice, è stato soltanto una botta a freddo alle possibilità di dialogo sulla legge elettorale tra Veltroni e Berlusconi. Come se il sistema elettorale fosse all'incanto e lo si potesse barattare con il silenzio sul conflitto di interessi. Che il Cavaliere possa crederlo, non è una novità dai tempi della Bicamerale. Che nella trappola ci caschi Veltroni, nessuno in buona fede è autorizzato a pensarlo.
Bisogna lasciare da parte le manovre diversive che servono a "interrompere il fuoco" e andare al sodo. Più della metà degli italiani, secondo una ricerca della federazione degli editori, si informa in maniera esclusiva attraverso la televisione senza integrare le sue informazioni con altri media. La proporzione è peggiore della media degli altri paesi europei. Il primato della televisione come fonte primaria ed esclusiva d'informazione diventa assoluto e stupefacente durante le competizione elettorali. Il 77,3 per cento degli italiani vi si affida, mentre soltanto il 6,6 per cento si rivolge ai giornali (blog, on line e digitale non sono ancora in grado di "fare massa", per lo meno nelle ricerche demoscopiche).
Quindi, se in Italia controlli la televisione (e cinque telegiornali su sei) hai la possibilità di fare tre operazioni decisive. Scrutini il chi, il che cosa e il come. Comandi l'attenzione del pubblico (decidi non soltanto di che cosa si discute e già basterebbe, ma di che cosa non si discute). Hai il potere di definire i criteri che ne informano il giudizio (Non approfondisci mai alcun problema, lo proponi in modo sintetico e semplificato nella chiave "sei d'accordo o sei contrario", "sei ostile e favorevole": il contenuto non importa, conta solo con chi stai). Ma soprattutto chi controlla la televisione può "fare la lista", come spiega Giancarlo Bosetti nel suo "spin", può selezionare la classifica delle notizie del giorno, determinare che cosa andrà o non andrà nella prima parte dei telegiornali, di che cosa si occuperanno e come i talk show.
Lo scandalo non è che queste tre operazioni siano state nelle mani della squadra di un uomo solo, equamente disposti in Rai e in Mediaset. Questo lo si sapeva, come potenzialmente eravamo tutti consapevoli dell'esplosività di quel conflitto di interessi per la qualità della nostra democrazia. Lo scandalo è che quella "squadra", organizzata come una "struttura delta", ha concretamente disegnato giorno dopo giorno, a tavolino, una realtà italiana ingannevole e artefatta, eliminando le perturbazioni negative e le rogne del governo, deviando lo sguardo dell'opinione pubblica verso le mosse favorevoli o in apparenza favorevoli, ora sollecitando odio e risentimento ora creando e accompagnando emozioni sociali.
Ricordiamo tutti come la criminalità predatoria e l'insicurezza sociale, punte di lancia ossessive fino alla paranoia dell'informazione Mediaset alla vigilia delle elezioni del 2001, siano state con Berlusconi a Palazzo Chigi del tutto eliminate dall'informazione Rai-Mediaset, sostituite con i "pericoli concreti e imminenti" di un'inesistente minaccia terroristica islamica. Lo scandalo allora non sono né le intercettazioni né la violazione della privacy di alti dirigenti pubblici infedeli.
Lo scandalo è l'irrealtà in cui hanno vissuto gli italiani, privati della capacità di giudicare liberamente gli affari pubblici. Lo scandalo è un'informazione pubblica che ha mortificato la loro facoltà di ragionare; li ha trasformati a comando in confusi e raggirati "testimoni di nulla"; ne ha manipolato le percezioni; li ha resi incapaci di partecipare con consapevolezza a quella competizione tra élite per la conquista del potere politico che è la democrazia.
E' uno scandalo che innanzitutto impone di accertare i fatti e la verità. E' senza dubbio un dovere della dirigenza della Rai verificare chi ha fatto che cosa e nell'interesse di chi, nel rispetto delle garanzie delle persone, ma anche a protezione degli interessi degli utenti e della pubblica opinione, della credibilità dell'azienda, del mercato, della concorrenza, che ne escono sfigurate. Ma, a questo punto, non appare opportuno che l'inchiesta resti "interna" affidata soltanto a funzionari Rai. Si può davvero incaricare l'assai discusso "ufficio legale" di viale Mazzini dell'accertamento dei fatti? Si può fare affidamento soltanto sull'orgogliosa autonomia dell'"auditing" per venire a capo di metodi e responsabilità? Non è legittimo e più accorto pensare che quei dirigenti, quei funzionari possano essere condizionati (o anche soltanto apparire condizionati) dalla prudenza di chi sa che, prima o poi, ci potrà essere un cambio di stagione politica?
La verità è che nessuno in Rai oggi è in grado di dire fin dove si sono spinti gli accordi collusivi, forse nemmeno la direzione generale. Ben vengano le inchieste dell'Autorità garante della concorrenza e quella per le garanzie nelle comunicazioni, ma anche la Rai, per quest'operazione verità, spezzi subito il cerchio della sua autorefenzialità affidando a un comitato di saggi esterno (ex-presidenti dell'Authority, presidenti emeriti della Corte Costituzionale, per esempio) la rigorosa ricostruzione dei più infelici anni della sua storia.
(23 novembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 06, 2007, 09:59:58 am » |
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POLITICA
IL COMMENTO
Le agenzie del risentimento
di GIUSEPPE D'AVANZO
L'AFFAIRE Forleo non è un "caso giudiziario". Se lo fosse, se fosse stretto nel territorio della buona o cattiva amministrazione della giustizia, sarebbe poca e triste cosa. Da ricordare così. Un giudice finisce illuminato dall'attenzione dell'opinione pubblica mentre provvede alle richieste dei pubblici ministeri che scoprono i trucchi delle scalate Bpi/Antonveneta e Unipol/Bnl. L'improvvisa visibilità ne sollecita l'ambizione. Deve chiedere al Parlamento l'autorizzazione a utilizzare nel processo le telefonate tra banchieri e politici. Eccede con opinioni irrituali. Non le spetta ventilare ipotesi delittuose contro i parlamentari "quasi-imputati".
Per molti non è affar suo, ma cede alla tentazione per orgoglio e, forse, per vanità. Corretto con severità dal capo dello Stato, anche presidente del Consiglio superiore della magistratura, il giudice corre ai ripari per proteggersi da una probabile censura disciplinare.
Mal consigliata, segnala un complotto di "ambienti politico-giudiziari che la vogliono rovinare"; una manovra dei giornali che la fraintendono con intenzione; l'ostilità dell'associazione magistrati che la isola; il malanimo dei magistrati-blogger che la criticano; l'animosità della Camera che "stigmatizza" il suo lavoro; l'inimicizia dei magistrati di Brindisi che "le vogliono dare una lezione"; il livore aggressivo di carabinieri e poliziotti.
Il giudice conquista, in due occasioni, il talk-show di prima serata e rincara la dose. Denuncia di aver subito "interferenze e intimidazioni istituzionali". Diventa un'eroina. La si glorifica come l'icona di una magistratura che con coraggio difende l'autonomia e l'indipendenza da un potere politico minaccioso, pervasivo, forse assassino, "come nel film Le vite degli altri" dice il giudice in tv.
Alle prese con questa scena, il Consiglio superiore della magistratura interviene - che deve fare? - per dare un nome ai congiurati che accerchiano la toga e - sorpresa e imbarazzo - il complotto si sgonfia come un soufflé malfatto. I testimoni offerti dal giudice negano il suo racconto, correggono i suoi ricordi, la smentiscono. Il Csm conclude, sconsolato, che "le interferenze e le intimidazioni istituzionali non trovano alcun riscontro": la cospirazione è immaginaria, l'allarme immotivato. Il trasferimento del giudice per "incompatibilità ambientale e funzionale" è la dignitosa via d'uscita per chiudere una dolorosa vicenda fatta di scelte impudenti in attesa che la procura di Brescia metta ordine alle accuse del giudice e alle testimonianze contraddittorie dei suoi confidenti.
Se fosse un "caso giudiziario", l'affaire Forleo sarebbe allora malinconico. Ma non è soltanto un desolante "caso giudiziario", se ci chiede: come ha potuto prendere corpo fino ad oscurare i nodi irrisolti delle scalate del 2005? Come ha potuto, al di là di ogni evidenza, attrarre per settimane l'interesse di un'opinione pubblica sempre più smarrita, incupita, irata per quel che le si andava raccontando?
Come si è potuto credere e lasciar credere (il giudice ancora oggi lo ripete con sfrontatezza) che "così l'inchiesta Antonveneta/Unipol è finita"? Al cuore dell'affaire, sembra di cogliere non solo la spensieratezza di un giudice ambizioso (è l'occasione, questa), ma il sorprendente esito di uno stato di sregolatezza, di anomia (assenza della legge, della regola, dell'ordine) che pare governare le cose italiane dove "le passioni sono meno disciplinate proprio quando sarebbero bisognose di maggior disciplina".
L'affaire Forleo, più di altri, ci mostra come, nel discorso pubblico, nei pubblici comportamenti, "non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è; ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime; quali quelle che passano la misura. E così non v'è nulla che non si pretenda..." (Emile Durkheim).
Si vede in azione, tra le quinte, una spinta disgregante che scredita e delegittima, al di là di ogni concreta ragionevolezza, gli assetti istituzionali come se un diffuso risentimento per una società ingiusta, fragile, impaurita del presente, insicura del futuro non chiedesse altro che un'occasione - quale che sia, quale che sia la sua attendibilità o verosimiglianza - per scatenare la sua rabbia, esplodere il suo rancore contro quelle istituzioni, quello Stato, quel ceto dirigente che non garantiscono e rassicurano le aspettative di ognuno.
Lungo questi Itinerari del rancore (è il titolo di un libro, curato da Renato Rizzi per Bollati, che può spiegare al meglio l'autentica natura di questo bizzarro "caso") si intravedono al lavoro delle vere e proprie "agenzie del risentimento". Vi collaborano, alla luce del sole, cattiva politica e cattiva informazione. Nella piccola folla si scorgono i volti di Antonio Di Pietro, Beppe Grillo, Michele Santoro, Enrico Mentana, per fare qualche nome e lasciare in un canto i soliti noti del centrodestra.
Hanno sotto gli occhi per intero il canovaccio. Devono manipolarlo per renderlo verosimile ed eccitare passioni e collera. Il giudice, e non il pubblico ministero, diventa il titolare esclusivo e indispensabile dell'inchiesta, il garante della sua efficacia. Ha clamorosamente sbagliato indirizzo nello spedire la richiesta di usare i colloqui telefonici (per D'Alema, è il parlamento europeo e non nazionale). Si glissa. Di quell'autorizzazione, dopo una sentenza della Corte costituzionale depositata il 23 novembre, non c'è più nemmeno bisogno. Lo si dimentica.
Bisogna enfatizzare la figura eroica del giudice, ravvivare la furia e lo sdegno che attraversò l'Italia di Tangentopoli, come se il Paese di oggi avesse gli stessi problemi di ieri. Il cattivo giornalismo paragona allora quel giudice ai Davigo, Colombo e Boccassini che trascorrevano le loro giornate nella procura di Brescia dimenticando che quei pubblici ministeri erano stati trascinati in quell'ufficio dalle denunce di Berlusconi e Previti mentre il nostro giudice è in quella procura per denunciare - lei - altre toghe.
Non può bastare, però. L'enfasi deve essere iperbolica a dispetto dei fatti. "Dopo aver preso scelte scomode, mi sono ritrovata a non avere i soliti inviti" si lamenta il giudice e, privato del convivio serale, quella solitudine diventa simile all'abbandono che uccise Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come se questa messinscena potesse essere paragonata alle tragedie siciliane (la farsa si consuma alla presenza di un silente procuratore di Palermo, forse a disagio, forse no).
La denuncia di complotto smuove il Consiglio superiore della magistratura che, presto, si accorge dell'inganno. Per la cattiva informazione, ha fatto troppo in fretta (doveva forse attendere? e che cosa?): il Csm teme che il giudice "dica la sua". Come se non avesse detto "la sua" fino ad oggi, come se domani non avrà ancora l'opportunità di farlo, se vuole.
Si potrebbe continuare nel lungo rosario di ciniche mosse che ha costruito questo teatro di cartapesta che lascia tutti sconfitti e screditati, la politica, la magistratura, lo Stato, l'informazione. Tutti, tranne le "agenzie del risentimento" che presto, abbandonato al suo destino il povero giudice, troveranno altri fuochi venefici per alimentare i miasmi che frantumano i legami sociali, lacerano le istituzioni, confondono un'opinione pubblica alla ricerca delle ragioni della sua insoddisfazione.
(5 dicembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 13, 2007, 04:05:34 pm » |
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POLITICA
L'inchiesta della Procura di Napoli sulla fuga di notizie
Il dg della Rai Cappon: "Aperta inchiesta su Saccà"
La Gdf perquisisce casa di D'Avanzo
Csm, 18 membri chiedono intervento
ROMA - La Guardia di Finanza ha effettuato una perquisizione nell'abitazione del giornalista di "Repubblica" Giuseppe D'Avanzo.
Ieri in un articolo il nostro collega ha anticipato la notizia di un'indagine aperta dalla procura di Napoli su Silvio Berlusconi. La perquisizione fa seguito all'apertura di un'indagine per fuga di notizie da parte della procura campana.
La vicenda arriva al Csm. I laici del centrosinistra e quasi tutti togati del Csm (ad eccezione di Antonio Patrono e Cosimo Ferri di Magistratura Indipendente) hanno chiesto "un intervento consiliare a tutela di magistrati coinvolti e dell'indipendente esercizio della giurisdizione", alla luce delle dichiarazioni di diversi esponenti politici, tra cui lo stesso Silvio Berlusconi.
Nel documento firmato da 18 membri si cita una frase del Cavaliere, che ha parlato di ''armata rossa delle toghe'' che si e' rimessa in movimento. Come pure si cita la dichiarazione del portavoce di Forza Italia, Paolo Bonaiuti, che ha paragonato l'iniziativa giudiziaria ''al Cile del generale Pinochet''.
''A prescindere da ogni valutazione e considerazione sul merito del procedimento in questione, che non competono al Csm - scrivono i 18 consiglieri - e sull'impropria divulgazione sulla stampa del contenuto di atti d'indagine, e' evidente il carattere gravemente destabilizzante delle aggressioni verbali e dell'attivita' di delegittimazione preventiva''.
Per questo vi e' la ''conseguente necessita' di un intervento consiliare a tutela dei magistrati coinvolti e dell'indipendente esercizio della giurisdizione''. I consiglieri chiedono che alla pratica sia data una procedura d'urgenza.
Verso sospensione di Saccà. La Rai ha già avviato un'indagine, lo conferma il direttore generale Cappon. "Stamattina abbiamo compiuto alcuni passi procedurali, anche a garanzia dei singoli. Tutto è possibile, nulla è escluso, i tempi saranno abbastanza rapidi".
(13 dicembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 13, 2007, 04:09:05 pm » |
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POLITICA
Possibile un invio degli atti sulle intercettazioni ai presidenti di Camera e Senato
La telefonata al produttore di Incantesimo: "Prendi la Russo, ti fai un alleato"
Inchiesta Berlusconi "Saccà va sospeso"
L'ex premier: "Solleva il morale del Capo"
GIUSEPPE D'AVANZO
A meno di ripensamenti, la procura di Napoli chiederà, al più tardi la prossima settimana, una misura cautelare interdittiva - la sospensione dall'incarico - per Agostino Saccà. Prima della decisione, il presidente di RaiFiction sarà interrogato dal giudice per le indagini preliminari. Gli sarà contestata l'ipotesi della corruzione e gli elementi di prova raccolti. Gli saranno svelate le fonti.
Saccà avrà l'occasione (in un primo interrogatorio si è avvalso, per la gran parte, della facoltà di non rispondere) per mettere ordine ai suoi comportamenti; dare un senso alle conversazioni telefoniche intercettate; spiegare la non-contraddittorietà tra i suoi doveri di "incaricato di pubblico servizio" e il suo personale, privatissimo proposito di lasciare la Rai per farsi imprenditore di se stesso: creatore della "Città della Fiction" di Lamezia; architetto di "Pegasus", un nascente consorzio di piccoli produttori televisivi progettato da Luca Cordero di Montezemolo che ne era stato sollecitato da alcuni imprenditori indiani.
E' in questa divaricazione o conflitto di interessi che i pubblici ministeri avvistano una mossa illegittima, scorretta, sleale. Qualcosa che non va, e non solo dal punto di vista etico. Come presidente di RaiFiction, nelle iniziative "private" che andava preparando a cavallo dell'estate, Saccà coinvolge le aziende - i tedeschi della Bavaria, gli americani della Hbo - da cui il servizio pubblico acquista format e film televisivi. Spesso gli interlocutori nemmeno sembrano comprendere che non stanno trattando ufficialmente con la Rai, ma con un neo-imprenditore che può vantare il sostegno del governatore della Calabria, Agazio Loiero, e l'appoggio del "Capo" di Mediaset e dell'opposizione politica.
Accade così che la Bavaria durante un viaggio in Calabria - nella delegazione il numero uno della holding tedesca Matthias Esche, l'altro amministratore delegato Dieter Frank in rappresentanza di una holding che fattura 300 milioni di euro all'anno e collabora con Rai da quarant'anni (Pinocchio, Sandokan, Berlin Alexanderplatz) - ammette di puntare per la "Città della Fiction" su Lamezia perché offre due vantaggi non trascurabili: "la possibilità di avere un quarto dell'investimento finanziato dalla Regione con fondi dell'Unione europea e la partecipazione della Rai". Saccà lo lascia credere: "L'obiettivo della Rai è di star dentro l'operazione anche se con una piccola quota" (luglio 2007).
Non è vero, ma lo ammetterà soltanto quando vi sarà costretto ("La Rai non c'entra", settembre 2007). E' un equivoco in cui cade anche Jhon Dellaverson, un avvocato che giunge in rappresentanza della Hbo a luglio in Calabria per annunciare l'arrivo in settembre del presidente e amministratore delegato della società Chris Albrecht.
In quell'estate il telefono di Agostino Saccà è molto caldo. L'alto dirigente della Rai con il consigliere d'amministrazione Giuliano Urbani valuta la possibilità di mettere insieme, per il consorzio di produzione "Pegasus", una cordata alternativa a quella inizialmente immaginata dall'amministratore delegato di Intesa, Corrado Passera, e dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che non sembra troppo gradire l'idea di Saccà di inserire nella compagine - Montezemolo la giudica "un'anomalia" - "un uomo di Berlusconi".
La cordata alternativa, vagheggiata da Saccà, dovrebbe avere "il punto di coagulo" proprio in Giuliano Urbani e far leva su un gruppo di industriali bresciani organizzati dall'onorevole Riccardo Conti (ex-Udc, oggi nel gruppo Misto) e sulla vicentina Palladio Finanziaria (private equity) di Roberto Meneguzzo. L'ambizione non è soltanto di rendere più competitive le produzioni televisive dei piccoli produttori nazionali, ma di proporre un'intera gamma di offerta tv. Agostino Saccà, al telefono, lascia intendere che si potrebbe pensare anche all'acquisizione della "Ballandi Entertainment", la società che concepisce e produce gli spettacoli più visti e costosi di RaiUno (Ballando con le stelle, Fiorello, Morandi, Panariello, Celentano, il Festival di Sanremo). Un programma così ambizioso ha bisogno di un sponsor politico, di un sostegno imprenditoriale, di un committente sicuro per lo meno in fase di avvio.
E' alla luce di questa necessità del Saccà "imprenditore" che i pubblici ministeri interpretano alcuni colloqui del presidente di RaiFiction con Giuliano Urbani e Silvio Berlusconi. Nei primi, il consigliere d'amministrazione della Rai e l'alto dirigente convengono che bisogna inserire "un uomo di Berlusconi". In una telefonata, sembra di capire che quest'uomo possa essere Claudio Sposito, che in passato è stato amministratore delegato della Fininvest spa.
Il Cavaliere sostiene che, negli abituali dialoghi con Saccà (un amico), egli si sia limitato soltanto a delle "segnalazioni". Le parole non mutano il segno delle circostanze. Berlusconi chiama Saccà e gli chiede di ingaggiare quattro attrici, Elena Russo, Evelina Manna, Antonella Troise, Camilla Ferranti. Per piacer suo e per soddisfare le richieste di un senatore del centro-sinistra che potrebbe passare con l'opposizione condannando il governo. Quel che conta per gli inquirenti, a quanto si capisce, è che cosa promette il Cavaliere alla termine della telefonata: saprò ricompensarla quando lei sarà un libero imprenditore come mi auguro avvenga presto... Interessante è la reazione del presidente di RaiFiction.
Le "segnalazioni" del Cavaliere devono apparirgli un impegno improrogabile. Chiama subito il produttore di Incantesimo, Guido De Angelis. Il tono è perentorio: "... Per quel ruolo hai già ingaggiato qualcuno?". Il produttore risponde: "Sì, Sonia Aquino". Saccà lo interrompe subito: "Levala di mezzo e prendi Elena Russo. Così ci facciamo un grande alleato...". E Incantesimo ha bisogno di "grandi alleati" perché costa troppo e non ha l'audience che ci si aspetta. Saccà cela il suo interesse personale capovolgendolo come convenienza del produttore.
Il meccanismo delle "segnalazioni", a quanto appare agli inquirenti, ha anche un controllo e un controllore. Dopo le richieste di Berlusconi, sarebbe il condirettore di "Sorrisi e Canzoni Tv", Rosanna Mani, a seguire l'inserimento delle attrici "segnalate" dal Cavaliere. La giornalista chiama Saccà con accenti che possono apparire perentori. Prende nota delle sue mosse, dei contatti che ha avviato, dei provini che ha individuato il dirigente Rai. Controlla con i produttori che l'uomo di RaiFiction non le abbia mentito o enfatizzato il suo impegno. Riferisce.
Ora, c'è da chiedersi se è ragionevole o plausibile configurare il reato di corruzione per le condotte di Saccà e di corruttore per Berlusconi. Come si comporta Saccà? Ascolta le richieste del "Capo" (così Berlusconi si definisce nelle telefonate intercettate: "Devi sollevare il morale del Capo"). Si dà da fare subito. Sostituendo qualche nome dove è possibile, aggiungendo un ingaggio quando possibile non è. Per fare un esempio. In Incantesimo, Sonia Aquino salva il contratto di protagonista, ma De Angelis (il produttore della fiction) rimette mano alla sceneggiatura per creare un nuovo personaggio che viene poi assegnato a Camilla Ferranti (figliola di un medico molto vicino a Berlusconi).
Se il pubblico ufficiale compie un atto contrario ai doveri d'ufficio ricevendone un'utilità o accettandone la promessa, il codice penale parla di corruzione. E' quel che - si può sostenere - accade a Saccà. Deve farsi imprenditore. Ha bisogno di un aiuto, di un sostegno. Berlusconi lo sa, d'altronde ne hanno parlato. Gli promette il suo puntello tanto più essenziale perché è "uno del ramo", un possibile, prioritario committente sia della "Città della Fiction" che di "Pegasus". Saccà prende per buono l'impegno del Cavaliere, ne accetta la promessa e muove le cose per esaudire le richieste del suo sponsor torcendo a un interesse privatissimo il suo ruolo di "incaricato di pubblico servizio".
Come tutti gli argomenti giuridici, naturalmente, non è onnipotente, ma sarà la verifica del giudice per le indagini preliminari a darne un primo scrutinio. Non è comunque l'ipotesi di corruzione - e di istigazione alla corruzione per il tentativo di comprare il voto del senatore Nino Randazzo - il punto debole di questa inchiesta napoletana. Il suo vero deficit è la competenza territoriale. La Rai è a Roma. Saccà è a Roma come Berlusconi. I due si incontrano e discutono al telefono nella Capitale. Il reato ipotizzato si consuma all'interno dell'azienda del servizio pubblico. Che c'entra Napoli? E' ragionevole pensare che presto le carte di questa indagine migreranno verso la procura di Roma.
L'inchiesta sarà di fatto conclusa con l'interrogatorio del presidente di RaiFiction che deciderà dinanzi al giudice la sua sospensione dall'incarico. Esaurita questa fase, i pubblici ministeri si spoglieranno della competenza. Non è escluso tuttavia che il procuratore Giandomenico Lepore possa decidere di inviare ai presidenti di Camera e Senato il resoconto delle intercettazioni dei parlamentari che, pur non contenendo alcun rilievo penale, è giusto che siano sottoposti - per lealtà istituzionale - all'attenzione delle Camere.
(13 dicembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 14, 2007, 04:58:59 pm » |
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POLITICA
IL COMMENTO
Il Grande Fratello
di GIUSEPPE D'AVANZO
LE BIZZARRIE d'Italia ci hanno abituato a molto, e di più. Alla stupefacente scena mancava il Berlusconi che denuncia la minaccia di un Grande Fratello così pericolosa da rendere necessario l'allarme per una "un'emergenza nazionale". Al Cavaliere l'interpretazione spericolata della Vittima Unica riesce in modo memorabile. È un grande comunicatore, si sa.
Lo accompagna una claque assordante di turiferi e flabellieri che eccepiscono, protestano, ringhiano a comando e cronacanti di attenzione cerimoniosa che hanno la generosa tendenza a nascondere o minimizzare ciò che accade a vantaggio di ciò che si dice (e naturalmente non c'è limite a quel che si può legittimamente dire, se non si tiene conto dei fatti). Quando la necessità lo impone, il lavoro incrociato di questa orchestra con coro, al servizio della Vittima Unica, produce un catalogo di verità rovesciate che confonde l'opinione pubblica; istupidisce gli avversari politici; lascia senza bussola anche gli osservatori più attenti e avvertiti.
C'è forse un Grande Fratello come va dicendo il Cavaliere, dunque? E se c'è, dov'è? Una memoria appena mediocre aiuta a venire a capo del quesito. Nei cinque anni del governo di Silvio Berlusconi, è nato all'ombra di Palazzo Chigi un intreccio spionistico illegale e clandestino che ha associato l'intelligence politico-militare di Nicolò Pollari, l'ufficio Informazioni della Guardia di Finanza del generale Roberto Speciale, la Security di Giuliano Tavaroli e alcune società di investigazioni private, pagate dagli azionisti della Telecom-Pirelli di Marco Tronchetti Provera.
Questa cosa, che non si sa nemmeno come definire, ha spiato senza alcun controllo gli avversari politici del governo del Cavaliere, imprenditori, finanzieri, banchieri, magistrati, editori, giornali e giornalisti. Ha raccolto illegalmente migliaia di fascicoli con informazioni riservate violando al di là di ogni legge la privacy dei poveri malcapitati.
Ha progettato operazioni per "neutralizzare e disarticolare anche con azioni traumatiche" tutti coloro che erano - a torto o a ragione - "potenzialmente in grado di "creare problemi" all'attività dell'esecutivo di centrodestra". Ha ingaggiato contro la legge giornalisti spioni per affidare loro il pedinamento di qualche pubblico ministero che pericolosamente si stava avvicinando ai pasticci organizzati da Palazzo Chigi nella fantasmagorica "guerra al terrore" all'italiana.
Per non parlare di Telekom Serbia, Mitrokhin e i falsi dossier contro Prodi. Alla luce di tutto quel che è accaduto nella scorsa legislatura, se si deve parlare di Grande Fratello, si può sostenere documenti alla mano che, è vero, il Grande Fratello ha fatto capolino in Italia negli anni in cui il Cavaliere governava il Paese.
Quel che è accaduto nel passato può, però, non aiutarci a capire l'oggi. C'è un Grande Fratello al lavoro in questi giorni? Un Grande Fratello uguale a quello della scorsa legislatura, ma contrario nei suoi obiettivi visto che ha nel mirino il povero Berlusconi? È frutto di quel lavoro storto l'inchiesta sulla corruzione dei dirigenti Rai e nel mercato della politica? Anche se l'orchestra con coro, al servizio della Vittima Unica, lo dimentica, l'istruttoria di Napoli ha il vantaggio di essere "formalizzata" dal codice di procedura penale.
Può essere ricostruita negli atti e nelle decisioni, quando diventerà pubblica. Ci potranno lavorare gli avvocati delle difese, gli ispettori del ministero di Giustizia, il consiglio superiore della magistratura, le giunte parlamentari qualora dovessero essere chiamate ad autorizzare l'uso processuale di fonti di prova che coinvolgono eletti del popolo. Se qualcuno ha sbagliato, sarà punito. Nulla a che fare, per farla breve, con il lavoro sporco della cosa nata durante il governo Berlusconi, che spiava illegalmente - dunque, al di là di ogni formalità - e riferiva non si sa bene a chi e in quale Palazzo del Potere.
E comunque non si può ridurre ogni controverso evento pubblico ad affare giudiziario, a meno di non voler davvero assegnare alla magistratura la custodia della salute pubblica. Anche una testa fina come Massimo Cacciari sembra non comprenderlo. Questa storia appare al filosofo soltanto "una cafonata", per di più una volgarità che "piace agli italiani", e allora che dobbiamo farci?
La stravagante furia inconoclastica del sindaco di Venezia dimentica una questione essenziale: che cosa sanno gli italiani del Cavaliere? È lecito o addirittura doveroso per l'informazione raccontare agli italiani qualcosa di Berlusconi? Se non conoscono Berlusconi, quella passione degli italiani la si può giudicare autentica, genuina, consapevole?
Noi pensiamo che la libertà di stampa debba avere la responsabilità di rendere informato chi vota e decide pubblicando notizie di interesse pubblico, anche coperte da segreto, perché la stampa serve i governati non i governanti. Le notizie pubblicate da Repubblica possono essere utili a comprendere meglio la realtà italiana e i comportamenti di un suo decisivo attore.
Non spinge la sua curiosità nella privacy di Berlusconi. Dà conto di due questioni pubbliche. Berlusconi, tycoon televisivo, promette di ricompensare a tempo debito un alto dirigente della Rai pubblica. Come pensava di ricompensarlo? E lo avrebbe ricompensato soltanto per l'ingaggio di qualche attrice o questa promessa poteva, se necessario, ampliarsi e deformare in chiave privata altre decisioni pubbliche del dirigente Rai?
Berlusconi, leader dell'opposizione, incontra un senatore della maggioranza per convincerlo a votare contro il governo che egli sostiene. Gli dice che l'accordo potrebbe essere "garantito" da "un contratto". Gli ripete che "il contratto è pronto e (il senatore) deve solo passare a firmarlo". Di quale "contratto" si tratta? Che cosa prevedeva il "contratto" approntato? Queste mosse - contratti, promesse di ricompense - non appaiono soltanto sconvenienti o "volgari". Sono iniziative che meritano dal protagonista un chiarimento e non il petulante piagnisteo da Vittima Unica che si nasconde nella nebbia di un grottesco complotto contro le riforme. Noi pensiamo che, al di là di quel potrà e non potrà accertare la magistratura, le due questioni meritino da oggi una spiegazione pubblica. Anche nell'interesse di chi vuole votare consapevolmente Silvio Berlusconi.
(14 dicembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 16, 2007, 04:41:19 pm » |
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POLITICA
La trappola del generale
di GIUSEPPE D'AVANZO
ROMA - Il generale confonde le acque: "L'attuale comandante della Guardia di Finanza, decade: io sono stato reintegrato automaticamente". Se si vuole comprendere per bene chi è il generale Roberto Speciale, quale spirito istituzionale lo anima, come intende il servizio allo Stato e alla Costituzione, bisogna soltanto ascoltarlo.
Sono le sue parole che ce lo raccontano. La sua arrogante noncuranza per leggi, l'indifferenza per una corretta lealtà istituzionale lo rappresentano meglio di qualsiasi giudizio o sentenza. Il tribunale amministrativo del Lazio accoglie il ricorso del generale. Il governo ha molto pasticciato nel sostituirlo. Non ha più nessuna fiducia in quell'ufficiale eppure, per liberarsene, lo propone per la Corte dei Conti. Primo errore.
Poi, l'Esecutivo ci ripensa. Speciale l'ha fatta troppo grossa per ottenere un qualsiasi altro incarico di prestigio e senza "una corretta e precisa motivazione" sostiene il Tar - quindi, non secondo "procedure acconce" - Speciale viene sostituito. Il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa rende pubblica dinanzi alle Camere la necessità di allontanare un ufficiale sleale e inidoneo. Nomina il suo successore, senza revocarne l'incarico. Secondo errore.
E' uno sgorbio, "un eccesso di potere" per la magistratura amministrativa. Quest'esito permetterà forse a Roberto Speciale, come dice, di presentarsi lunedì al comando generale della Guardia di Finanza? Naturalmente, no. Lo spiegano con apprezzabile equilibrio, onesta serenità proprio gli avvocati del generale. "Speciale dovrebbe essere reintegrato nei ruoli dell'amministrazione militare di provenienza, ovvero l'Esercito, e lui ormai come ufficiale delle Forze Armate è in pensione". E poi, il comando della Guardia di Finanza è "un incarico fiduciario" nella esclusiva disponibilità dell'Esecutivo e non ancora della magistratura amministrativa.
Roberto Speciale non rimetterà mai più piede alla Guardia di Finanza. Lo sa, e nonostante lo sappia, finge di non saperlo per trasformare un affare amministrativo, affrontato dal governo con uno sconcertante dilettantismo, in un conflitto istituzionale, in "caso politico". Dimentico della spensieratezza con cui ha dissipato, a piacer suo, beni pubblici (è sotto inchiesta), Roberto Speciale avvelena la comprensione della sentenza del Tar, la inquina confermando quel che è una costante dei suoi comportamenti: egli, con ostinazione, nega al governo del centrosinistra - come ha fatto durante il tempo del suo comando e contrariamente a quanto gli è capitato di fare nella legislatura del centrodestra - le prerogative proprie dell'Esecutivo. Non le riconosce. Le contesta alla radice con un'interpretazione tutta politica che si può dire "eversiva" del suo ruolo e della sua funzione.
Nelle mosse di Speciale contro il governo ci sono soltanto ragioni politiche. La "schiena diritta del soldato" è enfasi di facciata, buona per gli ingenui. Politico è lo scontro che il generale ingaggia con il viceministro dell'Economia Vincenzo Visco, fin da primo giorno dell'insediamento del governo. Visco ritorna al ministero dove fu già ministro delle Finanze con la missione di riportare nelle casse dello Stato parte dei miliardi evasi al fisco. Conosce la dedizione della Guardia di Finanza, ma è consapevole che esistono aree di complicità con i poteri politici, economici e finanziari.
Chiede informazioni, vuole saperne di più. Gli viene detto, anche autorevolmente, che a Milano si è creata un'incrostazione che sembra far capo agli ufficiali che Giulio Tremonti, ministro dell'Economia del governo Berlusconi, ha scelto, indicato e promosso con il consenso del disponibile e "sempre sugli attenti" Roberto Speciale ("E' un intreccio, sempre gli stessi, sempre negli stessi luoghi, sempre a contatto con gli stessi interessi"). Chiede che il comandante vi ponga rimedio sostituendoli, "senza danneggiarne la carriera" e "senza indicarne i successori". Se avesse voluto punirli per l'inchiesta Unipol, come poi dirà Speciale, li avrebbe danneggiati. Se avesse voluto controllare l'indagine, come insinua il generale sostenuto dal coro di centrodestra, avrebbe scelto per la bisogna ufficiali affidabili e fedeli. Li lascia invece scegliere al comandante. Visco s'inganna ad affidarsi, in quest'operazione di risanamento, a un gruppo che ritiene più attendibile sottovalutando che il gruppo uscente gli avrebbe teso un "trappolone". Speciale lo prepara con cura. Provoca il viceministro. Visco reagisce. E il generale lo attende al varco. Si procura testimoni (suoi collaboratori e subordinati); prende nota di ogni parola; annota ogni telefonata fino a quando non fa scattare il trabocchetto. Denuncia addirittura il viceministro alla procura di Roma, che chiederà l'archiviazione.
L'errore del governo in quel conflitto fu di non rendere esplicite le ragioni dell'insoddisfazione per il comando di Speciale, di non fare della trasparenza di un'istituzione essenziale come la Guardia di Finanza una questione pubblica. Si può intuire che quella scelta sia stata il frutto di una sensibilità istituzionale. Il governo ha voluto risparmiare alla Finanza e agli apparati dello Stato uno strappo. Fu sottovalutato in quell'occasione il ruolo distruttivo e "politico" che, al di là di ogni lealtà istituzionale, il generale si è attribuito o gli è stato attribuito.
Lo stesso ingenuo errore è stato commesso quando finalmente è apparso chiaro che Roberto Speciale andava sostituito. Invece, di rendere pubbliche fin da subito le sue gravi condotte, si è cercato con il generale il compromesso, la buonuscita di prestigio alla Corte dei Conti, senza comprendere che la trattativa per Speciale era soltanto l'occasione per un nuovo "trappolone". Che puntualmente è scattato, complice l'approssimazione dello staff di Padoa-Schioppa. In questa storia, non si sa se trovare più sorprendente il dilettantismo amministrativo del governo o la cieca timidezza che impedisce all'Esecutivo di scorgere - e affrontare con la necessaria energia - avversari politici e scorretti servitori dello Stato.
(16 dicembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 12, 2008, 10:53:30 pm » |
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CRONACA
IL COMMENTO
Gravina, la giustizia smarrita
di GIUSEPPE D'AVANZO
FILIPPO Pappalardi torna a casa, ma in stato di arresto e attenderà, in stato di arresto, che l'indagine per la morte di Francesco e Salvatore, i suoi figli, trovi una ragionevolezza smarrita. Anche in quest'ultima mossa, soltanto apparentemente più lieve, le decisioni della magistratura appaiono incongrue, incomprensibili. Si dice: non è stato il padre a uccidere i due ragazzi. Non c'è alcun indizio per poter sostenere che abbia voluto cagionarne la morte.
L'accusa nei suoi confronti deve essere corretta: Filippo Pappalardi non è l'assassino, anche perché non c'è stato alcun assassinio. Deve rispondere di non avere avuto cura dei suoi ragazzi, di averli abbandonati al pericolo quella sera del 5 giugno del 2006 (minorenni, non potevano provvedere a loro stessi) e di averne così provocato la morte con l'accidentale caduta nel pozzo-cisterna. È un reato che abitualmente si contesta alla madre che abbandona il neonato all'angolo di una strada; agli infermieri che si allontanano - tutti - da una casa di cura che ospita anziani e inabili.
Sarà l'inchiesta ora a definire la fondatezza di questa nuova accusa. Sorprende che Pappalardi - dopo avere perso i suoi figli, dopo essere stato accusato di omicidio - debba attenderne l'esito in stato di arresto.
Era proprio necessario, era proprio "dovuto"? Ci sono tre condizioni per disporre una "custodia cautelare". La reiterazione del reato. Il pericolo di fuga. L'inquinamento delle prove. Nessuna di queste condizioni fa capolino nell'affare. Pappalardi non può più abbandonare i suoi figli che sono morti. Non può danneggiare un'inchiesta già con larghezza compromessa da errori, passi falsi, incertezze investigative. Non è fuggito finora. Non fuggirà oggi.
E allora perché Pappalardi resta agli arresti? Per "l'estrema negatività della sua personalità". Non ha mostrato mai "senso di colpa", scrive il giudice. I suoi comportamenti sono "ripugnanti". "Al di là della gravità del fatto", quel tipo lì - che non piange i figli, non si dispera in pubblico per la loro sorte; che non si mortifica per un matrimonio andato a male; che manda al diavolo il codazzo delle telecamere e, durante gli interrogatori, anche i giudici - è "socialmente pericoloso" e merita di starsene agli arresti in casa.
Non c'è dubbio che Filippo Pappalardi abbia una faccia che può non piacere. È violento, arrogante. È un "padre padrone", prepotente e manesco. Ma la fisiognomica e comportamenti primitivi non possono essere condizione sufficiente per tenere agli arresti un padre "sbagliato" che ha perso due figli, è stato accusato senza alcuna prova di essere l'assassino, è stato incarcerato, innocente.
Negli affari giudiziari bisogna diffidare di chi mena fendenti forsennati nella convinzione di avere tra le dita la corda della verità. Ma in questo affare di Gravina c'è di più e di peggio. C'è la sgradevole sensazione di trovarsi alle prese con una magistratura che, indispettita dai suoi errori, non riesce a correggere se stessa. Anzi non accetta di vedere censurate le sue decisioni e pretende - in ogni caso - un castigo anche a costo di ritorsioni contro il malcapitato che ha davanti. Una ritorsione, ecco che cosa sembra la decisione del giudice.
Sono decenni che il processo italiano è in crisi di efficienza, di risultati e di credibilità, un ordigno maligno che sanziona prima dell'accertamento e, quando accerta le responsabilità, non riesce a punirle. In questa scena così critica - di cui la magistratura è corresponsabile ma inabilitata a riformare - la responsabilità delle toghe dovrebbe essere raddoppiata e non attenuata, soprattutto a fronte degli errori commessi.
Quando questo non accade, le toghe dimenticano che possono sperperare giorno dopo giorno il loro prestigio dinanzi a un'opinione pubblica che non ne comprende gli orientamenti; non ne apprezza l'ostinazione; non capisce le sue decisioni, contrarie soprattutto al senso comune. Sono queste le condizioni, sostengono gli studiosi che hanno le loro radici nelle scienze sociali e nella scienza politica, che mettono in movimento contrappesi tecnici, istituzionali, politici.
Gli ultimi sono naturalmente i più importanti. Prevedono che venga aumentato il numero dei giudici; che si riformi la procedura; che si abolisca un tribunale; che si modifichi la giurisdizione; che si diminuiscano le risorse assegnate al sistema giudiziario; che si emendi la Costituzione. Sono i contrappesi politici alla fine a potenziare i contrappesi tecnici perché sono utili a incentivare nei giudici un atteggiamento di autolimitazione (self-restraint); sono in grado di essere un buon deterrente alla manipolazione delle norme.
Alla vigilia di una nuova stagione politica, la magistratura dovrebbe ricordare che non può reggere, all'infinito, un conflitto con le opinioni diffuse e condivise. Pena, perdere ogni credibilità. È quel che già è affiorato nelle ultime legislature. Un'opinione pubblica stanca, diffidente, sospettosa della consorteria togata ha "autorizzato" la politica a individuare contrappesi. La Bicamerale era questa cosa qui. È stato il varco politico e istituzionale dentro il quale si è mosso poi il contro-riformismo del centro-destra, di Berlusconi, dei suoi avvocati.
Ci si augura che, nel prossimo Parlamento, non si debba ancora assistere al conflitto infinito tra le toghe e la politica. Anche i magistrati dovrebbero capirlo ed evitarlo. Soltanto applicando la legge con equilibrio e saggezza. Come a Gravina, purtroppo, non è accaduto.
(12 marzo 2008)
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 13, 2008, 05:41:46 pm » |
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CRONACA L'ANALISI
I segreti di Pollari su Abu Omar e la strana slealtà del governo
di GIUSEPPE D'AVANZO
LA PROCURA di Milano, governata da Manlio Minale, non ama le contrapposizioni con gli altri poteri dello Stato. Preferisce muoversi secondo un "canone" prudente con passi controllati. Non vuole né fischi né applausi. Minale preferisce un pubblico ministero sobrio e ordinato che non infligga sciabolate o provochi rumore o scelga strade avventurose.
Ci deve essere allora una ragione "forte" se, con il consenso del procuratore capo, i due "aggiunti" Ferdinando Pomarici e Armando Spataro presentano al tribunale di Milano - nel processo per il sequestro Abu Omar - una "memoria" che accusa il governo Prodi di "sleale collaborazione". Di aver opposto un segreto di Stato inesistente e strumentale. Di aver sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione con gli argomenti truccati di un indagato (Nicolò Pollari, già direttore del Sismi) e non per le legittime necessità della sicurezza nazionale.
Per di più senza aver voluto ascoltare mai le ragioni della magistratura. Milano accusa il governo di aver simulato la disponibilità a una trattativa per eliminare consensualmente il conflitto e di aver ritirato questa disponibilità una volta ottenuto il rinvio della decisione della Consulta, come in un gioco delle tre carte.
"Slealtà", dunque, è la prognosi del solitamente cauto pubblico ministero di Milano. Le ragioni di un giudizio così severo sono custodite nei fatti, circostanze e documenti raccolti dalla procura in 57 pagine e una cinquantina di allegati. Vale la pena di darci un'occhiata. Non c'è bisogno nemmeno di cavillare nelle tecnicalità giuridiche per comprenderle. Se non si cade nella trappola di chi ha interesse a inquinarla, questa storia è più trasparente di quanto appaia. Può essere riassunta in quattro ambiguità governative.
Il processo deve decidere chi ha sequestrato a Milano nel febbraio del 2003 il cittadino egiziano Abu Omar, sospettato di essere un terrorista. E' fuori discussione la responsabilità degli agenti della Cia. Washington non ha mai nascosto la pianificazione di rendition dopo l'11 settembre. Condoleezza Rice ha ammesso il ruolo di Langley anche per l'Italia. Il problema è allora se la Cia ha avuto, in quel sequestro, la collaborazione dell'intelligence di Nicolò Pollari e se e quali sono stati gli agenti del Sismi che hanno partecipato a un'operazione illegale che ha consegnato un uomo al carcere e alla tortura, senza un decente processo.
Il governo Berlusconi ha sempre escluso la partecipazione delle spie italiane all'azione. Non ne sapeva niente, dice. Quindi, non ha ritenuto di opporre il segreto di Stato (se non sai nulla, che segreto opponi?). Né lo hanno opposto i testimoni e gli indagati. Né Pollari (fino a quando non si è trovato indagato). Prodi va oltre. E' vero che non sappiamo niente di Abu Omar, sostiene, ma gli accordi con la Cia sono un segreto di Stato. Agile e convincente la replica della procura: ci occupiamo soltanto di Abu Omar, non degli accordi segreti con Washington.
Prima, strabica ambiguità di Palazzo Chigi. La seconda la si coglie quando il governo passa all'attacco accusando la procura di aver violato quel segreto. Ora si scopre che dieci "appunti" di Pollari, vistati dal capo del governo o dal sottosegretario Micheli e dal ministro della Difesa Parisi, mostrano come l'esecutivo abbia preso per buone, senza un dubbio, senza una domanda, senza un'indagine indipendente, le omissioni, le inesattezze, le manipolazioni della spia più amata dalla politica italiana. Qualche esempio.
Pollari sostiene che l'indagine ha svelato abusivamente 181 numeri di utenze telefoniche del Sismi. E' falso, ma Prodi la beve. Pollari sostiene che alcuni indagati sarebbero stati costretti "con vivaci ed espliciti stimoli" della Procura a dare "informazioni segrete e assolutamente inibite". Non è vero (due indagati hanno spontaneamente confessato soltanto di aver studiato le abitudini di Abu Omar), ma Prodi gli crede.
E' però in base a queste circostanze, accortamente distorte dall'allora direttore del Sismi, che il governo solleva il conflitto di attribuzione dinanzi alla Consulta e non si comprende se il governo si sia fatto prendere per il naso - perché distratto - o sia stato consapevolmente partecipe del disegno difensivo di Pollari. E' un fatto che dinanzi alla Corte Costituzionale, il governo provoca la terza ambiguità.
La Procura sequestra l'archivio dell'ufficio "coperto" del Sismi in via Nazionale. Nessuno oppone il segreto sui documenti sequestrati. Esplicitamente Palazzo Chigi nega l'esistenza del segreto con due comunicati pubblici. Pollari esibisce addirittura uno di quei documenti nell'udienza preliminare. Meno "segreto" di così? Eppure, nelle ragioni del conflitto sollevato dal governo, proprio uno di quei documenti diventa un casus belli. La procura, secondo il prudente "canone Minale", si dichiara pronta a non utilizzare quel documento nel processo (ritiene di avere fonti di prova in abbondanza). La mossa sembra aprire la strada a "una soluzione concordata del conflitto".
La procura accetta. La Consulta rinvia in attesa dell'accordo. E' la quarta ambiguità, ma sarebbe più opportuno definirla una trappola furba. Nello stesso giorno del rinvio, Prodi fa sapere che non se ne fa più niente: il governo è stato bocciato dal Senato e ritiene che "la rinuncia al conflitto sia un atto di straordinaria amministrazione". Come se il riconoscimento del Kosovo possa essere ordinaria amministrazione (come dice la procura) e un conflitto di attribuzione - che, per ammissione degli antagonisti, non ha più una sola ragione per restare in piedi - debba essere di gestione "straordinaria".
In verità, qualcosa di straordinario in questa storia c'è. E' l'ostinazione dei governi a voler impedire che questo processo abbia inizio. Caduti tutti gli espedienti, le trovate, gli artifici esibiti da Palazzo Chigi, rimane soltanto da chiedersi qual è la misteriosa ragione di tanta tenacia, degna di ben altre imprese. Se il processo si aprirà, c'è da giurarci che qualcosa finalmente capiremo.
(13 marzo 2008)
da repubblica.it
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