LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 03, 2007, 10:31:06 pm



Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2007, 10:31:06 pm
CRONACA

L'ANALISI
Quando tornano i fantasmi del passato

di GIUSEPPE D'AVANZO


Rapina una banca. Lo beccano con tre pistole. Alle spalle, ha una condanna a tre ergastoli e un passato di terrorista che nessuno può e vuole dimenticare. Nel presente, gode di un regime di semilibertà: di giorno fuori, di notte in carcere. L'arresto di Cristoforo Piancone, brigatista di prima generazione, sollecita due interrogativi. Il primo è di natura investigativa: l'assalto alla sede centrale del Monte dei Paschi di Siena è il gesto di un disperato senza arte né parte per fare un po' soldi e magari sparire dalla circolazione o è l'azione di finanziamento di un gruppo terroristico che segnala una ripresa operativa dell'eversione, un innalzamento del livello "militare" delle sue sortite?

Il secondo interrogativo è d'ordine politico: è ragionevole o soltanto emotivo e demagogico sorprendersi per il regime di semilibertà concesso a un ergastolano?

Per trovare una risposta alla prima domanda, occorre ricordare che il ritorno in libertà dei "brigatisti irriducibili" della prima stagione di sangue preoccupa, e da qualche tempo. Non è una novità l'assillo di una possibile "fusione di estremismi vecchi e nuovi"; "il pericolo che un progetto di ispirazione brigatista possa sopravvivere al ricambio generazionale". Gli investigatori ne hanno avuto una conferma in febbraio con gli arresti, tra Milano e Padova, di quindici brigatisti del "Partito comunista politico-militare", nati tra il 1952 e il 1985, dai cinquantaquattro ai ventuno anni. È questo corto circuito tra un fondo di simpatia o nostalgia del brigatismo e il protagonismo di esponenti della "vecchia guardia" a mettere sul chi vive.

Soprattutto quando qualche "padre fondatore" delle Brigate Rosse si impegna allo scoperto in ambigue operazioni "commemorative" o di "testimonianza". Per dire, il 3 giugno di quest'anno dinanzi al carcere dell'Aquila muove un corteo di solidarietà a Nadia Desdemona Lioce (condannata all'ergastolo per l'assassinio di Massimo D'Antona e Marco Biagi). Tra gli animatori dell'iniziativa appare Paolo Maurizio Ferrari, uno dei capi storici della Brigate Rosse, libero dal 2005 dopo 30 anni di carcere (nessun fatto di sangue per lui).

Con Ferrari sfilano le aree dell'antagonismo, i centri sociali più "duri", gli anarco-insurrezionalisti, gli sventurati che ai cortei antiamericani gridano: "uno, cento, mille Nassiryia". La saldatura tra il "vecchio" e il "nuovo" è l'incubo delle polizie e dell'intelligence. Che sostanzialmente, però, individuano condizioni per un allarme in un pugno di "casi"; in non più di sei, sette nomi. Il direttore del Sisde, Franco Gabrielli, li ha proposti in un'audizione parlamentare.

Cesare Di Leonardo, arresto nel 1982, condannato all'ergastolo per il sequestro del generale James Lee Dozier. Prossimo alla libertà, ha rivendicato, in una sua apparizione in aula giudiziaria, l'omicidio di Marco Biagi. Ancora. Fausto Marini e Tiziana Cherubini, della colonna romana. Una volta fuori hanno cercato di allacciare rapporti con l'area antagonista (Marini è già stato condannato in primo grado per apologia sovversiva e istigazione a delinquere). Sono da poco fuori anche Francesco Aiosa (colonna genovese), Ario Pizzarelli (colonna Walter Alasia), Flavio Lori (colonna romana).

Cristoforo Piancone non è in quest'elenco e, oggi, l'intelligence civile e l'eccellenza investigativa dei carabinieri concludono che l'ex-operaio della carrozzeria di Mirafiori, il membro della direzione strategica delle prime Br, con il terrorismo non c'entra più nulla. "Nei molti anni di carcere - sostiene un investigatore - Piancone non ha mai dato segno di voler continuare un'esperienza che, esplicitamente, ha definito "chiusa". Mai una presa di posizione. Mai la sua firma per un documento politico. Un comportamento irreprensibile". "E' molto più probabile - spiega una qualificata fonte dell'intelligence - che Piancone sia finito in un giro criminale. Si sia associato a banditi di mestiere, come è già accaduto a qualche uomo di Prima Linea alla fine degli anni novanta, per sbarcare il lunario, per mettere da parte qualche soldo, sistemare le difficoltà della famiglia o magari tagliare la corda".

Quel che l'intelligence non dice è che questa convinzione si rafforza soprattutto per l'attenzione con cui "si cura" la Toscana dove sono in attività "componenti estremiste che hanno firmato qualche azione emulativa e intimidatoria di stampo brigatista". Anche se la polizia appare più cauta nel liquidare in fretta e così l'assalto di Siena, si può dire che il ritorno sulla scena di Cristoforo Piancone non deve farci credere a una ripresa del processo eversivo, a un nuovo ingaggio della "vecchia guardia" delle Brigate Rosse.

La convinzione delle polizie non servirà a mitigare le polemiche suscitate dalla "scoperta" che un pluriergastolano se ne andava libero per l'Italia, pistole in pugno, per poi tornare la sera nella sua cella. E' legittimo sorprendersi che anche il condannato all'ergastolo possa essere ammesso al regime di semilibertà, detenuto di notte, libero cittadino di giorno?

Quel che sorprende, in verità, è la sorpresa di chi si sorprende, come accade in queste ore a molti esponenti del centro-destra e al questore di Siena. La legge che concede anche agli ergastolani la semilibertà ("il condannato all'ergastolo può essere ammesso al regime di semilibertà dopo aver espiato almeno venti anni di pena") è in vigore da ventuno anni, approvata "per attuare pienamente - come si legge in un documento del Parlamento del 1986 - il principio contenuto nel terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione: "Non è ammessa la pena di morte"".

Allora, il legislatore fece più o meno questo ragionamento: escludere il condannato all'ergastolo è privo di senso. Egli, con la legislazione in vigore, dopo ventisei di carcere può essere ammesso alla libertà condizionale. Perché allora non prevedere anche la semilibertà come momento preparatorio di quel provvedimento nell'ottica di "un trattamento progressivo"? Infatti, ieri come oggi, la semilibertà è prevista al termine di una "sequenza premiale", come si dice, che deve assicurare la regolarità della condotta; la partecipazione all'opera di rieducazione; i progressi compiuti nel corso del trattamento; il comportamento che faccia ritenere sicuro il ravvedimento.

Se Piancone ha ottenuto la semilibertà, è lecito pensare che l'amministrazione penitenziaria gli abbia riconosciuto nel tempo buoni risultati rieducativi. Val la pena di ricordare che quella legge dell'86 fu il punto di arrivo di una serie di interventi legislativi, giurisprudenziali e di dottrina, "tesi ad umanizzare e a finalizzare in senso rieducativo la pena dell'ergastolo o addirittura ad abolirlo, perché in contrasto con la Costituzione".

Naturalmente si può non essere d'accordo con questa interpretazione del dettato costituzionale, o essere ostili a ogni flessibilità della pena, ma - va detto - nei cinque anni governati dal centro-destra, nulla è stato detto, discusso e approvato per invertire quell'interpretazione e la direzione di marcia. Non si è mossa foglia. Appare così demagogico e strumentale - mediocre teatro politico - agitare oggi l'albero quando un ergastolano - uno dei pochissimi - torna a delinquere, tradendo chi gli ha concesso fiducia e il futuro di tutto coloro che, in regime di semilibertà, non delinquono.


(3 ottobre 2007)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO -
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2007, 10:52:17 pm
CRONACA

IL COMMENTO

Messaggi barbarici

di GIUSEPPE D'AVANZO


Annozero, che giovedì ha affrontato il "caso De Magistris", è stato una barbarie. Parola da intendere in senso proprio. La scena messa su da Michele Santoro ha creato "condizioni di vita estranee o contrarie a un modo di organizzare l'esistenza" improntato alla civiltà, alle buone maniere, a regole e responsabilità. Se precipiti nella barbarie, nessuno può ragionevolmente sperare di farcela (per questo la civiltà è soprattutto conveniente). Gesti, parole, argomenti - in un contesto primitivo - non possono che avvilirsi in una eccitata violenza che deforma ogni ragione e anche la migliore delle intenzioni. E' quel che è accaduto nella Rai del servizio pubblico lasciando sul terreno la credibilità di tutti i partecipanti, nessuno escluso. Qui ne faremo un breve elenco, cominciando dai due grandi assenti nello studio: il Consiglio superiore della magistratura e il ministro di Giustizia, Clemente Mastella. Sono i maggiori, e più colpevoli, responsabili del "caso De Magistris".

Si sa di che cosa si tratta ormai. Luigi De Magistris è pubblico ministero a Catanzaro. Indaga sul sistema di potere che governa l'afflusso dei finanziamenti europei in Calabria (8 miliardi e mezzo di euro tra il 2007 e il 2013). L'investigazione rivela una rosa di contatti che tocca il capo del governo e sfiora lo stesso guardasigilli; un network di amicizie complici che coinvolge qualche succube o attivissima toga. Per riflesso, il pubblico ministero è aggredito, vilipeso, sabotato dalle gerarchie togate di due regioni (Calabria e Basilicata).

Lo stato miserevole in cui versa la magistratura calabrese - indifferente, conformista, timida e intimidita, furbissima o connivente - è una novità per l'opinione pubblica, non per il Consiglio superiore. Avrebbe dovuto intervenire per liberare gli uffici da quelle velenose incrostazioni. Non si è mosso da lustri. Non si muove oggi, imprigionato dalla magistratura associata (Anm), in uno strategico e goffo patto con il governo. In cambio di correzioni alla catastrofica riforma dell'ordinamento giudiziario voluta dal centro-destra, le toghe si sono acconciate a uno scaltro quietismo che promette di non disturbare il manovratore, quando e dove serve.

E' una condizione che appare al ministro di Giustizia, Clemente Mastella, così favorevole da convincerlo a "infilzare" De Magistris con un'indiavolata sollecitudine e a chiedere al Consiglio - senza alcuna seria urgenza - il trasferimento del pubblico ministero per "gravi violazioni deontologiche". Quali siano ancora nessuno è in grado di dirlo davvero. Girano molte voci anche accreditate, molti "si dice", qualche "bufala", ma nessuno può dire ancora quali siano nel dettaglio le contestazioni del ministro al magistrato. In questa cornice, dovrebbe essere intelligibile per chiunque "il bene" che chiede protezione in quest'affare: l'autonomia di una funzione giudiziaria rispettosa delle regole.

Il perché dovrebbe essere chiaro. Se una giustizia condizionata o minacciata dal potere non è giustizia (l'indipendenza è il presupposto dell'imparzialità del magistrato), non è giustizia nemmeno quando si manifestano prassi in cui prevale una logica dell'efficienza coniugata alla facile idea che per la salus rei publicae bisogna guardare al reo dietro il reato, anche a costo di sacrificare il principio di stretta legalità.

Annozero comincia male, malissimo. Paragonare la "crisi calabrese" al "grande gioco" di Palermo negli anni Ottanta appare incongruo, sconveniente, di certo un errore di prospettiva che trascura le forze e i poteri che allora erano in conflitto, non rende onore ai "fatti" e alla memoria, alla sapienza e al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (nonostante la presenza in studio del fratello Salvatore).

La partecipazione di Clementina Forleo sorprende. E' il giudice che scrutina le indagini preliminari per le scalate del 2005 (Antonveneta, Unipol). Ha chiesto al Parlamento di poter utilizzare le intercettazioni D'Alema-Consorte ipotizzando anche una responsabilità penale del ministro degli Esteri. Dice: "E' ora che il Sud si liberi di Don Rodrigo e dei suoi bravi". Ora D'Alema viene eletto al sud, nella stessa regione - la Puglia - che ha dato i natali alla Forleo. E' a lui che si riferiva con quel "Don Rodrigo"? E, se non si riferiva a lui, non si dà spazio a un'ambiguità che scredita D'Alema, ma anche chi dovrebbe giudicarlo, la sua serenità di giudizio, la sua imparzialità (che dovrebbe anche apparire tale)?

Dice ancora la Forleo: "Purtroppo il giudice viene lasciato solo anche da tanti suoi colleghi. Dopo aver preso scelte scomode io e altre persone ci siamo ritrovati a non avere i soliti inviti e i contatti consueti con colleghi. Anche oggi qualcuno mi ha telefonato e raccomandato: "Sii prudente". Ora la Forleo lavora negli uffici giudiziari di Milano, che a buon titolo consideriamo d'eccellenza. Il suo j'accuse lascia pensare che le toghe di Milano siano così acquiescenti all'attuale potere politico dei Ds da isolarla per le sue decisioni, addirittura da minacciarla con discrezione.

Stanno davvero così le cose, oggi, nell'ufficio che fu di Borrelli, Colombo, Davigo, Di Pietro e che è oggi di Boccassini, Greco, Spataro e di centinaia di altri pubblici ministeri e giudici che, investiti dall'ondata di piena del berlusconismo al governo, hanno conservato il rispetto di se stessi, del proprio regolato lavoro e della Costituzione? Si fa fatica a crederlo. Per crederlo, bisognerebbe documentarlo meglio. Se non si può documentare meglio, converrebbe tacere a meno di non voler correre il rischio di diffondere, senza ragione e ragionevolezza, un ingiusto discredito su un'istituzione dello Stato e sui suoi servitori.

Il peggio, in ogni caso, lo offre Michele Santoro. Organizza una trasmissione che rende incomprensibile la "materia del contendere". Davvero quei ragazzi raccolti da Annozero (e i telespettatori) hanno compreso quali sono le circostanze e "i principi" messi in gioco dal "caso De Magistris"? La ricostruzione, gonfia di emotività, suggestioni, commozioni, li ha come rimossi. Santoro ne propone la chiave concettuale. Dice: non ci interessano le regole, la forma che doveva rispettare De Magistris, non ci interessano i suoi errori anche probabili. Ci interessa "la sostanza", il resto sono "quisquilie".

L'anchorman sembra ignorare (o voler ignorare) quanti orrori possono accadere quando un magistrato arriva al massimo dell'indignazione e, in nome della giustizia, pretende un castigo e, se non lo ottiene, avvia un ciclo di ritorsioni. Sembra non comprendere che un potere che schiaccia un magistrato, e un magistrato che non si cura delle procedure, sono due aspetti della stessa barbarie. Altro che quisquilie, perché se al politico gli si può interdire il voto, al magistrato no. L'unica garanzia che abbiamo è che rispetti le regole perché un potere sostanzialistico e punitivo ha sempre la vocazione a espandersi oltre i limiti definiti dalle norme che lo regolano. Può contagiare il costume giudiziario. Alla fine, valorizza la mano forte e metodi che possono diventare persecutori, di giustizia preventiva.

Sono questi i messaggi "barbarici" che il servizio pubblico della Rai ha diffuso con Annozero senza voler considerare la vera e propria disinformazione firmata da Marco Travaglio. Ammesso che Travaglio fosse lì come giornalista e non come leader del largo movimento d'opinione che fa riferimento a Beppe Grillo, davvero si può rappresentare l'intero sistema politico italiano come governato dal massone Licio Gelli? Si può sostenere che questo governo abbia separato le carriere di pubblico ministero e giudice?

No, perché non è vero. Si può, come se si trattasse di una notizia, sostenere che "la temporaneità degli incarichi direttivi" è un modo per liquidare i magistrati più abili e indipendenti mentre è il solo espediente che una magistratura debole e divisa ha escogitato per evitare che gerarchi in toga si installino in una stessa poltrona per un ventennio diventando parte integrante e preziosa del sistema di potere locale?

La barbarie di Annozero dovrebbe farci chiedere che cosa deve essere l'informazione del servizio pubblico. Se è "dare le notizie" e "accrescere la conoscenza", come si potrebbe ipotizzare, l'obiettivo è stato del tutto mancato: notizie alquanto confuse, disinformazione; non c'è alcuna conoscenza, soltanto un distillato di veleni in un quadro culturale che ignora le ragioni della democrazia e le convenienze dello Stato di diritto.

Annozero, viene da dire, è stato soltanto un passo verso il suicidio collettivo. Qualche tempo fa, Barbara Spinelli ha ricordato che, per Emile Durkheim, non si suicidano soltanto gli individui, ma anche le società e gli Stati. Accade quando le società perdono le regole; spezzano gli equilibri; slabbrano le istituzioni, lo Stato, la famiglia, il sindacato, le magistrature; vedono frantumarsi i legami sociali come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro (era il fantasma che avevamo visto al governo con Berlusconi). Può essere ora il lavoro distruttivo che piace alle burocrazie dell'informazione, a cinici politici in cerca di un facile consenso, agli indifferenti amministratori della Rai, ai moltissimi che sono in cerca di una leadership capace di decidere in fretta e imperiosamente, magari dopo un "vaffanculo". A noi, non piace.

(6 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Gli addebiti al pm De Magistris appaiono fragili e ...
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2007, 09:04:41 am
POLITICA

Gli addebiti al pm De Magistris appaiono fragili e l'uguaglianza davanti alla legge è a rischio

Ecco perché va cancellato il tempo della furbizia

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
IMMAGINIAMO di essere non nell'ottobre 2007, ma nello stesso mese del 2005. Un pubblico ministero indaga il capo del governo (è Berlusconi) e il suo ministro di giustizia (è Castelli). Gli sottraggono una prima inchiesta, avocata dal procuratore capo. Il pubblico ministero si mette al lavoro su un'altra inchiesta. In un passaggio dell'indagine che egli ritiene decisivo, il ministro di Giustizia (le indagini raccontano che è in buoni rapporti con due degli indagati) chiede - come una nuova legge gli permette - il trasferimento cautelare del pubblico ministero a un altro ufficio.

Sarebbe la definitiva morte dell'inchiesta. Il provvedimento amministrativo non convince il Consiglio superiore della magistratura che lo deve disporre. Non ne intravede l'urgenza, prende tempo, tira in lungo. Il pubblico ministero iscrive, allora, il ministro nel registro degli indagati: atto dovuto per l'esercizio dell'azione penale e soprattutto garanzia per l'indagato. Ventiquattro ore dopo, il procuratore generale avoca a sé - sottrae al pubblico ministero - anche la seconda indagine.

Il passo è inconsueto e appare anomalo. Gli addetti ricordano, se hanno memoria buona, qualche modesto precedente di quindici anni prima. Le ragioni del procuratore generale stanno in piedi come un sacco vuoto.

Se il motivo dell'avocazione è l'"incompatibilità" per l'"inimicizia grave" tra il pubblico ministero e il ministro indagato (ha chiesto la punizione del pubblico ministero, che ne è risentito), si tratta una fanfaluca. Se si accetta il principio, qualunque indagato che denuncia il suo accusatore potrebbe invocare l'"inimicizia grave" e liberarsi del suo pubblico ministero. Cesare Previti, in passato e ripetutamente, ci ha provato. Non è andato lontano.

Ci sarebbe - trapela dalla procura generale - un'altra ragione per l'avocazione delle indagini: l'inerzia del pubblico ministero. L'accusatore è fermo. Non va né avanti né dietro. Non esercita l'azione penale. Non richiede l'archiviazione "nel termine stabilito dalla legge". Ora, l'inchiesta del pubblico ministero è nei termini stabiliti dalla legge (è un fatto) e di quel pubblico ministero tutto si può dire tranne che sia pigro o inoperoso (è un fatto). La seconda ragione appare, se possibile, anche più debole della prima e nonostante ciò il pubblico ministero perde l'inchiesta e il capo del governo e il ministro di Giustizia tirano un respiro di sollievo, si liberano di ogni controllo (che abbiano o no responsabilità punibili è un'altra storia, naturalmente).

Siamo nell'ottobre del 2005 - lo ricordate? - e in questo modo abusivo il capo del governo (è Berlusconi) e il ministro di Giustizia (è Castelli) si grattano la rogna, guadagnano un'illegittima impunità, contraria alla Costituzione e alla legge.

L'operazione liquidatoria consiglia di gridare allo scandalo. Non siamo nella Francia ancien régime dove, grazie a lettere chiamate Committimus, le persone favorite dal potere schivano le normali giurisdizioni e si presentano dinanzi a corti più mansuete. Se questo accade (e accade) si degrada a regola fluttuante, a canone fluido l'articolo 3 della Costituzione ("I cittadini sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di condizioni personali e sociali"). E' necessario interrogarsi allora sulla qualità di una democrazia, esprimere qualche preoccupazione se il potere politico rifiuta ogni contrappeso; annichilisce l'indipendenza della magistratura. E' un obbligo chiedersi delle ragioni (e responsabilità) di una frattura istituzionale che impone a una magistratura servile di umiliare la sua stessa autonomia liberandosi delle "teste storte" convinte che atti uguali vadano valutati a uguali parametri giuridici, sia l'indagato un povero cristo o di eccellentissimo lignaggio.

Questo avremmo pensato e detto, con apprensione e qualche brivido, se nell'ottobre del 2005 fosse stata rubata l'inchiesta a un pubblico ministero "colpevole" di voler verificare i comportamenti del capo del governo (Berlusconi) e del ministro di giustizia (Castelli).

Non siamo (purtroppo?) nel 2005. Siamo nel 2007 e il capo del governo (indagato) è Romano Prodi, il ministro di Giustizia (indagato) è Clemente Mastella e l'esito dell'affare non è mai riuscito a Berlusconi, Previti, Dell'Utri, Castelli: il pubblico ministero che li ha indagati - Luigi De Magistris - si è visto trafugare l'inchiesta dal tavolo.

Se ne deve prendere atto con molta inquietudine. Ora che il "caso De Magistris" (o il "caso Prodi/Mastella"?) precipita verso un punto critico, è indispensabile che questo affare diventi finalmente, e nel mondo più rapido, trasparente. Che tutti i comportamenti, le responsabilità, gli usi e i soprusi siano squadernati in pubblico, possano essere verificati e, se necessario, presto corretti nel rispetto delle regole democratiche che assegnano a ciascuno degli attori ruolo e doveri.

Il governo governi senza condizionare l'autonomia della magistratura (se Mastella teme di cadere in tentazione, gli si assegni un altro incarico nell'esecutivo). Il pubblico ministero eserciti l'azione penale nel rispetto delle costrizioni procedurali (il Consiglio superiore ne verifichi l'ossequio, subito non in dicembre). Le gerarchie togate evitino ogni soggezione, rispettino i codici, non manipolino le procedure (la procura generale di Catanzaro receda dalla sua dissennata iniziativa).

Il presidente della Repubblica sia, come sempre è stato, il garante della Costituzione e dell'eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge. Non c'è più spazio per il compromesso, la tolleranza, la furbizia.

A meno di non voler cadere in quell'incubo che sembrava alla spalle con la sconfitta del cattivissimo Silvio Berlusconi.

(21 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Per il bene delle istituzioni
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2007, 05:01:55 pm
CRONACA

L'ANALISI

Per il bene delle istituzioni
di GIUSEPPE D'AVANZO


Per come si sono messe le cose, era necessario che intervenisse il capo dello Stato nella sua doppia funzione di garante della Costituzione e di presidente del Consiglio superiore della magistratura. Negli ultimi giorni, l'affare De Magistris/Mastella è deflagrato in ogni direzione.

Travolgendo la misura di una corretta condotta istituzionale prima che il rispetto di regole, leggi e codici. Va detto che nessuno si è tirato indietro in questa zuffa. Non si è tirato indietro il pubblico ministero, che ha replicato in pubblico, colpo su colpo e rumorosamente, all'assedio a cui è stato sottoposto, alla controversa avocazione che lo ha privato di un'inchiesta che coinvolge il presidente del Consiglio in carica e il suo ministro di Giustizia. Non si è tirato indietro un attivissimo, quasi agitato, Clemente Mastella che ha spesso confuso in pubblico - e sovrapposto negli atti ministeriali - il suo ruolo istituzionale con la condizione di indagato.

Non si è tirato indietro il procuratore generale, soltanto facente funzioni, Dolcino Favi. Giovedì scorso, il Consiglio superiore ha nominato il legittimo Pg di Catanzaro e Favi, senza attendere l'insediamento del legittimo titolare dell'incarico, appena prima di spegnere la luce e lasciare l'ufficio, ha firmato un'avocazione che è inconsueta nella più recente storia giudiziaria. Si è tirato indietro, e colpevolmente, il Consiglio superiore della magistratura da cui ci si attendeva - al contrario - un passo in avanti, chiarificatore. Avrebbe dovuto dare con celerità un esito, in un senso o in un altro, all'indagine disciplinare che coinvolge Luigi De Magistris e il suo procuratore capo Mariano Lombardi. Ha affrontato "la pratica" con l'abituale vivacità del plantigrado rinviando la decisione anche quando, con una mossa arrischiatissima, Mastella ha invocato il trasferimento del pubblico ministero con un'urgenza palesemente infondata.

Disancorata da un terreno istituzionale e quindi disciplinato, la controversia ha assunto le forme della rissa, del parapiglia dove ogni colpo inferto all'avversario, al di là di ogni regola, è buono se fa davvero male. Nessuno è sembrato curarsi che a "farsi male" davvero, a degradarsi era la credibilità delle istituzioni. L'intervento del capo dello Stato è allora saggio, opportuno e tempestivo. Giorgio Napolitano impegna la sua autorità e promette di tutelare l'insieme dei beni che appaiono in gioco in quest'affare: l'autonomia della magistratura; l'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge; i diritti dei cittadini indagati. Il capo dello stato pone innanzitutto una questione di metodo.

Chiede ai protagonisti (magistrati e governanti, l'organo giudiziario ma anche il titolare dell'azione disciplinare) discrezione, self-restraint, rispetto di leggi, codici deontologici, dettami di una leale collaborazione istituzionale. Pretende che siano verificati soprattutto i fatti secono le norme e i principi. Sono stati corretti i passi investigativi di Luigi De Magistris? Ha rispettato le procedure e i diritti dell'indagato? Il ministro ha forzato le prerogative che gli assegnano la titolarità dell'azione disciplinare? E' il lavoro che deve svolgere il Consiglio superiore della magistratura.

Napolitano ne è il presidente e con il suo intervento si impegna a che quel compito sia affrontato dal Csm rapidamente e con "ponderazione e obiettività". Ma il capo dello Stato è anche il garante della Costituzione, il custode dell'articolo 3 ("Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge"), dell'articolo 101 ("I giudici sono soggetti soltanto alle legge"), dell'articolo 104 ("La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere").

E' inutile nascondersi che la grossolanità degli interventi di Mastella, accentuata dal vittimismo di De Magistris, ha dato l'impressione (non avventata) che le ragioni del potere volessero spadroneggiare sulle ragioni di giustizia. Che la politica (Mastella lo ha ripetuto in più occasioni) non accettasse, oggi come ieri, un controllo di legalità o di "farsi processare" quali che fossero indizi, fonti di prova, qualità dei comportamenti. Napolitano, con poche secche frasi, assicura con il prestigio della sua autorità che proteggerà l'autonomia della magistratura e, nel contempo i diritti degli indagati, affinché le indagini facciano il loro corso e non siano insabbiate, come molti sono indotti a credere. Non è la soluzione del conflitto ma, se gli attori rispetteranno il canovaccio scritto ieri dal presidente della Repubblica, è almeno un buon inizio.


(23 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Ma un giudice non può tacere i nomi di chi lo minaccia
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2007, 09:53:41 pm
POLITICA IL COMMENTO

Ma un giudice non può tacere i nomi di chi lo minaccia
di GIUSEPPE D'AVANZO


La denuncia di Clementina Forleo non può essere equivocata. Dice il giudice per le indagini preliminari di Milano: "Quando ero il gip delle scalate del 2005 (Antonveneta-Bnl) mi giunsero pressioni relative agli atti di quell'indagine da ambienti istituzionali". Il giudice non va oltre. Non fa nomi, non offre indicazioni, non aiuta a capire: "Allo stato ne ho riferito soltanto ai miei familiari e a persone del mio entourage" e, a quanto pare, a un suo amico Ferdinando Imposimato - già giudice e parlamentare. La ragione? La Forleo non si sente "tutelata", non si sente "protetta". Tutto quest'affare è molto bizzarro e chiede di essere chiarito nelle prossime ore, in fretta e con attenzione.

Dunque, un giudice riceve delle pressioni addirittura da "ambienti istituzionali" per manipolare le sue decisioni. La manovra configura un reato penale e il pubblico ufficiale, vittima dell'avance, ha l'obbligo della denuncia. Il professore Franco Cordero - quando Clementina Forleo è stata rumorosamente criticata per aver indicato, nella richiesta di utilizzazione di alcune intercettazioni telefoniche che coinvolgevano parlamentari, le ipotetiche responsabilità penali dei protettori politici (Massimo D'Alema e Nicola Latorre) del presidente di Unipol - scrisse che quelle "opinioni erano irrituali, non erano affar suo disquisirle. Ma (Forleo) ha scritto quel che pensa. L'atto configura una denuncia obbligatoria, art. 331, illo tempore chiamata "rapporto"" (Repubblica, 24.07.07).

L'articolo 331 del codice di procedura penale recita: "I pubblici ufficiali che, nell'esercizio delle loro funzioni e del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile d'ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia stata individuata la persona alla quale il reato è attribuito. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria". Questo stesso argomento, questo stesso articolo del codice può - deve - essere adoperato per sottolineare la timidezza del giudice, giustificata dal timore di non sentirsi protetta. Ma ora che la storia è diventata pubblica, per voce della stessa Forleo, non si può far finta che non sia accaduto nulla. Occorre che ciascuno faccia la sua parte a difesa dell'incolumità del giudice e dell'integrità dell'inchiesta milanese.

Si spera che, nelle prossime ore e non nei prossimi giorni, la Forleo voglia denunciare gli autori delle "pressioni istituzionali". Ci si augura che, nel caso ciò non avvenga, il dirigente dell'ufficio delle indagini preliminari o il presidente del Tribunale o il presidente della Corte d'Appello chiedano alla Forleo di stendere una relazione di servizio o, come si diceva un tempo, "un rapporto" sulle abusive sollecitazioni ricevute. Per il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e alle istituzioni, la sola che non è lecito fare è trasformare quest'affare, all'apparenza molto serio, in una farsa buona ad alimentare il consueto alambicco di veleni o le giostre di "una tv della simulazione".

(30 ottobre 2007)



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Il paragone impossibile con Falcone e Borsellino

di GIUSEPPE D'AVANZO
 

LA SCENA è confusa e alquanto spiacevole. Paragonare quel che accade oggi nella magistratura, e alla magistratura, con quanto è accaduto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino quindici anni fa è, per quel che se ne sa, iperbolico. Sentir parlare di tritolo, minacce istituzionali, poteri occulti e assassini in un Paese che ha visto i suoi uomini migliori uccisi dal tritolo o è una beffarda farsa che offende le autentiche tragedie, scimmiottandole, o è una spaventevole emergenza da affrontare subito.

In questo secondo caso, se ne vorrebbe sapere di più, al di là dell'emotività di teatri televisivi di incerta informazione che non danno conto della realtà, ma preferiscono simularla. Che cosa sta accadendo? Chi minaccia o ha minacciato Clementina Forleo? Quale potere occulto assedia Luigi De Magistris? Questo si vorrebbe sapere.

E dunque... Per un passo abusivo del ministro di Giustizia e di un'iniziativa impropria (e forse illegittima) del procuratore generale di Catanzaro, a De Magistris è stata sottratta un'inchiesta che vede indagati il capo del governo e Clemente Mastella. Se si conserva la testa fredda, in questo caso si può dire che un momento di indubbia criticità sta faticosamente trovando soluzione perché la fisiologica dialettica del sistema di controllo degli atti e verifica dei comportamenti è al lavoro.

Il Consiglio superiore della magistratura, che ha opportunamente bocciato l'urgenza del trasferimento di De Magistris proposto da Mastella, ci dirà delle responsabilità disciplinari del pubblico ministero o delle violenze che ha subito. A fine dicembre, la procura di Salerno chiuderà le indagini sui magistrati di Catanzaro che reciprocamente si sono accusati e denunciati.

Entro quindici giorni la Corte di Cassazione deciderà del ricorso contro l'avocazione presentato dal pubblico ministero privato della sua inchiesta. Presto, la procura di Roma deciderà se l'affare è di competenza del tribunale dei ministri o può tornare dinanzi al suo giudice naturale. Lungo questo percorso, con ogni probabilità, saremo in grado di comprendere anche la qualità e la correttezza dell'inchiesta calabrese e anche apprezzare il ruolo di un consulente tecnico del pubblico ministero che, per essere soltanto un privato cittadino, si abbandona a inconsueti toni minacciosi. Pare insomma che ci siano tutte le condizioni per convincere De Magistris a evitare allarmi e proclami a vantaggio di una responsabile riservatezza.

Diverso è il caso di Clementina Forleo, alla quale più che riserbo bisogna chiedere chiarezza. La denuncia del giudice non può essere equivocata. Dice: "Quando ero il gip della scalate del 2005 (Antonveneta-Bnl) mi giunsero pressioni relative agli atti di quell'indagine da ambienti istituzionali". Forleo non va oltre. Non fa nomi, non offre indicazioni, non aiuta a capire: "Allo stato ne ho riferito soltanto ai miei familiari e a persone del mio entourage" e, a quanto pare, a un suo amico, Ferdinando Imposimato - già giudice e parlamentare - custode di una lettera "a futura memoria". La ragione? La Forleo non si sente "tutelata", non si sente "protetta" dallo Stato. Tutto quest'affare è molto bizzarro e chiede di essere illuminato in fretta.

Dunque, un giudice riceve delle pressioni da "ambienti istituzionali" per manipolare le sue decisioni a vantaggio di potenti. La manovra configura un reato penale e il pubblico ufficiale, che ne è vittima, ha l'obbligo della denuncia. Articolo 331 del codice di procedura penale: "I pubblici ufficiali che, nell'esercizio delle loro funzioni, hanno notizia di un reato devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia stata individuata la persona alla quale il reato è attribuito. La denuncia è presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria".

Perché, solitamente così ossequiente alla legge, Clementina Forleo appare timida o esitante nell'osservarla? Può essere certo una giustificazione l'apprensione provocata dall'ostilità dell'"ambiente istituzionale", ma siamo certi che il coraggio del giudice saprà superarla. E comunque ora che la storia è diventata pubblica, per voce della stessa Forleo, non si può far finta che non sia accaduto nulla. Occorre che ciascuno faccia la sua parte a difesa dell'incolumità del giudice e dell'integrità dell'inchiesta milanese.

Si spera che, presto, la Forleo voglia denunciare gli autori delle "pressioni istituzionali". Ci si augura che, nel caso ciò non avvenga, il dirigente dell'ufficio delle indagini preliminari o il presidente del Tribunale o il presidente della Corte d'Appello o il procuratore generale della Repubblica chieda alla Forleo di stendere una relazione di servizio o, come si diceva un tempo, "un rapporto" sulle abusive sollecitazioni ricevute.

Per il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e alle istituzioni, la sola cosa che non è lecito fare è trasformare quest'affare, all'apparenza molto serio, in una commedia buona ad alimentare l'alambicco dei veleni o la disordinata giostra del dibattito televisivo. Bene ha fatto allora il Csm ad aprire immediatamente un fascicolo "per conoscere e deliberare".

Male, malissimo fanno altre istituzioni (come l'Arma dei carabinieri) chiamate in causa dal giudice di Milano a tacere o, interpellate dalle sue denunce, a voltare la testa da un'altra parte. Tacciono per evidenza colpevolezza o per pubblica pavidità? Di che cosa hanno paura, delle proprie responsabilità o del sentimento popolare che potrebbe travolgerli se smentissero il magistrato? Questo si vuole sapere perché quel che si vede non convince. Sembra che siamo alle prese con una rabbiosa aggressione del potere politico all'ordine giudiziario e invece si è visto, fino a prova contraria, soltanto il goffo agitarsi di Clemente Mastella.

Sembra che siamo nel fuoco di un conflitto feroce tra magistratura e politica e invece si può prendere atto che negli uffici giudiziari, nelle forme associate della consorteria togata, nel suo organo di autogoverno, in Parlamento, nel governo, la temperatura dei rapporti tra i due poteri è nei parametri (i problemi appaiono altri). E allora che cosa ci sfugge, se nemmeno la moral suasion del capo dello Stato - i suoi impegni e moniti - sono riusciti a riportare nei binari di una leale dialettica istituzionale i casi De Magistris e Forleo? E se nulla di davvero rilevante ci sfugge, per quanto tempo dobbiamo essere imprigionati in una recita a soggetto, per di più con l'indecorosa evocazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?

(31 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Viaggio tra i romeni delle baracche sull'Aniene
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2007, 03:07:43 pm
CRONACA

IL RACCONTO

Viaggio tra i romeni delle baracche sull'Aniene

Vita da incubo nella città di latta

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - L'odore è buono. Come in ogni casa del mondo, dove c'è una famiglia e un pranzo nel giorno di festa. Il vapore che sale dalla pentola dello stufato di maiale con l'aglio e le cipolle è denso e profumato e Iuliana - Iuliana Dumea è venuta a Roma dalla contea di Piatra Neamt, Romania, quattro anni fa, in settembre - ne è fiera. Sorride e si stringe sulle spalle lo scialletto di lana. Fuori piove. Vuole preparare un caffè tanto per levarsi di dosso l'umidità.

Iuliana racconta di sé senza disperazione, quasi orgogliosa della sua rassegnazione a una vita aspra, della sua capacità di sopportarla con dignità. Dice del suo lavoro di badante a Cerveteri, 650 euro al mese, un posto fisso, un letto caldo per sei giorni la settimana e la famiglia che l'ospita la rispetta e ha fiducia in lei. Dice della figlia Andreea, arrivata in Italia che sono sette giorni: si prepara a diventare "grande", a dicembre finalmente festeggerà i diciotto anni e potrà cercarsi un lavoro. Del marito muratore che guadagna 40 euro a giornata, anche 50, quando è fortunato a trovarlo e, se Dio vuole, quest'anno la fortuna non lo ha mai abbandonato. Dice Iuliana, delle sue preoccupazioni, ma anche della sua speranza di una vita regolare, del desiderio di trovare una casa e non la baracca dove in un angolo ora borbotta - allegra - la pentola dello stufato.

La baracca, quindici metri quadrati, è stata tirata su con gli alberi del parco dell'Aniene, con l'aiuto di Cristian Samoila che ora sta tirando su la sua poco più in là. La baracca ha un tetto di laminato d'alluminio e pareti di cartone, protette da larghi fogli di plastica e cartelloni pubblicitari. C'è anche una finestra, ma non si apre. E' lì per decoro, per simulare una casa vera. Il rifugio di Iuliana è a ridosso dell'argine destro dell'Aniene tra l'ansa di Ponte Mammolo e Casale Rocchi. E' nel mezzo di una fangosa discarica per gran parte annerita dal fuoco - televisori sventrati, marmitte e batterie d'auto, vecchie scarpe, centinaia di bottiglie di vino e di birra, monnezza, bambole, cessi sbreccati, plastica bruciata.

Se guardi il volto di Iuliana, puoi anche dimenticare la baracca e la discarica. E se dimentichi la baracca e dove sei, la vita di Iuliana può anche apparire non disperata - Iuliana non la sente disperata - difficile sì, dura come la pietra sì, ma non disperata. E' una vita che ha ridotto al minimo ogni bisogno di abitazione, di vesti, di vitto ma non l'aspettativa di giorni migliori. E ora, chiede Iuliana, che succederà dopo quel che è accaduto a Tor di Quinto a quella povera signora: noi romeni finiremo tutti nei guai? Ci cacceranno tutti? Pagheremo tutti, i delitti di pochi o di uno? Io ho un lavoro, potrò restare? E Andreea potrà restare, lei che il lavoro non ce l'ha, ma ha me? Perché non li punite? Perché non li tenete in carcere? Perché, se li arrestate, poi li scarcerate?

Può apparire un paradosso e non lo è. I romeni, quei romeni che menano una vita agra lungo l'argine dell'Aniene, in baracche di cartone, legno e plastica, a pochi metri dal fiume - "invisibili" soltanto per chi abita in un'altra parte della città - temono la violenza dei romeni quanto gli italiani. La odiano come loro. Ne sono impauriti come loro e, come loro, chiedono che chi sbaglia paghi duramente. Come duramente pagherebbero in Romania. Se rubi una gallina in Romania, sei condannato a cinque anni di carcere anche se quella gallina ti sfama soltanto per un giorno, dice Cristian - è alto, magrissimo, è un elettricista, ha ascoltato Iuliana, in silenzio, infreddolito e scosso dai brividi. Se hai la droga, puoi essere condannato a quindici anni, dice. Se la droga è troppa per essere soltanto la tua, rischi l'ergastolo. Se hai bevuto anche solo un bicchiere di birra e guidi, perdi l'auto e la patente. Perché da voi non è così?

Lungo il fiume, per chilometri, ci sono soltanto baracche di romeni, di rom, di bosniaci, dice Cristian, vai a vedere: ognuno vive, come può e come sa e, se non ti fai confondere dalla povertà e dal loro aspetto o dalla confusione delle loro baracche, la vita che vogliono fare gliela leggi in faccia. Se hanno voglia di lavorare, se cercano lavoro per mangiare, lo capisci. Se vogliono mangiare e bere senza lavorare, lo puoi intuire. Se vuoi capirlo meglio, guarda se ci sono bambini e donne in casa. Se hanno la responsabilità di bambini e donne, gli uomini non rischiano di finire in carcere per una sbronza violenta. Se ci sono bambini e non ci sono le donne, diffida di quegli uomini: mandano le loro donne a rubare.

Se vedi soltanto uomini in una baracca, stai attento: possono essere loro - proprio quelli - la maledizione che può dannarci tutti. Sono spesso uomini che non hanno nulla da perdere. Venuti negli ultimi mesi in Italia, non dai villaggi ma dalle città, Costanza, Timisoara, Iasi, Cluj Napeca, dai peggiori quartieri di Bucarest, Ferentari, Obor, Pantelimon. Magari in Romania hanno fatto già il carcere e ancora ne devono fare e non hanno nulla da perdere. Sono uomini in fuga e di nulla conoscono il valore, nemmeno della vita umana. Ogni giorno in più per loro è un giorno guadagnato e per trenta euro possono ucciderti, se hanno bevuto; e d'altronde hanno sempre bevuto perché non fanno altro, dice Cristian.

Le acque dell'Aniene, grigie come il ferro, corrono veloci e gonfie. Le baracche sono addossate all'argine melmoso, nascoste dalle canne. L'una accanto all'altra per chilometri. Sono costruite tutte nello stesso modo, più o meno. Una camera, i grandi letti, la cucina a gas, la stufa a cherosene. Una porta che dà sul sentiero interno e un'altra che si apre su una specie di terrazzino "panoramico" che guarda il fiume e l'altra riva. C'è il tavolo, un paio di sedie e, a volte, anche un divano sfondato. Qualche baracca ha il televisore e l'antenna satellitare. Non si ode un rumore, una voce, il pianto o il riso di un bambino.

Gli "uomini soli" li vedi subito, da lontano. Sono in cerchio davanti alla baracca. Fumano, chiacchierano, hanno già bevuto e sono soltanto le undici del mattino. Non hanno voglia di dire il loro nome. Farfugliano se si parla di lavoro. Dicono che sono di Timisoara. Dicono che loro "i romeni cattivi" li prendono a calci nel culo se si fanno vedere da quelle parti. Uno che sembra il capo - è il solo a parlare mentre gli altri al più annuiscono a quel che dice - racconta che l'altro giorno si presentano un paio di loro con un'auto. Vedete, quella Ford laggiù. Vogliono venderla per mille euro. L'uomo chiede i documenti, ma non c'è alcun documento. Allora, giù calci nel culo. Quelli scappano e l'auto resta lì. E' ancora lì. "Che ci posso fare? Magari qualcuno può pensare che l'ho rubata io".

Se si racconta la storia a Essan, ride e ti chiede se l'hai bevuta. Abita più in là, lungo l'argine in una larga area umida e piana. E' un bosniaco, in Italia dal 1969. 43 anni, magro come uno chiodo, otto figli, dieci nipoti. Vivono tutti con lui, in quattro baracche di legno e una roulotte in un lotto recintato da rovi di more e una rete di ferro con su un cartello "Proprietà privata, non oltrepassare". Dice Essan che gli è venuta la pelle d'oca quando ha saputo della signora di Tor di Quinto. Mai, dice, si è vista questa violenza.

Ci sono stati gli albanesi, i marocchini, che non sono roba da poco, e mai la violenza dei romeni, dei romeni sfrizzati. Essan non vuole fare il santo. E' stato un ladro, ammette. Ha rubato, ma era un altro rubare, sostiene. Mai un coltello, mai una pistola e, se entravi in una casa e qualcuno gridava, te la davi a gambe e in fretta. Se ti beccavano e magari dovevi scontare un "residuo di pena", con le vostre leggi strane che prima ti scarcerano e poi, dopo anni, ti chiedono di tornare in galera a scontare la condanna, preparavi la tua valigia e te ne andavi a Rebibbia con le tue gambe. Ma ora, dice Essan, chi ci capisce niente? "Questi t'ammazzano per cinque euro, se sono ubriachi! Io non voglio che i miei figli abbiano a che fare con quella gente lì. Abbiamo il nostro lavoro della raccolta del ferro, e questo ci basta".

Anche Nichita è il capo di una tribù, otto figli, tre generi, cinque nipoti. E' autista e si sente proprietario dello spicchio di demanio pubblico che occupa. Lo ha pagato 11.500 euro, dice. Ha un foglio di carta firmato. Glielo ha venduto un tale di nome Gino che prima aveva lì un orto. Testardo, non vuole saperne di essere stato truffato. Dice che quella terra è ormai sua e da lì non se ne andrà. Perché dovrebbe andarsene, chiede. "Perché sono romeno? E allora stai a sentire? Guarda questa mano. In questa stessa mano, non c'è un dito uguale all'altro. Questo è corto e largo. Quest'altro è lungo e magro. Quest'altro ancora non si sa che farsene se non infilarci un anello.

Un popolo è come una mano. Ognuno è diverso dall'altro. Perché non volete capirlo? Proprio voi dovreste capirlo. Per alcuni, siete tutti mafiosi. Io so che non è vero, ma allora perché, per voi, può essere vero che tutti i romeni sono ladri e assassini e ubriaconi e violenti? Noi romeni siamo come cavalli che sono stati per anni chiusi in una stalla al buio. Poi hanno aperto le porte della stalla e il sole, la luce, l'aria, la libertà ci hanno intontito e turbato. C'è chi quella libertà vuole respirarla a pieni polmoni e corre, corre, corre approfittando degli spazi liberi pensando che la vita che vuole regalare ai figli deve essere diversa da quella che lo ha imprigionato per anni e ci sono altri che non sanno che farsene di quella libertà. Quella libertà non li rende felici. Al contrario, li riempie di rancore. Li fa rabbiosi e pazzi come cani e mordono chiunque li avvicini. Perché volete confondere me, la mia famiglia, con quei cani?".

Oltre la curva dell'Aniene a Ponte Mammolo, c'è una rete di strade e in una di quelle vie cieche che scendono verso l'area di esondazione del fiume, a Pietracamela, dicono che da qualche tempo c'è un nuovo campo di romeni, nelle grotte. Sembra una leggenda metropolitana. Quelle strade sono deserte e di grotte, in apparenza, non se ne vedono. Sarebbe difficile accorgersene se non spuntasse nell'angolo di un costone roccioso una testa per scomparire subito. E' quello l'ingresso delle grotte. Dentro inzuppato in un'umidità quasi solida c'è un intero borgo.

Le baracche appoggiate alla roccia, una larga "piazza" con intorno tavoli e sedie. Nel tavolo in fondo, un uomo allampanato, avanti con gli anni, beve un tè, concentrato nel gioco enigmistico del giornale romeno che lo ha accompagnato nel viaggio dalla Transilvania a Roma. E' arrivato appena ieri, dice Marian. Marian ha 22 anni, è nato e vissuto in un villaggio di trecento abitanti nel distretto di Maramures, in Transilvania appunto. Quando vivi in un posto di trecento abitanti, dice, non sai che cos'è la violenza.

Tutti si conoscono. Qualcuno può stare sul naso di un altro, ma al peggio non gli rivolge la parola ed è il massimo della violenza in un posto così. "Io - dice Marian - la violenza l'ho scoperta qui da voi ed è una violenza figlia delle vostre abitudini. Sono qui per lavorare e il lavoro non mi manca. Non guadagno molto, ma vado avanti. Penso che domani possa andare meglio. Quando mi manca il lavoro a Roma, vado al Nord, da mio fratello, e un lavoretto lo trovo sempre. Ora faccio pubblicità per una discoteca. Cinquanta euro al giorno. Può andare. Non capisco perché vi aspettate che chi non ha voglia di lavorare non procuri guai agli altri. Se non lavori, non mangi. Se non ti cerchi un lavoro, l'unico modo per mangiare è rubare. Se hai rubato una volta, tornerai a farlo. Se hai ucciso, sarai tentato di farlo un'altra volta. C'è un solo modo per risolvere il problema, chiudere in carcere chi fa del male agli altri, come fanno in Romania. Che ci vuole a capirlo?".

Marian alza la voce, senza volerlo, come in preda a una incomprensibile rabbia. Gli viene accanto una ragazza. Si chiama Veronica. E' la sua donna. Veronica prende per mano Marian, che si calma subito. Veronica è stata una schiava. Costretta a prostituirsi, picchiata selvaggiamente quando si rifiutava di passare le notti sulla Tiburtina. Marian l'ha convinta a denunciare i suoi "padroni". Ora vogliono sposarsi, appena troveranno un posto più decente di una grotta.

(2 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - La catena degli errori
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2007, 02:34:22 pm
IL COMMENTO

La catena degli errori

di GIUSEPPE D'AVANZO


L'AGENTE della polizia stradale che ha ucciso Gabriele Sandri non si è accorto della rissa. Nemmeno ha intuito che, nell'area di servizio di Badia al Pino lungo l'A1, due piccoli gruppi di juventini e laziali se le erano appena date di santa ragione. L'agente - se sono buone le fonti di Repubblica - è stato messo sul chi vive dal parapiglia. Era lontano, dall'altra parte della carreggiata. C'è chi dice duecento metri, chi cento, in linea d'aria.

Ha sentito urla e grida. Ha visto un fuggi fuggi e un'auto che velocemente - o così gli è parso - si allontanava dall'area di servizio. Ha pensato a una rapina al benzinaio. Ha azionato la sirena. L'auto non si è fermata. Ha sparato. Ha ucciso. Raccontata così dal suo incipit, questa domenica crudele e brutale in cui è precipitata l'Italia, da Bergamo a Roma, poteva non avere come canovaccio principale la violenza che affligge il mondo del calcio ma, più coerentemente, il caso, la probabilità, l'errore. Il caso che incrocia l'auto della polizia stradale con il convoglio di tifosi.

La probabilità che il proiettile raggiunga, da settanta metri, il collo di "Gabbo" Sandri che dormiva. L'errore, il doppio errore "tecnico" del poliziotto che non comprende che cosa è accaduto dall'altra parte della strada e, convinto di essere alle prese con un delitto ben più grave di una scazzottata, troppo emotivamente, troppo affrettatamente spara. Per lunghe ore, questa ricostruzione - che non allevia la tragicità dell'insensata morte di Gabriele Sandri - non è saltata fuori. In un imbarazzato silenzio, è stata eclissata.

Chi doveva svelarla - la questura di Arezzo, il Viminale - ha taciuto e - tacendo - ha gonfiato l'attesa, la rabbia, la frustrazione delle migliaia di ultras che si preparavano a raggiungere in quelle ore gli stadi, sciogliendola poi con una cosmesi dei fatti che si è rivelata un abbaglio grossolano che, a sua volta, ne ha provocato un altro ancor più doloroso. E' stato detto che l'agente della polizia stradale è intervenuto per sedare una rissa tra i tifosi e, nel farlo, ha sparato in aria un colpo di pistola ("introvabile l'ogiva") che "accidentalmente", "forse per un rimbalzo", ha ucciso Sandri.

Consapevole che non di calcio si trattava, ma del tragico deficit professionale di un agente lungo un'autostrada, il Viminale non ha ritenuto di dover fermare le partite muovendo l'ennesimo passo falso di un'infelice domenica. Il racconto contraffatto è stato accreditato di ora in ora senza correzioni. Rilanciato e amplificato dalle dirette televisive, dalle radio degli ultras, dai blog delle tifoserie, ha acceso come una fiamma in quella polveriera che sono i rapporti tra le forze dell'ordine e l'area più violenta degli stadi, prima e soprattutto dopo la morte dell'ispettore Filippo Raciti a Catania.

L'illogica catena di errori, malintesi, confusione, silenzio e furbe manipolazioni - non degne di un governo trasparente, non coerenti con una polizia cristallina - ha trasformato la morte di Sandri in altro. L'ha declinata come morte "di calcio", morte "per il calcio". E' diventata una "chiamata" per l'orgoglio tribale degli "ultras" che, incapaci di esaurire la loro identità nell'appartenenza a una passione, a vivere il calcio come una buona, adrenalinica emozione, hanno soltanto bisogno di odiare, di posare a "guerrieri", di mimare la partita come protesta e come battaglia.

Hanno bisogno di dividere il mondo in "amico" e "nemico" e devono avere - tutti insieme, amici e nemici - come nemico assoluto "le guardie". Sono non più di settantamila in tutto il Paese e ieri, per la gran parte si sono presi, in un modo o in un altro, gli stadi. Li hanno "governati" o distrutti, come è accaduto a Bergamo, per bloccare le partite in segno di lutto come accadde dopo la morte di Filippo Raciti. Come se Raciti e Sandri fossero i "caduti" su fronti opposti di una allucinata "guerra", dichiarata tanto tempo fa e ancora in corso, domenica dopo domenica, scontro dopo scontro, carica dopo carica.

Questo disgraziato 11 novembre rischia di azzerare i discreti risultati raggiunti dentro gli stadi (meno eccitazione, risse e aggressioni sugli spalti; più autocontrollo e fair play in campo; maggiore rispetto per avversari e arbitri anche negli striscioni). Impone di affrontare l'imbarbarimento che oggi - sacralizzato e protetto lo stadio - ne impegna soprattutto i dintorni e, come si è visto anche ieri a Badia al Pino, le autostrade lungo le quali è assolutamente impossibile prevedere come e dove opposte tifoserie potranno incontrarsi, per uno sventurato caso.

Questa delirante "guerra" deve avere fine. Questo "terrorismo" domenicale deve sciogliersi. Non c'è bisogno di nuove leggi, di nuovi provvedimenti, di scorciatoie amministrative. E' sufficiente proteggere quei beni di interesse collettivo - la pubblica sicurezza e l'ordinata convivenza civile minacciate - che un recente decreto legge del governo riserva a difesa dei comportamenti dei cittadini non-italiani.

Forse non è sbagliato pensare a vietare del tutto le trasferte delle tifoserie, come già è stato episodicamente deciso. E' di tutta evidenza che bande di "guerrieri" che attraversano il Paese per sostenere in trasferta la propria squadra con la voglia matta di aggredire il "nemico" non sono gestibili da nessuna polizia del mondo, a meno di non militarizzare una volta la settimana autostrade, stazioni ferroviarie e piazze. E' un divieto che mortifica il Paese. E' una sconfitta utile a evitarne di peggiori. In questa sventurata domenica non c'è chi non abbia già perso. Gabriele Sandri ha perso la vita. Il Viminale la faccia. Il mondo del calcio, per una decina di migliaia di fanatici, ancora una volta la credibilità.


(12 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Operazione verità
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2007, 05:01:17 pm
CRONACA

IL COMMENTO

Operazione verità

di GIUSEPPE D'AVANZO


Nel bestiario italiano dei complotti, autentici o fasulli, fanno spesso capolino i ragni, i serpenti e le piovre più o meno gigantesche. La presenza in scena delle iene e degli sciacalli non è abituale, in verità. Evocati ora da Berlusconi, chi - nello scandalo delle collusioni Rai-Mediaset - ha la parte dei due tristi mammiferi? Iene e sciacalli hanno l'abitudine di cibarsi di carogne. Escluso che Berlusconi sia una carogna, come curiosamente lascia intendere una sua dichiarazione, si deve pensare - a voler stare ai fatti - che "la carogna" sia, debba essere la Rai.

E' intorno al servizio pubblico morente, infatti, che si aggiravano iene e sciacalli per divorarne le risorse, le potenzialità, l'efficienza, la missione, cioè il braccio, il cuore e l'anima. Conviene uscire dal bestiario. E' buono soltanto per alzare polveroni e mettere in moto il consueto processo di "vittimizzazione" utile al Cavaliere per liquidare la questione e parlare d'altro.

Non è la sola cortina fumogena che pretende di nascondere alla vista il focus dello scandalo. E' soltanto un diversivo manipolatorio, per dire di un'altra, discutere di intercettazioni. E' un rilievo del tutto fantasioso, una polemica ammuffita. Il presidente della Repubblica, pur non facendo esplicito riferimento al caso Rai-Mediaset, ha posto ieri la questione nei giusti termini: è bene che le intercettazioni restino nei faldoni dell'istruttoria, dove devono essere custodite, "almeno finché c'è il segreto istruttorio". E' quel che è accaduto. In quest'affare, non c'è più alcun segreto istruttorio. L'inchiesta è chiusa. Non ci saranno più atti investigativi. Tutte le fonti di prova sono state consegnate, lunedì scorso, ai collegi di difesa degli indagati che ne hanno preso visione.

Come non è persecutorio - altra cortina fumogena - che la procura di Milano abbia voluto, nel corso dell'inchiesta, sapere di più di Deborah Bergamini, direttore del marketing della Rai, già assistente personale di Silvio Berlusconi. Come scrivono i pubblici ministeri chiedendo al giudice l'autorizzazione all'ascolto, "Deborah Bergamini è un alto dirigente della Rai, amica di Luigi Crespi (l'indagato). E' a conoscenza delle vicende della società HDC spa (è la società dell'indagato) e in particolare dei rapporti intercorsi con Publitalia/Forza Italia come emerge da alcune telefonate intercorse tra lei e Crespi". Crespi è già intercettato, dunque. Ascoltandolo, si comprende che la Bergamini la sa lunga sull'oggetto dell'indagine.
Il pubblico ministero chiede che le intercettazioni si estendano alle sue telefonate. E' l'onesta e abituale prassi. Punto.

La terza cortina fumogena è la più buffa. Raccontare lo scandalo Rai-Mediaset, si dice, è stato soltanto una botta a freddo alle possibilità di dialogo sulla legge elettorale tra Veltroni e Berlusconi. Come se il sistema elettorale fosse all'incanto e lo si potesse barattare con il silenzio sul conflitto di interessi. Che il Cavaliere possa crederlo, non è una novità dai tempi della Bicamerale. Che nella trappola ci caschi Veltroni, nessuno in buona fede è autorizzato a pensarlo.

Bisogna lasciare da parte le manovre diversive che servono a "interrompere il fuoco" e andare al sodo. Più della metà degli italiani, secondo una ricerca della federazione degli editori, si informa in maniera esclusiva attraverso la televisione senza integrare le sue informazioni con altri media. La proporzione è peggiore della media degli altri paesi europei. Il primato della televisione come fonte primaria ed esclusiva d'informazione diventa assoluto e stupefacente durante le competizione elettorali. Il 77,3 per cento degli italiani vi si affida, mentre soltanto il 6,6 per cento si rivolge ai giornali (blog, on line e digitale non sono ancora in grado di "fare massa", per lo meno nelle ricerche demoscopiche).

Quindi, se in Italia controlli la televisione (e cinque telegiornali su sei) hai la possibilità di fare tre operazioni decisive. Scrutini il chi, il che cosa e il come. Comandi l'attenzione del pubblico (decidi non soltanto di che cosa si discute e già basterebbe, ma di che cosa non si discute). Hai il potere di definire i criteri che ne informano il giudizio (Non approfondisci mai alcun problema, lo proponi in modo sintetico e semplificato nella chiave "sei d'accordo o sei contrario", "sei ostile e favorevole": il contenuto non importa, conta solo con chi stai). Ma soprattutto chi controlla la televisione può "fare la lista", come spiega Giancarlo Bosetti nel suo "spin", può selezionare la classifica delle notizie del giorno, determinare che cosa andrà o non andrà nella prima parte dei telegiornali, di che cosa si occuperanno e come i talk show.

Lo scandalo non è che queste tre operazioni siano state nelle mani della squadra di un uomo solo, equamente disposti in Rai e in Mediaset. Questo lo si sapeva, come potenzialmente eravamo tutti consapevoli dell'esplosività di quel conflitto di interessi per la qualità della nostra democrazia. Lo scandalo è che quella "squadra", organizzata come una "struttura delta", ha concretamente disegnato giorno dopo giorno, a tavolino, una realtà italiana ingannevole e artefatta, eliminando le perturbazioni negative e le rogne del governo, deviando lo sguardo dell'opinione pubblica verso le mosse favorevoli o in apparenza favorevoli, ora sollecitando odio e risentimento ora creando e accompagnando emozioni sociali.

Ricordiamo tutti come la criminalità predatoria e l'insicurezza sociale, punte di lancia ossessive fino alla paranoia dell'informazione Mediaset alla vigilia delle elezioni del 2001, siano state con Berlusconi a Palazzo Chigi del tutto eliminate dall'informazione Rai-Mediaset, sostituite con i "pericoli concreti e imminenti" di un'inesistente minaccia terroristica islamica. Lo scandalo allora non sono né le intercettazioni né la violazione della privacy di alti dirigenti pubblici infedeli.

Lo scandalo è l'irrealtà in cui hanno vissuto gli italiani, privati della capacità di giudicare liberamente gli affari pubblici. Lo scandalo è un'informazione pubblica che ha mortificato la loro facoltà di ragionare; li ha trasformati a comando in confusi e raggirati "testimoni di nulla"; ne ha manipolato le percezioni; li ha resi incapaci di partecipare con consapevolezza a quella competizione tra élite per la conquista del potere politico che è la democrazia.

E' uno scandalo che innanzitutto impone di accertare i fatti e la verità. E' senza dubbio un dovere della dirigenza della Rai verificare chi ha fatto che cosa e nell'interesse di chi, nel rispetto delle garanzie delle persone, ma anche a protezione degli interessi degli utenti e della pubblica opinione, della credibilità dell'azienda, del mercato, della concorrenza, che ne escono sfigurate. Ma, a questo punto, non appare opportuno che l'inchiesta resti "interna" affidata soltanto a funzionari Rai. Si può davvero incaricare l'assai discusso "ufficio legale" di viale Mazzini dell'accertamento dei fatti? Si può fare affidamento soltanto sull'orgogliosa autonomia dell'"auditing" per venire a capo di metodi e responsabilità? Non è legittimo e più accorto pensare che quei dirigenti, quei funzionari possano essere condizionati (o anche soltanto apparire condizionati) dalla prudenza di chi sa che, prima o poi, ci potrà essere un cambio di stagione politica?

La verità è che nessuno in Rai oggi è in grado di dire fin dove si sono spinti gli accordi collusivi, forse nemmeno la direzione generale. Ben vengano le inchieste dell'Autorità garante della concorrenza e quella per le garanzie nelle comunicazioni, ma anche la Rai, per quest'operazione verità, spezzi subito il cerchio della sua autorefenzialità affidando a un comitato di saggi esterno (ex-presidenti dell'Authority, presidenti emeriti della Corte Costituzionale, per esempio) la rigorosa ricostruzione dei più infelici anni della sua storia.

(23 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Le agenzie del risentimento
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2007, 09:59:58 am
POLITICA

IL COMMENTO

Le agenzie del risentimento

di GIUSEPPE D'AVANZO


L'AFFAIRE Forleo non è un "caso giudiziario". Se lo fosse, se fosse stretto nel territorio della buona o cattiva amministrazione della giustizia, sarebbe poca e triste cosa. Da ricordare così. Un giudice finisce illuminato dall'attenzione dell'opinione pubblica mentre provvede alle richieste dei pubblici ministeri che scoprono i trucchi delle scalate Bpi/Antonveneta e Unipol/Bnl. L'improvvisa visibilità ne sollecita l'ambizione. Deve chiedere al Parlamento l'autorizzazione a utilizzare nel processo le telefonate tra banchieri e politici. Eccede con opinioni irrituali. Non le spetta ventilare ipotesi delittuose contro i parlamentari "quasi-imputati".

Per molti non è affar suo, ma cede alla tentazione per orgoglio e, forse, per vanità. Corretto con severità dal capo dello Stato, anche presidente del Consiglio superiore della magistratura, il giudice corre ai ripari per proteggersi da una probabile censura disciplinare.

Mal consigliata, segnala un complotto di "ambienti politico-giudiziari che la vogliono rovinare"; una manovra dei giornali che la fraintendono con intenzione; l'ostilità dell'associazione magistrati che la isola; il malanimo dei magistrati-blogger che la criticano; l'animosità della Camera che "stigmatizza" il suo lavoro; l'inimicizia dei magistrati di Brindisi che "le vogliono dare una lezione"; il livore aggressivo di carabinieri e poliziotti.

Il giudice conquista, in due occasioni, il talk-show di prima serata e rincara la dose. Denuncia di aver subito "interferenze e intimidazioni istituzionali". Diventa un'eroina. La si glorifica come l'icona di una magistratura che con coraggio difende l'autonomia e l'indipendenza da un potere politico minaccioso, pervasivo, forse assassino, "come nel film Le vite degli altri" dice il giudice in tv.

Alle prese con questa scena, il Consiglio superiore della magistratura interviene - che deve fare? - per dare un nome ai congiurati che accerchiano la toga e - sorpresa e imbarazzo - il complotto si sgonfia come un soufflé malfatto. I testimoni offerti dal giudice negano il suo racconto, correggono i suoi ricordi, la smentiscono. Il Csm conclude, sconsolato, che "le interferenze e le intimidazioni istituzionali non trovano alcun riscontro": la cospirazione è immaginaria, l'allarme immotivato. Il trasferimento del giudice per "incompatibilità ambientale e funzionale" è la dignitosa via d'uscita per chiudere una dolorosa vicenda fatta di scelte impudenti in attesa che la procura di Brescia metta ordine alle accuse del giudice e alle testimonianze contraddittorie dei suoi confidenti.

Se fosse un "caso giudiziario", l'affaire Forleo sarebbe allora malinconico. Ma non è soltanto un desolante "caso giudiziario", se ci chiede: come ha potuto prendere corpo fino ad oscurare i nodi irrisolti delle scalate del 2005? Come ha potuto, al di là di ogni evidenza, attrarre per settimane l'interesse di un'opinione pubblica sempre più smarrita, incupita, irata per quel che le si andava raccontando?

Come si è potuto credere e lasciar credere (il giudice ancora oggi lo ripete con sfrontatezza) che "così l'inchiesta Antonveneta/Unipol è finita"? Al cuore dell'affaire, sembra di cogliere non solo la spensieratezza di un giudice ambizioso (è l'occasione, questa), ma il sorprendente esito di uno stato di sregolatezza, di anomia (assenza della legge, della regola, dell'ordine) che pare governare le cose italiane dove "le passioni sono meno disciplinate proprio quando sarebbero bisognose di maggior disciplina".

L'affaire Forleo, più di altri, ci mostra come, nel discorso pubblico, nei pubblici comportamenti, "non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è; ciò che è giusto e ciò che è ingiusto; quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime; quali quelle che passano la misura. E così non v'è nulla che non si pretenda..." (Emile Durkheim).

Si vede in azione, tra le quinte, una spinta disgregante che scredita e delegittima, al di là di ogni concreta ragionevolezza, gli assetti istituzionali come se un diffuso risentimento per una società ingiusta, fragile, impaurita del presente, insicura del futuro non chiedesse altro che un'occasione - quale che sia, quale che sia la sua attendibilità o verosimiglianza - per scatenare la sua rabbia, esplodere il suo rancore contro quelle istituzioni, quello Stato, quel ceto dirigente che non garantiscono e rassicurano le aspettative di ognuno.

Lungo questi Itinerari del rancore (è il titolo di un libro, curato da Renato Rizzi per Bollati, che può spiegare al meglio l'autentica natura di questo bizzarro "caso") si intravedono al lavoro delle vere e proprie "agenzie del risentimento". Vi collaborano, alla luce del sole, cattiva politica e cattiva informazione. Nella piccola folla si scorgono i volti di Antonio Di Pietro, Beppe Grillo, Michele Santoro, Enrico Mentana, per fare qualche nome e lasciare in un canto i soliti noti del centrodestra.

Hanno sotto gli occhi per intero il canovaccio. Devono manipolarlo per renderlo verosimile ed eccitare passioni e collera. Il giudice, e non il pubblico ministero, diventa il titolare esclusivo e indispensabile dell'inchiesta, il garante della sua efficacia. Ha clamorosamente sbagliato indirizzo nello spedire la richiesta di usare i colloqui telefonici (per D'Alema, è il parlamento europeo e non nazionale). Si glissa. Di quell'autorizzazione, dopo una sentenza della Corte costituzionale depositata il 23 novembre, non c'è più nemmeno bisogno. Lo si dimentica.

Bisogna enfatizzare la figura eroica del giudice, ravvivare la furia e lo sdegno che attraversò l'Italia di Tangentopoli, come se il Paese di oggi avesse gli stessi problemi di ieri. Il cattivo giornalismo paragona allora quel giudice ai Davigo, Colombo e Boccassini che trascorrevano le loro giornate nella procura di Brescia dimenticando che quei pubblici ministeri erano stati trascinati in quell'ufficio dalle denunce di Berlusconi e Previti mentre il nostro giudice è in quella procura per denunciare - lei - altre toghe.

Non può bastare, però. L'enfasi deve essere iperbolica a dispetto dei fatti. "Dopo aver preso scelte scomode, mi sono ritrovata a non avere i soliti inviti" si lamenta il giudice e, privato del convivio serale, quella solitudine diventa simile all'abbandono che uccise Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come se questa messinscena potesse essere paragonata alle tragedie siciliane (la farsa si consuma alla presenza di un silente procuratore di Palermo, forse a disagio, forse no).

La denuncia di complotto smuove il Consiglio superiore della magistratura che, presto, si accorge dell'inganno. Per la cattiva informazione, ha fatto troppo in fretta (doveva forse attendere? e che cosa?): il Csm teme che il giudice "dica la sua". Come se non avesse detto "la sua" fino ad oggi, come se domani non avrà ancora l'opportunità di farlo, se vuole.

Si potrebbe continuare nel lungo rosario di ciniche mosse che ha costruito questo teatro di cartapesta che lascia tutti sconfitti e screditati, la politica, la magistratura, lo Stato, l'informazione. Tutti, tranne le "agenzie del risentimento" che presto, abbandonato al suo destino il povero giudice, troveranno altri fuochi venefici per alimentare i miasmi che frantumano i legami sociali, lacerano le istituzioni, confondono un'opinione pubblica alla ricerca delle ragioni della sua insoddisfazione.


(5 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - La Gdf perquisisce casa di D'Avanzo
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2007, 04:05:34 pm
POLITICA

L'inchiesta della Procura di Napoli sulla fuga di notizie

Il dg della Rai Cappon: "Aperta inchiesta su Saccà"

La Gdf perquisisce casa di D'Avanzo

Csm, 18 membri chiedono intervento


ROMA - La Guardia di Finanza ha effettuato una perquisizione nell'abitazione del giornalista di "Repubblica" Giuseppe D'Avanzo.

Ieri in un articolo il nostro collega ha anticipato la notizia di un'indagine aperta dalla procura di Napoli su Silvio Berlusconi. La perquisizione fa seguito all'apertura di un'indagine per fuga di notizie da parte della procura campana.

La vicenda arriva al Csm. I laici del centrosinistra e quasi tutti togati del Csm (ad eccezione di Antonio Patrono e Cosimo Ferri di Magistratura Indipendente) hanno chiesto "un intervento consiliare a tutela di magistrati coinvolti e dell'indipendente esercizio della giurisdizione", alla luce delle dichiarazioni di diversi esponenti politici, tra cui lo stesso Silvio Berlusconi.

Nel documento firmato da 18 membri si cita una frase del Cavaliere, che ha parlato di ''armata rossa delle toghe'' che si e' rimessa in movimento. Come pure si cita la dichiarazione del portavoce di Forza Italia, Paolo Bonaiuti, che ha paragonato l'iniziativa giudiziaria ''al Cile del generale Pinochet''.

''A prescindere da ogni valutazione e considerazione sul merito del procedimento in questione, che non competono al Csm - scrivono i 18 consiglieri - e sull'impropria divulgazione sulla stampa del contenuto di atti d'indagine, e' evidente il carattere gravemente destabilizzante delle aggressioni verbali e dell'attivita' di delegittimazione preventiva''.

Per questo vi e' la ''conseguente necessita' di un intervento consiliare a tutela dei magistrati coinvolti e dell'indipendente esercizio della giurisdizione''. I consiglieri chiedono che alla pratica sia data una procedura d'urgenza.

Verso sospensione di Saccà. La Rai ha già avviato un'indagine, lo conferma il direttore generale Cappon. "Stamattina abbiamo compiuto alcuni passi procedurali, anche a garanzia dei singoli. Tutto è possibile, nulla è escluso, i tempi saranno abbastanza rapidi".

(13 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Inchiesta Berlusconi "Saccà va sospeso"
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2007, 04:09:05 pm
POLITICA

Possibile un invio degli atti sulle intercettazioni ai presidenti di Camera e Senato

La telefonata al produttore di Incantesimo: "Prendi la Russo, ti fai un alleato"

Inchiesta Berlusconi "Saccà va sospeso"

L'ex premier: "Solleva il morale del Capo"

GIUSEPPE D'AVANZO

 
A meno di ripensamenti, la procura di Napoli chiederà, al più tardi la prossima settimana, una misura cautelare interdittiva - la sospensione dall'incarico - per Agostino Saccà. Prima della decisione, il presidente di RaiFiction sarà interrogato dal giudice per le indagini preliminari. Gli sarà contestata l'ipotesi della corruzione e gli elementi di prova raccolti. Gli saranno svelate le fonti.

Saccà avrà l'occasione (in un primo interrogatorio si è avvalso, per la gran parte, della facoltà di non rispondere) per mettere ordine ai suoi comportamenti; dare un senso alle conversazioni telefoniche intercettate; spiegare la non-contraddittorietà tra i suoi doveri di "incaricato di pubblico servizio" e il suo personale, privatissimo proposito di lasciare la Rai per farsi imprenditore di se stesso: creatore della "Città della Fiction" di Lamezia; architetto di "Pegasus", un nascente consorzio di piccoli produttori televisivi progettato da Luca Cordero di Montezemolo che ne era stato sollecitato da alcuni imprenditori indiani.

E' in questa divaricazione o conflitto di interessi che i pubblici ministeri avvistano una mossa illegittima, scorretta, sleale. Qualcosa che non va, e non solo dal punto di vista etico. Come presidente di RaiFiction, nelle iniziative "private" che andava preparando a cavallo dell'estate, Saccà coinvolge le aziende - i tedeschi della Bavaria, gli americani della Hbo - da cui il servizio pubblico acquista format e film televisivi. Spesso gli interlocutori nemmeno sembrano comprendere che non stanno trattando ufficialmente con la Rai, ma con un neo-imprenditore che può vantare il sostegno del governatore della Calabria, Agazio Loiero, e l'appoggio del "Capo" di Mediaset e dell'opposizione politica.

Accade così che la Bavaria durante un viaggio in Calabria - nella delegazione il numero uno della holding tedesca Matthias Esche, l'altro amministratore delegato Dieter Frank in rappresentanza di una holding che fattura 300 milioni di euro all'anno e collabora con Rai da quarant'anni (Pinocchio, Sandokan, Berlin Alexanderplatz) - ammette di puntare per la "Città della Fiction" su Lamezia perché offre due vantaggi non trascurabili: "la possibilità di avere un quarto dell'investimento finanziato dalla Regione con fondi dell'Unione europea e la partecipazione della Rai". Saccà lo lascia credere: "L'obiettivo della Rai è di star dentro l'operazione anche se con una piccola quota" (luglio 2007).

Non è vero, ma lo ammetterà soltanto quando vi sarà costretto ("La Rai non c'entra", settembre 2007). E' un equivoco in cui cade anche Jhon Dellaverson, un avvocato che giunge in rappresentanza della Hbo a luglio in Calabria per annunciare l'arrivo in settembre del presidente e amministratore delegato della società Chris Albrecht.

In quell'estate il telefono di Agostino Saccà è molto caldo. L'alto dirigente della Rai con il consigliere d'amministrazione Giuliano Urbani valuta la possibilità di mettere insieme, per il consorzio di produzione "Pegasus", una cordata alternativa a quella inizialmente immaginata dall'amministratore delegato di Intesa, Corrado Passera, e dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che non sembra troppo gradire l'idea di Saccà di inserire nella compagine - Montezemolo la giudica "un'anomalia" - "un uomo di Berlusconi".

La cordata alternativa, vagheggiata da Saccà, dovrebbe avere "il punto di coagulo" proprio in Giuliano Urbani e far leva su un gruppo di industriali bresciani organizzati dall'onorevole Riccardo Conti (ex-Udc, oggi nel gruppo Misto) e sulla vicentina Palladio Finanziaria (private equity) di Roberto Meneguzzo. L'ambizione non è soltanto di rendere più competitive le produzioni televisive dei piccoli produttori nazionali, ma di proporre un'intera gamma di offerta tv. Agostino Saccà, al telefono, lascia intendere che si potrebbe pensare anche all'acquisizione della "Ballandi Entertainment", la società che concepisce e produce gli spettacoli più visti e costosi di RaiUno (Ballando con le stelle, Fiorello, Morandi, Panariello, Celentano, il Festival di Sanremo).
Un programma così ambizioso ha bisogno di un sponsor politico, di un sostegno imprenditoriale, di un committente sicuro per lo meno in fase di avvio.

E' alla luce di questa necessità del Saccà "imprenditore" che i pubblici ministeri interpretano alcuni colloqui del presidente di RaiFiction con Giuliano Urbani e Silvio Berlusconi. Nei primi, il consigliere d'amministrazione della Rai e l'alto dirigente convengono che bisogna inserire "un uomo di Berlusconi". In una telefonata, sembra di capire che quest'uomo possa essere Claudio Sposito, che in passato è stato amministratore delegato della Fininvest spa.

Il Cavaliere sostiene che, negli abituali dialoghi con Saccà (un amico), egli si sia limitato soltanto a delle "segnalazioni". Le parole non mutano il segno delle circostanze. Berlusconi chiama Saccà e gli chiede di ingaggiare quattro attrici, Elena Russo, Evelina Manna, Antonella Troise, Camilla Ferranti. Per piacer suo e per soddisfare le richieste di un senatore del centro-sinistra che potrebbe passare con l'opposizione condannando il governo. Quel che conta per gli inquirenti, a quanto si capisce, è che cosa promette il Cavaliere alla termine della telefonata: saprò ricompensarla quando lei sarà un libero imprenditore come mi auguro avvenga presto... Interessante è la reazione del presidente di RaiFiction.

Le "segnalazioni" del Cavaliere devono apparirgli un impegno improrogabile. Chiama subito il produttore di Incantesimo, Guido De Angelis.
Il tono è perentorio: "... Per quel ruolo hai già ingaggiato qualcuno?".
Il produttore risponde: "Sì, Sonia Aquino".
Saccà lo interrompe subito: "Levala di mezzo e prendi Elena Russo. Così ci facciamo un grande alleato...". E Incantesimo ha bisogno di "grandi alleati" perché costa troppo e non ha l'audience che ci si aspetta. Saccà cela il suo interesse personale capovolgendolo come convenienza del produttore.

Il meccanismo delle "segnalazioni", a quanto appare agli inquirenti, ha anche un controllo e un controllore. Dopo le richieste di Berlusconi, sarebbe il condirettore di "Sorrisi e Canzoni Tv", Rosanna Mani, a seguire l'inserimento delle attrici "segnalate" dal Cavaliere. La giornalista chiama Saccà con accenti che possono apparire perentori. Prende nota delle sue mosse, dei contatti che ha avviato, dei provini che ha individuato il dirigente Rai. Controlla con i produttori che l'uomo di RaiFiction non le abbia mentito o enfatizzato il suo impegno. Riferisce.

Ora, c'è da chiedersi se è ragionevole o plausibile configurare il reato di corruzione per le condotte di Saccà e di corruttore per Berlusconi. Come si comporta Saccà? Ascolta le richieste del "Capo" (così Berlusconi si definisce nelle telefonate intercettate: "Devi sollevare il morale del Capo"). Si dà da fare subito. Sostituendo qualche nome dove è possibile, aggiungendo un ingaggio quando possibile non è. Per fare un esempio. In Incantesimo, Sonia Aquino salva il contratto di protagonista, ma De Angelis (il produttore della fiction) rimette mano alla sceneggiatura per creare un nuovo personaggio che viene poi assegnato a Camilla Ferranti (figliola di un medico molto vicino a Berlusconi).

Se il pubblico ufficiale compie un atto contrario ai doveri d'ufficio ricevendone un'utilità o accettandone la promessa, il codice penale parla di corruzione. E' quel che - si può sostenere - accade a Saccà. Deve farsi imprenditore. Ha bisogno di un aiuto, di un sostegno. Berlusconi lo sa, d'altronde ne hanno parlato. Gli promette il suo puntello tanto più essenziale perché è "uno del ramo", un possibile, prioritario committente sia della "Città della Fiction" che di "Pegasus". Saccà prende per buono l'impegno del Cavaliere, ne accetta la promessa e muove le cose per esaudire le richieste del suo sponsor torcendo a un interesse privatissimo il suo ruolo di "incaricato di pubblico servizio".

Come tutti gli argomenti giuridici, naturalmente, non è onnipotente, ma sarà la verifica del giudice per le indagini preliminari a darne un primo scrutinio.
Non è comunque l'ipotesi di corruzione - e di istigazione alla corruzione per il tentativo di comprare il voto del senatore Nino Randazzo - il punto debole di questa inchiesta napoletana. Il suo vero deficit è la competenza territoriale. La Rai è a Roma. Saccà è a Roma come Berlusconi. I due si incontrano e discutono al telefono nella Capitale. Il reato ipotizzato si consuma all'interno dell'azienda del servizio pubblico. Che c'entra Napoli? E' ragionevole pensare che presto le carte di questa indagine migreranno verso la procura di Roma.

L'inchiesta sarà di fatto conclusa con l'interrogatorio del presidente di RaiFiction che deciderà dinanzi al giudice la sua sospensione dall'incarico. Esaurita questa fase, i pubblici ministeri si spoglieranno della competenza. Non è escluso tuttavia che il procuratore Giandomenico Lepore possa decidere di inviare ai presidenti di Camera e Senato il resoconto delle intercettazioni dei parlamentari che, pur non contenendo alcun rilievo penale, è giusto che siano sottoposti - per lealtà istituzionale - all'attenzione delle Camere.

(13 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Il Grande Fratello
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2007, 04:58:59 pm
POLITICA

IL COMMENTO

Il Grande Fratello

di GIUSEPPE D'AVANZO


LE BIZZARRIE d'Italia ci hanno abituato a molto, e di più. Alla stupefacente scena mancava il Berlusconi che denuncia la minaccia di un Grande Fratello così pericolosa da rendere necessario l'allarme per una "un'emergenza nazionale". Al Cavaliere l'interpretazione spericolata della Vittima Unica riesce in modo memorabile. È un grande comunicatore, si sa.

Lo accompagna una claque assordante di turiferi e flabellieri che eccepiscono, protestano, ringhiano a comando e cronacanti di attenzione cerimoniosa che hanno la generosa tendenza a nascondere o minimizzare ciò che accade a vantaggio di ciò che si dice (e naturalmente non c'è limite a quel che si può legittimamente dire, se non si tiene conto dei fatti). Quando la necessità lo impone, il lavoro incrociato di questa orchestra con coro, al servizio della Vittima Unica, produce un catalogo di verità rovesciate che confonde l'opinione pubblica; istupidisce gli avversari politici; lascia senza bussola anche gli osservatori più attenti e avvertiti.

C'è forse un Grande Fratello come va dicendo il Cavaliere, dunque? E se c'è, dov'è? Una memoria appena mediocre aiuta a venire a capo del quesito. Nei cinque anni del governo di Silvio Berlusconi, è nato all'ombra di Palazzo Chigi un intreccio spionistico illegale e clandestino che ha associato l'intelligence politico-militare di Nicolò Pollari, l'ufficio Informazioni della Guardia di Finanza del generale Roberto Speciale, la Security di Giuliano Tavaroli e alcune società di investigazioni private, pagate dagli azionisti della Telecom-Pirelli di Marco Tronchetti Provera.

Questa cosa, che non si sa nemmeno come definire, ha spiato senza alcun controllo gli avversari politici del governo del Cavaliere, imprenditori, finanzieri, banchieri, magistrati, editori, giornali e giornalisti. Ha raccolto illegalmente migliaia di fascicoli con informazioni riservate violando al di là di ogni legge la privacy dei poveri malcapitati.

Ha progettato operazioni per "neutralizzare e disarticolare anche con azioni traumatiche" tutti coloro che erano - a torto o a ragione - "potenzialmente in grado di "creare problemi" all'attività dell'esecutivo di centrodestra". Ha ingaggiato contro la legge giornalisti spioni per affidare loro il pedinamento di qualche pubblico ministero che pericolosamente si stava avvicinando ai pasticci organizzati da Palazzo Chigi nella fantasmagorica "guerra al terrore" all'italiana.

Per non parlare di Telekom Serbia, Mitrokhin e i falsi dossier contro Prodi. Alla luce di tutto quel che è accaduto nella scorsa legislatura, se si deve parlare di Grande Fratello, si può sostenere documenti alla mano che, è vero, il Grande Fratello ha fatto capolino in Italia negli anni in cui il Cavaliere governava il Paese.

Quel che è accaduto nel passato può, però, non aiutarci a capire l'oggi. C'è un Grande Fratello al lavoro in questi giorni? Un Grande Fratello uguale a quello della scorsa legislatura, ma contrario nei suoi obiettivi visto che ha nel mirino il povero Berlusconi? È frutto di quel lavoro storto l'inchiesta sulla corruzione dei dirigenti Rai e nel mercato della politica? Anche se l'orchestra con coro, al servizio della Vittima Unica, lo dimentica, l'istruttoria di Napoli ha il vantaggio di essere "formalizzata" dal codice di procedura penale.

Può essere ricostruita negli atti e nelle decisioni, quando diventerà pubblica. Ci potranno lavorare gli avvocati delle difese, gli ispettori del ministero di Giustizia, il consiglio superiore della magistratura, le giunte parlamentari qualora dovessero essere chiamate ad autorizzare l'uso processuale di fonti di prova che coinvolgono eletti del popolo. Se qualcuno ha sbagliato, sarà punito. Nulla a che fare, per farla breve, con il lavoro sporco della cosa nata durante il governo Berlusconi, che spiava illegalmente - dunque, al di là di ogni formalità - e riferiva non si sa bene a chi e in quale Palazzo del Potere.

E comunque non si può ridurre ogni controverso evento pubblico ad affare giudiziario, a meno di non voler davvero assegnare alla magistratura la custodia della salute pubblica. Anche una testa fina come Massimo Cacciari sembra non comprenderlo. Questa storia appare al filosofo soltanto "una cafonata", per di più una volgarità che "piace agli italiani", e allora che dobbiamo farci?

La stravagante furia inconoclastica del sindaco di Venezia dimentica una questione essenziale: che cosa sanno gli italiani del Cavaliere? È lecito o addirittura doveroso per l'informazione raccontare agli italiani qualcosa di Berlusconi? Se non conoscono Berlusconi, quella passione degli italiani la si può giudicare autentica, genuina, consapevole?

Noi pensiamo che la libertà di stampa debba avere la responsabilità di rendere informato chi vota e decide pubblicando notizie di interesse pubblico, anche coperte da segreto, perché la stampa serve i governati non i governanti. Le notizie pubblicate da Repubblica possono essere utili a comprendere meglio la realtà italiana e i comportamenti di un suo decisivo attore.

Non spinge la sua curiosità nella privacy di Berlusconi. Dà conto di due questioni pubbliche. Berlusconi, tycoon televisivo, promette di ricompensare a tempo debito un alto dirigente della Rai pubblica. Come pensava di ricompensarlo? E lo avrebbe ricompensato soltanto per l'ingaggio di qualche attrice o questa promessa poteva, se necessario, ampliarsi e deformare in chiave privata altre decisioni pubbliche del dirigente Rai?

Berlusconi, leader dell'opposizione, incontra un senatore della maggioranza per convincerlo a votare contro il governo che egli sostiene. Gli dice che l'accordo potrebbe essere "garantito" da "un contratto". Gli ripete che "il contratto è pronto e (il senatore) deve solo passare a firmarlo". Di quale "contratto" si tratta? Che cosa prevedeva il "contratto" approntato? Queste mosse - contratti, promesse di ricompense - non appaiono soltanto sconvenienti o "volgari". Sono iniziative che meritano dal protagonista un chiarimento e non il petulante piagnisteo da Vittima Unica che si nasconde nella nebbia di un grottesco complotto contro le riforme. Noi pensiamo che, al di là di quel potrà e non potrà accertare la magistratura, le due questioni meritino da oggi una spiegazione pubblica. Anche nell'interesse di chi vuole votare consapevolmente Silvio Berlusconi.


(14 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - La trappola del generale
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2007, 04:41:19 pm
POLITICA

La trappola del generale

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - Il generale confonde le acque: "L'attuale comandante della Guardia di Finanza, decade: io sono stato reintegrato automaticamente". Se si vuole comprendere per bene chi è il generale Roberto Speciale, quale spirito istituzionale lo anima, come intende il servizio allo Stato e alla Costituzione, bisogna soltanto ascoltarlo.

Sono le sue parole che ce lo raccontano. La sua arrogante noncuranza per leggi, l'indifferenza per una corretta lealtà istituzionale lo rappresentano meglio di qualsiasi giudizio o sentenza. Il tribunale amministrativo del Lazio accoglie il ricorso del generale. Il governo ha molto pasticciato nel sostituirlo. Non ha più nessuna fiducia in quell'ufficiale eppure, per liberarsene, lo propone per la Corte dei Conti. Primo errore.

Poi, l'Esecutivo ci ripensa. Speciale l'ha fatta troppo grossa per ottenere un qualsiasi altro incarico di prestigio e senza "una corretta e precisa motivazione" sostiene il Tar - quindi, non secondo "procedure acconce" - Speciale viene sostituito. Il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa rende pubblica dinanzi alle Camere la necessità di allontanare un ufficiale sleale e inidoneo. Nomina il suo successore, senza revocarne l'incarico. Secondo errore.

E' uno sgorbio, "un eccesso di potere" per la magistratura amministrativa. Quest'esito permetterà forse a Roberto Speciale, come dice, di presentarsi lunedì al comando generale della Guardia di Finanza? Naturalmente, no. Lo spiegano con apprezzabile equilibrio, onesta serenità proprio gli avvocati del generale. "Speciale dovrebbe essere reintegrato nei ruoli dell'amministrazione militare di provenienza, ovvero l'Esercito, e lui ormai come ufficiale delle Forze Armate è in pensione". E poi, il comando della Guardia di Finanza è "un incarico fiduciario" nella esclusiva disponibilità dell'Esecutivo e non ancora della magistratura amministrativa.

Roberto Speciale non rimetterà mai più piede alla Guardia di Finanza. Lo sa, e nonostante lo sappia, finge di non saperlo per trasformare un affare amministrativo, affrontato dal governo con uno sconcertante dilettantismo, in un conflitto istituzionale, in "caso politico". Dimentico della spensieratezza con cui ha dissipato, a piacer suo, beni pubblici (è sotto inchiesta), Roberto Speciale avvelena la comprensione della sentenza del Tar, la inquina confermando quel che è una costante dei suoi comportamenti: egli, con ostinazione, nega al governo del centrosinistra - come ha fatto durante il tempo del suo comando e contrariamente a quanto gli è capitato di fare nella legislatura del centrodestra - le prerogative proprie dell'Esecutivo. Non le riconosce. Le contesta alla radice con un'interpretazione tutta politica che si può dire "eversiva" del suo ruolo e della sua funzione.

Nelle mosse di Speciale contro il governo ci sono soltanto ragioni politiche. La "schiena diritta del soldato" è enfasi di facciata, buona per gli ingenui. Politico è lo scontro che il generale ingaggia con il viceministro dell'Economia Vincenzo Visco, fin da primo giorno dell'insediamento del governo. Visco ritorna al ministero dove fu già ministro delle Finanze con la missione di riportare nelle casse dello Stato parte dei miliardi evasi al fisco. Conosce la dedizione della Guardia di Finanza, ma è consapevole che esistono aree di complicità con i poteri politici, economici e finanziari.

Chiede informazioni, vuole saperne di più. Gli viene detto, anche autorevolmente, che a Milano si è creata un'incrostazione che sembra far capo agli ufficiali che Giulio Tremonti, ministro dell'Economia del governo Berlusconi, ha scelto, indicato e promosso con il consenso del disponibile e "sempre sugli attenti" Roberto Speciale ("E' un intreccio, sempre gli stessi, sempre negli stessi luoghi, sempre a contatto con gli stessi interessi"). Chiede che il comandante vi ponga rimedio sostituendoli, "senza danneggiarne la carriera" e "senza indicarne i successori". Se avesse voluto punirli per l'inchiesta Unipol, come poi dirà Speciale, li avrebbe danneggiati. Se avesse voluto controllare l'indagine, come insinua il generale sostenuto dal coro di centrodestra, avrebbe scelto per la bisogna ufficiali affidabili e fedeli. Li lascia invece scegliere al comandante. Visco s'inganna ad affidarsi, in quest'operazione di risanamento, a un gruppo che ritiene più attendibile sottovalutando che il gruppo uscente gli avrebbe teso un "trappolone". Speciale lo prepara con cura. Provoca il viceministro. Visco reagisce. E il generale lo attende al varco. Si procura testimoni (suoi collaboratori e subordinati); prende nota di ogni parola; annota ogni telefonata fino a quando non fa scattare il trabocchetto. Denuncia addirittura il viceministro alla procura di Roma, che chiederà l'archiviazione.

L'errore del governo in quel conflitto fu di non rendere esplicite le ragioni dell'insoddisfazione per il comando di Speciale, di non fare della trasparenza di un'istituzione essenziale come la Guardia di Finanza una questione pubblica. Si può intuire che quella scelta sia stata il frutto di una sensibilità istituzionale. Il governo ha voluto risparmiare alla Finanza e agli apparati dello Stato uno strappo. Fu sottovalutato in quell'occasione il ruolo distruttivo e "politico" che, al di là di ogni lealtà istituzionale, il generale si è attribuito o gli è stato attribuito.

Lo stesso ingenuo errore è stato commesso quando finalmente è apparso chiaro che Roberto Speciale andava sostituito. Invece, di rendere pubbliche fin da subito le sue gravi condotte, si è cercato con il generale il compromesso, la buonuscita di prestigio alla Corte dei Conti, senza comprendere che la trattativa per Speciale era soltanto l'occasione per un nuovo "trappolone". Che puntualmente è scattato, complice l'approssimazione dello staff di Padoa-Schioppa. In questa storia, non si sa se trovare più sorprendente il dilettantismo amministrativo del governo o la cieca timidezza che impedisce all'Esecutivo di scorgere - e affrontare con la necessaria energia - avversari politici e scorretti servitori dello Stato.

(16 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Gravina, la giustizia smarrita
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2008, 10:53:30 pm
CRONACA

IL COMMENTO

Gravina, la giustizia smarrita

di GIUSEPPE D'AVANZO


FILIPPO Pappalardi torna a casa, ma in stato di arresto e attenderà, in stato di arresto, che l'indagine per la morte di Francesco e Salvatore, i suoi figli, trovi una ragionevolezza smarrita. Anche in quest'ultima mossa, soltanto apparentemente più lieve, le decisioni della magistratura appaiono incongrue, incomprensibili. Si dice: non è stato il padre a uccidere i due ragazzi. Non c'è alcun indizio per poter sostenere che abbia voluto cagionarne la morte.

L'accusa nei suoi confronti deve essere corretta: Filippo Pappalardi non è l'assassino, anche perché non c'è stato alcun assassinio. Deve rispondere di non avere avuto cura dei suoi ragazzi, di averli abbandonati al pericolo quella sera del 5 giugno del 2006 (minorenni, non potevano provvedere a loro stessi) e di averne così provocato la morte con l'accidentale caduta nel pozzo-cisterna. È un reato che abitualmente si contesta alla madre che abbandona il neonato all'angolo di una strada; agli infermieri che si allontanano - tutti - da una casa di cura che ospita anziani e inabili.

Sarà l'inchiesta ora a definire la fondatezza di questa nuova accusa. Sorprende che Pappalardi - dopo avere perso i suoi figli, dopo essere stato accusato di omicidio - debba attenderne l'esito in stato di arresto.

Era proprio necessario, era proprio "dovuto"? Ci sono tre condizioni per disporre una "custodia cautelare". La reiterazione del reato. Il pericolo di fuga. L'inquinamento delle prove. Nessuna di queste condizioni fa capolino nell'affare. Pappalardi non può più abbandonare i suoi figli che sono morti. Non può danneggiare un'inchiesta già con larghezza compromessa da errori, passi falsi, incertezze investigative. Non è fuggito finora. Non fuggirà oggi.

E allora perché Pappalardi resta agli arresti? Per "l'estrema negatività della sua personalità". Non ha mostrato mai "senso di colpa", scrive il giudice. I suoi comportamenti sono "ripugnanti". "Al di là della gravità del fatto", quel tipo lì - che non piange i figli, non si dispera in pubblico per la loro sorte; che non si mortifica per un matrimonio andato a male; che manda al diavolo il codazzo delle telecamere e, durante gli interrogatori, anche i giudici - è "socialmente pericoloso" e merita di starsene agli arresti in casa.

Non c'è dubbio che Filippo Pappalardi abbia una faccia che può non piacere. È violento, arrogante. È un "padre padrone", prepotente e manesco. Ma la fisiognomica e comportamenti primitivi non possono essere condizione sufficiente per tenere agli arresti un padre "sbagliato" che ha perso due figli, è stato accusato senza alcuna prova di essere l'assassino, è stato incarcerato, innocente.

Negli affari giudiziari bisogna diffidare di chi mena fendenti forsennati nella convinzione di avere tra le dita la corda della verità. Ma in questo affare di Gravina c'è di più e di peggio. C'è la sgradevole sensazione di trovarsi alle prese con una magistratura che, indispettita dai suoi errori, non riesce a correggere se stessa. Anzi non accetta di vedere censurate le sue decisioni e pretende - in ogni caso - un castigo anche a costo di ritorsioni contro il malcapitato che ha davanti. Una ritorsione, ecco che cosa sembra la decisione del giudice.

Sono decenni che il processo italiano è in crisi di efficienza, di risultati e di credibilità, un ordigno maligno che sanziona prima dell'accertamento e, quando accerta le responsabilità, non riesce a punirle. In questa scena così critica - di cui la magistratura è corresponsabile ma inabilitata a riformare - la responsabilità delle toghe dovrebbe essere raddoppiata e non attenuata, soprattutto a fronte degli errori commessi.

Quando questo non accade, le toghe dimenticano che possono sperperare giorno dopo giorno il loro prestigio dinanzi a un'opinione pubblica che non ne comprende gli orientamenti; non ne apprezza l'ostinazione; non capisce le sue decisioni, contrarie soprattutto al senso comune. Sono queste le condizioni, sostengono gli studiosi che hanno le loro radici nelle scienze sociali e nella scienza politica, che mettono in movimento contrappesi tecnici, istituzionali, politici.

Gli ultimi sono naturalmente i più importanti. Prevedono che venga aumentato il numero dei giudici; che si riformi la procedura; che si abolisca un tribunale; che si modifichi la giurisdizione; che si diminuiscano le risorse assegnate al sistema giudiziario; che si emendi la Costituzione. Sono i contrappesi politici alla fine a potenziare i contrappesi tecnici perché sono utili a incentivare nei giudici un atteggiamento di autolimitazione (self-restraint); sono in grado di essere un buon deterrente alla manipolazione delle norme.

Alla vigilia di una nuova stagione politica, la magistratura dovrebbe ricordare che non può reggere, all'infinito, un conflitto con le opinioni diffuse e condivise. Pena, perdere ogni credibilità. È quel che già è affiorato nelle ultime legislature. Un'opinione pubblica stanca, diffidente, sospettosa della consorteria togata ha "autorizzato" la politica a individuare contrappesi. La Bicamerale era questa cosa qui. È stato il varco politico e istituzionale dentro il quale si è mosso poi il contro-riformismo del centro-destra, di Berlusconi, dei suoi avvocati.

Ci si augura che, nel prossimo Parlamento, non si debba ancora assistere al conflitto infinito tra le toghe e la politica. Anche i magistrati dovrebbero capirlo ed evitarlo. Soltanto applicando la legge con equilibrio e saggezza. Come a Gravina, purtroppo, non è accaduto.


(12 marzo 2008)


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO segreti di Pollari su Abu Omar e la strana slealtà del governo
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2008, 05:41:46 pm
CRONACA L'ANALISI

I segreti di Pollari su Abu Omar e la strana slealtà del governo

di GIUSEPPE D'AVANZO


LA PROCURA di Milano, governata da Manlio Minale, non ama le contrapposizioni con gli altri poteri dello Stato. Preferisce muoversi secondo un "canone" prudente con passi controllati. Non vuole né fischi né applausi. Minale preferisce un pubblico ministero sobrio e ordinato che non infligga sciabolate o provochi rumore o scelga strade avventurose.

Ci deve essere allora una ragione "forte" se, con il consenso del procuratore capo, i due "aggiunti" Ferdinando Pomarici e Armando Spataro presentano al tribunale di Milano - nel processo per il sequestro Abu Omar - una "memoria" che accusa il governo Prodi di "sleale collaborazione". Di aver opposto un segreto di Stato inesistente e strumentale. Di aver sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione con gli argomenti truccati di un indagato (Nicolò Pollari, già direttore del Sismi) e non per le legittime necessità della sicurezza nazionale.

Per di più senza aver voluto ascoltare mai le ragioni della magistratura. Milano accusa il governo di aver simulato la disponibilità a una trattativa per eliminare consensualmente il conflitto e di aver ritirato questa disponibilità una volta ottenuto il rinvio della decisione della Consulta, come in un gioco delle tre carte.

"Slealtà", dunque, è la prognosi del solitamente cauto pubblico ministero di Milano. Le ragioni di un giudizio così severo sono custodite nei fatti, circostanze e documenti raccolti dalla procura in 57 pagine e una cinquantina di allegati. Vale la pena di darci un'occhiata. Non c'è bisogno nemmeno di cavillare nelle tecnicalità giuridiche per comprenderle. Se non si cade nella trappola di chi ha interesse a inquinarla, questa storia è più trasparente di quanto appaia. Può essere riassunta in quattro ambiguità governative.

Il processo deve decidere chi ha sequestrato a Milano nel febbraio del 2003 il cittadino egiziano Abu Omar, sospettato di essere un terrorista. E' fuori discussione la responsabilità degli agenti della Cia. Washington non ha mai nascosto la pianificazione di rendition dopo l'11 settembre. Condoleezza Rice ha ammesso il ruolo di Langley anche per l'Italia. Il problema è allora se la Cia ha avuto, in quel sequestro, la collaborazione dell'intelligence di Nicolò Pollari e se e quali sono stati gli agenti del Sismi che hanno partecipato a un'operazione illegale che ha consegnato un uomo al carcere e alla tortura, senza un decente processo.

Il governo Berlusconi ha sempre escluso la partecipazione delle spie italiane all'azione. Non ne sapeva niente, dice. Quindi, non ha ritenuto di opporre il segreto di Stato (se non sai nulla, che segreto opponi?). Né lo hanno opposto i testimoni e gli indagati. Né Pollari (fino a quando non si è trovato indagato). Prodi va oltre. E' vero che non sappiamo niente di Abu Omar, sostiene, ma gli accordi con la Cia sono un segreto di Stato. Agile e convincente la replica della procura: ci occupiamo soltanto di Abu Omar, non degli accordi segreti con Washington.

Prima, strabica ambiguità di Palazzo Chigi. La seconda la si coglie quando il governo passa all'attacco accusando la procura di aver violato quel segreto. Ora si scopre che dieci "appunti" di Pollari, vistati dal capo del governo o dal sottosegretario Micheli e dal ministro della Difesa Parisi, mostrano come l'esecutivo abbia preso per buone, senza un dubbio, senza una domanda, senza un'indagine indipendente, le omissioni, le inesattezze, le manipolazioni della spia più amata dalla politica italiana. Qualche esempio.

Pollari sostiene che l'indagine ha svelato abusivamente 181 numeri di utenze telefoniche del Sismi. E' falso, ma Prodi la beve. Pollari sostiene che alcuni indagati sarebbero stati costretti "con vivaci ed espliciti stimoli" della Procura a dare "informazioni segrete e assolutamente inibite". Non è vero (due indagati hanno spontaneamente confessato soltanto di aver studiato le abitudini di Abu Omar), ma Prodi gli crede.

E' però in base a queste circostanze, accortamente distorte dall'allora direttore del Sismi, che il governo solleva il conflitto di attribuzione dinanzi alla Consulta e non si comprende se il governo si sia fatto prendere per il naso - perché distratto - o sia stato consapevolmente partecipe del disegno difensivo di Pollari. E' un fatto che dinanzi alla Corte Costituzionale, il governo provoca la terza ambiguità.

La Procura sequestra l'archivio dell'ufficio "coperto" del Sismi in via Nazionale. Nessuno oppone il segreto sui documenti sequestrati. Esplicitamente Palazzo Chigi nega l'esistenza del segreto con due comunicati pubblici. Pollari esibisce addirittura uno di quei documenti nell'udienza preliminare. Meno "segreto" di così? Eppure, nelle ragioni del conflitto sollevato dal governo, proprio uno di quei documenti diventa un casus belli. La procura, secondo il prudente "canone Minale", si dichiara pronta a non utilizzare quel documento nel processo (ritiene di avere fonti di prova in abbondanza). La mossa sembra aprire la strada a "una soluzione concordata del conflitto".

La procura accetta. La Consulta rinvia in attesa dell'accordo. E' la quarta ambiguità, ma sarebbe più opportuno definirla una trappola furba. Nello stesso giorno del rinvio, Prodi fa sapere che non se ne fa più niente: il governo è stato bocciato dal Senato e ritiene che "la rinuncia al conflitto sia un atto di straordinaria amministrazione". Come se il riconoscimento del Kosovo possa essere ordinaria amministrazione (come dice la procura) e un conflitto di attribuzione - che, per ammissione degli antagonisti, non ha più una sola ragione per restare in piedi - debba essere di gestione "straordinaria".

In verità, qualcosa di straordinario in questa storia c'è. E' l'ostinazione dei governi a voler impedire che questo processo abbia inizio. Caduti tutti gli espedienti, le trovate, gli artifici esibiti da Palazzo Chigi, rimane soltanto da chiedersi qual è la misteriosa ragione di tanta tenacia, degna di ben altre imprese. Se il processo si aprirà, c'è da giurarci che qualcosa finalmente capiremo.


(13 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le violenze impunite del lager Bolzaneto
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 09:51:09 am
CRONACA

Oggi la caserma non è più quella di allora: cancellati i "luoghi della vergogna"

Manganellate, minacce, umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di 300 testimoni

Le violenze impunite del lager Bolzaneto

 di GIUSEPPE D'AVANZO


C'ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri l'hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell'amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta - 1225 - c'era scritto: "Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all'articolo 13 si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà"

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto...". A un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per accertare la presenza di oggetti nelle cavità".

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.

D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C'è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi.

Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.

B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, "indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il medico risponde: "Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all'osso". G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la "dimensione dell'umano" di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia alla coerenza"?

(17 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - La rivoluzione Pedemontana "Abbiamo capito la nostra gente"
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 05:25:57 pm
POLITICA

L'ITALIA CHE CAMBIA.

L'area tra Varese e Bergamo tra Malpensa e Orio al Serio, laboratorio della modernità

La rivoluzione Pedemontana "Abbiamo capito la nostra gente"

Quella piccola grande società dell'"homo padanus"

dal nostro inviato GIUSEPPE D'AVANZO


 MARIO Fusetti, tanto per fare un nome. Se ne sta un po' discosto, al banco del bar nella casa patrizia ben restaurata che a Turate, "comune della Lega" - Turaa, in insubre - accoglie municipio, centro anziani, le feste dei più piccoli. Mario, visto da lontano, appare sereno nel sabato libero dal lavoro dell'officina. Ha un sorriso calmo e beve la sua barbera. Conversa leggero con gli altri artigiani. Quella conversazione dabbene, non interrotta da squilli telefonici, chiacchiere urlate o furenti o lagnose. Niente di trascendentale, per carità. Qualche pensiero marginale, qualche racconto fugace, un moto sfottitorio tra gente che si rispetta. Le parole globalizzazione, mercato, concorrenza incuriosiscono Mario.

Si avvicina. Ti stringe la mano con la sua mano larga, spessa e dura come pietra. Siede accanto. Vuol dire la sua "perché - è l'esordio - io so come vanno queste cose". Bisogna sapere ora chi è il Fusetti, fabbro ferraio, "artigiano della forgia e dell'incudine", specializzato nella fabbricazione di ferri di cavallo. Un maniscalco, ma non un maniscalco ordinario. Il Fusetti è un campione della mascalcia. Cinquant'anni fa, primo tra tutti al mondo, cominciò a fare i "ferri" in lega d'alluminio. Mario, con il fratello, progettò ferri stampati a benda larga e grossa per i cavalli da concorso e da sella.

Il loro vantaggio rispetto al ferro classico in acciaio è, sì, nella maggiore leggerezza ma - "tosto" e "morbido" com'è l'alluminio - soprattutto nella maggiore protezione e nella migliore capacità d'assorbire urti e vibrazioni. L'alluminio, per di più, permette al cavallo d'imprimere in poco tempo un'usura "personalizzata" ai ferri. Si consumano e "stondano" in alcune parti maggiormente rispetto ad altre, così da diventare in un certo senso "ortopedici". "Erano ferri che facevamo solo noi, al mondo - dice Mario - Francesi e olandesi ce li invidiavano. Li vendevamo dovunque. Ora sono apparsi le copie cinesi e colombiane del nostro lavoro e io e mio figlio peniamo un po', ma non è quello che importa. Ho ormai 78 anni. Lavoro ancora perché non mi piace fare altro, ma una cosa la voglio dire anch'io. Ci sarà sempre chi copierà quel che fai. Oggi sono i cinesi, domani lo sa Dio chi. Il problema non è questo. Non è solo questo. Il problema più grande è un altro. E' sempre più difficile inventare cose nuove e nuovi modi per produrle, ma dobbiamo farlo se vogliamo stare al mondo. Non si può sperare sempre di indovinarla. Abbiamo bisogno di aiuto. E' questo aiuto che non sentiamo o sentiamo poco".

* * *

La "questione settentrionale" - comunque la si voglia chiamare, "malessere del Nord" o trionfo impetuoso della Lega di Umberto Bossi - si può raccontare dall'alto e dal basso. A partire dalle frustrazioni e dalle paure o da un'energia sociale inesauribile, inappagabile ma sotto pressione. La "questione", la si può soffocare o confonderla nel tema monocorde e isterico della "sicurezza" con il consueto corollario di invocazioni sicuritarie a "tolleranza zero" e inaccettabili tassi di xenofobia. O se ne può vedere con realismo e disincanto la modernità; riconoscerne finalmente i protagonisti e il potere assoluto rivendicato da una nuova individualità contemporanea "intollerante di ogni dipendenza, dogmaticamente certa della "naturale bontà" dei propri appetiti, bisognosa però di protezione perché incapace di vera solitudine"; pronta a farsi massa e folla non appena i suoi "diritti" appaiono minacciati.

E' dunque l'homo padanus - l'homo democraticus di Tocqueville sarebbe meglio dire con Massimo Cacciari - il grande assente nel dibattito politico post-elettorale. Ancora oggi il discorso pubblico ne ignora le forme - con venti anni di ritardo rispetto alle ricerche degli analisti sociali, gli studi degli storici, le riflessioni dei filosofi, le indagini dei sociologi urbani - e liquida la consapevolezza che (ancora parole di Cacciari) "tutti i sistemi di potere contemporanei si fondano sull'"interazione" e lo "scambio" con quest'individualità". Che non è un'invenzione o uno spettro. E' concretissima, fatta di carne, sangue, desiderio, smarrimento, soggettività. Presenze. Le si può rintracciare in modo clamoroso in quella vasta area pedemontana lombarda tra Varese e Bergamo, tra l'aeroporto di Malpensa e lo scalo di Orio al Serio, "il laboratorio più significativo delle ricadute della modernità - dice Aldo Bonomi - un territorio ove convivono l'intreccio tra ipermodernità, maturità del sistema produttivo, comunità locali di paese e capitalismo personale".

I numeri che si raccolgono in questo territorio sono impressionanti.
Quattro milioni e mezzo di abitanti (e "produttori", "utenti", "clienti"). Tre milioni e 100 mila autoveicoli in coda perenne, privi di infrastrutture strategiche: "la strada che non c'è", la Pedemontana lombarda, verrà - se verrà - non prima del 2015 come la Brescia/Bergamo/Milano e il raddoppio della Milano-Brescia. 475 mila imprese. Dieci punti di prodotto interno lordo.

Cinque distretti industriali. Mobile. Seta. Tessile. Metalmeccanico. Agroalimentare. Informatica.
Telecomunicazioni. Un milione e 600 mila posti di lavoro. Un serpente ininterrotto di capannoni, megastore specializzati, discoteche, ipermercati, villette con giardino. Una "città infinita" dove spontaneamente si sperimentano, senza i principi ordinatori della politica, alchimie sociali che riscrivono, con mobilità, rapidità, cinismo, individualismo, i codici dell'esistenza e del vivere quotidiano. Una "fabbrica orizzontale", a cielo aperto e senza mura, lunga cento chilometri, frammentata in un pulviscolo di medie e piccole imprese, lavoro artigiano, lavoro sommerso, lavoro nero, lavoro in affitto dove si concentra e sovrappone "il massimo di innovazione e il massimo di mediocrità" e dovunque "capitalisti personali" che chiedono - spiega ancora Aldo Bonomi - "un'affermazione soggettiva, la possibilità di rendere vincente un'idea, un progetto, la propria personale realizzazione in un gioco che mette in discussione la stessa soggettività delle persone, i loro interessi, ma anche i loro gusti, preferenze, perfino i loro affetti e passioni".

E' in questo caos lavico che gli amministratori della Lega Nord hanno costruito il loro sorprendente successo e conviene chiedersene il perché senza lasciarsi lusingare soltanto dalla ragione più elementare della "protesta", dei borbottii della "pancia", del rancore localistico, della sindrome della paura liquida. Che sembra spiegare tutto e, poco o troppo poco, spiega.

* * *

Leonardo Carioni è molte cose nello stesso tempo. Piccolo imprenditore tessile dell'orditura, capannone più grande di quello costruito vent'anni fa dal padre dietro casa (ne mostra con orgoglio la lunghezza delle linee di lavorazione), dodici addetti quasi tutti "di famiglia" se si escludono un paio di immigrati dal Maghreb. Sindaco leghista di Turate, con il 45 per cento dei consensi.

Presidente della provincia di Como con il 65 dei voti. Carioni è un uomo concreto, essenziale. Se gli si parla del Carroccio più conosciuto e temuto - la Lega della "linea dura contro l'immigrazione" - non si tira indietro, naturalmente.
Scioglie la lingua nella prevedibile giaculatoria, poi si ferma però e, con una smorfia, avverte che "da queste parti la sicurezza non è tutto. E' vero, alziamo la voce, facciamo la faccia feroce. Anch'io voglio che i vigili urbani abbiano il potere di entrare nelle case degli immigrati per verificare quanti e chi e con quali permessi di soggiorno vi abita. La sicurezza ci permette di stringerci al nostro popolo, di farlo sentire protetto. Ma, detto questo, i veri problemi non finiscono qui. La Lega ha cominciato da qui. Non si è fermata qui. Non so se è chiaro, ma non lo scriva che mi mette nei guai con i miei".

No, non è chiaro. Per questo va scritto. Dice Carioni (e sogghigna) che, "per fortuna", nessuno ha ancora capito il lavoro degli amministratori della Lega sul territorio. "La nostra gente, smarrita, non ci chiede soltanto di essere rassicurata dinanzi a paesi che non riconosce più e comunità sconvolte dal cambiamento. Certo siamo partiti, venti anni fa, da questi sentimenti prepolitici. La minaccia della secessione è stata figlia di quel tempo. Ma ricordo che Gianfranco Miglio mi diceva di studiare e di capire, di capire e di studiare. E io l'ho fatto. Un po' tutti, in Lega, lo abbiamo fatto. Abbiamo avuto dieci anni per farlo e non abbiamo gettato via il nostro tempo. Sul territorio, al lavoro nelle amministrazioni cittadine, provinciali, regionali, abbiamo capito che la nostra gente ci chiedeva di essere aiutata nei loro interessi, accompagnata a connettersi con il mondo. Ci chiedeva strade, autostrade, aeroporti. Chiedeva, come il Fusetti, intelligenza per innovare i prodotti e i modi di produrli. E noi ci siamo rimboccati le maniche e, passo dopo passo, siamo diventati credibili in questa missione difficile e non soltanto nel più facile lavoro dei nemici dell'immigrazione clandestina. Guardi, come dal basso, stiamo cambiando il volto dell'area pedemontana".

Anche gli analisti sociali concordano. E' vero, in quel territorio ci sono gli "orfani del fordismo" che devono essere rassicurati; le microimprese "stressate" da un futuro incerto e dai rischi del mercato; gli "spaesati" dalla nuova morfologia urbana e umana delle comunità prealpine e alpine, ma la leva che i giovani amministratori della Lega muovono sono altre. Sono le nuove élites gelose della propria autonomia. Sono nuovi ceti orgogliosi della propria creatività. Sono - élites e ceti - convinti che la loro pretesa di "integrale" libertà debba essere rispettata. Ne chiedono la difesa.

Come vogliono che sia tutelata l'idea che il proprio particolare interesse sia "universale". Chiedono alla politica soprattutto modernizzazione riconoscendole soltanto "un esercizio di giurisdizione" che consenta il libero gioco delle forze in campo: e che vinca il migliore, il più forte. Pretendono che le funzioni dello Stato siano "servili", per dir così. Siano - come peraltro predicava già Carlo Cattaneo - esclusivamente al servizio delle scelte del cittadino "industrioso", il solo che può garantire benessere a se stesso e, per conseguenza, progresso della società.
"E' dal basso - dice Carioni - che stiamo cambiando le cose". Non ha torto.

Il metalmeccanico, ti spiegano, è diventata motonica. La meccanica meccatronica. Gli enti locali, le camere di commercio, le banche popolari promuovono, "dal territorio e sul territorio", connessioni e saperi: le università (Insubria, il Libero Istituto Universitario, in provincia di Varese, il Politecnico di Lecco - Como); centri di eccellenza per la diffusione delle tecnologie.
Nascono, con il sostegno e la spinta delle amministrazioni locali, consorzi per l'export, per il marketing, per l'innovazione tecnologica, per le innovazioni di stili e prodotti. E' la riduzione completa della società politica nella società civile. E' l'invocazione di una prassi di governo come esclusiva protezione dell'interesse personale dell'homo democraticus.

Nello spazio vuoto da altre presenze politiche pare muoversi soltanto l'amministratore del Carroccio, il solo attore capace di parlare con crudezza e coerenza questo linguaggio della contemporaneità.
Roma, la politica, il ceto politico, le sue pratiche, avvistati da qui sono lontani come la Terra è distante dalla Luna. Perché l'homo padanus vive in un permanente presente che non consente - gli è insopportabile - differimenti, ritardi, rinvii, ripensamenti, intrusioni. Per toccarlo con mano bisogna risalire il lago di Como e incontrare, a Musso, quel genio di Meco Lillia.


* * *

Meco è un uomo gentile e generoso. Per essere un laghèe, è accogliente e festoso come un mediterraneo. Non accetta di raccontarsi e discutere se non in un piccola casa in pietra accanto al vecchio cantiere in ristrutturazione tra il cimitero e le acque del Lago. Offre salame, formaggio, un bicchiere di vino rosso, frizzante, al gusto di fragola. Meco non è nemmeno leghista. Si definisce "un moderato" con una passione per le memorabilia di Mussolini e un rispetto autentico per tutti coloro che fanno politica. Ma non è questo che conta. Conta che Meco fa le più veloci barche a vela del mondo, le più innovative, competitive, vincenti.

Per stare soltanto agli ultimi anni: campionato del mondo 2003; Olimpiadi 2004; campionati del mondo 2005, 2006, 2007. Sono barche della classe "Star" (lunghezza fuori tutto 6.92 metri, larghezza massima 1 metro e 73, pescaggio un metro, peso 671 kg). Meco se le cuoce da solo in resine epossidiche, con il figlio Stefano e sette addetti (quattri polacchi), in una vecchia filanda. Ne vengono fuori scafi puliti, leggeri, resistenti, con chiglie a controllo numerico levigate al millesimo di millimetro. Le esporta per il 96 per cento in tutto il mondo, in Nuova Zelanda, in Brasile, negli Stati Uniti.

Piacevano a Gianni Agnelli. Piacciono a tutti coloro - i migliori - che poi finiscono skipper o tattici sui grandi scafi ipertecnologici dell'America's Cup. Dice Meco che "le cose si fanno con passione o non si fanno". Preferisce parlare del suo mondo, dei suoi molti amici, della sua passione, del piacere che dà la perfezione del lavoro. Se gli parli di Roma, fa spallucce.

Se gli parli del successo della Lega, gira al largo. Se gli parli delle cose pubbliche, se la sbriga presto: "Vorrei soltanto che non mi facessero perdere tempo". Meco glissa non per riservatezza o scontrosità. Perché, semplicemente, non gli importa.
Quest'indifferenza è un sentimento ordinato, ponderato, sereno.
Come molti nell'area della pedemontana, Meco, homo democraticus e padano, si è messo da parte con la sua famiglia e i suoi amici. Si è creato una piccola società a proprio uso. Può abbandonare volentieri la grande società a se stessa.


(21 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Paura e propaganda
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2008, 12:15:18 am
CRONACA IL COMMENTO

Paura e propaganda

di GIUSEPPE D'AVANZO


Gianfranco Fini se ne va per mercati in passeggiata elettorale "controllando" il permesso di soggiorno degli ambulanti. Se voleva documentare il disordine, non gli va troppo bene. Al semaforo di Forte Boccea, il venditore di accendini, egiziano, mostra i documenti in ordine.

Più avanti altri due egiziani. Altri due permessi di soggiorno esibiti. Conclude il prossimo presidente della Camera dei Deputati (ride, ma non deve essere molto soddisfatto): "Dico, non è possibile che tutti siano in regola, mi sa proprio che i documenti se li comprano... ".

Altra città. Altra scena. Bologna. Il consiglio comunale approva un ordine del giorno per dotare la polizia municipale di spray urticanti e "manganelli", da usare nelle intenzioni soltanto per legittima difesa perché tra la pistola e le mani nude ci deve essere uno strumento intermedio, si sente dire. Sempre Bologna. Il sindaco Sergio Cofferati non gradisce che si parli di "ronde", ma conferma che saranno chiamati "volontari" a svolgere "compiti di assistenza alla cittadinanza più debole e a segnalare comportamenti scorretti o pericolosi".

Sembra diffondersi, come un'onda impetuosa, una sicurezza "fai da te". Ogni maggioranza comunale, ogni sindaco, ogni partito con troppo o pochi voti, agita la questione per proprio conto, con una propria iniziativa - "ronde", "volontari", ordinanze contro lavavetri, controlli del reddito degli immigrati. Una babele dove quel che conta, non pare essere l'efficacia dell'iniziativa, la sua coerenza con una "politica", ma l'eco mediatica che avrà, il dividendo politico che sarà possibile incamerare pronta cassa. Non c'è di niente di peggio - e di più dannoso - che l'approssimazione, quando si hanno di fronte problemi seri.

Abbiamo imparato, nel corso del tempo, a capire che le politiche pubbliche in tema di sicurezza ridisegnano il profilo stesso della società (mai che si ascolti un qualche ragionamento, a questo proposito); che molte esperienze hanno messo in dubbio l'efficacia delle politiche criminali nel controllo dei conflitti e dei fenomeni illeciti; che il senso di insicurezza non è necessariamente connesso all'esistenza di pericoli "concreti", ma spesso ha a che fare con il genere, l'età, l'esperienza di vita, la familiarità con l'ambiente in cui si vive, il senso di appartenenza a una comunità.

Ilvo Diamanti ci ha spiegato come l'insicurezza sia un sentimento diffuso, che riflette un timore concreto, reale; ma anche un'inquietudine più nebbiosa. Non è un scherzo affrontare, con politiche pubbliche efficaci e condivise, la sovrapposizione della Paura, figlia di uno spaesamento esistenziale, con le paure provocate da minacce concrete. Appena l'anno scorso l'Osservatorio Demos-Coop, ha documentato come "entrambi i sentimenti stanno montando, senza freni". L'83% degli italiani ritiene che negli ultimi 5 anni la criminalità, nel nostro Paese, sia cresciuta. Nella precedente rilevazione, che risale a 2 anni fa, questa percentuale era già alta: 80%. È cresciuta ancora. È aumentata l'insicurezza locale. Nel 2005, il 34% delle persone percepiva in crescita l'illegalità nella zona di residenza.

Oggi, quella componente è salita di oltre 10 punti percentuali. Ha superato il 44%. L'incertezza - è la conclusione delle ricerca - si sta insinuando nel nostro mondo, nelle nostra vita. Intorno a noi. Dentro noi stessi. Stentiamo a trovare un rifugio nel quale sentirci protetti. Infatti, il 57% delle persone si dicono preoccupate della criminalità nella zona in cui vivono. Quasi 10 punti più di due anni fa.

Si può affrontare una catastrofe "emotiva" e concretissima così imponente con qualche alzata d'ingegno, con una mossa del cavallo, con un'iniziativa propagandistica e qualche posa gladiatoria? Non pare. Eppure è quel che accade in un clima di allegra spensieratezza secondo un canovaccio che attribuisce alla "destra" la capacità di "combattere la criminalità". Lo pensa il 40% degli italiani mentre solo il 18 riconosce una qualche fiducia al centrosinistra che appare debole, incerto, incapace di comprendere, spiegare, affrontare il fenomeno. E proprio per questo è chiamato a dotarsi ora di una "cultura della sicurezza" moderna, non ideologica, arricchita dai valori del rispetto della dignità della persona.

A giudicare da quel che si è visto ieri, e nei giorni addietro, "destra" e "sinistra" sembrano muoversi nella stessa direzione sbagliata. Frammentarietà e approssimazione degli interventi. Qualche sceneggiata propagandistica. Che finiranno soltanto per aumentare la percezione di insicurezza che affligge il Paese.

(24 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Cinecittà la borgata rossa ha voltato le spalle alla sinistra
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2008, 07:24:50 pm
POLITICA

Qui si rifugiavano i partigiani, qui ci fu un rastrellamento nazista ma lunedì in 19 seggi su 20 Alemanno ha battuto Rutelli

Cinecittà, così la borgata rossa ha voltato le spalle alla sinistra

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - C'erano due modi a Roma per farla in barba ai tedeschi durante la guerra. O ti rifugiavi in Vaticano o al Quadraro. I partigiani si nascondevano al Quadraro nelle vecchie cave di pozzolana o, meno precariamente, al Sanatorio Ramazzini. Si sentivano sicuri: in quelle strade non s'era mai visto un fascista, figurarsi un tedesco.

La convinzione durò fino alle 4 del mattino del 17 aprile del 1944. Per ordine di Herbert Kappler, gli uomini della Gestapo, delle SS, della Wehrmacht, della banda Koch sbarrarono ogni strada di accesso e di fuga. Rastrellarono 917 uomini e li deportarono in Germania. Solo la metà ritornò a casa. I morti del Quadraro, come i martiri delle Fosse Ardeatine, sono il passato non rimosso di Roma, le ragioni di un convinto antifascismo e in quella borgata - tra le palazzine liberty del primo novecento e le deformi lottizzazione urbanistiche degli anni ottanta - il ricordo vivo che ha sempre connesso l'esperienza dei contemporanei alle generazioni precedenti; una memoria collettiva che è diventata di generazione in generazione genius loci, identità, opzione politica. Fino a lunedì, quando il voto ha reciso il filo lungo e forte di quel passato storico e, nei venti seggi del Quadraro, il postfascista Gianni Alemanno l'ha avuta vinta in diciannove contro Rutelli.

Il successo ha clamorosamente trascinato verso destra l'intera municipalità - la X, Tuscolano, Cinecittà, Capannelle, IV Miglio, Appio Claudio, Romanina, Anagnina, Nuova Tor Vergata, 200 mila abitanti. Dove al primo turno "passava" il presidente del municipio Sandro Medici con quasi 59 mila voti, Rutelli si fermava a 55.379 contro i 42.787 di Alemanno. Al ballottaggio c'è stato un improvviso capovolgimento. Rutelli perde settemila voti, Alemanno ne guadagna quasi diecimila (51.409).

Sandro Medici - un passato di direttore del Manifesto - dice: "Perdere qui replica la lontana, prima sconfitta della Quercia a Mirafiori a vantaggio di Forza Italia; duplica il voto operaio del Nord alla Lega. Se l'esito è lo stesso, i perché sono diversi". Il perché di Massimo Perifano, gelataio, è custodito in una sola parola: "Menzogna". Raccontavano, dice, di una Roma luci e paillettes; una città felice, allegra, che se la godeva. Una città serena, accogliente, solare, senza ombre e problemi. "Sì, magari qualche problemino presto risolvibile qui e là, ma nulla da impensierirsi. Bene, quelle parole ascoltate da queste borgate erano menzogne che non ingannavano nessuno. Che facevano soltanto incazzare, molto incazzare perché erano bugie che lasciavano capire come al Campidoglio non importasse nulla delle borgate; che non avevano bisogno di noi; che il nostro destino gli era indifferente; che potevano fare a meno di noi, di quel che pensavamo o soffrivamo o chiedevamo".

Il popolo di Roma sa essere entusiasta e appassionato. Risentito, se imbrogliato. Feroce, se pensi di trattarlo con sfrontatezza e arroganza. Le storie che si raccolgono a Cinecittà svelano "una superbia" che il voto ha voluto punire. Non è che qui non abbiano capito quale pensiero strategico ha convinto Walter Veltroni, nella sua seconda sindacatura, a convogliare gran parte delle risorse comunali e della legge "Roma Capitale" in grandi opere infrastrutturali come la linea C della metropolitana.

Quel che non buttano giù è perché quell'ambizione ha dovuto riservare alle borgate soltanto negligenza, il progressivo abbandono dei servizi sociali, della piccola manutenzione. C'è qui il Parco degli Acquedotti. È bellissimo. Al centro c'è un laghetto. Lo si è lasciato inaridire. Sono stati eliminati gli orti abusivi. Si doveva riqualificare l'area. Non se n'è fatto nulla. Soltanto per sciatteria non si sono eliminate le buche nelle strade, le piccole discariche abusive "che anche soltanto in una sola notte ti appaiono davanti a casa". Non è stato ristrutturato quel rudere che doveva ospitare il centro anziani a Largo Spartaco. Per disattenzione non si sono completati i marciapiedi, non sono state aperte - e soltanto per stupidi intoppi burocratici, eliminabili con un atto di volontà - una decina di piccole opere già pronte, un sottopasso, una "bretella", un parcheggio, una scuola. Soltanto per disinteresse non si è voluto porre limite al degrado del terminal dell'Anagnina, come se il destino della città e l'abitare si potessero declinare soltanto con le categorie del simbolico, dell'immaginario, della comunicazione e queste fossero capaci di rendere invisibile la realtà.

Ti ci accompagnano al terminal perché, dicono, "vedrai, non puoi immaginarlo". E non lo si può immaginare, infatti, quel suk. Il piazzale della metro all'Anagnina è immenso come tre o quattro campi di calcio. Ospita il terminal dei bus delle linee cittadine (verso il centro), interprovinciali (Castelli), interregionali (Calabria), internazionali (Romania). I venditori ambulanti autorizzati dovrebbero essere soltanto quindici. Sono centinaia e centinaia e centinaia. Ogni settore merceologico ha il suo banco, piccolo o grandissimo. Ogni etnia, il suo angolo. Quando la domenica arriva sul piazzale il pullman da Timisoara, i rumeni fanno festa. Hanno a disposizione, quel giorno, anche il loro barbiere, un ristorante improvvisato, la musica, i bar e, dicono, "spesso bevono troppo e litigano".

Quel piazzale era la porta di casa della borgata, l'uscio di un territorio circoscritto, riconoscibile. Con la sua umanità, i suoi odori nuovi e indefinibili, il suo disordine, le illegalità piccole e grandi, è diventato un vuoto che non ospita, che non si può abitare, un brulicante vuoto minaccioso che ha cancellato ogni significato accettato e comune nel dirsi "sono di Cinecittà, del Quadraro, del Tuscolano". La predicazione "buonista", l'inerzia ipocrita che lascia le cose così come sono - e soddisfatti soltanto chi non ne paga le conseguenze ogni giorno - produce qui furia, rabbia, la secrezione infausta di un'impotenza, la convinzione di non essere ascoltati, "di non contare nulla".

"La sinistra non ha le culture e il sapere per affrontare la percezione dell'insicurezza - ammette Sandro Medici - Qui non abbiamo grandi problemi di sicurezza nel senso che, se guardi le statistiche, vedrai che non ci sono criticità e i vecchi del quartiere ti spiegheranno che negli anni Ottanta, con la guerra tra la banda della Magliana e i napoletani, era molto più pericoloso girare di notte da queste parti. Voglio dire che non è minacciata l'incolumità delle persone, ma la loro familiarità con il luogo che abitano. Trovano la spazzatura davanti alla loro porta. Vedono gente che non conoscono. Sono invasi dal fumo dei fili di rame bruciati negli improvvisati campi rom. Questo spaesamento ha provocato l'incertezza e l'insoddisfazione che in Campidoglio non hanno voluto comprendere fino alla bocciatura di Rutelli, oggi. I municipi più popolosi ci hanno voltato le spalle e si sono rivolti a chi ha promesso sgomberi e deportazioni".

Messe così le cose, sembrerebbe che il peso della sconfitta della sinistra a Roma, in questa municipalità "rossa" per tradizione e convinzione, sia da scaricare per intero sulle spalle di Walter Veltroni, responsabile di aver dimenticato le borgate a vantaggio del glamour dei concerti al Colosseo, delle Feste del Cinema, della Città dello Spettacolo. Sarebbe un errore. Anche l'investitura di Rutelli, dicono, ha avuto il prezzo da scontare. Il come si è scelto quel nome. Il perché lo si è scelto. È parsa soltanto la mossa di un'oligarchia, la ricerca di un nuovo equilibrio all'interno di "una cricca di potere".

Un altro segno che la distanza tra la politica e la società civile rende le scelte indipendenti dai gruppi sociali, dalle loro aspirazioni, dalle loro necessità o interessi. Il processo politico riproduce soltanto se stesso. Pensa di poter trascendere gli umori di chi vota, il sostegno attivo della società che pure rappresenta. Una filosofia del potere che, dicono, "non ha fatto i conti con il carattere e il temperamento del popolo di Roma che chiede di essere rispettato oltre che rappresentato, coinvolto e non soltanto usato e che, se non rispettato e coinvolto, ti liquida con un vaffanculo".

La prova è nei numeri. Se Alemanno, al Quadraro, ha sconfitto Rutelli diciannove a uno, Nicola Zingaretti, candidato della sinistra alle provinciali, ha battuto il suo avversario per venti a zero. Vuol dire, ti spiegano, che un'altra candidatura e un altro metodo avrebbero potuto anche attenuare gli errori del passato e ottenere con margini contenuti un altro mandato, un'altra fiducia. Sarà. Resta un ultimo argomento da mettere in piazza. Come è possibile che una borgata per storia e tradizione antifascista ha votato un postfascista? Le risposte che si raccolgono sono un coro: "Quei pregiudizi ideologici non contano più. Non funzionano. È roba del passato. Alemanno, un Alemanno ripulito, è apparso credibile, affidabile, concreto anche ai vecchi che, alla bocciofila del Quadraro, ancora possono raccontare quel 17 aprile del 1944".

(30 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - "Fascismo addio, siamo col popolo"
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 09:47:58 pm
POLITICA IL RACCONTO

Nell'ex covo missino di Colle Oppio

"Fascismo addio, siamo col popolo"

di GIUSEPPE D'AVANZO


 GIANNI Alemanno ha raccontato che, nella sezione di Azione Giovani di Colle Oppio, nota, notissima, famigerata - "un covo fascista" per tutti gli anni Settanta - "entravi e ti imbattevi in un enorme quadro che raffigurava una giovane "camicia nera" che si difendeva con il calcio del fucile da un'orda di assalitori comunisti".

Oggi quel quadro non c'è più e non si sa dove sia finito. Alle pareti della grotta di tufo dentro il Parco delle Terme di Traiano, sezione del Movimento sociale dal 1947, ci sono soltanto due immagini, che bisogna proprio cercare con lo sguardo per vederle (sono sulla parete meno in vista). C'è la fotografia di Paolo Colli, il "padre" dell'ambientalismo di destra, una vita spezzata dalla leucemia due anni fa, e un ritratto a mano di Stefano Recchioni, ucciso il 7 gennaio di trent'anni fa dalla pistola di un carabiniere durante i disordini nati dopo l'eccidio di Acca Larenzia (morirono due ragazzi del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta).

Non ci sono "croci celtiche" nere, "fusione visiva tra il mondo pagano e mitologico del sole e il mondo cristiano del crocefisso", simbolo "magico" di molte generazioni di neofascisti. Né foto del Duce né fasci né labari. Niente delle carabattole nostalgiche. Nessuna icona della concezione eroica della militanza politica, per decenni demone dei giovani missini. Non ci sono nemmeno immagini di Gianfranco Fini, in verità. Soltanto qualche manifesto elettorale di Alemanno.

L'ambiente è spoglio. In fondo, su una pedana, strumenti musicali. Una trentina di sedie addossate al muro. Un tavolo traballante. "Cercavi il covo fascista?" canzona Michele Pigliucci. Ha ventisei anni soltanto, Michele. Non può fare a meno di sorridere ironico, quando spiega: "Guarda che anche mia madre non era ancora nata quando è morto Benito Mussolini. È sorprendente che ancora cerchiate tra di noi qualche ammennicolo per dirci fascisti, nostalgici o magari nazisti. È la rappresentazione che hanno voluto dare di Alemanno gli amici di Rutelli. Un furbo espediente per sollecitare le paure e i riflessi antifascisti della città. Furbo, ma inutile: guarda come è finita. È una strategia che non porta da nessuna parte, mi pare. Impedisce soltanto a chi la usa di comprendere chi siamo, che cosa facciamo, quali sono le ragioni della vittoria di Gianni, perché il popolo di Roma gli ha concesso fiducia".

Bene, parliamo di queste ragioni. Michele ha accanto un gruppo di ragazzi della sua età. Annuiscono quando dice: "Abbiamo guardato al popolo e non al palazzo; ai bisogni della città e non agli interessi dei poteri e delle lobby con un lavoro quotidiano, porta a porta". Se c'è un segreto, dicono, è in questa formula ed è sotto gli occhi di tutti perché - e ne sono fieri - Alleanza nazionale è dovunque, presente in tutti i quartieri di Roma con una o più sezioni. Sezioni che hanno le porte sempre aperte, aggiungono, frequentate da militanti sensibili all'ascolto, pronti a darsi da fare per risolvere anche i problemi più minuti della comunità".

"Identità", "comunità" e "popolo" sono le parole ricorrenti, gli archetipi che ritornano più spesso nel discorso dei ragazzi di Colle Oppio come se il populismo, parziale e intermittente negli strappi di Alleanza Nazionale, avesse ritrovato nella leadership di Alemanno, nella sua Destra sociale, finalmente lo strumento efficace di lotta politica; il grimaldello interpretativo della realtà cittadina capace di raccogliere l'attenzione e il consenso anche di chi di destra non è mai stato. I politologi sostengono che "il populismo incarna una corruzione ideologica della democrazia" e tuttavia, nelle parole della seconda generazione repubblicana della Destra, si avverte anche l'urgenza di una democrazia partecipativa che la politica non ha soddisfatto.

A voler fare i tignosi è questo "il fascismo" della destra romana che governerà la Capitale. Gianni Alemanno è l'interprete moderno del "populismo" che Mussolini ha lasciato in eredità all'Italia. Basta ascoltare i ragazzi quando parlano dell'immigrazione e degli stranieri dell'Esquilino. Certo, accennano anche alla pericolosità sociale del clandestino, alle violenze consumate nel Parco di Traiano, alla consueta percezione di insicurezza. Ma quel che appare loro più importante, decisivo è altro. È la necessità di preservare "l'identità del popolo", di assicurare "l'unità della comunità minacciata da una pressione disordinata". Non vogliono semplicisticamente che "lo straniero" sia messo al bando, espulso. Chiedono "assimilazione". Vogliono che l'altro rinunci alla sua "alterità", alla sua diversità culturale e magari religiosa. Chiedono che la "comunità" e chi l'amministra reagisca ai rischi di disgregazione e decadenza.

Dicono: chi lo ha deciso che a Roma debba esserci non regolata, misteriosa, invisibile, una Chinatown? "Perché - chiede Michele - Veltroni ha concesso l'intero quartiere dell'Esquilino alla comunità cinese che vive e prospera al di là di ogni legge?". Nei loro discorsi, è questo il lavoro "che ha sempre visto impegnato Alemanno". Non ricordano e non voglio ricordare il passato violento del neosindaco. Forse, addirittura, lo ignorano. Chissà. Preferiscono descriverne la misura, l'understatement, le qualità di uomo comune che gli consigliano di muoversi "con una Punto verde tutta scassata, anche quando era ministro".

C'è del populismo anche in queste immagini. Alemanno è uno del popolo, dicono. È capace di immediatezza, di un rapporto diretto con la realtà. È il testimone della "semplicità" che la destra sociale vuole restituire alla politica. Anche quando ha governato il Paese, è uno che istintivamente condivide "un destino comune".

Il "popolo" è il paradigma antico e nuovissimo di Colle Oppio che trova una sua declinazione più radicale in "Casa Italia", uno stabile occupato nel quartiere Prati dalla Fiamma Tricolore. Lo abitano trenta famiglie sfrattate. Giuliano Castellino, che sovraintende all'occupazione, l'amministra con regole ferree (vietate armi, droga, prostituzione; chiavi degli appartamenti sempre nella toppa). Nel suo populismo, è ancora più esplicito di Michele. Il popolo di Roma è, nelle sue parole, sempre "vittima". Vittima dei poteri forti, delle insidie della politica, delle cabale dei politici di professione.

"Per favore - dice - non stare a parlarmi di fascismo o di quei quattro bambini che, l'altra notte al Campidoglio, hanno tirato su il saluto romano. Nessuno di noi, che ci diciamo di destra, vuole tornare indietro. Non voglio vivere con il collo torto all'indietro. Voglio guardare avanti. Del fascismo si occupino gli storici. Io voglio far politica e intendo la politica come un servizio alla mia gente. Anche per questo siamo felici che Alemanno sia sindaco di Roma e anche noi della destra di Storace abbiamo dato il contributo dei nostri 55 mila voti. Quel che è stato sconfitto nell'urna - perché non volete capirlo? - è stato il 'modello Roma' del centrosinistra, quel blocco di potere di radical-chic e palazzinari che ha governato la città. Quel grumo di interessi che ha consigliato l'amministrazione di Rutelli e Veltroni a orientare le grandi opere pubbliche - per esempio, la nuova linea della metropolitana o il raddoppio della Roma-Fiumicino - verso le aree di proprietà dei costruttori come Caltagirone. E vi meravigliate che i romani abbiano voltato le spalle al centrosinistra?".

A "Casa Italia" si discute molto di case. È la loro battaglia. Contro la speculazione privata, dicono, è necessario varare un piano di edilizia popolare. Da quanto tempo, chiedono, non si costruisce un alloggio a basso prezzo? Non pensano ai "quartieri ghetto, senza vita, senza metro, senza asili e scuole del Corviale, del Serpentone, di Tor Bella Monica", ma all'edilizia "modesta e dignitosa" della Garbatella, del Flaminio, di Primavalle? È una destra, quella di "Casa Italia", che vuole il riscatto di chi oggi è in difficoltà, degli ultimi nella scala sociale.

Nelle parole di Giuliano Castellino c'è un gran spazio per l'anonimo eroismo quotidiano di "chi tira la carretta" senza lusso, sprechi e consumo. È una città, la sua, di piccole imprese e grandi sacrifici, di ambizioni modeste e lavoro duro che chiedono un aiuto e soltanto il solidarismo del messaggio populista, e non il professionismo politico, può offrirlo. Si può liquidare tutto questo soltanto con la parola "fascismo" e poi lavarsene le mani?

(1 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. La lezione del caso Schifani
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 04:11:20 pm
L'ANALISI

La lezione del caso Schifani

di GIUSEPPE D'AVANZO


E' utile ragionare sul "caso Schifani". E - ancora una volta - sul giornalismo d'informazione, sulle "agenzie del risentimento", sull'antipolitica.

Marco Travaglio sostiene, per dirne una, che fin "dagli anni Novanta, Renato Schifani ha intrattenuto rapporti con Nino Mandalà il futuro boss di Villabate" e protesta: "I fascistelli di destra, di sinistra e di centro che mi attaccano, ancora non hanno detto che cosa c'era di falso in quello che ho detto". Gli appare sufficiente quel rapporto lontano nel tempo - non si sa quanto consapevole (il legame tra i due risale al 1979; soltanto nel 1998, più o meno venti anni dopo, quel Mandalà viene accusato di mafia) - per persuadere un ascoltatore innocente che il presidente del Senato sia in odore di mafia. Che il nostro Paese, anche nelle sue istituzioni più prestigiose, sia destinato a essere governato (sia governato) da uomini collusi con Cosa Nostra. Se si ricordano queste circostanze (emergono da atti giudiziari) è per dimostrare quanto possono essere sfuggenti e sdrucciolevoli "i fatti" quando sono proposti a un lettore inconsapevole senza contesto, senza approfondimento e un autonomo lavoro di ricerca. E' un metodo di lavoro che soltanto abusivamente si definisce "giornalismo d'informazione".

Le lontane "amicizie pericolose" di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002 (da Enrico Bellavia). In quell'anno furono riprese dall'Espresso (da Franco Giustolisi e Marco Lillo). Nel 2004 le si potevano leggere in Voglia di mafia (di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Carocci). Tre anni dopo in I complici (di Lirio Abbate e Peter Gomez, Fazi). Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato non è per ottusità, opportunismo o codardia né, come dice spensieratamente Travaglio a un sempre sorridente Fabio Fazio, perché l'agenda delle notizie è dettata dalla politica ai giornali (a tutti i giornali?).

Non se n'è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun - ulteriore e decisivo - elemento di verità. Siamo fermi al punto di partenza. Quasi trent'anni fa Schifani è stato in società con un tipo che, nel 1994, fonda un circolo di Forza Italia a Villabate e, quattro anni dopo, viene processato come mafioso.

I filosofi ( Bernard Williams, ad esempio) spiegano che la verità offre due differenti virtù: la sincerità e la precisione. La sincerità implica semplicemente che le persone dicano ciò che credono sia vero. Vale a dire, ciò che credono. La precisione implica cura, affidabilità, ricerca nello scovare la verità, nel credere a essa. Il "giornalismo dei fatti" ha un metodo condiviso per acquisire la verità possibile. Contesti, nessi rigorosi, fonti plurime e verificate e anche così, più che la verità, spesso, si riesce a capire soltanto dov'è la menzogna e, quando va bene, si può ripetere con Camus: "Non abbiamo mentito" (lo ha ricordato recentemente Claudio Magris).

Si può allora dire che Travaglio è sincero con quel dice e insincero con chi lo ascolta. Dice quel che crede e bluffa sulla completezza dei "fatti" che dovrebbero sostenere le sue convinzioni. Non è giornalismo d'informazione, come si autocertifica. E', nella peggiore tradizione italiana, giornalismo d'opinione che mai si dichiara correttamente tale al lettore/ascoltatore. Nella radicalità dei conflitti politici, questo tipo di scaltra informazione veste i panni dell'asettico, neutrale watchdog - di "cane da guardia" dei poteri ("Io racconto solo fatti") - per nascondere, senza mai svelarla al lettore, la sua partigianeria anche quando consapevolmente presenta come "fatti" ciò che "fatti", nella loro ambiguità, non possono ragionevolmente essere considerati (a meno di non considerare "fatti" quel che potrebbero accusare più di d'un malcapitato).

L'operazione è ancora più insidiosa quando si eleva a routine. Diventata abitudine e criterio, avvelena costantemente il metabolismo sociale nutrendolo con un risentimento che frantuma ogni legame pubblico e civismo come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro ("Se anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso..."). E' un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde. E' un sistema che indebolisce le istituzioni. Che attribuisce abitualmente all'avversario di turno (sono a destra come a sinistra, li si sceglie a mano libera) un'abusiva occupazione del potere e un'opacità morale. Che propone ai suoi innocenti ascoltatori di condividere impotenza, frustrazione, rancore. Lascia le cose come stanno perché non rimuove alcun problema e pregiudica ogni soluzione. Queste "agenzie del risentimento" lavorano a un cattivo giornalismo. Ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di una energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity, in competenza, in decisione. Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale.

Nel "caso Schifani" non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti. Non con Travaglio che confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia. Non con Schifani che, dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato. Non con chi - nell'opposizione - ha espresso al presidente del Senato solidarietà a scatola chiusa. Non con la Rai, incapace di definire e di far rispettare un metodo di lavoro che, nel rispetto dei doveri del servizio pubblico, incroci libertà e responsabilità. In questa storia, si può stare soltanto con i lettori/spettatori che meritano, a fronte delle miopie, opacità, errori, inadeguatezze della classe politica, un'informazione almeno esplicita nel metodo e trasparente nelle intenzioni.

(13 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Non sempre i fatti sono la realtà
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2008, 06:36:08 pm
POLITICA LA RISPOSTA

Non sempre i fatti sono la realtà

di GIUSEPPE D'AVANZO


Non so che cosa davvero pensassero dell'allievo gli eccellenti maestri di Marco Travaglio (però, che irriconoscenza trascurare le istruzioni del direttore de il Borghese). Il buon senso mi suggerisce, tuttavia, che almeno una volta Montanelli, Biagi, Rinaldi, forse addirittura Furio Colombo, gli abbiano raccomandato di maneggiare con cura il "vero" e il "falso": "qualifiche fluide e manipolabili" come insegna un altro maestro, Franco Cordero.

Di questo si parla, infatti, cari lettori - che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire.

Che cos'è un "fatto", dunque? Un "fatto" ci indica sempre una verità? O l'apparente evidenza di un "fatto" ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l'esercizio indispensabile del giornalismo che, "piantato nel mezzo delle libere istituzioni", le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio ("Io racconto solo fatti") si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: "Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia" indica una traccia di lavoro e non una conclusione.

Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo "la metà degli Anni Novanta", dunque) e soltanto "di lì a poco" (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l'Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità.

E' l'impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del "vero" e del "falso". Afferra un "fatto" controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv - e dell'impotenza della Rai, di un inerme Fazio - lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: "Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso...". Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l'ha mai detta, quella frase, è l'opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe.

Discutiamo di questo metodo, cari lettori. Del "metodo Travaglio" e delle "agenzie del risentimento". Di una pratica giornalistica che, con "fatti" ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. E' un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target (gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra). Farò un esempio che renderà, forse, più chiaro quanto può essere letale questo metodo.

8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei "cuscini". Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia.

Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d'ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio.
Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all'integrità di Marco Travaglio un'ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo?

Nessuno, che sia in buona fede, può farlo. Eppure un'"agenzia del risentimento" potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che "la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso" . Basta dare per scontato il "fatto", che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca.

Cari lettori, anche Travaglio può essere travolto dal "metodo Travaglio". Travaglio - temo - non ha alcun interesse a raccontarvelo (ecco la sua insincerità) e io penso (ripeto) che la sana, necessaria critica alla classe politico-istituzionale meriti onesto giornalismo e fiducia nel destino comune. Non un qualunquismo antipolitico alimentato, per interesse particolare, da un linciaggio continuo e irrefrenabile che può contaminare la credibilità di ogni istituzione e la rispettabilità di chiunque.


(14 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - L'analisi - Il resto della Regione - da Terzigno a Serre ...
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:38:57 pm
CRONACA

L'analisi - Il resto della Regione - da Terzigno a Serre - aspetta come finirà a Chiaiano

Ma per il governo è in gioco la credibilità del cipiglio decisionista

Napoli, pugno di ferro sulla rivolta così si prepara l'ultimo showdown

di GIUSEPPE D'AVANZO


NAPOLI - Soltanto un ostinato ottimista può credere che questa storia di Chiaiano non finisca - nelle prossime ore - malissimo. Nel peggiore dei modi. Lo prevedono entrambi gli antagonisti: chi protesta; chi la protesta deve affrontare. Sull'uno e l'altro fronte ne parlano come di un appuntamento improrogabile.

Sono come rassegnati alla "battaglia" lungo l'ultimo chilometro di via Cupa del Cane verso le cave di tufo di Poggio Vallesana, bloccate oggi da cinque, alte barricate di auto rovesciate, alberi abbattuti, filo spinato, cassonetti incatenati tra di loro. La prova di forza contrapporrà tra 24/48 ore - il tempo definisce l'effettività della decisione del governo e l'attendibilità del piano predisposto per decreto legge - giovani e meno giovani abitanti del quartiere ai "reparti mobili" e ai "battaglioni" di polizia e carabinieri.

L'ultima chance di dialogo è affidata a un incontro che Guido Bertolaso ha accettato di convocare per oggi pomeriggio. Anche in questo caso, la previsione è di una luna nera. La gente di Chiaiano si attende un negoziato, "una trattativa" per ridiscutere l'adeguatezza delle cave ad accogliere 700 mila tonnellate di rifiuti. Il sottosegretario/commissario esclude ogni nuova, debilitante mediazione. E' consapevole che, se non spezza un anello della catena di "no", di proteste, di rinvii, di ripensamenti, finirà fritto. E precipiterà, come già gli è accaduto una volta, nella trappola che si è "mangiato" anche Gianni De Gennaro.

A Terzigno - dove la cittadinanza ha già dato in questi anni prova di grande combattività - sono in attesa di vedere come finirà a Chiaiano. Se a Chiaiano il governo e lo Stato dovessero disarmare, a Terzigno vedranno uno spiraglio per evitare di raccogliere vicino a casa i rifiuti della provincia avviando così il consueto "effetto domino" che ha impedito, nell'ordine e nel tempo, l'apertura delle discariche di Parapoti, Serre, Ariano, Giugliano Taverna del Re, Pianura, Savignano. Se nel Napoletano l'anello della catena non si spezza, presto, prestissimo, subito, sarà arduo convincere Salernitani, Sanniti, Irpini, Casertani ad accogliere l'immondizia prodotta e rifiutata dai Napoletani. Manco a parlare dei Veneti o dei Siciliani o di una collettività che dovrebbe sborsare altre decine di milioni per sbolognare, a caro prezzo, l'immondizia agli impianti di riciclaggio della Sassonia.

Due discariche devono esserci nella provincia di Napoli, questo dirà Bertolaso, che considera la riunione di oggi non un "tavolo di negoziazione", ma un "tavolo di garanzia". Il commissario è disposto a "lavorare" nelle cave con i tecnici indicati dalla comunità di Chiaiano, a coinvolgerla nel controllo della quantità e qualità dei rifiuti che vi saranno smaltiti. Nulla di più. Chiederà che siano smantellati subito i blocchi stradali. Non accetterà che nella delegazione ci siano i "comitati di protesta" che, con una decisione stravagante del governo, sono stati dichiarati "sciolti" per decreto, manco fossero consigli comunali.

In gioco, a questo punto, non è soltanto la soluzione della lunga e ormai (per tutti) incomprensibile catastrofe dei rifiuti napoletani, ma la pubblica sfida lanciata da Silvio Berlusconi, la credibilità del cipiglio decisionista scelto, all'esordio, dal governo. E' come se il più che decennale ciclo della crisi dei rifiuti napoletani sia precipitato in un unico luogo, lungo un chilometro, dove si fronteggiano lo Stato e un quartiere. Uno Stato sostenuto dall'indiscutibile consenso di chi, al nord come al sud, a destra come a sinistra, chiede che questo crescendo di egoismi sociali e di autolesionismo pubblico finisca una buona volta - costi quel che costi - e una comunità che può diventare, nelle prossime ore, icona dell'opposizione a una "democrazia della forza" e non della partecipazione; simbolo nazionale di "resistenza" a una classe politica inetta e autoritaria, incapace di trovare nell'arco di quattordici anni soluzioni efficaci e condivise.

Tra l'uno e l'altro, tra lo Stato e quel quartiere, non c'è più alcuna forma di conciliazione. C'è soltanto il deserto degli sconfitti; lo sbaraglio di ogni mediazione politica, sociale, istituzionale; l'assenza di ogni fiducia nella cooperazione. Il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, che dovrebbe essere "Stato" con i cittadini e "cittadino" con lo Stato, non ha alcuna plausibilità né con i suoi cittadini né con lo Stato che dovrebbe rappresentare. Il governatore della Regione, Antonio Bassolino, giudicato ormai da queste parti alla stregua di un "dittatore africano", è preoccupato soltanto del suo destino politico in nome del quale si è felicemente abbarbicato al nuovo governo nella speranza di traghettare se stesso fino alle elezioni europee del 2009. La dissipazione di ogni capitale sociale, l'assenza di ogni traccia di radicamento nel territorio, l'evaporazione di ogni ruolo della politica che, sola, avrebbe potuto garantire quel "patto territoriale" - che sta alla base degli insediamenti di una discarica o di un impianto - chiudono il fallimentare bilancio.

Oggi, rien ne va plus, le jeux son faits. Poco importa che il piano del governo lasci ancora in vita l'intero network di intermediazione (consorzi, società miste) che ha ingoiato, negli ultimi dieci anni, 780 milioni di euro all'anno, quindi 15 mila miliardi di lire in dieci anni. Quel che conta, nelle prossime ore, è l'unitarietà emotiva della comunità di Chiaiano, la sua determinazione a "combattere fino alla fine", come si sente dire tra le barricate - e non paiono soltanto parole di una follia rabbiosa, scampoli disperati di irrazionalità. Di contro, il governo e lo Stato si giocano la faccia. Che ne sarebbe dei chiassosi annunci dell'Esecutivo (lotta alla clandestinità, nucleare, ponte sullo Stretto) se non riuscisse a piegare la riluttanza di una borgata di 30 mila abitanti, soprattutto quando gli altri, tutti gli altri chiedono, nell'interesse del Paese e della stessa Napoli, di chiudere finalmente questa umiliante storia? E' l'inconciliabilità delle ragioni in campo a rendere sconsolato anche il più ostinato ottimista. Si può sperare soltanto che, nelle poche ore che ci dividono dall'inevitabile showdown, la ragione e la responsabilità - di tutti - tornino a farsi vedere.

(25 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Il salto di qualità
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 05:08:09 pm
CRONACA

IL COMMENTO

Il salto di qualità

di GIUSEPPE D'AVANZO


QUANDO guarda alle cose "napoletane" (dove Napoli significa Campania), il racconto mediatico vede la Camorra ovunque. In ogni forma di gangsterismo metropolitano o di affare illegale; in ogni presenza delinquenziale anche se di piccolo cabotaggio; nei tragici segni del collasso sociale e culturale che riconosce, in un orizzonte vuoto di speranza e di occasioni, un solo senso: il potere come principio di tutti i rapporti e la violenza come metodo. È un'indifferenziazione azzardata fino all'ambiguità. Se tutto è Camorra, nulla davvero finisce per esserlo.

Diventata una formula omnibus, la nuda tragicità della Camorra produce un coinvolgimento emotivo, appassionato, infuriato, diffuso. Però, temporaneo. E quindi nessuna autentica iniziativa pubblica o "risveglio delle coscienze", come si usa dire. Perché la Camorra più che una patologia appare una maledizione antropologica e, come tale, finisce per creare - nell'indignazione - un consenso generalizzato, che interessa tutti e non divide nessuno, che non evoca alcuna posta in gioco, che - alla fin fine - non sfiora nulla di davvero importante.

La morte di Michele Orsi, l'uomo di affari ucciso in pieno giorno a Casale di Principe dinanzi al bar della piazza del paese, ci ricorda che cosa è Camorra e che cosa non lo è, qual è la posta in gioco e chi sono i pedoni, le Torri e i Re. Consente, come ha fatto Roberto Saviano, di dire i nomi, gli affari, le collusioni che fanno di un'associazione di assassini, come i "Casalesi", un potere temuto e rispettato.

I "Casalesi" sono quanto più di simile c'è in Campania a Cosa Nostra siciliana. Anzi, sono "figli" legittimi di Cosa Nostra, eredi diretti di quell'Antonio Bardellino che fu "uomo d'onore", ucciso dai Corleonesi in Sud America per non aver voluto tradire Tommaso Buscetta (il racconto è di Buscetta). Come la mafia siciliana, l'organizzazione dei Casalesi ha un rigido meccanismo di funzionamento, spiega Raffaello Magi, il giudice che li ha condannati nel processo "Spartacus": "Divisione del territorio per aree; affidamento di responsabilità direttive a capozona; ampliamento degli "organici" attraverso i vincoli di sangue; straordinaria capacità di sfruttare i rapporti con l'imprenditoria".

I "Casalesi" - a differenza dei gangster napoletani che vivono di spaccio di cocaina o di estorsioni - sfruttano in modo intensivo il loro territorio in ogni sua potenzialità economica. Interrano rifiuti tossici. Monopolizzano il mercato del calcestruzzo. Controllano la distribuzione di alcuni prodotti essenziali. Sono "mediatori del consenso" nelle stagioni elettorali, "mediatori sociali" durante le crisi istituzionali come quella dei rifiuti. Offrono protezione e opportunità di mercato a un'imprenditoria fragile, bisognosa di tutela e sostegno. Condizionano le politiche di amministrazioni, piccole e grandi.

Michele Orsi, un passato politico in Forza Italia e nei Ds, stava raccontando alla magistratura le mappe di questa geografia criminale. Aveva già testimoniato, nei mesi scorsi, al processo sullo smaltimento dei rifiuti (imputati alcuni imprenditori). Giovedì avrebbe dovuto deporre dinanzi al giudice per le indagini preliminari in un altro processo per la gestione dello smaltimento dei rifiuti, dov'era imputato con altri imprenditori; con un subcommissario di Guido Bertolaso; con Mario Landolfi, ex presidente della Commissione di Vigilanza Rai, accusato di corruzione aggravata di avere favorito "l'organizzazione".

Appare, forse, troppo dire - con Roberto Saviano - che Michele Orsi sta ai Casalesi come Salvo Lima stava a Cosa Nostra o che il processo in corso contro i mafiosi campani sia addirittura più significativo del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino contro la mafia siciliana. Questi accostamenti non aiutano a capire. Ribaltano sul presente il passato e rischiano di confondere la scena, incupendola oltre ogni necessità e semplificandola oltre ogni prudenza. Le cose appaiono oggi, da un lato, più propizie e, dall'altro, potenzialmente più tragiche.

Se un'organizzazione mafiosa è costretta a uccidere, lo fa per non aver saputo in altro modo far fronte alla crepa che si è aperta. Da un mese, i "Casalesi" stanno facendo, con il fuoco, terra bruciata tra chi ha voltato loro le spalle scegliendo di collaborare con lo Stato. Il 2 maggio a Castelvolturno è stato ucciso Umberto Bidognetti, colpevole di essere il padre del "pentito" Domenico. Il 16 maggio, ancora due morti. Un altro "testimone di giustizia", Domenico Naddeo, 65 anni, è stato ucciso con ferocia a Baia Verde di Castelvolturno.

Nello stesso giorno è caduto sotto i colpi dei killer l'imprenditore Domenico Noviello che, nel 2001, aveva trovato il coraggio di denunciare gli autori di un'estorsione ai danni della sua azienda. Nella notte del 30 maggio, i killer hanno sparato a Villaricca, nel Napoletano, contro Francesca Carrino, 25 anni, nipote di Anna Carrino, la compagna del "capo storico" dei Casalesi, Francesco Bidognetti. Anche lei è una "collaboratrice di giustizia".

Questa strategia racconta non solo quanto i "Casalesi" siano pericolosi. Dice anche quanto siano in difficoltà e come vogliano con il terrore difendere quel che resta del loro potere, delle loro connessioni. Sono deboli. Vogliono dimostrarsi ancora energici, ma sono a mal partito. Gomorra di Saviano li ha come denudati irrimediabilmente dinanzi all'opinione pubblica nazionale e internazionale.

Il primo processo "Spartacus" (21 ergastoli, 844 anni di reclusione, 95 condanne per associazione mafiosa) li ha privati di ogni aura di invincibile impunità. Ne ha mostrato una debolezza che ha convinto un drappello di capi, sottocapi, assassini, imprenditori collusi o imprenditori vittime a raccontare quanto sapevano o a indicare i loro "carnefici" nel secondo processo "Spartacus". È una fragilità che oggi rende i "Casalesi" disperati e quindi più temibili. Prossimi, secondo alcuni investigatori, a fare anche un salto di qualità "stragista" o a colpire i magistrati più esposti in questa battaglia.

Lo Stato che, in questi giorni, sembra non disprezzare "l'uso della forza" per far rispettare decisioni non condivise sarà più credibile se quella forza la userà anche - e senza risparmio, con più uomini e più risorse - contro questo clan mafioso. A cominciare dalla "caccia" senza quartiere a Michele Zagaria e Antonio Iovine, gli uomini della diarchia che, come ha spiegato Roberto Saviano, reggono oggi le sorti e gli affari dell'organizzazione. Sono latitanti da dieci anni. È giunto il tempo che la loro fuga finisca.


(2 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - "Hanno ucciso mio padre e vado via ormai qui ci...
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:57:33 pm
LA STORIA

Il figlio dell'imprenditore Domenico Noviello che disse no al racket: noi, vittime due volte

"Hanno ucciso mio padre e vado via ormai qui ci evitano come lebbrosi"


di GIUSEPPE D'AVANZO

 
NON È né stupito né entusiasta o appagato Massimo Noviello. La camorra di Francesco Bidognetti, un mese fa, gli ha ammazzato il padre - Domenico - sette anni dopo la denuncia dei racketeers che gli volevano prendere 100 milioni di lire all'anno. Sono stati arrestati, condannati, liberati. Sempre loro (è stato arrestato Francesco Cirillo, già condannato per quell'estorsione) lo hanno bloccato, sette anni dopo, nei pressi di Baia Verde sul litorale di Caserta. Domenico se li è visti addosso.

Intorno non c'era nessuno a quell'ora del mattino e, se qualcuno c'era, ha chiuso gli occhi e la bocca e non si è fatto più trovare. Domenico è riuscito a uscire in fretta dalla sua piccola Panda, a fare qualche metro. Gli assassini lo hanno ripreso e ucciso come un cane con venti botte calibro 9 e. 38.

La morte di Domenico Noviello, quasi si trattasse di un regolamento di conti tra camorristi, è finita tra le brevi di cronaca in quei giorni di maggio, cancellata dagli incendi dei campi rom di Ponticelli, dalla protesta per la "monnezza" di Napoli, dallo sfolgorante successo a Cannes di Gomorra.

Alla parola ergastolo, per sedici volte ergastolo, Massimo non dice: me lo aspettavo; non poteva essere altrimenti; meno male che è finita in questo modo o cose di questo genere. Se si guarda il suo volto immobile, gli occhi fissi nel vuoto, l'assenza di qualsiasi espressione capace di svelare un sentimento, quale che sia, sembra che gli importi poco o niente di quel che accade a Napoli, ormai.

Non è così. Il fatto è che Massimo Noviello sa - e vuole che lo sappiano gli altri, tutti gli altri, gli altri che contano a Roma e gli altri che non contano nulla e sono costretti a subire ogni giorno l'arroganza dei Casalesi - che la condanna di quelli, di Schiavone, Bidognetti, Iovine, Zagaria è soltanto un primo passo di un lungo, faticoso, doloroso cammino.

"Va tutto bene - dice - per mettere in ginocchio i Casalesi. Vanno bene gli ergastoli, quella galera a vita che non immaginavano di poter mai patire, ma ancora più del carcere sono necessarie le confische dei loro beni. Quelli, al denaro, tengono più di qualsiasi altra cosa, più del nome, più della libertà, più della famiglia. E' il loro punto debole, il nervo scoperto. Lo Stato deve togliergli la ricchezza. Questa è la strada per piegarli e, in ogni caso, questa è la via per scombinare il loro gioco anche se non c'è da illudersi. Non sarà semplice".

"Il potere dei Casalesi non è soltanto criminale. E' come se fosse nei pensieri e nelle azioni della gente di Casale. Io sono cresciuto da quelle parti. So l'idolatria dei più giovani per le gesta di quelli là. Li adorano, li venerano. L'ambizione più grande è un loro cenno di saluto - anche distratto - al bar davanti agli occhi di tutti. Li imitano. Quelli mettono su una camicia con un grande papero? Tutti, con quella camicia e il papero. Quelli calzano solo Hogan? Tutti con le Hogan. Replicano i loro gesti. Ripetono le loro parole e i loro atteggiamenti. Al più leggero screzio senti dire: "Che c'è? Vuoi che ti tagli la testa?" La cocaina e l'avidità fanno il resto. Era il mondo violento e ottuso che mio padre disprezzava e ha rifiutato".

Dice Massimo Noviello che il padre Mimmo "era un uomo solare". "Amava la vita. Voleva viverla alla luce del sole, senza vergognarsene. Non era un don Chisciotte, non era un pazzo, non era un visionario, come gli hanno detto poi. Non era un eroe, soprattutto. Era un uomo dignitoso, che credeva al decoro e alla legge. Si è soltanto rifiutato di inchinarsi alla forza, alla prepotenza della camorra. Non lo ha fatto per insegnare qualcosa agli altri. Lo ha fatto soltanto per se stesso, per potersi guardare allo specchio con serenità, senza sentirsi umiliato".

"Mio padre non è finito in un gioco sconosciuto. Conosceva le regole perché il dolore e il sangue avevano già abitato la nostra casa. Trent'anni fa il fratello di mia madre, a 33 anni - all'età che ho io oggi - fu ammazzato per non aver voluto pagare il prezzo del ricatto sulle sue proprietà terriere. Quando è toccato a mio padre ricevere la visita di quei delinquenti, ci ha chiamati e ci ha detto che non avrebbe pagato. Lo ha detto subito e lo ha ripetuto anche a mia madre Luisa, terrorizzata dal ricordo del fratello. Io sono stato d'accordo con lui e continuo a pensare che ha fatto la cosa giusta. Ancora oggi mi sembra di sentirlo quando mi chiede: vale la pena vivere docili e ubbidienti come pecore? Lo capivo".

"Capivo che non c'era alcuna intelligenza nella tentazione di arrendersi. Come avremmo potuto vivere con quella avvilente rabbia in corpo? Come avrebbe potuto vivere lui, in quella situazione? Quella sofferenza avrebbe ucciso la sua gioia di vivere, lo avrebbe immiserito, e lo sapeva, lo diceva. Non c'era altra strada. Non doveva pagare. Per anni, siamo andati in giro armati, guardandoci le spalle, prudentissimi. Appena prima di morire, mio padre mi scongiurava di non accettare appuntamenti in luoghi isolati anche se a chiamarmi lì fosse stato il mio migliore amico. Diceva: se quelli hanno perduto tutto, si toglieranno i sassolini che hanno nelle scarpe".

Domenico Noviello non è stato ucciso per vendetta. Lo hanno ammazzato, il 16 di maggio, per dire a tutti gli altri che c'è sempre il tempo di pagare il prezzo della sfida. Lo hanno ammazzato due giorni dopo l'incendio della fabbrica di materassi di Pietro Russo, presidente della prima associazione antiracket del Casertano, protetto dalla scorta da tre anni. Un altro modo per far sapere in giro che lo Stato non è in grado di proteggere nessuno davvero. Delitti simbolici per recuperare un "prestigio" che i Casalesi si vedono, come sabbia, scivolare tra le dita.

Dice Massimo: "Non ho alcun ripensamento sul passato, ma so che è giunto il tempo di andar via da Castelvolturno dove abbiamo sempre vissuto. Siamo ormai stranieri nella nostra terra. Al funerale c'era soltanto la nostra famiglia, le associazioni antiracket, la polizia. La gente ci guardava da lontano, indifferente. Non c'è stato un negozio che ha ritenuto di calare la saracinesca in segno di lutto. Peggio è andata alla messa del trigesimo. Non c'era nessuno. I nostri amici, anche quelli più cari, ci evitano come se fossimo dei lebbrosi. C'è sempre un motivo che impedisce loro di venire a casa o di raggiungerci in pizzeria. Abbiamo avuto accanto, per ora, soltanto lo Stato. Avere fiducia nello Stato è la sola opportunità che ci resta".

(20 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Si rischia il caos della giustizia. Il premier non confonda...
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 04:18:09 pm
POLITICA

La proposta del segretario Cascini: cancellare dal dl la norma che blocca i procedimenti lasciando quelle sulle cariche istituzionali

L'Anm offre una tregua al governo "No a sospensioni, sì all'immunità"

"Si rischia il caos della giustizia. Il premier non confonda politica e privato"

E i giudici si dichiarano disponibili alla riforma del sistema

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - Nelle ore della più radicale contrapposizione tra magistratura e Berlusconi, nasce - spontaneo, con ragioni anche dissimili, dentro e fuori il governo e le istituzioni - un partito trasversale della "tregua". Lo sollecita Pierferdinando Casini (Udc). Lo invoca Roberto Castelli (Lega). Gli dà metodo e forma una "lettera aperta" di Francesco Cossiga che invita il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a muovere la sua moral suasion ("il suo più forte potere") per "convincere" Berlusconi "a stralciare nel "passaggio" alla Camera le norme "incriminate"".

"Incriminate" sono le norme che sospendono di un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno 2002, e quindi anche il dibattimento ormai agli sgoccioli che vede il capo del governo imputato a Milano per corruzione in atti giudiziari.

All'urgenza di una tregua e di "nuovo inizio" di dialogo vuole contribuire anche l'Associazione nazionale magistrati che, con la voce del segretario Giuseppe Cascini - mentre chiede di "espungere" la sospensione dei processi dal "decreto sicurezza" - osserva che compete esclusivamente "all'autonomia della politica decidere delle immunità da offrire a chi ricopre cariche istituzionali". Il percorso - no alla sospensione; sì alle immunità; dialogo sulle riforme di giustizia - (sembra di capire) creerebbe le condizioni per "raffreddare un clima" che, incandescente, danneggia tutti. Il governo. La magistratura. Il cittadino.

Cominciano da Cossiga, dottor Cascini. Il presidente emerito propone di stralciare la sospensione dei processi dal decreto legge sulla sicurezza. Voi siete d'accordo?
"Noi pensiamo che le norme che sospendono i processi devono essere espunte dal decreto".

Cossiga immagina, in caso contrario, uno scenario drammatico: dimissioni del governo, elezioni anticipate, "governo d'emergenza", "democrazia semiprotetta" dal Capo dello Stato.
"Non è il mio compito azzardare previsioni. Il nostro compito è indicare i gravi problemi di funzionalità per il processo penale che deriverebbero dalla sospensione generalizzata di migliaia di processi. Si creerebbe un caos senza precedenti che può inceppare in modo definitivo una macchina giudiziaria già molto sofferente. Sembra già un buon motivo per eliminare quell'emendamento. Ma ce n'è un secondo, nascosto in un paradosso. Da un lato, il governo inasprisce le pene per reati di grave allarme sociale (per esempio, gli omicidi colposi da circolazione stradale); dall'altro, blocca i processi per gli stessi reati perché non li ritiene gravi. L'effetto è che le vittime di quei delitti dovranno continuare ad attendere una sentenza che potrebbe non arrivare mai".

E' ipocrita girarci intorno. Anche Berlusconi, nella sua lettera a Schifani, sovrappone il provvedimento con il suo processo milanese. Ancora più esplicito è stato il suo avvocato e consigliere Niccolò Ghedini: la sospensione di un anno serve per approvare una nuova legge immunitaria.
"Chi governa dovrebbe tenere ben distinte le vicende personali dalle questioni di carattere generale. Uno dei problemi che ha avuto il Paese negli ultimi anni è stata proprio la confusione tra singoli affari penali e interventi legislativi. Il risultato è un processo penale sconnesso, che consente agli imputati tanti e troppi espedienti per sottrarsi al giudizio. Il paradosso è che un processo penale che non funziona finisce per negare in radice il diritto alla sicurezza dei cittadini. Diritto che può essere garantito soltanto da un processo penale rapido, giusto per gli imputati e le vittime, efficace con il colpevole".

D'accordo, questo è il problema, ma qual è la soluzione?
"Alle soluzioni stavamo lavorando prima della violenta ripresa di un clima di scontro. La nuova contrapposizione confonde le questioni e mette insieme piani diversi. Credo che bisogna fermare le polemiche e tornare a separare i problemi e gli argomenti da affrontare".

Si spieghi meglio, per favore.
"Sul tavolo ci sono tre diverse questioni. 1. La riforma della giustizia. Richiede dialogo, ponderazione, analisi prudenti, qualche convergenza. Non si può legiferare senza valutare le conseguenze delle innovazioni, come è accaduto con la norma che congela i processi. 2. Una leale collaborazione tra le istituzioni. Se si aggrediscono singoli magistrati accusandoli, più o meno, di attentato alla Costituzione, la soluzione dei problemi si allontana. 3. Infine c'è la proposta di fermare i processi per le più alte cariche dello Stato. Questi capitoli devono restare separati e ciascuno deve avere un luogo, un metodo e gli attori per essere affrontati e risolti".

Voi siete d'accordo con un nuovo lodo Schifani-Maccanico?
"La scelta dell'immunità temporanea o permanente di chi ha alte responsabilità istituzionali spetta all'autonomia della politica che valuterà le forme e i modi di un eventuale provvedimento tenendo conto delle indicazioni della Corte Costituzionale".

Per quel che si è capito, però, Berlusconi subordina ogni iniziativa all'approvazione del nuovo lodo.
"La questione dell'immunità deve essere separata e non confusa con i meccanismi che fanno funzionare i processi né può essere accompagnata da una campagna di aggressione contro alcuni magistrati. Come non può interferire con la legislazione ordinaria in materia di giustizia. Voglio dire che ogni questione deve essere affrontata sul suo piano. E' l'unico metodo possibile per andare avanti e ha una precondizione: il riconoscimento di legittimità tra le diverse istituzioni dello Stato. Se i giudici condannano all'ergastolo i Casalesi, credo che il capo del governo abbia il dovere di tutelare la legittimità democratica di quella decisione, come peraltro ha fatto il Capo dello Stato. Se il giorno dopo quella sentenza, per altri motivi, si accusa la magistratura di attentato alla democrazia si provoca una crisi di legittimità, credibilità e fiducia che paga, non solo l'ordine giudiziario, ma soprattutto il cittadino che sarà meno protetto dai poteri criminali".

Le dice: "dialogo". Ma chi è il vostro interlocutore? L'avvocato Ghedini, che scrive le leggi, o il ministro Alfano, che le presenta in Parlamento?
"Alcuni atteggiamenti della difesa nel processo non aiutano una maggiore comprensione dei problemi. Le faccio un esempio. Nel codice c'è scritto che l'istituto della ricusazione non sospende il processo, ma impedisce solo la pronuncia della sentenza. L'avvocato Ghedini ha invece sostenuto che la mancata sospensione del processo è "la prova" che il giudice è prevenuto. Questo comportamento è emblematico di una volontà di inasprire il conflitto. Il guaio è che questo metodo non si ferma all'interno del processo, ma viene trasferito anche in sede politica e legislativa".

Dunque, meglio il ministro Alfano?
"Il ministro è il grande assente in questa vicenda. All'inizio del suo mandato ha ben impostato un metodo di lavoro mostrando di condividere priorità e urgenze. Avrebbe dovuto tenerne conto anche quando, in occasione delle presentazione della norma che sospende i processi, non ha fornito al Parlamento i dati sulle gravi conseguenze di quel provvedimento sul funzionamento della giustizia di cui, per dettato costituzionale, egli è responsabile".

L'ultima domanda è per la magistratura. Soltanto il 21 per cento degli italiani, a quanto pare, ha fiducia nella magistratura. Non è un problema?
"Certo che lo è. La crisi di funzionalità della giustizia sta lentamente corrodendo anche la credibilità dell'istituzione giudiziaria. Sono necessarie e urgenti riforme legislative, ma occorre riconoscere che ritardi e inefficienze sul piano organizzativo e anche comportamenti non ortodossi di singoli magistrati hanno contribuito a creare un clima di sfiducia nei confronti del sistema. La magistratura è impegnata in uno sforzo di rinnovamento e di autoriforma. Il Consiglio superiore sta provvedendo a un radicale rinnovamento della direzione degli uffici mentre un sistema periodico di valutazione darà alla magistratura più professionalità ed efficienza. Ma ripeto: ogni problema deve avere il luogo, gli attori e il metodo per essere affrontato e risolto".

(24 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Il prezzo dell'impunità
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 11:02:57 am
POLITICA IL COMMENTO

Il prezzo dell'impunità

di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un'opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).

Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell'amministrazione giudiziaria, un'accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d'insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli. Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un'immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest'occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.

Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all'anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l'esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione. Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall'altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002. In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l'azzoppa irrimediabilmente.

Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia". Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d'uscita dalle molte crisi che lo affliggono.

In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.

C'erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero? La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell'interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un'immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C'era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell'Associazione nazionale magistrati. Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio. Affiora un metodo. Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo. Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un'agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un'agevole previsione credere che molto presto toccherà all'informazione.

(25 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Il luglio del Cavaliere
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 05:50:54 pm
POLITICA

IL COMMENTO

Il luglio del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


 BERLUSCONI scatena sempre l'inferno quando saltano fuori en plein air le sue performance ai bordi (o al di là) della legge. Una memoria acustica non più protetta dal segreto racconta la materia delle mirabilia di tycoon e delle fortune di premier. Sono parole che possono finalmente spiegare la natura della sua odierna, frenetica "ossessione giudiziaria"; la direzione dei passi di oggi, le iniziative di domani imposte come capo del governo a un Parlamento obbediente.

È il magnate delle televisioni e, come capo dell'esecutivo (2001/2006), ha promosso i suoi rampanti ovunque. Nella Rai, impresa concorrente, e nell'Autorità di controllo sulle comunicazioni, dove sistema un famiglio che lo chiama "il Gran Capo" Nelle conversazioni, pubblicate ora da l'Espresso, Berlusconi - manco fosse ancora a Palazzo Chigi e in Mediaset - tira i fili e li riannoda in uno stesso gomitolo dove si intrecciano sinergie affaristiche; il pubblico e il privato; passioni personali; piccole utilità private; convenienze d'impresa; promesse di favori futuri per chi gli si mostrerà devoto anche se lavora per il competitore (è il caso di Agostino Saccà); oscure trame politiche tese a ribaltare il governo Prodi, a ottenere il "salto della quaglia" di un pugno di senatori "ulivisti" (siamo nel 2007). Tornano utili, in questi casi, anche le fiction dove sistemare le "protette" di questo o di quello o anche le sue personali, magari irritate da un'improvvisa disattenzione e diventate "pericolose".

La scena che si scorge è il fondale buio in cui immaginavamo si costruissero gli affari fortunati e i successi politici di Silvio Berlusconi. Controllo pieno dell'intero sistema televisivo; insofferenza alle regole. In una formula ormai affogata nell'oblio, il teatro di un conflitto d'interesse dispiegato e catafratto dove la politica si sovrappone all'impresa; l'impresa alle strategie politiche; addirittura la vita privata alle decisioni pubbliche.

Di questo si dovrebbe discutere, no? Di un conflitto d'interesse maligno, ormai metabolizzato dalla politica e dall'opinione pubblica, quasi rivendicato come un diritto sacro. Del risibile fervore di Autorità di controllo (l'Agcom) che nascono servizievoli e quindi morte, se affidate al controllato. Di un mercato e di una concorrenza degradate a beffa per gonzi. Di un servizio pubblico radiotelevisivo appaltato ai potenti di turno per lotti, anche nei più arrischiati angoli.

Il premier non se ne dà per inteso. Non conosce alcuno scrupolo, si sa. Nei canoni immaginati dalla iustitia secundum Berlusconem, la privacy è un
valore supremo, qualunque cosa, buco nero, gesto gaglioffo, riveli. Donde il divieto di indagare (è già in parlamento il disegno di legge che vieta, per la gran parte, l'uso delle investigazioni acustiche). Come dire che rivendica il diritto di non essere scoperto. Diritto che deve accompagnarsi, dice, al dovere del giornalismo di tacere, nascondere, dimenticare, pena la galera e la disgrazia finanziaria.

"Addetti alla corvée dell'urlo", così li chiama Franco Cordero, saltano allora come jack in the box (sono i fantocci a molla che scattano dalla scatola) e gridano forte. Tutto sta nel gridare fino a soverchiare i fatti, a farli fluttuare e a crearne di fittizi, a parlare di quelli. Soltanto di quelli. Naturalmente declinando in ogni lingua la parola "complotto" perché il Capo avverte ogni regola, limite o dissenso come un atto persecutorio. Complottano così la solita opposizione "comunista"; i pubblici ministeri annidati come neoplasie nel corpo sano della magistratura; i giudici infiltrati nei tribunali per staccargli la testa; ogni foglio che non sia laudatore o muto e cieco.

Lo strepito, sostenuto dalla rituale tempesta mediatica, dovrebbe farci dimenticare che non vuole essere giudicato. Si considera legibus solutus. Unto dal voto, ritiene di rappresentare un potere intoccabile, "divino" e non solo carismatico perché custode del "potere costituente del popolo" che lo sistema al di là e al di sopra del feticcio costituzionale e di ogni altra autorità dello Stato (figurarsi di funzionari vincitori di un concorso). Il mondo è lui. L'Italia è lui.

È agitato perché lo attende un luglio macchinoso. Molti nodi possono venire al pettine. Il 4 luglio a Napoli si decide se chiedere l'utilizzo delle conversazioni registrate con il boss della Rai a cui promette affari. Il 7 luglio, udienza a Milano per l'affare Mills (Berlusconi è accusato di aver comprato una testimonianza: corruzione in atti giudiziari). 8 luglio, udienza preliminare contro Agostino Saccà. Il 10, la Corte d'Appello di Milano avvia la discussione sulla "ricusazione" del presidente del tribunale che, in quella città, lo sta giudicando (il processo è agli sgoccioli). 14 luglio, ultima udienza milanese prima della pausa estiva. 18 luglio, il giudice dell'udienza preliminare di Napoli decide se c'è materia degna per rinviarlo a giudizio per corruzione di Saccà, incaricato di pubblico servizio (se si dovesse decidere di distruggere le intercettazioni, si sarebbe grattato la rogna).

Come è già accaduto in passato, con i processi milanesi "Sme" e "Mondadori", Berlusconi - ritornato a Palazzo Chigi - gioca su quattro tavoli contemporaneamente. 1. A Milano e a Napoli scatena i suoi avvocati-consiglieri-senatori-quasi ministri con qualche trucco tecnico, cavillo perditempo, asfissia ostruzionistica come la "ricusazione" del giudice. Occorre tempo, è prezioso. 2. Alle Camere corrono i disegni di legge che possono manipolare o addomesticare i giudizi. In passato, si sono aboliti reati (il falso in bilancio) o fonti di prova (le rogatorie). Oggi, è all'approvazione della Camera (il Senato ha già obbedito) la sospensione per un anno del processo milanese (poco conta che è stato necessario congelarne altre migliaia). Domani, prenderanno a correre le norme sulle intercettazioni che avrebbe voluto decreto con forza immediata di legge (se approvato, come si potrà autorizzare l'uso di quelle memorie acustiche che lo imbarazzano e forse lo dannano?). 3. Meglio non fidarsi e dunque a Milano, come già nel passato il suo sodale Previti, proporrà la fuga dal suo giudice naturale: l'ambiente giudiziario milanese è infetto, empio, politicizzato. È sul quarto tavolo, però, che giocherà la carta vincente. Il Parlamento è una bottega sua, è pronto ad approvargli una definitiva legge immunitaria. Recita: il Capo non è giudicabile. I processi si sospendono automaticamente. Finché siede a Palazzo Chigi, la sua posizione resta nel limbo. Rieletto - magari al Quirinale, come desidera - recupera l'immunità. La corsa a ostacoli annuncia mostri giuridici e sgorbi costituzionali. Vedremo come reggeranno gli equilibri e quale piega prenderanno le cose italiane.

(27 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - La strana cura della democrazia
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2008, 02:34:09 pm
POLITICA L'EDITORIALE

La strana cura della democrazia

di GIUSEPPE D'AVANZO


AI LIVELLI infimi, il tempo non passa. Lo sapevamo. Berlusconi ci aveva ricordato presto come fosse un'illusione ottica la metamorfosi in homme d'Etat. Insofferente delle regole (etica, legalità, grammatica politica, sintassi istituzionale), il magnate di Arcore vuole ieri come oggi ridisegnare lo Stato sulle sue misure e interessi liberando il proprio potere - "unto" dal consenso popolare - da ogni contrappeso. Il Corriere della Sera, pulpito liberale, ne dovrebbe essere raccapricciato o almeno impensierito. Accade quel che è già accaduto in passato: da quei pulpiti soi-disants liberali si odono argomenti che tolgono il fiato.

La chiave è la consueta, è musica vecchia. Oltre ogni ragionevolezza, non si vede e nulla si dice del fatto più scomodo: l'interesse privatissimo del capo del governo, padrone di un Parlamento obbediente, a legiferare per proteggere se stesso a prezzo della distruzione del processo penale, dell'indebolimento della sicurezza nazionale, dell'incostituzionalità delle norme che gli garantiscono una impunità perpetua. Si chiudono gli occhi dinanzi allo "scandalo" berlusconiano: gli affari privati del presidente del Consiglio sono la sola voce nell'agenda di un governo alle prese con un Paese impoverito, stagnante, in declino, impaurito da una crisi di cui non avverte né la fine né le vie d'uscita.

L'oratore non sembra interessato a capire che cosa avviene e che cosa può avvenire. Non gl'importa. Il suo bersaglio è concreto. Vuole indicare all'opinione pubblica dov'è "la patologia"; da chi e che cosa deve guardarsi il Paese; chi minaccia con passi eversivi la legittimità del potere politico. Non ci sono "i bolscevichi" oggi alle porte, come nel 1919/1924 quando Luigi Albertini, direttore e comproprietario del Corriere, applaudì l'"anticorpo fascista" salvando l'Italia da "gorghi del comunismo" (possono avere delle costanti le storie collettive). Oggi, per l'oratore pseudo-equanime, l'orda barbarica che minaccia il Paese e la democrazia, è nientedimeno che la magistratura. Sono quelle toghe nere che con "l'arbitrio dell'azione penale, con la mancanza di terzietà, con la ricerca di visibilità dei pubblici ministeri", imbrigliano Berlusconi "con un'immane mole di procedimenti giudiziari".

Lasciamo perdere che all'oratore sfugge come la plastica dimostrazione della terzietà dei giudici italiani sia proprio la storia giudiziaria dell'uomo di Arcore, assolto e liberato dalla prescrizione, mai condannato. Dimentichiamo che, se di Berlusconi si sono dovuti occupare centinaia di giudici in migliaia di udienze, è per la scelta dell'imputato di fuggire dal processo e dai suoi "giudici naturali" verso altri giudici, verso altri tribunali e Corti in attesa di manipolare a suo beneficio codice penale (i reati), codice di procedura penale (i processi), Costituzione (i poteri, il loro equilibrio).

Andiamo al sodo. L'idea che trapela dal sermone è che c'è una sola cura, e necessaria: fine dell'obbligatorietà dell'azione penale; separazione della funzione requirente da quella giudicante; ridimensionamento del Consiglio superiore della magistratura. Osserviamo il mostro che questa "terapia" partorisce. Carriere distinte, dunque. I pubblici ministeri diventano, come nel codice napoleonico, procureurs impériaux o avvocati dell'accusa scelti, istruiti, promossi, puniti dal ministro perché stanno al guardasigilli come il prefetto al ministro dell'Interno (soltanto per pudicizia, forse, l'oratore non lo spiega). L'azione penale non è più obbligatoria. Il pubblico ministero sceglie a mano libera i suoi oggetti, guidato e consigliato dal potere esecutivo. Difficile credere a qualche processo molesto che scuota l'alveare o affondi il bisturi nella diffusa corruzione nazionale. Più facile immaginare che i "non conformi", le teste storte, gli "erranti" rischino qualcosa, magari soltanto vivere con un bastone a poca distanza dalla testa.

Naturalmente, in teoria, anche il modello che prevede il pubblico ministero diretto dall'esecutivo ha delle virtù (può bluffare il pubblico ministero indipendente come essere ineccepibile il requirente che risponde al ministro), ma ogni disegno normativo non nasce nel vuoto pneumatico. Quello che si augura l'oratore pseudo-neutrale dovrebbe prendere forma nell'Italia 2008 dove un uomo, che viene dal capitalismo d'avventura, governa una signoria populista: possiede direttamente - e direttamente controlla, come s'è visto nell'affare Saccà - l'intero sistema televisivo, un arsenale che gli permette di "creare" la realtà, inoculare affetti o fobie, insufflare o determinare la necessità di improrogabili decisioni. È l'uomo che, alla prima occasione (1994), propone come ministro di giustizia un suo avvocato e sodale (Cesare Previti), barattiere giudiziario, condannato poi per aver corrotto un giudice regalando la più grande impresa editoriale del Paese (la Mondadori) al suo Capo. È il presidente del consiglio che, nel suo quarto governo, sceglie come guardasigilli non Giustiniano o Tommaso Moro, ma un ragazzo che gli è stato segretario (Angelino Alfano).

Ora, da quel pulpito liberale, si vorrebbe sapere se questo conflitto d'interessi, che scarnifica l'ordinata architettura dei quattro poteri (governo, Parlamento, magistratura, informazione), rende possibile mettere in discussione l'autonomia e indipendenza della magistratura liquidando tre norme costituzionali: 104 ("La magistratura", pubblico ministero incluso, "costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"); 107 (inamovibilità dal grado e dalla sede); 112 (obbligo d'agire). Come è ovvio e legittimo, lo si può pensare. Lo si dovrebbe dire in trasparenza, però. Il Corriere della Sera, come il Luigi Albertini del discorso alla Corona, Palazzo Madama, 18 giugno 1921, dovrebbe dire ai suoi lettori: noi qui, in via Solferino, tempio della cultura liberale, crediamo che per migliorare la qualità della nostra democrazia, e "salvare l'Italia", i pubblici ministeri debbano essere diretti dall'esecutivo. Cioè, oggi, da Silvio Berlusconi. Sono le parole che non si ascoltano nel sermone finto neutrale. Con un paradosso guignolesco, l'oratore chiede che a dire questa affabile bestialità da mondo sublunare debba essere la "sinistra riformista": dovrebbe "mettere una buona volta fine alla devastante patologia che affligge da decenni il nostro sistema giudiziario".

Già incapace a tempo debito di risolvere il conflitto d'interessi, dovrebbe dunque essere la sinistra, il Partito democratico, a sacrificare all'Egoarca anche l'autonomia della magistratura perché la politica - questa politica, già monca del Parlamento ridotto a rifugio di statue di gesso - viene prima del feticcio legalistico. È proprio vero che "i maghi ingrassano dove esistono le anime fioche".



(30 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Le parole maliziose cancellate a Milano
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:43:11 am
POLITICA IL RETROSCENA

Le parole maliziose cancellate a Milano

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

IL regime di Berlusconi è ipnotico. Combina l'agenda del governo come se fosse un palinsesto televisivo. Da giorni, come una giacca al chiodo, il Paese è appeso a un dilemma: che cosa dice Berlusconi nelle conversazioni privatissime registrate dalla procura di Napoli? Le sue parole sono davvero così viziose da metterlo nei guai? Addirittura da costringerlo alle dimissioni? È vero che, in un documento acustico, spiega a Fedele Confalonieri le ragioni postribolari dell'ingresso di qualche ministra nel governo (gli uomini di Di Pietro arrivano a chiederlo in pubblico)?

La politica di Palazzo Chigi è soprattutto arma psicologica. Le necessità e le urgenze nascono, come nella performance di un illusionista, in un mondo di immagini, umori, riflessi mentali, paure, odio del tutto artefatti come le emozioni dinanzi alla visione di un film. Il metodo dovrebbe essere ormai familiare. Qualcuno grida qualcosa, lo grida di nuovo e ancora più forte finché non diventa un mezzo fatto, un quasi fatto. Ecco allora che cosa strilla un'aquila del Partito della libertà (Boniver): "Quelle intercettazioni private. Eccome se ci sono. E dentro c'è di tutto e di più. Le ha in mano un magistrato. Bisognerà solo capire come e quando verranno fuori". Le fa eco un'altra voce femminile del partito blu (Santelli): "Una parte della magistratura ha perso ogni pudore nell'utilizzo delle intercettazioni e ora ha la tentazione di usarle come arma finale nella guerra politica del governo".

Dunque le cose stanno così, strepitano i corifei mossi dal sovrano: i magistrati spiano Berlusconi; ne registrano le conversazioni; ne raccolgono flussi verbali privatissimi e licenziosi, pronti a farne una mazzuola per ferirlo a morte. È necessario un provvedimento con immediata forza di legge che impedisca le intercettazioni della magistratura; che punisca con la galera i giornalisti che le pubblicano, che mandi in rovina gli editori. Giorgio Napolitano dovrà ricredersi e riconoscere, come non ha voluto fare finora, l'urgenza di quel decreto: ricattano il capo del governo, accidenti.

Nel tableau di cartapesta, la memoria deperisce, i fatti si confondono. Nessuno si chiede se siano "fatti" o "quasi fatti", se abbiano appena un palmo di attendibilità. Il fasullo appare più vero del vero, nel regime ipnotico del mago di Arcore. Il fumo è più concreto dell'arrosto. Nel bailamme, non si ode la domanda più ragionevole e pratica: esiste a Napoli un'intercettazione telefonica tra Berlusconi e Confalonieri? Posta la domanda, si può scoprire che neppure può esistere quella telefonata a Napoli perché, nel rispetto della legge, Berlusconi non è stato mai intercettato direttamente e Confalonieri, nell'affare Saccà, è una comparsa del tutto marginale (e quindi mai sottoposto ad "ascolti" diretti).

Non a Napoli, ma a Milano andrebbero cercate le conversazioni tra il presidente di Mediaset e il mago di Arcore. A Milano, nei faldoni elettronici dell'inchiesta sul fallimento di Hdc, la società di Luigi Crespi, sondaggista e fortunato inventore del "contratto con gli italiani". In quei file-audio, c'è un colloquio alquanto simile a quello che, soltanto immaginato, ingrassato dalla malafede o dall'ingenuità, ammattisce istericamente i Palazzi di Roma e ingolosisce le redazioni. "Silvio" e "Fedele" si intrattengono sulle virtù di una giovane signora planata dallo spettacolo nella politica. Ma nessuno, fortunatamente, potrà più ascoltare le loro parole. La registrazione è stata mandata al macero, il 13 giugno, per decisione del giudice delle indagini preliminari Marina Zelante: la telefonata era irrilevante per il processo.

Il capo del governo, come gli avrà spiegato senza dubbio il suo avvocato-senatore-consigliere Niccolò Ghedini, può stare tranquillo: non ne esistono copie perché il software utilizzato dalla ditta milanese che lavora, in appalto, per la procura di Milano impedisce che i file-audio possano essere copiati senza lasciarne traccia elettronica.

Serenità, il presidente del Consiglio, dovrebbe ricavare anche da quel che presto accadrà a Napoli. Nei prossimi giorni saranno distrutte le conversazioni di Berlusconi irrilevanti per il processo, come Ghedini sa e maliziosamente, malignamente non dice (anche se parla tanto e quotidianamente). Sono conversazioni malinconiche, a quanto pare. Il mago si protegge da ogni tentazione giovanile e pressing femminile. Appare consapevole, con qualche nostalgia, dell'ingiuria che il tempo infligge all'energia. Le soubrette ne parlano tra di loro, deluse.

Ricapitoliamo. In due inchieste - a Milano, per il fallimento di una società di sondaggi legata a Mediaset; a Napoli, per i traffici di Agostino Saccà - affiora la voce di Berlusconi. Gli investigatori la raccolgono e catalogano. In alcuni casi, è utile a ricostruire i fatti. In altri, è inservibile perché parla d'altro. Nel primo caso, in contraddittorio con la difesa, dinanzi a un giudice terzo, il pubblico ministero domanda che sia chiesto al Parlamento l'utilizzo della memoria acustica. Nel secondo, alla presenza degli avvocati della difesa e dinanzi a un giudice che decide, l'accusatore chiede che quei documenti sonori siano distrutti, come prevede la legge.

La procedura è lineare. Protegge gli interessi di tutti gli attori. Permette l'efficacia dell'accertamento dei fatti (che cosa è accaduto e per responsabilità di chi?). Tutela la privacy degli indagati e di chi è coinvolto nell'inchiesta, malgré lui. Se ne potrebbe dedurre che il sistema, nonostante riforme sgorbio, traffici legislativi, procedure sovraccariche, ha coerenza, appare adeguato e regolato da una magistratura equilibrata.

Vediamo al contrario, che cosa accade nel regime ipnotico. Con un tramescolio di carte, notizie storte affidate a fedeli e famigli, veleni insufflati in un circo mediatico disposto a enfatizzare e credere, senza raziocinio, a qualsiasi intrigo, paradosso, salto logico, lavorando come fosse un'utile leva anche la sprovvedutezza degli avversari, il mago di Arcore confonde la scena. Anzi, la modella a mano con la sua "macchina fascinatoria". Mi spiano illegalmente, geme. Vogliono ricattarmi con intercettazioni private, raccolte illegalmente e abusivamente consegnate alla redazioni. L'anatema gli consente di non discutere delle accuse che gli sono mosse. Imperversa, allora, come ossessionato da se stesso e dai suoi fantasmi. Protesta, deplora, minaccia incursioni televisive o requisitorie parlamentari. La pantomina, che si è affatturato con la complicità del suo avvocato-consigliere, lo autorizza a chiedere alle Camere genuflesse una nuova legge cucita per la sua silhouette. Si sente abilitato a pretendere dal capo dello Stato di riconoscere l'urgenza costituzionale di un decreto legge che di necessario ha soltanto la sua personale ansia di impunità. Berlusconi, a quanto pare, avrebbe voluto già oggi un provvedimento che vieta, pena la galera per il giornalista e la disgrazia dell'editore, la pubblicazione delle intercettazioni. Non l'avrà, almeno per oggi. Il gran rumore di queste ore se l'è procurato da solo. Che buona medicina sono i fatti.

(4 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Le magie dell'Intoccabile
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2008, 10:20:59 am
POLITICA L'ANALISI

Le magie dell'Intoccabile

di GIUSEPPE D'AVANZO



Il mago di Arcore pretende l'impunità e l'otterrà. Inutile girarci intorno, questo è lo stato dell'arte. E' una confessione la "via d'uscita" escogitata da Gianni Letta.

Il Parlamento discuterà subito il "lodo Alfano" che offre l'immunità alle prime quattro cariche dello Stato. Votato il "lodo", l'emendamento "sospendi-processi" diventerà superfluo. Berlusconi sarà intoccabile per cinque anni, qualsiasi reato abbia commesso in passato, qualsiasi reato gli capiterà di commettere da qui fino alla fine del suo mandato. La sospensione dei processi avrebbe congelato soltanto per un anno il dibattimento di Milano ormai agli sgoccioli (Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari). Il "lodo" va oltre. Lo lascia nel freezer per l'intera legislatura come tutte le altre inchieste e processi che lo ossessionano (corruzione di un incaricato di pubblico servizio, a Roma; diritti televisivi Mediaset e appropriazione indebita, a Milano). Salvo poi una nuova proroga di sette anni, se dovesse farcela a salire al Quirinale (Dio ci scampi).

Le magie dell'uomo di Arcore non mutano, da una stagione a un'altra. Si ripropongono uguali, si replicano identiche nei passi, precise nelle mosse violente che lacerano l'equilibrio istituzionale e violano il principio dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il suo problema non è nuovo: deve fulminare il processo che lo vede imputato e guadagnare tempo.

Nel 2001 (II governo Berlusconi) il mago lavora a trucchi da fiera con una strategia definita con sapienza. Gli avvocati vanno in aula e scatenano l'inferno. Cavilli. Ricusazioni (il giudice è prevenuto; ha già manifestato il suo parere; ha un'inimicizia grave). Rimessioni (Milano è pericolosa per l'imputato e per chi lo difende). Accompagna l'ostruzionismo avvocatesco con una tempesta mediatica: pubblici ministeri "politicizzati" o mezzi matti vogliono farlo fuori e azzerare le scelte del popolo sovrano.

L'assalto rabbioso deve preparare il clima per le leggi ad personam che un Parlamento obbediente gli approva sul tamburo: vengono cancellati reati (falso in bilancio); abolite fonti di prova (le rogatorie internazionali); ristretti i tempi del processo (prescrizione); mutate le condizioni del legittimo sospetto per un tribunale. Infine, lo rende immune una legge che la Corte Costituzionale, poi, gli boccia.

Sette anni dopo, quando ritorna a Palazzo Chigi, l'impegno di Berlusconi si replica. Ha promesso agli italiani più sicurezza. Confeziona un decreto legge che inaugura un "diritto della diseguaglianza". Indifferente alle contraddizioni, chiede con la mano destra di aumentare le pene per reati di particolare allarme sociale, con la mano sinistra infila nel provvedimento il congelamento dei processi per quegli stessi reati. E' il cavallo di Troia utile a fermare il processo più importante, il suo, e se la sicurezza di tutti deve pagare qualche prezzo - con lo stop di 100 mila processi - che sia pagato.

Il Capo dello Stato gli nega l'urgenza e la necessità di quella clausola. Non se ne cura. Due famigli in Parlamento presentano un emendamento che ferma i processi. Sostiene l'iniziativa innescando, come sempre, tensioni micidiali. La sua condizione processuale e il desiderio di impunità conquistano il primo posto nell'agenda del governo. Per più d'un mese, non si parla d'altro. Impudente, egli non parla d'altro ad ogni occasione con gli argomenti di sempre: estremisti infiltrati nella magistratura vogliono accopparlo per missione politica; sono fascisti che annunciano il ritorno del fascismo. Sa che deve scatenare il pandemonio per intascare il dovuto. Non esita a imbrogliare il presidente della Repubblica. Non si preoccupa di creare attriti con il suo maggior alleato, la Lega. Consapevolmente, distrugge ogni possibilità di dialogo con le opposizioni.

Per tenere sotto pressione istituzioni e Paese decide cinicamente di mettere in piazza anche la sua vita privata. Sa che alcune sue conversazioni viziose sono state intercettate dalla magistratura. Non gli sfugge che alcune sono state già distrutte e altre lo saranno presto. Anche se nessuno potrà ascoltarle, imbraccia quelle memorie foniche come se fossero un'arma contro i suoi "nemici": vedete, mi hanno spiato e mi ricattano, vogliono costringermi alle dimissioni; bisogna fermare i processi, fermare i giudici, fermare le intercettazioni; devo essere protetto da ogni iniziativa della magistratura.

Geme e strepita come un bambino viziato. Minaccia di rompere il giocattolo che gli è stato messo in mano. Il Paese in declino profondo, impoverito, impaurito, incapace di pensare al futuro, deve fare i conti con le fobie e le pretese del mago. A cui tutto si sacrifica. La leale collaborazione del governo con il Quirinale. La coesione della maggioranza. Il confronto parlamentare con l'opposizione. L'equilibrio dei poteri. Il rispetto della Costituzione. Le urgenze del Paese.

E' questa la scena che abbiamo sotto gli occhi. Più o meno, una guerra del capo del governo contro tutti e tutto, a protezione del suo privatissimo interesse. Il canovaccio prevede ora che, scatenato il diluvio, si avanzi Noè con la sua arca. Noè ha il profilo di Gianni Letta, l'astuto mediatore dei conflitti creati dal suo Capo. E' il gioco delle parti, è chiaro. Sono le condizioni che creano, durante un interrogatorio maligno, il poliziotto "cattivo" e il poliziotto "buono". Letta è il "buono" e, dopo il lavoro al proscenio del "cattivo" (Berlusconi), tocca a lui. Chiama a sé gli attori e propone "la via d'uscita": cancellazione del "sospendi-processi" e immediata approvazione del "lodo Alfano".

Dunque, l'impunità quinquennale per il bambino prepotente è stata, fin dal primo momento, l'unico, ineliminabile, irriducibile esito della pantomima. Agli interlocutori, appare una mediazione addirittura accettabile considerata l'avventura che promette il frastuono del capo del governo. Si evita un conflitto tra Palazzo Chigi e Quirinale. Si scongiura il rischio di un rallentamento nell'azione di un governo a favore dell'economia del Paese. Si ripristinano le condizioni per un confronto riformatore con le opposizioni. Si sfugge alla distruzione della macchina giudiziaria. Gli attori, con le spalle al muro, acconsentono. Acconsente il Quirinale, la Lega frastornata; ci pensa il Partito democratico, disorientato e diviso. Acconsente finanche l'associazione magistrati che si consola: si salva Berlusconi, ma anche la possibilità di amministrare la giustizia.

Dovremmo acconsentire tutti? Non ce lo ordinano i vangeli. In nessun Paese occidentale il capo del governo è temporaneamente immune per i reati comuni. Perché dovrebbe esserlo il nostro? Il "lodo Alfano" viola l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Perché dovremmo dimenticarlo? E' incostituzionale una legge ordinaria che garantisce quell'immunità: che almeno abbia l'iter delle riforme costituzionali. Si possono chiudere gli occhi dinanzi alle obiezioni degli addetti allo studio della Costituzione? Sono già tre buone ragioni per non darla vinta a questa prepotenza.

(8 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Le magie dell'Intoccabile
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2008, 11:30:02 pm
POLITICA L'ANALISI

Le magie dell'Intoccabile

di GIUSEPPE D'AVANZO


Il mago di Arcore pretende l'impunità e l'otterrà. Inutile girarci intorno, questo è lo stato dell'arte. E' una confessione la "via d'uscita" escogitata da Gianni Letta.

Il Parlamento discuterà subito il "lodo Alfano" che offre l'immunità alle prime quattro cariche dello Stato. Votato il "lodo", l'emendamento "sospendi-processi" diventerà superfluo. Berlusconi sarà intoccabile per cinque anni, qualsiasi reato abbia commesso in passato, qualsiasi reato gli capiterà di commettere da qui fino alla fine del suo mandato. La sospensione dei processi avrebbe congelato soltanto per un anno il dibattimento di Milano ormai agli sgoccioli (Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari). Il "lodo" va oltre. Lo lascia nel freezer per l'intera legislatura come tutte le altre inchieste e processi che lo ossessionano (corruzione di un incaricato di pubblico servizio, a Roma; diritti televisivi Mediaset e appropriazione indebita, a Milano). Salvo poi una nuova proroga di sette anni, se dovesse farcela a salire al Quirinale (Dio ci scampi).

Le magie dell'uomo di Arcore non mutano, da una stagione a un'altra. Si ripropongono uguali, si replicano identiche nei passi, precise nelle mosse violente che lacerano l'equilibrio istituzionale e violano il principio dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il suo problema non è nuovo: deve fulminare il processo che lo vede imputato e guadagnare tempo.

Nel 2001 (II governo Berlusconi) il mago lavora a trucchi da fiera con una strategia definita con sapienza. Gli avvocati vanno in aula e scatenano l'inferno. Cavilli. Ricusazioni (il giudice è prevenuto; ha già manifestato il suo parere; ha un'inimicizia grave). Rimessioni (Milano è pericolosa per l'imputato e per chi lo difende). Accompagna l'ostruzionismo avvocatesco con una tempesta mediatica: pubblici ministeri "politicizzati" o mezzi matti vogliono farlo fuori e azzerare le scelte del popolo sovrano.

L'assalto rabbioso deve preparare il clima per le leggi ad personam che un Parlamento obbediente gli approva sul tamburo: vengono cancellati reati (falso in bilancio); abolite fonti di prova (le rogatorie internazionali); ristretti i tempi del processo (prescrizione); mutate le condizioni del legittimo sospetto per un tribunale. Infine, lo rende immune una legge che la Corte Costituzionale, poi, gli boccia.

Sette anni dopo, quando ritorna a Palazzo Chigi, l'impegno di Berlusconi si replica. Ha promesso agli italiani più sicurezza. Confeziona un decreto legge che inaugura un "diritto della diseguaglianza". Indifferente alle contraddizioni, chiede con la mano destra di aumentare le pene per reati di particolare allarme sociale, con la mano sinistra infila nel provvedimento il congelamento dei processi per quegli stessi reati. E' il cavallo di Troia utile a fermare il processo più importante, il suo, e se la sicurezza di tutti deve pagare qualche prezzo - con lo stop di 100 mila processi - che sia pagato.

Il Capo dello Stato gli nega l'urgenza e la necessità di quella clausola. Non se ne cura. Due famigli in Parlamento presentano un emendamento che ferma i processi. Sostiene l'iniziativa innescando, come sempre, tensioni micidiali. La sua condizione processuale e il desiderio di impunità conquistano il primo posto nell'agenda del governo. Per più d'un mese, non si parla d'altro. Impudente, egli non parla d'altro ad ogni occasione con gli argomenti di sempre: estremisti infiltrati nella magistratura vogliono accopparlo per missione politica; sono fascisti che annunciano il ritorno del fascismo. Sa che deve scatenare il pandemonio per intascare il dovuto. Non esita a imbrogliare il presidente della Repubblica. Non si preoccupa di creare attriti con il suo maggior alleato, la Lega. Consapevolmente, distrugge ogni possibilità di dialogo con le opposizioni.

Per tenere sotto pressione istituzioni e Paese decide cinicamente di mettere in piazza anche la sua vita privata. Sa che alcune sue conversazioni viziose sono state intercettate dalla magistratura. Non gli sfugge che alcune sono state già distrutte e altre lo saranno presto. Anche se nessuno potrà ascoltarle, imbraccia quelle memorie foniche come se fossero un'arma contro i suoi "nemici": vedete, mi hanno spiato e mi ricattano, vogliono costringermi alle dimissioni; bisogna fermare i processi, fermare i giudici, fermare le intercettazioni; devo essere protetto da ogni iniziativa della magistratura.

Geme e strepita come un bambino viziato. Minaccia di rompere il giocattolo che gli è stato messo in mano. Il Paese in declino profondo, impoverito, impaurito, incapace di pensare al futuro, deve fare i conti con le fobie e le pretese del mago. A cui tutto si sacrifica. La leale collaborazione del governo con il Quirinale. La coesione della maggioranza. Il confronto parlamentare con l'opposizione. L'equilibrio dei poteri. Il rispetto della Costituzione. Le urgenze del Paese.

E' questa la scena che abbiamo sotto gli occhi. Più o meno, una guerra del capo del governo contro tutti e tutto, a protezione del suo privatissimo interesse. Il canovaccio prevede ora che, scatenato il diluvio, si avanzi Noè con la sua arca. Noè ha il profilo di Gianni Letta, l'astuto mediatore dei conflitti creati dal suo Capo. E' il gioco delle parti, è chiaro. Sono le condizioni che creano, durante un interrogatorio maligno, il poliziotto "cattivo" e il poliziotto "buono". Letta è il "buono" e, dopo il lavoro al proscenio del "cattivo" (Berlusconi), tocca a lui. Chiama a sé gli attori e propone "la via d'uscita": cancellazione del "sospendi-processi" e immediata approvazione del "lodo Alfano".

Dunque, l'impunità quinquennale per il bambino prepotente è stata, fin dal primo momento, l'unico, ineliminabile, irriducibile esito della pantomima. Agli interlocutori, appare una mediazione addirittura accettabile considerata l'avventura che promette il frastuono del capo del governo. Si evita un conflitto tra Palazzo Chigi e Quirinale. Si scongiura il rischio di un rallentamento nell'azione di un governo a favore dell'economia del Paese. Si ripristinano le condizioni per un confronto riformatore con le opposizioni. Si sfugge alla distruzione della macchina giudiziaria. Gli attori, con le spalle al muro, acconsentono. Acconsente il Quirinale, la Lega frastornata; ci pensa il Partito democratico, disorientato e diviso. Acconsente finanche l'associazione magistrati che si consola: si salva Berlusconi, ma anche la possibilità di amministrare la giustizia.

Dovremmo acconsentire tutti? Non ce lo ordinano i vangeli. In nessun Paese occidentale il capo del governo è temporaneamente immune per i reati comuni. Perché dovrebbe esserlo il nostro? Il "lodo Alfano" viola l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Perché dovremmo dimenticarlo? E' incostituzionale una legge ordinaria che garantisce quell'immunità: che almeno abbia l'iter delle riforme costituzionali. Si possono chiudere gli occhi dinanzi alle obiezioni degli addetti allo studio della Costituzione? Sono già tre buone ragioni per non darla vinta a questa prepotenza.

(8 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - La volontà di dominio
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 05:29:12 pm
POLITICA L'ANALISI

La volontà di dominio

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
LE IDEE di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste.
Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione. Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie.
Il mago di Arcore non si cura di attenderne l'esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza.

Due sole parole - corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) - gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un "teorema". Che poi in matematica vuol dire "proposizione dimostrabile", ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e "teorema" diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E' ai "teoremi" della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l'intervento della magistratura.

Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. "Di più, molto di più" risponde.

Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il "di più" che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il "molto di più" che annuncia è il pubblico ministero diretto dall'esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel "controllo di legalità" che comprime e umilia - per Berlusconi - la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l'occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un'inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l'ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.

In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la "legge Alfano" ma cova un processo riformatore e l'avventura appare soltanto all'inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la "filosofia" nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un "decreto sicurezza" che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.

Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E' una modificazione dell'architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di "Stato governativo" che dovrebbe - nei prossimi anni - ridurre al silenzio lo "Stato legislativo parlamentare", lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.

Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E' un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell'interesse generale, di varare norme "impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare". E' un sistema che separa.
Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce "in base alla legge", "in nome della legge". Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui "non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore", è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l'anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del "principio di legalità" e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c'è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata.

Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della "necessità concreta", in nome della "cogenza della situazione". Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le "situazioni" che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo "Stato governativo" si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, "eseguibile e applicabile immediatamente". Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, "riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando".

Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E' un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se - quando si parla di "dialogo" - si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - I giudici ciechi di Bolzaneto
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2008, 10:19:41 am
CRONACA L'ANALISI

I giudici ciechi di Bolzaneto

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

Non era la "punizione" degli imputati il cuore del processo per le violenze di Bolzaneto. Quel processo doveva dimostrare (e ha dimostrato in modo inequivocabile, a nostro avviso) che può nascere senza alcuna avvisaglia, anche in un territorio governato dalla democrazia, un luogo al di fuori delle regole del diritto penale e del diritto carcerario, un "campo" dove esseri umani - provvisoriamente custoditi, indipendentemente dalle loro condotte penali - possono essere spogliati della loro dignità; privati, per alcune ore o per alcuni giorni, dei loro diritti e delle loro prerogative. Nelle celle di Bolzaneto, tutti sono stati picchiati. Questo ha documentato il dibattimento. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. Tutti sono stati insultati: alle donne è stato gridato "entro stasera vi scoperemo tutte". Agli uomini, "sei un gay o un comunista?". Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini. C'è chi è stato picchiato con stracci bagnati. Chi sui genitali con un salame: G. ne ha ricavato un "trauma testicolare". C'è chi è stato accecato dallo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi ha patito lo spappolamento della milza. A. D. arriva nello stanzone della caserma con una frattura al piede. Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede".

C'è chi ha ricordato in udienza un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. ha raccontato che gli è stato messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello.

Ogni volta che provava a toglierselo, lo picchiavano. B. B. era in piedi. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". Percuotono S. D. "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano.

J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". Queste sono le storie ascoltate, e non contraddette, nelle 180 udienze del processo. È legittimo che il tribunale abbia voluto attribuire a ciascuno di questi abusi una personale, e non collettiva, responsabilità penale. Meno comprensibile che non abbia voluto riconoscere - tranne che in un caso - l'inumanità degli abusi e delle violenze. Era questo il cuore del processo.

Alla sentenza di Genova si chiedeva soltanto di dire questo: anche da noi è possibile che l'ordinamento giuridico si dissolva e crei un vuoto in cui ai custodi non appare più un delitto commettere - contro i custoditi - atti crudeli, disumani, vessatori. È possibile perché è accaduto, a Genova, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati.

È questo "stato delle cose" che il blando esito del giudizio non riconosce. È questa tragica probabilità che il tribunale rifiuta di vedere, ammettere, indicarci. Nessuno si attendeva pene "esemplari", come si dice. Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il parlamento non ha trovato mai il tempo - in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Agli imputati erano contestati soltanto reati minori: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi). Si sapeva che, in capo a sei mesi (gennaio 2009), ogni colpa sarebbe stata cancellata dalla prescrizione.

Il processo doveva soltanto evitare che le violenze di Bolzaneto scivolassero via senza lasciare alcun segno visibile nel discorso pubblico.

Il vuoto legislativo che non prevede il reato di tortura poteva infatti consentire a tutti - governo, parlamento, burocrazie della sicurezza, senso comune - di archiviare il caso come un imponderabile "episodio" (lo ripetono colpevolmente oggi gli uomini della maggioranza). Un giudizio coerente con i fatti poteva al contrario ricordare che la tortura non è cosa "degli altri". Il processo doveva evitare che quel "buco" permettesse di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

I pubblici ministeri sono stati consapevoli dell'autentica posta del processo fin dal primo momento. "Bolzaneto è un "segnale di attenzione"", hanno detto. È "un accadimento che insegna come momenti di buio si possono verificare anche negli ordinamenti democratici, con la compromissione dei diritti fondamentali dell'uomo per una perdurante e sistematica violenza fisica e verbale da parte di chi esercita il potere".

I magistrati hanno chiesto, con una sentenza di condanna, soprattutto l'ascolto di chi ha il dovere di custodire gli equilibri della nostra democrazia, l'attenzione di chi ostinatamente rifiuta di ammettere che, creato un vuoto di regole e una condicio inhumana, "tutto è possibile". Bolzaneto, hanno sostenuto, insegna che "bisogna utilizzare tutti gli strumenti che l'ordinamento democratico consente perché fatti di così grave portata non si verifichino e comunque non abbiano più a ripetersi". È questa responsabile invocazione che una cattiva sentenza ha bocciato.

Il pubblico ministero, con misura e rispetto, diceva alla politica, al parlamento, alle più alte cariche dello Stato, alla cittadinanza consapevole: attenzione, gli strumenti offerti alla giustizia per punire questi comportamenti non sono adeguati. Non esiste una norma che custodisca espressamente come titolo autonomo di reato "gli atti di tortura", "i comportamenti crudeli, disumani, degradanti". E comunque, il pericolo non può essere affrontato dalla sola macchina giudiziaria: quando si muove, è già troppo tardi. La violenza già c'è stata. I diritti fondamentali sono stati già schiacciati. La democrazia ha già perso la partita. I segnali di un incrudelimento delle pratiche nelle caserme, nelle questure, nelle carceri, nei campi di immigrati - dove i corpi vengono rinchiusi - dovrebbero essere percepiti, decifrati e risolti prima che si apra una ferita che non sarà una sentenza di condanna a rimarginare, anche se quella sentenza fosse effettiva (come non era per gli imputati di Bolzaneto).

L'invito del pubblico ministero e una sentenza più coerente avrebbero potuto e dovuto indurre tutti - e soprattutto le istituzioni - a guardarsi da ogni minima tentazione d'indulgenza; da ogni volontà di creare luoghi d'eccezione che lasciano cadere l'ordinamento giuridico normale; da ogni relativizzazione dell'orrore documentato dal processo. Al contrario, la decisione del tribunale ridà fiato finanche a Roberto Castelli, ministro di giustizia dell'epoca: in visita nel cuore della notte alla caserma, bevve la storiella che i detenuti erano nella "posizione del cigno" contro un muro (gambe divaricate, braccia alzate) per evitare che gli uomini molestassero le donne.

"Bolzaneto" è una sentenza pessima, quali saranno le motivazioni che la sostengono. È soprattutto una sentenza imprudente e, forse, pericolosa. Nel 2001 scoprimmo, con stupore e sorpresa, come in nome della "sicurezza", dell'"ordine pubblico", del "pericolo concreto e imminente", della "sicurezza dello Stato" si potesse configurare un'inattesa zona d'indistinzione tra violenza e diritto, con gli indiscriminati pestaggi dei manifestanti nelle vie di Genova, il massacro alla scuola Diaz, le torture della Bixio.

Oggi, 2008, quelle formule hanno inaugurato un "diritto di polizia" che prevede - anche per i bambini - lo screening etnico, la nascita di "campi di identificazione" che spogliano di ogni statuto politico i suoi abitanti. Quel che si è intuito potesse incubare a Bolzaneto, è diventato oggi la politica per la sicurezza nazionale. La decisione di Genova ci dice che la giustizia si dichiara impotente a fare i conti con quel paradigma del moderno che è il "campo". Avverte che in questi luoghi "fuori della legge", dove le regole sono sospese come l'umanità, ci si potrà affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie e non al diritto. Non è una buona cosa. Non è una bella pagina per la giustizia italiana.


(16 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - "Voglio il processo con tutte le mie forze, dimostrerò ...
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2008, 07:29:43 pm
CRONACA

Parla Tavaroli, l'ex capo della security Telecom al centro dell'inchiesta sui dossier illeciti

"Voglio il processo con tutte le mie forze, dimostrerò che ho fatto ciò che mi chiedevano"

"E Tronchetti mi disse: Le abbiamo chiesto troppo"

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

A leggere i giornali, e qualche anticipazione del documento che annuncerà oggi la chiusura delle indagini del pubblico ministero di Milano, l'affaire Telecom sembra essersi sgonfiato come un budino malfatto. Più o meno, si sostiene che fossero all'opera, in Telecom, soltanto un mascalzone (Giuliano Tavaroli) e un paio di suoi amici d'infanzia (Emanuele Cipriani, un investigatore privato, e Marco Mancini, il capo del controspionaggio del Sismi). La combriccola voleva lucrare un po' di denaro per far bella vita e una serena vecchiaia. I "mascalzoni" avrebbero abusato dell'ingenuità di Marco Tronchetti Provera (presidente) e di Carlo Buora (amministratore delegato). Tutto qui.

L'affaire Telecom è stato dunque, secondo quest'interpretazione, soltanto un bluff mediatico-giudiziario utilizzato (o, per alcuni avventurosi osservatori, organizzato) da circoli politici per sottrarre al "povero" Tronchetti la società di telecomunicazioni.

La ricostruzione è minimalista. Evita di prendere in esame, anche soltanto con approssimazione, la sequenza dei fatti accertati (a cominciare dalla raccolta di migliaia di dossier illegali); la loro pericolosità; i protagonisti (alcuni mai nemmeno nominati); un multiforme network di potere che condiziona ancora oggi un'imprenditoria debole senza capitali e una politica fragile senza legittimità: imprenditoria e politica sorrette, protette o minacciate - secondo convenienza - da alcune burocrazie della sicurezza. È nelle pieghe di questi deficit e contraddizioni italiani che è fiorito l'affaire, uno scandalo che nessuno - a quanto pare - ha voglia di affrontare. Vedremo se lo farà la prudente magistratura di Milano.

Per definire almeno la cornice del "caso" e gli attori e un metodo e qualche fondo fangoso, Repubblica - nel corso del 2008 - ha avuto sei colloqui (a Bereguardo, Milano e Albenga) con un Giuliano Tavaroli convinto già da tempo (e quel che accade sembra dargli ragione) che "nessuno avrà interesse a celebrare il "processo Telecom". Nessuno: né i pubblici ministeri, né gli imputati, né la Telecom vecchia, né la Telecom nuova. Ma io non sono e non farò né accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo affare. Io vorrò con tutte le mie forze il processo e nel processo vorrò vederli in faccia ripetere quel che hanno riferito ai magistrati. Il mio vantaggio è che tutti - tutti - hanno mentito in questa storia, e io sono in grado di dimostrare che le informazioni che ho raccolto sono state distribuite in azienda perché commissionate dall'azienda e nel suo interesse... Ne ho sentite di tutti i colori. Come Marco Tronchetti Provera che nega di aver mai avuto conti all'estero, come se non sapessi che per lo meno fino al 2006 i suoi conti erano a Montecarlo".

Tavaroli lamenta di essere stato "messo in mezzo" per aprire la strada all'inchiesta Abu Omar. E' il "signore della sicurezza" Telecom. I pubblici ministeri devono intercettare gli uomini del Sismi che hanno cooperato con la Cia per sequestrare illegalmente il cittadino egiziano, sospettato di essere un terrorista. Con i buoni rapporti di Tavaroli con il Sismi, l'operazione sarebbe stata a rischio. "Così - dice Tavaroli - hanno cominciato a indagare su di me in modo strumentale. Sì, strumentale. Potrei farvelo leggere nelle carte. Nelle carte c'è scritto. Dispongono la perquisizione nel mio ufficio con un unico obiettivo: rimuovermi dal mio posto nella convinzione che, se non lo avessero fatto, non avrebbero avuto campo libero per le intercettazioni dell'inchiesta Abu Omar e quindi per l'ascolto decisivo dei funzionari del Sismi. Pensavano: questo Tavaroli se ne accorge e avverte il suo amico Mancini (era il capo del controspionaggio dell'intelligence) e noi non caviamo un ragno dal buco. Così sono finito nel tritacarne...".

Sarà, quel che è saltato poi fuori giustificava l'iniziativa penale, ma qui conta altro. E' vero o è falso che, nel tempo, si è creata una sovrapposizione operativa, una contiguità d'interessi tra l'intelligence di Stato, le security delle grandi aziende al servizio di obiettivi ora istituzionali ora politici ora economici, ora l'uno e l'altro? Un "sistema" che per alcuni anni ha avuto il suo centro nella Telecom di Marco Tronchetti Provera?

Tavaroli dice che, se si vuole davvero capire che cosa è accaduto in Telecom, bisogna andare indietro nel tempo.

Una data d'inizio.
"Questo metodo ha, se si vuole, una data d'inizio con la nascita del nucleo speciale di polizia giudiziaria a Torino, un gruppo che non aveva alcuna corrispondenza nell'Arma dei carabinieri. Esisteva soltanto lì a Torino, dove il generale Dalla Chiesa era comandante (Tavaroli lo chiama sempre il Generale, e sembra di vedere la maiuscola). E' nel "nucleo" che nascono l'operazione di Frate Mitra che conduce all'arresto di Renato Curcio o all'arresto di Patrizio Peci. In quest'occasione furono "infiltrati" in Fiat - con l'assenso e la collaborazione della "sicurezza" dell'azienda - cinque operai "collaborazionisti": uno di essi fu poi reclutato dalle Brigate Rosse; fu l'uomo che indicò al Generale il "covo" di Peci.

Dopo questi successi il metodo trovò una "natura giuridica", una sistematizzazione legislativa. Non è che le nuove leggi lo prevedessero esplicitamente, ma rendevano possibile - meglio, tolleravano - quei sistemi se, in qualche modo, "controllati" dall'autorità giudiziaria. Diciamo che le linee di collaborazione con la magistratura si accorciarono e capitava che il pubblico ministero lavorasse gomito a gomito con il sottufficiale operativo senza la mediazione delle gerarchie. Nacquero le sezione speciali anticrimine. Con l'assassinio di Guido Rossa, comincia la collaborazione anche del Pci e dei sindacati. Ugo Pecchioli offre tutte le informazioni che i militanti e i sindacalisti raccolgono nelle fabbriche. Indicano tutti i nomi di coloro che, in fabbrica, sono o paiono essere vicini al terrorismo. Ci sono ancora in giro ex-sindacalisti che possono essere buoni testimoni di questo lavoro".

(Dunque, vediamo integrati in una sola "piattaforma", l'Arma dei carabinieri con un suo nucleo speciale, le procure alle prese con un "diritto speciale di polizia", le attività informative della più grande impresa privata del Paese, la Fiat, e del maggior partito di opposizione, il Pci, presente in modo massiccio nel sindacato e nelle fabbriche. Lo schema è destinato a riprodursi e, con la sconfitta del terrorismo, a deformarsi, a "privatizzarsi").

"Diciamo che nella lotta al terrorismo nacque un "sistema" e fu selezionata un'élite di professionisti, che è o è stata al vertice della security delle maggiori imprese italiane. Con i pool di magistrati, operavamo a stretto contatto, avevamo molte responsabilità anche di decisione. Accadde quello che nelle aziende si sarebbe chiamato "accorciamento della catena decisionale". Gli ufficiali in parte partecipavano e comprendevano l'importanza dell'esperienza, in parte avvertivano di avere meno potere: contavano le competenze e non il grado sulla spalla. Si forma così una generazione di uomini che emerge per il merito, la competenza. Siamo in un periodo di "leadership situazionali", ovvero di persone che prendono la leadership a seconda delle situazioni e delle circostanze, con grande flessibilità. E' in questo periodo che si afferma "la dittatura della conoscenza". Conta chi ha competenza e conoscenza e capacità di analisi. Ecco perché io e Marco Mancini ci affermammo nonostante fossimo soltanto dei sottufficiali: noi avevamo competenza e conoscenza. I generali avevano i gradi, ma né l'una né l'altra.

Nel dicembre del 1988, quasi con un colpo di testa - decisi d'istinto, dalla mattina alla sera, appena mi arrivò la proposta - lasciai l'Arma per l'Italtel. Ormai noi dell'Antiterrorismo ci giravamo i pollici. Molti si decisero a riciclare i loro metodi nella lotta alla criminalità organizzata. Non era per me. Io penso che la mafia ti rovini la testa, ti avveleni. Quando mi chiudo alle spalle la porta di casa, voglio poter lasciare fuori anche il pensiero del lavoro. Ma quando hai a che fare con gente che scioglie un bambino nell'acido, come fai a dimenticartelo? Te lo porti a casa, il lavoro. Andai via".

"Lo scambio delle figurine"
"Per il mondo della sicurezza privata, quelli, sono anni decisivi. Nel 1989 cade il Muro, implode l'Unione Sovietica. Le ragioni costitutive di una cultura della sicurezza, della sua organizzazione, metodo, visione del mondo vengono meno. Io ho 30 anni e sono consapevole che devo trasformarmi in un uomo di business. Comprendo subito che la sicurezza deve diventare una funzione dell'azienda, non restare - come era allora - un corpo separato dell'impresa. Tra il 1991/1992 nascono business intelligence, market intelligence, competitive intelligence... Un vecchio mondo si frantuma, prestigiosi "salotti" diventano polverosi e inutili. Mondi che prima erano separati da ostacoli, più o meno, invalicabili - o valicabili a prezzo di grandi rischi - entrano in costante comunicazione. A quel punto i servizi segreti che, con il mondo diviso in blocchi, erano monopolisti dell'informazione perdono, nello spazio di un mattino, la loro supremazia. E' uno scettro che passa nelle mani dell'impresa privata.

Italtel, per dire, aveva dopo il 1989 150/200 uomini in Urss e agiva con i governi delle singole repubbliche dell'ex-blocco sovietico mentre il Sismi faticava per infiltrare anche soltanto un uomo oltre le linee. Chi contava di più? Chi poteva avere più informazioni?
Queste condizioni creano un nuovo mercato. Comincia lo scambio delle figurine tra security private e servizi segreti. La parola d'ordine convenuta è "diamoci una mano". E' una collaborazione che cresce, si allarga e sviluppa senza uno straccio di protocollo, senza rendere trasparente e condiviso che cosa è lecito, che cosa non lo è. In ogni altro paese - Stati Uniti, Inghilterra, Francia - ci sono protocolli che regolano i rapporti tra imprese, sicurezza privata e servizi. Da noi, c'è un vuoto che ciascuno occupa come crede.

Nel 1996, aprile, vado in Pirelli. A quel punto le aziende che agiscono sul mercato globale hanno già una sovranità superiore a quella degli Stati. I governi hanno abdicato. L'11 settembre, se riproduce nel mondo una nuova logica bipolare Occidente contro Islam, esalta le potenzialità e il protagonismo delle imprese multinazionali o plurinazionali. Con in più lo straordinario e inedito potere della tecnologia. Cambia di nuovo tutto. Cambiano la cultura e i players dell'informazione. Tutti affidano tutto all'indagine elettronica: tracce elettroniche, carte di credito ecc. ecco che le telecomunicazioni diventano appetite, sempre più strategiche. Le indagini si fanno con le intercettazioni. Di nuovo: difficile dividere lecito e meno lecito. In Francia, la polizia fa le intercettazioni legali; la Direction de la Surveillance du Territoire (Dst) fa quelle illegali. Tutto normale, in Italia no".

"Tronchetti voleva il Corriere"
"Poi Pirelli acquista la Telecom. E' per tutti noi una sorpresa. Forse non tutti sanno che Tronchetti Provera non aveva alcuna intenzione di entrare in Telecom, in realtà. In quel 2001, stava scalando Rcs. Ha sempre avuto una passione non nascosta per il Corriere della Sera che riteneva, e forse ritiene, un'istituzione essenziale per la democrazia italiana. In quei mesi stava acquisendo posizione e posso credere che si preparasse a lanciare un'offerta pubblica di acquisto. Fu Buora a proporre il dossier Telecom. Tronchetti gli diede fiducia.

Le cose, per noi, non stanno per niente messe bene nel 2001, quando Berlusconi e i suoi si insediano a palazzo Chigi. Era al potere una famiglia impenetrabile, gente che è insieme, gomito a gomito, dai banchi di scuola, gente che pensa soltanto agli affari e all'assalto alla diligenza e tutti - dico, tutto l'establishment - sono "fuori asse". A chi rivolgersi? Come scegliere gli interlocutori "giusti"? E ci sono davvero, in quella compagnia, gli "interlocutori giusti"? Per dirne una. Telecom aveva un contenzioso per un centinaio di miliardi di lire con il ministero della Giustizia. Come venirne a capo? Chi era Roberto Castelli? E quel Brancher lì (era l'"ambasciatore" di Forza Italia presso la Lega di Bossi), che "pesce" era?

La verità è che noi in quell'avvio avevamo soltanto pochissimi interlocutori. Ad esempio, Pisanu (ministro per l'attuazione del programma). Vecchia scuola. Formazione politica solida. Interlocutore affidabile. Con lui, Tronchetti filò subito d'amore e d'accordo. Con gli altri soltanto guai. E i guai toccava a me affrontarli. In quel periodo accade qualcosa che mi fa capire.

Accade che dovevamo rivedere gli organici e le responsabilità negli uffici di Roma. Una persona, di cui non voglio dire per il momento il nome, mi sollecita a "salvare", negli uffici della capitale, la signora Laura Porcu. La cosa mi convince e la Porcu viene "salvata". Dopo qualche tempo, la Porcu mi chiede se voglio essere messo in contatto con personalità influenti del mondo romano. Accetto".

"Il network eversivo"
"La Porcu organizza un giro delle sette chiese, un'agenda di incontri con Nicolò Pollari, Francesco Cossiga, Paolo Scaroni (Eni), Enzo De Chiara (uno strano personaggio, finanziere italo-americano, vicino alle amministrazioni Usa, già finito in qualche inchiesta giudiziaria), Pippo Corigliano (Opus Dei) che a sua volta mi presenta Luigi Bisignani che già aveva chiesto di incontrarmi (se fosse stato siciliano, dopo averlo conosciuto, avrei pensato che fosse un mafioso) e la Margherita Fancello (moglie di Stefano Brusadelli, vicedirettore di Panorama), che a sua volta mi riportò da Cossiga, Massimo Sarmi (Poste), Giancarlo Elia Valori, il generale Roberto Speciale della Guardia di Finanza. Insomma, dai colloqui, capisco che questi qui sono in squadra.

(Tavaroli annuncia in settembre una memoria difensiva molto documentata e comunque va ricordato qui che la sua è la ricostruzione di un indagato). Mi immagino una piramide. Al vertice superiore Berlusconi. Dentro la piramide, l'uno stretto all'altro, a diversi livelli d'influenza, Gianni Letta, Luigi Bisignani, Scaroni, Cossiga, Pollari. E' il network che, per quel che so, accredita Berlusconi presso l'amministrazione americana. Io non esito a definire questa lobby un network eversivo che agisce senza alcuna trasparenza e controllo.

Mi resi conto subito che quella lobby di dinosauri custodiva segreti (gli illeciti del passato e del presente) e li creava. Che quei segreti potevano distruggere la reputazione di chiunque e la vera sicurezza è la reputazione. C'era insomma, tra la Telecom di Tronchetti e quell'area di potere, un disequilibrio informativo che andava affrontato subito e nel miglior modo da noi, riequilibrandolo o addirittura annullandolo con la creazione, a nostra volta, di altri segreti. C'era bisogno di coraggio. Che è proprio la virtù che manca a Marco Tronchetti Provera. Ha il culto di se stesso. Non decide mai. Non se la sentiva di attaccare frontalmente, magari pubblicamente, quel network né voleva "sporcarsi le mani", cioè entrare nel club pagandone il prezzo in opacità, ma incassandone i vantaggi lobbistici. Non prende posizione. Non si "compromette" né in un senso né nell'altro. Per questo quella "compagnia" lo scarica. Come, lo spiegherò presto. Il fatto è che quando Tronchetti si insedia in Telecom è debole. Debole non per l'indebitamento, come tutti pensano. Ma per il suo isolamento nel mondo politico, economico. Tronchetti non piace alla politica. Ne è distante e questo non è gradito. Non capisce la politica di Roma e questo è un problema. Non piace agli industriali. La Confindustria è guidata da Antonio D'Amato, espressione della media industria, e questo è un altro problema. E' su questa zona di confine che mi dicono di "ballare". E io ballo. Me ne ha dato atto, quando mi ha liquidato, anche Tronchetti. Mi ha detto papale papale: "Forse le abbiamo chiesto troppo". E' vero, mi chiesero molto. Forse troppo".

(1. Continua)

(21 luglio 2008)


da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO-Seconda parte del colloquio con l'ex capo della security...
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2008, 02:08:58 pm
CRONACA

Seconda parte del colloquio con l'ex capo della security Telecom

"Verificai eventuali tangenti pagate da Colaninno, fu un lavoraccio"

Tavaroli: "Tronchetti mi ordinò un dossier sui soldi ai ds"


di GIUSEPPE D'AVANZO

 

GIULIANO Tavaroli dice: "Quando Pirelli acquisisce Telecom Italia, agosto 2001, Marco Tronchetti Provera mi annuncia: "Lei verrà con me a Roma". Poi mi chiama Carlo Buora. Lo incontro a Milano in trasferimento dalla montagna al mare - ero in vacanza con i miei - e quello mi dice che non se ne fa più nulla. Mi spiega: "Contrordine, lei resterà in Pirelli, Enrico Bondi (all'epoca, amministratore delegato) vuole con sé in Telecom un altro. Naturalmente ne parlo con Tronchetti Provera che mi rassicura: "Lei si occuperà delle mie cose romane". Le sue "cose romane" erano i suoi guai romani. E c'erano guai dappertutto, in quel momento".

"Gasparri (il ministro delle Telecomunicazioni) non gli piaceva e Tronchetti non piaceva a Gasparri. In estate, al festival dell'Unità di Rimini, Massimo D'Alema lo attacca a testa bassa...
Ho già detto che una concezione moderna della sicurezza (che è reputazione, soprattutto) deve fronteggiare anche - o soprattutto - quella roba lì, gli attacchi politici, le ostilità di parte, i pregiudizi, i veleni. Deve saper leggere e anticipare le iniziative avverse, condizionare le mosse dei rivali o ridurli al silenzio. E' un lavoro che si nutre di conoscenza. Conoscenza dell'avversario, delle sue ragioni più autentiche e nascoste, ma è anche "sapere" e dunque capacità di adattarsi a quella "emergenza" o sventandola o ridimensionandola. In gergo, le chiamiamo "analisi del rischio" e "analisi di scenario". In quell'avvio di gestione della Telecom, ne avevamo bisogno come dell'aria. Il momento intorno a noi era sconfortante. Non c'era stato soltanto l'11 settembre, c'erano ancora le macerie dello sgonfiamento della bolla speculativa, la catastrofe dei bond argentini".


(Tavaroli qui svela - e nemmeno troppo velatamente - il lavoro di spionaggio a cui, sostiene, "nessuna azienda rinuncia". Lo riduce a raccolta di informazioni, a "mappatura" - diciamo così - dei caratteri, delle opinioni, delle forze e delle debolezze dei potenti, vecchi e nuovi, che, di volta in volta, Tronchetti deve fronteggiare, rassicurare, tenere alla larga. La "conoscenza", come la definisce, è soltanto il punto di partenza del suo lavoro. Per questi giocatori, per questo gioco, è la mossa d'apertura, il livello minimo richiesto per poter entrare in campo. La differenza vera la fa il "sapere", la combinazione di competenze multiple che rende possibili scambi, pratiche, compatibili assunzioni di rischi, la creazione di qualche minacciosa favola da diffondere. Tavaroli adopera un altro vocabolario, un'altra sintassi. Parla di "analisi delle forze in campo", di "amici/nemici" ma, in soldoni, non è che l'esito sia diverso. Sempre di spionaggio si parla. La scena pare questa. Marco Tronchetti Provera, arrivato in Telecom, è consapevole di essere uno "straniero" nella geografia del potere. Le leve del comando - i primi governi Berlusconi hanno un peso politico debole, frammentato, privi di una strategia di lungo periodo, stretti intorno a un uomo solo interessato esclusivamente al proprio destino personale e imprenditoriale - sono custodite e sostenute da uno schema "antico" che Tavaroli, come ambasciatore di Tronchetti, ha incontrato nel giro delle sette chiese romane. "Un network eversivo", lo definisce. Ne indica qualche nome: Letta, Bisignani, Cossiga, Scaroni, Elia Valori, Pollari, Speciale, Corigliano. E' un'area di potere che costringe un estraneo come Tronchetti in un disequilibrio informativo che lo condanna a subire, sopportare; a essere condizionato. Essere consapevoli di quell'asimmetricità è il punto di partenza. Sapere è allora il terreno della risposta. Come affrontare l'avversario? Come rendergli conveniente venire a patti o rinunciare a ogni ostilità? Come guadagnare un margine di inviolabilità? E' un confronto sotterraneo e senza esclusione di colpi. A sentire Tavaroli - che va ripetuto non è un testimone neutro, ma il principale indagato dell'affaire - è questo il mestiere che Marco Tronchetti Provera gli affida).

"Di volta in volta bisogna adattare le proprie iniziative all'avversario. D'Alema, per esempio. Penso di contattare Lucia Annunziata, allora direttore dell'agenzia Apcom. Ha buoni rapporti con D'Alema. Scelgo lei come canale per entrare in contatto con il presidente dei Ds. Con Lucia si parla anche di futuro. Lei mi prospetta l'acquisizione dell'agenzia, me ne mostra i vantaggi e le opportunità. Non era una cattiva idea, in fondo. Non avevamo in pancia contenuti e ne avevamo bisogno. Peraltro, saremmo entrati in contatto con il mondo Associated Press, il meglio. L'affare poi si fece, come si sa. Comunque, l'incontro D'Alema/Tronchetti si organizzò e Lucia divenne consulente della Telecom.

Racconto un altro episodio dello stesso tipo. Un giorno mi chiama Buora. Nel suo ufficio ci sono tutti quelli che contano e sembrano sull'orlo di una crisi di nervi. Buora mi dice che Giulio Tremonti (ministro dell'Economia), soffia ai banchieri, in ogni occasione, che Telecom è prossima al fallimento. La voce diffusa in ambienti qualificati da una fonte così autorevole è per noi una sciagura. Mi metto al lavoro. Tra Tremonti e Tronchetti non ci sono rapporti. Ho come la sensazione che Tremonti, da sempre consulente dei maggiori imprenditori italiani, diventato ministro, stia scaricando sui suoi antichi assistiti una ruggine velenosa. Decido di mettermi in contatto con il capo della sua segreteria, un ufficiale della Guardia di Finanza, Marco Milanese, che poi lascerà le Fiamme Gialle per lavorare direttamente nello studio di Tremonti. Contattare Milanese, proprio lui e non altri, è un modo per dire a Tremonti: conosco i tuoi metodi, conosco il tuo sistema, chi lo agisce e interpreta, da dove possono venirti le informazioni - vere o false - che possono danneggiare la mia azienda. Non c'è bisogno di molte parole. Quelle cose lì, si capiscono al volo nel nostro mondo. I due - Tronchetti e Tremonti - si incontrano. I problemi si risolvono. Nessuno parlerà più di fallimento con i banchieri.

Altro episodio. Il Dottore (Tronchetti) mi chiede di dare uno sguardo a Finsiel, allora amministrata da suo cugino Nino Tronchetti Provera. Perché non si vince una gara, perché si perde sempre? Gli appronto una rete di relazioni e qualche "analisi". Ancora. La Kroll, la maggiore agenzia d'investigazione del mondo, riceve da Gianni Letta (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) l'incarico di rintracciare il tesoro segreto di Calisto Tanzi (Parmalat). Nell'autunno del 2004, l'uomo in Italia della Kroll, un belga d'origine italiana che si chiama Nunzio Rizzi, incontra Gianni Letta e gli chiede "se il governo ha nulla in contrario che l'agenzia organizzi un'azione di discredito contro Marco Tronchetti Provera". Sorprendentemente, invece di metterlo alla porta, Letta (ha anche la delega ai servizi segreti) prende tempo: "Le farò sapere!". Letta avverte Tronchetti. Che, allarmatissimo, mi spedisce a Roma in tutta fretta. E' il mio primo incontro con Gianni Letta. Mi tiene lì per quaranta minuti. Beviamo un caffè. Mi dice: noi abbiamo un amico in comune, "il nostro Marco" (Mancini). Letta mi spiega le intenzioni di Rizzi. Organizzo una contro-operazione di discredito ai danni della Kroll. Il 6 novembre 2004, faccio pubblicare che c'è "un mandato d'arresto per l'uomo della Kroll, Nunzio Rizzi". La notizia è del tutto falsa, ma alla Kroll capiscono che gli è andata male. E noi, in Telecom, capiamo il senso di quella storia: hanno mandato a dire a Tronchetti che non si fidano di lui, che la sua reputazione può essere sporcata se gli ambienti politici non fanno barriera e quindi è meglio andare d'accordo".

(Tavaroli chiarisce che dal suo orizzonte di lavoro - e intende la rete di rapporti e liaison che possono rendere trasparenti o protette le intenzioni di Tronchetti - nessuno è escluso. Nemmeno la magistratura).

"Era più o meno il settembre del 2001. Mi chiama Armando Spataro, allora membro del Consiglio superiore della magistratura. Mi dice: "Il tuo capo ha risolto i problemi di Berlusconi". Era accaduto che Pirelli Real Estate avesse rilevato Edilnord di Berlusconi che navigava in cattive acque. Per Pirelli era un affare, per Spataro un favore. Nel 2003 Armando ritorna a Milano come procuratore aggiunto. Ho l'idea di farlo incontrare con Tronchetti. Organizzo il meeting. Ma, quel giorno, commetto un errore grave. Invece di andare via, come facevo sempre, rimango nella stanza e sono testimone della loro conversazione. Che non va per nulla bene. Quasi al termine, Tronchetti chiarisce che magistratura e politica devono reciprocamente rispettarsi e che il lavoro dei giudici non può pregiudicare le responsabilità della politica. E' più o meno una banalità, ma detta in quel momento suonò alle orecchie di Armando come una difesa pregiudiziale di Berlusconi e una censura per le iniziative della magistratura. Spataro ne ricava la convinzione di avere di fronte un uomo piegato agli interessi di Berlusconi. Nessuno gli ha tolto più quell'idea dalla testa.

Questo era il mio lavoro: creare una rete di protezione personale intorno a Tronchetti e di sicurezza per l'azienda, rimuovere le inimicizie preconcette, le ostilità, il malanimo, le presunte incompatibilità. Non è sempre affare per deboli di stomaco. Ecco che cosa intendo quando dico che il perimetro della security si era di molto allargato. Ecco che cosa intendeva Marco Tronchetti Provera quando mi diceva: "Le abbiamo chiesto troppo". Se avevo bisogno di informazioni sugli antagonisti mi rivolgevo a Emanuele Cipriani (investigatore privato della Polis d'Istinto). Che me le procurava. Sono pronto ad ammettere che ci sono state - ma questi sono affari di Cipriani - indagini illegali. Ammetto che bisognerà spiegare le intrusioni informatiche ai danni di Massimo Mucchetti e Vittorio Colao (vicedirettore del Corriere e amministratore delegato di Rcs). Ma non ci sono state intercettazioni abusive né ricatti. Nell'indagine della procura di Milano, non ce n'è traccia. Il mio lavoro non si è mai arricchito di quella roba lì. Le cose andavano così. Fino a quando sono stato in Pirelli, sono stato più o meno un "centro di servizi". Tronchetti Provera, da Telecom, aveva bisogno di informazioni. Mi chiamava e io provvedevo a raccoglierle. Nessuno si dovrebbe meravigliare. Le aziende vivono di informazioni fino alla raffinatezza delle "analisi predittive". E non esitano a sporcarsi le mani. Un esempio? Per quel che so, l'"Operazione Quattro Gatti", lo sganciamento di Mastella dal centro-destra organizzato nel 1998 da Cossiga, fu finanziato per intero dai gestori della telefonia: Sentinelli (Tim), Novari (3), Pompei (Wind), con il sostegno della Ericsson.

Quando arrivo in Telecom, il lavoro cambia. Agisco "di iniziativa" sulle analisi tipiche della sicurezza. Attenzione, però, il "sistema Tavaroli" non era e non è mai stato il "sistema Cipriani"".

(Tavaroli non ammette che l'uno integrava l'altro, che l'uno sosteneva l'altro e mai parla del ruolo di Marco Mancini, il capo del controspionaggio. Lo ripetiamo ancora: questa è soltanto la verità di un indagato).

"E' a questo punto che arrivano i primi segnali dal "network eversivo". Si fanno sotto quelli che io chiamo "i massoni". Cominciano a scorgere, avvertendole come una minaccia, tutte le potenzialità di quel lavoro, della mia presenza a Telecom, del mio legame con Marco Mancini in ascesa nel Sismi, delle opportunità di integrazione in un unico "nastro" delle informazioni in possesso per motivi istituzionali di una grande azienda di telecomunicazioni e di un servizio segreto. Lo avevate capito anche voi a Repubblica, ma immaginavate che Telecom fosse il centro del "sistema" e non solo un segmento, il più fragile. Arriva il primo segnale e non faccio fatica a "leggerlo". Le manovre compromettenti (è sospettato di essere coinvolto in un traffico d'armi) di Slaedine Jnifen, fratello di Afef (la moglie di Tronchetti) con uno dei figli di Gheddafi mi sono segnalate prima da Nicolò Pollari. Mi dice: i servizi libici minacciano di ucciderlo. Poi da Luigi Bisignani che aveva avuto l'informazione dalla Guardia di Finanza. Capii la musica. Anche Afef parve a rischio".

(Tavaroli non dice né vuole dire se il dossier raccolto anche sulla moglie di Tronchetti sia stato una sua personale iniziativa o un'operazione commissionata da altri o addirittura concordata con il presidente della Telecom).

"E' un fatto che Afef si porta dietro tutte le amicizie romane del primo marito, Marco Squatriti (Andreotti, Bisignani, Letta). Ricordo che, quando Squatriti finisce in carcere, il primo che gli va a fare visita, come avvocato anche se non era il suo avvocato, è Cesare Previti. L'uomo deve essere finito al centro di una faccenda molto seria. Perché nessuno s'incuriosisce al finale della storia di Italsanità (era la società dell'Iri che aveva affittato dai privati 28 immobili da destinare a residenze per anziani, impegnandosi a pagare affitti per 1.000 miliardi in nove anni, di cui 572 a Squatriti, titolare degli 11 contratti più consistenti)? Sono stati rimborsati a Squatriti un centinaio di miliardi di lire. Oggi Squatriti non ha più un soldo. Dove sono finiti i denari? E, soprattutto, di chi erano? Forse per tenersi buono questo giro, il Dottore ingaggia Maurizio Costanzo (P2, tessera Roma 152), tutt'uno con Previti, Squatriti, Gianfranco Rossi (il faccendiere romano, arrestato nel giugno 1994, è l'intestatario del conto corrente "coperto" FF 2927 presso la Trade Development Bank di Ginevra, conto sul quale sono affluiti 2 milioni e 200 mila dollari fornitigli da Bisignani e parte della maxitangente pagata dall'Enimont ai partiti di governo), Luigi Bisignani (P2, tessera Roma 203).

Tronchetti retribuisce Costanzo con 3 milioni di euro all'anno soltanto, in definitiva, per costruire l'immagine di Afef. Ma, in realtà, Tronchetti vuole tenerlo buono e, nel contempo, alla larga. Costanzo non aveva nemmeno il numero diretto del suo cellulare. Si ripetono i segnali negativi.

Salvatore Cirafici, capo della sicurezza di Wind, un massone, mi racconta che è stato interpellato da un giornalista del Giornale che sta preparando un articolo contro di me, ispirato da Luigi Bisignani. Che ci fossero fibrillazioni in corso, lo deduco anche da altri episodi. Poco dopo il Natale del 2002, diciamo nel gennaio del 2003, Berlusconi convoca Pollari a Palazzo Chigi e gli chiede a brutto muso: "Chi è questo Tavaroli?", "E' vero che Mancini è un comunista"? Pollari replica, difende Mancini e comunica che sta per nominarlo capo della 1° Divisione. Berlusconi abbozza. Non poteva dire di no a Pollari. Come non glielo ha potuto dire poi, con il governo successivo, Romano Prodi, che ha sempre difeso il direttore del Sismi.

La faccio breve, nel 2004 fonti della Guardia di Finanza fanno sapere in Telecom che "Tavaroli, da punto di forza, è diventato un punto di debolezza". A maggio mi convoca Tronchetti e, alla presenza di Buora, mi consiglia di accettare una aspettativa di tre mesi per far calare il polverone su di me e la società. Accetto, non ho alternative. Per tre mesi, il telefono si fa muto. Non mi chiama più nessuno, se si esclude Adamo Bove (il dirigente della security governance della Telecom precipitato il 21 luglio 2006 da un cavalcavia della tangenziale di Napoli: suicidio o istigazione al suicidio?). Vado in Romania. Mi richiamano in Italia dopo l'attentato al Tube di Londra del 7 luglio 2005. Tronchetti chiede a Letta se può darmi una consulenza antiterrorismo. Letta si dice d'accordo "nell'interesse del Paese". A fine anno, il Dottore mi dice: devi rientrare.

Nel gennaio 2006, quando sono pronto a rientrare, Cipriani si fa abbindolare dai carabinieri di Firenze che non hanno mai smesso di blandirlo: "Vuota il sacco e le tue responsabilità saranno ridotte al minimo...".

Quello ci casca e trovano il dvd con i file illegali, peraltro già in possesso di Emilio Ricci, avvocato, romano, comunista, amico mio, di Pollari, di D'Alema. Cipriani consegna la password ai pm. In tempo reale la notizia arriva a Tronchetti - penso attraverso l'avvocato Mucciarelli. Il Dottore mi convoca. Mi dice: hanno il dvd; l'hanno aperto; lei non può più tornare in azienda. Io mi mostro preoccupato. Gli dico: su quel dvd ci sono i file di Brancher, e di Cesa, e la faccenda di D'Alema e dell'Oak Fund. Inizialmente, Tronchetti finge di non ricordare. "D'Alema? - dice - e che c'entra, io non so nulla...". Poi, qualche giorno dopo, gli torna la memoria e ammetterà che era stato lui a commissionarmi quel lavoro per verificare se, nell'acquisizione di Colaninno, fossero state pagate tangenti. Qualche mese dopo, in maggio, Tronchetti alla presenza del solito Buora mi chiede le dimissioni. Fu un lavoraccio, l'inchiesta "Oak Fund". Per quel che poi ha scritto Cipriani nel dossier chiamato "Baffino", ora nelle mani della procura di Milano, i soldi hanno viaggiato nella pancia di trecento società in giro per l'Europa per poi approdare a Londra nel conto dell'Oak Fund, a cui erano interessati i fratelli Magnoni (Giorgio, Aldo e Ruggiero, vicepresidente della Lehman Brothers Europe) e dove avevano la firma Nicola Rossi e Piero Fassino.

Queste cose le ho dette anche ai pm che mi hanno interrogato. Loro mi dicevano: non scriviamo i nomi nel verbale, diciamo "esponenti politici...".

Formalmente perché è necessario attendere la sentenza della Corte Costituzionale per sapere se quei dossier raccolti illegalmente sono utilizzabili nel giudizio. Ma, dico io, se mi prendi a verbale non hai più bisogno della Corte Costituzionale, hai il mio verbale che contiene la notizia di reato. E allora?

Sono assolutamente convinto che Tronchetti sapesse in tempo reale quali fossero le intenzioni e le mosse della procura. Credo che egli abbia lasciato esplodere il "caso Rovati" al solo scopo di anticipare il governo e trovare una dignitosa e sdegnata via d'uscita. Con quel che sarebbe successo di lì a un paio di mesi, il governo avrebbe potuto dirgli: non hai l'autorità né la credibilità per governare le reti. Ora Tronchetti Provera lascia dire e scrivere che sono stati Romano Prodi, Giovanni Bazoli e Guido Rossi a sottrargli la Telecom senza dire una parola su quel network di potere, eversivo che io, nel suo interesse e su sua richiesta, ho fronteggiato e da cui sono stato distrutto; quell'area di potere che decide le nomine che contano, che in apparenza non chiede e, invece, ordina con messaggi traversi che è bene cogliere al volo per non dare l'idea che la si stia sfidando. Genio dell'opportunismo qual è, Tronchetti vuole ritornare sulla scena forte della liquidità incassata in uscita dalla Telecom, candido e senza un'ombra. Solo io dovrei pagarne il prezzo, ma gli è capitato il peggiore cliente possibile. Non ho nulla da perdere. Mi hanno già tolto tutto. Devo soltanto dimostrare ai miei cinque figli che il loro papà non è il mascalzone che raccontano, che il loro papà ha concesso soltanto fiducia a chi non la meritava. Per questo ripeto: non accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo affare".

(2. Fine) Torna alla prima puntata

(22 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Quel dossier in mano ai magistrati e il ruolo della libera stampa
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 11:13:22 am
CRONACA L'ANALISI

Quel dossier in mano ai magistrati e il ruolo della libera stampa

di Giuseppe D'Avanzo


NON SORPRENDE che l'affaire Telecom abbia provocato una contesa molto aspra. Quel che delude e confonde i lettori è come se ne parla e di che cosa si discute. C'è chi si industria a disegnare scenari - senza capo né coda - alimentati dalle pigre chiacchiere di Transatlantico. Lungo il corridoio di Montecitorio, i "nominati" in Parlamento almanaccano, congetturano, epperò accusano. Non sanno niente. Non hanno letto niente (non le carte dell'affaire e nemmeno con cura le cronache), ma dell'ultimo capitolo del "caso" (l'intervista di Tavaroli) spiegano la genesi, gli attori, trame e intrighi immaginati spesso confondendo la notte con il giorno, il sopra con il sotto, nella convinzione che le loro dicerie, ripetute tre o quattro volte, assumano la qualità di prove storiche.

Quelle parole libere sono presentate al lettore addirittura come "retroscena" e chi le combina finge di non sapere che, lontano dai fatti, i quadri si possono comporre a mano libera sostenendo una cosa e il suo contrario e il contrario del contrario in un caleidoscopio di luci sempre ingannevoli e mai veritiere. Lo spettacolo, pare, si riconosce soltanto un obbligo: "far conoscere il mondo noioso dell'incomprensibile obbligatorio".

C'è poi chi (il Corriere della Sera) si trova nelle mani l'ambiguità dell'affaire e ne è spaventato, intimorito. Vuole soprattutto aggirare ciò che è accaduto. Per farlo, ha bisogno di qualche cosmesi per censurare quel che ritiene una lettura gonfia di pregiudizi e scettica perché non vede nella polvere, come vorrebbe, l'avversario (Marco Tronchetti Provera). In questo quadro manipolato, chi sospende ogni giudizio (come Repubblica) avrebbe per l'avventuroso critico un "doppio standard": i pubblici ministeri sono "buoni" se azzoppano l'antagonista, "cattivi" se lo scagionano. È una soporifera litania, molto datata. Per rendersi oggi decente ha bisogno di una falsificazione e di due omissioni.

Deve attribuire, a chi racconta il "caso", "un avversario". Deve rappresentare Tronchetti Provera come target di un'aggressione mediatica. E' falso. Tronchetti non è l'obiettivo di nessun assalto. E' purtroppo il presidente di Telecom e Pirelli negli anni in cui nasce e prospera, nel corpo di quelle società, un abusivo "servizio segreto di un paese di media potenza" che compila migliaia di dossier illegali contro "i nemici" e anche "gli amici" (politici, economici, finanziari, istituzionali) delle due aziende.

Tronchetti era consapevole di queste pratiche o gli "spioni" hanno approfittato della sua trascuratezza? Non si può omettere di ricordare ai propri lettori che la questione, per il momento, divide il pubblico ministero dal giudice per le indagini preliminari. Per il pm, la responsabilità di Tronchetti è soltanto "amministrativa" (è stato negligente, si è lasciato prendere la mano da quei ceffi). Per il giudice, va valutata anche una sua diretta responsabilità penale (il lavoro di Tavaroli e delle sue spie "tende a beneficiare non già l'azienda, ma il proprietario di controllo"; i dossier "rispondevano a esigenze della proprietà aziendale").

Non c'è un pregiudiziale "doppio standard". La doppia lettura degli avvenimenti è interna al processo, è nelle "carte". Non è sollecitata da un malanimo contro Tronchetti. È, come si dice, un fatto.

* * *

Sono proprio i fatti che, in questa storia, si preferisce omettere. Anche chi non li nasconde sembra concludere che non abbiano poi molta importanza. Come se non ci fosse più bisogno di accertare che cosa è accaduto, di riflettere su quel che è accaduto. Come se non fosse necessario o doveroso, se vuoi informare, sapere e raccontare come nel nostro Paese si formano le decisioni; chi decide; perché; dove; dietro a quali interessi, con quale volontà di potenza e metodi. È questa del "caso Telecom" la sola cosa importante, la sola di cui valga la pena occuparsi (ce ne scuseranno Tronchetti e Fassino) perché è una storia che parla della natura del potere italiano.

Come hanno osservato analisti più acuti dell'avventuroso critico, anche la "verità" di Giuliano Tavaroli può essere, a questo proposito e nonostante l'ambiguità della sua testimonianza, utile a rappresentare l'affresco di quel potere, i protagonisti e le figurine, la tavolozza dei colori, il teatro, il canovaccio. Vi si colgono una geografia e paradigmi che dimostrano quanto concreta sia diventata oggi la profetica chiaroveggenza di Guy Debord, la sua analisi lucida e severa delle miserie e della servitù di una società moderna (La società dello spettacolo).

In questa storia si vedono all'opera "un numero sempre maggiore di uomini formati per agire nel segreto; istruiti ed esercitati a non far altro. Sono distaccamenti speciali di uomini armati di archivi segreti riservati, cioè di osservazioni e analisi segrete. E altri sono armati di varie tecniche per lo sfruttamento e la manipolazione di questi affari segreti". Si scorgono in controluce ovunque "reti di influenza" coerenti con le nuove condizioni di una proficua gestione degli affari economici, la naturale conseguenza del movimento di concentrazione dei capitali.

L'affaire Telecom è, allora, una domanda a cui nessuno vuole dare una risposta: come si formano, nel cuore del potere italiano, i "legami di dipendenza e di protezione"?

È bizzarro che nessuno si chieda perché il piduista Luigi Bisignani, ancora oggi, possa attraversare la scena pubblica e decidere (come tutti nelle consorterie del potere sanno e dicono) delle nomine più prestigiose. In base a quale autorità? E' curioso che nessuno si sorprenda che Gianni Letta (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) accetti di discutere con un dirigente della Kroll (la più grande agenzia d'investigazione privata del mondo) "un'operazione di discredito contro Tronchetti" e non lo sbatta fuori dal suo studio, non inviti subito il ministro dell'Interno ad annullare la licenza di quell'agenzia. Perché?

* * *

"Il vero è sempre un momento del falso" in questo mondo di spie e di aziende che li lasciano fare per distrazione o li utilizzano con sapienza. Come non sappiamo ancora quali siano le responsabilità di Tronchetti, noi non sappiamo se i Ds abbiano mai avuto conti all'estero con la firma di Piero Fassino, come sostiene Tavaroli. L'affermazione ha provocato un putiferio e qualche questione di metodo. Quale controllo è stato effettuato? Quel che dice Tavaroli è sostenuto da un dossier a disposizione della magistratura? Quei dossier saranno usati nel processo oppure ritenuti inammissibili come prove?

Sono interrogativi ragionevoli. Il dossier esiste - alto una spanna, contiene i nomi dei beneficiari (non solo quello di Fassino), i cognomi dei prestanome - ed è nelle mani dei pubblici ministeri (naturalmente l'esistenza di un dossier non è l'automatica conferma di un reato).

Altra questione è se potrà essere utilizzato in un'indagine. Con un decreto legge del 22 settembre 2006, convertito in legge due mesi dopo, il governo Prodi ha disposto che "il pubblico ministero disponga la secretazione dei documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni. Il loro contenuto non può essere utilizzato. Entro quarantotto ore, il pubblico ministero chiede al giudice per le indagini preliminari di disporne la distruzione".

La legge è apparsa dubbia da un punto di vista costituzionale al giudice di Milano (lede i diritti della vittima dello spionaggio) e sarà ora la Consulta a decidere l'utilizzabilità o la distruzione di quel dossier. Come ha spiegato una fonte vicina all'inchiesta a Repubblica, già il 26 gennaio del 2007 il dossier sui Ds è ora un "fascicolo in C". La formula è criptica, ma la cosa non è poi molto complicata. Dal troncone d'una inchiesta si stralciano alcune posizioni aprendo un fascicolo di "Atti relativi a...". Questo è il fascicolo in C: permette al pubblico ministero di tenere in parcheggio l'iniziativa penale senza pregiudicarla con i tempi stretti dell'istruttoria, del processo e della prescrizione.

Sono atti che, in qualsiasi momento, a ogni occasione utile, possono uscire dal parcheggio con un'ipotesi di reato quando questa viene individuata e sostenuta da un'apprezzabile fonte di prova. Il dossier è già stato materia di interrogatorio per indagati e testimoni.

Sorprende, allora, la sorpresa di Fassino e in generale del Partito democratico. Marco Mancini, capo del controspionaggio, il 14 dicembre del 2006, ha riferito alla procura di Milano che "nel 2003 seppe che Cipriani (investigatore privato pagato da Telecom) era in condizione di avere concretamente nomi di società all'estero riconducibili a personaggi della sinistra specificatamente ai Ds". Mancini corse da Pollari (allora direttore del Sismi) che lo "invitò a parlare con il senatore Nicola Latorre (Ds) il quale mi disse che erano fesserie".

Consideriamo le parole di Mancini bubbole (Latorre nega di aver mai saputo di un dossier). In ogni caso, i leader della Quercia, se leggono i giornali, hanno saputo di quelle accuse 17 mesi fa, quando Repubblica ne ha dato conto. Non si ha notizia che, in quel tempo, si siano mossi gli avvocati di partito. Come, oggi, non si ha notizia di una querela per diffamazione di Tronchetti contro il capo della sua security, che lo accusa di aver commissionato lo spionaggio dei leader dei Ds.

* * *

Aggiustata qualche data e qualche ricordo, si può concludere che l'ira furibonda provocata dall'intervista di Giuliano Tavaroli non riguarda il suo racconto (della cui ambiguità, Repubblica ha avvertito i lettori), ma la stessa possibilità di raccontare, la stessa possibilità di lasciare accesa una luce su un affaire che disegna le debolezze del nostro capitalismo, i deficit della nostra politica, l'opacità del loro intreccio, le "reti d'influenza" e i "legami di dipendenza e di protezione" del potere italiano.

Da questo punto di vista, l'applauso corale che ha accolto Fassino alla Camera è degno di attenzione. Annuncia una brutta stagione per l'informazione imputata di essere, quando fa il suo lavoro, soltanto "disinformazione". Era già accaduto quando Repubblica svelò lo scandalo di "Telekom Serbija" e poco dopo quando svelò la maligna macchinazione di una commissione parlamentare contro Prodi e Fassino.

Anche in questo caso ci aiuta Debord. "La disinformazione è nominata soltanto dove occorre mantenere la passività. Dove la disinformazione è nominata, non esiste. Dove esiste, non la si nomina".


(26 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - La politica, le spie e i mandanti
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 09:05:41 am
CRONACA IL COMMENTO

La politica, le spie e i mandanti

di GIUSEPPE D'AVANZO


MASSIMO D'Alema affronta l'affaire Telecom e preferisce guardare alla luna e non al dito. In questi giorni, molti, troppi hanno ritenuto di dover affrontare il "caso" dalla coda. Confondendo l'effetto con la causa, si sono occupati soltanto di quel dossier illegale - ora nelle mani della procura di Milano - che coinvolge Piero Fassino, come beneficiario di un fondo estero per conto dei Ds.

Nessuno ha avuto voglia curiosamente di porsi le domande più utili e necessarie: chi e perché ha commissionato quel dossier (a maggior ragione, se falso)? Un largo fronte istituzionale e politico (per la prima volta, in questa legislatura, bi-partisan) ha voluto esprimere una calda solidarietà a Fassino e l'ha chiusa lì. Come se l'affare fosse stretto (e si esaurisse) alla vittima dello spionaggio e della manipolazione e non riguardasse soprattutto lo spionaggio, gli spioni, i loro padroni, le ragioni nascoste della manipolazione.

È il cuore del problema che finalmente, con lucidità, D'Alema indica. Dice: "Questa montatura è stata costruita da qualcuno. Vorremmo capire chi è. Sicuramente hanno operato spie, provocatori. Hanno cercato di danneggiare la nostra immagine, infangarci, colpirci. Anche perché la vicenda Telecom ha toccato interessi forti nel Paese. C'era una volontà di vendetta, senza che mai si concretizzasse nulla. Perché non c'è nulla da trovare. Adesso però vogliamo che sia chiarito molto bene chi ha messo su questi dossier, chi ha fatto queste indagini". Il nodo da sciogliere è dunque questo: chi ha ordinato alla rete spionistica della Telecom il diffuso e meticoloso lavoro di dossieraggio?

* * *

D'Alema giudica però "un'operazione molto grave da un punto di vista professionale" aver riproposto, come ha fatto Repubblica, la testimonianza di Giuliano Tavaroli. E ci pare che incappi in una contraddizione: da un lato, chiede di sapere chi ha voluto metter su il dossier calunnioso; dall'altro, giudica "un'aggressione mediatica" raccogliere la testimonianza del capo "delle spie e dei provocatori" che svela, per la prima volta e in pubblico, il nome di chi gli ha ordinato quella manovra contro i Democratici di Sinistra.

Non è che le parole di Tavaroli siano oro colato, naturalmente. Dell'ambiguità della sua "confessione" abbiamo ripetutamente avvertito il lettore, ma è indubbio l'interesse pubblico ed esclusivamente giornalistico della sua testimonianza, per quanto critica possa essere. Tavaroli fa il nome di Marco Tronchetti Provera come il mandante di quel dossieraggio. Ci è parsa una notizia. E' un'accusa di cui Tavaroli dovrà rendere conto nel processo. Con ogni probabilità, sarà di nuovo interrogato dai pubblici ministeri. Con ogni probabilità, chiederà di avere un confronto con il presidente della Pirelli e, a quanto pare, raccoglierà in una memoria gli argomenti che possono sostenere la sua chiamata di correo. Si vedrà.

Quel che conta dire qui è che appare difficile sostenere che dar conto della "confessione" di Tavaroli sia "un'aggressione" e non giornalismo. Che non interpelli il diritto di cronaca, ma "i limiti di guardia a cui è giunto il rapporto tra politica e informazione". Ancora ieri Fassino ha ripetuto che "in causa non è la libertà di stampa" ma "il ricorso sistematico a manipolazioni e false verità che intossicano quotidianamente l'informazione" Anche in questo caso affiora - mi pare - una contraddizione che capovolge la scena. L'informazione che racconta la malattia del Paese, dei veleni che lo inquinano, dei detriti che ne condizionano le decisioni diventa, in questa interpretazione, addirittura una patologia e non una delle possibili terapie per immunizzare il discorso pubblico.

* * *

C'è stato un tempo che lucidi analisti delle cose nazionali hanno saputo scorgere, nel "nascosto" dello scandalo Telecom, "la malattia di un Paese" in quella "doppia debolezza" che costringe "le élites economiche e le élites politiche a vivere intrecciate: ne risulta un'opacità delle relazioni politiche-economiche che incentivano i comportamenti di cui devono poi occuparsi i tribunali" (Angelo Panebianco, Corriere della sera, 24 settembre 2004). Si scrisse ancora: "l'Idra italiana che a scadenza fissa si presenta sulla nostra scena è precisamente ciò che è oscuro ed è destinato a restare tale. Tuttavia, indoviniamo benissimo la mai sopita vocazione dei servizi di sicurezza a operare oltre i limiti legali, la costante presenza ai margini della classe dirigente di un sottobosco di intriganti, di faccendieri, di ex qualcosa, sempre pronti a vendere i propri servigi ma più spesso, forse, pronti a cercare di mettersi in proprio; indoviniamo l'esistenza di ingentissime disponibilità finanziarie occulte, frutto perlopiù di operazioni illegali, e infine avvertiamo benissimo il continuo rumore, dietro le quinte dell'ufficialità economica e politica, di un lavorio sordo fatto di favori, di ricatti, di relazioni più o meno sporche e più o meno segrete, di intercettazioni, di informazioni sulla vita privata e di quant'altro possa esserci di inconfessabile". (Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della sera, 27 settembre 2006).

Il quadro è quasi sovrapponibile, come si vede, con gli scenari illuminati da Tavaroli. In più, nella sua "confessione" tutta da verificare, si possono leggere i nomi, le circostanze, le manovre, le relazioni dell'"Idra" e leggere la trama di quegli "intriganti, faccendieri, ex qualcosa", la presenza di "risorse finanziarie occulte e operazioni illegali". Pare però che se l'informazione, anche per via della voce concretissima di un protagonista compromesso con i fatti, trova tracce e frammenti di quella nitida analisi diventa cattiva informazione.

Con un bizzarro doppio codice interpretativo, forse dovuto alla nuova congiuntura politica, diventa addirittura "complottismo". Addirittura "misterologia": "Una poderosa costruzione mentale che soddisfa l'esigenza primordiale di trovare un ordine nel caos, una connessione nel disordine, una trama nell'insensato" (Pierluigi Battista, Corriere della sera, 28 luglio 2008).

* * *

Omero credeva nei complotti. Credeva che "qualunque cosa accadesse sulla piana di Troia era solo un riflesso dei complotti in atto nell'Olimpo". Poi ci è stato spiegato che la teoria sociale della cospirazione può essere soltanto figlia di quel teismo perché "deriva dall'abbandono di Dio e dalla conseguente domanda: "Chi c'è al suo posto?"". Chi può credere oggi ai complotti? Non si può credere - magari per frustrazione, impotenza, sfiducia, rancore - che ci sia non un vuoto, ma un altro pieno abitato da uomini, gruppi di potere, consorterie di pressione che coalizzate orientano, influenzano, decidono al nostro posto, contro di noi, contro il nostro futuro.

E' una teoria che dimentica, dice Karl Popper, una indistruttibile realtà della vita sociale: nessuna azione ha mai esattamente il risultato previsto. Le cose vanno sempre in un altro modo da come ce le siamo immaginate. Questo non vuol dire però che non esistano, nelle nostre azioni, scopi, obiettivi e strategie e alleanze. Il loro esito non sarà mai quello previsto. Le conseguenze saranno indesiderate e impreviste.

L'affaire Telecom è lì a dimostrarlo: tutti gli attori di quello straordinario lavorio sono usciti sconfitti. Piaccia non piaccia, allora, il giornalismo è questo. E' il racconto - anche approssimativo e controverso - di quelle azioni e di quelle strategie, a meno di non pensare che gli argomenti siano diventati ormai inutili; che non valga la pena di sapere "a che punto siamo"; che non possa esistere più una storia imparziale dei fatti o anche soltanto un giudizio. Un grande giornalista diceva che "non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e, prima o poi, la pubblica opinione li spazzerà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l'unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri".

* * *

Non conosco Piero Fassino, ma credo anch'io - come tutti - che sia un uomo onesto. La sua integrità dovrebbe farlo riflettere sull'errore che lo sta tentando. Pensare che l'informazione sia la malattia del Paese e non una delle necessarie terapie alle patologie della politica può essere una strada senza ritorno alla vigilia di una stagione che, in modo esplicito, vuole attenuare i contrappesi di un potere che non riconosce alcun limite a se stesso. Dove si canta una sola nota, le parole - anche quelle di Fassino - non conteranno più.


(1 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Bologna, le ombre e le intenzioni
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 11:17:20 am
CRONACA L'ANALISI

Bologna, le ombre e le intenzioni

di GIUSEPPE D'AVANZO


NESSUNA sentenza scolpisce la Verità nella pietra. Di ogni sentenza si può dubitare. È soltanto la fallibile verità degli uomini scritta, quando le cose vanno per il meglio, al termine di un'operazione tecnica. Esiste una macchina procedurale. L'accusa formula le sue opinioni. Chi si difende le si oppone con contro-argomenti.

Il dibattimento pesa le une e gli altri. Ne convalida uno. Nel 1995 Giusva Fioravanti e Francesca Mambro sono stati condannati all'ergastolo come esecutori della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti, 200 feriti). Si dichiarano da sempre innocenti. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha voluto, nel giorno dell'anniversario della strage, far sentire la sua voce per chiedere che "si dissolvano le zone d'ombra che hanno suscitato perplessità crescenti nell'opinione pubblica intorno all'accertamento della verità sulla strage".

Parole irrituali o, come ha detto il sindaco di Bologna Sergio Cofferati, addirittura "gravi" perché "sollecitano la riapertura di un processo sulla base di perplessità dell'opinione pubblica". Ammesso che davvero ci siano esitazioni nell'opinione pubblica - e ammesso che esista davvero l'opinione pubblica - "le perplessità" non possono essere un criterio per una revisione del processo.

Più utili le zone d'ombra. Ce ne sono? Quali sono?
Nel corso del tempo, in un'inchiesta e in un processo teatro di depistaggi di ogni genere e segno (per depistaggio sono stati condannati Licio Gelli e Francesco Pazienza, a dieci anni, e due ufficiali del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte), si sono contate almeno tre piste alternative abitualmente designate con le formule: "falangisti libanesi"; "libici"; "depistaggio per Ustica".

La prima "pista" nasce dai ricordi di Abu Iyad, un dirigente palestinese. Dichiara che l'Olp ha fornito alla magistratura italiana "indizi" sulla responsabilità di fascisti italiani addestrati in Libano nei campi falangisti. La seconda ipotesi la indica un fascista: Stefano Delle Chiaie. Il suo avvocato sostiene che l'attentato alla stazione di Bologna era stato organizzato "per coprire la vera storia di Ustica", avvenuta un mese prima. Anche l'ipotesi libica nasce connessa alla strage di Ustica, ma ne attribuisce la responsabilità a Gheddafi. A luglio 1991 il parlamentare dc Giuseppe Zamberletti giura che la bomba alla stazione sarebbe stata una ritorsione per l'accordo tra Italia e Malta firmato proprio la mattina del due agosto 1980. (In una variante di questa teoria, i libici avrebbero agito in replica al tentativo di assassinare Gheddafi a Ustica).

Tutti gli intrighi sono stati esaminati dalla magistratura bolognese che ne ha riscontrato l'infondatezza e, in alcuni casi, la strumentalità. Negli ultimi mesi ha fatto capolino una nuova "certezza" già proposta dalla commissione Mitrokhin. L'ha proposta il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. "Io, che di terrorismo me ne intendo, dico che la strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzati dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che volevano purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente con una o due valigie di esplosivo. Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così".

La ricostruzione di Cossiga (che in realtà già era a capo del governo) sembra accostarsi alle rivelazioni di Carlos Ilich Ramirez Sanchez, "lo sciacallo": "L'attentato contro il popolo italiano alla stazione di Bologna "rossa" non ha potuto essere opera dei fascisti e ancora meno dei comunisti. È opera dei servizi yankee, dei sionisti e delle strutture della Gladio. Non abbiamo riscontrato nessun'altra spiegazione". Giusva Fioravanti conclude che "la pista palestinese è ormai palese. Carlos ammette che quell'esplosivo era il loro e che a farlo brillare sono stati i servizi israeliani o americani".

Sarebbero queste le nuove zone d'ombra. E si fa fatica a crederle attendibili. Lasciamo da parte gli arzigogoli della "Mitrokhin", la più pasticciona "agenzia di disinformazione" che sia stata mai ospitata in un Parlamento. Carlos non dice che l'esplosivo di Bologna fosse della sua organizzazione. È Cossiga che dice che fosse patrimonio palestinese. Purtroppo il presidente emerito, nel corso degli anni, ha cambiato troppe volte versione per ritenere questo un racconto definitivo. È soltanto l'ultimo in ordine di tempo.

Il 4 agosto 1980, al tempo presidente del Consiglio, Cossiga dichiara in Parlamento che l'attentato alla stazione era un attentato "fascista" ("Non da oggi si è delineata la tecnica terroristica di timbro fascista. Il terrorismo nero ricorre essenzialmente al delitto di strage perché è la strage che provoca paura, allarme, reazioni emotive e impulsive"). Il 15 marzo 1991, divenuto presidente della Repubblica, dice di essersi sbagliato nel definire "fascista" la strage; presenta le scuse al Msi; sostiene che "il giudizio da me espresso allora fu il frutto di errate informazioni che mi furono fornite dai Servizi e dagli organi di polizia. La subcultura e l'intossicazione erano agganciate a forti lobbies politico-finanziarie".

Nel 2000, nuovo ripensamento. In una fatica memorialistica (La passione e la politica, Rizzoli) Cossiga scrive: "Mi hanno tempestato perché dicessi quello che so. Io non so nulla". Nel 2007, in un colloquio pubblicato in Tutta un'altra strage di Riccardo Bocca, il presidente emerito fornisce qualche elemento. Ricorda quel che ha saputo o già sapeva (chissà). La tesi dell'esplosivo palestinese gli sarebbe stata comunicata "nella prefettura felsinea, a ridosso dell'attentato (dunque nell'occasione in cui definì la strage "fascista"), dal capo dell'ufficio istruzione di Bologna, Angelo Vella" (massone).

Come si possono definire "zone d'ombra" quest'affastellarsi confusissimo e contraddittorio di ipotesi, congetture, ricostruzioni senza alcuna prova o indizio - se non indiscrezioni, non si sa da dove piovute? E tuttavia ammettiamo che lo siano: appaiono incoerenti le mosse dei protagonisti (Fioravanti e Mambro) e dei loro sostenitori (la leadership del Movimento sociale di un tempo ora al governo e in Parlamento).

Il processo di Bologna come tutti i processi di quel tipo è stato indiziario. Come sempre nei processi indiziari, ci sono fragilità e debolezze nella sentenza. Ora se si vuole riaprire il processo non c'è che da metter insieme un collegio di avvocati sapienti che, come prescrive la legge, raccolga "nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto". O che documentino come "la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato".

Il fatto è che non c'è traccia in questa storia né di un collegio di avvocati al lavoro né di una richiesta motivata (anche di là a venire) di revisione del processo. Il dibattito mai tecnico è tutto e soltanto politico. Nasce, si gonfia e prospera nei corridoi del Palazzo, nelle interviste senza contraddittorio, nelle audizioni e nei carteggi di rovinose commissioni parlamentari.

È un dibattito che si sovrappone al conflitto tra magistratura e politica; al disegno del governo di screditare il lavoro delle toghe in attesa di una nuova riforma della Costituzione e dell'ordinamento giudiziario. Appare soltanto "occasione" di una politica e un'operazione di azzeramento delle identità e delle differenze. È una disputa che non cela di voler creare una memoria condivisa e artificiosa che è piuttosto "comunione nella dimenticanza", "smemoratezza patteggiata".

Lungo questa strada, Mambro e Fioravanti non avranno mai il nuovo giudizio che attendono. Questo dibattito - che mai affronta la controversia degli argomenti, il loro contraddittorio nel solo luogo che può dare concretezza ai dubbi - può soltanto umiliare gli ottantacinque morti della stazione. Perché, si sa, "si può far tutto con i morti, non hanno difese".

(4 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - L'ultimo trucco del mago di Arcore
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2008, 12:31:17 am
POLITICA IL COMMENTO

L'ultimo trucco del mago di Arcore


di GIUSEPPE D'AVANZO



LA CLASSE non è acqua. Prodi dimostra di averne. Uno degli house organ del Cavaliere lo mette in mezzo. Scopre che è stato intercettato in un'inchiesta giudiziaria. Pubblica stralci delle sue conversazioni. È una buona occasione per rilanciare il "giro di vite" per le intercettazioni, già al primo posto dell'agenda del governo per l'autunno. Farle? Come disporle e per quali reati? Per tutti o soltanto per alcuni? Pubblicarle, e come e quando?

Senza troppo fantasia o sorpresa, si affaccia al proscenio prontamente - toh! - il Cavaliere ancora in vacanza (come non pensare che la minestrina se la siano cucinata in famiglia?). Esprime una solidarietà tartufesca al suo predecessore e chiede alParlamento di approvare con sollecitudine il disegno di legge che, regolando l'uso delle intercettazioni, imbriglia il lavoro dei magistrati e ammutolisce l'informazione vietandone di fatto le cronache, a prezzo del carcere per gli scriba e punizioni pecunarie per gli editori.

È l'ennesimo trucco del mago di Arcore. Al terzo round governativo, ha deciso di esercitare il suo potere secondo una tecnica che gli impone di creare - volontariamente e in modo artefatto - una necessità dopo l'altra, giorno dopo giorno, quale che siano le priorità più autentiche del Paese. Abitualmente i trucchi del mago di Arcore sono di cattiva qualità. Tutti vedono il passo storto, ma sono efficaci perché ipnotici. Per lo meno, per chi all'opposizione ci casca per non smarrire l'onda mediatica, che immagina essere l'unico canale per essere in sintonia con il Paese reale, condividendo così l'agenda del governo e l'offerta di un immaginario "dialogo istituzionale".

Questa volta, però, c'è Prodi di mezzo. Come il bambino di Andersen, dice quel che vede. E quel che vede è il sovrano nudo. Quel che scorge è un giochetto maldestro e molesto. Avverte che si vuole soltanto creare artificiosamente un "caso politico" per accelerare una soluzione legislativa che egli non condivide: "Le intercettazioni sono utili", dice. È tranquillo, certo di non avere nulla da temere dall'accertamento penale. Invita, chi vuole, a pubblicare integralmente le sue conversazioni, sicuro di non doversi vergognare delle sue parole. Con il che, l'ultimo tentativo di Berlusconi di creare uno stato di necessità, che imponga l'annichilimento delle intercettazioni e delle cronache, s'affloscia come un soufflé malfatto e svela i suoi ingredienti.

Da quando il Cavaliere è al governo è il terzo affondo. Si comincia nei primi giorni di giugno. Una nota di Palazzo Chigi annuncia che il governo ha approvato un decreto con immediata forza di legge che vieta le intercettazioni, se si esclude terrorismo e mafia, praticamente per tutti i reati (anche quelli per corruzione) e dispone il carcere per chi le pubblica. "È un provvedimento atteso da tutti i cittadini" giura Berlusconi. Deve intervenire addirittura il Quirinale per ricordare che il capo dello Stato ha già fatto sapere al governo che non intende riconoscere né l'urgenza né la necessità di un decreto legge. Palazzo Chigi impiega due ore per correggersi.

È "un refuso": presentiamo un disegno di legge, non un decreto. La rettifica arriva dopo che anche la Lega ha fatto la voce grossa (vuole che le intercettazioni siano consentite anche per i reati contro la pubblica amministrazione).

Il mago di Arcore ci riprova in luglio. Per giorni il Paese è inchiodato a un dilemma: che cosa dice Berlusconi nelle conversazioni privatissime registrate dalla procura di Napoli? Le sue parole sono davvero così inappropriate da costringerlo alle dimissioni? È vero che, in un'intercettazione, spiega a Fedele Confalonieri le ragioni postribolari dell'ingresso di qualche ministra nel governo? Quelle conversazioni semplicemente non esistono. Non sono mai esistite in un fascicolo giudiziario. L'avvocato del Cavaliere - Nicolò Ghedini, ministro di Giustizia di fatto - lo sa.

Sa che a Napoli e a Milano sono stati raccolti dei colloqui privati del Cavaliere (niente a proposito di ministre) e sa che, irrilevanti dal punto di vista penale, sono stati o saranno distrutti. Ghedini si guarda bene dal dirlo. Non aiuterebbe la performance dell'illusionista che, con notizie farlocche affidate ai famigli, veleni insufflati nelle redazioni, deve rappresentare la necessità di un urgente "giro di vite".
Mi spiano illegalmente, geme Berlusconi. Vogliono ricattarmi con intercettazioni private, abusivamente consegnate alle redazioni, protesta. Minaccia incursioni televisive e requisitorie parlamentari.

La pantomima, che si è affatturato con la complicità del suo avvocato-consigliere, lo autorizza a chiedere subito alle Camere genuflesse l'approvazione della nuova legge. Si sente finalmente abilitato a pretendere dal capo dello Stato di riconoscere l'urgenza costituzionale di un decreto legge. Il sette luglio è a un passo dall'imporre al Consiglio dei ministri un provvedimento che vieta, pena la galera per il giornalista e la disgrazia dell'editore, la pubblicazione delle intercettazioni. Si ferma, lo fermano (troppo presto per dare battaglia a Napolitano).

Ci riprova ora combinando dal nulla un "caso Prodi" alla vigilia del suo rientro a Roma, tanto per spiegare ai suoi che cosa gli interessa che facciano in Parlamento nelle prossime settimane.

I suoi dimostrano di aver capito al volo. Il presidente del Senato Renato Schifani (chi lo sa con quale titolo istituzionale) chiede che le Camere approvino subito la riduzione al silenzio della stampa (gli appare addirittura una mossa "indifferibile") rinviando alla discussione della riforma della giustizia "l'individuazione delle tipologie di reato per le quali poter utilizzare quel metodo di indagine".

Difficile avere dubbi (chi ne aveva?): Berlusconi pretende che la sua legittimità a governare sia libera dall'impaccio della legalità; intende legale con un "soltanto formale" e legittimo come il suo opposto. Vuole tagliar corto con le dispute togate e avvocatesche di uno Stato giurisdizionale e le lunghe, faticose discussioni dello Stato parlamentare. Ridotte già le Camere a una sorta di "servizio al governo", era così scritto che il Cavaliere si dovesse occupare al più presto di magistratura e informazione, i due ordini che, nell'equilibrio di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri e, nell'interpretazione della legittimità di Berlusconi, soltanto pericolosi ostacoli che impediscono al sovrano di governare perché sorvegliano le sue decisioni.

Quella vigilanza è un impedimento che crea uno status necessitatis, che gli impone di andare avanti per decreti con forza di legge o per leggi approvate in pochi giorni creando ad hoc il "clima giusto". È quel che è accaduto con il fasullo "caso Prodi" e quel accadrà in un autunno, freddissimo per la Costituzione.

(30 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. La resa dello Stato
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2008, 10:03:32 pm
CRONACA IL COMMENTO

La resa dello Stato


di GIUSEPPE D'AVANZO

 
LE cose del calcio hanno un gran pregio: smascherano l'ipocrisia nazionale, ci rivelano quanto "politica" e ideologica sia la strategia della "tolleranza zero" che governi di ogni colore hanno proposto nel tempo. Nella prima giornata del campionato di calcio, la "tolleranza zero" è diventata massima tolleranza. Non avviene per una sventura o per un'avventura.

I fatti sono noti. Un paio di migliaia di tifosi organizzati del Napoli hanno invaso la stazione ferroviaria di piazza Garibaldi; assalito un treno; costretto i viaggiatori ad allontanarsi e preteso che il convoglio raggiungesse Roma, dove i prepotenti - molti con il passamontagna a coprire il volto - sono stati accolti da trenta bus che li hanno accompagnati - gratis - all'Olimpico dove sono entrati senza alcun controllo dal cancello principale, molti senza biglietto, alcuni con sacchi di bombe carta.

Il viaggio ha provocato danni alle cose (vagoni, bus) per quasi 600 mila euro. Oggi tutti a chiedersi come sia potuto accadere quel che, con un eufemismo, il sottosegretario agli Interni Mantovano definisce "una catena di anomalie".

A porre la domanda in giro è la solita solfa italiana che riduce il fare al dire. Le Ferrovie dicono di aver fatto sapere che, nel giorno del rientro dalle vacanze per migliaia di italiani, non c'era possibilità di formare treni speciali. Il Calcio Napoli si difende ricordando di aver avvertito i tifosi delle difficoltà delle Ferrovie. Il questore di Napoli, poverino, arriva a sostenere che quando è partito il treno era tutto a posto, tutto tranquillo, gli adrenalinici viaggiatori avevano - tutti - il biglietto delle ferrovie, dello stadio e nessuno - nessuno - era armato. Nemmeno chessò una "lama" o un petardo.

A sua volta, la questura di Roma spiega che, una volta che la banda di animals (1500/2000) è giunta nella Capitale, l'opzione più illuminata prevede di condurli nel recinto dello stadio per "ridurre il danno": "Perdi la faccia, è vero, ma eviti che se ne vadano a distruggere il centro della città, che sarebbe molto peggio".

Come sempre dopo queste "catastrofi dello Stato", suonano alte le grida di sdegno. Il giorno dopo, sono a basso prezzo e nessuno si tira indietro. E poi nascono per durare poco o niente. Più o meno un anno fa, eravamo nella stessa situazione, ricordate? A febbraio era stato ucciso l'ispettore di polizia Filippo Raciti, il "decreto Amato" aveva incarognito i provvedimenti del predecessore Pisanu: possibilità di arresto in flagranza differita anche dopo 48 ore dai fatti; divieto di vendita cumulativa dei biglietti; biglietto nominativo; divieto di esporre striscioni che incitano alla violenza; nuovi reati (invasione di campo, fino a 4 anni); pene aggravate per le lesioni gravi o gravissime a pubblico ufficiale se "in occasione di manifestazioni sportive" (fino a 10 e 16 anni).

Il periodo di relativa quiete che ne segue lascia sbocciare un'ottimistica attesa che presto va delusa. Novembre 2007. Un poliziotto ammazza nell'area di servizio di Badia al Pino, Arezzo, Gabriele "Gabbo" Sandri, poco dopo una rissa tra laziali e juventini. L'omicidio scatena una guerriglia in mezz'Italia (gli ultras chiedono la sospensione delle partite), a Roma vengono assaltate la sede del Coni e un paio di caserme. Anche allora, appena dieci mesi fa, si ode un solo grido: basta, tolleranza zero! Divieto delle trasferte di massa delle tifoserie violente. Sospensione delle partite in caso di incidenti anche lontano dallo stadio e lungo le vie di trasporto.

Sono le soluzioni che, anche in queste ore, tornano ad affacciarsi. E ieri come oggi, saranno inutili perché il problema non sono le leggi (che ci sono, e severissime), ma la loro applicazione che è leggera, distratta, occasionale. Perché? Perché a una donna islamica con il velo sarà vietato di entrare in un museo, ma un paio di centinaia di animals potranno attraversare la capitale con il passamontagna sul volto. Che cosa giustifica la "tolleranza zero" per quella donna e la "massima tolleranza" per gli animals del calcio?

Una spiegazione, al di là del luogo comune della politica e dell'ipocrisia del mondo del calcio, ci deve essere e voglio azzardarne una. Puoi permetterti la tolleranza zero con chi è stato spogliato dei suoi diritti, privato di ogni statuto politico e di ogni prerogativa fino a ridurlo a non-cittadino, come non-cittadini sono gli immigrati contro cui si esercitano le politiche di tolleranza zero.

I violenti degli stadi che, spesso nelle loro periferie vivono la stessa condizione di denizens degli immigrati, diventati "tifosi" e "massa" recuperano uno status - addirittura una dignità, quasi un diritto di cittadinanza - perché fanno parte dello spettacolo e lo spettacolo, con i tempi che corrono, ha sempre una positività impetuosa, indiscutibile, intoccabile. È lo spettacolo cui partecipano a restituire ai violenti diritti, voce, un linguaggio, uno spazio, un potere, un'illusione, l'impunità. Impunità che non avrebbero se, fuori dello spettacolo, scatenassero la loro collera sociale (nello spettacolo, i gesti dello spettatore "non sono più i suoi, ma di un altro che glieli rappresenta").

È dunque il potere dispotico dello spettacolo a rendere immuni gli ultras perché è lo spettacolo che li tiene lontani dal conflitto sociale, e un prezzo bisognerà pur pagarlo per quel beneficio. Forse accade addirittura di più. Nei riti di guerra simulata, le tifoserie violente interpretano con la tribalizzazione dell'identità, l'occupazione di uno spazio territoriale, il radicamento delle appartenenze, l'evocazione di simboli e slogan politici e della coppia amico/nemico, una tendenza sociale più che condivisa; una vocazione condotta fino al limite della patologia che non si vuole o può condividere, ma nemmeno smentire al di là di una condanna di circostanza. Che, con il nuovo giorno, si può lasciare cadere da qualche parte per ricominciare ancora una volta daccapo. Non è accaduto questo finora? E non è questo che ancora accadrà?

(2 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - L'illusione securitaria
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 09:50:18 am
CRONACA

L'illusione securitaria

di GIUSEPPE D'AVANZO

IL COMMENTO



Domanda: il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, e il suo scudiero Franco Ionta, direttore dell'amministrazione penitenziaria, sono due ingenui dilettanti allo sbaraglio o due ambiziosi furbacchioni che credono di poter raggirare tutti in tutte le occasioni?
Se invento nuovi reati e nuove aggravanti; se inasprisco le pene; se faccio di ogni erba un fascio e cancello ogni ragionevole confine tra inciviltà, micro-devianza e criminalità (e anche tra i diversi tipi di criminalità).
Se non punisco più il fatto, ma castigo l'identità, l'appartenenza ad alcune categorie di "umani" che giudico, di per se stesse, pericolose; se - in soldoni - penso di risolvere ogni problema sociale (dalla tossicodipendenza a quello - epocale - dell'immigrazione) con il diritto penale e la galera, non posso poi stupirmi se le carceri scoppiano. Se Alfano è in questa condizione, dovremmo chiederci se è l'uomo giusto al posto giusto.
Se invece, come crediamo, Alfano non è Alice nel Paese delle Meraviglie, il "piano svuota-carceri" che oggi propone è la prova concretissima del fallimento del modello securitario scelto dal governo per fronteggiare la "percezione d'insicurezza" che esso stesso alimenta irresponsabilmente da anni. Agitando la bandiera della sicurezza, la destra di Berlusconi ha costruito la sua credibilità e la vittoria elettorale.
Alla prova dei fatti, alle prese con la dura realtà di fenomeni complessi, getta la spugna escogitando un "piano" che, ancora una volta, mostra quanto sia contraddittoria la sua "visione": Berlusconi ha votato l'indulto; è riuscito, in campagna elettorale, a cacciarlo sulla groppa delle responsabilità di Prodi e, ora che è al governo, se ne cucina un altro. Solo che non lo chiama indulto, ma "piano svuota-carceri".

Già basterebbe, ma non è il peggio. Il peggio è che Alfano vuole convincerci che il suo "piano" non sia uno slogan di marketing politico-burocratico, ma che serva davvero a qualcosa. In realtà, non serve a niente. È inattuabile e soprattutto inutile. È soltanto il tentativo, rispetto al peggio che incombe, di salvare la faccia, di liberarsi di ogni responsabilità futura. Alfano sa quale inferno sono oggi le carceri e che incontrollabile gehenna diventeranno nei prossimi due anni quando i detenuti in Italia diventeranno più di 70mila (in alcune previsioni, 73 mila) in un sistema predisposto per ospitarne 43 mila. Settantatremila persone ristrette l'uno sull'altro in celle sopraffollate, "chiuse" per venti ore al giorno. Alfano teme che, presto, le rivolte incendieranno i penitenziari.

Sa come i tumulti, già scoppiati in piccoli penitenziari (Trento), possono allargarsi ai più grandi (a Sulmona lo si è già visto) dove, nell'ora d'aria, due poliziotti penitenziari tengono a bada duecento detenuti alla volta. Alfano sa oggi, a prezzo di quali violenze, sia conservato un ordine che non si disintegra soltanto per la responsabilità dei detenuti e il sacrificio della polizia penitenziaria. Vuole soprattutto dirsi innocente per quel che può accadere o accadrà. La sua ricetta ha due medicine. Il braccialetto per i 4.100 italiani da "liberare" e l'espulsione per i 3.300 stranieri che devono scontare meno di due anni.

Ora il braccialetto elettronico, in Italia, è una boutade. La sperimentazione è stata catastrofica e dal 2005 l'uso di questi dispositivi è stato interrotto. Costano troppo (15 milioni l'anno per i 400 braccialetti da testare) e l'impresa non vale il prezzo: la centralina che conferma la presenza del detenuto in casa salta anche quando viene spolverata o sfiorata da un bambino; il meccanismo diventa muto se il detenuto si immerge in una vasca da bagno o scende in cantina con un fiorire di falsi allarmi che mobilitano senza costrutto le forze di polizia che non ne vogliono più sapere nulla di quell'aggeggio. Naturalmente la tecnologia potrebbe migliorare e permettere al detenuto, ad esempio, di lavorare o studiare. Ma a quale prezzo? Ai costi attuali dei braccialetti in dotazione, le casse dello Stato dovrebbero sborsare nei prossimi dieci anni, per i 4000 detenuti programmati, un miliardo e 500 milioni di euro. Ci sono questi soldi in cassa? Alfano sa che non ci sono.

Non è più concreta del braccialetto, l'espulsione per gli stranieri. Si dice che 3.300 stranieri devono scontare ancora due anni e possono farlo nei loro Paesi. È vero, così c'è scritto nella legge. Ma quanti di quei 3.300 devono soltanto scontare tre mesi, sei mesi? Le statistiche del ministero non lo indicano, ma il dato è importante perché l'iter di espulsione di un tribunale di vigilanza (non decide il ministero l'espulsione del detenuto straniero condannato in via definitiva) in media "prende" sei mesi di tempo. Quanti di quei 3.300 saranno già liberi prima che l'idea di Alfano si realizzi? Ammettiamo che tutti i 3.300 debbano scontare due anni e i tempi di espulsione siano coerenti, ci sono le risorse per accompagnarli nei paesi d'origine? I soldi non ci sono e, per quel che se ne sa, anche le espulsioni per via amministrativa del ministero dell'Interno sono ferme al palo per la sofferenza del bilancio.

Anche in questo caso, ammettiano che il bilancio della Giustizia consenta le espulsioni, è davvero economico rispedire a casa un neozelandese e due kazaki (nelle carceri italiane sono "rappresentate" 160 nazionalità)? E tuttavia ammettiamo ancora che la ricetta di Alfano (braccialetto più espulsioni) sia praticabile, come pensa il governo di impedire che non si crei, tra un anno, la stessa emergenza sovraffollamento di oggi? La questione è decisiva. Indirizzata alla "difesa sociale", spesso manipolata nelle sue criticità, a danno del reinserimento e di ogni programma sociale, la politica securitaria del governo moltiplica soltanto le imputazioni, aggrava le pene e la detenzione, riduce le opportunità di libertà condizionata per una vasta gamma di reati e produce, senza alternative, soltanto nuovi detenuti in misura esponenziale. Per di più senza risolvere la questione sicurezza ché non c'è alcun rapporto tra il tasso di incarcerazione e la riduzione del tasso di criminalità. Su questo incidono, infatti, per gli studi più accreditati, i periodi di crisi economica e sociale, la variazione delle occasioni di guadagni illeciti, la variazione dei livelli occupazionali, il grado di legittimazione delle istituzioni politiche, economiche e sociali.

Dunque, la morale della favoletta di fine estate raccontata da Alfano e Ionta è soltanto una. Con gli slogan si possono forse vincere le campagne elettorali, ma difficilmente si governa un Paese: la destra di Berlusconi prima ha spaventato il Paese e, oggi, non ha uno straccio di idea né per rassicurarlo né per proteggerlo.

(8 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO ... in quel patto tacito Ghedini-Violante
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2008, 04:28:53 pm
POLITICA    IL RETROSCENA

Azione penale e poteri del pm basteranno poche parole per cambiare

La riforma nascosta della giustizia in quel patto tacito Ghedini-Violante

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

È L'UOVO di Colombo. Che cos'è un pubblico ministero senza polizia giudiziaria? Più o meno, niente. Un corpo senza braccia. Una toga nera che cammina. E allora se, nella scelta e nell'avvio dell'esercizio dell'azione penale, si toglie all'accusa la collaborazione della polizia; se si attribuiscono alla polizia i poteri che oggi sono del pubblico ministero (dalle notizie di reato alla direzione delle indagini), il gioco è fatto.

Quel che oggi appare una faticosa (e ardua) ascesa alle vette di una riforma costituzionale diventa, più o meno, una quieta passeggiata in riva al mare. Un percorso legislativo ordinario e svelto che, senza troppo clamore e piazze Navona, altera gli equilibri costituzionali più di quanto possa fare una risicatissima riscrittura della Costituzione.

La "riforma della giustizia" (o meglio lo scontro ideologico tra politica e magistratura) ha già un suo compromesso concreto, rapidamente realizzabile e già per buona parte condiviso. L'abolizione di qualche parola in due articoli del codice di procedura penale consente alla politica di ottenere, senza "guerre di religione", quel che dai tempi della Bicamerale è apparso alla politica una chimera: il controllo dell'azione penale e l'attenuazione dei poteri del pubblico ministero a vantaggio dell'esecutivo.

Come si sa, la riforma ha un'agenda autunnale già annunciata dal ministro della Giustizia Alfano: riforma del processo penale e civile e, poi, interventi costituzionali che muteranno il ruolo del Csm, l'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle carriere. E' un'agenda, per la prima parte (riforma del processo), condivisa anche dall'opposizione che vuole rendere concreta la ragionevole durata del processo e più efficiente (finalmente efficiente) la macchina della giustizia. Ma, a saper ascoltare Luciano Violante e Niccolò Ghedini - le vere "teste d'uovo" protagoniste di questo minimalismo al tempo stesso riformista e rivoluzionario - è sufficiente già il riordino del processo penale per raccogliere qualche desideratissimo risultato. L'accordo non è segreto. Il compromesso è lì alla luce del sole e basta soltanto unire i punti per vederne il disegno.

Chiedono a Violante della separazione delle carriere (2 settembre, il Giornale). Curiosamente, prima di dirsi contrario alla separazione, Violante ragiona a lungo (in apparenza c'entra come il cavolo a merenda) sulla "confusione tra attività di polizia e attività del pm". Per concludere: "Il ruolo della polizia è stato schiacciato dal ruolo del pm. Bisogna tornare ai principi della Costituzione: la polizia da una parte e il pm dall'altra, ciascuno con proprie attribuzioni". E' una stravaganza il richiamo alla Carta. Come se le "attribuzioni" delle polizie fossero prescritte dalla Costituzione che, al contrario, all'articolo 109 recita: "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".

A stretto giro (3 settembre, il Giornale), risponde a Violante Niccolò Ghedini. Tecnico sapientissimo, di fatto il Guardasigilli, scorge il varco. Dice: "Sono d'accordo sulla necessità di valorizzare il lavoro della polizia giudiziaria rendendolo più autonomo da quello del pm. L'accordo si può trovare in tempi brevi". Si può immaginare che l'avvocato e consigliere di Berlusconi sfoggi uno dei suoi sorrisi, quando si lancia nella difesa dell'obbligarietà dell'azione penale ("La manterrei"). Ghedini sa che, liberata la polizia giudiziaria dalla dipendenza al pm, non vale più la pena occuparsi dell'obbligatorietà dell'azione penale che sarebbe già fritta. Vediamo perché.

Oggi (art. 327 del codice di procedura penale) "il pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria che, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa". Se si cancellano le parole in corsivo la norma diventa: "La polizia giudiziaria, anche dopo la comunicazione della notizia di reato, svolge attività di propria iniziativa". Il pubblico ministero perde la direzione delle indagini mentre la polizia guadagna la sua libertà. Come chiunque comprende, la variazione non è neutra e senza conseguenze. Il pubblico ministero è indipendente dal potere politico e "soggetto soltanto alla legge", mentre il poliziotto è un funzionario dello Stato che risponde agli ordini di un ministro e alle scelte politiche del governo. Una seconda "correzione" accentua la discrezionalità della polizia e la distanza dal pm.

Articolo 347 del codice di procedura di penale: "Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero". Se cade il corsivo ("Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria riferisce al pubblico ministero") l'intero gioco investigativo finisce nelle mani delle forze dell'ordine. Lo scenario diventa questo. Le polizie raccolgono la notizia di reato; fanno i primi accertamenti; ne possono valutare protagonisti, modalità e conseguenze. Informare la catena gerarchica e il governo. Decidere quando e come informare il pubblico ministero.

Non si può escludere che, nelle occasioni meno gradite o imbarazzanti per il potere politico o economico, la comunicazione possa avvenire fuori tempo massimo quando i buoi sono già scappati dalla stalla o quando diventa difficile raccogliere coerenti e tempestive fonti di prova per accertare reato e responsabilità. (Naturalmente sempre possono esserci pressioni sulla polizia giudiziaria per "aggiustare" le indagini, ma la dipendenza dal pubblico ministero protegge i funzionari dello Stato dalle gerarchie e dai governi).

Come si può comprendere, grazie a poche parole soppresse in un codice, giustizia e processo muterebbero. Sarebbe il governo a decidere, attraverso le polizie, quale fenomeno criminale aggredire e quali affari penali indagare. La separazione della polizia giudiziaria dal pubblico ministero risolve all'origine molte questioni cui la politica non ha trovato soluzione nel corso del tempo. L'obbligatorietà dell'azione penale sarebbe sterilizzata.

Oggi nella disponibilità delle procure, l'inizio dell'azione penale viene consegnata al governo che può selezionare quando, come e contro chi esercitare l'azione, attraverso la notizia di reato raccolta dalla polizia giudiziaria e i tempi di comunicazione alle procure. L'indipendenza del pubblico ministero sarebbe marginalizzata. Decretata la sua autonomia nelle indagini, sarà il poliziotto a decidere del lavoro soltanto formalmente indipendente del magistrato trasformando il pubblico ministero in "avvocato della polizia".

Un "avvocato" che mette le sue competenze tecniche al servizio di un'accusa preconfezionata in questure e caserme che lavorano alle dipendenze e con gli input del governo. La soluzione può essere gradita a larga parte del mondo politico (è un errore sottovalutare l'influenza e le connessioni di Violante nell'opposizione e nelle istituzioni) e peraltro Silvio Berlusconi non ha mai fatto mistero di volerla ad ogni costo. Forse, l'avrà. Senza tanti ghirighori costituzionali, la quadra - come l'uovo di Colombo - è lì a portata di mano. In poche parole da cancellare con un tratto di penna.

(10 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Travaglio: "La verità sulle mie vacanze"
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 08:52:11 am
LA POLEMICA

Travaglio: "La verità sulle mie vacanze"

D'Avanzo: ecco quello che non dice

Marco Travaglio alla trasmissione di Fazio: la polemica è partita dalle dichiarazioni su Schifani



ROMA (Ansa) - Marco Travaglio mette on line (www.voglioscendere.it) l'assegno e l'estratto conto della carta di credito con cui pagò la vacanza del 2002 all'Hotel Torre Artale di Trabia (Palermo), dove soggiornò con la sua famiglia nell'estate del 2002. E' la coda di una polemica scoppiata a maggio di quest'anno quando Giuseppe D'Avanzo, su Repubblica, rivelò di aver saputo da fonti investigative siciliane che il costruttore Michele Ajello, poi arrestato e condannato in primo grado per mafia, aveva pagato la vacanza di Travaglio su richiesta. La "notizia falsa" - ricorda il giornalista e scrittore - rimbalzò sui principali media italiani.

"Bene - dice Travaglio - sono spiacente di informare lorsignori che, dopo lunghe ricerche, ho finalmente trovato l'assegno e l'estratto conto della carta di credito Diners con cui pagai il conto di quella vacanza all'hotel Torre Artale di Trabia. L'assegno, emesso il 19 agosto 2002 dal mio conto presso il San Paolo-Imi di Torino e poi negoziato dal Banco di Sicilia (che lo conservava nei suoi archivi di Palermo), ammonta a 2.526,70 euro. I restanti duemila euro li pagai con la carta Diners (versamento datato 18 agosto 2002)".
"So che nessuno mi chiederà scusa per aver messo in circolo quelle menzogne sul mio conto. Ma - conclude Marco Travaglio - spero almeno che, in cuor suo, si vergogni".


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La risposta di Giuseppe D'Avanzo

Ricapitoliamo, una buona volta questo affare, le questioni che sono in discussione e i benedetti "fatti" che, per Marco Travaglio, dovrebbero farmi vergognare.

Partiamo dai "fatti".

Travaglio non parla mai di Giuseppe Ciuro, come se la presenza di questo signore fosse marginale. Al contrario, è essenziale. E non per sostenere che l'integrità di Travaglio è compromessa dalle vacanze comuni con un infedele poliziotto poi definito da una sentenza "criminale" e condannato a quattro anni e mezzo di galera. Quando vi ho fatto cenno in maggio, volevo dimostrare quanto fragile e pericoloso fosse un metodo di lavoro che - abusando della parola "verità" - declina la conoscenza di Schifani con un tizio, quattro anni dopo indagato per mafia, come prossimità alla mafia. Come mafiosità.

Travaglio sembra non comprendere di che cosa voglio discutere. O forse non ne ha voglia. Gli interessa soltanto difendere se stesso (lo capisco) e insultare e invitare i suoi lettori a farlo (lo capisco meno).

Purtroppo anche la sua difesa, presentata come definitiva, come esaustiva, è alquanto debole, se si deve proprio parlarne. Cincischia un po' sulle mie fonti. Fa confusione. Fa credere che la mia fonte sia l'avvocato di Michele Aiello. Chi lo ha mai detto o scritto?

Ho scritto: "Marco [travaglio] e Pippo [Ciuro] sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia". E' di tutta evidenza che l'avvocato di Aiello non è la mia fonte, nonostante gli sforzi di confondere le acque.

Ma queste, come direbbe Michele Santoro, sono "quisquilie". Travaglio vuole dimostrare, "carta canta", che si è pagato di tasca sue le sue vacanze siciliane.

Travaglio tiene, soprattutto, a smentire una frase del mio articolo.

Questa: "[Dice l'avvocato che] Aiello ha pagato l'albergo a Marco".

Con enfasi, annuncia dal suo sito: "Ho finalmente trovato l'assegno e l'estratto conto della carta di credito Diners con cui pagai il conto di quella vacanza all'hotel Torre Artale di Trabia. L'assegno, emesso il 19 agosto 2002 dal mio conto presso il San Paolo-Imi di Torino e poi negoziato dal Banco di Sicilia (che lo conservava nei suoi archivi di Palermo), ammonta a 2.526,70 euro. I restanti 2 mila euro li pagai con la carta Diners (versamento datato 18 agosto 2002)".

Ora Travaglio sa - e lo ha ammesso - che con il "criminale" Giuseppe Ciuro ha trascorso una vacanza nel 2003.

Racconta al Corriere della Sera (15 maggio 2008): " [L'anno successivo, mese di agosto del 2003] Andai con la famiglia per dieci giorni al residence Golden Hill di Trabìa [si confonde: il Golden è ad Altavilla Milicia] dove di solito alloggiavano Ciuro e Ingroia [è un pubblico ministero del pool di Palermo] e ci fu quella buffa storia dei cuscini poi finita nei brogliacci delle intercettazioni".

"Ma al Golden Hill chi pagò il conto?", chiede il Corriere.

Risponde Travaglio: "Io ho pagato la prima volta il doppio di quanto stabilito e per il residence ho saldato il conto con la proprietaria. Tutto di tasca mia, fino all'ultima lira e forse se cerco bene trovo pure le ricevute".

E' il saldo del soggiorno al Golden Hill, dunque, a dover essere confermato, se proprio si vuole. Perché l'avvocato di Aiello indica, come pagato dal suo assistito a vantaggio di Travaglio, il soggiorno al residence di Altavilla (2003) e non le vacanze all'Hotel Artale di Trabìa (2002).

Dice infatti al Corriere (15 maggio 2008) l'avvocato Sergio Monaco, difensore di Aiello (e naturalmente le sue parole, come quelle di Aiello, non sono oro colato): "Posso solo dire che l'ingegner Aiello conferma che a suo tempo fece la cortesia a Ciuro di pagare un soggiorno per un giornalista in un albergo di Altavilla Milicia. In un secondo momento, l'ingegnere ha poi saputo che si trattava di Travaglio".

Ora sono sicuro che Travaglio, come ha trovato i cedolini del pagamento del 2002, possa agevolmente rintracciare anche quelli dell'anno successivo.

E' quel che mi auguro perché Travaglio dovrebbe sapere, come lo so io, che vivere delle colpe altrui è un po' "come vivere a spese altrui".

Per vergognarsi c'è allora tempo. Più urgente è ragionare. Non di Aiello, ma di Ciuro e di un modello giornalistico.

Vediamo qual è, a mio avviso, il nocciolo della discussione.

Marco Travaglio, in maggio, è ospite a Che tempo che fa.

Questo è l'esordio (il video è su Youtube).
Travaglio: "L'elemento di originalità [della situazione italiana] è che noi non siamo stati sempre così. E' molto istruttivo quando vengono elette le alte cariche dello Stato. Tutti i giornali pubblicano tutti i nomi dei personaggi che hanno ricoperto quella carica. E uno si rende conto che una volta avevamo De Gasperi, Einaudi, De Nicola, Merzagora, Parri, Pertini, Nenni, Fanfani. Possiamo fare una lunga lista, poi uno arriva e vede Schifani. E' la seconda carica dello Stato... Schifani... Mi domando chi sarà quello dopo. In questa parabola a precipizio c'è soltanto la muffa; probabilmente, il lombrico (applausi scoscianti)... dalla muffa si ricava la penicillina: era dunque un esempio sbagliato (nuovi applausi con rumorose risate, ride anche Travaglio)".

Sarà dunque un lombrico, il successore di Schifani. Il lombrico è il nome comune dei vermi della famiglia dei Lombricidi. Le parole di Travaglio significano dunque questo: dopo Schifani, soltanto un verme potrà fare il presidente del Senato.

Temo che quest'affermazione - che marca l'altro come indegno - non possa essere considerata "un fatto" da nessuno - sia che faccia giornalismo o che con il giornalismo non abbia nulla a che fare. Non è neanche un'opinione sostenuta da un argomento, più o meno condivisibile.

Il prossimo presidente del Senato non sarà un uomo magari più screditato e opaco di Schifani. No, Schifani è già ai bordi dell'umanità. Già annuncia l'arrivo dell'inumano, la "parabola a precipizio" nel regno animale.

La logica di valore e disvalore dispiega qui tutta la sua distruttiva consequenzialità. Crea una definitiva svalutazione nel non-umano: è il disvalore assoluto. Io non so se Travaglio se ne renda conto (non credo), ma forse si potrà convenire che in questa logica di guerra "per una justa causa" che non riconosce "un justus hostis" si odono echi - questi, sì - inquietanti. Era Grigorj Pjatakov a gioire della condanna di Zinov'ev e Kamenev dalle pagine della Pravda (21 agosto 1936) con queste parole: "Questa gente ha perduto l'ultima sembianza di umanità. Essi devono essere distrutti come carogne".


Bollare la parte avversa come disumana, anzi come prossima alla non-umanità, consente sempre di scatenare una guerra assoluta, di coltivare un'inimicizia assoluta contro un nemico assoluto. In questo contesto "emozionale" (e chi lo sa perché in studio si rideva e sghignazzava: anche questo meriterebbe "un'analisi a sé"), Travaglio affronta le "amicizie mafiose" di Schifani.

Mi chiedo può essere considerato giornalismo, buon giornalismo, andare in televisione e presentare non il presidente del Senato, ma semplicemente un uomo, come un quasi-verme? Davvero è "giornalismo dei fatti" sostenere, a freddo e fino a quel momento senza alcuna delucidazione (e quale poi poteva essere?) che un tipo è poco più di un verme? Non è neanche un'opinione. E' soltanto un nudo insulto, una consapevole offesa, un rito di degradazione. Davvero avrebbe diritto di cittadinanza in un altro paese occidentale alla voce giornalismo? Io penso che sia soltanto un'operazione vocale sulla psiche altrui, una sofisticazione del "malumore dilagante".

Le spiegazioni infatti, a Che tempo che fa, verranno soltanto dopo qualche domanda, quando Travaglio dirà: "E' chiaro che se il clima politico induce a un rapporto di distensione tra l'opposizione e la nuova maggioranza... Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi. Io devo fare il giornalista. Io devo raccontarlo. Lo ha raccontato Lirio Abbate, nel libro che ha scritto con Gomez e viene celebrato, giustamente, come un giornalista eroico minacciato dalla mafia. Ora o si ha il coraggio di dire che Lirio Abbate è un mascalzone e un mentitore o hanno il coraggio di prendere nota di quello che scrive e chiedere semplicemente alla seconda carica dello Stato di spiegare i rapporti con quei signori che sono poi stati condannati per mafia".

Non solo Schifani è poco più che un verme, è anche uno vicino alla mafia. Questa è la "verità" di Schifani che Travaglio ha voluto raccontare.

Si vedono qui gli abissi sopra i quali si svolgono le accorte e sapientissime requisitorie del processo politico: già Schifani era un "quasi verme", volete che non sia anche un criminale, un mafioso? Evocare "la mafia" dopo la non-umanità di quell'uomo non è "pescare nel medium sublogico" (come forse direbbe Franco Cordero): non solo Schifani è poco più che un verme, come vi ho già detto, è anche uno vicino alla mafia. E ora giudicatelo voi!

Questa è la "verità" di Schifani che Travaglio ha voluto raccontare. Ma un decente giornalismo può davvero considerare quelle parole accettabili come "la verità" (di "verità" parla in lettere, interviste, conferenze stampa)? Di che cosa è fatta quella "verità"?

Avere incrociato un mafioso - meglio un tipo che soltanto dopo è stato indagato e condannato per mafia - vuol dire davvero essere, sempre e in ogni caso, necessariamente, complice della mafia?

Molto mi è stato (e mi è ancora) rimproverato il ricordo della vacanza sconsiderata di Travaglio. Le carinerie che mi sono state riservate oscillavano e oscillano tra il "maiale" e il "venduto".

In realtà, ho voluto soltanto applicare (Travaglio sembra non comprendere le mie obiezioni) il cosiddetto principio tu quoque: atti uguali vanno valutati a uguali parametri. Chiedo: aver trascorso una vacanza con un tipo che poi si è rivelato un criminale, e dunque in piena innocenza e senza alcuna consapevolezza, vuol dire davvero essere per riflesso un criminale?
Mi sembrava (e ancora mi sembra) che il tu quoque potesse svelare di quale grana era fatta la perfomance di Travaglio, il suo giornalismo, la sua deprecazione, l'approccio alla realtà che è chiamato a raccontare. A me sembra che Travaglio ne abbia un'immagine artificiale, stretta in un ordine rigido. Tutto il bene da una parte, tutto il male dall'altra. Ne consegue una morale assoluta, incompatibile con il caso, l'imprevisto, il dubbio, l'ambivalenza, l'innocenza (e non dimentico che anche il mio lavoro si è mosso spesso lungo quelle strade).

Questa convinzione di Travaglio - una volta lontana dal rendiconto di un esito processuale - riduce ogni cosa alla coppia amico/nemico, buono/cattivo, bene/male, interno/esterno. Crea le particolari condizioni per cui egli (o chi come lui) "può provare tutto ciò che crede e credere a tutto ciò che può provare" perché, se è lecito citare in un'occasione come questa Hannah Arendt, confonde la logica formale con il "pensiero" e la coerenza con la "verità". Alla fine, per far tornare i conti, è un modello che deve "aggiustare" le carte perché non è sempre vero che il giornalismo di Travaglio sia fatto soltanto di "dati concreti" e di "fatti". A volte, è costruito con disinvoltura e anche con qualche omissione, come questa sua ultima e infelice replica.

(11 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - E' la giustizia creativa, bellezza!
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 05:54:04 pm
IL COMMENTO

E' la giustizia creativa, bellezza!

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
Berlusconi ha dimostrato a sufficienza quanto la sua personale, privatissima giustizia possa essere creativa: negli anni, non c'è stata "stazione" del processo penale che non ne sia stata sconvolta (il reato, i tempi di prescrizione, la pena, le prove, la procedura). Il "lodo Alfano" doveva essere, nelle intenzioni del mago di Arcore, il sortilegio finale. Nessuno processo per Iddu. Impunità piena. Ma il diavolo ci ha messo la coda e il processo a Berlusconi, imputato di aver corrotto il testimone David Mills, può riservare ancora qualche sorprendente esito.

La spina che affligge Iddu è questa: è vero, dopo la vergogna del "lodo Alfano", Berlusconi non può essere processato, ma Mills sì. E se i giudici dovessero concludere che corruzione c'è stata e il testimone si è lasciato corrompere, chi volete che sia il corruttore in un processo che vede al banco soltanto due imputati (Mills e Berlusconi) e un unico fatto da valutare (i 600 mila dollari finiti nei conti dell'avvocato d'affari inglese)? Berlusconi si sarebbe salvato da una condanna, ma non salverebbe la faccia. Con tutto quel che potrebbe significare per il suo futuro istituzionale e per la sua immagine internazionale.

Ecco perché, con una nuova mossa di "giustizia creativa", il drappello dei suoi avvocati-parlamentari pretende che il processo Mills "muoia" fuori dell'aula del tribunale, fuori dal processo, fuori da ogni rito conosciuto e praticato finora. Chiedono che i giudici chiudano la porta e se ne vadano a casa.

I consiglieri del mago sanno quel che accadrebbe se la luce in aula restasse accesa. I giudici dovrebbero, per il "lodo Alfano" sospendere il giudizio per Berlusconi e concluderlo per Mills (il processo di fatto è finito e prima di Natale ci potrebbe una sentenza); dovrebbero dare la parola sulla sospensione al pubblico ministero che proporrebbe l'incostituzionalità del "lodo". E, vista la ragionevolezza dell'obiezione (la legge non è uguale per tutti?), a decidere sarebbe la Consulta: altro rischio che il mago non vuole affrontare non fidandosi dei suoi trucchi. Per farla breve, tutto potrebbe tornare in alto mare con scenari, per il mago, poco tranquillizzanti.

Ecco allora che gli avvocati non si presentano in aula per inconsueti impegni parlamentari, nonostante sia venerdì. Lavorano a un piano e hanno bisogno di tempo. Ecco perché. Hanno presentato in Cassazione una richiesta di ricusazione contro il giudice di Milano, Nicoletta Gandus. Dicono: quella toga è prevenuta contro Berlusconi, non può giudicarlo, non è né serena né imparziale. La mossa è assai bizzarra. Se Berlusconi grazie al "lodo" non può essere giudicato, che senso ha chiedere la ricusazione del giudice?

Ma è la giustizia creativa, bellezza!

E' vero che la Gandus non giudicherà Berlusconi (accusato di essere il corruttore), ma potrebbe giudicare Mills (accusato di essere il corrotto). Screditare l'imparzialità del giudice dà al mago di Arcore la possibilità di svalutare la possibile condanna dell'avvocato d'affari inglese (che, al contrario, non ha mai ricusato il giudice).

Gli avvocati e consiglieri di Berlusconi puntano così a trasferire in Cassazione - e nel Palazzo - la battaglia per affondare il processo e salvare la faccia. Sulla decisione della Suprema Corte contano di far pesare il ricatto, tutto politico, della riforma della giustizia. Che, invece di risolvere le inefficienze e i ritardi del sistema penale e del processo civile, si occuperà in via prioritaria di giudici e pubblico ministeri e, soprattutto, del Csm di cui - minaccia il governo - andranno rivisti i compiti, il sistema elettorale, la sezione disciplinare e in definita, l'autogoverno della magistratura. E chissà che, dinanzi a tante pressioni, in Cassazione le eccellentissime toghe non convengano che sia meglio l'uovo oggi che la gallina domani. Bocciando il giudice di Milano e quindi anche la credibilità dell'eventuale condanna di David Mills.

(19 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - Il valore di quelle vite
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 04:19:01 pm
CRONACA         

Il valore di quelle vite

di GIUSEPPE D'AVANZO


C'è, tra i Casalesi, una banda di latitanti. Non più di sei o sette. In armi e cocainomani persi. C'è un boss (Francesco Bidognetti) che, in galera, potrebbe presto saltare il fosso e "cantare". "Pentito". Le sue incertezze gli fanno cadere la corona dal capo. Il territorio appare libero da ogni influenza (il boss l'ha perduta con i suoi tentennamenti) e i latitanti vogliono prenderselo per loro fin negli angoli, spremerlo fino all'ultimo euro.

Dalla primavera, gli assassini vanno in giro sparando e ammazzando e distruggendo per far sapere chi comanda, ora. In quattro mesi, hanno ucciso il padre di un "pentito"; ammazzato un imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo (Domenico Noviello) e un altro che si preparava a testimoniare (Michele Orsi); hanno devastato con il fuoco la fabbrica di un terzo restio a piegarsi; hanno mancato per un pelo la nipote della compagna del "pentito" (Anna Carrino). Nelle ultime due settimane, non c'è stato in quell'angolo di Italia, lungo la via Domiziana, tra le province di Napoli e Caserta, una fabbrica, un'impresa, una bottega di qualche pregio che non abbia ricevuto la sua dose di raffiche di mitraglietta 7.62.

Ora, nella notte di San Gennaro, la strage degli africani dinanzi alla sartoria "Ob Ob exotic fashions" di Castelvolturno. Dicono, per punire uno o due spacciatori che non pagavano o che non era stati autorizzati a spacciare. Per gli assassini un nero vale un altro. E per fare un morto, sparando alla cieca 84 bossoli di 9×21 e 7.62, ne hanno lasciato a terra sei, venuti in Italia dal Ghana, dal Togo, dalla Liberia. Le vittime innocenti si raccoglievano davanti a quella piccola fabbrica-sartoria, alla fine della giornata di digiuno per il Ramadan, per consumare insieme l'unico pasto. È stata questa la sola colpa. Erano al posto sbagliato con un amico sbagliato. Erano uomini che lavoravano duramente per pochi euro all'ora, pregavano e rispettavano il loro dio, se ne stavano tra di loro.

Sono stati condannati dal colore della loro pelle e dalla convinzione della Camorra che i neri sono non-uomini, buoni per essere "cavalli" del traffico di stupefacenti, raccoglitori di pomodori per qualche euro l'ora, operai edili nei cantieri del Nord riforniti dal calcestruzzo dei Casalesi, il loro grande affare alla luce del sole.
Non è stato sempre così, da quelle parti. Come racconta Roberto Saviano, c'è stato un tempo che la gente della costa domizia "non era crudele con gli africani, non li guardava con nausea. Anzi". C'è stato un tempo che bianchi e neri lavoravano insieme, festeggiavano insieme, in qualche caso si sposavano anche e le ragazze nere erano ben accolte in casa come babysitter. "Col tempo però ? ricorda Saviano ? i potenti, i veri potenti, hanno diffuso un senso di paura, una diffidenza, una separazione imposta. Se proprio devono esserci contatti che siano minimi, che siano superficiali, che siano momentanei. Poi ognuno per sé ed il danaro solo per loro, i potenti".

Il comando dei Casalesi ha precipitato i neri in un mondo a parte di baracche, di stenti, di esclusione, sopraffazione, sfruttamento. E ora anche di morte. Una morte così ingiusta e insensata da essere intollerabile anche per chi, emigrato dall'Africa, ha perso ogni speranza di poter essere trattato con la dignità che si deve a un essere umano. È questa intollerabilità che ha provocato le violenze di ieri, quelle ore di devastazioni e rabbia pazza scatenata da un paio di centinaia di uomini, sordi al grido "Basta!" dei loro connazionali.

Quel che accade lungo la costa domizia è una vendetta della realtà contro le semplificazioni del format di governo che ? come scriveva qualche giorno fa Edmondo Berselli ? non descrive nulla della società contemporanea. È la rivincita del mondo reale sul posticcio affresco italiano diffuso da ministri, a quanto pare, popolarissimi. È "cronaca" che liquida in poche ore e per intero la logica, i paradigmi, si può dire l'universo mentale che sostiene, nella nuova stagione, le politiche pubbliche della sicurezza e dell'immigrazione.

La realtà ci racconta che il nero ? l'altro ? non è il nemico: è la vittima innocente. La "cronaca" ci dice, con un'evidenza cruda, quale sia il valore, il niente in cui è tenuta in considerazione la vita di un nero (in un disprezzo moltiplicato nella Campania criminale, dopo il pestaggio mortale di Abdul a Milano). Nel mondo reale di Castelvolturno l'aggressore, il criminale, l'assassino non è l'immigrato ma l'italiano. E un tipo di italiano e di italianità diffusa nel Mezzogiorno, organizzata in Mafia, capace di tenere il potere dello Stato in un cantuccio, di governare il territorio, di succhiarne le risorse pubbliche e private, di decidere della vita e della morte degli altri, di ridurre gli altri, se neri, in uno stato di schiavitù, di non-umanità, dopo aver avvilito a sudditi i cittadini italiani. Nell'arco di una mezza giornata vengono alla luce, nella loro essenzialità, l'inconsistenza e i trucchi, il furbo conformismo di una politica che sa soltanto eccitare e inseguire le paure, gli egoismi e furbizie di italiani confusi e smarriti.

Gli italiani vogliono prostitute, ma non vederle sotto casa: il governo le punisce e le nasconde senza curarsi di chi controlla la "tratta delle schiave" e ne incassa gli utili. Gli italiani vogliono cocaina, ma non lo spacciatore nella strada accanto: il governo mostra qualche soldato in armi per strada per fare la faccia feroce senza curarsi delle 600 tonnellate l'anno di cocaina che 'ndrangheta e camorra importano in Italia; senza darsi pensiero della grande operazione di marketing lanciata al Nord dalle mafie che vendono ai teenager una bustina di "bianca" per dieci euro. Gli italiani vogliono lavoro a basso costo e in nero, ma non i clandestini. E il governo crea il reato di immigrazione clandestina e il lavoro diventerà ancora più nero e ancora più a basso costo e diffuso e clandestino.

E allora perché meravigliarsi se i Casalesi ? una banda di assassini, che controlla gli affari di droga e utilizza nelle sue imprese il lavoro nero ? possono pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno? Quanto vale un nero? Niente. Davvero qualcuno si scandalizzerà oggi se duecento di quei niente hanno gridato per un pomeriggio la loro rabbia?


(20 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Viaggio nel paese dopo l'assassinio di sei immigrati africani
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 11:33:33 am
REPORTAGE / Viaggio nel paese dopo l'assassinio di sei immigrati africani

Gli amici delle vittime: "Dicono che erano delinquenti per insabbiare tutto"

Tra i fantasmi di Castelvolturno dove i neri chiedono più Stato


dal nostro inviato GIUSEPPE D'AVANZO

 

CASTELVOLTURNO - Dell'albergo di un tempo, ai bordi della pineta di Castel Volturno, al chilometro 32 della statale Domitiana, c'è oggi soltanto uno scheletro di cemento, annerito e bruciato come un tizzone nel fuoco. Le finestre, come occhi vuoti, annunciano da lontano un paesaggio spettrale e il mondo livido di morte abitato dai tossici. Se ne vedono entrare e uscire. Sono frenetici, quando riescono a camminare diritti. I più entrano barcollando, escono tonici e "felici". Rifiuti umani, vite di scarto abbandonate al loro destino come la spazzatura putrefatta che è dovunque, qui intorno. Rimasugli di cibo, cessi sbreccati, tavoli senza gambe, copertoni d'auto bruciati, vetri rotti, la tappezzeria di un'auto, scarpe senza tacco, un rugginoso schedario, preservativi, colmano la piscina vuota e il giardino dove il numero delle siringhe - un tappeto bianco latte - è superiore al numero degli aghi di pino.

Un tempo, l'albergo si è chiamato "Boomerang", tre stelle "con ristorante annesso", lo Zagarella. Oggi è la "Casa dei Nigeriani". O meglio il mercato di droghe (eroina, cocaina, kobret) organizzato da una banda di nigeriani che la vende a cielo aperto. Vivono nell'albergo senza acqua, senza luce, senza servizi igienici. E accolgono gli zombi, in astinenza penosa, alla luce delle candele. Mettono a disposizione siringa, cucchiaino e, se si vuole, ci si può anche dormire per qualche ora, se hai già pagato la tua dose. Il bagliore delle candele si vede al pianterreno e al primo piano. È impossibile avvicinarsi. Ben prima del bordo della piscina - e l'edificio è ancora lontano cinquanta passi - la voce arrochita di un uomo grida (deve essere di vedetta da un bel po'): "Fratello, fermati lì, gira le spalle e vattene, se non vuoi guai".

L'uomo è nascosto dietro una coperta di lana che fa da tenda. Parla da uno squarcio della coperta. Agita un braccio. Indica la direzione verso cui filare subito. Un altro passo. Un altro urlo ancora più minaccioso. Un bianco che passa di lì - abita a meno di duecento metri al "Villaggio agricolo" di Castelvolturno - consiglia di darci un taglio: "Và via, sono pericolosi e ti scatenano contro i tossici: sono i loro cani da guardia. Per una bustina in premio, quelli ti aprono la testa come un melone".

* * *

La "Casa dei Nigeriani", conosciuta da tutti lungo la Domitiana con quel via vai di vite perdute, è la più palese contraddizione del racconto "ufficiale" della strage di San Gennaro. Si dice (lo dicono le polizie): i Casalesi, e quella loro banda di cocainomani fuori di testa armati, in libertà e introvabili, "hanno voluto ribadire la loro egemonia, uccidendo i sei neri". Hanno voluto far sapere che la festa (la loro sfarzosa festa) non è finita, anzi raddoppia: ogni pagliuzza dei commerci illegali deve sottostare alla loro fiscalità predatoria. E, con i tempi che corrono (arresti, sentenze definitive d'ergastolo, avvocati da pagare, famiglie da sostenere, pentiti da punire), non è più sufficiente tassarsi del venti per cento, bisogna tirar fuori il cinquanta. Per ogni cosa che produce euro. Per un negozio, per una fabbrica, per le puttane, per la droga, per il lavoro nero. Sarà anche vero, ma se questo doveva essere il messaggio degli assassini perché non sono venuti qui, alla "Casa dei Nigeriani", a dare la loro "lezione" agli uomini "giusti"? Perché hanno sparato e ucciso alla cieca contro sei ghanesi innocenti, tredici chilometri più in là?

* * *

Non è una novità che i Casalesi azzannino, di tanto in tanto, i neri con ferocia. Quasi ogni settimana un nero viene picchiato e ferito con qualche pistolettata "volante", da queste parti. Altra cosa, è una strage. I Casalesi, una strage, l'hanno fatta con clamore anche nel passato, nel 1990 (come racconta Gigi Di Fiore nel suo L'impero dei Casalesi, fresco di stampa per Rizzoli). Quella volta, gli assassini, armati di tre pistole calibro 9, due calibro 7.65, una P.38, due fucili a pallettoni invasero, a Pescopagano, il bar Centro e accopparono cinque uomini e ne ferirono sette. Un nigeriano, Salim Kindy, il Cinese, s'era messo per conto suo a vendere eroina. Per trovarlo si dovevano seguire i cartelli stradali dove aveva dipinto una freccia e il suo nome, il Cinese.
 
Salim fu il primo ad essere ucciso quel giorno nel bar di via Consortile. L'eccidio fu rivendicato con una telefonata al centralino del quotidiano Il Mattino. Con il tempo, s'è scoperto il nome dell'uomo che al telefono disse: "Siamo della camorra della Domitiana e siamo stati noi a sparare a Pescopagano. Noi non trattiamo droga e non la vogliamo". Era una balla, come ha spiegato l'uomo quando si è "pentito". Si chiama Augusto La Torre e ha raccontato: "Fu Sandokan (Francesco Schiavone, il capintesta dei Casalesi) a dirmi che serviva un'azione eclatante. Si doveva fare una strage e far ritrovare la droga, così i carabinieri si sarebbero decisi a mandare via i negri".

In realtà, i Casalesi che avevano scoperto la vena d'oro dei rifiuti tossici e del calcestruzzo non volevano polizia tra i piedi e pretendevano che fossero più discreti e nascosti i traffici criminali di strada che attiravano le divise, come le mosche il miele.
Anche se fossero queste le motivazioni di oggi per fare una strage, la domanda non cambia: perché aggredire gli innocenti ghanesi e non quei nigeriani che davvero spacciano droga, come il Cinese, come l'uomo nascosto dietro la coperta all'hotel degli zombi? Il posto giusto per trovare una risposta accettabile è il chilometro 43 della Domitiana, dove c'è stato l'eccidio.

* * *

Sulla serranda della sartoria "Ob Ob exotic fashions" - é dentro e fuori il piccolo laboratorio che gli assassini hanno ucciso nella notte di San Gennaro - ci sono quattro mazzi di fiori. E più in là, in circolo o appoggiati alle auto, sono gli amici di Samuel, Awanga, Yulius, Eric, Alex, Cristopher. La rabbia non si è spenta. Si passano il foglio di giornale con la fotografia di Eric. È seduto nella sua auto. Ha il capo riverso sulla spalla sinistra e un rivolo di sangue ai lati della bocca e una larga macchia rosso scuro ai lati del collo. Gli hanno sparato l'ultimo proiettile alla testa. Era già morto, dicono.

Racconta Alì: "Tutti conoscevamo Eric. Lavorava in un'impresa edile come piastrellista. L'altro sera era venuto qui per farsi rattoppare il pantalone che aveva addosso. Nella sartoria gli hanno detto che avrebbero pensato a lui soltanto prima della chiusura, alle "nove". È andato a sedersi in macchina. Era stanco o forse si vergognava a farsi vedere con quello strappo nei calzoni. Ora lo seppelliranno con quel pantalone lacero".

Il ricordo di Alì riaccende, d'improvviso, la collera. È una scintilla di follia rabbiosa che prende prima uno e poi un altro, come se con un'idrofobia umana esplodesse finalmente il sovraccarico di umiliazioni, la bolla di paura in cui molti di questi giovani uomini sono costretti a vivere. Un ragazzo, in tuta bianca e solido come una quercia, corre verso la strada. Raggiunge un'auto con un bianco a bordo che guarda curioso verso la sartoria. Il ragazzo grida come un ossesso: "Va via, italiano di merda. Vattene, razzista".

E mentre urla, come intossicato dal dolore e dal rancore, comincia a tirare calci e pugni contro l'auto. Gli altri lo trattengono a fatica mentre altri ancora urlano: "Non vogliamo bianchi qui. Andate tutti via". E spingono e smanacciano. Intorno non ci sono più bianchi, se si esclude un ragazzo che sta sistemando il suo mazzo di fiori accanto alla macchia di sangue dinanzi alla porta chiusa della sartoria.

* * *

Kwane mi tira via, lontano. Dice: "Come è possibile che avvenga tutto questo, come è possibile che avvenga qui in Europa? L'Africa fa schifo, okay. Veniamo qui per non vivere in quello schifo. Veniamo qui soltanto perché siamo poveri. Non è una colpa. Non lo dovrebbe essere in Europa. Vogliamo soltanto sopravvivere alla miseria e, quando ci riusciamo, aiutare le nostre famiglie. Dicono oggi che i nostri poveri morti erano spacciatori di droga. È una menzogna. Una grande menzogna. Si spezzavano la schiena nei campi e nei cantieri. Chi lavorava nella sartoria lo faceva dalla mattina alla sera, senza alzare la testa dal banco. È un'offesa che brucia sentire e leggere che erano delinquenti. Lo dicono soltanto per mettere tutto a tacere. La droga lì dentro non l'hanno trovata e non l'hanno trovata addosso ai morti. E non gliel'hanno trovata perché non avevano nulla a che fare con la droga. La polizia ve lo dice per dimostrare che poi non è successo nulla: soltanto criminali italiani che uccidono criminali africani. Siamo poveri, ma non stupidi e non è giusto che finisca così".

Kwane sembra averne abbastanza. Si allontana come per andarsene. Si ferma, come paralizzato, dopo qualche metro. Ritorna indietro e non si vergogna a farsi vedere in lacrime: "Non è giusto, siamo brava gente. Anche la nostra vita dovrebbe avere un valore. Quando uccisero quella signora a Roma, subito trovarono il rumeno assassino. Accadrà anche per noi, per i nostri amici innocenti? No, che non accadrà. Perché noi siamo negri e la nostra vita non vale quella di un italiano, nemmeno quella di un italiano assassino. Siamo noi - non i bianchi di qui, non gli italiani che accettano di vivere con quella gente armata - siamo noi a chiedere: dov'è lo Stato in questo Paese? Perché non fa il suo mestiere? Perché per avere il rinnovo di un permesso di soggiorno si deve attendere due anni? Perché nel cantiere dove lavoro non ho alcun diritto? Perché degli assassini possono andarsene in giro liberi e nessuno li cerca davvero? Perché per dormire in un tugurio devo pagare quanto, uno di voi, un appartamento vero?".

Kwane si asciuga gli occhi con un gesto rapido. "Sono cattolico. Accanto a voi prego in chiesa. Anche lì non riesco a sentirmi un essere umano. Questa strage è soltanto razzismo - li hanno uccisi perché, per loro, per voi, un negro vale l'altro - ma quell'insulto ai nostri poveri morti di essere delinquenti è un razzismo peggiore".

(21 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La democrazia è un format? La nuova lingua del potere
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 05:16:41 pm
POLITICA     DIBATTITI

La democrazia è un format?

La nuova lingua del potere


di GIUSEPPE D'AVANZO

LA DISTRUZIONE del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione. Se si ricorda il presagio di Karl Kraus, è indispensabile esaminare nei suoi esiti più radicali la semplificazione del discorso pubblico del governo che appare così vincente e convincente da far sostenere a Edmondo Berselli che "la democrazia contemporanea è più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole"; a Michele Serra che "la sinistra" deve darsi da fare, lungo questa strada semplificatoria, per sopravvivere nell'èra del "pensiero sbrigativo"; a Marino Niola che "ridotta a format, l'offerta politica contemporanea fa riaffiorare mitologie che appartengono agli strati più remoti della rappresentazione del potere".

Sono riflessioni che hanno il merito di scomporre il paradigma berlusconiano, i suoi gesti, comportamenti e modalità (cinque in condotta in luogo della riforma della scuola e della didattica; fannulloni in luogo di un più moderno disegno di pubblica amministrazione).

Credo tuttavia che il ragionamento sarebbe monco se non ci chiedessimo anche che cosa cova quella diluizione superficiale del linguaggio. A mio avviso, questo può, deve essere l'altro focus della discussione: quale pensiero, potere e democrazia annuncia quell'alienazione della parola che, colonizzati dalla cultura televisiva, diciamo format? Quella lingua, che non riconosce alcuno statuto alla realtà, che riduce drasticamente ogni complessità (anche lessicale), è soltanto una mera tecnica di consenso o custodisce di più: una strategia e addirittura un destino politico?

Temo che l'entusiasmo per le magie del marketing politico trascuri pericolosamente l'"Ospite Indesiderato" che, nascosto nel format, bussa alla porta della nostra democrazia. Desiderosi di consigliare a un'opposizione impotente e muta i modi di una "narrazione" efficace e spendibile al Mercato della Politica diventata Spettacolo e nuovo Leviatano non scorgiamo - quanto non ne ignoriamo - le implicazioni. Omettiamo l'essenziale. Non avvertiamo che la semplificazione brutale del linguaggio della politica cancella ogni spazio politico.

* * *

Qui si potrebbe farla lunga. Citare Aristotele. Ricordare che l'uomo è animale politico perché parla. "L'uomo è zoon politikon, ma è tale perché echon logon. E' animale politico perché linguistico: è la comunicazione a gettarlo nella Polis. Imparare a parlare significa cominciare a obbedire alle leggi non scritte della Città. Più precisamente, significa cominciare a prendere partito, ad appartenere e a escludere, a tracciare dei confini" (Rocco Ronchi, "Parlare in neolingua" nel prezioso Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, utilissimo con i suoi 16 saggi, curati da Massimo Recalcati, per affrontare i temi in discussione).

E' il parlare dunque, è il linguaggio che ci consente di abitare nel "regno del politico". A quest'abitare, se libero, deve essere concesso di esitare. L'esitazione della risposta è la consapevolezza di chi parla della "posta in gioco". Implica una decisione. Dispone chi parla in uno spazio preciso del luogo comune. Risolve una relazione con gli altri che lo ascoltano. In questo senso, il linguaggio è un dono (munus) ma anche legame e obbligo perché come il dono, come il dovere, il linguaggio fonda la communitas. Quando la consapevolezza di chi parla, la sua libertà (svelata dall'esitazione) è eliminata a vantaggio di un riflesso automatico, "alla communitas si sostituisce la caserma, al socius il camerata".

* * *

La semplificazione (il format) allora non è soltanto una "tecnica" che evoca le "buone vecchie cose di un tempo" (la maestra, il grembiule di scuola fresco di bucato, l'impiegato operoso), è un modulo assertivo, mai dialogico che dispiega una forza ingiuntiva, imperativa. E' come un tic automatico. E' un logo. Come ogni logo, attiva una memoria automatica, un riconoscimento senza immagine, un assenso senza riflessione, un consenso senza esitazione. Questa modularizzazione del linguaggio, la sua meccanicità presuppone la conoscenza come una maledizione, il registro del reale come irrilevante, il pensiero come un'infezione. "La profilassi comincia dal vocabolario" che s'impoverisce, rinsecca fino a diventare slogan come nella pubblicità, marchio come nella grafica.

Chiunque di noi può combinare un catalogo dei "moduli" della neolingua del Berlusconi politico. Successo Comunisti Produttività Teorema giudiziario Efficienza Legittimità Decisione Mercato Italianità Sicurezza sono oggi loghi che attivano riflessi robotizzati. Appaiono "oggettivi". La loro necessità e valore è fuori discussione. Costituiscono - si può dire rubando ancora le parole a Ronchi - "le premesse assiomatiche della conversazione pubblica. E come accade ai principi primi di ogni dimostrazione, sono sottratti ab aeterno a ogni razionale discussione".

Sono più o meno degli ordini che escludono ogni libero consenso o lecito dissenso. Eliminano un luogo comune e quindi ogni dubbio, esitazione, libertà cancellando di fatto lo spazio politico. Sono "aut disgiuntivi": o si è dentro o si è fuori; o si è incondizionatamente amico o incondizionatamente nemico: o si è per il bene o per il male. Quando il linguaggio si semplifica fino a ridursi a riflesso che rimuove ogni pensiero pensante, a risposta che anticipa il tempo della riflessione soggettiva (non è diventato "criminale" un sinonimo di "immigrato"?) si finisce per annullare la dicotomia oppositiva assenso/dissenso che definisce i regimi democratici o autoritari.

* * *

Il format, la semplificazione del discorso del governo non è soltanto una tecnica di marketing politico. Ci si può vedere senza sforzo qualcosa di peggio: una tendenza totalitaria. Nella fascinazione che suscita anche in spiriti liberi mi sembra di scorgere un offuscamento che inquieta, come un'oscurantista dipendenza a una deriva immaginaria che lavora a mano libera scenari posticci, che manipola il rapporto tra la realtà e la finzione (già realizzato e controllato dal potere ideologico e spettacolare della propaganda totalitaria del Novecento).

Come spiegare in altro modo la rappresentazione - non contestata da alcuno, se non sbaglio - di un uomo di 72 anni, già fiaccato nelle sue energie vitali da un cancro alla prostata e da un intervento chirurgico assai invasivo, come un immortale "padre totemico" che riposa tre ore a notte e fa l'amore per altre tre, prima di rimettersi al lavoro nelle altre diciotto per risolvere i problemi dell'Italia, le difficoltà dell'Occidente, la crisi del Milan?

Come definire questo stato ipnotico che ci impedisce di scorgere il grottesco di questa scena? Il format che ci vieta di riderne pubblicamente non è "un'invenzione culturale", è un esercizio di potere che svela una vocazione totalitaria. E' un dispositivo politico capace di rimuovere ciò che vediamo, sappiamo, conosciamo, tocchiamo.

E' la manifestazione di un potere che riscrive sotto i nostri occhi la realtà ("il reale esiste"); distrugge il linguaggio riducendolo ad automaton incondizionato; ci sottrae l'esperienza e la capacità di prendere posizione. Non dovrebbe essere una sorpresa il consenso anche vasto, anche "imbarazzante" che raccoglie. Sempre "il legame totalitario è la risposta paradossale ad alcuni bisogni, spesso indotti". Non c'è sempre bisogno di polizia e terrore, di violenza assoluta. Il lavoro sulla psiche è più efficace. E' proprio di quel dispositivo creare il mondo e proporsi come il garante della sicurezza e della prosperità del popolo. Il processo di dipendenza tra psiche e politica è assicurato se si inventa una condizione perenne di insicurezza, uno stato permanente di emergenza (l'immigrazione, la giustizia, l'italianità minacciata, la scuola) per offrire una protezione totalizzante.

Come accettiamo l'indistruttibile vitalità del "padre totemico", come accogliamo un grembiule come se risolvesse i problemi dell'educazione, acconsentiamo a quello scenario di finzione e alla moltiplicazione delle strategie di controllo e di prevenzione che seguono. Prigionieri di un vocabolario impoverito - per profilassi - delle cose e del pensiero "infetto", finiamo per considerare il corpo sociale come un corpo malato e le decisioni del governo come una terapia finalizzata a restituirne la salute aggredita da una tossicità interna (l'opposizione, gli stranieri scuri di pelle, i magistrati, i fannulloni, il sindacato, l'informazione).

Il linguaggio diventato logo e riflesso impedisce di vedere come quei "marchi" giustifichino sempre di più pratiche di controllo minuziose (i militari nel centro della città, i vigili urbani in armi); un esercizio del potere illimitato privo di trasparenza e contrappesi (decreti con forza di legge, immunità per chi governa, parlamento servile, autorità indipendenti sospese nelle funzioni); un'invasività nel privato dell'azione disciplinare del potere (intercettazioni preventive, divieto di sesso a pagamento, divieto di trasportare mercanzia con sacchi di plastica, divieto di stendersi sull'erba di un prato in un parco).

* * *

La semplificazione del linguaggio (il format) non è la chiave di un successo politico, magari da imitare come copione da recitare se la sinistra vuole chiudere con le sconfitte: è il presupposto che ridisegna il rapporto tra libertà e politica. Proprio perché la distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione, mi chiederei allora che cosa sarà distrutto domani, dove la tentazione totalitaria ha cominciato a lavorare oggi.

"Totalitarismo", lo so, è una di quelle parole espulse con disprezzo dal discorso pubblico e tuttavia se si guarda al dibattito filosofico e politico - discussione che si svolge a luci spente, lontano dal rumore dei media - interrogare le forme contemporanee dei totalitarismi post-ideologici nelle società a capitalismo avanzato non è per nulla indecente o fesso o volgare. Al contrario, è opportuno. E' onesto. E' urgente. E' legittimo.

Non si tratta naturalmente, come osserva Simona Forti ("Il Grande Corpo della totalità" ancora in Forme), di "opporre - a una democrazia - un regime politico" o di considerare il totalitarismo "come mostro politico" perché "non esiste nessuna muraglia né giuridica né istituzionale, né tanto meno filosofico-culturale, che separa la democrazia dal regime totalitario".

Il totalitarismo non minaccia dall'esterno la democrazia. E', scrive Forti, "l'indesiderato ospite che bussa di continuo alla sua porta", "è una risposta estrema alle questioni che la modernità politica pone e non può risolvere. Non solo allora il totalitarismo è un'esperienza moderna, ma è un possibile sbocco della democrazia. Una forma di società che reagisce alla debolezza costitutiva dell'invenzione democratica, alla sua indeterminatezza, alla sua apertura verso il vuoto, in una parola alla libertà".

Per comprendere se l'Ospite Indesiderato abita accanto a noi, dentro di noi, bisogna allora investigare le debolezze della nostra democrazia, le angosce della società italiana, l'insufficienza di equilibri e assetti (esistenziali, istituzionali, politici, culturali). E' nello scarto tra la modernità dei problemi, lo smarrimento sociale che provocano, l'angoscia delle domande e l'inadeguatezza delle risposte collettive e politiche, che si aprono i varchi dove si fa largo e attecchisce una "mentalità totalitaria" e una tecnica di potere che, al contrario del Novecento, non ha più alcun contenuto ideologico.

Una verifica della presenza dell'Ospite nella nostra democrazia deve esplorare la relazione essenziale del totalitarismo con la libertà (e il linguaggio, abbiamo visto, n'è la prima vittima) perché è un totalitarismo che non si costituisce più esplicitamente, visibilmente come violenza e terrore e distruzione dell'Altro, ma più occultamente "lavora" (ancora Forti) nel nesso tra vita umana e potere politico; nelle modalità del rapporto tra realtà e finzione; nell'assenza di strumenti idonei per orientarci tra il bene e il male, di definizioni, orientamenti, consapevolezze che oggi ci impediscono anche di riconoscerlo il male, di averne un'idea, un pensiero. Ora sono queste le dannate sfide che attendono la sinistra, non lo scimmiottamento del "padre totemico", della sua neolingua totalitaria.

(11 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il potere ad personam
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 06:58:11 pm
L'ANALISI

Il potere ad personam

di GIUSEPPE D'AVANZO


Il partito democratico non voterà per la Corte Costituzionale Gaetano Pecorella, già avvocato di Berlusconi e creativo autore di leggi ad personam favorevoli al suo eccellentissimo assistito. È una buona cosa, e sarebbe eccellente se si sciogliesse di netto il nodo che stringe due questioni che stanno insieme come pere e mele. È di tutta evidenza che il peso istituzionale della nomina di un giudice della Consulta non può avere riscontro nell'elezione di una commissione politico-parlamentare di garanzia come è la Vigilanza Rai.

Sono grandezze non paragonabili. Per la Vigilanza, che è - per le regole - appannaggio dell'opposizione (tanto più che il presidente del Consiglio controlla direttamente o indirettamente sei network televisivi) è sufficiente che la maggioranza non faccia mancare il numero legale per risolvere il problema. Per la Consulta occorre il consenso qualificato di due terzi del Parlamento. La "qualità" delle maggioranze necessarie dice da sola che la Consulta non può essere accostata, se non con uno sgorbio istituzionale, alla Vigilanza e sarebbe un'indecente tentazione di sbrigare l'affare nello stesso tempo e con un baratto bipartisan. Non solo per ragioni formali, che pure hanno il loro peso.

La necessità di affrontare, separatamente e con altri criteri, intenzioni e consapevolezza, la scelta del giudice costituzionale interpella l'equilibrio e la natura stessa dell'architettura dello Stato, sollecitata in questi primi mesi del Berlusconi IV, da molte tensioni. Vediamo in quale "quadro" politico-istituzionale cade la nomina costituzionale.

Il presidente del Consiglio ha deciso di affidare il suo governo non al potere legislativo della rappresentanza parlamentare di cui può non tenere conto (onorevoli e senatori sono nominati da un'oligarchia e non scelti dal popolo), ma a un potere "personalizzato" che agisce, rafforzato dalla legittimità popolare, con misure aventi forza di legge (ma diverse dalla legge perché particolari e non universali, vedi i decreti "Rifiuti" o "Alitalia"). Le novità della stagione sono dunque tre: l'assoluta prevalenza dell'esecutivo sul legislativo, l'abuso del decreto legge (vedi il provvedimento sulla riforma della scuola), la debolezza degli "argini" (la legge sospesa in nome della "decisione"; i mercati in crisi profonda; la giustizia soffocata dalla sue inefficienze e dal conflitto scatenato dalla politica).

Quel che abbiamo sotto gli occhi è la crisi della divisione dei poteri, la debolezza di un'idea di equilibrio del sistema. Berlusconi, sostenuto da un consenso sempre più ampio (se i sondaggi hanno un credito) non nasconde la sua insofferenza per le prerogative delle istituzioni di garanzia (Quirinale, Corte Costituzionale, Authority). Non vuole che indeboliscano o limitino la sua legittimità. Vi dovrebbero soggiacere. È un pensiero che - direbbero i costituzionalisti - piega il pactum societatis che è la Costituzione (l'accordo sulle condizioni dello stare insieme) al pactum subiectionis (il reciproco impegno a ubbidire alle decisioni del governo legittimo).

Ora, si può decidere della nomina senza tener conto di queste novità? Il dispetto della maggioranza per gli organi di garanzia dovrebbe essere elemento decisivo per chi deve integrare la Consulta. Chi è chiamato a quella responsabilità deve tenere in giusto conto (come ha detto in passato Gustavo Zagrebelsky) che "la Corte non è e deve temere di essere, o anche solo di apparire, organo della politica" perché la giustizia costituzionale (il controllo giudiziario su procedure e contenuti delle decisioni) "non è la prosecuzione in altra forma della contesa che si svolge in Parlamento e tra i partiti politici. Il massimo tradimento di questi chierici che sono i giudici costituzionali sarebbe quello di trasformarsi in una terza camera dove continua per interposte persone il confronto tra le parti del conflitto politico".

Solo una Consulta "al di sopra" e "al di là" della politica potrà essere (e apparire) il luogo più adeguato per proteggere una dialettica istituzionale che può frantumarsi in una collisione tra le due idee opposte di Stato che sono oggi in campo.

Bisogna allora chiedersi se il metodo partisan (il Pdl propone all'opposizione la nomina alla Consulta di "uno di noi" per avere in cambio alla Vigilanza "uno di voi") rafforzi o fiacchi la credibilità e l'indipendenza della Corte. Come è evidente, il problema va ben oltre il curriculum inadeguato di Gaetano Pecorella. Si discute di un metodo e della posta in gioco. Non deve sorprendere che la maggioranza voglia rendere la nomina quanto più possibile "partigiana". Non è un paradosso. Quanto più la Corte diventa "politica", e quindi "faziosa", tanto più apparirà "terza camera", luogo di appartenenze che ne cancella il carattere di garanzia: la Consulta come il Parlamento, ma senza la sua legittimità. Quindi, non giudici, non custodi delle regole, ma attori del conflitto.

In assenza di un'idea viva e condivisa di una equilibrata divisione dei poteri, sarebbe un esito dagli effetti liquidatori. Se la Corte costituzionale non è "al di là" e "al di sopra" della contesa, ma con i piedi, la testa e il cuore nello scontro politico, è un epilogo fisiologico accettarne la subalternità al Parlamento e la soggezione al governo. Qualunque nome estratto dal teatro politico, quale che sia il suo prestigio, non potrà spezzare quel circuito vizioso. Al contrario ne accentuerà la "partigianeria". Sarebbe per la Consulta una catastrofica crisi perché una Corte costituzionale politicamente schierata o anche soltanto in apparenza schierata - sono parole ancora di Zagrebelsky - "meriterebbe di essere soppressa perché, se a favore della maggioranza, non se ne capirebbe l'utilità se non come inganno dell'opinione pubblica; se contro, se ne capirebbe l'utilità, ma mancherebbe totalmente di legittimità".

Come si è già detto in altre situazioni analoghe, per l'opposizione e per quella parte di maggioranza che ancora crede nella essenziale funzione della Costituzione c'è un solo modo per sottrarsi a questo gioco a perdere: l'abbandono delle logiche mediocri del sottogoverno e del baratto poi detto "bipartisan". Si esalti, al contrario, la natura nonpartisan della scelta del giudice costituzionale. Non conti l'appartenenza politica. Si aprano le porte a chi possa essere e apparire "straniero" alla politica, se si vuole conservare alla Consulta il compito di conciliare i conflitti in modo pacifico e soprattutto credibile.

(16 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Il giorno della verità dei fratelli d'Italia
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 02:50:25 pm
SCUOLA & GIOVANI    IL RACCONTO

Il giorno della verità dei fratelli d'Italia

di GIUSEPPE D'AVANZO
 

Chissenefrega della solita conta, un milione e mezzo, un milione, ottocentomila o fate voi. Roma è per intera paralizzata. E' impossibile anche entrare in città. Decine di pullman sono "spiaggiati", come balene, sul Grande Raccordo e, nell'impossibilità di raggiungere il centro storico, migliaia di persone se ne vanno in processione, allegre e rumorose, là dove sono: lungo l'anello autostradale, alla Magliana. In centro, chi si è mosso da piazza della Repubblica scende dal Pincio verso piazza del Popolo che il serpente - quieto e colorato di palloncini blu e giallo e rosso - ha ancora la coda nella posta di partenza. Chi con realismo dispera di arrivarci, in piazza del Popolo, cambia strada. La protesta si frantuma e si disperde dilatandosi là dove trova spazio e strade libere da affollare. I cortei diventano tre e si muovono in direzioni diverse, gli universitari e gli studenti dei licei venuti dalla Sapienza e da molte città del Mezzogiorno se ne vanno verso Trastevere e circondano il ministero della Gelmini e le gridano: "Mariastella, arrenditi. Sei circondata!"

Quanti saranno? Importa davvero a qualcuno, se non al governo imbarazzato ("poche migliaia di persone"), avere un numero? E' il giorno della realtà, questo, quale che siano i numeri. E' il giorno della robusta e ostinatissima realtà.

È il giorno della concretezza della vita quotidiana di studenti e insegnanti, delle compromesse speranze di futuro dei più giovani e delle loro famiglie. È il giorno della tangibilità di una sdegnata rabbia per il presente che - con la voce e il corpo di centinaia di migliaia di uomini e donne, ragazze e ragazzi che nella scuola e nelle università ci vivono, ci lavorano, ci studiano, ci sperano - mette finalmente in un canto, per un'intera mattinata, le formule vuote e le verità rovesciate che avvelenano il discorso pubblico.

Dice un'insegnante in piazza della Repubblica - non sono ancora le nove, la pioggia è intensa e tutti sono già zuppi d'acqua e non se ne curano - : "È come se mi avessero messo davanti allo specchio. Io ho i capelli neri e loro mi dicono che sono biondi. Li ho corti e quelli dicono che ho i capelli lunghi. Dicono che sono strabica, incartapecorita dagli anni e sdentata e invece io so di essere giovane con gli occhi e i denti giusti. Dicono che sono depressa e io invece so di essere energica e decisa. Quel che dicono di me, non mi racconta, non mi descrive. Quella non sono io. Questa non è la scuola che abito e conosco. Hanno bisogno di trasfigurarla per poterla distruggere in silenzio e nel disinteresse dei più. Ecco perché sono qui. Sono qui perché non voglio vedere distrutta la scuola pubblica che è la mia scuola e la scuola di tutti. Vorrei fare io una domanda a tutti: chi ne parla, conosce davvero la scuola?".

* * *

È un leit motiv: davvero conoscete la scuola, signori? Davvero la conosce il governo? Di quale scuola parlano, parlate? Di quella che ogni giorno, con i suoi ritardi e le sue eccellenze, con i suoi sacrifici e pigrizie, con i suoi piccoli sconosciuti eroismi, apre i battenti? O di quella che immaginano o lasciano immaginare per poterla schiacciare? Sono domande - spiegano in una singolare coincidenza di opinioni, studenti e professori, bidelli e maestri, sindacalisti e ricercatori - che impongono di chiamare le cose con il loro nome, finalmente.

Così, anche se negli slogan Mariastella Gelmini è protagonista e trasfigurata in santa, "Santa Ignoranza", nei colloqui, nei capannelli, nelle discussioni che si accendono qui e lì il decreto diventato ormai legge dello Stato non ha una madre, ma soltanto un padre: Giulio Tremonti.

Dice uno: "La Gelmini, di suo, avrebbe dovuto proporre un disegno, un progetto educativo, un documento da discutere, un percorso riformatore per passare dalle criticità di oggi - che ci sono e non trascurabili - a un assetto più soddisfacente nel futuro. Non lo ha fatto. La sua è una presenza muta. È una comparsa. Il primattore è l'altro, è Tremonti. Suoi sono i tagli e questa riforma - che è una falsa riforma - non è altro che tagli al personale docente, amministrativo e tecnico; risparmi per il bilancio dello Stato; riduzione dell'orario scolastico e fine del tempo pieno; tagli al Fondo di finanziamento delle università e trasformazione degli Atenei in Fondazione private. Noi abbiamo bisogno di più riforma e invece ci danno meno risorse e nessuna riforma".


* * *

È il giorno della realtà, questo. Non è il giorno dei "grembiulini", del "cinque in condotta", del maestro che da "unico" diventa per magia, per conformismo e obbedienza dei media, "prevalente". In una parola non è il giorno dei codici comunicativi e vuoti che, con sapienza, Berlusconi ha messo in campo per nasconderla e manipolarla, la realtà.

L'"avviso ai naviganti" del mago di Arcore puntava ad accendere il solito dispositivo, a innescare un riconoscimento identitario della società con la sua leadership, a indicare un ostacolo da rimuovere: i "fannulloni", gli "ignoranti", il "potere dei sindacati", gli "insegnanti pagati troppo per quel che fanno e danno", una scuola che è soprattutto o forse soltanto "spreco".

In una parola, un'"infezione" che minaccia la salute del Paese. La protesta contro la riforma della scuola -suggeriva il premier - compromette il diritto allo studio. Pregiudica il futuro dell'educazione che invece la riforma assicura. Le proteste danneggiano la formazione dei più operosi. Quindi, la loro stessa libertà.

Berlusconi ha voluto indicare alla sua gente - "la maggioranza silenziosa" come va dicendo la Gelmini - un terreno di conflitto, quasi una chiamata alle armi, un nuovo ambito di ostilità di un'Italia: la sua Italia, contro l'altra che non lo ama o che vuole giudicarlo senza pregiudizio per quel che fa. Non ha esitato a minacciare l'arrivo dei Reparti Celere nelle scuole e università "okkupate" perché sempre un "diritto di polizia" si affaccia quando "lo Stato non è più in grado si garantirsi gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo".

A quanto pare, se si guarda questa piazza e queste vie, Berlusconi per una volta ha sbagliato i suoi calcoli. Clamorosamente. Per la prima volta, in questa legislatura. Come dicono lungo via Sistina, "il governo è riuscito nel miracolo di mettere insieme tutte le sigle sindacali", che solitamente intrattengono tra di loro i rapporti che il cane ha con il gatto.

Ha consentito a un'intera generazione, distratta, disillusa, spettatore passivo distante dal luogo comune, di scoprire che la politica non è appartenenza a un partito o a un gruppo, a una fazione o a un'ideologia, ma che è politica soltanto la volontà di opporsi e resistere a un progetto di ordine sociale che esplicitamente rinuncia a una concezione dello Stato "garante legale dell'eguaglianza" per disegnare esclusioni e differenze, creare privilegi e divisioni.

Non c'è chi in questo corteo, che ora affolla piazza del Popolo e via Ripetta e via del Babuino fino a piazza Augusto Imperatore e piazza di Spagna, non abbia letto il decreto e toccato con mano che "i grembiulini" sono soltanto polvere negli occhi che acceca. Lo studente universitario ti spiega pignolissimo come "il Fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto di 63,5 milioni per il 2009, di 190 milioni per il 2010, di 316 milioni nel 2011, di 417 milioni per il 2012 e di 455 a partire dal 2013, un risultato che si otterrà vietando di assumere personale oltre il 20 per cento dei pensionamenti dell'anno precedente. Una morta lenta che ucciderà tutti, i buoni e i cattivi senza alcun discernimento: chi ha disperso le sue risorse e chi le ha utilizzate al meglio; chi ha valorizzato il merito e chi ha inaugurato un insegnamento inutile per dare una cattedra all'amante o al figlio. Dicono: quel che non darà più lo Stato lo forniranno le Fondazioni, ma quali, ma come? Il governo non lo dice perché o non lo sa o non può dire che vuole un'università privatizzata".

È la trama della realtà che fa capolino. È il suo giorno. Per una volta, la "comunicazione" può attendere. I trucchi non funzionano. Quell'indifferenziazione tra reale e fittizio che sempre Berlusconi riesce a costruire appare sgonfia come una ruota bucata. La gente che è qui, che ancora non riesce a raggiungere piazza del Popolo, sembra che ancora riesca a distinguere ciò che accade davvero da quel che la politica e i suo cantori raccontano.

Madri di famiglia ti spiegano come cambierà concretamente la loro vita e la vita del figlio con la fine del "tempo pieno", con il "maestro unico" e l'orario settimanale di ventiquattro ore. "Che cosa è più educativo la strada, la televisione o la scuola?", chiedono.

La realtà. Ha il fiato corto Berlusconi quando si lamenta della "scandalosa capacità di mentire su cose di buonsenso" o quando nega che ci siano tagli. Qui se ne vanno in giro con nella borsa o in tasca il decreto e, sollecitati, sono pronti a squadernartelo sotto gli occhi. "I docenti a tempo determinato che voleranno via come stracci saranno 87.341 in tre anni. Nel 2009/10, 42.105; 25.560 nel 2010/11; 19. 676 nel 2011/2012. Questo per gli insegnanti. Per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario sono previsti 42.500 posto in meno, il 17 per cento in meno. Come si fa a dire che non ci sono tagli?".

* * *
In piazza del Popolo, un'orchestrina intona l'inno di Mameli. È bizzarro, e di certo non consueto, che prima sottovoce, poi con sempre maggiore forza e convinzione, quel canto dilaghi in ogni angolo della piazza. A pensarci meglio, non è fuori posto "Fratelli d'Italia". Anzi, quel canto appare coerente. Forse può essere addirittura il senso della giornata. Le persone che sono qui, quale che sia il loro numero, sembrano sapere che è in gioco "un'idea di Italia" a cui non vogliono rinunciare. Sanno che "la scuola pubblica, la scuola di tutti", quell'idea la custodisce. Anche con i suoi deficit.

(31 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Il diritto diseguale
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2008, 11:42:41 am
IL COMMENTO

Il diritto diseguale

di GIUSEPPE D'AVANZO


NON da oggi, l'Italia è un Paese privo di normalità, ma pieno di norme e normatività. La novità del presente, governato dalla destra, è che le norme che dovrebbero restituire normalità al Paese lo rendono più disordinato, affondato in anomalie peggiori di quel che una normatività, approvata con immediata forza di legge, vorrebbe curare.

Tre esempi documentano questa deriva autoritaria e populista che crea asimmetrie sociali e territoriali e assegna alle polizie non più la funzione amministrativa di esecuzione del diritto, ma l'efficacia di uno stato d'eccezione che sospende la norma e trasforma il diritto in una decisione mai interamente determinata dalle leggi in vigore. Naturale che saltino fuori distorsioni, incostituzionalità, un "diritto della diseguaglianza", la preoccupazione per un'avventura di cui ormai conosciamo l'epifania, ma non l'esito.

Napoli. Accade che il secondo decreto per i rifiuti preveda l'arresto per chi scarica in strada scarti ingombranti. Si sa che, per liberare dall'immondizia Napoli e la fascia costiera della Campania, sono state sospese le leggi ambientali in quella sfortunata e colpevole regione. Ciò che è illegale interrare a Milano, è legittimo a Napoli. La catastrofe di quest'estate sembrava giustificarlo. Ma con un secondo decreto, in una congiuntura non più emergenziale, (parole di Berlusconi), il governo ha voluto esplorare ancora questo "vuoto di diritto". E' così, se a Treviso si espone soltanto a una multa chi abbandona in strada una poltrona sfondata, a Napoli lo sventurato rischia il carcere, da sei mesi a tre anni.

Il governo - sembra di capire - immagina che debbano essere la legge e la forza militare a "creare" il cittadino, buoni costumi e virtù pubbliche. Vitale Varchetta non è di certo un buon cittadino. I carabinieri lo sorprendono mentre abbandona sul marciapiede in una strada di periferia mobili da cucina, bombole di gas, materiale ferroso arrugginito e materiali di lavori edili. Varchetta viene arrestato e ora vedremo quanto carcere gli verrà comminato. Ammesso che davvero un processo si faccia, perché con tutta evidenza quella legge è incostituzionale: punisce con pene diverse lo stesso comportamento. La limitazione territoriale del decreto appare agli addetti un problema insormontabile. Come sostiene il costituzionalista Valerio Onida, l'abbandono di un frigo provoca lo stesso danno all'ambiente in qualsiasi regione d'Italia. Né vale opporre, come molti "d'istinto" oppongono, che però soltanto in Campania c'è un'emergenza rifiuti. Se saltasse fuori che in Lombardia ci sono più furti che altrove, accetteremmo senza batter ciglio che in quella regione il ladro venisse punito con pene doppie, triple rispetto al resto del Paese?

L'asimmetria, riservata alla Campania, ci racconta un metodo e una cultura di governo sui cui dovrebbe riflettere anche chi, stanco dei disastri che i napoletani infliggono alla loro città, condivide l'arresto di Varchetta. Il governo liquida d'imperio, con decreti d'urgenza, un'idea del diritto fondato su norme "impersonali e perciò generali, prestabilite e perciò pensate per durare". Privilegia decisioni dettate esclusivamente dalle mutevoli situazioni concrete. Affiora così una situazione del tutto inedita per il nostro Paese. Come dimostrano i provvedimenti "diseguali" previsti per i napoletani, il governo rivendica la legittimità di stabilire, in autonomia e senza alcun controllo parlamentare o verifica giudiziaria, che cosa sia l'ordine e la sicurezza pubblica, quando e dove sia messa in pericolo. E' da questa convinzione che nascono anche i due emendamenti approvati dalla commissione giustizia del Senato nelle ultime ore: il registro dei senza dimora compilato dalle polizie; la legalizzazione delle "ronde" private. Svelano una cultura che trasforma il povero (come lo straniero, come il non-cittadino) in un pericolo, in un nemico. Come nemico diventa un criminale. Come criminale è affidato alle cure delle "operazioni di polizia", pubblica e ora addirittura privata. Era Hobbes che avvertiva come non potesse essere "il cittadino a stabilire privatamente chi sia l'amico, chi il nemico pubblico". In Italia è quel che può avvenire presto. Con il rischio che, dall'ordine anche precario e anomalo di oggi, si può scivolare nel caos. Dallo Stato nello "stato di natura".


(9 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quelli della Diaz: le verità negate
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 10:13:43 am
Pestaggi, violenze.

In settimana la sentenza per i 29 poliziotti accusati delle violenze nella scuola di Genova nel 2001

Quelli della Diaz: le verità negate

La notte nera della democrazia


di GIUSEPPE D'AVANZO


UNO STATO che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico.
Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell'ordine".
Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici".

Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale. Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.

* * *

Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc ? che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso.

Ora, più o meno, è mezzanotte. Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia. Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo. Estrae l'accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un'arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: "può uccidere", se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia, subito dopo, contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: "You are black bloc, we kill black bloc" ("Tu sei un black, noi ti uccidiamo").

Covell cade finalmente a terra. E' semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall'indifferenza, in quell'angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E' ancora aperta l'indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L'accusa: tentato omicidio).

* * *

Distruggere. Annientare. E' con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola. Arnaldo Cestaro, "un vecchietto", è sulla destra dell'ingresso. Viene travolto. Lo gettano contro il muro. Lo picchiano con i "tonfa". Gli spezzano un braccio e una gamba. Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo.

Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni. Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un'ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: "Noi siamo pacifici, niente violenza". "Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?", dicono i testimoni. La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball).

Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci. Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida "Basta!". Raggiunge la ragazza. "La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un'autoambulanza". (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra).

Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: "Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C'era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch'io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello". Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: "Dì, che sei una merda". Mentre colpiscono gridano: "Frocio!", "Comunista!", "Volevate scherzare con la polizia?", "Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!".

Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. "Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero". La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. "Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata".

Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).

* * *

Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida? Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla. Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve comunicato che vale la pena di ricordare per intero: "Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all'autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All'atto dell'irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini". Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell'ingresso della scuola, "nella disponibilità degli occupanti".

* * *

Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all'epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero. Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta. Si dice che l'assalto (la "perquisizione") fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni. Il processo ha dimostrato che non c'è stata nessuna pattuglia aggredita. Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città.

Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c'è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di "alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant'altro". Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati "abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio".

Nella scuola non c'è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio. Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera. Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata. Nella scuola non c'erano molotov. Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente. La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.

* * *

In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia. Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza. Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo.

E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo. Dell'assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte "criminali" a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto. Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l'omertà indecorosa che manipola prove; costruisce a tavolino colpevoli; nasconde le responsabilità; sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti. Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un "diritto di polizia". Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell'ordine non sia una impudente finzione. Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l'altro diventa un "nemico" da annientare.


(10 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Un poliziotto oltre il limite
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2008, 11:59:14 am
IL COMMENTO

Un poliziotto oltre il limite


di GIUSEPPE D'AVANZO


La pessima sentenza di Genova per i pestaggi della Diaz imponeva che subito dovessero venire dalle istituzioni, dalla polizia, dalla politica chiari segnali rassicuranti della fedeltà alla Costituzione delle forze dell'ordine. Per un intero giorno, il silenzio. Un silenzio non imbarazzato, non pudico, ma quasi soddisfatto. Come se l'esito minimalista del processo genovese, che si sovrappone alla mediocre e ambigua conclusione del dibattimento per le torture di Bolzaneto, potesse chiudere senza danno - "e finalmente" - la ferita profonda che i giorni del G8 hanno aperto tra lo Stato e la società, tra le istituzioni e una giovane generazione di cittadini. In questo assordante e colpevole silenzio, ha preso la parola soltanto Vincenzo Canterini, il comandante del Reparto Mobile, della Celere di Roma, condannato a quattro anni di carcere (tre cancellati dall'indulto).

Canterini, il capo delle tre squadre del VII nucleo antisommossa che, per prime, invasero la Diaz e, armate dei micidiali manganelli "tonfa" usati al contrario, bastonarono decine di ragazzi e ragazzi, ferendone 82 e riducendone tre in fin vita. Canterini ha scritto ai suoi "ragazzi" una lettera che è una sfida alla Costituzione, un oltraggio alla "disciplina" e all'"onore" che dovrebbero orientare, per la Carta, i servitori dello Stato.

È una rivendicazione di uno spirito di corpo omertoso ("Io e voi sappiamo benissimo che cosa è successo; ci siamo guardati più volte negli occhi"). È un avvertimento alle gerarchie che avrebbero abbandonato il "Reparto" al loro destino ("Abbiamo perso una battaglia; ma quante volte si siamo sentiti umiliati e forse traditi"). È soprattutto la riproposizione delle menzogne disseminate, nel corso di sette anni, per impedire l'accertamento della verità.

Scrive Canterini: "Quante volte chi ci aggrediva pensava di averci sopraffatto e poi si accorgeva che invece eravamo vivi e fieri di noi (?) Lasciamo tutte queste persone nei loro passamontagna e con i loro bastoni". La verità è che nessuno ha aggredito, nella Diaz, Canterini e i suoi "ragazzi". La verità è che nella Diaz non c'è stata nessuna colluttazione, non fu trovato nessun passamontagna, nessun bastone, nessuna catena, nessun maglio spaccapietre (come accreditò una sua relazione di servizio). La verità è che nessuno dei picchiatori di Canterini fu ferito (anche questo giurò) e i referti medici furono tutti manipolati.

La verità - la sola verità che pessime sentenze, miopi convenienze politiche, opportunisti istituzionali non potranno cancellare - è che quella notte di luglio Canterini e i suoi "ragazzi", forse dopo essersi guardati negli occhi, si abbandonarono a un pestaggio brutale di uomini e donne indifesi e inermi. "Facciamogli vedere che alla lunga saremo noi a vincere", è l'esortazione conclusiva di Canterini.

È un'esortazione anche per noi. Se vince un poliziotto come Canterini perdiamo tutti.

Dopo aver letto il comandante dei nuclei antisommossa sappiamo di non poterci affidare soltanto alla civiltà e al senso civico delle polizie. Sappiamo di aver bisogno di difendere con intransigenza le garanzie offerte dalla Costituzione e i diritti assicurati dalla legge, quelli calpestati a Genova. Sappiamo di dover ancora pretendere di sapere (nonostante la giustizia si sia mostrata timida e impotente) che cosa, come, perché sono state sospese a Genova le regole e l'umanità; con la responsabilità di chi è nato quel "vuoto di diritto" che ha consegnato la vita delle persone, spogliata di ogni dignità, alla violenza arbitraria, disumana che Canterini ha l'arroganza di rivendicare.

Una domanda, però, pretende una risposta subito. Canterini e i suoi "ragazzi" possono ancora restare nei ranghi della polizia?

(15 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il coraggio della verità
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2008, 05:14:56 pm
IL COMMENTO

Il coraggio della verità

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

Il capo della polizia Antonio Manganelli non si volta dall'altra parte. Non chiude gli occhi. Non sceglie un comodo silenzio. Decide di guardare in faccia la realtà e la realtà è che i pestaggi della Diaz - come le torture di Bolzaneto - sono una frattura tra lo Stato e la società, tra le forze dell'ordine e una giovane generazione. Una macchia nella storia dell'istituzione che governa. È un'ombra incancellabile. Manganelli sembra saperlo, ma dichiara la sua disponibilità a collaborare "senza alcuna riserva" per ricostruire quella "pagina nera" nella convinzione che un'opera di verità possa, per lo meno, evitare che le violenze poliziesche si ripetano in un futuro.

Come è naturale, il capo della polizia non accetta che la sua istituzione possa essere soltanto sospettata di infedeltà costituzionale. Con orgoglio e consapevole dignità, ricorda il quotidiano sacrificio di migliaia di uomini in divisa che fanno il loro lavoro ("sottopagato") al servizio della sicurezza dei cittadini.

E tuttavia Manganelli ha il coraggio di dire quel che, nelle ore seguite alla pessima sentenza di Genova, nessuno nell'establishment ha accettato anche soltanto di ipotizzare: quel che "realmente accadde a Genova" deve essere ancora esplorato, ricostruito, raccontato. La verità di quei giorni di violenza non può essere rinchiusa in un'aula giudiziaria; spenta nella rete delle responsabilità personali e delle sanzioni penali che guidano un processo; soffocata dalle timidezze della magistratura o annullato dai difetti dei codici.

Manganelli rivela quel che, per quanto nella sua disponibilità, ha messo su per migliorare ("correggere") il lavoro di strada dei Reparti Mobile, della Celere, affidati a "persone pulite". In ogni caso, il capo della polizia si assume fin da ora "la responsabilità per gli errori che i suoi uomini possono commettere". Già è accaduto che, dopo "l'avventatezza" omicida di un agente della Stradale, Manganelli si sia assunto la responsabilità della morte di Gabriele Sandri, ucciso un anno fa da un colpo di pistola nell'area di servizio di Badia al Pino Est dell'A1. Uno stile assai diverso dal suo subordinato Vincenzo Canterini, comandante nel 2001 della Celere di Roma e del VII nucleo antisommossa (i picchiatori della Diaz): un ufficiale che, dopo avere gettato il sasso (un'arrogante lettera di velate minacce, di richiami all'omertà di gruppo, di propositi di vendetta), nasconde ora la mano.

Quel che più conta nella lettera di Manganelli sono un paio di righe: "... il Paese ha bisogno di spiegazioni su quel che accadde a Genova e l'istituzione, attraverso di me, si muove e muoverà senza alcuna riserva, non attraverso proclami stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali".

Ora toccherebbe alla politica, al parlamento inaugurare, se non ci sono, quei luoghi istituzionali dove rendere concreta la possibilità di ricostruire - al di là dell'accertamento penale (o nonostante i suoi mediocri esiti) - quel che è accaduto a Genova; come, con la responsabilità di chi, perché si sia aperto nei giorni del G8 un "vuoto di diritto" che ha inghiottito ogni garanzia costituzionale e consegnato la nuda vita delle persone a una violenza arbitraria e indiscriminata.

Dovrebbe essere la politica a battere ora un colpo, ma la scena che si scorge è avvilente. L'opposizione parlamentare appare afona e quando trova la voce, come con Antonio Di Pietro, è soltanto contraddittoria senza imbarazzi (l'Italia dei Valori bocciò la nascita della commissione parlamentare d'inchiesta che oggi pretende). La maggioranza mostra un volto prepotente fino all'insolenza. Maurizio Gasparri rifiuta ogni ipotesi di commissione d'inchiesta: "Non la voteremo mai. La maggioranza non ha alcuna intenzione di permettere una speculazione in Parlamento ai danni delle forze dell'ordine". Il presidente dei senatori della destra non si accontenta di sbattere la porta. Dimentico dei 93 arresti abusivi, delle prove artefatte, dei verbali truccati, degli 82 feriti, dei tre disgraziati in fin di vita, si dice convinto dell'innocenza di Canterini e del VII Nucleo antisommossa (per il tribunale di Genova sono i picchiatori della Diaz). Sarebbe davvero desolante, oltre che politicamente grave per la qualità della nostra democrazia, se la disponibilità del capo della polizia non venisse raccolta; se l'opportunità di ricostruire "i fatti di Genova" non trovasse alcun luogo istituzionale per essere acciuffata nell'interesse di una riconciliazione tra le forze dell'ordine e una generazione. Quale reticenza, quale viltà, quale convenienza potrebbe giustificarlo?

(16 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Sorpresa, politici e manager dove il potere si scopre giovane
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2008, 04:28:14 pm
POLITICA

In Parlamento e nelle grandi società l'Italia non è più un paese per vecchi

A sopresa tiene testa agli Stati Uniti e continua nel processo di rinnovamento

Sorpresa, politici e manager dove il potere si scopre giovane


di GIUSEPPE D'AVANZO

UN INDIZIO di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell'Onda studentesca - e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa "riforma Gelmini" è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.

Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il "modello italiano" concede l'attenzione di una di quelle consorterie - Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente "bande" - che "accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento".

A fronte di questo dramma e dell'accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull'esclusione dei "giovani" dalla leadership politica di una "Repubblica della Terza Età" è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del "Paese dove il tempo si è fermato". È gne-gne che occulta un'autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l'università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?

Quei "giovani" che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po' spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l'età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura "giovani adulti" quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera "gioventù, l'età della vita che va dai 15 ai 25 anni". È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare "giovane" chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant'anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento).

Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l'economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all'età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come "un brillante giovane economista" e lui replicò, quando prese la parola: "Grazie per il "giovane", ma negli Stati Uniti mi considerano un po' passé".

L'anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c'è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi).

Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l'età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana.

Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l'aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell'insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l'esistente. Di sicuro non nell'università italiana.

A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l'età media è di 53 anni. Alla Camera l'età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l'età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega.

Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell'ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente "giovane e competente". Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un'età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce. info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell'ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni.

È una classe dirigente cresciuta all'ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un'élite consapevole che debba essere la Lega "il motore riformatore del governo".

Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier "è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c'è straccio di classe dirigente che resista". Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di "vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori", intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni).

Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell'autarchia generazionale e, a parole, è così.

Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più "antico"). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50).

Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.

L'avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come "economista" tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: "Metto al servizio del Paese la mia incompetenza". Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere.

Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa ("Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere"). Nella convinzione che l'azione politica si svolga tutta all'interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine.

Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: "Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente" per poi concludere: ". Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all'altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate".
Chapeau!

Ho l'impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), "un partito moderno, democratico, laico e di sinistra" (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l'accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.

È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall'obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell'ultimo partito nato. E' una politica che non conosce il conflitto.

Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E' il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).

Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell'appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza.

Ce l'ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un'idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell'immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.

Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l'età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l'Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c'è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un'impotente lagna.


(24 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quel gesto disperato nella città senza vergogna
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 11:03:17 pm
IL COMMENTO

Quel gesto disperato nella città senza vergogna

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
E' SEMPRE un mistero la ragione che spinge a uccidersi perché il suicidio è sempre e soltanto questo semplice fatto: un uomo preferisce la morte alla vita. Quale sia l'urgenza della scelta, quale sia la tossina intollerabile che la provoca, apparirà ai vivi sempre un passo incongruo. Un eccesso rispetto all'irreversibilità dell'addio. Chi può dire perché Giorgio Nugnes si è impiccato?

Nessuno, e il suo gesto imporrebbe soltanto silenzio e pietà e malinconia. Ma Nugnes era un personaggio pubblico. La sua decisione lascia un segno profondo in una città disgraziata, una ferita collettiva nella sua comunità, che sarebbe insolente lasciar cadere. In queste ore, c'è chi evoca altri suicidi e altre stagioni della Repubblica. La morte di Gabriele Cagliari, la morte di Raul Gardini, le nobili parole di Sergio Moroni. La disperazione di uomini che giudicarono preferibile la morte a una vita ormai insostenibile perché indegna se vissuta in carcere; perché umiliata dagli errori del passato; perché travolta dalla distruzione di un mondo che ora precipitava sul loro destino, e soltanto sul loro, il peso del conformismo di tutti, la colpa e la corresponsabilità di ognuno.

L'accostamento mi sembra improprio. Non credo che il suicidio di Nugnes possa essere paragonato a quei suicidi. La sua morte porta con sé un altro marchio collettivo più grandioso e, al tempo stesso, più sinistro.
Giorgio Nugnes era un uomo molto amato a Pianura. Pianura non è Napoli. Non è soltanto un quartiere di Napoli, al di là della collina dei Camaldoli. è un altro luogo. Separato, autonomo dalla grande città. Con una spiritualità indipendente. Chi ci abita è fiero di questa alterità. Lo era anche Nugnes che, di quella comunità, era un modello. Abitava in fondo a una viuzza stretta stretta dove la campagna ancora non ha ancora ceduto del tutto al cemento; una via abitata da fratelli, cugini, nipoti, una famiglia ospitale e giudicata generosissima.

Della comunità di Pianura, Nugnes era il leader. La sentiva così sua, così costituzionalmente parte di sé e ragione della sua esistenza pubblica e privata, che non ha avuto alcun dubbio da che parte stare quando scoppiò la rivolta contro la riapertura della discarica, durante i giorni della crisi della monnezza. Stava dalla parte della sua gente. Assessore, partecipava ai tavoli di crisi in municipio e in prefettura. Leader della sua comunità, svelava subito dopo alla sua gente i piani e le strategie della polizia per spezzare i blocchi stradali. Fu arrestato per associazione a delinquere. Si sentiva a posto con la sua coscienza. "E' vero ? disse ? mi sono battuto contro la riapertura della discarica. Mi accusano di avere organizzato blocchi stradali, ma a volte questa resistenza pacifica evita un corpo a corpo più pericoloso. Ho sempre difeso fino in fondo la gente del mio quartiere. Siamo cresciuti con l'olezzo della discarica a Pianura, non permetteremo, non permetterò che la riaprano".

Giorgio Nugnes diceva le sue colpe, non ne confessava nessuna. Poteva farlo perché la felicità, la sua felicità, gli appariva una virtù sociale. A Pianura, tra la sua gente, non avrebbe avvertito alcun peso, alcuna colpa, alcuna responsabilità. La decisione di allontanarlo dal suo quartiere deve averlo colpito peggio di una sentenza di condanna. Negli ultimi giorni, lo diceva a tutti quelli che avevano voglia di ascoltarlo.

L'ostracismo (doveva abitare lontano da Pianura e poteva rientrare a casa, per la notte, soltanto tre giorni la settimana) lo avrebbe precipitato nell'isolamento, nella solitudine, nell'oscurità. Lontano dalla sua gente, si sarebbe sentito un escluso e un estraneo. E soprattutto quel che a Pianura era un gesto solidale e responsabile sarebbe apparso altrove, agli altri, un deplorevole inganno, una mossa colpevole di cui vergognarsi. Lontano dalla sua comunità, Nugnes è stato ucciso dalla vergogna (forse aggravata dalle voci che annunciavano una nuova inchiesta, altri severi provvedimenti).

E' terribile dirlo o anche soltanto pensarlo, ma lo scuorno che ha ucciso Nugnes è l'amaro turbamento che può restituire, se compreso, decoro a una città, dignità a un ceto politico che sembra aver smarrito il senso della vergogna. Le istituzioni pubbliche cittadine, assediate dalle inchieste giudiziarie, dalle rivelazioni degli sperperi, oggi appaiono aggrappate tenacemente alle proprie rendite politiche.

Il suicidio di Giorgio Nugnes racconta anche questo. Ammesso che si abbia la voglia di decifrarlo, racconta quanto sia grave e profonda la crisi di una città che apprezza, come virtù, l'ostinazione del potere, la flessibilità morale, la protezione degli interessi particolari, la difesa della rendita politica e, come missione, la gelosa custodia del consenso anche quando questi veleni distruggono giorno dopo giorno la rispettabilità di Napoli, dei napoletani e, irrimediabilmente, il loro futuro. Che Giorgio Nugnes pace trovi, e riposo.


(30 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Napoli, l'inchiesta dei veleni sul "patto degli appalti"
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2008, 09:43:56 am
Dopo il suicidio di Nugnes, l'ombra delle intercettazioni sulla giunta

Al centro dell'indagine il provveditore, cinque assessori e un imprenditore

Napoli, l'inchiesta dei veleni sul "patto degli appalti"


di GIUSEPPE D'AVANZO


NAPOLI - Il fatto è che una manina si è portata via dagli uffici della Direzione investigativa antimafia di Napoli una copia delle intercettazioni dell'indagine che, nel suo avvio e senza alcuna ironia, gli investigatori chiamavano Magnanapoli. Dicono fonti vicine all'inchiesta che ora il boccino ce l'hanno in mano un paio di "barbe finte" - di spioni - che distillano veleni con almeno tre obiettivi ormai espliciti. 1. Azzoppare un'inchiesta che, presto svelerà come sinistra e destra, governo cittadino e opposizione consiliare vivono, a Napoli, d'amorosi sensi quando si discute e si decide di appalti e affari. 2. Regolare qualche conto in sospeso tra le burocrazie della sicurezza. 3. Soffiare "per input politici e gerarchici" il nome di innocenti, incappati nelle intercettazioni telefoniche, per farne colpevoli da sbattere sui giornali. Bisogna allora cominciare da qui - dalla disinformazione - per diradare qualche nebbia. L'operazione consente di vedere all'opera le manine galeotte, gli utilizzatori en plein air, i virtuali beneficiari, gli sventurati target.

Uno sventurato target è Antonio Di Pietro. Suo figlio Cristiano, 34 anni, al tempo consigliere provinciale di Campobasso, si mette in contatto con Mario Mautone, provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise. Mal gliene incolse.

I comportamenti di Mautone sono già al centro dell'inchiesta di Napoli. Iperattivo, interlocutore favorito di amministratori, politici, imprenditori, amico giovialissimo di questori, generali e magistrati. E' settembre dello scorso anno. Una manina consegna al senatore Sergio De Gregorio (Partito delle libertà) la notizia che Cristiano Di Pietro è "indagato dalla procura di Napoli in un'inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto in Molise". La notizia farlocca viene rilanciata dal Giornale, che ancora ieri ostinatamente la ripubblica. Raccontano che, di quelle intercettazioni, venga a conoscenza anche Silvio Berlusconi; che venga sollecitato a utilizzarle come una mazzuola sulla testa del suo "nemico" storico (Di Pietro) e contro il partito democratico (governa Napoli e la Campania da quindici anni).

Il premier non ne fa nulla. L'uomo ha un felice intuito perché la storia, come gliela raccontano, è bugiarda. E' vero, il giovane Di Pietro - intercettato - discute con Mautone della sorte di un paio di caserme dei carabinieri in Molise. "Più che correttamente", dicono oggi fonti vicino all'inchiesta. Il padre, Di Pietro il vecchio, Antonio, in quei mesi ministro delle Infrastrutture, ha il cattivo carattere che ha - si sa - e al primo stormir di foglie dell'indagine rimuove Mautone sottraendogli l'autonomia di provveditore per consegnarlo a un incarico non operativo al ministero.

"Mi sono sempre comportato così - dice ora Di Pietro - Se sapevo che la magistratura stava valutando la correttezza dei comportamenti di un alto dirigente lo destinavo a un incarico non operativo - è accaduto in cinque, sei occasioni - nell'interesse del ministero, della giustizia, del dirigente indagato o soltanto coinvolto nell'indagine". Fonti vicino all'inchiesta confermano che Di Pietro si è comportato in questa storia con "esemplare correttezza".

Il venticello calunnioso soffiato contro il leader dell'Italia dei Valori è analogo all'aria venefica che le "barbe finte" sbuffano contro il colonnello Gaetano Maruccia (comandante provinciale dei carabinieri) e il generale Vito Bardi (comandante regionale della Guardia di Finanza in Campania). Li dicono, con il questore Oscar Fiorolli, indagati, compromessi dall'amicizia e rovinati dagli interessi opachi del provveditore. In realtà, i nomi dei militari saltano fuori nelle conversazioni telefoniche, ma in maniera neutra. Bardi e Maruccia prendono subito il largo da quel tipo, Mautone. Fiorolli, più amichevole e frivolo, si attarda a frequentarlo, ma non fino al punto di lasciarsene coinvolgere, a quanto pare.

E' tra questi miasmi e veleni che precipita Giorgio Nugnes. Nelle ultime ore, prima del suicidio si aggira tra le redazioni dei giornali. Determinato a scrollarsi di dosso ogni accusa, chiede ai cronisti che apprezza: "Ma perché anche i servizi segreti indagano su di me?". Ipotizzano gli investigatori che Nugnes, nella notte tra venerdì e sabato 29 novembre, possa essere stato avvicinato dalle "barbe finte", pressato, minacciato con false notizie fino al punto che l'uomo ha ceduto di schianto la mattina dopo, impiccandosi. Se queste supposizioni dovessero trovare conferma, più che di un "nuovo Enzo Tortora", come suggerisce Francesco Cossiga, Giorgio Nugnes sarebbe la vittima di una stagione di veleni che era sconosciuta a Napoli, città più facile al melodramma e al buffo che alla tragedia.

Sgombrato il campo dal loglio, resta il grano ed è grano molto guasto. Comunque vada, quando le conversazioni telefoniche diventeranno pubbliche, della giunta di Rosa Iervolino resterà soltanto polvere per le prassi di governo, l'etica che le ispira, gli interessi personali protetti, la rete di potere non trasparente e trasversale che quei colloqui portano alla luce.

L'inchiesta giudiziaria trova il suo focus in un triangolo. Il provveditore alle opere pubbliche; cinque assessori; l'imprenditore Alfredo Romeo. Sullo sfondo, a Roma, i rapporti "tutti ancora da chiarire" con politici nazionali, tra cui Renzo Lusetti (Pd), Nello Formisano (IdV), Italo Bocchino (PdL). Il "triangolo" di interessi è alle prese con un global service, un progetto di gestione integrata delle proprietà della pubblica amministrazione. Rosa Iervolino lo presentò pubblicamente nella primavera del 2007 come "un regalo per Giorgio Napolitano che trascorre qui la Pasqua". Il piano, "in una visione unitaria", avrebbe dovuto "valorizzare il patrimonio pubblico, dagli immobili alle strade, dai palazzi monumentali a quelli di edilizia residenziale".

E' un appalto che i protagonisti istituzionali e amministrativi - Mario Mautone, il provveditore; Enrico Cardillo, l'assessore al bilancio (ora dimissionario); Giorgio Nugnes, dimissionario dall'assessorato alla protezione civile - cuciono come una giacca ben tagliata sulle spalle di Alfredo Romeo. A quanto pare, le indagini non svelano "cavalli di ritorno", mazzette che premiano la corruzione - se non pallide tracce, tutte ancora indagare - ma le fonti di prova raccolte, per la procura, sono adeguate a dimostrare la fraudolenza della gara e, quindi, la richiesta di misure cautelari - in soldoni, di arresti - inviata al giudice per indagini preliminari che, se fa in fretta (ha l'incarto da luglio), potrebbe decidere anche prima di Natale. Turbativa d'asta, dunque. Il reato non è esplosivo.

Esplosive sono le conversazioni che dimostrano quanto il parolaio guerresco del confronto pubblico tra destra e sinistra sia, a Napoli, soltanto una mascherata. In realtà, ogni rivolo della spesa pubblica si decide in un compromesso utile a proteggere gli interessi personali, la rendita politica, le quote di consenso di ciascun partito. Una realtà politico e amministrativa che trova la sua conferma nel sostegno di Forza Italia alla giunta Iervolino in occasione del bilancio, nella protezione che alla Regione Silvio Berlusconi offre al pericolante Bassolino. L'equilibrio amministrativo e istituzionale non è costruito per l'interesse pubblico, con l'urgenza di lavorare insieme per far fronte alle gravi criticità della Campania, alla crisi profonda della città, ma intorno alla corruzione, al clientelismo, per usare le formule del capo dello Stato.

Forse informato per rispetto istituzionale (il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore smentisce), Giorgio Napolitano ha anticipato (se si hanno orecchie per ascoltare) le ragioni della prossima crisi politica che travolgerà, con l'inchiesta giudiziaria, l'amministrazione e il ceto politico cittadino. Lo ha fatto così: "E' assolutamente indispensabile che cambino i comportamenti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso della risorse disponibili con il peso delle intermediazioni improprie che possono ricondursi a forma di corruzione e clientelismo, interferenza e manipolazione. (Bisogna) mettere in discussione la qualità della politica, l'efficienza delle amministrazioni pubbliche e l'impegno a elevare il grado complessivo di coscienza civica". A buon intenditore, poche parole.

(4 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Non fuggo io ho le mani pulite ma se il Pd me lo chiede lascio
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 09:46:46 am
Intervista al sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino: "Qui la politica è una guerra per bande"

"Se qualcuno in Giunta ha sbagliato pagherà. Vigliacco scappare per salvarsi"

"Non fuggo, io ho le mani pulite ma se il Pd me lo chiede lascio"


di GIUSEPPE D'AVANZO
 

NAPOLI - "Comincio a essere stufa. Anche il più integro dei meccanismi alla fine si rompe". Sono le prime parole di Rosa Russo Iervolino, sindaco di una Napoli politica e amministrativa sull'orlo di una crisi che si annuncia rovinosa.

Dicono che sia stata convocata con urgenza dal segretario del Pd, insieme ad Antonio Bassolino. Dicono che Veltroni pretenderà le dimissioni del governatore. Che c'è di vero?
"E' una sciocchezza che sia stato Veltroni a convocare, a Roma, me e Bassolino. Sono io che ho cercato oggi Veltroni e non il contrario. Purtroppo Walter è in viaggio verso Atene. Sapete, noi del Pd ci occupiamo molto di politica internazionale.."

La convocazione per martedì pare che sia stata confermata da Giuseppe Fioroni.
"Un altro genio. Ma che si sappia: sono io che voglio sapere dal mio partito, dal segretario, dal gruppo dirigente che cosa hanno in mente per Napoli. Stiamo parlando della terza città italiana e dell'unica governata dal partito democratico. Sono io ? con le mie mani pulite ? che chiedo a loro di mettere sul tavolo i rilievi che merito io personalmente e le critiche, le censure per la mia giunta".

L'inchiesta della procura di Napoli non pare rassicurante per la sua giunta.
"Non conosco le carte di quest'inchiesta, ma conosco la Costituzione. L'ho studiata e ancora la frequento. So che la responsabilità penale è personale e, prima di dire colpevole un imputato, bisogna attendere una sentenza definitiva. In ogni caso, le responsabilità di uno o di pochi non possono ricadere sulla giunta".

Ma se dovessero emergere, come a questo punto è molto probabile, comportamenti penalmente scorretti di alcuni dei suoi assessori, lei che cosa farà?
"Quel che ho già fatto. Per quanto è nella mia possibilità e competenza, di fronte a un'indagine penale che coinvolge un mio amministratore, prenderò subito provvedimenti. L'ho fatto anche con il povero Giorgio Nugnes, un ragazzo che mi era molto caro. Per il resto voglio capire però se la polemica contro la mia giunta è frutto di un giudizio etico e politico o l'effetto di una bega politica. Perché - guardi - io, che sono in politica da trent'anni, sono abituata a un altro metodo: c'è un problema, si riuniscono gli organi di partito, si analizza la situazione, si discute anche con franchezza, si decide".

Lei chiede un confronto. Ma immagino che lei abbia già avuto modo di discutere con i suoi?
"No. Accade che qualche tempo fa, con tutti i miei assessori, discuto a lungo e con serenità con Luigi Nicolais (già ministro della funzione pubblica nel governo Prodi, oggi segretario del Pd napoletano). Poi oggi apro il giornale e leggo: ultimatum di Nicolais, o giunta nuova o me ne vado. Prima di consegnare l'ultimatum a mezzo stampa, Nicolais non poteva dire a me il suo disagio? Se era già a disagio perché non ce lo ha detto quando ne ha avuto l'occasione?".

Glielo chiedo io, perché?
"No, lo deve chiedere a Nicolais, a Veltroni o magari a Fioroni. Io so soltanto che non cederò alle liti di partito. Non si può fare delle istituzioni un solo fascio. Di che cosa parlano? Della Regione Campania e del comune di Napoli? Di Bassolino e di Rosetta Iervolino?"

C'è però in arrivo un tsunami politico, è chiaro a tutti. Per quel che se ne sa, i rilievi penali saranno il meno, a petto del quadro etico che verrà fuori.
"Io sto ai fatti. Quest'inchiesta di cui lei parla ancora non c'è e io non ne so niente. Dunque, dove sta il problema? Qualcuno ha fatto parte di camarille? Qualcuno sa di avere uno scheletro nell'armadio e si dimette? Ben fatto, io accetto le dimissioni e tiro avanti. Con un comitato di saggi, ho già disposto severe regole di controllo degli atti amministrativi. Non è sufficiente? Lo si dica. Si presenti una mozione di sfiducia, la si approvi e il sindaco se ne va. Questa è la democrazia, non lo spettacolo che ho sotto gli occhi".

Qual è questo spettacolo?
"Le insalate dove tutte le responsabilità sono uguali. I patti trasversali, mai resi pubblici. Gli appetiti per il nuovo piano regolatore che condizionano l'informazione e le opinioni di alcuni organi di stampa. Le debolezze di un partito democratico che non decolla. Da parte mia, posso soltanto dire ai miei: lavorate, lavorate, lavorate. Fatelo con mani pulite. Che posso fare di più? Me lo dica lei?".

Lei parla spesso della sua forza, della sua tenuta d'acciaio, delle sue "spalle larghe". Ma un sindaco è anche l'espressione di una coalizione politica, la sintesi della qualità di un ceto politico, il custode di un progetto, il garante della correttezza di un'amministrazione. Converrà che non lei, ma la reputazione e la credibilità delle forze politiche che la sostengono sono oggi al grado zero. Questa criticità può essere senza conseguenze?
"A parte il fatto che anche l'acciaio si spezza e io mi sento ormai vicino a quel punto di frattura, voglio capire di che cosa stiamo parlando. Finora, io vedo soltanto un polverone. Voci. Insinuazioni. Accuse senza padre?".

C'è stato un suicidio, sindaco.
"Non deve dirlo a me che ero affezionata a Nugnes come mi ha dato atto a Pianura la sua famiglia e la sua gente, nonostante qualche titolo sciacallesco. Voglio chiederle: perché devo pagare io? Qual è la mia responsabilità? Che c'è di concreto in questo polverone che ci impedisce di vedere e ragionare?".

Sembra che lei non voglia prendere in considerazione nemmeno le parole del presidente della Repubblica. Le ripeto che cosa ha detto Giorgio Napolitano qui, a Napoli, ai napoletani e a chi li governa: "E' assolutamente indispensabile che cambino i comportamenti di tutti i soggetti, pubblici e privati, che condizionano negativamente il miglior uso della risorse disponibili con il peso delle intermediazioni improprie che possono ricondursi a forma di corruzione e clientelismo, interferenza e manipolazione. (Bisogna) mettere in discussione la qualità della politica, l'efficienza delle amministrazioni pubbliche". Che cosa doveva dire di più, e di peggio, il capo dello Stato per scuotere l'albero?
"Senta, Mino Martinazzoli più di quindici anni fa mi acchiappò dal mio seggio di Lanciano-Vasto, dove venivo eletta da più legislature, e mi fece rientrare a Napoli. Sono napoletana, la mia famiglia è napoletana. Accettai volentieri la prova. In città la Democrazia Cristiana era stata distrutta da Tangentopoli. Mario Condorelli rifondò il partito popolare allontanando i personaggi più discussi e discutibili. Nel corso del tempo, questa gente è rientrata nel partito. Non gliel'ho consentito io, di rientrare. Però, sono io a doverci fare i conti. Ogni giorno, i miei figli mi dicono di lasciar perdere, di non sporcare in questo palazzo il mio nome, la mia storia, il nome e la storia della mia famiglia. Appena cinque minuti fa, è stata qui mia figlia. Senza dire una parola, con il solo gesto della mano oscillandola come un pendolo da destra a sinistra, mi ha implorato ancora una volta di filare, di andarmene. Lei crede che io non ci pensi ogni giorno a quanto sia più facile tornarmene a casa? Ogni giorno ci penso e ogni giorno mi dico che sarebbe vigliacco scappare per salvare il mio buon nome e lasciare la città ai suoi conflitti, dilaniata da una guerra per bande. Che alibi offrirei a chi - nelle élite culturali cittadine - già oggi pensa che bisogna tenersi lontano dalla politica perché la politica ti può soltanto sporcare?
Ho compreso benissimo le parole del presidente Napolitano e sono quelle parole che mi convincono a chiedere al segretario e alla direzione del mio partito di dirmi se devo restare e, in questo caso, qual è il progetto che il partito democratico ha in serbo per Napoli. Se mi dicono: dimettiti, lo farò. Non sono il tipo che si incatena alla poltrona".

Quanto pesano sulle sue difficoltà, le difficoltà di Antonio Bassolino e la sua ostinazione a restare alla guida della Regione Campania?
"Io rispondo soltanto dei miei atti e delle mie decisioni. Bassolino delle sue. Sarei attenta, comunque, a dire ostinato Antonio. Bassolino sta affrontando un rinvio a giudizio, ma io so che è una persona onesta, come sua moglie Anna Maria Carloni".

(5 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il vero obiettivo del Cavaliere
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2008, 11:08:23 am
POLITICA     
EDITORIALE - La riforma della giustizia

Il vero obiettivo del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi non ha alcuna voglia di riformare subito la giustizia. Perché dovrebbe averne? Si è personalmente protetto con l'immunità (la "legge Alfano") e non teme più i giudici.

Può essere paziente, può non avere fretta, può attendere. C'è il tempo di una legislatura per preparare e realizzare il colpo finale (dipendenza del pubblico ministero dall'esecutivo). Con sapienza, è sufficiente al premier tenere alto il fuoco sotto la pentola e cuocere magistratura, riformisti democratici, opinione pubblica con sfide, provocazioni, affondi incrociati. Sempre inconciliabili. Tipo: "Nella sinistra c'è una questione morale", dice. Che ovviamente suggerito da un piduista, con un avvocato corruttore di giudici (Previti) e un braccio destro amico di mafiosi (Dell'Utri), fuori pericolo per amnistie e prescrizioni, scampato per un conflitto di interessi che gli ha permesso di approvarsi leggi ad personam, irrita gli animi e provoca un irrigidimento politico. Che subito dopo Berlusconi massaggia da "statista" con un invito a discutere insieme la riforma della giustizia.

Un'offerta politica che, presa in considerazione per qualche ora, provoca all'istante nell'opposizione divisioni e malanimo che l'egoarca aggrava lasciando dire, un attimo dopo, che "in ogni caso, il governo la riforma la farà per conto suo" alla pattuglia di sherpa più partisan che ha a disposizione - Alfano (suo segretario personale e ora ministro virtuale), Ghedini (suo avvocato personale e ministro di fatto), Cicchitto (fratello di loggia).

Bisogna mettersi nei panni di Berlusconi. L'unica forza che teme davvero è la Lega Nord e Bossi non vuole sentir parlare di giustizia prima di avere in tasca il federalismo e, se il premier s'azzarda a capovolgere l'ordine delle priorità, gli toccherà subire gran brutti scherzi in aula. E poi perché procurarsi delle rogne quando i suoi avversari si fabbricano guai da soli?

I magistrati si mangiano vivi come scorpioni in una bottiglia screditando irresponsabilmente la stessa funzione giudiziaria. Il Consiglio superiore della magistratura, costretto ad affrontare la crisi calabro-campana per la mossa inconsueta di Napolitano, è pronto già da oggi a ritornare ai tempi lunghi, al gioco di squadra correntizio, alla protezione corporativa incapace di trovare risposta al perché magistrati così palesemente inadeguati debbano ottenere un incarico direttivo. È questa la qualità della magistratura italiana o è questo il mediocre merito che piace ai "kingmaker" delle correnti? D'altronde, è anche vero che, per le toghe più spregiudicate, una buona visibilità mediatica rimedia a qualsiasi abbaglio professionale se si posa a vittima, se si strepita contro l'arroganza del potere e i baratti politici sotto banco: quel che non si è stati capaci di mettere insieme rispettando le regole del processo penale, lo si ottiene come condanna morale pubblica da un'opinione pubblica, disinformata con maestria, che attende l'Angelo vendicatore e l'inchiesta catartica.

Il quadro sarebbe però incompleto se si trascurasse quel che più conta, la moderna originalità del Berlusconi IV (novità che la miopia autoreferenziale di opposizione e magistratura neppure sembra scorgere). Oggi il bersaglio del signore di Arcore (impunito per legge) non concerne più la magistratura (avversario secondario), ma lo stesso sistema di legalità (obiettivo primario). Non l'ordine o il potere giudiziario, ma le leggi, quella "formulazione generale e astratta che distingue le leggi da ogni altra manifestazione di volontà dello Stato". Berlusconi rivendica la legittimità del suo comando e non vuole che esso sia determinato dalle norme, ma lo esige orientato dalla necessità concreta, dallo stato delle cose, dalla forza della situazione. Vuole dare un taglio netto alle "dispute avvocatesche" che accompagnano lo Stato dove i giudici interpretano la legge. Vuole liquidare "le discussioni senza fine" dello Stato legislativo-parlamentare. Vuole e pretende una decisione eseguita con prontezza senza che né i giudici né il Parlamento ci mettano il becco.

Questa è la "partita" che vede la magistratura e il riformismo democratico confusi nel difendere forme, identità e routine che le mosse di Berlusconi spingono costantemente in fuori gioco. Converrà allora abbandonare l'idea di discutere e dividersi per una riforma della giustizia che non ci sarà per il momento (ci saranno soltanto maligne e pericolose modifiche di procedure e codici). È più utile rendersi presto "presentabili" per difendere con qualche prestigio dinanzi all'opinione pubblica un'architettura dello Stato dove ""legittimo" e "autorità" valgono solo come espressione della legalità".

Il riformismo democratico ha molto lavoro, e doloroso, davanti a sé. È ferito, in qualche caso sfigurato, dalle collusioni con il malaffare, dal clientelismo, dall'avidità, da "sistemi di potere" chiusi e inaccessibili. Non riesce a prendere atto, anche nei sindaci più integri come Domenici e Iervolino, che la sconfitta dell'etica pubblica nelle loro amministrazioni è un fallimento politico e quindi una loro diretta, esclusiva responsabilità di cui devono dar conto. Prima che affare dei giudici, quella caduta è uno sfregio alla fiducia ottenuta dagli elettori. Le proteste per la propria, personale correttezza non gliela restituirà e non la restituirà al centro-sinistra. La discussione severa nel campo dei riformisti dovrà ricordare allora che non può esserci autorità al di fuori di legalità.
Soltanto il rispetto della legalità può rendere legittimo e autorevole il comando a meno di non volersi incamminare lungo la strada aperta da Berlusconi.

La magistratura si muove nello stesso angolo stretto. Così ubriaca di se stessa da non accorgersi di ballare su un Titanic prossimo alla catastrofe, in alcune agguerrite falangi, inalbera le prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza come se fossero un lasciapassare per l'irresponsabilità. La magistratura deve mostrare di essere in grado di rimuovere, con i propri poteri amministrativi, le toghe sporche, le toghe immature, le toghe oziose, le toghe incapaci, gli inetti volenterosi, i vanitosi cacciatori di titoli. "La ricreazione è finita", è stato detto sabato scorso al Csm durante le audizioni dei capi degli uffici di Salerno e Catanzaro. "La ricreazione" deve finire davvero, se la giustizia vuole essere ancora custode e garante del diritto in uno Stato giurisdizionale.

Soltanto questo doppio esame critico consentirà di affrontare, quando sarà, una riforma della giustizia che abbia non soltanto un uomo al comando, con i numeri insuperabili delle sue truppe, ma almeno un protagonista politico (il Pd) e un attore istituzionale (la magistratura) che possono far pesare nel Paese la loro credibilità, un indiscusso credito. Non è molto, ma è la sola moneta che si può spendere oggi.

(9 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Il Cavaliere vuole controllare i pm così i cittadini saranno meno liberi
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2008, 11:01:03 am
Intervista a Giuseppe Cascini, segretario dell'Associazione nazionale magistrati

"La separazione delle carriere è un'ossessione, ma non risolve i problemi"

"Il Cavaliere vuole controllare i pm così i cittadini saranno meno liberi"

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
GIUSEPPE Cascini è il segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati. Legge con attenzione le notizie d'agenzia che danno conto dell'annuncio di Berlusconi. Riforma costituzionale e separazione del pubblico ministero dall'ordine giudiziario anche a costo di voltare le spalle agli inviti alla collaborazione e alla condivisione più volte avanzati dal presidente della Repubblica.

Dunque, il governo va verso la riscrittura del Titolo IV della Costituzione. Qual è il suo giudizio?
"La separazione della magistratura giudicante da quella requirente mi sembra soltanto un'ossessione che Berlusconi sventola a ogni occasione come panacea per tutti i mali della giustizia. E' il frutto di una semplificazione puramente propagandistica di un problema, al contrario, molto serio. Le voglio dire di più. Questa storia del pubblico ministero che deve dare del "lei" al giudice o prendere appuntamento e attendere il suo turno è soltanto folklore".

Non è folklore la ragione che, in apparenza, convince Berlusconi a separare le carriere o gli ordini, come gli piace dire. Il processo, sostiene, è squilibrato a favore dell'accusa.
"La parità delle parti nel processo è garantita dagli strumenti processuali che oggi in Italia, più che in ogni altro paese europeo, assicurano una forte imparzialità dell'organo giudicante. E d'altronde una parità ordinamentale è irrealizzabile".

Perché è irrealizzabile?
"Perché l'organo dell'accusa dovrà essere necessariamente, e sempre, un funzionario pubblico mentre l'avvocato è un libero professionista legato all'interesse privato del suo assistito. A meno che Berlusconi non voglia "privatizzare" l'interesse rappresentato dalla pubblica accusa. Chiunque comprende che, in questo caso, saremmo alle prese con una forte riduzione delle garanzie di libertà dei cittadini. Permetta ora di fare a me una domanda e una proposta: ma è proprio vero che i giudici non sono imparziali, che sono sottomessi alle pretese dei pubblici ministeri? Perché il ministro Alfano non offre all'opinione pubblica dei dati su cui riflettere e discutere? Perché non ci dice quante sono, in percentuale, le assoluzioni decise in dibattimento; le ordinanze dei gip contrarie alle richieste del pubblico ministero; gli annullamenti del tribunale del riesame? Siamo convinti che questi dati documenterebbero l'alto grado di imparzialità della magistratura giudicante e la vitalità della dialettica e del controllo processuale".

Che cosa cambia o può cambiare, a suo avviso, con la separazione degli ordini, con il pubblico ministero separato dal giudice?
"Innanzitutto si impoveriscono radicalmente le garanzie di libertà. Avremo un corpo autonomo di funzionari dello Stato, estraneo alla cultura della giurisdizione che è poi consapevolezza del diritto del cittadino. Si formerà un corpo di mille pubblici ministeri che si autogovernano con un proprio Consiglio superiore. Nascerà un centro di potere che deve inquietare. Avrà a disposizione il monopolio dell'azione penale, la direzione della polizia giudiziaria, la libertà e la reputazione dei cittadini. E la possibilità di governarsi in modo indipendente. Mi chiedo quanto tempo sarà necessario perché si ponga, con molte ragioni, la questione di chi debba controllare questa microcorporazione, questo centro di potere? Sarà una domanda che porterà il pubblico ministero diritto nell'orbita dell'esecutivo, alle dipendenze del governo. In fondo, mi pare che questo sia il frutto avvelenato dell'iniziativa del presidente del Consiglio".

La magistratura come replicherà, se replicherà?
"Noi possiamo soltanto denunciare all'opinione pubblica che queste riforme vanno contro l'interesse dei cittadini. Ricorderemo che queste questioni - ripeto, folkloristiche, propagandistiche, semplificatorie - lasciano irrisolti i problemi reali della sistema penale italiano".

Che appare molto malato, però.
"Certo, che è malato, chiunque lo vede. Ma qual è la malattia? Noi crediamo che sia malato dell'inefficacia della pena, dell'irrazionalità di un sistema sanzionatorio che punisce, con rigore, gli autori di reati minori diventando indulgente o lassista anche di fronte a fatti gravissimi. Si va in galera per tre furti di mele in un supermercato e agli arresti domiciliari o in affidamento in prova per una rapina a mano armata. Voglio farle ancora un esempio. Il ministro Tremonti ha detto recentemente che i banchieri che hanno responsabilità nella crisi finanziaria o vanno a casa o in galera. Mente. Un banchiere può andare dall'avvocato e dire che ha venduto ai suoi clienti-risparmiatori dei pessimi bond; di aver falsificato i bilanci della banca; di aver preso denaro da faccendieri in cambio dell'apertura di linee di credito senza tetto e garanzie. Quel banchiere può chiedere all'avvocato quanto rischia e si sentirà rispondere che l'unico pericolo che dovrà affrontare non sarà una condanna o il carcere, ma soltanto la parcella dell'avvocato. Il governo dovrebbe spiegare ai cittadini perché non rende funzionale il servizio giustizia e si occupa soltanto dei magistrati. Noi lo faremo".

Ammetterà che la magistratura ci ha messo del suo nel precipitare di una crisi che, con il conflitto tra le procura di Salerno e Catanzaro, ha mostrato un ordine giudiziario non sempre in grado di vivere con responsabilità l'autonomia e l'indipendenza che gli garantisce la Costituzione. Le chiedo: come è possibile che due procuratori così palesemente inadeguati siano stati ritenuti capaci di dirigere un ufficio giudiziario? Quanto pesano, per le nomine, i compromessi tra le correnti? E perché questi compromessi premiano non sempre i migliori, ma a volte promuovono i peggiori?
"Sicuramente le difficoltà del sistema di autogoverno sono legate a logiche di appartenenza, a una visione di difesa corporativa che per troppi anni ha orientato le scelte del Consiglio superiore. Tuttavia non va sottovalutato l'inversione di rotta che questo Csm ha realizzato sui temi della professionalità con politiche addirittura rivoluzionarie: la temporaneità degli incarichi direttivi; l'abolizione del criterio dell'anzianità senza demerito; verifiche periodiche, serie e rigorose di professionalità ed efficienza. C'è bisogno di tempo per vedere i frutti di quel che il Consiglio sta seminando".

Non sarebbe, a questo punto, un gesto coraggioso sciogliere le correnti dell'Associazione magistrati e quindi del Csm? Si fa fatica oggi a capire l'ostinazione di tenere in piedi orientamenti culturali diversi o fazioni diverse quando, come dimostra la sortita di Berlusconi, la questione è soltanto una e vi vede tutti d'accordo: la difesa del Titolo IV della Costituzione, la soggezione dei giudici soltanto alla legge, l'autonomia e l'indipendenza della magistratura da ogni altro potere?
"Il pluralismo culturale della magistratura è stato ed è un valore ineliminabile. E' un patrimonio storico della cultura giuridica del nostro paese al quale sarebbe impensabile rinunciare. Deve essere chiaro, però, che, nella gestione del sistema di autogoverno, le correnti devono fare un passo indietro. Deve essere escluso ogni peso delle logiche di appartenenza o di spartizione correntizia. Non possiamo nascondere che questo è avvenuto e che lo sforzo di privilegiare il merito e la professionalità, fatto in questi anni, è l'unica risposta per rendere credibile e affidabile la magistratura, concrete quelle prerogative costituzionali che oggi ci appaiono minacciate dalle politiche del governo".

(11 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Zagrebelsky: "Correnti e autonomia mal gestita, errori dei giudici"
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 11:44:27 am
Zagrebelsky: "Correnti e autonomia mal gestita, errori dei giudici"

"Spero ci si renda conto che sono in gioco le garanzie fondamentali"

"La Carta non è strumento di potere così Berlusconi torna a Cromwell"


di GIUSEPPE D'AVANZO


A Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente emerito della Corte costituzionale, Repubblica chiede di riflettere ad alta voce sul significato e il valore dell'annuncio di Silvio Berlusconi: il premier vuole riformare, con la sua sola maggioranza, il Consiglio superiore della magistratura; separare in due diversi ordini la magistratura giudicante dalla requirente (i pubblici ministeri); un referendum popolare dovrebbe poi confermare entro tre mesi il disegno.

"Prima di discutere il merito - dice Zagrebelsky - qualcosa va detto sulle riforme mancate, sulle colpe, le responsabilità dei riformatori finora mancati. Mi definisco un conservatore costituzionale. Penso che il lavoro compiuto all'inizio di un ciclo politico sia sempre più apprezzabile, migliore, di un'attività in corso d'opera. E tuttavia non è che non veda come un grave deficit non aver adeguato i meccanismi di garanzia della Costituzione alle trasformazioni del sistema politico. Ne è un esempio proprio l'articolo 138...".

L'art. 138 della Costituzione regola le leggi di revisione della Costituzione.
"Appunto, l'art. 138 prevede che le riforme costituzionali debbano essere approvate con un ampio consenso raccogliendo il voto della maggioranza e di una parte dell'opposizione".

Qual era il significato di questo consenso qualificato?
"Che la Costituzione, la sua manutenzione, le sue modifiche non dovessero essere appannaggio della pura maggioranza. Poi però le leggi elettorali hanno cambiato il sistema politico, polarizzandolo su due sponde e ora chi ha il sopravvento nella competizione elettorale e conquista la maggioranza si fa da sé le riforme costituzionali".

Salvo poi sottoporle a referendum popolare, come ha ricordato Berlusconi.
"Berlusconi ha fatto un discorso piano. Prende atto della disciplina costituzionale, si fa votare la sua riforma con la maggioranza che il sistema elettorale attuale gli ha dato, chiede al referendum l'approvazione definitiva. Anche se ineccepibile, però, questo metodo cambia profondamente l'essenza stessa della Costituzione".

Perché, se quel metodo è previsto dalla stessa Costituzione?
"Perché ci sono due nozioni di Costituzione. La prima considera la Costituzione come strumento di chi governa. Per Cromwell, la Costituzione, è appunto Instrument of Government. Siamo qui alla presenza di Platone, Aristotele, Hobbes, Schmitt. Per venire al presente o al passato prossimo, non c'è in Sud America vincitore di elezioni, capo-popolo o colonnello, che non abbia e annunci un suo progetto costituzionale: è lo strumento di cui intende servirsi per esercitare il potere".

Qual è la seconda nozione?
"E' la nostra. Qui il riferimento è John Locke. La Costituzione è inclusiva. Non è scritta da chi vince contro gli sconfitti. La Costituzione non si occupa di chi sia il vincitore. Scrive principi per tutti, garantisce i diritti di tutti. Noi siamo figli di questo costituzionalismo. La nostra Carta fondamentale è nata con la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo delle Nazioni Unite del 1948, con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà del 1950. La Costituzione italiana si colloca in questa tradizione. E' nata per essere inclusiva, per valere per tutti. Non è uno strumento di potere ma di garanzia contro gli abusi del potere. Berlusconi invece vuole fare il Cromwell. Può essere ancora più chiaro se ritorniamo al 138. Quell'articolo prevede che anche un accordo politico ampio possa essere bocciato da una minoranza del corpo elettorale. Come si sa, il referendum costituzionale non ha il quorum e, se vanno a votare il 20 per cento degli italiani, l'11 per cento può bocciare la nuova legge. Il progetto di Berlusconi capovolge questa logica. Non riconosce al referendum un potere distruttivo, ma pretende che sia confermativo della riforma votata soltanto dalla coalizione di governo. Diciamo che la manovra, di tipo demagogico, manomette la Costituzione, annullando lo spirito di convivenza che la sostiene, e la trasforma in strumento di governo, in strumento di potere".

Si può dire che la riforma annunciata non fa che accentuare quella "china costituzionale" di cui lei spesso ha scritto: indifferenza per l'universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per la dialettica parlamentare, per la legalità.
"Sì. Un regime liberale-democratico adotta come principio ciò che dice l'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789: "Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione". Una Costituzione che diventa strumento di potere contraddice la separazione dei poteri. E' quel che sta accadendo. Abbiamo già un Parlamento impotente dinanzi a un governo che impone le sue scelte con il voto di fiducia. Ora è il turno della magistratura".

Lei condivide la previsione che la separazione del pubblico ministero dal giudice anticipa la sottomissione della magistratura requirente all'esecutivo?
"Ci sono molti aspetti discutibili nella divisione del Consiglio superiore della magistratura in due, ma uno è chiaro fin d'ora. Se un pubblico ministero non è un magistrato a pieno titolo, che cos'è se non un funzionario dell'esecutivo? E evidente allora che, secondo logica, quel funzionario dovrà dipendere da un'autorità di governo, così pregiudicando l'indipendenza della funzione giudiziaria e cancellando la separazione dei poteri. Mi chiedo: che bisogno c'è?".

E' inutile nascondersi che è lo spettacolo offerto dalla magistratura, con il conflitto tra due procure, ad aprire spazi a questi progetti di riforma.
"Lo spettacolo è sgradevole e la situazione in cui versa la magistratura italiana è certamente insoddisfacente. Ma mi chiedo: le proposte che si avanzano eliminano le difficoltà e i difetti o li aggravano?".

Qual è la sua opinione?
"Per quel che ho letto, dalle inchieste di Catanzaro sono emersi collegamenti della magistratura con ambienti politici, finanziari, malavitosi. La soluzione che propone il governo - l'attrazione del pubblico ministero nell'area della politica governativa - rafforza quei legami e non elimina quindi le cause delle disfunzioni, mentre bisognerebbe lavorare per rendere effettiva l'autonomia della magistratura dai poteri economici, amministrativi, politici e, naturalmente, criminali. Il disegno di riforma, codificando una dipendenza, avrà un solo effetto: eliminerà la notizia di quei legami, non la loro esistenza. Continueranno a esserci, ma non si vedranno".

Quali sono le responsabilità della magistratura in questa crisi?
"Il sistema costituzionale assegna alla magistratura il massimo dell'indipendenza e non sempre questa posizione è stata usata con la responsabilità necessaria. Se le cose funzionano, il merito è della magistratura. Se non funzionano, bisogna dirlo, è della magistratura il demerito".

Quali sono le ragioni o le prassi o le convinzioni che inceppano l'autogoverno della magistratura?
"Non c'è dubbio che la formazione di correnti, che all'inizio è stata favorita da un confronto culturale (culturale era il dibattito su come si dovesse interpretare la Costituzione), ha finito per diventare strumento di promozione e di carriera. E' una degenerazione. Se non hai una corrente alla spalle non assurgi a un incarico direttivo. Solo una corrente può proteggerti quando verrai giudicato per i tuoi errori. Mi sembra che l'autonomia non sia stata gestita nel senso per il quale è stata prevista".

Forse anche per questo è largo il consenso per una riforma.
"Ci sono le istituzioni e gli uomini. La migliore Costituzione può essere corrotta da uomini mediocri. Una mediocre Costituzione può funzionare bene con uomini capaci. Credo che la magistratura debba fare un severo esame su se stessa. Se il sistema non funziona, non ne porta anch'essa la responsabilità?".

Lei crede che questa riforma costituzionale alla fine si farà davvero?
"Si può sperare che nella maggioranza ci sia qualcuno che si renda conto della delicatezza delle questioni. Sono in gioco le garanzie, i diritti, i principi e l'eguaglianza del cittadino di fronte alle legge. Perché se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica. Mi appare incredibile che si vada avanti su una strada così pericolosa e non ci siano voci responsabili che denuncino il pericolo, anche all'interno della maggioranza".

Se il governo, come dice Berlusconi, tirasse diritto...
"Siamo in una situazione tristissima. Penso che occorra far breccia nelle convinzioni collettive, spiegare all'opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all'altro secoli di storia e di valori civili".

(12 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Romeo e i suoi vassalli così Napoli si è inchinata agli affari
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 10:40:21 am
L'imprenditore padrone della città con il pieno controllo su assunzioni, appalti e delibere

Non è più la politica a imporre il prezzo della corruzione all'impresa ma il contrario

Il sultano Romeo e i suoi vassalli così Napoli si è inchinata agli affari

di GIUSEPPE D'AVANZO


NON C'È alcun "interesse pubblico" in questa storia nera. Come se fosse morto. Come se, nell'esercizio di "pubbliche funzioni" e di "pubblici poteri", fosse deperita la più elementare nozione - e distrutta anche soltanto l'ombra - di "servizio al bene collettivo". Nella rete di assessori, consiglieri comunali, provinciali, regionali, parlamentari, magistrati penali e amministravi, tecnici comunali, professionisti, burocrati ministeriali - in questo "sistema" apparecchiato da Alfredo Romeo esistono soltanto le cose nostre. "Dobbiamo parlare delle cose nostre...". "Quella cosa nostra come sta andando...". "C'interessano soltanto le cose nostre...". "Dacci uno sguardo a quella cosa nostra...".

Alfredo Romeo si autodefinisce "leader del mercato immobiliare". Gestisce, in appalto, un patrimonio pubblico di 48 miliardi tra Napoli, Milano, Venezia. Tiene d'occhio (si legge nelle carte) Roma e Firenze. Ficca il naso a Bari. È, dicono i pubblici ministeri, "lo scrittore, lo sceneggiatore, il regista, l'attore, il protagonista e il beneficiario finale" di un "sistema" elementare, come un do ut des.

Sgomina la concorrenza, quando si affaccia perché si fa consegnare i documenti della gara, li corregge, li riscrive mentre i suoi "pupazzi" si preoccupano di farli approvare.

E' una scena che capovolge tutte le convinzioni sul morbo italico della corruzione. Il tableau napoletano racconta che non è più la politica a imporre il prezzo della corruzione all'impresa. E' l'impresa che ingaggia la politica, la crea dal niente, la coccola, la indirizza, ne fissa gli obiettivi e i programmi, la corrompe, se ne appropria come fosse una cosa sua. I politici appaiono miserabili figurine nelle mani dell'imprenditore. Lo assecondano in ogni ambizione e desiderio; sgomitano tra di loro "come in ogni harem che si rispetti", esagerano i pubblici ministeri, per diventare "il favorito del sultano".

Il "sultano", chiamiamolo così, è generoso. Assume amici, mogli, figli, parenti prossimi. Quando non assume, allarga i cordoni della borsa magari con una consulenza o con un contratto assicurativo. Si lascia indicare di buon grado ditte a cui affidare un subappalto. In qualche caso, affiora "denaro sonante", ma la vera posta è un'altra: fare di un consigliere circoscrizionale un consigliere comunale. Di un consigliere comunale, un parlamentare. Di un parlamentare, un sottosegretario da governare come un burattino. La politica diventa lo "strumento attuativo" dei progetti dell'impresa, soltanto la funzione servente e sottordinata delle mire dell'imprenditore.

E' il quattro aprile del 2007, il centro sinistra è al governo. Giorgio Nugnes (l'assessore di Napoli suicida) chiama Romeo.

Nugnes. "Mi ha chiamato Renzo (è Renzo Lusetti, all'epoca parlamentare della Margherita e segretario di presidenza della camera dei deputati) per vederci con Rutelli circa il congresso cosi... Lui si rende conto. Dice: "Sarebbe utile che tu ci venissi a dare una mano a Roma". Perché, giustamente, l'ho fatto riflettere: con 4 ministri, vicepresidente del consiglio e il segretario del partito, insomma, questi si sono fatti scippare il partito da sotto. Insomma a stento arrivano al 30 per cento".

Romeo. "Con Renzo ci ho parlato anch'io. Ti ha fatto anche i complimenti, abbiamo confrontato questa cosa tua che stai facendo su Napoli... e lui spesso mi ha detto: "Dobbiamo parlare con Francesco"".

Nugnes. "... Preferisco questo percorso qua anziché buttarmi in mezzo alle Regionali. Se devo fare l'amministratore non mi posso mettere a fare i voti per la Regione insomma. Ti pare?".

Romeo. "Va bene, io ho appuntamento telefonico con lui stasera, mi deve far sapere una cosa...".

Il "sultano" dirà di aver presentato Nugnes a Rutelli. Di averlo definito "un "giovane di qualità" che lo stava "aiutando" su Napoli e che, a differenza del sindaco, si era mostrato "disponibile" nei suoi confronti". E' quasi una lasciapassare per un salto nella carriera dell'assessore. Altri bussano alla porta di Romeo disponibili a prendere ordini come Nugnes. Che, nelle lunghe conversazioni con Romeo, indica le gare di appalto disponibili. Si lascia dire che cosa deve dire, come dirlo, quando dirlo. Si lascia preparare e correggere dai tecnici della Global Service di Romeo gli atti amministrativi e le delibere. Rimuove gli intoppi in giunta e in consiglio e, quando l'opposizione rumoreggia o si fa testarda, avverte "il sultano". Che si mette al lavoro sull'altra sponda politica.

Romeo chiama Italo Bocchino e il vice-presidente dei deputati del Partito delle libertà (oggi) si lascia addottrinare, come uno scolaretto, sulle decisioni del Consiglio d'Europa utili, le sentenze del Consiglio di Stato decisive, le mosse aggressive dei Costruttori (sono i competitori di Romeo). Poi, è Bocchino a muovere i suoi fanti inconsapevoli (non tutti). Convoca i consiglieri di Alleanza nazionale. Li convince a ritirare gli emendamenti che ostacolano l'appalto e poi addirittura a lasciare l'aula. Soddisfatto del suo lavoro, Bocchino commenta con Romeo: "Alfredo, siano una cosa consolidata, una cosa solida, un sodalizio...". Il rapporto è cosi stretto che Bocchino si dà da fare per convincere un chef (l'apprezzatissimo Gennarino Esposito della Torre del Saraceno di Vico Equense) a lavorare nell'hotel a cinque stelle luxury di Romeo.

Il legaccio è così serrato che a Bocchino importa niente che l'altro penda per il centro-sinistra. "Organizzo una colazione con Gianfranco (Fini)...". Lo invita alle grandi manifestazioni di An. Gli ricorda "i saluti di Andrea Ronchi (oggi ministro)...". Gli annuncia le mosse di Fini: "... viene a trovarlo Aznar, poi verrà Sarkozy dopo che sarà eletto...". Romeo, dopo, lo lusinga: "... Fini ha fatto un figurone enorme...". Bocchino: "Madonna, ha fatto una bella cosa oggi con Aznar...".

Bocchino, Lusetti. Di qua e di là. Il bipolarismo diventa una farsa. Qualsiasi cosa succeda al vertice della piramide politica, Romeo ha il suo uomo, dice il giudice, ma la spalla più solida, il burattino più reattivo, spregiudicato, operoso è il Lusetti. Il "sultano" lo manovra a piacimento (sembra). Quando non rende come dovrebbe, Romeo lo rimprovera. Mica soltanto sulle "cose loro", anche sulle cose che dovrebbero essere soltanto della politica. I congressi, ad esempio. Il "sultano" vuole allungare le mani a Firenze e a Bari. Gli equilibri politici devono essere coerenti alle sue ambizioni (quadri politici obbedienti) e Lusetti, quello sventurato, perde i congressi cittadini invece. A Romeo salta la mosca al naso e lo dice all'altro a muso duro.

Romeo. "Mi hai bruciato il congresso a Firenze... mi hai bruciato il congresso a Bari... tutti i congressi fino adesso me li hai fatti perdere tutti... mo' cambio partito e mi metto con i Ds (è il 3 maggio 2007)".

Lusetti. "Con i Ds hai più fortuna... hai capito che i Ds sono più bravi di noi...".

Forse celiano. Si mettono subito al lavoro su "una questione di vita o di morte". La "Romeo Gestioni" ha una controversia con la "Manital" per la gestione dei servizi integrati del patrimonio stradale del comune di Roma. Decide il Consiglio di Stato. Lusetti deve intervenire. Conosce l'uomo giusto. E' Paolo Troiano, segretario generale per il Consiglio di Stato e dal 2005 al settembre del 2007, vice segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri.

Lusetti. "C'ho un incontro operativo alle otto, direttamente con il grande capo e parliamo di tutto. Capito?".

"Conversazioni di questo tipo - scrivono i pubblici ministeri - lasciano comprendere in pieno lo spessore del potere di Romeo" perché l'operazione va in porto. Il Consiglio di Stato capovolge a favore della "Romeo Gestioni" la decisione del Tar del Lazio che aveva accolto il ricorso della "Manital" annullando i provvedimenti comunali di aggiudicazione alla Romeo del ricco appalto per la gestione del patrimonio stradale del comune di Roma.

Romeo chiede a Lusetti anche di "metter a posto" chi, nel partito, non guarda nella sua direzione con la necessaria attenzione. Antonio Polito (oggi direttore de il Riformista, nel marzo 2007 senatore della Margherita e segretario del partito a Napoli) lo ha tagliato fuori da un appalto cospicuo ("... mi hanno escluso perché c'era un suo amico... hanno fatto un po' una pastetta").

Lusetti è pronto a fare la faccia feroce. "Se vuoi blocco tutto, eh!".

Romeo. "No, non bloccare. Lascia stare, povero cristo! Però gli va fatta pesare la cosa!".

Scrivono i pubblici ministeri che "il "sistema" è così drogato" che non sono le imprese a conformare le proprie caratteristiche ai metodi e agli schemi della gara, ma sono le gare, le prassi, i procedimenti, i singoli atti a essere modellati "a misura" delle caratteristiche tecniche delle imprese di Romeo "al fine di consentirgli l'aggiudicazione degli appalti milionari".

Un assoluto campione di questo lavoro sporco appare Giuseppe Gambale, addirittura il magniloquente assessore "all'educazione, trasparenza, legalità pubblica, istruzione edilizia scolastica, diritto allo studio, tutela del cittadino dal racket e dall'usura".

Il racketeer è lui, Gambale, dice il giudice. L'assessore progetta un piano. Centralizzare nelle sue mani l'appalto delle mense scolastiche e consegnarlo all'Ati, una delle imprese di Romeo. E' entusiasta come un bambino della sua idea. Così infervorato che Romeo lo invita alla prudenza. Gli dice di non sbilanciarsi troppo con chi non è del giro, a cominciare dal sindaco Rosa Russo Jervolino. Gambale non se ne preoccupa perché ha già intrappolata quell'ingenua che non si avvede di nuotare in una vasca di piranhas.

Gambale. "... ma con il sindaco ho parlato. E' molto contenta. Io poi sono stato un po' criptico. Lei mi ha detto che (il progetto) poteva essere un modello di decentramento...".

Romeo. "Ma lei non ha capito che c'ha degli assessori intelligenti...".

Gambale. "... Ma quella è scema completa. Non si rende contro...".

Gambale convocherà i presidenti della municipalità. Li convincerà ad affidare alle sue mani i loro poteri decisori per la refezione e la manutenzione delle scuole. Quelli firmano anche un documento d'intesa.

Anche Gambale, come Nugnes, è una creatura che attende l'ingresso nel grande giro della politica nazionale. Per meritarsi un'opportunità offre altri politici al potere di Romeo, il presidente di una municipalità e - boccone ghiotto - Pasquale Sommese, oggi vicesegretario provinciale del Pd.

Gambale. "Alle cinque e mezza in punto sono da te. Vengo in compagnia..."

Romeo. "Che incarico ha, questo qui".

Gambale. "Tranquillo, va bene... E' il consigliere regionale più votato e in questo momento (marzo 2007) ha in mano il partito provinciale a Napoli, è persona a me molto vicina, sostiene Ciriaco (De Mita)...".

Romeo. "Lui lo sa che io sono amico del grande vecchio...".

Romeo non si fida. Vuole che sia il "grande vecchio" a rendere affidabile Sommesse, anche in vista del solito congresso. Gambale fa quel che deve. Ne parla con De Mita.

Gambale. "E' stato gradito...".

Romeo. "Quindi il vecchio ha dato l'autorizzazione a prendere contatti, fare la presentazione...".

"Con questi metodi, Romeo ha letteralmente in pugno la città di Napoli", è la conclusione del pubblico ministero. Il "sultano" aveva già avuto simbolicamente "le chiavi della città" da chi ha voluto dimenticare le sue condanne per corruzione degli anni novanta. Come gli interessi pubblici, la memoria deperisce presto in questa disgraziata città.

(18 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il silenzio delle sentinelle
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2008, 10:27:47 am
IL COMMENTO

Il silenzio delle sentinelle

di GIUSEPPE D'AVANZO


Dovremmo aver imparato in questi quindici anni che, nonostante l'abitudine alla menzogna, Berlusconi non nasconde mai i suoi appetiti.
Il sermone di fine anno ci ricorda che la sua bulimia non conosce argini.

Vuole il presidenzialismo come il compimento della sua biografia personale. Non si accontenta di avere in pugno due poteri su tre. Dopo aver asservito il Parlamento al governo, pretende ora che evapori l'autonomia della magistratura. Dice che la riforma della giustizia è pronta e sarà battezzata al primo Consiglio dei ministri del 2009. Anticipa quel che ci sarà scritto: i pubblici ministeri se le scordino le indagini. Diventeranno lavoro esclusivo delle polizie subalterne al ministro dell'Interno, quindi affar suo che governa in nome del popolo. I pubblici ministeri, ammonisce, diventeranno soltanto "avvocati dell'accusa". Andranno in aula "con il cappello in mano" davanti al giudice a rappresentare come notai, o come burocrati più o meno sapienti, le ragioni del poliziotto. Dunque, del governo. Con un colpo solo, si liquidano l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 della Costituzione, "Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge"); l'indipendenza della magistratura (art. 104, "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"); l'unicità dell'ordine giudiziario (art. 107, "I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni"); l'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale"); la dipendenza della polizia giudiziaria dal pm (art. 109, "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria").

Soltanto un effetto autoinibitorio può impedire di udire, nelle "novità" di Berlusconi, una vibrazione conosciuta e cupissima. Anche a rischio di indispettire il suo alleato decisivo (Bossi), il mago di Arcore rimuove ? per il momento ? il federalismo dalle priorità del 2009 per rilanciare il castigo delle toghe e la nascita della repubblica presidenziale. Sarà un gaffeur o un arrogante, sarà per ingenuità o per superbia, Berlusconi propone la necessità di una riforma costituzionale con le stesse parole - e per le stesse ragioni - di Licio Gelli. Se non lo si ricorda, davvero "le memorie deperiscono e i fatti fluttuano", come ripete nel deserto Franco Cordero.

Appena il 4 dicembre il "maestro venerabile" della P2, intervistato da Klaus Davi, ha detto: "Nel mio piano di rinascita prevedevo la creazione di una repubblica presidenziale, perché dà più responsabilità e potere a chi guida il Paese, cosa che nella repubblica parlamentare manca". Berlusconi, 20 dicembre: "Sono convinto che il presidenzialismo sia la formula costituzionale che può portare al migliore risultato per il governo del paese. L'architettura attuale non permette di prendere decisioni tempestive e non dà poteri al premier".

Fa venire freddo alle ossa il farfuglio dell'opposizione di fronte a questo funesto programma da realizzare presto (si annotano soltanto parole che dicono d'altro). E' un silenzio che lascia temere o lo stato confusionale di opposizioni ormai assuefatte al peggio o un'altra letale tentazione di quella commedia bicamerale che, senza sfiorare il conflitto di interessi, concesse al mago di Arcore l'impero mediatico e, in nome del primato della politica sulla giustizia, la vendetta sulla magistratura. Dio non voglia che, con il prepotente ritorno al proscenio di qualche campione di quel tempo, la stagione si rinnovi. In una giornata di sconcerto, sono così un balsamo le parole di Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione e dello Stato poi fattosi monaco (le ha ricordate ieri Filippo Ceccarelli). Vale la pena tornarci ancora su.

In memoria del suo grande amico Giuseppe Lazzati, e in coincidenza della prima vittoria delle destre, Dossetti pronuncia un discorso famoso. Il titolo lo ricava da un salmo di Isaia (21,11) "Sentinella, quanto resta della notte?". In quei giorni del 1994, egli vede affiorare un male diagnosticato con molti anni di anticipo: la supremazia di una concezione individualistica, in cui il diritto costituzionale regredisce a diritto commerciale (il primato del contratto, l'eclissi del patto di fedeltà); il dissolversi di ogni legame comunitario, mascherato dietro l'appello al "federalismo" (il "politico" diventa pura contrattazione economica); il rifiuto esplicito di una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune (la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole sino alla riduzione al singolo individuo). Non si può sperare, dice Dossetti e parla ai cattolici, che si possa uscire dalla "nostra notte" "rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell'attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (la politica familiare, la politica scolastica)".

Dossetti non nega la necessità di cambiamenti. Elenca: riforma della pubblica amministrazione; contrasto alle degenerazioni dello Stato sociale; lotta alla criminalità organizzata; valorizzazione della piccola e media imprenditoria; riforma del bicameralismo; promozione delle autonomie locali. Teme però riforme costituzionali ispirate da uno "spirito di sopraffazione e di rapina". "C'è ? avverte ? una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Questa soglia sarebbe oltrepassata da ogni modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione. E così va pure ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell'equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per l'avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell'esecutivo ai danni del legislativo ancorché fosse realizzato attraverso referendum che potrebbero trasformarsi in forma di plebiscito".

I referendum, segnati da "una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore", possono trasformarsi infatti "da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria". Il "padre costituente" denuncia senza sofismi quel che vede dietro la "trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica". Vede la nascita, "attraverso la manipolazione mediatica dell'opinione", di "un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea". Dossetti chiede allora ai cristiani di "riconoscere la notte per notte" e di opporre "un rifiuto cristiano" ritenendo che "non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa".

Nessuna trattativa. Per trovare queste parole che aiutano a sperare ancora in una via diurna, si deve ricordare Dossetti. Dove sono le "sentinelle" a cui si può chiedere oggi: "Quanto resta della notte"?


(22 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Gli occhi del governo su polizia e pm
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 05:27:40 pm
IL CASO.

Protocollo d'intesa tra Brunetta e Alfano, il progetto partirà nei prossimi giorni

Sarà creata una centrale al ministero per indagini e processi, al momento senza regolamenti

Gli occhi del governo su polizia e pm

di GIUSEPPE D'AVANZO


CI sono molti modi per dare avvio a una riforma della giustizia. La si può discutere in pubblico come accade ancora in questi giorni o inaugurare in silenzio nuovi, possibili controlli del governo sull'ordine giudiziario a dispetto di ogni autonomia e indipendenza togata. Si manipola qualche inciso nei codici, si sposta una virgola di un articolo di legge e il pubblico ministero può perdere la direzione delle indagini e della polizia giudiziaria (lo si è già visto). O - nome di una necessaria rivoluzione tecnologica - si possono sottrarre addirittura la "proprietà" e le informazioni dei fascicoli processuali al pubblico ministero e al giudice delle indagini preliminari.

È quel che può avvenire, nei prossimi giorni, quando entrerà nella sua fase di sperimentazione (nel primo trimestre a Napoli, nel secondo a Nola e Torre Annunziata, entro il quarto a Milano e Monza) il protocollo d'intesa firmato il 26 novembre 2008 tra il ministro per l'innovazione (Renato Brunetta) e della giustizia (Angelino Alfano). L'articolo 7 del protocollo prevede la "trasmissione telematica delle notizie di reato tra le forze di polizia e procure della Repubblica".

"Il progetto - si legge nel documento - prevede che le forze di polizia giudiziaria redigano le notizie di reato, le digitalizzino, le trasmettano alle procure, firmate digitalmente e crittografate nell'ambito della rete privata delle forze di polizia con specifiche estensioni di rete che potranno avere anche ulteriori utilizzazioni sinergiche".

Si può così "automatizzare l'alimentazione del registro delle notizie di reato e la costituzione del fascicolo del pubblico ministero e del giudice delle indagini preliminari". I dati così raccolti potranno essere condivisi dall'intera rete delle forze di polizia che avranno accesso ai "dati di sintesi delle notizie di reato". Come? "Predisponendo una porta di dominio attestata presso il ministero della giustizia". La "porta di dominio" è una formula che appare misteriosa ai non addetti, ma non indica altro che il luogo e l'identità di chi assicura lo scambio elettronico delle informazioni.

Ricapitoliamo. Tutte le notizie di reato del paese, i fascicoli dei pubblici ministeri, le comunicazioni tra polizia giudiziaria e pubblico ministero, tra pubblico ministero e giudice delle indagini preliminari di ogni tribunale italiano e quindi le denunce, le querele, le istanze e i verbali degli interrogatori, delle perquisizioni, dei sequestri, delle sommarie informazioni assunte, degli accertamenti tecnici, delle intercettazioni saranno (a regime) interconnesse attraverso un "gestore centrale" organizzato e controllato dal ministero di giustizia che - prevede il protocollo - può concederlo a un fornitore esterno, in outsourcing. Nascerà, dunque, come spiega un addetto al progetto, "una cancelleria virtuale nazionale" al momento priva di ogni norma, disposizione o regolamento. Questa è la notizia.

Vediamone le conseguenze probabili e gli effetti possibili. Sono indubbi i benefici a vantaggio dell'efficienza del processo. La rivoluzione tecnologica consente al pubblico ministero, al giudice, alla cancelleria di formare, di comunicare e notificare gli atti con documenti informatici che viaggiano tra gli attori del processo attraverso canali telematici, come avverrà presto per il processo civile. Via archivi cartacei e i "muri" di faldoni. Azzerati gli errori di notifica che annientano i processi. Abbattuti i costi. Recuperato personale. Ridotti i tempi. L'efficienza e quindi la credibilità del processo penale non potrà che avvantaggiarsene. E' la rivoluzione necessaria che gli addetti, tutti, dagli avvocati ai magistrati, chiedono da anni. Saranno soddisfatti. Meno lo sarà - o dovrà esserlo - chi si pone questa domanda: come e chi proteggerà quella miniera di informazioni? Quanto sarà inviolabile il sistema? E' legittimo che l'intera "base dati" della giustizia italiana sia gestita non dall'amministrazione giudiziaria, cioè dalla magistratura, ma da funzionari e società private dipendenti dal governo o dalle sue decisioni?

Un addetto al progetto, nato con il governo Berlusconi 2001/2006, è disposto ad ammettere che qualche problema c'è. "I responsabili degli uffici giudiziari, i procuratori della repubblica, dovrebbero essere in grado di esercitare un controllo agevole delle misure di sicurezza, ma se le base dati sono in una farm lontana, non si può avere la possibilità di effettuare monitoraggi continui. Quale responsabile della segretezza di quelle informazioni può escludere che, lontano dal suo ufficio, venga allestito un terminale del programma per l'accesso alla lettura dei dati? La sola risposta responsabile e ragionevole è: nessuno. La sicurezza è data da misure preventive e controlli costanti. Senza controllo, non c'è misura preventiva che possa tenere. E quale controllo puoi avere se sei a centinaia di chilometri di distanza?". Per alcuni autorevoli magistrati del pubblico ministero, quest'idea di una "cancelleria virtuale nazionale", prima di essere pericolosa, è soprattutto contra legem, illegale. "Il codice di procedura penale - dice un autorevole magistrato - prevede esplicitamente e senza deroghe che ogni "notizia di reato e la documentazione relativa alle indagini siano conservati in un apposito fascicolo presso l'ufficio del pubblico ministero con gli atti trasmessi dalla polizia giudiziaria". Se dovesse nascere una cancelleria nazionale, anche se virtuale, si scipperebbe la proprietà esclusiva del fascicolo al pubblico ministero: è contro al legge". Si dice d'accordo l'addetto al progetto ministeriale: "E' vero che ogni notizia trasmessa e raccolta sarà criptata con la chiave pubblica del procuratore, ma le informazioni sono archiviate in un luogo non alle dipendenze del procuratore, ma della forza di polizia e quindi nessun efficace e reale controllo può esercitarsi sulla protezione della segretezza dell'archivio".

E' la questione cruciale, pare. Con una qualche coerenza, Berlusconi e il suo ministro non tacciono di voler trasferire l'avvio, lo sviluppo e l'esito dell'investigazione penale dalle mani del pubblico ministero alle polizie. La rivoluzione tecnologica potrebbe consentire di assicurare alle polizie, e quindi all'esecutivo, anche il controllo di tutte le informazioni, delle notizie di reato, di tutta la documentazione di ogni indagine avviata nei ventinove distretti giudiziari del paese. Un Grande Fratello della giustizia italiana, si può dire, che dovrebbe essere sconfitto o tenuto lontano soltanto dalla "chiave" con cui i procuratori della repubblica dovranno crittografare i documenti. Se si chiede ad Alberto Berretti, matematico, professore di sicurezza informatica a Tor Vergata - dunque con una familiarità con il mondo e i metodi dell'hackeraggio - se una "chiave" per crittografare i documenti può essere una protezione definitiva, si raccoglie un sorriso ironico. "Nessun sistema è sicuro.
Questo progetto del ministero di giustizia, per come me lo racconta, mi pare che faccia acqua. Innanzi tutto è pericoloso avere un solo server in un solo luogo. Se scoppia un incendio e tutto va in fumo, che succede? Si liquefa la giustizia italiana? Sono sicuro che abbiano tenuto conto di quest'eventualità e previsto due server e in due luoghi diversi, con il botto di danaro che costa, perché sicurezza significa prevedere che le cose possono anche andare male per caso. Poi il diavolo ci può mettere la coda e anche questo bisogna immaginare e la "chiave" non è la soluzione che risolve tutti i problemi. La crittografia rischia di essere una porta blindata sistemata su pareti di cartone. E' vero, è difficile rompere la porta, ma è facile aggirarla passando dalle pareti. Oggi i dvd sono cifrati, ma in rete ci sono a tonnellate di dvd craccati, per dire. E poi oggi ci sono programmi di keylogging che copiano in silenzio quanto viene scritto sulla tastiera del computer. Il procuratore magari chiude la porta dell'ufficio e digita la sua "chiave" di accesso crittografato. Pensa di essere solo e sicuro, invece c'è chi gli sta rubando in quel momento la chiave per consegnarla a cyber- criminali che la venderanno al maggior offerente. E se a vincere l'asta dovesse essere Cosa Nostra? Può stare certo che, se questa cancelleria virtuale dovesse davvero farsi, sarà un boccone ghiottissimo per ogni hacker del pianeta".

Dunque, lo stato dell'arte è questo. Tutti i documenti d'indagine della giustizia italiana finiranno presto in un unico canestro. I procuratori, responsabili delle indagini, non saranno in grado di garantire la sicurezza delle informazioni raccolte. L'archivio della "cancelleria virtuale" sarà nella disponibilità delle forze di polizia, e quindi del governo che gestirà il sistema attraverso una società privata (altra minaccia, se si ricordano i traffici spionistici della Telecom di Marco Tronchetti Provera). Quel che è peggio, anche Cosa Nostra potrà ficcarci il naso, pagando il dovuto. Voi dite che stiamo messi bene?

(12 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: G. D'AVANZO. A rischio la libertà dei cittadini il segreto sia tutelato dai pm
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2009, 02:25:36 pm
Intervista al procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro

"E' giusto migliorare la giustizia ma con regole precise"

"A rischio la libertà dei cittadini il segreto sia tutelato dai pm"


di GIUSEPPE D'AVANZO

 
ROMA - Nasce una "cancelleria nazionale virtuale" che inquieta. Il protocollo d'intesa, firmato dai ministri Brunetta (Innovazione) e Alfano (Giustizia), prevede la "trasmissione telematica delle notizie di reato tra le forze di polizia e procure della Repubblica". Si può così "automatizzare l'alimentazione del registro delle notizie di reato e la costituzione del fascicolo del pubblico ministero e del giudice delle indagini preliminari". I dati raccolti, "predisponendo una porta di dominio attestata presso il ministero della giustizia", saranno condivisi dall'intera rete delle forze di polizia che avranno accesso ai "dati di sintesi delle notizie di reato". Mettiamola così, allora, tutti i documenti d'indagine della giustizia italiana finiranno in un unico canestro. I procuratori, responsabili delle indagini, non saranno in grado di garantire la sicurezza delle informazioni raccolte ancora protette dal segreto istruttorio. L'archivio della "cancelleria virtuale" sarà nella disponibilità delle forze di polizia, e quindi del governo che gestirà il sistema attraverso una società privata.

Abbiamo chiesto al procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro se non ci sono sufficienti ragioni per preoccuparsi. "Voglio essere chiaro. Va apprezzato lo sforzo del governo di modernizzare, con l'innovazione tecnologica, l'organizzazione e il funzionamento della giustizia italiana. Non si può che apprezzare lo sforzo di informatizzazione di tutte le procedure. Non dubito che questo programma sia il frutto delle sollecitazioni - vecchie di anni - di magistrati e avvocati e una testimonianza delle migliori intenzioni e di una buona volontà. E tuttavia credo che non si debbano accantonare alcune perplessità che giudico pertinenti e rilevanti".

Vediamo. Quali sono?
"Ripeto, ben venga lo sforzo di automatizzazione del sistema, ma non credo che vada sottovalutato il rischio di un conflitto tra la tecnologia e alcuni principi irrinunciabili del codice di procedura penale. Non possiamo ignorare l'esistenza di una soglia invalicabile tra ciò che non è coperto da segreto - e può essere messo a disposizione delle forze di polizia e degli attori del processo - e ciò che è segreto e deve rimanere nella disponibilità esclusiva del magistrato del pubblico ministero, come impone la legge".

Il ministro Brunetta sostiene, con buone ragioni, che il protocollo consente di "superare le scartoffie, i faldoni, le cancellerie polverose".
"Ma mica stiamo discutendo di questo. Non è in discussione l'informatizzazione. Discutiamo di altro: dove raccogliere quei dati; come; chi ne deve essere il responsabile; chi ha diritto ad accedervi. A questa regolamentazione di una materia molto sensibile occorre porre attenzione. La trasmissione telematica delle notizie di reato è un segmento di un ampio progetto, chiamato Re. Ge. Web, che informatizzerà il registro generale delle notizie di reato. Ora tutte le procure, per i loro archivi informatici, devono preparare ogni anno un documento programmatico per la sicurezza, indicando i nomi degli amministratori di sistema, la policy delle società private deputate al trattamento dei dati giudiziari e le soluzioni di sicurezza dalle stesse adottate. In tale ottica, la procura di Milano ha chiesto da tempo al ministero i requisiti del consorzio di imprese che si occuperà del Re. Ge. Web e, nonostante le promesse, siamo ancora in attesa dei documenti. Voglio dire che una razionalizzazione tecnologica, indispensabile, non può farci dimenticare che anche l'innovazione ha bisogno di regole, responsabilità chiare, certezze, rigore, attendibilità. La lotta al terrorismo ci ha insegnato che è certo possibile raccogliere dati come se fossero gocce di pioggia su ognuno e ogni cosa, ma ci ha posto di fronte al dilemma di come la sicurezza debba sapersi conciliare con la libertà e la privacy dei cittadini".

In questo caso, mi pare, c'è anche dell'altro. Le chiedo: consentire "all'intera rete delle forze di polizia" l'accesso ai "dati di sintesi delle notizie di reato" non espone l'ordine giudiziario al controllo dell'esecutivo?
"E' un problema che esiste. E' una tendenza che già ha fatto capolino nella legislazione".

A che cosa si riferisce?
"Alla legge (3 agosto 2007, n. 124) che ha riformato i servizi segreti. La riforma prevede oggi che, autorizzata dal procuratore della repubblica, l'intelligence abbia 'l'accesso diretto al registro delle notizie di reato anche se tenuto in forma automatizzata'. Francamente non se ne vedo l'utilità. Gli scopi perseguiti dai servizi di informazione non legittimano, a mio avviso, l'adozione di procedure diverse da quella previste dal codice di procedura penale: ho difficoltà a immaginare le ragioni per cui un procuratore dovrebbe concedere l'autorizzazione a quell'accesso. Per gli stessi motivi non comprendo perché le forze di polizie dovrebbero avere accesso e condividere, attraverso una cancelleria nazionale addirittura, le notizie di reato di tutti i distretti giudiziari. La notizia di reato e la relativa documentazione sono custodite - impone la legge - presso l'ufficio del pubblico ministero. Anche nell'interesse dell'indagato e della sua privacy e non solo delle indagini Non vedo l'utilità di manomettere quel principio".

Le si potrebbe opporre: per rendere più efficiente il coordinamento e l'efficacia delle investigazioni.
"Il coordinamento delle indagini ha già oggi le sue procedure. E, dove sono rispettate, danno buoni frutti. Non è una buona obiezione. Vuole sapere qual è la verità?".

Qual è?
"Non c'è alcun motivo per 'centralizzare' queste informazioni. Il sistema bilaterale di oggi - pubblico ministero, polizia giudiziaria - è il più adeguato a proteggere tutti i "beni" in gioco: la riservatezza della privacy dell'indagato; l'efficacia dell'investigazione; il segreto dell'indagine. Si informatizzi, allora, con firme certificate e crittografia questo rapporto bilaterale, almeno finché il segreto non venga meno".

L'esclusivo rapporto a due - pubblico ministero, polizia giudiziaria - non ha impedito, rimprovera il ministro Brunetta, che "manine e manone" si siano tuffate in carte segrete.
"A maggior ragione, non si capisce perché una 'centralizzazione' ovvierebbe al problema. E' vero, che la fuga di notizie, come l'intrusione telematica, è sempre possibile, ma nel sistema bilaterale di oggi i possibili responsabili della violazione del segreto sono di numero circoscritto. Nell'altro caso, no. Nessun sistema informatico è sicuro, nonostante password e altre tecniche, mentre può esserlo l'organizzazione degli uomini che lo gestiscono".

L'accuseranno di essere arcaico, lo sa?
"Lo so, ma invito tutti a riflettere al di là della facile e ineludibile passione per l'innovazione tecnologica. Ripeto, non penso che dietro questo progetto di 'cancelleria nazionale virtuale' ci sia un'intenzione maligna, ma di certo c'è un pericolo: scindere la titolarità e la responsabilità di un'informazione sensibile come la notizia di reato dagli uomini che gestiscono il sistema telematico. Non è soltanto in ballo la possibilità di accertare che cosa è accaduto e per la responsabilità di chi, ma il diritto alla privacy dei cittadini. Di questo parliamo, non di modernità e arcaicità. A meno che non mi si dica che, in nome della modernità, dovremmo essere disposti a svendere la nostra libertà".

(13 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Tra pubblicità e incompetenza
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 10:56:49 am
IL COMMENTO

Tra pubblicità e incompetenza

di GIUSEPPE D'AVANZO


È STATO già detto che la crisi di Lampedusa e gli stupri di Roma sono il segno del fallimento delle politiche del governo. Credo che siano qualcosa di più e di peggio: la prova di un deficit - culturale, prima che politico - nel governo di fenomeni complessi e moderni, come l'immigrazione e la sicurezza.

Sono temi (immigrazione e sicurezza) che, frullati insieme, banalizzati con messaggi ripetuti all'infinito, eccitati con emotività in una campagna elettorale, possono anche annullare ogni pensiero e razionalità. Alla prova del governo, quelle criticità impongono però intelligenza delle cose e delle soluzioni, capacità di costruire condizioni di consenso internazionale e domestico. Concrete e realistiche politiche pubbliche e non pessima pubblicità di un giorno.

Immigrazione e sicurezza, si sa, dovevano essere i cavalli di battaglia del governo. Berlusconi, all'esordio del suo governo, ha presto voluto far sapere di voler "dare risposte all'insicurezza dei cittadini"; di voler "decidere" presto e subito con una rosa di provvedimenti con forza di legge che hanno separato, nei primi cento giorni, lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l'ordine giuridico dalla vita. Si è creato un "vuoto del diritto" che ha sospeso le norme e trasformato il diritto in un dispositivo di governo manipolabile secondo necessità.

Da questa cultura dello "stato d'eccezione" è nata una militarizzazione delle città che declina le ragioni dello Stato con l'esibizione, la forza, le armi. E' da un immaginato e truccato "stato d'emergenza" perenne che è stato partorito il "diritto penal-amministrativo della diseguaglianza" scritto per fronteggiare le ondate migratorie (immigrazione clandestina come reato, impronte ai rom). Le conseguenze di queste scelte le abbiamo sotto gli occhi. Con i numeri: l'ottanta per cento in più di sbarchi.

La realtà della vita, la violenza degli stupratori o la disperazione dei migranti, hanno dimostrato l'inefficacia dell'azione del governo. Berlusconi non se ne cura, come si vede. E' ancora in campagna elettorale. Questa volta in Sardegna (presto per Europee e amministrative). Minimizza la crisi di Lampedusa e le sue ragioni. Per cancellare gli stupri di Roma, rilancia la militarizzazione delle città moltiplicando per dieci i soldati che vedremo agli angoli delle piazze, nei centri storici delle nostre città (solo lì, li vedi).

La manovra pubblicitaria, buona per i tiggì della sera, non riuscirà a nascondere anche nel breve periodo gli errori culturali, e quindi politici, dell'esecutivo. Lo si osserva ormai anche nelle file della destra quando si confrontano i passi di Berlusconi con le iniziative di Brown, Zapatero, Merkel e Sarkozy. Anche ai settori più liberali della destra appare "incomprensibile la scelta di delegare totalmente alla Lega la gestione governativa dell'immigrazione esercitata solo e unicamente sul fronte dei clandestini e dell'ordine pubblico e totalmente latitante sul fenomeno riformista del modello di integrazione degli immigrati" (Carlo Panella). E' una politica che mette in rotta di collisione il governo con tutti e, per dirla con le parole dell'Osservatore romano, "accentua tendenze di chiusura autarchica e di arroccamento sociale". Il governo oggi può vantare conflitti con il mondo cattolico e anche con il Vaticano, con l'Europa, con l'Onu, con le organizzazioni umanitarie e la prassi giuridica dei diritti fondamentali dell'uomo (più volte la commissione e il parlamento europei sono intervenuti contro le tracce xenofobe dei provvedimenti di palazzo Chigi).

La scelta del governi trascura - con una mossa che sta tra l'arroganza e il pressapochismo - come lo strumento penale (detenzione, carcere, espulsione) può essere soltanto un tassello (spesso non il più rilevante) di una politica migratoria che deve accordare intese sovranazionali, urgenze umanitarie, equilibrio tra flussi migratori e mercato del lavoro, tenuta dell'ordine pubblico, rapporti internazionali con gli Stati di origine.

A questo intricato nodo di questioni, il governo invece sa rispondere (e, a quanto pare, intende ancora rispondere) con la spada, con discipline che producono soltanto irregolarità e la convinzione, tra gli immigrati dell'Africa subsahariana, come sono le migliaia di prigionieri a Lampedusa, che "emigrare legalmente sia impossibile e che l'unica via sia quella irregolare, cui seguirà una sanatoria".

C'è un segno dilettantesco e irresponsabile nell'azione di governo. E' dilettantesco non comprendere come l'illusione penalistica, gli spot televisivi, lo sfoggio di soldati e di armi, il recinto dei nuovi campi di concentramento chiamati centri di identificazione, oscurino un'Italia multiculturale che è già realtà concreta nelle città, nelle scuole, in fabbrica, nell'economia, nelle famiglie dove gli immigrati, se si contano anche gli irregolari, sono ormai quattro milioni. E' irresponsabile nascondere al Paese che l'immigrazione è e sarà un fenomeno strutturale. Per tre o quattro motivi che il Berlusconi tace al Paese rinunciando a governarne gli esiti. Si nasce poco. Si vive più a lungo (e il lavoro straniero sostituisce un welfare debole e avaro). La nostra industria è assai poco tecnologica e ha bisogno di braccia che non ci sono. Il mondo, al di là del mare, è così povero e disperato che non saranno né i paracadutisti della Folgore né il codice penale a trattenerlo sull'altra sponda. Sono problemi che impongono una cultura di governo che Berlusconi non mostra di avere. Il mago delle lanterne magiche pensa sempre che una buona pubblicità trasmessa in prime time possa risolvere qualsiasi problema. Se non dovesse essere sufficiente questa routine, si può sempre evocare, a proposito di intercettazioni, "il più grande scandalo dello storia della Repubblica" e correggere l'agenda dell'attenzione pubblica. Ma fino a quando il gioco potrà seppellire la realtà e l'incompetenza?


(25 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Nell'archivio del tecnico nessun dialogo, solo analisi
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2009, 10:05:40 pm
IL PERSONAGGIO.

Nell'archivio del tecnico nessun dialogo, solo analisi

Nel suo ufficio di Palermo da un quindicennio lavora per le principali Procure

Dalla mafia al fronte-De Magistris le ombre del "sistema" Genchi

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

Berlusconi è pronto per il blitz (un decreto del governo in forma di legge?) che sottrarrà alle indagini giudiziarie l'ascolto telefonico e ai pubblici ministeri la conduzione delle inchieste (saranno "avvocati della polizia"). Per far ingoiare ai suoi alleati recalcitranti e all'opinione pubblica il provvedimento, intorbida le acque.

Modifica i fatti. Capovolge la verità. Grida di "intercettazioni". Annuncia "uno scandalo che sarà il più grande della Repubblica".

Qual è l'"inquietante" novità che dovrebbe farci saltare sulla sedia? La vergogna sarebbe custodita nell'archivio di Gioacchino Genchi, un vicequestore della polizia di Stato (in aspettativa sindacale da un quindicennio), consulente di un rosario di procure e, per ultimo di Luigi De Magistris nelle inchieste Why not? e Poseidone. E' utile dunque, all'inizio di una settimana dove saranno raccontate rumorose "bufale", fissare qualche punto fermo, illuminare il lavoro di Genchi, avanzare infine qualche domanda.

Punti fermi, tre.

1. Berlusconi mente. Nell'archivio di Genchi non c'è alcuna intercettazione telefonica, ma soltanto analisi di tabulati telefonici. Per le due inchieste di De Magistris, e su sua delega, Genchi ha messo insieme 1.042 tabulati, un milione di contatti, 578 mila schede anagrafiche.

2. Berlusconi ritrova troppo tardi la parola e la memoria senza mai perdere la sua malafede. Non ha battuto ciglio quando si sono scoperti gli archivi illegali della Telecom dell'amico Marco Tronchetti Provera (anche lì, si raccoglievano abusivamente tabulati e si intercettavano mail). Non ha emesso un fiato quando il suo nemico Romano Prodi è stato indagato proprio alla luce dell'analisi dei "dati di traffico della sim gsm 320740... intestata alla Delta spa presso la Wind, volturata il 1 aprile 2004, all'"Associazione l'Ulivo i Democratici" di Bologna, contratto trasferito il 17 febbraio 2005 a Roma in piazza Santi Apostoli 73, sede dell'Ulivo, e due mesi dopo alla Presidenza del Consiglio, via della Mercede 96, Roma". Scritto nero su bianco in una consulenza di Genchi. Dov'era allora l'indignazione di Berlusconi? Non ce n'era traccia. Quell'indagine poteva azzoppare il governo di centrosinistra e tutto faceva brodo. Anche il lavoro di Gioacchino Genchi.

3. I rumorosi strepiti di Berlusconi non rivelano nulla di quanto già non si conoscesse per lo meno da sedici mesi. "De Magistris ha acquisito migliaia di tabulati telefonici di cittadini le cui utenze (cellulari e di rete fissa) erano emerse tra i contatti di diversi suoi indagati - scrive la Stampa, il 4 ottobre 2007 - . Nell'elenco ci sono tra gli altri, il presidente del Consiglio Prodi, l'ex-presidente del Consiglio Berlusconi, il ministro dell'Interno Amato, e della Giustizia Mastella; il viceministro dell'Interno Minniti; il presidente del Senato Marini, l'ex-presidente della Camera Casini, il segretario dell'Udc, Cesa, il vecepresidente del Csm Mancino. I movimenti dei numeri telefonici acquisiti riguardano anche il capo della polizia De Gennaro, il vicecapo vicario De Sena, il direttore del Sisde Gabrielli, il direttore del Servizio di polizia postale e telecomunicazioni Vulpiani, il direttore della Dia, Sasso, il generale di corpo d'armata Piccirillo, il presidente dell'Anm Gennaro, il procuratore aggiunto di Milano Spataro, il pm antiterrorismo di Roma Saviotti, quattro sostituti della procura nazionale antimafia, diversi membri della commissione parlamentare antimafia, deputati, senatori, questori della Camera, presidenti di commissioni di Palazzo Madama". L'elenco (sempre smentito da De Magistris) mostra più di tante parole la strumentalità della sortita allarmata di Berlusconi. Ma come c'è anche il suo nome in quella classifica abusiva e Berlusconi non dice una parola, non protesta, non chiede spiegazioni? E se non si preoccupava allora, perché oggi parla di "scandalo storico"?

Il Cavaliere oggi ha compreso che l'"affare Genchi" può essere la leva per scardinare le resistenze che An, Lega, Pd oppongono al suo progetto di cancellare le intercettazioni dagli strumenti di indagine e fare del pubblico ministero il "notaio" delle polizie. Se non si dice, dunque, di Genchi - chi è, che cosa fa, come lo fa, grazie a chi - non si comprendono le ambiguità possibili del suo lavoro.

Il vice-questore in aspettativa Genchi, 49 anni, va su tutte le furie quando si parla di lui come di "un personaggio misterioso". Anche se cede al narcisismo quando lo si incontra nel sotterraneo di 500 metri quadrati, ipertecnologico, di piazza Principe di Camporeale, a Palermo (è un tormento riuscire a incontrarlo). A Genchi piace mostrarsi seduto al suo scrittoio, tra gli schermi di cinque grandi computer. Non è parco di parole. Il suo è un flusso verbale ininterrotto impastato di allusioni, suggerimenti, accenni, avvertimenti che risultano per lo più oscuri, indecifrabili. Si compiace del mistero che sollecita. Gli piace apparire un uomo che sa troppo cose indicibili, ma dicibilissime, se gli si sta troppo addosso. Se stimolato, Genchi racconta, ricorda, precisa a gola piena. Spiega di come sia stato lui il primo, nella polizia, "nonostante la forte vocazione umanistica", a darsi da fare con l'informatica, l'elettronica, la topografia applicata e i primi "teodoliti al laser", che solo Dio sa che cosa sono. E' un fatto che Vincenzo Parisi (capo della polizia) nel 1988 gli affida la Direzione della Zona Telecomunicazioni del ministero dell'Interno per la Sicilia occidentale. E' il suo trampolino di lancio, l'inizio di una parabola che lo porterà ad essere, prima con la divisa addosso poi da libero professionista, il ricercatissimo consulente delle procure, capace di "mappare" l'intera rete di relazioni telefoniche di un indagato. Controlla, per dire, quasi due miliardi di tracce telefoniche nell'indagine di via D'Amelio. Ricostruisce 1.651.584 contatti telefonici inseguendo una scheda utilizzata in 31 cellulari diversi per dimostrare i legami pericolosi di Totò Cuffaro, allora presidente della Regione siciliana.

"Oggi - racconta Genchi - non è che facciamo più intercettazioni di un tempo, quelli che sono aumentati sono i telefoni. Anni fa c'era solo l'Etacs, il cellulare era uno solo. Ora per trovare un numero che interessa se ne cercano tanti, senza considerare il roaming degli Umts, con schede che si possono spostare da telefono in telefono e tanti gestori diversi dove si possono agganciare gli utenti con servizi telefonici diversi - messaggi, immagini, fax, video - ecco perché le richieste si sono moltiplicate".

Le richieste. E' questo lo snodo. Non c'è nulla di illegale nel lavoro di ricerca svolto da Genchi se è il pubblico ministero a chiederle per una necessità dell'indagine perché, prima o poi, dinanzi ai giudici e agli avvocati della difesa, il pm dovrà rendere conto dei suoi passi. Decisivo è allora il rapporto che Genchi crea con il pubblico ministero responsabile dell'inchiesta. O meglio, che il pm crea con il consulente. Genchi ha un'alta opinione di se stesso e del suo lavoro. Non tace che le sue perizie sono "già pezzi di sentenza". Gli piace, nei suoi resoconti alle procure, argomentare l'accusa, suggerire deduzioni, indicare nuove ipotesi investigative, chiedere il coinvolgimento nell'indagine di questo o di quello. Non tutti i pubblici ministero abboccano al suo amo. Nel 1993, Ilda Boccassini, quando indagava sulla strage di Capaci, non gradì che quel tecnico del pool investigativo si attardasse intorno ai contatti telefonici privati di Giovanni Falcone, che nulla avevano a che fare con l'inchiesta. E quando nel febbraio di quell'anno se lo trovò davanti che proponeva di "trattare" le carte di credito del magistrato ucciso, se ne liberò senza stare troppo a pensarci su. "O me o lui", disse.

"Il fatto è - racconta ancora un altro pubblico ministero - che Genchi arriva da te con un elenco di numeri di telefono che sono entrati in contatto con il cellulare o il telefono fisso del suo indagato. Ti chiede una delega per verificarli. E tu che diavolo ne puoi sapere se tra quei centinaia di numeri ce n'è uno che non ha nulla a che fare con il tuo "caso" e molto con le curiosità di Genchi? Questo è il motivo per cui preferisco non lavorare con lui, che è certamente il solo in Italia a sapere fare quelle analisi dei dati".
Conviene ripeterlo: tutto si decide nel rapporto tra il pm e Gioacchino Genchi. L'affare che Berlusconi vuole trasformare nel "più grande scandalo della storia della Repubblica" si riduce a queste domande: Genchi ha tradito la fiducia di Luigi De Magistris analizzando dati di traffico telefonico per cui non aveva ricevuto la delega del pubblico ministero? O ha tradito la sua fiducia facendogli firmare deleghe per numeri di telefono estranei all'inchiesta?

O non è avvenuto nulla di tutto questo e le deleghe erano legittime e legittimi l'analisi dei dati e gli scrutinati? Lo deciderà ora la procura di Roma che, con ogni probabilità, ha ricevuto le "carte" da Catanzaro perché l'indagine coinvolge anche Luigi De Magistris, oggi giudice a Napoli (Roma è competente per i giudici di Napoli). In attesa del can can spettacolare che Berlusconi organizzerà nei prossimi giorni, questa storia ci dice fin da ora una verità che non dovrebbe piacere a Berlusconi. Ci indica quanto pericoloso sia separare il lavoro del pubblico ministero dall'attività della polizia giudiziaria.

Una polizia, libera dal controllo della magistratura, potrà avere mano libera per ogni forma di spionaggio illegale.

Naturalmente, nel caleidoscopio delle verità rovesciate di Berlusconi, questo è una ragione per privare il pm della responsabilità delle inchieste.

(26 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La commedia delle sciocchezze
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2009, 11:42:33 pm
IL COMMENTO

La commedia delle sciocchezze

di GIUSEPPE D'AVANZO


Nel romanzo "Una sporca storia" di Eric Ambler, un personaggio, Arthur Abdel Simpson, ricorda i consigli che da bambino aveva ricevuto dal padre. Uno dei primi insegnamenti fu: "Mai dire una bugia quando puoi cavartela a forza di stronzate". Oggi sottovalutiamo troppo la sorprendente forza delle "stronzate" diventate per la pubblicità e soprattutto per la politica, che si nutre di slogan pubblicitari, un paradigma di governo, una strategia di consenso.

Un autorevole filosofo di Princeton, Harry Gordon Frankfurt, ci ha scritto su un delizioso libriccino (Bullshit, Rizzoli) per concludere che "l'essenza delle stronzate (bullshit) non sta nell'essere false, ma nell'essere finte". La distinzione torna utile per dare un senso a molte sortite del governo e certamente al fiume di parole del ministro di Giustizia, Angelino Alfano, dinanzi al quadro di un'amministrazione giudiziaria indegna anche per molti giovani stati africani. "Chi racconta stronzate contraffà le cose" dice Frankfurt. Ha ragione. Ciò che non va in una contraffazione non è l'aspetto, ma il modo in cui è stata prodotta.

Il disastro della giustizia italiana è sotto gli occhi di tutti, immutabile da decenni, difficile alterarne il catastrofico bilancio. I processi sono lentissimi, le procedure inutilmente cavillose, i codici contraddittori e fluidi. Il modello organizzativo, governato da norme astratte e quindi non governato, produce soltanto inefficienza. Le risorse sono sempre più scarse (meno 40 per cento per sicurezza e giustizia, quest'anno) e lasciano i magistrati senza fax, computer, rimborsi spese e scoperti gli organici del personale amministrativo di oltre il 15 per cento e le toghe in deficit dell'80 in alcuni tribunali del Mezzogiorno (come a Gela). L'incoerenza di una distribuzione degli uffici giudiziari disseminati in 29 corti di appello, 164 tribunali e procure, in 29 tribunali per minorenni e tribunali di sorveglianza assegna ad alcune sedi carichi di lavoro di tutto riposo, ad altre pesi quantitativi intollerabili. L'alluvione di riformicchie, cerottini e tamponi, leggi ad personam e precetti nonsense, mutano le mappe normative a ogni stagione, annullando la stessa funzione pratica del processo dove risulta impotente l'esercizio sia dei diritti di difesa che dei doveri dell'accusa. I gerghi sgrammaticati delle leggi fanno il resto: allevano la confusione e l'imbroglio, rendono impuniti i forti e i furbi, calpestano deboli e poveri cristi.

Questo è lo stato delle cose e neanche un mago della pubblicità riuscirebbe a truccarlo anche a spararle grosse. Stupefacenti "bullshit" possono soltanto confondere le ragioni della malattia e rendere vere le finte soluzioni a questo disastro. E' già avvenuto in passato (2001/2006) con il governo delle destre.

L'abolizione del falso in bilancio doveva liberare le aziende da inutili legacci; la riforma del diritto societario avrebbe reso più trasparente l'economia; nuovi termini di prescrizione avrebbero dato rapidità al processo; la riscrittura dell'ordinamento giudiziario avrebbe fatto funzionare meglio la "macchina". Con la voce di un ministro (che in otto mesi non ha ancora preparato il testo di una riforma sistemica o messo mano a un ripensamento dell'assetto organizzativo o assicurato almeno il toner alle stampanti), la nuova ondata di "bullshit" ci dice oggi che quel disastro troverà soluzione con la disciplina delle intercettazioni sottratte "finalmente" dalla scatola degli attrezzi dei pubblici ministeri; con la riforma della Costituzione (Dio solo sa che cosa c'entra); una maggiore presenza della politica nel consiglio superiore della magistratura (di questa politica); con un "fare squadra" di tutti gli attori in commedia per recitare un misterioso copione che nessuno ancora conosce perché non è stato ancora scritto.

"Bullshit", e tuttavia sarebbe un errore trascurare il metodo e il risultato che raccoglie. Inadatto a risolvere anche soltanto una delle criticità della giustizia, questo rosario di "sciocchezze", ripetuto ossessivamente, riesce a cancellare dal discorso pubblico ogni punto di riferimento, ogni certezza, qualsiasi concretezza, anche la più pallida coerenza tra malattia, diagnosi e terapia. Il governo, in fondo, non vuole convincere nessuno della validità della sua ricetta. Non ne ha bisogno. Ha i numeri per tirare diritto per la sua strada. Vuole solo distrarre l'opinione pubblica, sollevare polvere, creare una contrapposizione radicale di opinioni.

A ogni affermazione ne oppone una contraria (basta guardare un tiggì); a ogni ragionevole argomento un insulto; a ogni verità un falso palese. Nel rumore sempre più assordante che sovrasta la discussione sui guai della giustizia italiana, quanti riescono a farsi un'idea che abbia a che fare con la realtà di questa crisi? Quanti, in questo mare di strombazzanti chiacchiere, hanno ancora voglia di capire? E' l'esito dichiarato dell'uso intensivo di "bullshit": alla fine si fa largo "l'indifferenza per come stanno davvero le cose", scrive Frankfurt. E' proprio questo punto di indifferenza, disattenzione, nausea che può dare mano libera al governo.

Capiremo soltanto tra qualche anno, e dolorosamente, quante rovine si lascerà dietro questo vandalismo istituzionale. La distruzione del "servizio giustizia" per il cittadino, una magistratura indebolita, un'organizzazione impoverita, codici a maglie larghe, l'allentamento della rete di garanzie e controlli delle autorità pubbliche lasceranno l'intero Mezzogiorno nelle mani del crimine organizzato e della cattiva amministrazione, le città insicure, le regioni più produttive del Paese trasformate in target ghiotti per la delinquenza domestica e internazionale, i mercati senza regole e controllori governati dalle lobby e dai conflitti d'interesse. L'intero perimetro della sicurezza del cittadino sarà privato di un'accettabile vigilanza.

E' il prezzo che pagheremo alla pretesa del governo di trasformare la sua volontà in comando politico diretto per la magistratura, per il processo e addirittura per le sentenze. Ne è una conferma esemplare il caso di Eluana Englaro, ricordato ieri a Milano dal procuratore della corte d'appello Grechi. Un "caso" che rischia di travolgere diritti fondamentali, il diritto alla dignità della persona, il diritto alla salute che è diritto di vivere ma anche di morire se si ascolta la Costituzione (art. 32, ultimo comma): "La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Non c'è in tutta la Carta un'altra affermazione così forte, ha osservato Stefano Rodotà. Persino la libertà personale è temperata dalla riserva di legge e dalla riserva di giurisdizione. Qui invece si dice in nessun caso. Quel diritto (il rispetto della persona umana) non può essere consegnato alla decisione del legislatore, figurarsi del governo perché "è indecidibile" e il custode di questa "indecidibilità" sono la Corte Costituzionale e i giudici. Eppure, la legittima "sentenza Englaro" che trova concorde la Cassazione, la Consulta e la Corte europea è negata dal governo: un diritto fondamentale cede il passo al comando politico. Sono allora lo scollamento dai fondamentali della democrazia liberale e il nostro diritto alla sicurezza le poste in gioco in questo conflitto e bisogna metterle bene a fuoco senza lasciarsi accecare (e annoiare) dalle "bullshit" del ministro di Giustizia.

(1 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Zagrebelsky: "Se il potere nichilista si allea con la Chiesa del dogma"
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2009, 02:09:29 pm
L'INTERVISTA. Parla l'ex presidente della Consulta

"Dialogo sull'etica è impossibile con lo scontro tra dogmi"

Zagrebelsky: "Se il potere nichilista si allea con la Chiesa del dogma"


di GIUSEPPE D'AVANZO


L'Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, ha definito Beppino Englaro "un boia".

Credo che debba partire da qui, da un insulto atroce, il colloquio con Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.

Beppino Englaro, "un boia"?"
In un caso controverso dove sono in gioco dati della vita così legati alla tragicità della condizione umana è fuori luogo usare un linguaggio violento, così impietoso, così incontrollato, così ingiusto. Non ho ascoltato, sul versante opposto, che vi sia chi ragiona dell'esistenza di un "partito della crudeltà" opposto a "un partito della pietà". Credo che in vicende così dolorose debbano trovare espressione parole più adeguate e controllate, più cristiane".

E tuttavia, presidente, i toni accusatori, le accuse così aggressive e definitive sembrano indicare che cosa è in gioco o a contrasto nel caso di Eluana Englaro. I valori contro i principi, la verità contro il dubbio. Questioni da sempre aperte nelle riflessioni dei dotti che avevano trovato, per così dire, una sistemazione condivisa nella Costituzione italiana. Che cosa è accaduto? Perché quell'equilibrio viene oggi messo di nuovo in discussione dopo appena sessant'anni?
"Le posizioni in tema di etica possono essere prese in due modi. In nome della verità e del dogma, con regole generali e astratte; oppure in nome della carità e della com-passione, con atteggiamenti e comportamenti concreti. Nella Chiesa cattolica, ovviamente, ci sono entrambe queste posizioni. Nelle piccole cerchie, prevale la carità; nelle grandi, la verità. Quando le prime comunità cristiane erano costituite da esseri umani in rapporto gli uni con gli altri, la carità del Cristo informava i loro rapporti. La "verità" cristiana non è una dottrina, una filosofia, una ideologia. Lo è diventata dopo. Gesù di Nazareth dice: io sono la verità. La verità non è il dogma, è un atteggiamento vitale. Quando la Chiesa è diventata una grande organizzazione, un'organizzazione "cattolica" che governa esseri umani senza entrare in contatto con loro, con la loro particolare, individuale esperienza umana, ha avuto la necessità di parlare in generale e in astratto. È diventata, - cosa in origine del tutto impensabile - una istituzione giuridica che, per far valere la sua "verità", ha bisogno di autorità e l'autorità si esercita in leggi: leggi che possono entrare in conflitto con quelle che si dà la società. Chi pensa e crede diversamente, può solo piegarsi o opporsi. Un terreno d'incontro non esiste. ".

Che ne sarà allora dell'invito del capo dello Stato a una "riflessione comune" ora che il parlamento affronterà la discussione sulle legge di "fine vita"?
" Una legge comune è possibile solo se si abbandonano i dogmi, se si affrontano i problemi non brandendo quella verità che consente a qualcuno di parlare di "omicidio" e "boia", ma in una prospettiva di carità. La carità è una virtù umana, che trascende di gran lunga le divisioni delle ideologie e dei credi religiosi o filosofici. La carità non ha bisogno né di potere, né di dogmi, né di condanne, ma si nutre di libertà e responsabilità. Dico la stessa cosa in altro modo: un approdo comune sarà possibile soltanto se prevarrà l'amore cristiano contro la verità cattolica".

Lo ritiene possibile?
"Giovanni Botero nella sua Della Ragione di Stato del 1589 scriveva, a proposito dei Modi di propagandar la religione: "Tra tutte le leggi, non ve n'è alcuna più favorevole a' Prencipi, che la Christiana: perché questa sottomette loro, non solamente i corpi e le facoltà de'sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri". Botero era uomo della controriforma. Purtroppo, c'è chi pensa ancora così, tra i nostri moderni "prencipi". Essi potrebbero far loro il motto di un discepolo di Botero che scriveva: "questa è la ragion di stato, fratel mio, obbedire alla Chiesa cattolica". Ora, se l'obbedienza alla Chiesa cattolica è la ragion di stato, è chiaro che i laici non troveranno mai un approdo comune con costoro.

Dobbiamo allora credere che il conflitto di oggi tra mondo laico e mondo cattolico, che ha accompagnato il calvario di Eluana, segnali soprattutto la fine della riflessione del Concilio Vaticano II e, per quel che ci riguarda, la crisi di quella "disposizione costituzionale" che è consistita, per lo Stato, nel principio di laicità contenuto nella Costituzione, e per la Chiesa nella distinzione tra religione e politica?
"Il Concilio Vaticano II ha rovesciato la tradizione della Chiesa come potere alleato dello Stato, ha voluto liberarla da questo legame tutt'altro che evangelico. Non si propose di proteggere o conservare i suoi privilegi, ancorché legittimamente ricevuti, e invitò i cattolici a un impegno responsabile nella società, uomini con gli altri uomini, con la fiducia riposta nel libero esercizio delle virtù cristiane e nell'incontro con gli "uomini di buona volontà", senza distinzione di fedi. Fu "religione delle persone" e non surrogato di una religione civile. Il cattolicesimo-religione civile sembra invece, oggi, essere assai gradito per i vantaggi immediati che possono derivare sia agli uomini di Chiesa che a quelli di Stato".

Ieri mentre finiva l'esistenza di Eluana Englaro e il Paese era scosso dalle emozioni, dalla pietà e, sì, anche da una rabbia cieca, dieci milioni di italiani hanno voluto vedere il Grande Fratello. E' difficile non osservare che l'artefice della macchina spettacolare televisiva del reality e di ogni altra fantasmagorica vacuità - capace di distruggere ogni identità reale, alienare il linguaggio, espropriarci di ciò che ci è comune, di separare gli uomini da se stessi e da ciò che li unisce - è lo stesso leader politico che pretende di dire e agire in nome dell'Umanità, della Vita, addirittura della Verità e della Parola di Dio. Le appare più tragico o grottesco, questo paradosso? Come spiegarsi la dissoluzione di ogni senso critico dinanzi a questo falso indiscutibile?
"Non è questo il solo paradosso. Non è la sola contraddizione che si può cogliere in questa vicenda. Il mondo cattolico enfatizza spesso il valore della dimensione comunitaria della vita, soprattutto nella famiglia. E' la convinzione che induce la Chiesa a invocare a gran voce la cosiddetta sussidiarietà: lo Stato intervenga soltanto quando non esistono strutture sociali che possono svolgere beneficamente la loro funzione. Mi chiedo perché, quando la responsabilità, la presenza calda e diretta della famiglia, nelle tragiche circostanze vissute dalla famiglia Englaro, dovrebbero ricevere il più grande riconoscimento, la Chiesa - con una contraddizione patente - chiude alla famiglia e invoca l'intervento dello Stato; alla com-passione di chi è direttamente coinvolto in quella tragedia, preferisce i diktat della legge, dei tribunali, dei carabinieri. Sia chiaro: lo Stato deve vigilare contro gli abusi - proprio per evitare il rischio espresso dal presidente del consiglio con l'espressione, in concreto priva di compassione, "togliersi un fastidio" - ma osservo come la legge che la Chiesa chiede assorbe nella dimensione statale tutte le decisioni etiche coinvolte: questo è il contrario della sussidiarietà e assomiglia molto allo Stato etico, allo Stato totalitario".

Lei è il primo firmatario di un appello che ha per titolo Rompiamo il silenzio. Vi si legge che "la democrazia è in bilico". Le chiedo: può una democrazia fragile, in bilico appunto, reggere l'urto coordinato di un potere politico invasivo e senza contrappesi e di un potere religioso che agita come una spada la verità?
"Oggi la politica è succuba della Chiesa, ma domani potrebbe accadere l'opposto. Se la politica è diventata - come mi pare - mezzo al solo fine del potere, potere per il potere, attenzione per la Chiesa! Essa, la Chiesa del dogma e della verità, può essere un alleato di un potere che oggi ha bisogno, strumentalmente, di legittimazione morale. Il compromesso convince i due poteri a cooperare. Ma domani? Il potere dell'uno, rafforzato e soddisfatto, potrebbe fare a meno dell'altra. ".

Qual è l'obiettivo del suo appello?
"'Rompiamo il silenziò è già stato sottoscritto da centosessantamila cittadini. È la dimostrazione che, per fortuna, la nostra società non è un corpo informe, conserva capacità di reazione. L'appello ha tre ragioni. E' uno sfogo liberatorio, innanzitutto: devo dire a qualcuno che non sono d'accordo. E' poi un autorappresentarsi non come singoli, ma come comunità di persone. Il terzo obiettivo è rendersi consapevoli, voler guardare le cose non in dettagli separati, è un volersi raffigurare un quadro. A volte abbiamo la tendenza a evitare di guardare le cose nel loro insieme. E' quasi un istinto di sopravvivenza distogliere lo sguardo dalla disgrazia che ci può capitare. L'appello prende posizione. Si accontenta di questo. Se mi chiede come e dove diventerà concreta questa presa di coscienza, le rispondo che ognuno ha i suoi spazi, il lavoro, la scuola, il partito, il voto. Faccia quel che deve, quel che crede debba essere fatto per sconfiggere la rassegnazione".

(11 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO. Se scatta il divieto di pubblica opinione
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2009, 10:35:38 am
L'ANALISI

Se scatta il divieto di pubblica opinione

di GIUSEPPE D'AVANZO


QUANTE storie, con i nomi, i tempi, le frasi e gli esiti giusti non potrete conoscere mai, se dovesse essere approvata la legge sulle intercettazioni che disciplina anche il diritto di cronaca. Diciamo meglio, che cancella il dovere della cronaca e il diritto del cittadino ad essere informato. Che cosa ha imposto il governo alla sua docile maggioranza?

Con un tratto di penna ha deciso che il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto si estenda anche agli atti non più coperti dal segreto. Il governo vuole che non si scriva un rigo fino al termine dell'udienza preliminare (accusa e difesa, con i loro argomenti, dinanzi a un giudice terzo).

Si potrà sapere che un pubblico ministero senza nome sta accertando che a Roma le sentenze si vendevano all'incanto. Non si potrà dar conto delle fonti di prova e scrivere che il corruttore di toghe si chiama Cesare Previti e si è messo in testa addirittura di fare il ministro di giustizia. Si potrà scrivere che qualcosa non torna nei bond di una società quotata in Borsa e un'innominata toga se ne sta occupando, ma non si potrà dire del pozzo nero che ha inghiottito i modesti investimenti di migliaia di piccoli risparmiatori che hanno avuto fiducia nelle banche e in Parmalat.

Si potrà dar conto di un gestore telefonico che ha "schedato" illegalmente migliaia di persone. Non si potrà raccontare che il presidente della Telecom Marco Tronchetti Provera si è lasciato ingrullire, povero ingenuo, dal capo della sua sicurezza, Giuliano Tavaroli. Né tantomeno si potranno elencare i nomi degli "spiati". Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.

La pubblica opinione dovrà attendere, anche se quei protagonisti sono personaggi pubblici che chiedono fiducia al Paese per rappresentare chi vota e governare il Paese o amministratori pubblici e privati a cui è stata affidata la nostra salute, i nostri risparmi, la nostra vita. È inutile tediarvi con le tecnicalità. Qui basta forse dire che finora ce la siamo cavata muovendoci lungo il sentiero stretto di un articolo della procedura penale, il 329: "Gli atti d'indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari".

Come abbiamo scritto e ripetuto spesso, in questo varco hanno lavorato le cronache. Sarebbe uno sciocco errore negare gli abusi, gli eccessi, la smoderatezza in cui pure è caduto il giornalismo italiano. Ma, se si rispettano i confini dell'articolo 329, si possono tenere insieme i tre diritti che il dovere professionale del giornalista è chiamato a tutelare: il diritto della pubblica opinione a essere informata; il diritto dello Stato a non vedere compromessa l'indagine; il diritto dell'imputato a difendersi e a non essere considerato colpevole fino a sentenza.

Nel triangolo di questi tre diritti, il giornalista può fare con correttezza il suo mestiere, proporre al lettore le fonti di prova raccolte dall'accusa e gli argomenti della difesa, valutare l'interesse pubblico di quelle storie. Perché non ci sono soltanto responsabilità penali da illuminare in questi affari. Spesso diventano cronache del potere tout court, come è apparso evidente nel racconto dei maneggi della loggia massonica di Licio Gelli; della fortuna della mafia siciliana o dei traffici di Tangentopoli, delle imprese di chirurghi più attenti al denaro che non al malato e alla malattia.

Quelle cronache sono un osservatorio che permette di vedere da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. Svelano quale tenuta ha per tutti, e soprattutto per coloro che svolgono funzioni pubbliche, il rispetto delle regole. Indicano spesso problemi che impongono nuove soluzioni. L'incontro ravvicinato con le opacità del potere ha in qualche caso convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, piaccia o non piaccia. Perché non c'è nessuna ragione accettabile e decente per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - è il caso di un governatore della Banca d'Italia - come un'autorità di vigilanza, indipendente e "terza", protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.

Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. È stato già raccontato da Repubblica che Berlusconi abbia sorriso ascoltando i suoi consiglieri chiedere "più galera per i giornalisti" (fino a sei mesi per un documento processuale; fino a tre anni per un'intercettazione). Raccontano che Berlusconi abbia detto: "Cari, lasciate dire a me che sono editore di mestiere. Se li mandi in galera, ne fai degli eroi della libertà di stampa e magari il giornale per cui lavorano vende anche di più, e questo sarebbe uno smacco. La galera è inutile. So io, da editore, quel che bisogna fare...".

Ecco allora l'idea che sta per diventare legge dello Stato. Efficace, distruttiva. Che paghino gli editori, che sia il loro portafogli a sgonfiarsi. La trovata sposta la linea del conflitto. Era esterna e impegnava la redazione, l'autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, redazioni e proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L'editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si porta così le proprietà a intervenire nei contenuti del lavoro redazionale, le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi dei contenuti, della materia giornalistica vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo pretende addirittura che l'editore debba adottare "misure idonee a favorire lo svolgimento dell'attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio".

Evidentemente, solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell'attività giornalistica è possibile "scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio". Di fatto, l'editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela. Divieto di cronaca per il tempo presente, controllo dell'editore nelle redazioni in tempo reale.

Ecco dunque lo stato dell'arte: si puniscono i giornali e i giornalisti; si sospende il direttore dall'esercizio della sua funzione; si punisce l'editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi non conoscerete più (se non dopo quattro o sei anni) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che influenzano le nostre stesse vite.

(13 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Bugie e domande senza risposta
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:47:53 pm
LA STORIA

Bugie e domande senza risposta


di GIUSEPPE D'AVANZO

 

C'È IN giro una semplificata idea di democrazia. "Le regole del gioco in una democrazia decente sono chiare: ciascuno dice la sua". Memorabile e coerente perché è appunto questo che abbiamo nelle orecchie, a proposito di Silvio, Veronica e le altre.

Slogan demagogici (tra moglie e marito...); frasi fatte (i panni sporchi si lavano in famiglia); chiacchiericcio (la vicenda è privata). Dire democrazia, questo frastuono, pare un azzardo. E' rumore che ogni cosa confonde. E' un dispositivo che distrugge la realtà nell'immagine riflessa del contenitore vuoto dei media. L'operazione non è senza conseguenze perché "il falso indiscutibile" prima cancella l'opinione pubblica che diventa incapace di farsi sentire; poi anche solo di formarsi. C'è chi in questo andazzo ci sta come il topo nel formaggio o perché ha già conquistato il suo posticino a corte o perché spera di conquistarlo al prossimo turno o perché, più umanamente, non ha voglia di darsi il coraggio necessario per chiedere di non essere preso per il naso, almeno. Sarà anche legittimo non farselo piacere l'andazzo, no? Sarà ancora legittimo credere ancora che la realtà esista o che la rimozione non aiuta a guarire le nevrosi - siano esse di un individuo o di una società. E' ancora legittima, per questa destra nichilista, l'esistenza di chi crede che negare la verità significa sempre negare dei fatti e quindi concedergli di conoscerli? Si potrà forse acconsentire che un principio della cultura dominante (Leitkultur) dell'Occidente europeo e liberale è l'"uso pubblico della ragione". Allora, diciamo che è in nome della ragione o, senza esagerare, di una mediocre ragionevolezza che si può chiedere a Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, di inventare meglio la frottola perché così come ce la offre è troppo taroccata per crederla vera. Dovunque la sfiori, suona falsa.

E' in cerca di risposta qualche domanda: Berlusconi "frequenta minorenni", come sostiene Veronica Lario quando si convince a divorziare? Che rapporto, negli anni, Berlusconi ha intrattenuto con Noemi Letizia, 18 anni il 26 di aprile? In quale clima psichico vive il premier? "Ha bisogno di aiuto perché non sta bene", come sostiene preoccupata sua moglie? La febbre o l'inclinazione psicopatologica che lo accalda può definirsi, come hanno scritto il Riformista e l'Unità senza ricevere smentite, un'impotente satiriasi o sexual addiction sfogata in "spettacolini" affollati di escort e "farfalline" tra materassi extralarge in quel palazzo Grazioli, impernacchiato di tricolore, dove si decidono le politiche del Paese? E, per ultimo ma non ultimo - perché questione politica per eccellenza - può essere, per dirla con le parole di Veronica Lario, "il divertimento dell'imperatore", questo "ciarpame senza pudore in nome del potere", a selezionare le classe dirigenti, a decidere della rappresentanza politica? Non emerge oggi "attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile (ancora la Lario) la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne soprattutto di quelle che sono state sempre in prima linea e che ancora lo sono, a tutela dei loro diritti"?

Abituato a scriversi in solitudine l'agenda dell'attenzione pubblica, assuefatto a dettare il menabò dell'informazione scritta e televisiva, Berlusconi barcolla quando lo assale l'imprevisto e non ha il copione scritto. Bersaglio delle critiche al "velinismo in politica" di Sofia Ventura, politologa di Fare Futuro, sorpreso a festeggiare a Casoria, Napoli, una diciottenne, Berlusconi da Varsavia improvvisa e sbaglia le sue mosse. Dice che non ha mai pensato a sistemare "veline" (escluse a sorpresa e in gran fretta, una miss Veneto, una "meteorina" di Retequattro lo smentiscono mentre tacciono deluse una "rossa" del Grande Fratello, una valletta Mediaset, un star di "Incantesimo", un'"Elisa di Rivombrosa"). Dice che Noemi è soltanto "la figlia di un vecchio amico, ex autista di Craxi" (lo smentiscono Bobo Craxi e Giulio Di Donato, vicesegretario del Psi e per di più un napoletano che dovrebbe conoscere l'autista napoletano del segretario). Dice che si tratta di un "tranello mediatico" in cui è caduta anche "la signora", cioè sua moglie. Trappola di chi? Di Fare Futuro, think tank di Gianfranco Fini? La teoria del complotto non fa molta strada, è buona soltanto per babbei e turiferari. Muore lì.

Tornato in Italia da Varsavia, Berlusconi guadagna qualche ora per rimettere insieme e meglio i cocci della sua storia. Che, sulla scena gregaria di Porta a Porta, diventa questa. "E' una menzogna che frequento minorenni. Il padre della ragazza mi ha chiamato perché voleva un appuntamento con me per parlarmi delle candidature nel sud di Franco Malvano e Flavio Martusciello. E' stata soltanto Repubblica a sottendere la frequentazione della ragazza". La favola è scritta male, può contare - per essere accettata - soltanto su una pulsione servile. E' stata Noemi, che lo chiama "papi", a raccontare come sono andate le cose in questi anni. "Papi mi ha allevata. Non mi ha fatto mai mancare le sue attenzioni. Un anno, ricordo, mi ha regalato un diamantino; un'altra volta, una collanina. Domenica, una collana d'oro con un ciondolo. Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo a Milano, a Roma. Resto ad ascoltarlo. E' questo che lui desidera da me. Poi cantiamo assieme. No, non mi candiderò alle prossime regionali. Preferisco candidarmi alla Camera. Ci penserà papi Silvio". Di questi incontri e promesse, Berlusconi non parla. Lascia pubblicare a un periodico della Casa le foto della festa di Casoria. E che c'entrano? Mica Veronica Lario lo ha accusato di atti osceni in luogo pubblico? La strategia di Berlusconi è nota, e le foto la confermano. Non confuta, ma distrae. Non offre alcun certo punto di riferimento per orientarsi nella polemica, ma disintegra nel rumore quel che poco che si sa nella convinzione che, presto, affiorerà la consueta "indifferenza per come stanno davvero le cose".

La fanfaluca ("non frequento minorenni") non regge nemmeno se la si verifica, diciamo così, dal lato del padre di Noemi, Benedetto Letizia. E' lui, Benedetto, il "contatto" tutto politico di Berlusconi? L'uomo, commesso in municipio, dovrebbe essere un influente esponente del Popolo della Libertà meridionale se il presidente del Consiglio discute con lui, proprio con lui e solo con lui senza intermediari, le candidature europee. Purtroppo nel Popolo della Libertà nessuno conosce Benedetto Letizia. Ignorano chi sia Benedetto anche Franco Malvano e Flavio Martusciello. Il primo è stato questore di Napoli e, investito da Berlusconi, candidato sindaco di Napoli. Il secondo è il fratello di Antonio Martusciello, dirigente di Publitalia prima di entrare nella task force di Marcello Dell'Utri che creò Forza Italia, diventato parlamentare e anche viceministro dei Beni culturali. Un buon veicolo, il fratello, per raggiungere il Capo. E' ragionevole credere che se i due avessero voluto discutere delle loro candidature si sarebbero rivolti direttamente a Berlusconi e non ai buoni uffici di un commesso del Comune che nel PdL non si è mai visto. Berlusconi ammette di aver incontrato la ragazza in qualche occasione, ma sempre alla presenza dei genitori. Né la madre né il padre di Noemi hanno mai parlato di incontri a Milano o a Roma con Berlusconi. Si può scommettere qualche euro che lo faranno nei prossimi giorni. Se si sbriciolano tutti gli argomenti preparati per smentire gli incontri con una minorenne (tre regali, tre compleanni vuol dire che Noemi incontra Berlusconi da quando aveva sedici anni e lo ha conosciuto quindicenne), è più assennato credere alle parole inquiete di Veronica Lario: è vero, il presidente del Consiglio frequenta minorenni che "magari" fossero sue figlie segrete. Trascuriamo le ricostruzioni degli "spettacolini" e gli "accappatoi di un bianco che quasi abbaglia" e il vigore ritrovato con un misterioso "farmaco che si inietta", assunto ormai "fuori da ogni controllo medico". Abbandoniamo queste scene tra le cose dette e mai contraddette perché è ben più critico (o molto coerente) che la questione politica, sollevata all'inizio di questa storia da due donne, Sofia Ventura e Veronica Lario, sia stata affrontata soltanto da altre donne (Aspesi, Bindi, Bonino, Spinelli, Dominijanni) nel raggelante silenzio dell'élite nazionale come se questa "valorizzazione" delle donne non riducesse "la loro libertà a libertà di mostrarsi in tv e offrirsi come gadget al circuito del potere" o a un dominio proprietario e "spettacolare". Sembra che soltanto le donne abbiano capito che quest'ambigua, violenta atmosfera che consente di ridicolizzare le loro storie e il loro destino, tra sghignazzi, ironie e magari qualche "palpatina di classe", educa "la gente per bene ad abituarsi ad ascoltare cose che, nel passato, sarebbe stata orripilata di pensare e alle quali non sarebbe stata concessa pubblica espressione". O alcun "uso pubblico della ragione".

(8 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Incoerenze di un caso politico
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 11:02:50 pm
Incoerenze di un caso politico

Quella festa a Casoria e le parole di Veronica. Il padre di Noemi e le candidature Pdl.

Il Cavaliere non ha accettato di farsi intervistare da Repubblica.

Da oggi uno speciale multimediale alla ricerca di una verità

di GIUSEPPE D'AVANZO


Repubblica ha chiesto, nei giorni scorsi, di rivolgere al presidente del Consiglio dieci domande sulle incoerenze e le omissioni di una storia che molti definiscono “di Veronica” o “di Noemi” e nessuno azzarda a definire per quel che è o appare: un “caso Berlusconi”. Il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, lunedì, ha chiesto due giorni per dare una risposta. Quella risposta non è arrivata. Per non dissimulare, come vuole il nuovo conformismo dell’informazione italiana, ciò che dovrebbe essere chiarito, pubblichiamo oggi le domande che avremmo voluto rivolgere al premier e le contraddizioni che abbiamo ritenuto di riscontrare tra le sue dichiarazioni e quelle degli altri protagonisti della vicenda.

Silvio Berlusconi ha detto: «Credo che chi è incaricato di una funzione pubblica, come il presidente del Consiglio, possa accettare la continuazione di un rapporto [con la sua consorte, Veronica Lario] soltanto se si chiarisce chi ha provocato questa situazione». (Porta a Porta, 5 maggio 2009).

Repubblica concorda con Silvio Berlusconi. E’ evidente che, nonostante il frastuono mediatico di queste ore, non si discute di un divorzio o di una separazione, affare privato di due coniugi.  Come ha chiaro il premier, la questione interroga i comportamenti di «un incaricato di una funzione pubblica». In quanto tali, quei comportamenti sono sempre di pubblico interesse e non possono essere circoscritti a un ambito familiare. D’altronde, la signora Veronica Lario, nelle sue dichiarazioni del 29 aprile e del 3 maggio, offre all’attenzione dell’opinione pubblica due certezze personali e una domanda.

Le due certezze descrivono, tra il pubblico e il privato, i comportamenti del presidente del Consiglio: «Mio marito frequenta minorenni»; «Mio marito non sta bene».

La domanda, posta dalla signora all’opinione pubblica e a chi in vario modo la rappresenta, è invece tutta politica e chiama in causa le pratiche del «potere», il suo modo di essere, che si degrada e si avvilisce pericolosamente quando a rappresentare la sovranità popolare vengono chiamate “veline” senza altro merito che un bell’aspetto e la prossimità al premier.

Ha detto la signora Lario: «Quello che emerge oggi, attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile,  è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne (...). Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell’imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore». (Ansa, 28 aprile, 22:31)

Silvio Berlusconi ha replicato, a caldo, evocando un complotto «della sinistra e della sua stampa che non riescono ad accettare la mia popolarità al 75 per cento (…) Tutto falso, nato dalla trappola in cui anche mia moglie purtroppo è caduta. Le veline sono inesistenti. Un’assoluta falsità». (Porta a porta, 5 maggio)

E’ il primo ingombro che bisogna verificare. Questa storia è soltanto una trappola bene organizzata? E' vero, se di complotto si tratta, che nasconde la mano della sinistra e della «sua stampa»?

Tre evidenze lo escludono.
Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una “velina” alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12, nella rubrica Indiscreto a Palazzo si legge che «Barbara Matera punta a un seggio europeo». «Soubrette, già “Letterata” del Chiambretti c’è, poi “Letteronza” della Gialappa’s, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri», la Matera, scrive il Giornale, «ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. “Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto”». «E si vede», commenta il giornale di casa Berlusconi.

Il secondo giornale che svela «la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare» è Libero, il 22 aprile. Notizia e foto di prima pagina con «Angela Sozio, la rossa del Grande Fratello e le gemelle De Vivo dell’Isola dei famosi, possibili candidate alle elezioni europee». A pagina 12, le rivelazioni: «Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore» è il titolo. «Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl» è il sommario.

Per Libero le «showgirl», che dovranno superare un colloquio, sono 21 (in lista i candidati a un seggio di Bruxelles, come si sa, sono 72). I nomi che si leggono nella cronaca sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e «una misteriosa signorina» lituana, Giada Martirosianaite.

Difficile sostenere che Il Giornale e Libero siano fogli di sinistra. Come è arduo credere che la Fondazione farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini, sia un pensatoio vicino al partito democratico. Il think tank, diretto dal professor Alessandro Campi, vuole «far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione». Coerentemente critica l’uso di «uno stereotipo femminile mortificante» e con un’analisi della politologa Sofia Ventura avverte che «il “velinismo” non serve». Nell’articolo si legge: «Assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare, allo scopo di proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento. Questo uso strumentale del corpo femminile, al quale naturalmente le protagoniste si prestano con disinvoltura, denota uno scarso rispetto, da un lato, per quanti, uomini e donne, hanno conquistato uno spazio con le proprie capacità e il proprio lavoro; dall’altro, per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima».

Sofia Ventura conclude: «Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi. Le donne sono, banalmente, persone. Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse».

Quando la signora Lario prende (buonultima) la parola per censurare il “velinismo” - e «il ciarpame senza pudore» del potere - non si muove nel vuoto, ma su un terreno già smosso dalle rivelazioni dei giornali vicini al premier e dalle analisi critiche di intellettuali prossimi alla maggioranza di governo.

Questo “caso” non ha inizio con un intrigo, come protesta Berlusconi, ma trova la sua trasparente ragione nella preoccupazione di ambienti della destra per un «impoverimento della qualità democratica di un paese» (ancora la Ventura).

Rimosso il presunto «complotto», resta il “caso” politico, dunque. Un “caso” che diventa anche familiare, quando Veronica Lario scopre che Silvio Berlusconi ha partecipato a Napoli alla festa di compleanno di una diciottenne (Repubblica, 28 aprile). E ancora una volta politico quando la signora, annunciando la sua volontà di divorziare, denuncia pubblicamente i comportamenti di un marito che, «incaricato di una pubblica funzione», «frequenta minorenni», prigioniero com’è di un disagio che minaccia il suo equilibrio psicofisico.

Il presidente del Consiglio ha replicato ai rilievi della signora Lario con due interviste alla carta stampata (Corriere della Sera e la Stampa, 4 maggio) e con un lungo monologo a Porta a Porta (5 maggio).

In queste tre sortite pubbliche, la ricostruzione degli avvenimenti di cui si discute (la candidatura di giovani donne selezionate per la loro bellezza e amicizia con il premier; il suo affetto per Noemi Letizia, maggiorenne il 26 aprile; la partecipazione alla festa di compleanno; il lungo sodalizio amicale con la famiglia Letizia) ha avuto, da parte di Berlusconi, una parola definitiva, ma o contraddittoria o omissiva.

Berlusconi nega di aver mai avuto intenzione di candidare  «soubrette». «Non avevamo messo in lista nessuna “velina”» (Corriere, 4 maggio) Noemi lo chiama «papi». Perché? A chi glielo chiede, replica: «E’ uno scherzo, mi volevano dare del nonno, meglio mi chiamino papi. Non crede?» (Corriere, 4 maggio). Berlusconi è più preciso con la Stampa (4 maggio): «Io frequenterei, come ha detto la signora [Lario], delle diciassettenni. E’ una cosa che non posso sopportare. Io sono amico del padre punto e basta. Lo giuro!»

E’ la stessa versione offerta a France2 (6maggio). Quando il presidente del Consiglio spiega le circostanze della frequentazione con Noemi Letizia –  si tratta di un’antica amicizia di natura politica con il padre, dice –  il giornalista lo interrompe per chiedere: «…dunque [Noemi] non è una ragazza che lei conosceva personalmente?».
Berlusconi risponde: «No, ho avuto l’occasione di conoscerla con i suoi genitori. Questo è tutto».

La versione di Berlusconi è contraddetta in tutti i suoi elementi dalle interviste che Noemi Letizia concede.
Noemi così ricostruisce il suo legame affettivo con il presidente del Consiglio: «Mi vuole bene come a un figlia. E anch’io, noi tutti gli siamo molto legati». (Repubblica, 29 aprile)

Al Corriere del Mezzogiorno, il 28 aprile, consegna dettagli chiave.
«[Berlusconi, papi] mi ha allevata (…) E’ un amico di famiglia. Dei miei genitori (…) non mi ha fatto mai mancare le sue attenzioni. Un anno [per il mio compleanno], ricordo, mi ha regalato un diamantino. Un’altra volta, una collanina. Insomma, ogni volta mi riempie di attenzioni. (…) Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che desidera da me. Poi, cantiamo assieme. (…) Quando vado da lui ha sempre la scrivania sommersa dalle carte. Dice che vorrebbe mettersi su una barca e dedicarsi alla lettura. Talvolta è deluso dal fatto che viene giudicato male, gli spiego che chi lo giudica male non guarda al di là del proprio naso.  Nessuno può immaginare quanto papi sia sensibile. Pensi che gli sono stata vicinissima quando è morta, di recente, la sorella Maria Antonietta. Gli dicevo che soltanto io potevo capire il suo dolore. (…) [Da grande vorrò fare] la showgirl. Mi interessa anche la politica. Sono pronta a cogliere qualunque opportunità. (…) Preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà papi Silvio».

Nel racconto di Noemi c’è la narrazione di un rapporto diretto, intenso con il presidente del Consiglio. Che le fa tre regali per il 16°, 17° e 18° compleanno. Quindi, si può concludere, Berlusconi ha conosciuto Noemi quindicenne. Nel loro rapporto non c’è alcun ruolo o presenza dei genitori. Noemi non vi fa alcun riferimento e non è corretta dalla madre, presente al colloquio con Angelo Agrippa del Corriere del Mezzogiorno. Berlusconi ha tentato di ridimensionare il legame con la minorenne: «Ho incontrato la ragazza due o tre volte, non ricordo, e sempre alla presenza dei genitori». I genitori non hanno ancora confermato le parole del premier.

Durante l’incontro con il giornalista, la signora Anna Palumbo - madre di Noemi - interviene soltanto per specificare le circostanze in cui Berlusconi ha conosciuto suo marito, Benedetto “Elio” Letizia. Dice: «[Berlusconi] ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista. Ma non possiamo dire di più».

Noemi non è così evasiva quando affronta una delle questioni decisive per questa storia. E’ addirittura esplicita. Ella ritiene di poter ottenere da Berlusconi l’opportunità di fare spettacolo o, in alternativa, di essere eletta in parlamento. Televisione o scranno a Montecitorio. Le aspettative di Noemi, sollecitate dalle attenzioni (o promesse) di Berlusconi, sono in linea con le riflessioni critiche di farefuturo, il think tank di Gianfranco Fini («Le donne non sono gingilli») e della signora Lario («Ciarpame senza pudore»).

Quando e dove e come si sono conosciuti Berlusconi e Benedetto Letizia è un altro enigma di questa storia che raccoglie versioni successive e contraddittorie.

A Varsavia Berlusconi dice: «[Benedetto] lo conosco da anni, è un vecchio socialista ed era l’autista di Craxi». (Ansa, 29 aprile, 16:34)
Quando la circostanza è subito negata da Bobo Craxi («Cado dalle nuvole. L’autista di mio padre si chiamava Nicola, era veneto, ed è morto da qualche anno», Ansa, 29 aprile, 16:57), Palazzo Chigi con un imbarazzato ritardo di venti ore, smentisce a sua volta: «Si rileva che il presidente Berlusconi non ha mai detto che il signor Letizia fosse autista dell’on. Bettino Craxi» (Ansa, 30 aprile, 12:30).

Dal suo canto, Letizia non vuole ricordare in pubblico come e dove e quando ha conosciuto Berlusconi. Chi lo interroga raccoglie soltanto parole vuote. «Volete sapere come ho conosciuto Berlusconi? Va bene, ve lo dico, però allora vi racconto anche come ho conosciuto tutte le persone che conosco…». (Corriere, 10 maggio)

In qualche altra occasione, il rifiuto di Letizia a raccontare il primo incontro con il futuro premier è ancora più categorico:
«Non ho alcuna intenzione di farlo» (Oggi, in edicola il 6 maggio)

Anche Noemi non ha voglia di offrire rievocazioni: «Non ricordo i particolari [di come è nato il contatto familiare], queste cose ai miei genitori non le ho chieste. Non è che si siano incrociati sul lavoro: mio padre è un dipendente comunale...». (Repubblica, 29 aprile)

Un ricordo vivo del primo incontro tra Berlusconi e Letizia sembra averlo Arcangelo Martino, un ex assessore socialista al comune di Napoli, oggi vicino al partito del presidente del Consiglio. «Fra il 1987 e il 1993 sono stato grande amico di Bettino Craxi. Tutti i mercoledì andavo a trovarlo a Roma all’hotel Raphael, una consuetudine. Mi accompagnava sempre qualcuno del mio staff e quel qualcuno era quasi sempre Elio Letizia (…) Parecchie volte è capitato che al Raphael ci fosse Silvio Berlusconi. E’ lì che ho presentato i due che poi hanno fatto amicizia». (Corriere della sera, 10 maggio).

Il ricordo di Arcangelo Martino è sconfessato con nettezza ancora una volta da Bobo Craxi. «Escludo categoricamente che il signor Letizia fosse un habitué dell’hotel Raphael (…) Lo stesso Martino credo che sia passato qualche volta a salutare mio padre». (Repubblica, 11 maggio)

Chiara anche la smentita di uomini che furono accanto al leader socialista: Gianni De Michelis («Mai sentito nominare Letizia»); Gennaro Acquaviva («Mai sentito nominare Letizia, neanche dai napoletani»); Giulio Di Donato («Questo signor Letizia, nel panorama napoletano e campano dei socialisti, non esisteva,  a mia memoria»). Ancora più efficace la contestazione di Stefano Caldoro: «Proprio nei primi anni novanta, abitavo al Raphael tutte le volte che mi fermavo a Roma. Si scherzava sulla intraprendenza di Martino (…) ma escludo categoricamente di aver mai visto e sentito che questo Letizia venisse presentato a Craxi. Perché mai l’avrebbero dovuto presentare? Non era un dirigente, non era un esponente del sociale, non era un militante» (Ancora Repubblica, 11 maggio 2009).

L’occasione dell’incontro tra Berlusconi e Letizia è ancora da chiarire. Come i tempi della decisione del presidente del Consiglio di partecipare alla festa di compleanno di Noemi. Al Corriere della sera, 4 maggio, così Berlusconi ha spiegato la sua presenza a Napoli: «Racconto come è andata veramente. Quel giorno mi telefona il padre, un mio amico da tanti anni. E quando sa che in serata sarei stato a Napoli, per controllare lo stato di avanzamento del progetto per il termovalorizzatore, insiste perché passi almeno un attimo al compleanno della figlia. La casa è vicina all’aeroporto. Non molla. Io non so dir di no. Eravamo in anticipo di un’ora e ci sono andato. Nulla di strano, è accaduto altre volte per compleanni e matrimoni».

Berlusconi, dunque, partecipa alla festa per un atto di affetto nei confronti di Elio Letizia. Non si parla di Noemi né di altra necessità politica o urgenza di altra natura. Diversa la versione offerta, lo stesso giorno (4 maggio) alla Stampa: «Suo padre, che conoscevo da tempo, mi ha telefonato per chiedermi se lasciavo fuori Martusciello (Flavio, consigliere regionale del PdL) dalle liste per le Europee, io gli ho spiegato che avrei cercato di mettere sia l’ex-questore Malvano (Franco, già candidato a sindaco di Napoli) sia Martusciello e che stavo arrivando a Napoli per dare una spinta ai contratti per i nuovi termovalorizzatori che sono frenati dalla burocrazia. A quel punto lui mi ha interrotto e mi ha detto: “Stavi venendo a Napoli? Io stasera festeggio il diciottesimo compleanno di Noemi, perché non vieni con un brindisi, lo facciamo in un locale poco distante dall’aeroporto. Ti prego vieni sarebbe il più bel regalo della mia vita”. Così ci sono andato…».

Berlusconi aggiunge qualche dettaglio in più nel solco di questa versione, il 5 maggio, durante Porta a Porta: «Ero al salone del Mobile della Fiera di Rho, imbarazzato per i cori “Meno male che Silvio c’e”, “Magico” e il capitano dell’elicottero mi ha detto che era in arrivo entro mezz’ora un temporale che ci avrebbe costretto ad andare in macchina a Linate. Per questo siamo partiti in anticipo e [visto il tempo a disposizione, prima di] una riunione politica che avevo in serata [con il ristorante a soli tre minuti dall’aeroporto] sono entrato…»

Anche questa ricostruzione trova delle evidenze che la contraddicono. Berlusconi giunge a Napoli con un regalo per Noemi, «cerchi concentrici in oro rosa arricchiti da una cascata di diamanti bianchi montati su oro bianco, 6mila euro, il ciondolo è anche nella collezione di Sophia Loren» (Gente, 19 maggio). Si è molto discusso di questa circostanza che, al contrario, non pare molto significativa: il presidente potrebbe aver a bordo del suo aereo dei cadeaux da distribuire secondo necessità.

Più interessante è che l’aereo di Berlusconi giunga a Napoli con un’ora di anticipo rispetto all’inizio della festa e il presidente attenda nell’aeromobile per un’ora prima di muoversi ed entrare «cinque minuti dopo l’arrivo in sala di Noemi» (Annozero, 7 maggio). Secondo la testimonianza di un fotografo, ingaggiato dal patron del ristorante “Villa Santa Chiara”, si sapeva da sabato 25 aprile dell’arrivo del premier e, in ogni caso, la “bonifica” della sala da parte della polizia è stata predisposta già nella mattinata, «alle 15», per alcune fonti del Dipartimento di sicurezza. (Repubblica, 9 maggio).

Sembra di poter dire che non c’è stato alcun cambio di programma a Rho nel tardo pomeriggio di domenica 26 aprile. La partecipazione alla festa di Noemi era già nell’agenda del presidente da giorni, come dimostrano la “bonifica”, l’attesa in aereo, l’arrivo nel ristorante subito quasi contestualmente all’ingresso della diciottenne come per un copione precedentemente preparato.

C’è un’ultima contraddizione da sciogliere. La scelta o indicazione delle “veline” da candidare è stata opera di Berlusconi? A Porta a Porta, 5 maggio, il presidente del Consiglio sostiene di non aver messo becco nella candidature europee: «Le candidature per le Europee non sono state gestite direttamente dal premier. Ad occuparsene sono stati i tre coordinatori del PdL Bondi, La Russa e Verdini che “da migliaia di segnalazioni sono giunti a 500 schede” per individuare i 72 candidati si sono orientati secondo le indicazioni del congresso, spazio ai giovani e alla donne. Tra questi candidati nessuna è qualificabile come velina» (resoconto delle parole del premier a Porta a porta, 5 maggio, tratto dal Giornale, 6 maggio). Berlusconi ammette però di avere discusso con Elio Letizia (non è un dirigente del PdL né, che si sappia, un iscritto al partito) le candidature di Malvano e Martusciello e per farlo lo raggiunge addirittura a Napoli alla festa di sua figlia. La circostanza appare contraddittoria e, senza altre spiegazioni, inverosimile.

Il rosario di incoerenze che si incardina sulla questione politica posta da farefuturo e dalla signora Lario (come Berlusconi seleziona le classi dirigenti) sollecita di rivolgere a Berlusconi dieci domande:

1.      Quando e come Berlusconi ha conosciuto il padre di Noemi Letizia, Elio?

2.      Nel corso di questa amicizia, che il premier dice «lunga», quante volte si sono incontrati e dove e in quale occasioni?

3.      Ogni amicizia ha una sua ragione, che matura soprattutto nel tempo e in questo caso – come ammette anche Berlusconi – il tempo non è mancato. Come il capo del governo descriverebbe le ragioni della sua amicizia con Benedetto Letizia?

4.      Naturalmente il presidente del Consiglio discute le candidature del suo partito con chi vuole e quando vuole. Ma è stato lo stesso Berlusconi a dire che non si è occupato direttamente della selezione dei candidati, perché farlo allora con Letizia, peraltro non iscritto né militante né dirigente del suo partito né cittadino particolarmente influente nella società meridionale?

5.      Quando Berlusconi ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?

6.      Quante volte Berlusconi ha avuto modo di incontrare Noemi e dove?

7.      Berlusconi si occupa dell’istruzione, della vita e del futuro di Noemi. Sostiene finanziariamente la sua famiglia?

8.      E’ vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l’accesso alla scena politica e questo «uso strumentale del corpo femminile», per il premier, non «impoverisce la qualità democratica di un paese» come gli rimproverano personalità e istituzioni culturali vicine al suo partito? 

9.    Veronica Lario ha detto che il marito «frequenta minorenni». Al di là di Noemi, ci sono altre minorenni che il premier incontra o «alleva», per usare senza ironia un’espressione della ragazza di Napoli?

10. Veronica Lario ha detto: «Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile». Geriatri (come il professor Gianfranco Salvioli, dell’Università di Modena) ritengono che i comportamenti ossessivi nei confronti del sesso, censurati da Veronica Lario, potrebbero essere l’esito di «una degenerazione psicopatologica di tratti narcisistici della personalità». Quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio?

(14 maggio 2009)

da repubblica.it



Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Un leader in fuga dalla verità
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:31:28 am
L'ANALISI

Un leader in fuga dalla verità

di GIUSEPPE D'AVANZO


È giusto ricordare che, se Silvio Berlusconi non si fosse fabbricato l'immunità con la "legge Alfano", sarebbe stato condannato come corruttore di un testimone che ha protetto dinanzi ai giudici le illegalità del patron della Fininvest. Condizione non nuova per Berlusconi, salvato in altre occasioni da norme che egli stesso si è fatto approvare da un parlamento gregario.

Le leggi ad personam, è vero, sono un lacerto dell'anomalia italiana che trova il suo perno nel conflitto di interessi, ma la legislazione immunitaria del premier è soltanto un segmento della questione che oggi l'Italia e l'Europa hanno davanti agli occhi. Le ragioni della condanna di David Mills (il testimone corrotto dal capo del governo) chiamano in causa anche altro, come ha sempre avuto chiaro anche il presidente del consiglio. Nel corso del tempo, il premier ha affrontato il caso "All Iberian/Mills" con parole definitive, con impegni che, se fosse coerente, oggi appaiono temerari: "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario" (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15,17). Nove anni dopo, Berlusconi è a Bruxelles, al vertice europeo dei capi di Stato e di governo. Ripete: "Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Il sole24ore. com; Ansa, 20 giugno 2008, ore 15,47). È stato lo stesso Berlusconi a intrecciare consapevolmente in un unico destino il suo futuro di leader politico, "responsabile di fronte agli elettori", e il suo passato di imprenditore di successo. Quindi, ancora una volta, creando un confine indefinibile tra pubblico e privato. Se ne comprende il motivo perché, nell'ideologia del premier, il suo successo personale è insieme la promessa di sviluppo del Paese. I suoi soldi sono la garanzia della sua politica; sono il canone ineliminabile della "società dell'incanto" che lo beatifica; quasi la condizione necessaria della continua performance spettacolare che sovrappone ricchezza e infallibilità.

Otto anni fa questo giornale, dando conto di un documento di una società internazionale di revisione contabile (Kpmg) che svelava l'esistenza di un "comparto estero riservato della Fininvest", chiedeva al premier di rispondere a qualche domanda "non giudiziaria, tanto meno penale, neppure contabile: soltanto di buon senso. Perché questi segreti, e questi misteri? Perché questo traffico riservato e nascosto? Perché questo muoversi nell'ombra? Il vero nucleo politico, ma prima ancora culturale, della questione sta qui perché l'imprenditorialità, l'efficienza, l'homo faber, la costruzione dell'impero ? in una parola, i soldi ? sono il corpo mistico dell'ideologia berlusconiana" (Repubblica, 11 aprile 2001). Berlusconi se la cavò come sempre dandosi alla fuga. Andò a farsi intervistare senza contraddittorio a Porta a porta per dire: "All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità".

La scena oggi è mutata in modo radicale. Se il processo "All Iberian" (condanna e poi prescrizione) aveva concluso in Cassazione che "non emerge negli atti processuali l'estraneità dell'imputato", le motivazioni della sentenza che ha condannato David Mills ci raccontano il coinvolgimento "diretto e personale" di Silvio Berlusconi nella creazione e nella gestione di "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest". Le creò David Mills per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mentì in aula per tener lontano Berlusconi dai guai, da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio "enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali", come si legge nella sentenza.

È la conclusione che ha reso necessaria l'immunità. Berlusconi temeva questo esito perché, una volta dimostrato il suo governo personale sulle 64 società off-shore, si può oggi dare risposta alle domande di otto anni fa, luce a quasi tutti i misteri della sua avventura imprenditoriale. Si può comprendere come è nato l'impero del Biscione e con quali pratiche. Lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" sono transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come "i politici costano molto? ed è in discussione la legge Mammì"). E ancora, il finanziamento estero su estero a favore di Giulio Malgara, presidente dell'Upa (l'associazione che raccoglie gli inserzionisti pubblicitari) e dell'Auditel (la società che rileva gli ascolti televisivi); la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. Sono le connessioni e la memoria che sbriciolano il "corpo mistico" dell'ideologia berlusconiana: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c'è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

Questo è il quadro che dovrebbe convincere Berlusconi ad affrontare con coraggio, in pubblico e in parlamento, la sua crisi di credibilità, la decadenza anche internazionale della sua reputazione. Magari con un colpo d'ala rinunciando all'impunità e accettando un processo rapido. Non accadrà. Il premier non sembra comprendere una necessità che interpella il suo privato e il suo ufficio pubblico, l'immagine stessa del Paese dinanzi al mondo. Prigioniero di un ostinato narcisismo e convinto della sua invincibilità, pensa che un bluff o qualche favola o una nuova nebbia mediatica possano salvarlo ancora una volta. Dice che non si farà processare da questi giudici e sa che non saranno "questi giudici" a processarlo. Sa che non ci sarà, per lui, alcun processo perché l'immunità lo protegge. Come sa che, se la Corte Costituzionale dovesse cancellare per incostituzionalità lo scudo immunitario, le norme sulla prescrizione che si è approvato uccideranno nella culla il processo. Promette che in parlamento "dirà finalmente quel che pensa di certa magistratura", come se non conoscessimo la litania da quindici anni. Finge di non sapere che ci si attende da lui non uno "spettacolo", ma una risposta per le sue manovre corruttive, i metodi delle sue imprese, i sistemi del suo governo autoreferenziale e privatistico. S'aggrappa al solito refrain, "gli italiani sono con me", come se il consenso lo liberasse da ogni vincolo, da ogni dovere, da ogni onere. Soltanto un potere che si ritiene "irresponsabile" può continuare a tacere. Quel che si scorge in Italia oggi ? e non soltanto in Italia ? è un leader in fuga dalla sua storia, dal suo presente, dalle sue responsabilità. Un leader che non vuole rispondere perché, semplicemente, non può farlo.

(20 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Frottole e calunnie
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 11:52:51 am
IL COMMENTO

Frottole e calunnie

di GIUSEPPE D'AVANZO


 Silvio Berlusconi, pur in questo momento difficile della sua avventura politica, dovrebbe trovare un maggior controllo per riconciliarsi con una realtà che, nei suoi monologanti flussi verbali, diventa ogni ora di più leggenda, fiaba, sceneggiatura da scrivere e riscrivere secondo l'urgenza del momento.

Il premier deve fare questa fatica, se ne è in grado, nel rispetto soprattutto di chi lo ascolta (e anche di se stesso).

Da giorni, il premier urla a gola piena e in qualsiasi occasione propizia contro Nicoletta Gandus, presidente del collegio che ha condannato David Mills testimone corrotto dal premier. Berlusconi con ostinazione ne vuole screditare la credibilità, la reputazione, l'imparzialità e umiliandola, senza un contraddittorio, pensa di salvare la faccia dinanzi al mondo; di cancellare con la sola forza della sua voce onnipotente e delle sue frottole indiscutibili (e mai discusse dai media) l'illegalità che il processo Mills ha ricostruito e la serena indipendenza che ha ispirato il giudizio. Il premier, da anni e da tre giorni tutti i giorni, dipinge quel giudice come "un nemico politico", come "un avversario in tutti i campi", come "un'estremista". I suoi avvocati sono giunti a rimproverare a Nicoletta Gandus "attacchi e insulti contro il premier". Quali?

L'aver firmato un appello di "condanna della politica di repressione violenta e di blocco economico messa in atto dal governo israeliano nei confronti della popolazione palestinese" senza dire che la Gandus è ebrea e quell'appello era firmato da ebrei e "in nome del popolo ebreo". Il capo del governo sostiene che quel giudice "ha dimostrato avversione nei suoi confronti". La prova? La Gandus ha firmato un appello contro la legge sulla fecondazione assistita o, con centinaia di giuristi e accademici, un appello alla politica - a tutta la politica - per riequilibrare leggi che avrebbero distrutto "il sistema giudiziario e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi", come poi è stato. Da quell'appello vengono maliziosamente estratte, a proposito della legge berlusconiana che modifica i tempi della prescrizione (la "Cirielli"), due sole parole, "obbrobrio devastante". Le due parole sono gettate sul viso della Gandus come se fossero state dette o scritte da lei e non dal presidente della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli.

Nel corso del tempo, Berlusconi si è spinto fino alla calunnia. Al devoto Augusto Minzolini, neodirettore del Tg1, riferisce di avere un asso nella manica per dimostrare la faziosità di quel giudice. "Ho un testimone che ha ascoltato una conversazione tra il presidente del Tribunale Nicoletta Gandus, e un altro magistrato. La Gandus ha detto questa frase al suo interlocutore. "A questo str... di Berlusconi gli facciamo un c... così. Gli diamo sei anni e poi lo voglio vedere fare il presidente del Consiglio"" (la Stampa, 18.06.08). Dov'è finito questo testimone? Perché non ha mai raccontato in pubblico e a un altro giudice la volontà pregiudiziale della Gandus? Di questo testimone non si è avuta più notizia né nelle carte della ricusazione presentata dai legali del capo del governo né, dopo un anno, ora che Berlusconi è ripartito lancia in resta contro la magistratura.
Quel testimone non è mai esistito, quella conversazione non c'è mai stata. Berlusconi ha inventato l'una e l'altra di sana pianta calunniando il giudice milanese, mentendo a tutti coloro che lo hanno ascoltato e magari lo hanno preso sul serio.

La Gandus accoglie da anni in silenzio gli insulti del capo del governo, ascolta imperturbabile le frottole che sparge sul suo conto. Fa bene a tacere. Berlusconi chiede soltanto la rissa per superare le curve che lo stanno screditando (o rivelando). Il premier ci va a nozze nel discorso pubblico che si fa nebbia e rissa. Ne ricava la radicalizzazione del suo consenso, e questo è l'unica cosa che gli serve e vuole. E tuttavia, anche per Berlusconi, ci deve essere un limite alla manipolazione della realtà e proporgli quel limite, la necessaria coerenza delle sue parole alle cose, ai fatti, alla storia delle persone, deve essere fatica quotidiana di chi lo ascolta. Può continuare, il premier, a ripetere senza che alcuno lo interrompa di non aver mai conosciuto David Mills nonostante l'avvocato inglese abbia detto e scritto di averlo incontrato, per lo meno, in due occasioni? Quando Berlusconi verrà a spiegarci che la seconda guerra mondiale è scoppiata perché un dissennato Belgio ha invaso il distratto Terzo Reich? O che il Sole gira intorno alla Terra immobile? Può credere il premier di essere sempre nella poltrona bianca di Porta a Porta?

(22 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO e CONCHITA SANNINO "Sono colpito dal tuo viso angelico"
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:33:50 am
L'INCHIESTA.

Parla Gino, l'ex fidanzato della ragazza di Portici

La prima telefonata del Cavaliere: "Sono colpito dal tuo viso angelico"

"Così papi Berlusconi entrò nella vita di Noemi"


di GIUSEPPE D'AVANZO e CONCHITA SANNINO

 

NAPOLI - Il 14 maggio Repubblica ha rivolto al presidente del consiglio dieci domande che apparivano necessarie dinanzi alle incoerenze di un "caso politico". Veronica Lario, infatti, ha proposto all'opinione pubblica e alle élites dirigenti del Paese due affermazioni e una domanda che hanno rimosso dal discreto perimetro privato un "affare di famiglia" per farne "affare pubblico". Le due, allarmanti certezze della moglie del premier - lo ricordiamo - descrivono i comportamenti del presidente del Consiglio: "Mio marito frequenta minorenni"; "Mio marito non sta bene".

Al contrario, la domanda posta dalla signora Lario - se ne può convenire - è crudamente politica e mostra le pratiche del "potere" di Silvio Berlusconi, pericolosamente degradate quando a rappresentare la sovranità popolare vengono chiamate "veline" senza altro merito che un bell'aspetto e l'amicizia con il premier, legami nati non si sa quando, non si sa come. "Ciarpame politico" dice la moglie del premier.
Silvio Berlusconi non ha ritenuto di rispondere ad alcuna delle domande di Repubblica.

E, dopo dieci giorni, Repubblica prova qui a offrire qualche traccia e testimonianza per risolvere almeno alcuni dei quesiti proposti. Per farlo bisogna raggiungere Napoli, una piccola fabbrica di corso San Giovanni e poi un appartamento, allegramente affollato di amici, nel popolare quartiere del Vasto a ridosso dei grattacieli del Centro Direzionale. Sono i luoghi di vita e di lavoro di Gino Flaminio.

Gino, 22 anni, operaio, una passione per la kickboxing, è stato per sedici mesi (dal 28 agosto del 2007 al 10 gennaio del 2009) l'"amore" di Noemi Letizia, la minorenne di cui il premier ha voluto festeggiare il diciottesimo anno in un ristorante di Casoria, il 26 aprile. Gino e Noemi si sono divisi, per quel breve, intenso, felice periodo le ore, i sogni, il fiato, le promesse. "Quando non dormivo da lei a Portici - è capitato una ventina di volte - o quando lei non dormiva qui da me, il sabato che non lavoravo mi tiravo su alle sei del mattino per portarle la colazione a letto; poi l'accompagnavo a scuola e ci tornavo poi per riportarla indietro con la mia Yamaha. Lei qualche volta veniva a prendermi in fabbrica, la sera, quando poteva".

Gino Flaminio è in grado di dire quando e come Silvio Berlusconi è entrato nella vita di Noemi. Come quel "miracolo" (così Gino definisce l'inatteso irrompere del premier) ha cambiato - di Noemi - la vita, i desideri, le ambizioni e più tangibilmente anche il corpo, il volto, le labbra, gli zigomi; in una parola, dice Gino, "i valori". Il ragazzo può raccontare come quell'ospite inaspettato dal nome così importante che faceva paura anche soltanto a pronunciarlo nel piccolo mondo di gente che duramente si fatica la giornata e un piatto caldo, ha deviato anche la sua di vita. Quieto come chi si è ormai pacificato con quanto è avvenuto, Gino ricorda: "Mi è stato quasi subito chiaro che tra me e la mia memi non poteva andare avanti. Era come pretendere che Britney Spears stesse con il macellaio giù all'angolo...".

È utile ricordare, a questo punto, che il primo degli enigmi del "caso politico" è proprio questo: come Berlusconi ha conosciuto Noemi, la sua famiglia, il padre Benedetto "Elio" Letizia, la madre Anna Palumbo?
A Berlusconi è capitato di essere inequivocabile con la Stampa (4 maggio): "Io sono amico del padre, punto e basta. Lo giuro!". Con France2 (6 maggio), il capo del governo è stato ancora più definitivo. Ricordando l'antica amicizia di natura politica con il padre Elio, Berlusconi chiarisce: "Ho avuto l'occasione di conoscere [Noemi] tramite i suoi genitori. Questo è tutto".

Un affetto che il presidente del consiglio ha ripetuto ancor più recentemente quando ha presentato Noemi "in società", per così dire, durante la cena che il governo ha offerto alle "grandi firme" del made in Italy a Villa Madama, il 19 novembre 2008: "È la figlia di miei cari amici di Napoli, è qui a Roma per uno stage" (Repubblica, 21 maggio). All'antico vincolo politico, accenna anche la madre di Noemi, Anna: "[Berlusconi] ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista".

Berlusconi, qualche giorno dopo (e prima di essere smentito da Bobo Craxi), conferma. "[Elio] lo conosco da anni, è un vecchio socialista ed era l'autista di Craxi". (Ansa, 29 aprile, ore 16,34). Più evasiva Noemi: "[Di come è nato il contatto familiare] non ricordo i particolari, queste cose ai miei genitori non le ho chieste". (Repubblica, 29 aprile). Decisamente inafferrabile e chiuso come un riccio, il padre Elio (ha rifiutato di prendere visione di quest'ultima ricostruzione di Repubblica). Chiedono a Letizia: ci spiega come ha conosciuto Berlusconi? "Non ho alcuna intenzione di farlo" (Oggi, 13 maggio).

Gino ascolta questa noiosa tiritera con un sorriso storto sulle labbra, che non si sa se definire avvilito o sardonico. C'è un attimo di silenzio nella stanza al Vasto, un silenzio lungo, pesante come d'ovatta, rispettato dagli amici che gli stanno accanto; dalla sorella Arianna; dal padre Antonio; dalla madre Anna. È un silenzio che si fa opprimente in quella cucina, fino a un attimo prima rumorosa di risate e grida. La madre, Anna, si incarica di spezzarlo: "Quando un giorno Gino tornò a casa e mi disse che Noemi aveva conosciuto Berlusconi, lo presi in giro, non volli chiedergli nemmeno perché e per come. Mi sembrava ridicolo. Berlusconi dalle nostre parti? E che ci faceva, Berlusconi qui? Ripetevo a Gino: Berlusconi, Berlusconi! (gonfia le guance con sarcasmo). Un po' ne ridevo, mi sembrava una buffonata di ragazzi".

Gino la guarda, l'ascolta paziente e finalmente si decide a raccontare:
"I genitori di Noemi non c'entrano niente. Il legame era proprio con lei. È nato tra Berlusconi e Noemi. Mai Noemi mi ha detto che lui, papi Silvio parlava di politica con suo padre, Elio. Non mi risulta proprio. Mai, assolutamente. Vi dico come è cominciata questa storia e dovete sapere che almeno per l'inizio - perché poi quattro, cinque volte ho ascoltato anch'io le telefonate - vi dirò quel che mi ha raccontato Noemi. Il rapporto tra Noemi e il presidente comincia più o meno intorno all'ottobre 2008. Noemi mi ha raccontato di aver fatto alcune foto per un "book" di moda. Lo aveva consegnato a un'agenzia romana, importante - no, il nome non me lo ricordo - di quelle che fanno lavorare le modelle, le ballerine, insomma le agenzie a cui si devono rivolgere le ragazze che vogliono fare spettacolo. Noemi mi dice che, in quell'agenzia di Roma, va Emilio Fede e si porta via questi "book", mica soltanto quello di Noemi. Non lo so, forse gli servono per i casting delle meteorine. Il fatto è - ripeto, è quello che mi dice Noemi - che, proprio quel giorno, Emilio Fede è a pranzo o a cena - non me lo ricordo - da Berlusconi. Finisce che Fede dimentica quelle foto sul tavolo del presidente. È così che Berlusconi chiama Noemi. Quattro, cinque mesi dopo che il "book" era nelle mani dell'agenzia, dice Noemi. È stato un miracolo, dico sempre. Dunque, dice Noemi che Berlusconi la chiama al telefono. Proprio lui, direttamente. Nessuna segretaria. Nessun centralino. Lui, direttamente. Era pomeriggio, le cinque o le sei del pomeriggio, Noemi stava studiando. Berlusconi le dice che ha visto le foto; le dice che è stato colpito dal suo "viso angelico", dalla sua "purezza"; le dice che deve conservarsi così com'è, "pura". Questa fu la prima telefonata, io non c'ero e vi sto dicendo quel che poi mi riferì Noemi, ma le credo. Le cose andarono così perché in altre occasioni io c'ero e Noemi, così per gioco o per convincermi che davvero parlava con Berlusconi, m'allungava il cellulare all'orecchio e anch'io sentii dalla sua voce quella cosa della "purezza", della "faccia d'angelo". E poi, una volta, ha aggiunto un'altra cosa del tipo: "Sei una ragazza divina". Berlusconi, all'inizio, non ha detto a Noemi chi era. In quella prima telefonata, le ha fatto tante domande: quanti anni hai, cosa ti piacerebbe fare, che cosa fanno tua madre e tuo padre? Studi? Che scuola fai? Una lunga telefonata. Ma normale, tranquilla. E poi, quando Noemi si è decisa a chiedergli: "Scusi, ma con tutte queste domande, lei chi è?", lui prima le ha risposto: "Se te lo dico, non ci credi". E poi: "Ma non si sente chi sono?". Quando Noemi me lo raccontò, vi dico la verità, io non ci credevo. Poi, quando ho sentito le altre telefonate e ho potuto ascoltare la sua voce, proprio la sua, di Berlusconi, come potevo non crederci? Noemi mi diceva che era sempre il presidente a chiamarla. Poi, non so se chiamava anche di suo, non me lo diceva e io non lo so. Lei al telefono lo chiamava papi tranquillamente. Anche davanti a me. Magari stavamo insieme, Noemi rispondeva, diceva papi e io capivo che si trattava del presidente. Quando ho assistito ad alcune telefonate tra Berlusconi e Noemi, ho pensato che fosse un rapporto come tra padre e figlia. Una sera, Emilio Fede e Berlusconi - insieme - hanno chiamato Noemi. Lo so perché ero accanto a lei, in auto. Ora non saprei dire perché il presidente le ha passato Emilio Fede, non lo so. Pensai che Fede dovesse preparare dei "provini" per le meteorine, quelle robe lì". (Ieri, a tarda sera, durante Studio Aperto, Fede ha affermato di aver conosciuto la nonna di Noemi. Repubblica ha chiesto a Gino se, in qualche occasione, Noemi avesse fatto cenno a questa circostanza. "Mai, assolutamente", è stata la risposta del ragazzo).

"Comunque, quella sera, sentii prima la voce del presidente e poi quella di Emilio Fede - continua Gino - Non voglio essere frainteso o creare confusione in questa tarantella, da cui voglio star lontano. Nelle telefonate che ho sentito io, Berlusconi aveva con Noemi un atteggiamento paterno. Le chiedeva come era andata a scuola, se studiava con impegno, questa roba qui. Io però ho cominciato a fuggire da questa situazione. Non mi piaceva. Non mi piaceva più tutto l'andazzo. Non vedevo più le cose alla luce del giorno, come piacevano a me. Mi sentivo il macellaio giù all'angolo che si era fidanzato con Britney Spears. Come potevo pensare di farcela? Gliel'ho detto a Noemi: questo mondo non mi piace, non credo che da quelle parti ci sia una grande pulizia o rispetto. Mi dispiaceva dirglielo perché io so che Noemi è una ragazza sana, ancora infantile che non si separa mai dal suo orsacchiotto, piccolo, blu, con una croce al collo, "il suo teddy". Una ragazza tranquilla, semplice, con dei valori. Con i miei stessi valori, almeno fino a un certo punto della nostra storia".

Intorno a Gino, questo racconto devono averlo già sentito più d'una volta perché ora che il ragazzo ha deciso di raccontare a degli estranei la storia, la tensione è caduta come se la famiglia, i vicini di casa, gli amici già l'avessero sentita in altre occasioni o magari a spizzichi e bocconi. C'è chi si distrae, chi parlotta d'altro, chi parla al telefono, chi si prepara a uscire per il venerdì notte. Gino sembra non accorgersene. Non perde il filo e a tratti pare ricordare, ancora una volta, a se stesso come sono andate le cose.

"Ho cominciato a distaccarmi da Noemi già a dicembre. Però la cosa che proprio non ho mandato giù è stata la lunga vacanza di Capodanno in Sardegna, nella villa di lui. Noemi me lo disse a dicembre che papi l'aveva invitata là. Mi disse: "Posso portare un'amica, un'amica qualunque, non gli importa. Ci saranno altre ragazze". E lei si è portata Roberta. E poi è rimasta con Roberta per tutto il periodo. Io le ho fatto capire che non mi faceva piacere, ma lei da quell'orecchio non ci sentiva. Così è partita verso il 26-27 dicembre ed è ritornata verso il 4-5 gennaio. Quando è tornata mi ha raccontato tante cose. Che Berlusconi l'aveva trattata bene, a lei e alle amiche. Hanno scherzato, hanno riso... C'erano tante ragazze. Tra trenta e quaranta. Le ragazze alloggiavano in questi bungalow che stavano nel parco. E nel bungalow di Noemi erano in quattro: oltre a lei e a Roberta, c'erano le "gemelline", ma voi sapete chi sono queste "gemelline"? Penso anche che lei mi abbia detto tante bugie. Lei dice che Berlusconi era stato con loro solo la notte di Capodanno. Vi dico la verità, io non ci credo. Sono successe cose troppo strane. Io chiamavo Noemi sul cellulare e non mi rispondeva mai. Provavo e riprovavo, poi alla fine mi arrendevo e chiamavo Roberta, la sua amica, e diventavo pazzo quando Roberta mi diceva: no, non te la posso passare, è di là - di là dove? - o sta mangiando: e allora?, dicevo io, ma non c'era risposta. Per quella vacanza di fine anno, i genitori accompagnarono Noemi a Roma. Noemi e Roberta si fermarono prima in una villa lì, come mi dissero poi, e fecero in tempo a vedere davanti a quella villa tanta gente - giornalisti, fotografi? - , poi le misero sull'aereo privato del presidente insieme alle altre ragazze, per quello che mi ha detto Noemi... Al ritorno, Noemi non è stata più la mia Noemi, la mia alicella (acciuga, ndr), la ragazza semplice che amavo, la ragazza che non si vergognava di venirmi a prendere alla sera al capannone. A gennaio ci siamo lasciati. Eravamo andati insieme, prima di Natale, a prenotare per la sua festa di compleanno il ristorante "Villa Santa Chiara" a Casoria, la "sala Miami" - lo avevo suggerito io - e già ci si aspettava una "sorpresa" di Berlusconi, ma nessuno credeva che la sorpresa fosse proprio lui, Berlusconi in carne e ossa. Ci siamo lasciati a gennaio e alla festa non ci sono andato. L'ho incontrata qualche altra volta, per riprendermi un oggetto di poco prezzo ma, per me, di gran valore che era rimasto nelle sue mani. Abbiamo avuto il tempo, un'altra volta, di avere un colloquio un po' brusco. Le ho restituito quasi tutte le lettere e le foto. Le ho restituito tutto - ho conservato poche cose, questa lettera che mi scrisse prima di Natale, qualche foto - perché non volevo che lei e la sua famiglia pensassero che, diventata Noemi Sophia Loren, io potessi sputtanarla. Oggi ho la mia vita, la mia Manuela, il mio lavoro, mille euro al mese e va bene così ché non mi manca niente. Certo, leggo di questo nuovo fidanzato di Noemi, come si chiama?, che non s'era mai visto da nessuna parte anche se dice di conoscerla da due anni e penso che Noemi stia dicendo un sacco di bugie. Quante bugie mi avrà detto sui viaggi. A me diceva che andava a Roma sempre con la madre. Per dire, per quella cena del 19 novembre 2008 a Villa Madama mi raccontò: "Siamo stati a cena con il presidente, io, papà e mamma allo stesso tavolo". Non c'erano i genitori seduti a quel tavolo? Allora mi ha detto un'altra balla. Quella sera le sono stati regalati una collana e un bracciale, ma non di grosso valore. E il presidente ha fatto un regalo anche a sua madre. Sento tante bugie, sì, e comunque sono fatti di Noemi, dei suoi genitori, di Berlusconi, io che c'entro?".

Le parole di Gino Flaminio appaiono genuine, confortate dalle foto, dalla memoria degli amici (che hanno le immagini di Noemi e Gino sui loro computer), da qualche lettera, dai ricordi dei vicini e dei genitori, ma soprattutto dall'ostinazione con cui il ragazzo per settimane si è nascosto diventando una presenza invisibile nella vita di Noemi. Repubblica lo ha rintracciato con fatica, molta pazienza e tanta fortuna nella fabbrica di corso San Giovanni dove tutti i suoi compagni di lavoro conoscono Noemi, la storia dell'amore perduto di Gino. Compagni di lavoro che - fino alla fine - hanno provato a proteggerlo: "Gino? E chi è 'sto Gino Flaminio?" e Gino se ne stava nascosto dietro un muro.

La testimonianza del ragazzo consente di liquidare almeno cinque domande dalla lista di dieci che abbiamo proposto al capo del governo. La ricostruzione di Gino permette di giungere a un primo esito: Silvio Berlusconi ha mentito all'opinione pubblica in ogni passaggio delle sue interviste. Nei giorni scorsi, come quando disse a France2 di aver "avuto l'occasione di conoscere [Noemi] tramite i suoi genitori". O ancora ieri a Radio Montecarlo dove ha sostenuto di essersi addirittura "divertito a dire alla famiglia, di cui sono amico da molti anni, che non desse risposte su quella che è stata la nostra frequentazione in questi anni". Come di cartapesta è la scena - del tutto artefatta - disegnata dalle testate (Chi) della berlusconiana Mondadori.

Il fatto è che Berlusconi non ha mai conosciuto Elio Letizia né negli "anni passati", né negli "ambienti socialisti". Mai Berlusconi ha discusso con Elio Letizia di politica e tantomeno delle candidature delle Europee (Porta a porta, 5 maggio). Berlusconi ha conosciuto Noemi. Le ha telefonato direttamente, dopo averne ammirato le foto e aver letto il numero di cellulare su un "book" lasciatogli da Emilio Fede. Poi, nel corso del tempo, l'ha invitata a Roma, in Sardegna, a Milano.
Le evidenti falsità, diffuse dal premier, gli sarebbero costate nel mondo anglosassone, se non una richiesta di impeachment, concrete difficoltà politiche e istituzionali. Nell'Italia assuefatta di oggi, quella menzogna gli vale un'altra domanda: perché è stato costretto a mentire? Che cosa lo costringe a negare ciò che è evidente? È vero, come sostiene Noemi, che Berlusconi ha promesso o le ha lasciato credere di poter favorire la sua carriera nello spettacolo o, in alternativa, l'accesso alla scena politica (Corriere del Mezzogiorno, 28 aprile)? Dieci giorni dopo, ci sono altre ragionevoli certezze. È confermato quel che Veronica Lario ha rivelato a Repubblica (3 maggio): il premier "frequenta minorenni". Noemi, nell'ottobre del 2008, quando riceve la prima, improvvisa telefonata di Berlusconi ha diciassette anni, come Roberta, l'amica che l'ha accompagnata a Villa Certosa. La circostanza rinnova l'ultima domanda: quali sono le condizioni di salute del presidente del Consiglio?


(24 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La prima ammissione tra un rosario di bugie
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2009, 03:18:21 pm
La storia. La "verità" del padre di Noemi e le falsità del Cavaliere

Il ricordo di Elio Letizia non coincide con quello di Berlusconi

La prima ammissione tra un rosario di bugie

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
Si può immaginare che a Palazzo Grazioli ci sia come "un'unità di crisi", per lo meno dal 3 maggio quando Veronica Lario ha lanciato il suo j'accuse politico contro il marito premier. Si può immaginare uno staff (ne ha preso le redini l'avvocato Niccolò Ghedini?) che mette insieme i cocci delle troppe contraddizioni; tiene i contatti con i protagonisti e sotto controllo coloro che potrebbero diventarlo; influenza il lavoro delle redazioni e la comunicazione politica; coordina le dichiarazioni pubbliche e le interviste dei co-protagonisti; distribuisce servizi fotografici, utili a fabbricare una realtà artefatta: lo si è visto con le performance di Chi (Mondadori).

Se questa "unità di crisi" è davvero al lavoro a Palazzo Grazioli, va detto che il suo impegno è mediocre e dannoso per Berlusconi che dovrebbe avvantaggiarsene per uscire dal cul de sac in cui lo hanno cacciato, dopo dodici giorni, le troppe parole bugiarde scandite nei primi giorni dell'affaire e l'imbarazzato silenzio opposto alle dieci domande che Repubblica ha ritenuto di dovergli rivolgere.

Lunedì 25 maggio, ieri, avrebbe dovuto essere il giorno della riscossa. Domenica, i ricordi di Gino Flaminio, l'operaio di 22 anni legato sentimentalmente a Noemi Letizia dal 28 agosto 2008 al 10 gennaio 2009, aveva mandato per aria il tableau manipolato senza sapienza (Repubblica, 24 maggio). Non era vero che la famiglia Letizia né tanto meno il padre di Noemi, Elio, avevano una lunga amicizia con Berlusconi, sostiene Gino. Il premier telefonò alla minorenne Noemi per la prima volta soltanto nell'ottobre del 2008, soltanto sette mesi fa. Le telefonò direttamente. Nessuna segreteria. Nessun centralino. Le disse parole di ammirazione per la sua "purezza" in un pomeriggio, per la ragazza, di studio. Dopo quel primo contatto ne seguirono altri, e poi - come ha ammesso la giovane Noemi - incontri a Roma, a Milano e la vacanza di dieci giorni a Villa Certosa in Sardegna (26/27 dicembre - 4/5 gennaio) a ridosso del Capodanno 2008, rivelata da Gino.

Questa verità andava prontamente contrastata. L'"unità di crisi" decide che ad opporvisi subito debba essere il padre della ragazza. Berlusconi approva l'iniziativa e l'anticipa alla stampa. "Vedrete che il padre della ragazza chiarirà ogni cosa in un'intervista, dirà lui della genesi dei nostri rapporti" (Corriere, 25 maggio).

Così è stato. Il signor Elio Letizia, dopo categorici rifiuti ["Non ho alcuna intenzione (di spiegare come ho conosciuto Berlusconi)", Oggi, 13 maggio] decide di offrire al Mattino la ricostruzione dell'incontro con il premier, il come e il quando, il ricordo del primo incontro tra il presidente del consiglio e la giovane figlia. Contemporaneamente, anche il premier rievoca con il Corriere quel primo incontro con Noemi. Ne vengono fuori due racconti divergenti, l'ennesima verità che cancella le precedenti versioni pubbliche, altre gravi incoerenze.

Forse si ricorderà che Berlusconi ha detto di aver conosciuto Elio Letizia perché questi era "l'autista di Craxi" (Ansa, 29 aprile). La familiarità politica era stata, in quei giorni, invocata anche da Anna Palumbo, madre di Noemi: "Berlusconi ha conosciuto mio marito ai tempi del partito socialista" (Repubblica, 28 aprile).

Ancora Berlusconi, nella puntata di Porta a porta del 5 maggio (titolo, "Ora parlo io") aveva ripetuto che quell'amicizia antica aveva il colore della passione politica. Il premier ha rivelato di essere volato a Napoli per discutere con Elio Letizia di candidature alle Europee. Dunque, in questa prima versione "congiunta", i riferimenti sono Craxi (fugge ad Hammamet il 5 maggio del 1994) e il partito socialista (si scioglie il 13 novembre del 1994). Se ne deve dedurre che l'amicizia di Berlusconi con Elio Letizia, nata "ai tempi del partito socialista", risale a un periodo precedente al 1994, ad oltre quindici anni fa.

Nell'intervista al Mattino, Elio Letizia liquida per intero la quinta politica dell'amicizia. Non azzarda a dire che è stato un militante socialista né conferma di aver discusso con il presidente del consiglio chi dovesse essere spedito al parlamento di Strasburgo. La prima, insignificante stretta di mano, "nulla di più", avviene nel 1990 (Berlusconi si occupa di tv e calcio), dice Letizia, mentre la "vera conoscenza ci fu nel 2001" quando Craxi non c'è più e il suo partito è liquefatto, dunque sette anni dopo "i tempi del partito socialista". Elio sa - racconta - che a Berlusconi piacciono "libri e cartoline antiche" e nelle sale dell'hotel Vesuvio (maggio 2001) gli propone di regalargliene qualche esemplare. L'idea piace a Berlusconi e Letizia lo raggiunge, poco dopo, a Roma per mostrargli le più belle "cartoline di Secondigliano", dove Elio è nato e vive. Nasce così un legame che diventa un'affettuosa e partecipata amicizia quando Anna e Elio Letizia sono colpiti dalla crudele sventura di perdere il figlio Yuri in un incidente stradale. Berlusconi si fa vivo con una "lettera accorata e toccante". Letizia decide di presentare la sua famiglia al presidente del consiglio nel "dicembre del 2001": "A metà dicembre io e mia moglie andammo a Roma per acquisti e, passando per il centro storico, pensai che fosse la volta buona per presentare a Berlusconi mia moglie e mia figlia" (il Mattino, 25 maggio).

Questa è la versione dalla viva voce di Elio Letizia, dunque: il capo del governo "per la prima volta vide Anna e Noemi" nel dicembre del 2001 non in pubblico ma nella residenza privata del premier, a palazzo Grazioli, o a Palazzo Chigi. Noemi ha soltanto dieci anni.

Il ricordo di Elio Letizia non coincide con quello di Silvio Berlusconi.

La memoria del capo del governo disegna un'altra scena decisamente differente da quella che ha in mente Elio Letizia. Quando Berlusconi ha incontrato per la prima volta Noemi? "La prima volta che ho visto questa ragazza è stato a una sfilata", risponde il premier (Corriere, 25 maggio). Quindi, in un luogo pubblico e non nei suoi appartamenti pubblici o privati. Non nel 2001, come dice Elio, ma più avanti nel tempo perché Noemi avrebbe avuto l'età adatta per "sfilare" (quattordici, quindici, sedici anni, 2005, 2006, 2007).

Non è il solo pasticcio che combina l'"unità di crisi" immaginata.

Le incoerenze che si ricavano dalla lettura dei due racconti consegnati alla stampa per "il lunedì della verità" sono almeno altre due.

Berlusconi sostiene di conoscere "la famiglia di quella ragazza da più di 10 anni", quindi da molto più tempo di quel che ricorda Elio che ammette di aver conosciuto personalmente il presidente del consiglio nel maggio 2001 e gli presenta la sua famiglia (la moglie Anna e la figlia Noemi) in dicembre. Otto anni fa e "non più di dieci".

Contraddittorie anche le ricostruzioni della serata del 19 novembre 2008 quando il premier invita Noemi a Roma in occasione della cena offerta dal governo alle griffe del made in Italy, raccolte nella Fondazione Altagamma. La ragazza siede al "tavolo numero 1" accanto al presidente e a Leonardo Ferragamo, Santo Versace, Paolo Zegna.

Dice il capo del governo: "Ho visto Noemi non più di quattro volte, l'ho già detto, e tre volte in pubblico. A Roma, accompagnata dalla madre. A Villa Madama". Nella rievocazione di Berlusconi, Elio non c'è, non è presente. Noemi è accompagnata dalla madre Anna.
Nei ricordi di Elio, Anna non c'è e le cose andarono così: "[Noemi] più volte aveva espresso il desiderio di vedere una sfilata di moda dal vivo e avevo chiesto al presidente di accontentarla. Fummo invitati a Roma. Noemi andò subito a Villa Madama. Io rimasi a palazzo Grazioli con Alfredo, il maggiordomo, con il quale vedemmo la partita dell'Italia, un'amichevole con la Grecia". (il Mattino, 25 maggio).

Nel racconto di Elio, non c'è alcun accenno ad Anna, la moglie non è presente a Roma quel giorno, il 19 novembre, né durante il viaggio in treno né a Villa Madama né a palazzo Grazioli dinanzi alla tv con Alfredo, il maggiordomo.

Se le incoerenze di questo affaire invece di sciogliersi s'ingarbugliano ulteriormente con l'ultima puntata, si deve registrare la prima ammissione di Silvio Berlusconi dopo dodici giorni. Nel corso del tempo, il capo del governo ha sempre detto di aver visto Noemi "non più di quattro volte e sempre accompagnata dai genitori". Oggi concede, dopo le rivelazioni di Gino Flaminio, l'ex-fidanzato di Noemi, di aver ospitato la ragazza a Villa Certosa per il Capodanno 2008 senza i genitori: "E' vero, è stata ospite a casa mia a Capodanno insieme a tanti altri ospiti, non capisco perché debba costituire uno scandalo".

Vale la pena ragionare ora sulla parola "scandalo" scelta da Berlusconi. Scandalo non è una festa di Capodanno, naturalmente. Scandalose sono le troppe scene contraddittorie, alcune inventate di sana pianta ("Elio era l'autista di Craxi"; "Ho discusso con Elio di candidature"; "Ho sempre visto Noemi accompagnata dai genitori"), che il premier ha proposto all'opinione pubblica per giustificare il suo legame con una minorenne e smentire le accuse di Veronica Lario. Ma c'è in queste ore un altro scandalo e prende forma giorno dopo giorno quando un "caso politico" che interpella il presidente del consiglio - quindi, un "caso Berlusconi" - si trasforma in un "caso Noemi" che piomba come un macigno sulle spalle di una famiglia senza potere, nascosta in un angolo di Portici, alle porte di Napoli. Una famiglia oggi smarrita dal clamore che l'assedia, disorientata nell'affrontare una tensione che non è pronta a fronteggiare, priva di punti di riferimento nell'impresa di proteggere se stessa e il futuro di una figlia. C'è uno squilibrio evidente che non rende onore al più potente che chiede al più debole di difenderlo. Uno squilibrio che diventa impudente quando gli avvocati del premier minacciano di "azioni civili" e quindi economiche Gino Flaminio, un operaio che guadagna mille euro al mese, "colpevole" di aver raccontato una "verità" che centinaia di persone hanno avuto per sedici mesi sotto gli occhi.

Appare cinico il calcolo di Berlusconi e la pretesa dei consiglieri dell'"unità di crisi": deve essere la famiglia Letizia a spiegare, a raccontare, a dimostrare. Quest'urgenza, che con ogni evidenza è di Berlusconi non dei Letizia, spinge alla luce del sole una famiglia sempre riservata e gelosa della sua privacy. La obbliga ad affrontare la visibilità delle copertine dei settimanali e la curiosità dei media.

I Letizia non devono spiegare niente a nessuno, in realtà. Non sono né Noemi né Anna né Elio i protagonisti di questo affaire. Il "caso politico" ha un unico mattatore, Silvio Berlusconi, "incaricato di un pubblico servizio". E' questa responsabilità che rende necessario che il presidente del consiglio risponda alle domande che Repubblica gli ha posto. Quelle domande non nascono da un ghiribizzo, ma dalle incoerenze di una versione che non ha retto, finora, alle verifiche ed è apparsa presto soltanto un rosario di menzogne.

Sono le tre accuse di Veronica Lario ("frequenta minorenni", "non sta bene", fa eleggere "vergini che si offrono al drago") e le repliche bugiarde del capo del governo all'origine di questo "caso" politico. Non una ragazza e una famiglia di Portici.

(26 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO I veri conti con la giustizia
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2009, 10:04:46 am
IL COMMENTO


I veri conti con la giustizia


di GIUSEPPE D'AVANZO


È vero come ha accertato Repubblica ieri che, nel giugno 2005, Gino Flaminio, l'ex-fidanzato di Noemi, è stato arrestato per rapina. Rito direttissimo. Condanna a due anni e sei mesi con la condizionale. Il ragazzo non ha mai fatto un giorno di prigione. Questa è la rivelazione, nel salotto di Ballarò, di Belpietro e Bondi. Che non hanno ricordato come anche Benedetto Elio Letizia, il padre di Noemi che Berlusconi definisce un caro e vecchio amico, è stato arrestato, condannato in primo grado per corruzione, poi assolto. Accortamente Belpietro e Bondi si sono tenuti lontani dalla vera questione. Berlusconi ha sempre detto di "aver incontrato Noemi tre o quattro volte, sempre in presenza dei genitori" (France2). Gino ha svelato che la ragazza, per una decina di giorni, fu ospite del Cavaliere a Villa Certosa in Sardegna a cavallo del Capodanno 2009. Berlusconi ha dovuto ammettere la circostanza smentendo se stesso. Conta qualcosa l'errore di gioventù di Gino rispetto alla verità che racconta e che il presidente del consiglio è costretto a confermare? Non pare. È spericolata la manovra dei corifei del capo del governo che vogliono screditare un ragazzo per la sua unica colpa dimenticando, come d'incanto, quante volte e come il Cavaliere ha evitato la severità della giustizia liberandosi delle sue condanne per prescrizione, con leggi che si è scritto abolendo il reato di cui doveva rispondere (falso in bilancio) o per l'immunità che si è fabbricato evitando una condanna a quattro anni e sei mesi per corruzione (Mills). Se Gino non può raccontare una verità che ha trovato una conferma indiscutibile, il curriculum giudiziario del Cavaliere a che cosa dovrebbe destinarlo?

(27 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: D'AVANZO SANNINO. Zia di Noemi: Così Berlusconi è entrato nella nostra famiglia
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 09:59:18 am
Gino Flaminio è un ragazzo coraggioso, ha detto com'è andata

"Da tre mesi si sapeva che il presidente sarebbe venuto alla festa dei 18 anni"

La zia di Noemi: "Così Berlusconi è entrato nella nostra famiglia"

"Ho visto antiche amicizie nate dalla notte al giorno, eventi dolorosi usati per sostenere nuove versioni"

di CONCHITA SANNINO e GIUSEPPE D'AVANZO

 

NAPOLI - Signora Francesca D. F., che grado di parentela ha con i genitori di Noemi?
"Sono la zia, moglie del fratello di Anna Palumbo, la madre di Noemi".

Ha precedenti penali, signora? Sa, dobbiamo chiederglielo perché, per alcuni, il testimone non va valutato per quel che dice, ma per quel che è.
"Non ho precedenti penali".

Qualcuno nella sua famiglia ne ha?
"No".

Ha motivo di risentimento nei confronti di sua cognata o della sua famiglia, o della ragazza?
"Assolutamente no. Ho ottimi rapporti con Anna, con i genitori di Anna e con i suoi fratelli. Anzi, ho condiviso finora con altri membri della famiglia l'imbarazzo, il disagio e la sofferenza che questa situazione non del tutto limpida, sta provocando. Ci sono troppe bugie. Circostanze che contrastano con quello che abbiamo sentito e visto in famiglia".

Gino Flaminio fa parte delle bugie o della realtà vissuta in casa Letizia?
"Gino è stato il fidanzato di Noemi esattamente per il periodo da lui descritto al vostro giornale. Gino fa parte della realtà della famiglia Letizia e tutti noi lo abbiamo conosciuto e soprattutto apprezzato fino a quando i rapporti tra loro si sono deteriorati. È un bravo ragazzo. Amava davvero Noemi e Noemi gli era molto legata".

Vi incontravate anche con Gino?
"Certo, è accaduto più di una volta. Con l'andar del tempo, è nato un legame tra questo ragazzo e la nostra famiglia. Non mi pento di averlo avuto in casa".

Lei sa che il padre di Noemi ha minacciato querela per quello che Gino ha ricordato?
"Sì, purtroppo l'ho sentito ai tg, e ancora mi chiedo come sia stato possibile questo. Gino ha avuto parole di assoluto rispetto per tutti, per Noemi, per i suoi genitori, per noi. E anche per Berlusconi. Qual è la sua colpa? E perché accanirsi contro un ragazzo senza alcuna difesa?".

Lei sa che Gino nel 2005 è stato condannato per rapina?
"Quando lo abbiamo conosciuto era già un operaio. Ma sapevamo che c'era una macchia nel suo passato. E in ogni caso, il suo errore, quale che sia stato, non ha mai costituito un ostacolo al loro affetto, né all'amicizia che il ragazzo ha dimostrato ad Anna e ad Elio, peraltro venendone ricambiato".

Lei ha letto la testimonianza di Gino?
"Certo, e mi ha provocato una grande emozione. Perché ho visto per la prima volta, in questa storia di bugie, una persona dire le cose come stanno, con un coraggio che nessuno finora nella mia famiglia ha avuto".

E lei perché solo adesso ha deciso di offrire la sua testimonianza?
"E ancora avrei voluto tacere. Ma dopo aver visto la violenza della discussione a Ballarò, ho deciso di farmi viva. Ho visto troppe cose che non vanno. "Antiche amicizie" nate dalla notte al giorno. Fidanzati comparsi dal nulla. Dolorosi eventi che hanno afflitto la famiglia, utilizzati per sostenere nuove versioni dei fatti che hanno coinvolto mia nipote Noemi: come il riferimento a una lettera di cordoglio. E' con molto strazio che mi sono decisa ora a parlare. Mi sono tormentata in queste settimane".

Perché lo fa?
"Se devo dire la verità, lo faccio per i miei figli perché devono poter credere che esiste il vero e il falso, il buono e il cattivo. Voglio che sia chiaro che, per quanto mi riguarda, in questa storia non c'entra nulla la politica, nulla i complotti, ma solo la necessità di non vergognarsi quando ci si guarda allo specchio perché si è dovuto avallare una storia che, se non fosse così dolorosa, in famiglia sarebbe una barzelletta di cui ridere".

Lei, quando ha sentito per la prima volta di Berlusconi in famiglia?
"Alla fine del 2008, tra novembre e dicembre, ho visto per la prima volta durante un pranzo familiare Noemi alzarsi da tavolo allo squillo del suo cellulare, e l'ho ascoltata dire papi. Non avevo assolutamente idea, all'epoca, chi potesse essere. Ho pensato a un gioco tra ragazze. Notai soltanto che intorno a lei ci si dava da fare per evitare ogni curiosità".

Quando ha sentito per la prima volta indicare Berlusconi come una presenza familiare?
"Posso dirlo con certezza. L'11 gennaio 2009, il giorno del compleanno di mio figlio. Io organizzai una piccola festicciola. E seppi, quella sera, che si stavano preparando grandi festeggiamenti per i diciotto anni di Noemi. E che alla festa avrebbe partecipato, a meno di impegni improvvisi, anche Silvio Berlusconi".
Addirittura tre mesi prima, si contava sulle presenza a quel tavolo del presidente del Consiglio?
"A me fu detto che dovevamo "prepararci" per quello. La conferma della presenza del capo del governo sarebbe arrivata solo a Pasqua".

E poi?
"Mi fu detto che Berlusconi chiese espressamente a Noemi di essere invitato e pretese di ricevere dalle sue mani l'invito. Non so se poi Noemi lo abbia raggiunto a Roma e come siano andate le cose. In ogni caso, nella nostra riunione di famiglia al pranzo di Pasqua, ci fu confermato ancora di "prepararci" perché avremmo conosciuto il presidente il 26 aprile, alla festa organizzata nel ristorante di Casoria".

Che idea si è fatta della conoscenza tra Berlusconi e Noemi?
"So soltanto quel che mi ha raccontato Anna, mia cognata, la madre di Noemi. Anna sosteneva che il presidente del Consiglio aveva per mia nipote l'affetto di un padre. Ricordo l'espressione: "l'ha presa a cuore". Io non ne dubitai. Noemi è sempre stata una brava ragazza, dolce, buona. Con un grande sogno: fare la ballerina, l'attrice o la showgirl. Ricordo che in famiglia si diceva: "Magari così, Noemi entrerà dalla porta principale". Si intendeva dalla porta principale nel mondo dello spettacolo. E d'altronde la stessa Noemi - ho letto - lo ha già detto in un'intervista. Come peraltro Anna. Nelle primissime interviste, mia nipote e mia cognata sono state sincere e hanno raccontato in pubblico ciò che dicevano a noi in privato. E stato dopo che ho visto troppe cose confondersi".

Vuole darci la sua opinione su questa storia?
"Sono molto preoccupata per la mia famiglia. Se mi espongo così, lo faccio perché siamo una famiglia di gente semplice e per bene. Parlo dei fratelli di Anna, dei suoi genitori, degli altri cognati, dei nostri figli e nipoti, tutti ragazzi sani. Tutti trascinati, dalla mancanza di chiarezza e sincerità, in una situazione che ci imbarazza moltissimo".

(28 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Un mese di contraddizioni poi arriva la verità ad personam
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2009, 12:27:24 pm
Il premier si fa la domanda e si dà la risposta.

Due, tre, quattro versioni per giustificare gli incontri con Noemi: inevitabile che si ingarbugli

Un mese di contraddizioni poi arriva la verità ad personam

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
Berlusconi, un mese dopo, risponde alle domande che si fa da solo. Minorenni? "Non ho detto niente". Sesso con le minorenni? "Assolutamente no, ho giurato sulla testa dei miei figli e sono consapevole che se fossi uno spergiuro mi dovrei dimettere, un minuto dopo averlo detto". (Il Cavaliere ha memoria corta. Già gli è capitato di giurare sulla testa dei figli per negare che Fininvest avesse un "comparto off-shore, very secret", All Iberian. Ora che quell'arcipelago di "fondi neri" ha trovato una documentata conferma, il capo del governo ha dimenticato quel fragoroso spergiuro). La mossa del presidente segue un sentiero che gli è familiare fino all'abitudine. Rovescia il tavolo per uscire dall'angolo in cui si è cacciato con la sua apparizione in un ristorante di Casoria per festeggiare una diciottenne. Stende un velo sui tre eventi che egli stesso si è combinato: l'incomprensibile presenza in una periferia napoletana; l'offesa pubblica alla moglie; scelte politiche che hanno convinto Veronica Lario a parlare di "ciarpame politico".

Se questo "caso Berlusconi", come si è voluto accreditare, fosse stato soltanto una pruderie, magari il colpo di teatro del premier sarebbe stato anche efficace.Fin dall'inizio, però, questa storia non ha avuto nessuna parentela (o soltanto un legame forzato) con il gossip. Lo dimostrano con l'evidenza della luce le quattro parole ("Non ho detto niente") con cui Silvio Berlusconi liquida l'intero rosario di discorsi e ricordi offerto nel monologo a Porta a porta, in tre interviste ufficiali (France 2, Corriere della sera e Stampa), nelle molte conversazioni ufficiose con i cronisti, nella pubblica promessa di "spiegare tutto" (Cnn). Della ricostruzione che il capo del governo ha proposto all'opinione pubblica non è rimasto in piedi, dopo quattro settimane, nemmeno un muro. Il think tank di Gianfranco Fini (farefuturo) e Veronica Lario lo accusano di selezionare la nuova élite politica del Paese negli studi televisivi, nei set dei reality, magari tra i cactus di Villa Certosa tra "le vergini che si offrono al drago". Il Cavaliere nega di aver mai voluto candidare alle Europee "veline" qualche ora prima che veline e soubrette confermino di aver firmato per quelle candidature. Veronica Lario svela che il premier "frequenta minorenni" posseduto da un'ossessione per il sesso che ne pregiudica la salute ("non sta bene") e il presidente del consiglio ha dichiarato in tv di non frequentare minorenni e di stare benissimo. Salta però fuori una minorenne (Noemi) che certamente ha frequentato e frequenta. Per giustificarne gli incontri, Berlusconi s'ingarbuglia in una, due, tre, quattro versioni. Quanto più corregge e contraddice la sua memoria, tanto più offre ricostruzioni che stanno in piedi come un sacco vuoto. La risposta alle dieci domande che Repubblica avrebbe voluto fargli, se avesse accettato di essere intervistato, avrebbero potuto chiudere la partita, restituire al premier l'attendibilità perduta, ridimensionare una criticità che distrugge la sua reputazione (e quella dell'Italia) nel mondo. Ha preferito tacere, invece. Con ostinazione continua a tacere oggi mentre gli "arrangiamenti" si sbriciolano come un biscotto sotto la pressione di qualche interrogativo rivolto ai protagonisti.

Un testimone attendibile, ex-fidanzato di Noemi, racconta di un uomo di 73 anni, capo del governo di un Paese con molte difficoltà da affrontare, che telefona in un pomeriggio autunnale del 2008 a una diciassettenne per dirle come sia "angelico" il suo viso e "puro" il suo sguardo. Decide di "allevarla". La invita a Roma, a Milano, in Sardegna quando - confessa la ragazza - si sente solo. La colma di regali e attenzioni. Il testimone, con un guaio giudiziario alle spalle, costringe Berlusconi a smentire se stesso. Il Cavaliere aveva detto di aver incontrato la ragazza sempre alla presenza dei suoi genitori, deve smentirsi: è vero, l'ho invitata - era ancora minorenne - prima a Villa Madama, poi a Villa Certosa e i genitori non c'erano. Si comprende, allora, perché il premier non risponda alle sollecitazioni: non può rispondere ad alcuna domanda senza danneggiare irrimediabilmente se stesso e un futuro luminoso progettato per concludersi al Quirinale. L'"unità di crisi", che lo consiglia, si convince a incamminarsi per la solita strada del "complotto", ma è ancora fresco nel ricordo di tutti che è stato lo stesso Berlusconi a costruire la trappola che lo tiene prigioniero senza voler ricordare che i protagonisti di quest'affare sono direttamente o indirettamente "berlusconiani", passando per Veronica Lario, da farefuturo al testimone, che svela il primo contatto tra il premier e la diciassettenne. La teoria del complotto diventa un soufflé sgonfio. Berlusconi, alle strette, riconverte i suoi passi verso una direzione che conosce bene e gli ha portato sempre fortuna: "non ho detto niente".

Il "non ho detto niente" di Berlusconi è la formula che contiene il nucleo stesso del suo sistema politico perché è il dispositivo che cancella ogni distinzione tra vero e falso. Con quel "non ho detto niente" il premier vuole eliminare, non solo le sue contraddizioni e incoerenze, ma anche gli eventi e i fatti concreti, il loro ricordo nella mente dei testimoni e dell'opinione pubblica. Pretende che sia accettato il suo personale canone secondo il quale non esiste alcun modo di stabilire che cosa sia vero perché "non esiste un criterio di verità praticabile" se si esclude ciò che viene dichiarato vero al momento. Il premier (consapevolmente o meno, non importa) ci invita a dare fede soltanto alle "credenze" che naturalmente possono essere cancellate il giorno successivo (e qui è un gioco da ragazzi per chi controlla stampa e network tv). In questo mondo di cartapesta la verità dura un solo giorno e il Gran Bugiardo che lo ha fabbricato non può mai essere accusato di mentire perché ha abolito l'idea stessa della verità.

Al fondo del "caso Berlusconi", che soltanto occasionalmente ha incrociato la vita di una ragazza e di una famiglia, c'è - come direbbe Leszek Kolakowski - "il cuore di una nuova civilizzazione" che abolisce l'idea stessa di verità. Che rende indifferente sulla scena politica l'attendibilità del premier perché il premier può affatturarsi la realtà come meglio gli conviene in quel momento, salvo poi rimodellarla il giorno dopo. Non tutti dalle nostre parti hanno compreso, contrariamente a quanto è stato subito chiaro alla stampa di mezzo mondo, che il "caso Berlusconi" oggi ci parla di minorenni, ma contemporaneamente o domani ci può parlare di disoccupazione, sviluppo, recessione, fisco, terremoto, famiglia, Europa, rifiuti: in una parola, del destino del Paese perché mette in gioco la sua rappresentazione pubblica e l'affidabilità di chi lo governa.
È a questa prova che Berlusconi sfugge rispondendo soltanto alle domande che egli stesso si pone senza nemmeno rendersi conto quanto avvilente sia vederlo apparire nei tg della sera per giurare che non fa sesso con le minorenni. Per evitare dieci domande, il premier preferisce questa umiliazione e, peggio, decide di inoltrarsi sempre di più in un vicolo cieco che minaccia di soffocarlo. Giurare sulla testa dei figli che non ha "rapporti piccanti" con le minorenni, pena le dimissioni immediate, è una sfida funesta che lo rende debole, soprattutto ricattabile. Qualunque minorenne - ed è ormai provato che a Berlusconi capita di frequentarle - può inventarsi la bubbola e scatenare un terremoto istituzionale. Questa è la strada sdrucciolevole che ha scelto il premier, costretto a scendere nei sotterranei del suo castello di bugie, incapace di spiegare perché ha mentito, a dire che cosa lo ha costretto a mentire, che cosa ancora oggi gli impone di tacere la verità. Questo è il dramma di un uomo e di un politico che è il capo del governo italiano.

(29 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il fantasma del '94 che piace al Cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 10:18:29 am
COMMENTI

Il fantasma del '94 che piace al Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


C'È STATO un tempo in cui, accanto a Silvio Berlusconi, sedeva Cesare Previti: pagava i giudici per tenere lontano dalla severità della giustizia il patron di Fininvest. Diventa premier. Si cucina da solo l'impunità. Berlusconi non ha più bisogno di chi gli corrompe i giudici.

Se avesse ancora accanto a sé un barattiere, gli chiederebbe di pagare un pubblico ministero per procurarsi un bell'avviso di garanzia. Perché la campagna elettorale di Berlusconi ha bisogno - come noi dell'aria - del conflitto con la magistratura. Il suo elettorato non ama le toghe e, per parte sua, il Cavaliere indossa con splendore i sontuosi panni della vittima.

Il binomio radicalizza il suo elettorato, gli assicura la vittoria a mani basse, gli consente di attenuare la crisi di sfiducia che l'affligge; di cancellare l'inadeguatezza del governo; di dimenticare le minacce e i numeri di una crisi che, nonostante la "false speranze" che diffonde (come dice Bankitalia), appesantirà imprese, occupazione e famiglie italiane ancora per due anni, contrariamente a quanto accade negli altri Paesi europei.

Un avviso di garanzia, benedetto, permetterebbe al premier di fare piazza pulita anche di scene come quella a cui hanno assistito milioni di italiani l'altra sera: un uomo di 73 anni, capo di governo, che giura sulla testa dei figli, tra l'imbarazzo dei suoi ministri, che non ha avuto "rapporti piccanti, molto piccanti" con una minorenne. Un avviso di garanzia, benvenuto, potrebbe cambiare di segno anche questo affare. Se lo è combinato da solo irritando i suoi alleati con le candidature delle sue giovani o giovanissime amiche, umiliando in pubblico la moglie, ficcandosi in un ristorante della peggiore periferia di Napoli.

Un passo della magistratura consentirebbe al capo di governo di giocare non in difesa, un po' smarrito come appare oggi, ma in attacco secondo uno schema che lo ha sempre gratificato. Purtroppo, per quel che se ne sa, i pubblici ministeri stanno facendo a Berlusconi un dispetto molto grave: lo ignorano, non gli invieranno alcun avviso di garanzia. Così il conflitto con la magistratura vede in campo un solo combattente: il Cavaliere.

Come in una pantomina, ingaggia la sua battaglia da solo, finge e simula uno scontro che non c'è. Come tanto tempo fa, quando nei giardini della villa Olivetta di Portofino lo sentirono gridare: "Dài, colpiscimi, stupido. È tutta questa la tua forza? Colpisci più forte, ancora più forte". Quelli di casa pensano a un ladro, a una rissa. Accorrono. Lo vedono lì sul prato. Solo. Lui saltella, arretra, avanza, scarta di lato in un'immaginaria rissa. Le gambe flesse, i passi corti, il pugno destro ben stretto a protezione della mascella e il sinistro che si allunga veloce contro l'avversario che non c'è.

In fondo, Berlusconi politico ripete ossessivamente sempre la stessa perfomance comunicativa, come se il largo consenso di cui gode fosse inutile per governare, anche se questo dovrebbe essere il suo impegno prioritario. Urla e si lamenta, invece. Gli riesce meglio. Scomparsi i "comunisti", salta su contro i magistrati.

Anche se quelli se ne stanno buoni, deve rappresentarli con il coltello tra i denti. Per evocare il pericolo, ha bisogno di richiamare un episodio di quindici anni fa, l'avviso di garanzia per la corruzione della Guardia di Finanza. Il suo ricordo è come al solito truccato. I tre processi hanno accertato, in maniera definitiva, che la Guardia di Finanza è stata corrotta, che le tangenti sono state pagate per concludere le indagini sulla Fininvest. Dopo una condanna a 2 anni e 9 mesi, la Cassazione non ha ritenuto sufficienti gli indizi del collegamento diretto fra i funzionari corrotti e Silvio Berlusconi, link invece definitivamente provato per altri dirigenti Fininvest, condannati con sentenza irrevocabile. Assolto? Berlusconi non dice che se quel "collegamento non è stato provato" fu grazie a un testimone che il Cavaliere corruppe: David Mackenzie Mills.

(30 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il nuovo volto del potere
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2009, 09:37:06 am
L'ANALISI

Il nuovo volto del potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL "caso Berlusconi" svela da oggi anche altro e di peggio. Ci mostra il dispositivo di un sistema politico dove la menzogna ha, non solo, un primato assoluto, ma una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi, per ostinazione o ingenuità o professione, non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di fantasmi, falsi amori, immaginari complotti politici.

E' stato per primo Silvio Berlusconi a muovere. Si scopre vulnerabile nelle condizioni di instabilità provocate dalle parole della moglie ("frequenta minorenni", "non sta bene") e fragile per la sua presenza nella peggiore periferia di Napoli a una festa di compleanno di una minorenne. E' dunque costretto a mostrare, senza finzioni ideologiche, il suo potere nelle forme più spietate dell'abuso e della pura violenza. E' già un abuso di potere (come ha scritto qui Alexander Stille) in un pomeriggio di autunno telefonare, da un palazzo di Roma e senza conoscerla, a una ragazzina che sta facendo i compiti nella sua "cameretta" per sussurrarle ammirazione per "il volto angelico" e inviti a conservare la sua "purezza". E' un abuso di potere ancora maggiore imporre ai genitori della ragazza di confermare la fiaba di "una decennale amicizia" con il premier, nata invece soltanto sette mesi prima grazie a un book fotografico finito non si sa come sullo scrittoio presidenziale.

E' pura violenza pretendere che gli si creda quando dice: "Io non ho detto niente". Tutti abbiamo sentito Berlusconi dire, spiegare, raccontare in pubblico e soprattutto contraddirsi e mentire. Ora egli pretende che il potere delle sue parole sulla realtà e sui nostri stessi ricordi sia, per noi, illimitato e indiscusso. Esige che noi dimentichiamo ciò che ricordiamo e crediamo vero ciò che egli dice vero e noi sappiamo bugiardo. Non ha detto niente, no? Berlusconi chiede la nostra ubbidienza passiva, l'assuefazione a ogni manipolazione anche la più pasticciata. Reclama una sterilizzazione mentale (e morale) dell'intera società italiana.

Già basterebbe questo atto di pura violenza per riproporre le dieci domande a cui il capo del governo non vuole dare risposta da più di due settimane perché, palesemente, non è in grado di farlo. Se lo facesse, potrebbe compromettere se stesso, rivelare abitudini e comportamenti in rumorosa contraddizione con il suo messaggio politico (Dio, patria, famiglia).
C'è altro, però. Berlusconi sa che questa prova di forza non lo mette al sicuro dal potenziale catastrofico della "crisi di Casoria". Sa che spesso i fatti sono irriducibili e hanno la tendenza a riemergere. Sa che per distruggere quella realtà minacciosa, deve distruggere presto e nel modo più definitivo chi la può testimoniare. Anche in questo caso il premier ha deciso di muoversi con un canone di assoluta violenza. E' quel che accade in queste ore. Per raccontarlo bisogna ricordare che i giorni non sono passati inutilmente perché hanno offerto a chi ha voglia di sapere e capire qualche accenno di "verità".
Veronica Lario dice a Repubblica che il premier "frequenta minorenni". Berlusconi nega dinanzi alle telecamere di Porta a porta di frequentare minorenni.
Mente, ora è chiaro. Ci inganna intenzionalmente e consapevolmente, ben sapendo che cosa vuole deliberatamente nascondere. Ha frequentato la minorenne di Napoli come altre minorenni hanno affollato le sue feste e affollano i suoi weekend nella villa di Punta Lada in Sardegna. Dov'erano quelli che oggi minimizzano la presenza di ragazzine alla corte di un anziano potente di 73 anni quando quel signore negava di "frequentare minorenni"?

Un secondo punto, fermo e indiscutibile, è l'inizio dell'amicizia con Noemi, la ragazza napoletana. La retrodatazione del legame tra il premier e la famiglia della ragazza al 1991 si è rivelata posticcia e contraddittoria. I suoi incontri con la minorenne, anche in assenza dei genitori, sono stati documentati (Villa Madama; Capodanno 2009 a Villa Certosa). L'inizio dell'affettuosa e paterna amicizia tra il capo del governo e la minorenne è stata testimoniata dall'ex-fidanzato della ragazza, confermato da una zia di Noemi, fissato nell'autunno del 2008.

Contro questi "punti fermi", che lasciano il premier nudo con le sue bugie, si è scatenata una manovra utile a scomporre, ricomporre e confondere i fatti in un caleidoscopio mediatico di immagini false dove l'arma è la menzogna e gli armigeri sono i giornalisti stipendiati dal capo del governo, dimentichi di ogni deontologia professionale e trasformati in agenti provocatori; i corifei del leader, forti dell'immunità parlamentare e disposti a ogni calunnia. Buon'ultima Daniela Santanché che accetta di fare, nell'interesse del Capo, il lavoro sporco di diffamarne la moglie ("ha un compagno"). Chiunque, in questo affare, abbia portato il suo granellino di verità viene ora sottoposto a un pubblico rito di degradazione fabbricato con un violento uso della menzogna.

Il primo assalto è toccato a Repubblica investita, dall'editore all'ultimo cronista che si è occupato del "caso", da un'onda di panzane. Prima il complotto politico (ma la polemica sulle veline è stata sollevata dal think tank di Gianfranco Fini). Poi la bubbola del pagamento del testimone (Gino Flaminio) che colloca la prima telefonata di Berlusconi a Noemi alla fine del 2008. L'accusa la grida in tv il ministro Bondi. Qualche giorno prima che un allegro commando di redattori del giornale della famiglia Berlusconi si scateni contro Flaminio allungandogli un paio di centoni "per l'incomodo" e realizzando la ridicola impresa di essere i soli a pagare l'ingenuo Gino. Che, anche se spaventato e intimorito, dice, ridice e conferma in tre occasioni di "non aver avuto un centesimo da Repubblica". Non è finita. Uguale trattamento viene inflitto al fotografo che ha immortalato, nell'aeroporto di Olbia, lo sbarco da un aereo di Stato delle ragazze (alcune, appaiono da lontano minorenni) invitate a allietare il fine settimana del presidente del consiglio. Infilato prima in una trappola dall'house organ di Casa Berlusconi, denunciato poi per truffa (improbabile reato) dall'avvocato del premier, la procura di Roma decide di sequestrare sia le immagini illegittime (scattate verso il patio di Villa Certosa) sia le foto legittime (raccolte in un luogo pubblico).

Siamo solo all'interludio perché il colpo finale, la menzogna usata come manganello punitivo, viene riservato alla prima e più autorevole testimone dell'instabilità psicofisica del premier e dei suoi giorni con le minorenni: Veronica Lario. Daniela Santanché (non è un'amica della Lario, non frequenta la villa di Macherio) svela a Libero che "Veronica ha un compagno". E, se "Veronica ha un compagno", come possono essere attendibili i suoi rilievi al marito? Il cerchio ora è chiuso. Il pestaggio menzognero è completo, anche se non concluso. Ciascuno ha cominciato ad avere quel che si merita.

Questo spettacolo nero ha il suo significato politico. Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un'altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. Si scorge nella "crisi di Casoria" un uso della menzogna come funzione distruttiva del potere che scongiura l'irruzione del reale e oscura i fatti. Si misura l'impiego dei media sotto controllo diretto o indiretto del premier come fabbrica di menzogne punitive di chi non si conforma (riflettano tutti coloro che ripetono che ormai il conflitto d'interesse è stato "assorbito" dal Paese). E' il nuovo volto, finora nascosto, di un potere spietato. E' il paradigma di una macchina politica che intimorisce. C'è ancora qualcuno che può pensare che questa sia la trama di un gossip e non la storia di un abuso di potere continuato, ora anche violento, e quindi una questione che scrolla la nostra democrazia?

(1 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La legge del bavaglio
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:40:18 pm
POLITICA     EDITORIALE

La legge del bavaglio


di GIUSEPPE D'AVANZO


L'agenda delle priorità di Silvio Berlusconi continua ad essere ad personam. Quindi, che la ricreazione continui, con buona pace di Emma Marcegaglia. Sostegno alle imprese e a chi perde il lavoro? Possono attendere. Per la bisogna sono sufficienti, al premier, un paio di bubbole nel tempio di cartapesta di Porta a porta (4 giugno): "Oggi non c'è nessuno che perdendo il lavoro non venga aiutato dallo Stato. C'è la cassa integrazione per i precari, così come per i lavoratori a progetto".

Il Cavaliere diventa meno fantasioso quando si muove nel suo interesse. Teme le intercettazioni (non si sa mai, con quel che combina al telefono) e paventa le cronache come il diavolo l'acqua santa. Si muove con molta concretezza, in questi casi. Prima notizia post-elettorale, dunque: il governo impone la fiducia alla Camera e oggi sarà legge il disegno che diminuisce l'efficacia delle investigazioni, cancella il dovere della cronaca, distrugge il diritto del cittadino di essere informato. Con buona pace (anche qui) della sicurezza dei cittadini di un Paese che forma il 10 per cento del prodotto interno lordo nelle pieghe del crimine, le investigazioni ne usciranno assottigliate, impoverite.

L'ascolto telefonico, ambientale, telematico da mezzo di ricerca della prova si trasforma in strumento di completamento e rafforzamento di una prova già acquisita. Un optional, per capirci. Un rosario di adempimenti, motivazioni, decisioni collegiali e nuovi carichi di lavoro diventeranno sabbia in un motore già arrugginito avvicinando la machina iustitiae al limite di saturazione che decreta l'impossibilità di celebrare il processo, un processo (appare sempre di più questo il cinico obiettivo "riformatore" del governo). Ancora. Soffocare in sessanta giorni il limite temporale degli ascolti (un'ulteriore stretta: si era parlato di tre mesi) "vanifica gli sforzi investigativi delle forze dell'ordine e degli uffici di procura", come inutilmente ha avvertito il Consiglio superiore della magistratura.

Sistemata in questo modo l'attività d'indagine, il lavoro non poteva dirsi finito se anche l'informazione, il diritto/dovere di cronaca, non avesse pagato il suo prezzo. Con un tratto di penna la nuova legge estende il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto anche agli atti non più coperti dal segreto "fino alla conclusioni delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare". Prima di questo limite "sarà vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione e degli atti delle conversazioni telefoniche anche se non più coperti dal segreto".

Si potrà dire che si indaga su una clinica privata abitata da medici ossessionati dal denaro che operano i pazienti anche se non è necessario. Non si potrà dire qual è quell'inferno dei vivi e quanti e quali pasticci hanno organizzato accordandosi al telefono. Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali della giustizia italiana dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.

Addio al giornalismo come servizio al lettore e all'opinione pubblica. Addio alle cronache che consentono di osservare da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. È vero, in alcuni casi l'ostinazione a raccontare le opacità del potere ha convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, in fondo, perché la libertà di stampa è nata nell'interesse dei governati e non dei governanti e quindi non c'è nessuna ragione decorosa per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - ricordate un governatore della Banca d'Italia? - come un'autorità di vigilanza protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.

Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. I cronisti che violeranno la consegna del silenzio saranno sospesi per tre mesi dall'Ordine dei giornalisti (sarà questa la vera punizione) e subiranno una condanna penale da sei mesi a tre anni di carcere (che potrà trasformarsi in sanzione pecuniaria, però). Ma non è questo che conta davvero, mi pare. Che volete che sia una multa, se si è fatto un lavoro decente?

La trovata del governo che cambia radicalmente le regole del gioco è un'altra. È la punizione economica inflitta all'editore che, per ogni "omesso controllo", potrà subire una sanzione pecuniaria (incarognita nell'ultimo testo) da 64.500 a 465mila euro. Come dire che a chi non tiene la bocca cucita su quel che sa - e che i lettori dovrebbero sapere - costerà milioni di euro all'anno la violazione della "consegna del silenzio", cifre ragguardevoli e, in molti casi, insostenibili per un settore che non è in buona salute.

L'innovazione legislativa - l'abbiamo già scritto - sposta in modo subdolo e decisivo la linea del conflitto. Era esterna e impegnava alla luce del sole la redazione, l'autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, le redazioni e le proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L'editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si portano così le proprietà a intervenire direttamente nei contenuti del lavoro redazionale. Le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi della materia informativa vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo, nel progetto inviato al Parlamento, pretende addirittura che l'editore debba adottare "misure idonee a favorire lo svolgimento dell'attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio". È evidente che solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell'attività giornalistica è possibile "scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio". Di fatto, l'editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela.

Ecco dunque i frutti intossicati della legge che oggi sarà approvata, senza alcuna discussione, a Montecitorio: la magistratura avrà meno strumenti per proteggere il Paese dal crimine e gli individui dall'insicurezza quotidiana; si castigano i giornalisti che non tengono il becco chiuso anche se sanno come vanno le cose; si punisce l'editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi - cari lettori - non conoscerete più (se non a babbo morto) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che decidono delle vostre stesse vite. Sono le nuove regole di una "ricreazione" che non finisce mai.

(10 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quello che sui giornali non leggerete più
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2009, 05:40:37 pm
Le nuove regole sulle intercettazioni vanno incontro a una vera ossessione del Cavaliere

Vietato trascrivere anche se un capo Rai chiede silenzio su dati elettorali non graditi al Capo

Quello che sui giornali non leggerete più

di GIUSEPPE D'AVANZO


 "Se escono fuori registrazioni lascio questo Paese". Lo disse Berlusconi l'anno scorso, ad Ancona, e così annunciò la sua offensiva contro le intercettazioni. Più che un'offensiva, la distruzione risolutiva di uno strumento d'indagine essenziale per la sicurezza del Paese e del cittadino. "Permetteremo le intercettazioni - disse nelle Marche quel giorno, era aprile - soltanto per reati di terrorismo e criminalità organizzata e ci saranno cinque anni di carcere per chi le ordina, per chi le fa, per chi le diffonde, oltre a multe salatissime per gli editori che le pubblicano".

Come d'abitudine, il Cavaliere la spara grossa, grossissima, consapevole che quel che ha in mente è un obiettivo più ridotto, ma tuttavia adeguato alla volontà di togliere dalla cassetta degli attrezzi della magistratura e delle polizie un arnese essenziale al lavoro. E, dagli strumenti dell'informazione, un utensile che, maneggiato con cura (e non sempre lo è stato), si è dimostrato molto efficace per raccontare le ombre del potere. La possibilità di essere ascoltato nelle sue conversazioni - magari perché il suo interlocutore era sott'inchiesta, come gli è accaduto nei colloqui con Agostino Saccà o, in passato, con Marcello Dell'Utri - è per il Cavaliere un'ossessione, un'ansia, una fobia. Ci è incappato più d'una volta.

Nel Capodanno 1987, alle ore 20,52 dalla villa di Arcore (Berlusconi festeggia con Fedele Confalonieri e Bettino Craxi).
Berlusconi. Iniziamo male l'anno!
Dell'Utri. Perché male?
Berlusconi. Perché dovevano venire due [ragazze] di Drive In che ci hanno fatto il bidone! E anche Craxi è fuori dalla grazia di Dio!
Dell'Utri. Ah! Ma che te ne frega di Drive In?
Berlusconi. Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l'anno, non si scopa più!
Dell'Utri. Va bene, insomma, che vada a scopare in un altro posto!
La conversazione racconta la familiarità tra il tycoon e un presidente del consiglio allora in carica che gli confeziona, per i suoi network televisivi, un decreto legge su misura, poi bocciato dalla Corte Costituzionale.
Già l'anno prima, il giorno di Natale del 1986, il nome di Berlusconi era saltato fuori in un'intercettazione tra un mafioso, Gaetano Cinà, e il fratello di Marcello Dell'Utri, Alberto.
Cinà. Lo sai quanto pesava la cassata del Cavaliere?
Dell'Utri. No, quanto pesava, quattro chili?
Cinà. Sì, va be'! Undici chili e ottocento!
Dell'Utri. Minchione! E che gli arrivò, un camion gli arrivò?
Cinà. Certo, ho dovuto far fare una cassa dal falegname, altrimenti si rompeva!
Perché un mafioso di primo piano come Cinà si prendesse il disturbo di regalare un monumento di glassa al Cavaliere rimane ancora un enigma, ma documenta quanto meno il tentativo di Cosa Nostra di ingraziarselo.
Al contrario, è Berlusconi che sembra promettere un beneficio ad Agostino Saccà, direttore di RaiFiction quando, il 6 luglio 2007, gli dice: "Io sai che poi ti ricambierò dall'altra parte, quando tu sarai un libero imprenditore, mi impegno a ... eh! A darti un grande sostegno". Che cosa chiedeva il premier? Il favore di un ingaggio per una soubrette utile a conquistare un senatore e mettere sotto il governo Prodi. O magari...
Ancora uno stralcio:
Saccà. Lei è l'unica persona che non mi ha mai chiesto niente, voglio dire...
Berlusconi. Io qualche volta di donne... e ti chiedo... per sollevare il morale del Capo (ridendo).
E in effetti, con molto tatto, Berlusconi chiede di sistemare o per lo meno di prendere in considerazione questa o quella attrice. Qualcuna "perché sta diventando pericolosa".

È l'ascolto di queste conversazioni, disvelatrici dei rapporti con una politica corrotta, con il servizio pubblico televisivo in teoria concorrente, addirittura con poteri criminali, che il premier vuole rendere da oggi irrealizzabile per la magistratura e vietato alla pubblicazione, anche la più rispettosa della privacy.
Per scardinare, nell'opinione pubblica, la convinzione che gli ascolti telefonici, ambientali, telematici servano e non siano soltanto una capricciosa bizzarria di toghe intriganti e sollazzo indecente per cronisti ficcanaso, Berlusconi ha costruito nel tempo una narrazione dove si sprecano numeri iperbolici ed elaborate leggende. Dice: "Si parla di 350 mila intercettazioni, è un fatto allucinante, inaccettabile in una democrazia". Fa dire al suo ministro di Giustizia che gli italiani intercettati sono addirittura "30 milioni" mentre sono 125 mila le utenze sotto ascolto (le utenze telefoniche, non gli italiani intercettati). Alla procura di Milano, per fare un esempio, su 200 mila fascicoli penali all'anno, le indagini con intercettazioni restano sotto il 3 per cento (6136).

Altra bubbola del ministro è che gli ascolti si "mangiano" il 33 per cento del bilancio della giustizia mentre invece sfiorano soltanto il 3 per cento di quel bilancio (per la precisione il 2,9 per cento, 225 milioni di costo contro i 7 miliardi e mezzo del bilancio annuale della giustizia). Senza dire che, per inerzia del governo, lo Stato paga al gestore telefonico 26 euro per ogni tabulato, 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per in cellulare e 12 per un satellitare e l'esecutivo non ha tentato nemmeno di ottenere dalle compagnie telefoniche un pagamento a forfait o tariffe agevolate in cambio della concessione pubblica (accade all'estero).

Nonostante questa inerzia, le intercettazioni si pagano da sole, anche con una sola indagine. Il caso di scuola è l'inchiesta Antonveneta. Costo dell'indagine, 8 milioni di euro. Denaro incassato dallo Stato con il patteggiamento dei 64 indagati, 340 milioni. Il costo di un anno di intercettazioni e avanza qualche decina di milioni da collocare a bilancio, come è avvenuto, per la costruzione di nuovi asili.

Comunque la si giri e la si volti, questa legge serve soltanto a contenere le angosce del premier e dei suoi amici, a proteggere le loro relazioni e i loro passi, a salvaguardare il malaffare dovunque sia diffuso e radicato. Per il cittadino che chiede sicurezza e vuole essere informato di quel accade nel Paese è soltanto una sconfitta che lo rende più debole, più indifeso, più smarrito.

Se la legge dovesse essere confermata così com'è al Senato, i pubblici ministeri potranno chiedere di intercettare un indagato soltanto quando hanno già ottenuto quei "gravi indizi di colpevolezza" che giustificherebbero il suo arresto. E allora che bisogno c'è delle intercettazioni? Forse è davvero la morte della giustizia penale, come scrive l'associazione magistrati. Certo, è l'eclissi di un segmento rilevante dell'informazione. Da oggi si potranno soltanto proporre dei "riassuntini" dell'inchiesta e delle prove raccolte. Non si potrà pubblicare più alcun documento, nessun testo di intercettazione.
La cronaca, queste cronache del potere, però, non sono soltanto il racconto di imprese delittuose. Non deve esserci necessariamente un delitto, una responsabilità penale in questi affreschi. Spesso al contrario possono rendere manifesto e pubblico soltanto un disordine sociale, un dispositivo storto che merita di essere raccontato quanto e più di un delitto perché, più di un delitto, attossica l'ordinato vivere civile.

Immaginate che ci sia un dirigente della Rai che, in una sera elettorale, chiama al telefono un famoso conduttore e gli chiede di lasciar perdere con gli exit poll che danno un risultato molesto per "il Capo". Immaginate che il dirigente Rai per essere più convincente con il conduttore spiega che quello è "un ordine del Capo". Non c'è nulla di penale, è vero, ma davvero è inutile, irrilevante raccontare ai telespettatori che la scena somministrata loro, quella sera, era truccata?
Bene, ammesso che questa sia stata una conversazione intercettata recentemente in un'inchiesta giudiziaria, non la leggerete più perché l'ossessione del premier, diventata oggi legge dello Stato, la vieta. Chi ci guadagna è soltanto chi ha il potere. Chi deve giudicarlo non ne avrà più né gli strumenti né l'occasione.

(11 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: G. D'AVANZO Perché la storia di quelle foto cambia il registro di una crisi
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2009, 06:47:08 pm
L'ANALISI /

Gli scatti di Antonello Zappadu e la vita privata del capo del governo possono minare la credibilità del paese alla vigilia dell'incontro con Obama e del G8

Perché la storia di quelle foto cambia il registro di una crisi

di GIUSEPPE D'AVANZO


CINQUEMILA foto che scrutano la vita del capo di un governo (una vita "disordinata": lo dice la moglie; lo ammettono anche i suoi fedelissimi) possono essere un trascurabile gossip soltanto per teste imprevidenti o vecchi volponi. È più responsabile parlare - per dirlo in modo chiaro - di una crisi della sicurezza nazionale. Può essere questo il nuovo e allarmante approdo di un affare che, in modo bizzarro, ha avuto inizio a una festa di compleanno di una ragazza di Napoli. Si è gonfiato con le ricostruzioni pubbliche di Silvio Berlusconi, presto diventate pubbliche menzogne e impossibilità a rispondere a dieci domande suscitate dalle sue stesse parole, contraddizioni, incoerenze.

Il "caso" è cresciuto con il racconto delle abitudini ambigue del presidente del consiglio che, in un qualsiasi pomeriggio d'autunno, telefona a una minorenne che non conosce (ne ha ammirato le grazie in un book fotografico) per invitarla a conservare la sua "purezza". Fin qui, anche se pochi hanno avuto finora l'interesse o la buona fede per capirlo, eravamo dinanzi a una questione politica che interrogava il divieto o il limite dell'uso della menzogna nel discorso pubblico. L'affare proponeva questioni non dappoco: l'attendibilità del premier e la costruzione di una realtà artefatta che si avvantaggia della debolezza delle istituzioni (il Parlamento); del dominio di chi - come Berlusconi - possiede e governa i media; delle pulsioni gregarie che li abitano.

Il racconto per immagini della vita privata che il capo del governo conduce, con i suoi ospiti, a Villa Certosa (viene detto oggi in cinquemila scatti) muta ora il registro. In queste foto, raccolte nell'arco degli ultimi tre anni, si può scorgere Silvio Berlusconi, circondato da stuoli di ragazze, alcune italiane, altre apparentemente slave, sempre giovanissime.

Il presidente del consiglio è con i suoi ospiti, in alcune occasioni. Sono avanti con gli anni. Hanno i capelli bianchi. Chi sono? Amici personali del presidente o dignitari stranieri? E, in questo caso, di quale Paese? Le fotografie - Repubblica ha preso visione soltanto di una parte - sono caste, ma non innocenti. La loro pubblicazione (vietata in Italia) può senza dubbio danneggiare l'immagine e la reputazione del capo del governo, provocare l'imbarazzo del nostro e di altri governi o comunque dei leader che Berlusconi ha ospitato a Punta Lada. Qui si può scorgere, in due incertezze, l'avvio di una possibile crisi.

Si pensava (lo pensava l'avvocato del premier) che tutte le foto fossero state eliminate dal mercato. Non è così. Ce ne sono altre migliaia in circolazione.

Che cosa ritraggono? Possono trasformare l'imbarazzo di Berlusconi in vergogna e la vergogna in disonore? E ancora, chi oggi può entrare in possesso di quelle foto? Al di là delle immagini delle jeunes filles en fleurs raccolte da Antonello Zappadu, quelle giovani ospiti straniere hanno avuto la possibilità di andar via con qualche scatto, con qualche immagine?

Ecco allora perché un affare nato in modo inatteso in un ristorante della periferia di Napoli, può diventare una minaccia della sicurezza nazionale. Non c'è dubbio che il presidente del Consiglio vive ore di grande debolezza in quanto non è in grado di sapere quali e quante immagini circolino (e non è necessario che siano compromettenti anche se sarebbe oggi avventuroso sostenere, con certezza, che non lo siano). Come non c'è dubbio che chi arraffa, o ha arraffato per tempo, quegli scatti, potrebbe avere un potere di interdizione sui passi del capo del governo.

Si comprende quindi il nervosismo, l'ansia del premier; la pressione che in queste ore muove sui servizi segreti per avere non solo, come pure si è detto, una maggiore protezione per il futuro, ma - e quel che conta - la sterilizzazione di ogni minaccia che viene dal passato e la distruzione di ogni disegno aggressivo che può affacciarsi nel presente.

Questa condizione di precarietà, dicono, avrebbe convinto Berlusconi a chiedere all'intelligence un'azione meno "politica" e discreta, più convinta e determinata per liberare i suoi giorni da ogni possibile ombra. Soprattutto alla vigilia di importati appuntamenti internazionali (l'atteso incontro con Obama, il G8 di luglio a l'Aquila).

Ma, ammesso che ci siano i margini tecnici per mettere in sicurezza la reputazione del presidente del consiglio, nessuno oggi è in grado di dire se non sia già troppo tardi. In questo dubbio, c'è tutta l'asprezza di una crisi che deve ancora trovare il suo vero nome.

(12 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le menzogne del Cavaliere da Noemi al caso Mills
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 12:25:24 pm
L'ANALISI

Le menzogne del Cavaliere da Noemi al caso Mills

di GIUSEPPE D'AVANZO


Dice Berlusconi a Santa Margherita Ligure: "Su quattro calunnie messe in fila - veline, minorenni, Mills e voli di Stato - è stata fatta una campagna che è stata molto negativa per l'immagine all'estero dell'Italia". Il significato di calunnia è "diceria o imputazione, coscientemente falsa e diretta ad offendere l'integrità o la reputazione altrui" (Devoto e Oli). Per comprendere meglio quali siano, per il premier, le "dicerie o imputazioni coscientemente false" raccolte contro la sua reputazione bisogna leggere il Corriere della sera di ieri.

Nel colloquio il Cavaliere spiega quali sono le quattro menzogne, strumenti del fantasioso "progetto eversivo". Qui si vuole verificare, con qualche fatto utile e ostinato, se la lamentazione del Cavaliere ha fondamento e chi alla fine mente, se Berlusconi o chi oppone dei rilievi alla "verità" del capo del governo.

1 "Hanno iniziato scrivendo che c'erano "veline" nelle liste del Pdl alle Europee. Non erano "veline" e sono state tutte elette". (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9)

I ricordi del Cavaliere truccano quel che è accaduto e banalizzano una questione che, fin dall'inizio, è stata esclusivamente politica, per di più sollevata nel suo campo. Sono i quotidiani della destra, e quindi da lui controllati direttamente o indirettamente influenzati, a dar conto dell'affollamento delle "veline" nelle liste europee del Popolo della Libertà. Comincia il Giornale della famiglia Berlusconi, il 31 marzo. Ma è il 22 aprile, con il titolo "Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore" - sommario, "Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl" - che Libero rivela i nomi del cast in partenza per Strasburgo: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e "una misteriosa signorina" lituana, Giada Martirosianaite.

Contro queste candidature muove la fondazione Farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini. Il pensatoio, diretto dal professor Alessandro Campi, denuncia l'"impoverimento della qualità democratica del paese" e, con un'analisi della politologa Silvia Ventura, avverte che "l'uso strumentale del corpo femminile (...) denota uno scarso rispetto (...) per le istituzioni e per la sovranità popolare che le legittima" (www.ffwebmagazine. it).

Queste scelte sono censurate, infine, anche da Veronica Lario che le definisce "ciarpame senza pudore del potere" (Ansa, 29 aprile). Il "fuoco amico" consiglierà Berlusconi a gettare la spugna, nella notte del 29 aprile. In una telefonata da Varsavia alle 22,30 in viva voce con i tre coordinatori del Pdl, La Russa, Bondi e Verdini, il premier dice: "E va bene, bloccate tutto. Togliete quei nomi. Sostituitele". Molte "veline", in interviste pubbliche, diranno della loro amarezza per l'esclusione.

2 "Poi hanno tirato in ballo Noemi Letizia, come se fossi una persona che va con le minorenni. In realtà sono solo andato a una festa di compleanno, e per me - che vivo tra la gente - è una cosa normale". (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9).

Non c'è un grano di "normalità" nei rapporti tra il Cavaliere e i Letizia. Dopo 31 giorni, è ancora oscuro (e senza risposta) come sia nato il legame tra Berlusconi e la famiglia di Noemi. L'ultima versione ascoltata è contraddittoria come le precedenti. Elio Letizia sostiene di aver presentato la figlia al capo del governo in un luogo privato, nel suo studio a Palazzo Grazioli, alla vigilia del Natale del 2001. Berlusconi, nello stesso giorno, ha ricordato di averla conosciuta in un luogo pubblico, "a una sfilata". Ma la "diceria" che il capo del governo denuncia è di "andare con minorenni". E' stata Veronica Lario per prima a svelare che il marito "frequenta minorenni" (Repubblica, 3 maggio). La circostanza è stata confermata dall'ex-fidanzato di Noemi (Gino Flaminio) che colloca il primo contatto telefonico tra il capo del governo e la ragazza nell'autunno del 2008. Le parole di Gino costringono Berlusconi - contrariamente a quanto fino a quel momento aveva detto ("Ho visto sempre Noemi alla presenza dei genitori") - ad ammettere di aver avuto Noemi ospite a Villa Certosa per dieci giorni a cavallo del Capodanno 2009, accompagnata da un'amica (Roberta O.) e senza i genitori. Nel gennaio del 2009, Noemi come Roberta, era minorenne. Dunque, è corretto sostenere che Berlusconi frequenti minorenni.

3 "Nel frattempo si sono scatenati sul "caso Mills", un avvocato che non conosco di persona" (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9)

Negli atti del processo contro David Mills (teste corrotto, condannato a 4 anni e 6 mesi di carcere) e Silvio Berlusconi (corruttore, ma immune per legge ad personam), sono dimostrati con documenti autografi, per ammissione dell'imputato, con le parole di testimoni indipendenti, gli incontri del Cavaliere con l'avvocato inglese che gli ha progettato e amministrato l'arcipelago delle società off-shore All Iberian, il "gruppo B di Fininvest very secret". Un documento scovato a Londra dà conto di un incontro al Garrick Club di Garrick Street (discutono delle società estere e Berlusconi autorizza Mills a trattenere 2 milioni e mezzo di sterline parcheggiati sul conto dell'Horizon Limited). Un altro documento sequestrato a Mills fa riferimento a una "telefonata dell'altra notte con Berlusconi". Mills, interrogato, ammette di aver parlato con il Cavaliere la notte del 23 novembre 1995. Ancora Mills, il 13 aprile 2007, conferma di aver incontrato Berlusconi ad Arcore. L'avvocato "descrive anche la villa" (dalla sentenza del tribunale di Milano).

Due soci di Mills nello studio Withers, ascoltati da una corte inglese, così rispondono alla domanda: "C'è stata mai una riunione tra Mills e Berlusconi?". Jeremy LeM. Scott dice: "So che c'è stato un incontro per mettersi d'accordo sul dividendo". A Virginia Rylatt "torna in mente che lui [Mills] era ritornato dal signor Berlusconi". E' una menzogna, forse la più spudorata, che il capo del governo non abbia mai conosciuto David Mills.

4 "Infine hanno montato un caso sui voli di Stato che uso solo per esigenze di servizio" (Berlusconi al Corriere, 13 giugno, pagina 9).

In una fotografia scattata dal fotografo Antonello Zappadu si vede lo stornellatore del Cavaliere, Mariano Apicella, scendere da un aereo di Stato. Dietro di lui, una ballerina di flamenco. Il fotoreporter sostiene che l'immagine è stata scattata il 24 maggio 2008. In quel giorno era ancora in vigore un decreto del governo Prodi che limitava l'uso degli aerei di Stato "esclusivamente alle personalità e ai componenti della delegazione della missione istituzionale". Si può sostenere che Apicella e la ballerina facevano parte di una "missione istituzionale"? E' quanto dovrà accertare il Tribunale dei ministri sollecitato dalla Procura di Roma a verificare, per il capo del governo, l'ipotesi di abuso d'ufficio. Infatti soltanto due mesi dopo, il 25 luglio 2008, il presidente del consiglio ha cambiato le regole per i "voli di Stato" prevedendo "l'imbarco di personale estraneo alla delegazione", ma "accreditato su indicazione dell'Autorità in relazione alla natura del viaggio, al rango rivestito dalle personalità trasportate, alle esigenze protocollari e alla consuetudini anche di carattere internazionale". Il caso sui "voli di Stato", che è poi un'inchiesta giudiziaria dovrà accertare se musici, ballerine, giovani ospiti del presidente viaggiano in sua compagnia (con quale rango?) o addirittura in autonomia, nel qual caso l'abuso d'ufficio può essere evidente.

Quindi, quattro "calunnie" o quattro menzogne presidenziali? Si può concludere che Berlusconi, a Santa Margherita Ligure, ancora una volta ha precipitato coscientemente la vita pubblica nella menzogna nella presunzione di abolire l'idea stessa di verità.

(14 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Un'indagine inesistente
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2009, 12:45:07 pm
Un'indagine inesistente

di GIUSEPPE D'AVANZO

IL COMMENTO


Strillano i caudatari la loro soddisfazione per l'archiviazione dell'inchiesta sull'abuso dei "voli di Stato", affollati di stornellatori e ballerine di flamenco in viaggio verso Villa Certosa. Non si comprende la ragione di tanto "azzurro" entusiasmo. La decisione della procura di Roma non nasce nella scena giuridica. Corrisponde a una cabala socio-politica - come spesso accade quando l'ufficio giudiziario della Capitale incrocia comportamenti e abitudini "eccellenti". In realtà, non c'è stata alcuna coscienziosa indagine, ma soltanto un controllo burocratico di cinque foglietti di carta con la lista dei passeggeri dei voli Roma-Olbia del 24, 25 e 31 maggio, 1 giugno e 17 agosto 2008. Addirittura in cinque - il capo, l'aggiunto, tre sostituti - hanno accertato che su quei voli c'era anche il presidente del consiglio. Quindi, partita chiusa, fine di ogni interesse.

E' vero, lo stornellatore e la ballerina (immortalati negli scatti del fotoreporter Antonello Zappadu) sono "manifesti passeggeri" a scrocco, ma non c'è stato "alcun danno patrimoniale" né sono "emersi casi di soggetti estranei che hanno viaggiato in assenza del presidente". "Insussistente" dunque l'abuso d'ufficio. "Insussistente" anche il peculato. Va detto che nessuno a Roma ha accertato chi ci fosse a bordo in altri voli e se fosse sempre presente il presidente del consiglio o un ministro. Un'indagine più credibile si sarebbe forse chiesta (c'è chi in procura lo ha inutilmente proposto): bene, accertiamo l'effettiva presenza sul volo del capo del governo; allarghiamo lo spettro delle verifiche non soltanto a quei cinque voli, ma per cominciare ai tre mesi estivi; ascoltiamo gli equipaggi. Insomma, se indagine sull'uso e l'abuso dei "voli di Stato" deve essere, che lo sia e che sia attendibile e rigorosa.

Troppo, evidentemente, per un ufficio giudiziario che, fin dalle prime mosse di questo affare, ha mostrato una premura "quietista" pari soltanto all'assoluta indisponibilità ad avventurarsi addirittura in un'inchiesta "vera". Non è la sola ombra affiorata nell'attività della procura. Lo si ricorderà. Con precipitosa solerzia, Roma - pur palesemente incompetente - sequestra le immagini "rubate" dal fotoreporter tra i patii di Villa Certosa. Il legale del premier avrebbe dovuto infatti presentare la sua richiesta alla magistratura di Tempio Pausania ma l'avvocato Ghedini, quell'ufficio, lo ha in odio perché non gli dà sempre ragione come pretende. Boccia una sua richiesta quando, qualche anno fa, Zappadu immortala cinque ragazze sedute sulle ginocchia del premier (la magistratura sarda chiede l'archiviazione per il reporter impiccione).

Niente Tempo Pausania, allora. Ghedini presenta la sua richiesta urgente di sequestro alla procura di Roma che la concede salvo poi dichiararsi incompetente e spedire il fascicolo a Tempio Pausania. La manovra ha il suo esito positivo per Berlusconi. Quelle foto non potranno essere pubblicate, anche se il capo del governo le definisce innocenti.

L'atto di sottomissione della procura di Roma lascia affiorare "molto malumore" tra i pubblici ministeri. La diffusa irritazione impedisce di replicare la manovra abusiva quando Zappadu ammette che gli scatti non sono centinaia, ma cinquemila. Con scrupolo, finalmente, Roma rifiuta una seconda istanza di sequestro di Ghedini e spedisce l'incarto a Tempio Pausania. L'insoddisfazione domina tra i pubblici ministeri di Roma anche in queste ore. Piace poco la solerzia (ancora) con cui l'ufficio di Giovanni Ferrara ha chiuso la seconda inchiesta (questa volta competente) senza avanzare al tribunale dei ministri neppure una richiesta istruttoria.

E' vero, conclude la procura, il regolamento dei "voli di Stato" in vigore nella primavera del 2008 era molto restrittivo e non c'è dubbio che quegli ospiti non avevano il rango per viaggiare a spese del contribuente, ma c'era anche il capo del governo e non c'è stato " né un danno per lo Stato né un apprezzabile ingiusto profitto per Berlusconi". E' scontato che il tribunale dei ministri accetterà, come già ampiamente previsto, l'archiviazione. La conclusione dell'affare penale lascia aperta una questione che giuridica non è. La si può dire etica o, se è troppo, socio-politica: è corretto che la "corte" di Berlusconi - musici e ballerine e giovani ospiti - viaggino a ufo per rallegrare a Punta Lada i week-end del signore di Arcore?

(17 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'utilizzatore finale
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2009, 10:14:00 am
IL COMMENTO

L'utilizzatore finale

di GIUSEPPE D'AVANZO


UNA vita disordinata spinge sempre di più e sempre più in basso la leadership di Silvio Berlusconi. In un tunnel da cui il premier non riesce a venir fuori con decoro. Nel caleidoscopio delle verità rovesciate le ugole obbedienti accennano al consueto e oggi inefficace gioco mimetico. Creano "in vitro" un nuovo "caso" nella speranza che possa oscurare la realtà. S'inventano così artificialmente un "affare D'Alema" per alzare il polverone che confonda la vista. Complice il telegiornale più visto della Rai che, con la nuova direzione di un dipendente di Berlusconi, ha sostituito alle pulsioni gregarie di sempre una funzione più schiettamente servile.

Dicono i corifei e il Tg1: è stato lui, D'Alema, a parlare di possibili "scosse" in arrivo per il governo, come sapeva dell'inchiesta di Bari? Il ragionamento di D'Alema era con tutta evidenza soltanto politico. Chiunque peraltro avrebbe potuto cogliere lo stato di incertezza e vulnerabilità in cui è precipitata la leadership di Berlusconi che vede diminuire la fiducia che lo circonda a petto del maggiore consenso che raccoglie non lui personalmente - come ci ha abituato da quindici anni a questa parte - ma l'offerta politica della destra.

Legittimo attendersi che quel nuovo equilibrio - inatteso fino a sette settimane fa, fino alla sua visita a Casoria - avrebbe prodotto ai vertici di quel campo un disordine, quindi un riassestamento. In una formula, sussulti, tensioni, una nuova stabilità che avrebbe ridimensionato il gusto del plebiscito, un cesarismo amorfo che, come è stato scritto qui, ha creduto di sostituire "lo Stato con un uomo, il governo con il comando, la politica con il potere assoluto e carismatico".

Era questa idea di politica, questa fenomenologia del potere che, suggeriva D'Alema, riceverà presto delle "scosse" e gli esiti potrebbero essere drammatici.

Vediamo come questa storia trasmuta nella propaganda che manipola e distrae, ora che salta fuori come a Palazzo Grazioli, dove garrisce al vento il tricolore degli edifici di Stato, siano invitate per le cene e le feste di Berlusconi donne a pagamento, prostitute. Le maschere salmodiano la solita litania: l'opposizione, e il suo leader, più le immarcescibili toghe rosse di Magistratura democratica aggrediscono ancora il presidente del Consiglio. Ma è così?

I fatti fluttuano soltanto se la memoria deperisce. Se si ha a mente che è stato il ministro Raffaele Fitto, per primo, a suggerire che Berlusconi poteva essere coinvolto a Bari in un'inchiesta giudiziaria, si può concludere che non D'Alema, ma il governo sapeva del pericolo che incombeva sul premier e oggi lo rovescia in arma contro l'opposizione e, quel che conta di più, in nebbia per abbuiare quel che tutti hanno dinanzi agli occhi: Berlusconi è pericolosamente - per il Paese, per il governo, per le istituzioni, per i nostri alleati - vulnerabile. Le sue abitudini di vita e ossessioni personali (qual è il suo stato di salute?) lo espongono a pressioni e tensioni. A ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un'eterna impunità.

È soltanto malinconico il tentativo del presidente del Consiglio e degli obbedienti corifei di liquidare questo affare come "spazzatura", come violazione della privacy presidenziale. Se il presidente riceve prostitute nelle sue residenze private diventate sedi del governo (è così per Villa Certosa e Palazzo Grazioli), la faccenda è pubblica, il "caso" è politico. Non lo si può più nascondere sotto il tappeto come fosse trascurabile polvere fino a quando ci sarà un giornalismo in grado di informare con decenza il Paese. Di raccontare che la vulnerabilità di Berlusconi è ormai una questione che interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale.

Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente il capo del governo? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni - e magari le registrazioni e le immagini - in loro possesso?

Da sette settimane (e a tre dal G8) non accade altro che un lento e progressivo disvelamento della vita disordinata del premier e della sua fragilità privata che si fa debolezza e indegnità della sfera pubblica. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne che lo costringono a mentire in tv; i book fotografici che gli vengono consegnati per scegliere i "volti angelici"; la cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita.

E ora, svelata dal Corriere della Sera, anche la confessione di una donna che è stata pagata per una cena e per una notte con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale. La storia può essere liquidata, come fa l'avvocato Ghedini, dicendo Berlusconi comunque non colpevole e in ogni caso soltanto "utilizzatore finale" come se una donna fosse sempre e soltanto un corpo e mai una persona?

Che cosa deve ancora accadere perché la politica, a cominciare da chi ha sempre sostenuto la leadership di Berlusconi, prenda atto che il capo del governo è vittima soltanto di se stesso? Che il suo silenzio non potrà durare in eterno? Che presto il capo del governo, trasformatosi in una sola notte da cigno in anatra zoppa, non è più la soluzione della crisi italiana, ma un problema in più per il Paese. Forse, il dilemma più grave e più drammatico se non si riuscirà a evitare che la crisi personale di una leadership divenga la tragedia di una nazione.

(18 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'isolamento dello stregone
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2009, 06:46:11 pm
IL COMMENTO

L'isolamento dello stregone

di GIUSEPPE D'AVANZO


Il battibecco in diretta tv tra il capo del governo e l'avvocato Ghedini ("Come puoi pensare, Niccolò, che ti ho dato del "pazzo", ora sono io che mi offendo...") chiude una lunga stagione e ne annuncia una nuova, più incerta, dove nella sorridente e amabile stregoneria mediatica di Berlusconi affiorano disgregazioni e svuotamenti di cui nessuno, per il momento, può immaginare gli esiti. La politica di Arcore finora è stata soprattutto arma psicologica, sapientissimo governo di una macchina del consenso capace di distribuire gesti, parole, discorsi.

Inoculare passioni e fobie attraverso format semplificati: "l'uomo del fare", "i comunisti". Ispirare finte idee: "Saremo tutti felici". Fabbricare una scena di cartone: "I successi del governo che non lascia nessuno indietro". Indurre decisioni e, naturalmente, una propensione al voto.

Berlusconi aveva (e ha) il controllo pieno di un efficiente arsenale per affatturarsi il mondo e la realtà. Televisioni pubbliche e private; influenza diretta o indiretta su quotidiani e settimanali; dominio pieno dell'industria dell'intrattenimento che crea miti, stili di vita, desiderio, incantesimi. Indifferente a ogni self-restraint, Berlusconi ha usato quel ferro semiotico senza parsimonia e con calcoli freddi. Là dove c'era il "pieno" del potere (e la sua responsabilità, i suoi doveri, anche la sua sofferenza) è nato un "vuoto" dove tutto - ogni magia, ogni promessa, ogni favola - poteva felicemente trovar posto per durare un solo giorno perché il "pubblico" è "educato" a dar fede soltanto a "credenze" che possono essere cancellate o sostituite il giorno successivo ("Tutti gli aquilani avranno le loro case in autunno").

Le tecniche di questa nuova "civilizzazione", che ha reso indifferente sulla scena politica e nel discorso pubblico la domanda "che cosa accade davvero?", è stata manifesta nel corso del tempo. Il signore tecnocratico-populista scriveva l'agenda dell'attenzione pubblica. I media ubbidienti o gregari (la maggior parte) ne riproducevano l'eco. Discorsi precostituiti pronti all'uso ne assicuravano una "coda lunga". Infine, maschere salmodianti (in assetto variabile, Gasparri, Quagliariello, Bocchino, Cicchitto, Bonaiuti) li recitavano come filastrocche all'ora del tiggì.

Bene, la diavoleria non funziona più. Da due mesi Berlusconi è inchiodato su un'agenda che non ha scritto lui, che lo ha sorpreso e ancora lo stupisce. È costretto a inseguire una "realtà" (le feste di compleanno in periferia, le vacanze con le minorenni, l'ossessione per il sesso, le notti a pagamento) che non riesce a cancellare dalla pubblica attenzione. Più il premier si rifiuta di rispondere a legittime domande e all'opinione pubblica per liberarsi delle ombre e delle contraddizioni che oscurano i suoi comportamenti privati, tanto più è chiaro - ora, anche a chi l'ha a lungo negato - che la questione è politica, e il capo di un governo non se ne può sottrarre. I caudatari, nella corvée televisiva della sera, sono come intrappolati in un'alternativa del diavolo, in un gioco a perdere. La litania preconfezionata prevede di distruggere con parole arroventate la "realtà", di ridurla a questione privata e dunque protetta allo sguardo di chicchessia. Ma quanto più i corifei demoliscono tanto più le loro parole provocano imbarazzo anche nella loro area di consenso e spargono la convinzione che, se il presidente del consiglio tace, la ragione è nell'impossibilità di essere trasparente, di dire qualcosa senza correre il rischio di danneggiare se stesso.

Peggio accade quando la controffensiva si fa gaglioffa. Come d'abitudine l'informazione al servizio del premier calpesta tutti coloro che sono in grado di dire una parola di verità. Così la signora, ospite a pagamento del premier nel "letto grande" di Palazzo Grazioli, diventa nei resoconti una pazza, una squilibrata, per di più puttana. Disegnata così la scena, crescono e non diminuiscono dubbi, domande, sconcerto. Ci si chiede quanto irresponsabile sia chi permette a un personaggio così avventuroso di entrare nella sua camera da letto, armato di videocamera e registratore.

Per liberare il Cavaliere dall'accusa di pagare prostitute, c'è poi chi (Feltri su Libero) si spinge a giurare sulla sua impotenza: che bisogno ha di pagare una donna se il sesso gli è impedito? Il polemista non si accorge che, per salvare il suo Cavaliere, gli infligge un'umiliazione. Come capita anche all'avvocato-consigliere che definisce il suo "principe" innocente e, se non innocente, soltanto "utilizzatore finale" di quel corpo-merce.

Il vivamaria ci racconta come la stregoneria politica e mediatica si è infranta. Chiunque ha potuto vedere, nelle immagini di Sky dal Consiglio europeo di Bruxelles, il nuovo Berlusconi. Cupo, livoroso, spogliato del suo dinamismo estroverso. Il capo del governo freneticamente si inumidisce, sulle labbra, l'indice e il medio della mano destra. Sfoglia rapido la rassegna stampa. Con la sinistra regge il telefono e alza voce. E' compulsivo. Nemmeno si accorge della telecamera. E' a un consesso internazionale e deve occuparsi degli affari di bottega, da solo e direttamente, improvvisando, privo di una exit strategy. Non ha accanto consiglieri, spin doctor, staff. Il ministro che gli siede vicino, Frattini, finge di leggere e sembra imbarazzato da quel che sente. Sente che il premier deve rabbonire finanche l'avvocato finora bravo ad ingrassare soltanto le sue difficoltà, convinto com'è che l'affare sia penale e non politico.

Sono immagini che indicano l'isolamento del presidente del consiglio, la paralisi di chi - ripetendo come un mantra salvifico "spazzatura, spazzatura" - crede di poter esorcizzare le difficoltà che lo affliggono e lo occupano in modo esclusivo a dispetto delle sue responsabilità di governo. I fotogrammi di Bruxelles possono essere la fine della magia cesaristica, possono essere la conclusione di un sogno bonapartista, evocato da Gianfranco Fini come "impotente e inefficace", come nemico e minaccia di una democrazia "più forte, più rappresentativa, più partecipata". L'Italia berlusconiana sembra abbandonare le tentazioni - da Secondo Impero - del plebiscito. Nessuno sentirà l'assenza di Louis-Napoléon.

(20 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La verità che non può dire
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2009, 10:31:49 pm
IL COMMENTO

La verità che non può dire

di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi esige da noi, per principio e diritto divino, come se davvero fosse "unto dal Signore", la passiva accettazione dei suoi discorsi. Pretende che non ci siano repliche o rilievi alle sue parole. Reclama per sé il monopolio di un'apparenza che si cucina in casa con i cuochi di famiglia. Senza contraddittorio, senza una domanda, senza un'increspatura, senza la solidità dei fatti da lui addirittura non contraddetti, senza un estraneo nei dintorni. Vuole solo famigli e salariati. Con loro, il Cavaliere frantuma la realtà degradata che vive. La rimonta come gli piace a mano libera e ce la consegna pulita e illuminata bene. A noi tocca soltanto diventare spettatori - plaudenti - della sua performance. Berlusconi ci deve immaginare così rincitrulliti da illuderci di poter capire qualcosa di quel che accade (è accaduto) non servendoci di ciò che sappiamo, ma credendo a ciò che egli ci rivela dopo aver confuso e oscurato quel che già conosciamo. Quindi, via ogni fatto accertato o da lui confessato; via le testimonianze scomode; via documenti visivi; via i giornalisti impiccioni e ostinati che possono ricordarglieli; via anche l'anchorman gregario e quindi preferito; via addirittura la televisione canaglia che da una smorfia può rivelare uno stato d'animo e una debolezza.

Berlusconi, che pare aver smarrito il suo grandioso senso di sé, si rimpannuccia sul divano di casa affidandosi alle calde cure del direttore di Chi. Insensibile alle contraddizioni, non si accorge dell'impudico paradosso: censurare i presunti pettegolezzi dalle colonne di un settimanale della sua Mondadori, specializzato in gossip. Dimentico di quanto poca fortuna gli abbia portato il titolo di Porta a Porta (5 maggio) "Adesso parlo io" (di Veronica e di Noemi), ci riprova. "Adesso parlo io" strilla la copertina di Chi. Il palinsesto è unico.

In un'atmosfera da caminetto, il premier ricompone la solita scena patinata da fotoromanzo a cui non crede più nessuno, neppure nel suo campo. La tavolozza del colore è sempre quella: una famiglia unita nel ricordo sempre vivo di mamma Rosa e nell'affetto dei figli; l'amore per Veronica ferito - certo - ma impossibile da cancellare; la foto con il nipotino; una vita irreprensibile che non impone discolpa; l'ingenuità di un uomo generoso e accogliente che non si è accorto della presenza accanto a lui, una notte, di una "squillo" di cui naturalmente non ha bisogno e non ha pagato perché da macho latino conserva ancora il "piacere della conquista".

Acconciata così la sua esistenza che il più benevolo oggi definisce al contrario "licenziosa", chi la racconta in altro modo non può essere che un "nemico". Da un'inimicizia brutale sono animati i giornali che, insultati ma non smentiti, raccontano quel che accade nelle residenze del presidente. Antagonisti malevoli, prevenuti o interessati sono quegli editori che non azzittiscono d'imperio le loro redazioni. C'è qualcosa di luciferino (o di vagamente folle) nella pretesa che l'opinione pubblica - pur manipolata da un'informazione servile - s'ingozzi con questo intruglio. Dimentico di governare un Paese occidentale, una società aperta, una democrazia (ancora) liberale, il capo del governo pare convinto che, ripetendo con l'insistenza di un disco rotto, la litania della sua esemplare "storia italiana" possa rianimare l'ormai esausta passione nazionale per l'infallibilità della sua persona. È persuaso che, mentendo, gli riesca di sollecitare ancora un odio radicale (nell'odio ritrova le energie smarrite e il consenso dei "fanatizzati") contro chi intravede e racconta e si interroga - nell'interesse pubblico - sui lati bui della sua vita che ne pregiudicano la reputazione di uomo di governo e, ampiamente, la sua affidabilità internazionale. Berlusconi sembra non voler comprendere quanto grave - per sé e per il Paese - sia la situazione in cui si è cacciato e ha cacciato la rispettabilità dell'Italia. Ha voluto convertire, con un tocco magico e prepotente, le "preferite" del suo harem in titolari della sovranità popolare trasformando il suo privato in pubblico. Non ha saputo ancora spiegare, dopo averlo fatto con parole bugiarde, la frequentazione di minorenni che ora passeggiano, minacciose, dinanzi al portone di Palazzo Chigi. Ha intrattenuto rapporti allegri con un uomo che, per business, ha trasformato le tangenti alla politica in meretricio per i politici. Il capo del governo deve ora fronteggiare i materiali fonici raccolti nella sua stanza da letto da una prostituta e le foto scattate da "ragazze-immagine", qualsiasi cosa significhi, nel suo bagno privato mentre ogni giorno propone il nome nuovo di una "squillo" che ha partecipato alle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli (che pressione danno a Berlusconi, oggi?).

La quieta scena familiare proposta da Chi difficilmente riuscirà a ridurre la consistenza di quel che, all'inizio di questa storia tragica, si è intravisto e nel prosieguo si è irrobustito: la febbre di Berlusconi, un'inclinazione psicopatologica, una sexual addiction sfogata in "spettacolini" affollati di prostitute, minorenni, "farfalline", "tartarughine", "bamboline" coccolate da "Papi" tra materassi extralarge nei palazzi del governo ornati dal tricolore. Una condizione (uno scandalo) che impone di chiedere, con la moglie, quale sia oggi lo stato di salute del presidente del Consiglio; quale sia la sua vulnerabilità politica; quanta sia l'insicurezza degli affari di Stato; quale sia la sua ricattabilità personale. Come possono responsabilmente, questi "buchi", essere liquidati come affari privati?

La riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non consentirà a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui è caduto da solo. Ipotizzare un "mandato retribuito" per la "escort" che ricorda gli incontri con il presidente a Palazzo Grazioli è una favola grottesca prima di essere malinconica (la D'Addario è stata prima intercettata e poi convocata come persona informata dei fatti). Evocare un "complotto" di questo giornale è soltanto un atto di intimidazione inaccettabile.

Ripetendo sempre gli stessi passi come un automa, lo stesso ritornello come un cantante che conosce una sola canzone, Berlusconi appare incapace di dire quelle parole di verità che lo toglierebbero d'impaccio. Non può dirle, come è sempre più chiaro. La sua vita, e chi ne è stato testimone, non gli consente di dirle. È questo il macigno che oggi il capo del governo si porta sulle spalle. Non riuscirà a liberarsene mentendo. Non sempre la menzogna è più plausibile della realtà. Soprattutto quando un Paese desidera e si aspetta di sentire la verità su chi (e da chi) lo governa.

(24 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le dieci nuove domande che rivolgiamo a Berlusconi
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2009, 10:23:05 am
Da Noemi alle feste a Palazzo Grazioli, quelle risposte mai date

Le dieci nuove domande che rivolgiamo a Berlusconi

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

La sera del 26 aprile Silvio Berlusconi festeggiava Noemi a Casoria. E' giunto il tempo, due mesi dopo, di tirare le somme. Bisogna annotare con cura le bugie ascoltate; interrogarsi sulle ragioni dei troppo silenzi; afferrare il filo rosso che da una storia (le "veline") ci ha condotto in un'altra (Noemi) e in un'altra ancora (le prostitute a Palazzo Grazioli) fino alla soglia di una quarta (le feste del presidente). Giorno dopo giorno, si è definita sempre meglio la "licenziosità" del capo del governo, "la scelta sciagurata degli amici di bisboccia, la sciatteria in certe relazioni e soprattutto la caratterizzazione ostentatoria di tutti i suoi comportamenti privati" (Giuliano Ferrara, Panorama, 26 giugno). Quel filo si riannoda intorno a un "grandioso sé", lascia nudo un potere e un abuso di potere che si immagina senza contrappesi e irresponsabile.

SPECIALE LE DIECI NUOVE DOMANDE AL CAVALIERE

Da due mesi, Berlusconi parla senza dire. Ci scherza su alquanto imbarazzato e come ossessivo, ma tace l'essenziale. Il tempo non è passato invano, però. Le dieci domande che Repubblica ha ritenuto di rivolgergli il 14 maggio hanno trovato più di una risposta, nonostante il loquace mutismo del presidente del consiglio. A volte, anche i silenzi sanno parlare. C'è oggi materia viva per eliminare qualche interrogativo e proporne altri, nuovi e dunque necessari e urgenti.

"Chi è incaricato di una funzione pubblica deve chiarire", dice Silvio Berlusconi (Porta a Porta, 5 maggio). All'alba di questa storia, il premier sembra sapere che il significato etico e politico di accountability presuppone trasparenza; impegno a dichiararsi; rendiconto di quel che si è fatto e si fa; assunzione di responsabilità; censurabilità delle condotte riprovevoli - anche private - perché è chiaro a tutti che non ci può essere una radicale contrapposizione "tra il modo in cui un uomo di potere tratta coloro che gli sono vicini (la sua morale) e il modo in cui governa i cittadini e risponde a loro (la sua politica)" (Carlo Galli, Repubblica, 22 giugno).

Berlusconi, in apparenza, è animato da buone intenzioni, dunque. Deve, presto e in fretta, liberarsi di tre grattacapi che gli vengono dalla famiglia (con le accuse di Veronica Lario), dalla sua area politica (con i rilievi critici di farefuturo). Gli rimproverano di voler candidare alle elezioni per il parlamento di Strasburgo "veline", giovani o giovanissime donne che egli ha già promosso nello spettacolo e gli tengono compagnia con assiduità nel tempo libero, a Villa Certosa, a Palazzo Grazioli. Gli si contesta la frequentazione di minorenni e un'ossessione per il sesso che pregiudica il suo equilibrio (Veronica Lario, Repubblica, 3 maggio). Gli si chiede dei rapporti con la minorenne di Napoli di cui ha voluto festeggiare il 18° anno (Repubblica, 28 aprile).
 
Berlusconi è tentato dal rovesciare il tavolo, come gli è abituale. Parla di "complotto". Di fronte all'evidenza che il fuoco è "amico", lascia perdere e appronta una difesa che vuole essere conclusiva. Concede due interviste ufficiali (Corriere, Stampa, 4 maggio). Chiacchiera ufficiosamente e in libertà (ancora Corriere e Stampa, nei giorni successivi al 4 maggio). Si confessa alla tv pubblica francese durante il tg delle 20 (France 2, 6 maggio). Rifiuta - è vero - un'intervista a Repubblica (13 maggio), ma promette di "spiegare tutto" (Cnn International, 25 maggio).

Berlusconi è categorico, quasi minuzioso nella ricostruzione delle sue mosse. "Non avevamo messo in lista nessuna velina" (Corriere, 4 maggio). "Io frequenterei delle diciassettenni? E' una cosa che non posso sopportare. Io sono amico del padre [di Noemi], punto e basta. Lo giuro!" (Stampa, 4 maggio). "Sono andato a Napoli per discutere di candidature con il padre di Noemi" (Porta a porta, 5 maggio), con cui "ho un'antica amicizia di natura politica", peraltro "Noemi, la figlia dei miei amici, l'ho vista tre, quattro volte, sempre accompagnata dai genitori" (France 2, 6 maggio).

Le affermazioni del capo del governo non reggono alla verifica dei fatti.

Repubblica scopre (21 maggio) che il 19 novembre 2008, a Villa Madama, la minorenne Noemi siede al tavolo presidenziale, in occasione della cena offerta dal governo alle griffe del made in Italy, raccolte nella Fondazione Altagamma. La ragazza è sola, non accompagnata da alcun familiare, accanto al presidente del consiglio e a Leonardo Ferragamo, Santo Versace, Paolo Zegna, Laudomia Pucci. Sola e minorenne - e non accompagnata dai suoi genitori ma da un'amica minorenne (Roberta O.) - Noemi è anche a Villa Certosa, a ridosso del Capodanno, tra il 26/27 dicembre 2008 e il 4/5 gennaio 2009. Lo rivela a Repubblica (24 maggio) Gino Flaminio, un operaio di 22 anni legato sentimentalmente a Noemi dal 28 agosto 2007 al 10 gennaio 2009.
 
Gino, in contrasto con le dichiarazioni del Cavaliere, svela anche quando Berlusconi si mette in contatto con la minorenne Noemi. Che sia la prima volta, glielo racconta lei stessa. Accade nell'autunno del 2008 (ultimi giorni di ottobre, primi di novembre). Soltanto otto mesi fa. Berlusconi telefona direttamente alla ragazza alle prese con i compiti di scuola. Nessuna segreteria. Nessun centralino. Nessun legame con la famiglia della ragazza. Berlusconi (che ha davanti una collezione di foto di Noemi) le dice parole di ammirazione per la sua "purezza", per il suo "volto angelico". Dopo quel primo contatto, ne seguono altri (Gino ascolta la voce del premier in tre o quattro telefonate) fino all'invito a trascorrere dieci giorni - senza i genitori - a Punta Lada.

Le rivelazioni raccolte da Repubblica costringono il premier a correggere precipitosamente il tiro. Non puo' negare la presenza di Noemi a Villa Madama. Ammette che la minorenne, anzi le due minorenni hanno festeggiato il Capodanno con lui, non accompagnate dai familiari. Non può confessare però che - uomo di 73 anni, con impegnative responsabilità pubbliche - trascorre il pomeriggio a telefonare a minorenni che conosce soltanto attraverso book fotografici fornitigli dagli uomini di Mediaset (nel caso di Noemi è Emilio Fede, dice Flaminio). Appresta allora una nuova favoletta per spiegare come, quando e perché ha conosciuto il padre di Noemi, Elio Letizia, e cancellare l'imbarazzante ma decisivo ricordo di Gino.

E' la quarta versione che, nel corso del tempo, ci viene proposta. Ricordiamo le precedenti. 1. "Era l'autista di Bettino Craxi" (Ansa, 29 aprile, l'agenzia di stampa rimuoverà poi la pagina dall'archivio in rete). 2. "Elio è un mio amico da tanti anni, con lui ho discusso delle candidature europee" (Porta a porta, 5 maggio). 3. "Conosco i genitori, punto e basta" (France 2, 6 maggio).
 
Anche la quarta ricostruzione di quell'amicizia viene cucinata in malo modo.

Berlusconi scarica su Elio Letizia l'onere del racconto. Elio Letizia liquida per intero lo sfondo politico dell'amicizia. Non azzarda a dire che è stato un militante socialista né conferma di aver discusso con il presidente del consiglio chi dovesse essere eletto a Strasburgo. Dice Letizia che la "vera conoscenza [con Silvio] ci fu nel 2001". Elio sa - racconta - che a Berlusconi piacciono "libri e cartoline antiche" e nelle sale dell'hotel Vesuvio di Napoli (maggio 2001) gli propone di regalargliene qualche esemplare. Nasce così un legame che diventa un'affettuosa amicizia quando Anna e Elio Letizia sono colpiti dalla sventura di perdere il figlio Yuri in un incidente stradale. Berlusconi si fa vivo con una "lettera accorata e toccante". Letizia decide di presentare la sua famiglia al presidente del consiglio nel "dicembre del 2001": "A metà dicembre io e mia moglie andammo a Roma per acquisti e, passando per il centro storico, pensai che fosse la volta buona per presentare a Berlusconi mia moglie e mia figlia" (il Mattino, 25 maggio). Dunque: il capo del governo "per la prima volta vide Anna e Noemi" nel dicembre del 2001 non in pubblico ma nella residenza privata del premier, a palazzo Grazioli, o a Palazzo Chigi. Noemi ha soltanto dieci anni.

Il ricordo di Elio Letizia non coincide con quello di Silvio Berlusconi. Nello stesso giorno, la memoria del capo del governo disegna un'altra scena decisamente differente da quella che ha in mente Elio Letizia. Quando Berlusconi ha incontrato per la prima volta Noemi? "La prima volta che ho visto questa ragazza è stato a una sfilata", risponde il premier (Corriere, 25 maggio). Quindi, in un luogo pubblico e non nei suoi appartamenti pubblici o privati. Non nel 2001, come dice Elio, ma più avanti nel tempo perché Noemi avrebbe avuto l'età adatta per "sfilare" (quattordici, quindici, sedici anni, 2005, 2006, 2007).

Le "bugie bianche" di Berlusconi (il Foglio, 25 maggio) non possono nascondere qualche sconcertante punto fermo. E' vero, il capo del governo "frequenta minorenni", come ha detto Veronica Lario e dimostrato Repubblica. Il presidente del consiglio non riesce con qualche attendibilità a dire come ha conosciuto i Letizia cosicché le parole di Gino Flaminio acquistano più credibilità e maggiore verosimiglianza.

Il quadro compromesso e degradato dell'accountability del capo del governo è confermato addirittura dal racconto di Noemi, mai smentito (e oggi è troppo tardi per farlo).

"[Berlusconi, "papi"] mi ha allevata (...) Lo adoro. Gli faccio compagnia. Lui mi chiama, mi dice che ha qualche momento libero e io lo raggiungo a Roma, a Milano. Resto ad ascoltarlo. Ed è questo che desidera da me. Poi, cantiamo assieme. (...) [Da grande vorrò fare] la showgirl. Mi interessa anche la politica. Sono pronta a cogliere qualunque opportunità. (...) Preferisco candidarmi alla Camera, al parlamento. Ci penserà papi Silvio" (Corriere del Mezzogiorno, 28 aprile).

Noemi conferma non solo l'abitudine di Berlusconi a frequentare minorenni, ma rafforza anche l'altra questione decisiva di questa storia: la pretesa di "far uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno nulla a che fare". Manovra che denota "l'impoverimento della qualità democratica di un Paese" (farefuturo). Come - per fare solo tre nomi - Angela Sozio (Grande Fratello), Chiara Sgarbossa (miss Veneto), Cristina Ravot (cantante ammiratissima da Berlusconi che la voleva imporre al festival di Sanremo prima che al parlamento di Strasburgo), Noemi ritiene di poter ottenere da Berlusconi l'opportunità di fare spettacolo o, in alternativa, di essere eletta in parlamento. Televisione o seggio in parlamento, uguali sono.

Le aspettative di Noemi, sollecitate dalle promesse di Berlusconi, sono in linea con le riflessioni critiche della signora Lario ("Ciarpame senza pudore"). E' documentata, allora, anche la seconda accusa che colpiva il capo del governo: per lui il corpo delle donne è "un gingillo" utile per "proiettare una (falsa) immagine di freschezza e rinnovamento" politico. S'invera lo "scarso rispetto per le istituzioni e per la sovranità popolare" del leader del Popolo della Libertà (Fondazione farefuturo).

Di fronte a due punti fermi (è vero, frequenta minorenni; è vero, candida nelle assemblee elettive i "bei corpi" che gli sono stati vicini), incalzato da domande a cui non può rispondere, Berlusconi si corregge di nuovo per tirarsi fuori da una catastrofe politica e comunicativa, domestica e internazionale. A Palazzo Chigi, dunque in un luogo che più ufficiale non si può, dice: "Non ho detto niente" (Ansa, 27 maggio). Pretende che gli si creda. Lo abbiamo sentito dire, spiegare, ricordare in pubblico, in voce e in video - e sempre mentire. Ora, con quattro parole ("Non ho detto niente"), intende resettare la storia così come egli stesso ce l'ha raccontata. Esige che il potere delle sue parole sia, per noi, indiscusso. Comanda di dimenticare ciò che ricordiamo e ci impone di credere vero ciò che egli dice vero (e noi sappiamo bugiardo). "Non ho detto niente" dovrebbe ripulire dalla lavagna le sue menzogne. Gli interessa ora andare al sodo per salvare la faccia e - forse - un destino politico che vede compromesso (compromessa appare la sua ascesa al Quirinale). Vuole rispondere soltanto a una domanda: ha avuto "rapporti piccanti" con Noemi? Se la pone da solo. Risponde: "Assolutamente no, ho giurato sulla testa dei miei figli e sono consapevole che se fossi uno spergiuro mi dovrei dimettere, un minuto dopo averlo detto" (Radiocor, 28 maggio). Non chiarisce che cosa siano i "rapporti piccanti", per il lessico e la fantasia erotica di uomo come lui.

Sesso e politica. Politica e sesso. "Privato" che si fa "pubblico". "Pubblico" che deve subire gli abusi di potere di un privato. Di questo impasto ci parlano le pratiche del Cavaliere che rinviano con immediatezza al suo dispositivo di governo, e quindi alla cosa pubblica e non soltanto ai comportamenti privati di un uomo. Lo "scandalo" dell'affare è in queste relazioni scorrette compensate da promesse di incarichi pubblici, è nelle accertate menzogne che screditano chi governa e il Paese che da lui è governato. Di questo dovrebbe rispondere il premier in pubblico se davvero avesse compreso che accountability è l'esatto contrario di arbitrio e menzogna.

Il capo del governo vive un clima psichico alterato. E' la terza accusa della moglie: "[Silvio] non sta bene" (Repubblica, 3 maggio). La patologica sexual addiction di Berlusconi si sfoga in festicciole viziose. Anima "spettacolini" affollati da venti, trenta, quaranta ragazze: "farfalline" coccolate mentre il "sultano" indossa un accappatoio di un bianco accecante; "tartarughine" travestite da Babbo Natale; "bamboline" che mimano, in villa e tra i fiori, il matrimonio con "papi" (Repubblica, 12 giugno). Frequente la presenza di "squillo", "escort", "ragazze immagine" abituate a incontrare sceicchi sulle rive del Golfo Persico.

La scena, accennata esplicitamente da Veronica Lario, ancora sfumata nei contorni con Noemi, si definisce con nitore quando prende la parola Patrizia D'Addario, "escort di lusso", un modo per dire prostituta di caro prezzo. Il palcoscenico, anche acusticamente esplorato, è illuminato a giorno, ora. Si possono vedere con chiarezza i gesti, sentire le parole, ascoltare le voci anche nelle stanze più intime e protette (il bagno, la camera da letto) del palazzo presidenziale. Il linguaggio si fa esplicito, crudo. Come, senza sottintesi, sono le condotte, le logiche, gli esiti.
Patrizia è ingaggiata (2000 euro) da un amico del Cavaliere che ingrassa i suoi affari e la sua influenza pagando "squillo" da accompagnare alle feste del presidente a Roma, in Sardegna.

Patrizia varca, per la prima volta, la soglia di Palazzo Grazioli il 15 ottobre 2008.

Patrizia, "una volta entrata in una stanza affrescata all'interno della residenza del presidente del Consiglio, si trova davanti venti ragazze e il suo primo pensiero è: 'Ma questo è un harem!'". (Sunday Times, 21 giugno).

Patrizia osserva, curiosa: "Mentre la gran parte di noi, come ci era stato detto, indossava abiti neri corti e trucco leggero, due ragazze che stavano sempre vicine, avevano pantaloni lunghi (...) Erano due escort lesbiche che lavorano sempre in coppia" (Repubblica, 25 giugno).

Patrizia, quella sera, non resta a Palazzo. Ci ritornerà, il 4 novembre. "Sono tornata dopo un paio di settimane, esattamente la sera dell'elezione di Barack Obama" (Corriere, 17 giugno).

Patrizia registra quel che sente. Fotografa - appena può - quel che vede. Lo fa sempre, con tutti, da sempre. Questa volta, la seconda volta da Berlusconi, Patrizia rimane a Palazzo per una notte di sesso con il capo del governo. Il Cavaliere - dopo cena, visione dei film che lo mostrano accanto ai potenti della Terra, le solite canzoni e la ola - chiede alla donna di aspettarlo nel "letto grande" (Repubblica, 20 giugno).

"Berlusconi mi ha telefonato la sera stessa, appena sono arrivata a Bari. E qualche giorno dopo Gianpaolo mi ha invitata a tornare. Ma io ho rifiutato (...) Gianpaolo ha voluto il mio curriculum perché mi disse che volevano candidarmi alle Europee (...) Quando sono cominciate le polemiche sulle veline, il segretario di Gianpaolo mi ha chiamata per dirmi che non era più possibile (...) [mi è stata allora] proposta la lista "La Puglia prima di tutto" [per il rinnovo del consiglio comunale]. Io ho accettato subito" (Corriere, 17 giugno).

I ricordi di Patrizia sono confermati dalle due "ragazze-immagine" (qualsiasi cosa significhi l'eufemismo) che sono con lei: Lucia Rossini (Repubblica, 21 giugno) e Barbara Montereale. Che dice: "Sapevano tutti a quella cena che lei [Patrizia] era una escort. Presumo anche il presidente". (Repubblica, 20 giugno). Le due ragazze ridono, scherzano, si fotografano allegre nella toilette del presidente del consiglio, come padrone del campo.

Le parole, le testimonianze incrociate, le immagini, i documenti fonici non possono più confondere quel che abbiamo sotto gli occhi. Quel che la signora Lario chiama "malattia", l'effetto distruttivo di un narcisismo sgomento dinanzi alla vecchiaia, un'autostima che esige sempre, a ogni occasione l'ammirazione riservata alla giovinezza, alla celebrità, al fascino rendono vulnerabile e gravemente indifeso il capo del governo e l'autorevolezza del suo ufficio. C'è un fondo di onnipotenza nei suoi comportamenti, come se ogni azione gli fosse consentita. E' circondato da prosseneti che lucrano vantaggi personali cercandogli in angoli d'Italia ragazze sempre nuove, sempre più giovani, sempre più rapaci e spregiudicate, spesso sostenute nella loro cinica ambizione dalle famiglie, da mammà e papà. Vogliono un successo dove che sia, in tivvù o nella politica. Il premier può concederglielo con una telefonata, se vuole. Gli danno pressione. Lo pretendono. E' il quadro che ha già proposto Veronica Lario. "Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. È stato tutto inutile" (Repubblica, 3 maggio).

La difesa di Berlusconi, di fronte a questa rappresentazione di se stesso e della fenomenologia del suo potere, è violenta fino alla spietatezza contro i testimoni della sua vita; è prepotente contro l'informazione che non sceglie la taciturnità imposta al servizio pubblico radiotelevisivo e accettata - con l'eccezione del Tg3 - di buon grado. E tuttavia, quando affronta le circostanze che sono emerse, quella manovra è maldestra.

Nicolò Ghedini, avvocato del Cavaliere, nell'ansia di sfuggire al reato ora che una prostituta parla di tariffe, trattative e pagamenti, ammicca complice agli italiani che si sentono "puttanieri" irredimibili, anche se spesso soltanto fantasiosi, nella convinzione che quel peccato possa essere presto perdonato urbi et orbi. Il lemma che adopera (gli appare il più onesto e concreto) peggiora il clima e deteriora ancor più l'immagine del premier. "Ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza [Patrizia], e vere non sono, il premier sarebbe, secondo la ricostruzione, l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile". (Affari Italiani, 17 giugno). Come se l'affare fosse legale e non politico. L'errore dell'avvocato convince Berlusconi a muovere in prima persona. Lo fa secondo le sue prassi consolidate. Dai fogli patinati di un settimanale di famiglia, nega quel che è accaduto. "Non c'è nulla nella mia vita privata di cui io mi debba scusare (...) Non ho [di Patrizia] alcun ricordo. Ne ignoravo il nome e non ne avevo in mente il viso. Non mi ero reso conto [che fosse una prostituta]" (Chi, 24 giugno). Tace che ancora il 27 gennaio, il suo amico di Bari chiama Patrizia per dirle (la telefonata è registrata): "[Il presidente] ti vuole vedere la prossima settimana a Roma" (Corriere, 21 giugno). Vedere lei, proprio lei: Patrizia, con quella faccia che ora non ricorda, con quel nome che ha dimenticato, forse ripensando soltanto al suo corpo.

Questa volta - direttamente e non attraverso i suoi giornali e attaché (lo ha fatto per Gino Flaminio) - scatena l'ordinaria menzogna distruttiva contro Patrizia D'Addario: "[Le è stato] dato un mandato molto preciso e benissimo retribuito" (Chi, 24 giugno). Dovrebbe offrire un riscontro anche labile della sua accusa anche perché ha avuto il tempo e ha le risorse per raccoglierlo. Non lo fa. Dovrebbe comprendere che la denunzia, anche se inventata, conferma la sua vulnerabilità. La mostra, la dimostra. Se c'è un ricattatore dietro le parole di Patrizia D'Addario, la responsabilità è soltanto di chi dissennatamente le ha aperto le porte di casa. Dice: "Può capitare di sbagliare ospiti" (Ansa, 25 giugno), ma il punto è proprio questo: quanti sono gli "ospiti sbagliati" che si sono seduti alla sua tavola? E che intenzioni hanno?

Il fatto è che il Cavaliere si tiene lontano da fatti che, per la loro solidità, possono fulminarlo. Preferisce scavare nella differenza tra sé e gli altri, tutti gli altri che soltanto ricordano quel che ha detto e giurato o le menzogne che ha sottoscritto con la sua faccia, i suoi discorsi. Non pare curarsene. Dice: "Io sono fatto così. E gli italiani così mi vogliono. Ho il 61 per cento. Io sono buono, generoso, leale, (attenzione) sincero, mantengo le promesse, sono un mattatore, un intrattenitore" (Ansa, 25 giugno).

Soltanto un malvagio può non amarlo. In fondo, la politica è questo per il capo del governo: la legittimità del suo potere lo autorizza - crede - a creare un'ostilità interna, un conflitto permanente tra chi è con lui e chi, perché lontano da lui o critico, deve essere considerato "estraneo", "nemico", "eversore". E' "odio e invidia" (Ansa, 24 giugno) chiedergli conto delle sue condotte pubbliche, del suo stato di salute, di una vita spericolata, delle contraddizioni radicali del suo agire: ha prostitute nel suo letto, ma legifera per punire chi frequenta le prostitute; invoca per sé la privacy ma vuole scrivere le norme della nostra privacy, dalla procreazione al "fine vita".

E' un "progetto eversivo" contro il suo governo e contro il Paese chiedergli di essere trasparente. "Le calunnie contro di me, le veline, le minorenni, Mills (è un testimone che ha corrotto salvandosi da una condanna), i voli di Stato (che utilizza per trasferire amiche, musici, ballerine) , hanno costituito una campagna di scandalo molto negativa all'estero per il nostro paese e credo sia un comportamento colpevole da chi l'ha pensato e organizzato, [credo che sia] un progetto eversivo perché la finalità è quella di costringere a far decadere un presidente del consiglio eletto dagli italiani (...). Se questa non è eversione, ditemi voi cos'è". (Adnkronos, 13 giugno).

La sola soluzione che intravede alla crisi che lo affligge è la riduzione al silenzio o la rovina economica della stampa che non racconta come vere le sue fiabe. "Bisognerebbe non avere dei media che tutti i giorni cantano la canzone del catastrofismo e credo che anche voi [imprenditori] dovreste operare di più in questa direzione. Per esempio: non date pubblicità a chi si comporta così" (Ansa, 15 giugno).

Il rosario di incoerenze, menzogne, abusi di potere di Silvio Berlusconi sollecita a rinnovargli alcune domande che possono essere conclusive:

1. Quando, signor presidente, ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia? Quante volte ha avuto modo d'incontrarla e dove? Ha frequentato e frequenta altre minorenni?

2. Qual è la ragione che l'ha costretta a non dire la verità per due mesi fornendo quattro versioni diverse per la conoscenza di Noemi prima di fare due tardive ammissioni?

3. Non trova grave, per la democrazia italiana e per la sua leadership, che lei abbia ricompensato con candidature e promesse di responsabilità politiche le ragazze che la chiamano "papi"?

4. Lei si è intrattenuto con una prostituta la notte del 4 novembre 2008 e sono decine le "squillo" che, secondo le indagini della magistratura, sono state condotte nelle sue residenze. Sapeva che fossero prostitute? Se non lo sapeva, è in grado di assicurare che quegli incontri non l'abbiano reso vulnerabile, cioè ricattabile - come le registrazioni di Patrizia D'Addario e le foto di Barbara Montereale dimostrano?

5. E' capitato che "voli di Stato", senza la sua presenza a bordo, abbiano condotto nelle sue residenze le ospiti delle sue festicciole?

6. Può dirsi certo che le sue frequentazioni non abbiamo compromesso gli affari di Stato? Può rassicurare il Paese e i nostri alleati che nessuna donna, sua ospite, abbia oggi in mano armi di ricatto che ridimensionano la sua autonomia politica, interna e internazionale?

7. Le sue condotte sono in contraddizione con le sue politiche: lei oggi potrebbe ancora partecipare al Family Day o firmare una legge che punisce il cliente di una prostituta?

8. Lei ritiene di potersi ancora candidare alla presidenza della Repubblica? E, se lo esclude, ritiene che una persona che l'opinione comune considera inadatto al Quirinale, possa adempiere alla funzione di presidente del consiglio?

9. Lei ha parlato di un "progetto eversivo" che la minaccia. Può garantire di non aver usato né di voler usare intelligence e polizie contro testimoni, magistrati, giornalisti?

10. Alla luce di quanto è emerso in questi due mesi, quali sono, signor presidente, le sue condizioni di salute?

(26 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quell'incubo che tormenta il premier
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2009, 09:50:05 am
IL COMMENTO /

Berlusconi attacca i giornali stranieri che si preparano a pubblicare altre foto scattate a Villa Certosa

Quell'incubo che tormenta il premier

di GIUSEPPE D'AVANZO


ALLA vigilia del G8, con i Grandi della Terra attesi a Roma nelle prossime ore, Silvio Berlusconi riscrive nell'agenda dell'attenzione pubblica - non solo nazionale - i suoi incubi, la sua paura, l'ossessione per comportamenti che, da mesi, non può spiegare e giustificare se non mentendo. Il capo del governo mostra alla luce del sole, e ora anche impietosamente all'opinione pubblica internazionale, la sua vulnerabilità e l'abisso su cui pencola il suo destino politico.

Lo fa nel modo più ufficiale che si conosca. Con un comunicato di Palazzo Chigi. Poche righe che impartiscono ai media internazionali la stessa minacciosa lezione assegnata all'informazione nazionale. Lo si ricorderà: ai giornali italiani andava "chiusa la bocca". Costi quel che costi, anche la rovina economica preparata dall'invito agli imprenditori di non fornire più pubblicità, e quindi i necessari profitti, alle testate e ai gruppi editoriali che non rispettano la consegna del silenzio sugli scandali che vedono il premier mattatore unico e ambiguissimo.

Ora tocca a tutti gli altri media, quale che sia la loro nazionalità. Si preparano a pubblicare foto raccolte a Villa Certosa, avverte con indignazione Palazzo Chigi. Si preparano a nuovi racconti, altre cronache come se non dovesse essere questo il loro impegno verso il lettore. Con una tecnica che può essere convincente soltanto per un servizio pubblico televisivo sottomesso e servile come il nostro o per media di proprietà del capo del governo, la nota della presidenza del Consiglio parla di "menzogna", "fotomontaggi digitali", "manipolazioni", "morbosa campagna di stampa".

Consapevole delle tecniche di adulterazione abituali per i media che possiede o indirettamente controlla (il Tg1, su tutti), Berlusconi muove un attacco preventivo e intimidatorio nella presunzione che l'informazione internazionale ne rimanga intimidita e muta.

La mossa è politicamente catastrofica, per il capo del governo e per la reputazione del Paese che governa. Azzera con un solo gesto il tentativo di Giorgio Napolitano di superare il G8 (8/10 luglio) senza danni d'immagine al nostro Paese. Il calcolo di Berlusconi è clamorosamente miope, buono per un Paese che non conosce il conflitto d'interesse come il nostro, inefficace per un Occidente consapevole che una stampa libera è necessaria alla democrazia come un potere controllato da contrappesi. È facile attendersi che il comunicato di Palazzo Chigi più che congelare l'attenzione dei media internazionali, rafforzerà i loro sforzi per offrire alle opinioni pubbliche occidentali una rappresentazione più puntuale e documentata dell'uomo che governa l'Italia.

È questo che Berlusconi teme. È questo il suo angoscioso tormento - e d'altronde soltanto lui può essere consapevole di che cosa deve temere. Il capo del governo sa che non può rispondere a nessuna domanda che voglia verificare le sue narrazioni fantastiche. Si è illuso che i suoi dispositivi di dominio mediatico e politico del discorso pubblico fossero sufficienti per dissolvere nel nulla ogni legittimo interrogativo o addirittura la trama stessa della realtà.

Asini e corifei a parte, chiunque si è reso conto in questi mesi del paradigma berlusconiano, nel "caso veline" (le ragazze del presidente, "gingilli da esibire", conquistano senza alcun merito responsabilità pubbliche); nel "caso Noemi" (minorenni a Villa Certosa); nel "caso D'Addario" (prostitute a Palazzo Grazioli).

La tecnica è nota. Berlusconi nega con forza l'episodio che gli si contesta. Accusa chi non tace, o trucca i ricordi, di essere al soldo del suo "nemico" politico (anche Rupert Murdoch finisce nell'immaginoso calderone). Scatena l'intero sistema mediatico che controlla contro i malaccorti che hanno aperto la bocca. Inventa dal nulla testimoni e testimonianze che distruggono quei poveretti, con una accorta operazione di character assassination amplificata dai media della Casa o gregari per tendenza o passione.

Nel silenzio, chi ha avuto la decenza di raccontare quel che ha visto o ascoltato nelle residenze del governo, riceve nel suo appartamento la visita di stravaganti ladri o, una notte, un "pirata" prova a gettarlo fuori strada (accade alla D'Addario).

Questa scena, questi metodi possono funzionare in un Paese sempre più lobotomizzato nella sua scadente qualità democratica non nei sette Paesi i cui leader saranno presto ospiti in Italia. Berlusconi, consapevole forse che quanto finora emerso è soltanto una piccola parte delle sue condotte e abitudini, se ne renderà presto amaramente conto. Non era senza fondamento il vaticinio che il capo del governo avrebbe trascinato nel suo declino l'intero Paese. Il comunicato di Palazzo Chigi, che apre di fatto il G8, ne è la conferma. La prima.

(6 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le menzogne e i fatti
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2009, 09:17:33 am
IL COMMENTO

Le menzogne e i fatti

di GIUSEPPE D'AVANZO


ORA che "il mondo" ci ha lasciato di nuovo soli, con le nostre anomalie, ricordiamo dove ci siamo interrotti. Con la solita mossa da lupo, mentre ciascuno con responsabilità segnava una pausa "per il bene del Paese" (Repubblica, 8 luglio), il premier ha approfittato del G8 per afferrare qualche beneficio personale (abusivo, come se i "Grandi della Terra" fossero venuti all'Aquila per soddisfare il loro Ego con giudizi personali e non a rappresentare gli interessi nazionali).

Berlusconi - "sorriso, piagnisteo, ringhio" - si è illuso di acconciare alla meglio la sua infelice reputazione. Ha rilanciato il suo mantra ("Calunnie!") per esorcizzare i fatti nel caleidoscopio delle verità rovesciate che si è combinato. Ci ritorna per due giorni di seguito. "Sulla strada delle menzogne si sbatte contro il muro dei fatti", dice (la Stampa, 9 luglio). "Ci sono due tipi di realtà, quella vera della gente comune e l'altra, la realtà descritta dai giornali che è pura fantasia", ripete (Repubblica, 10 luglio)

Dunque, se non a ugole gregarie per vocazione (come Piero Ostellino, soi-disant liberale di via Solferino, parolaio indifferente ai fatti, che vede separazione dei poteri dove c'è - macroscopico - un "potere unico" che liquida il principio costituzionale d'eguaglianza), almeno al capo del governo è chiaro di che cosa si discute.

Parliamo di "fatti" e di "menzogne", quindi di una tecnica della politica contemporanea che trova in Berlusconi un artefice ineguagliato nel mondo evoluto: valgono ancora le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che domina? Ci si interroga su una strategia che riduce i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà. Ci si chiede se siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Ci si domanda quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell'epoca dell'immagine, della Finktionpolitik. Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l'opinione pubblica italiana o il "carnevale permanente" l'ha già uccisa? Di questo discutiamo.

Se gli interrogativi fanno massa intorno ai comportamenti privati del premier, accade perché egli stesso - guadagnandone grande consenso - lo ha voluto. Ha eliminato, fin dall'inizio della sua avventura politica, ogni confine tra il suo "privato" e il suo "pubblico". Ha preteso - una volta al governo - di legiferare con mano ferma quale debba essere il nostro "privato": dal momento in cui nasciamo fino all'ultimo respiro. Infine, ha negato in pubblico (Porta a Porta, 4 maggio) i comportamenti che la moglie giudica inaccettabili.

* * *

Bisogna definire, ora, quali siano - in questa storia - i fatti e quali le menzogne a uso degli spiriti cortigiani - nella lobby c'è chi declassa a notiziuccia anche le parole terribili del segretario generale della Cei: "Nessuno deve pensare che non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati, soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio" (Ansa, 6 luglio).

Finora Silvio Berlusconi ha mentito a ogni posta di questa storia. Lo si può documentare, al di là del chiasso sollevato da un'informazione servile, e dire di lui con quieta serenità: il capo del governo è Gran Bugiardo.
a. Ha negato di aver voluto candidare veline al parlamento europeo. È stato contraddetto finanche dalle veline deluse per l'esclusione e smentito dalle prostitute a cui aveva promesso un seggio a Strasburgo.
b. Ha negato di aver frequentato minorenni, ha giurato di aver incontrato Noemi Letizia soltanto "tre, quattro volte e sempre alla presenza dei genitori". Ha dovuto ammettere di aver avuto Noemi, minorenne e senza genitori, prima accanto ad una cena del governo, poi tra le ospiti del suo Capodanno 2009 a Villa Certosa.
c. Ha dichiarato di non aver mai conosciuto l'avvocato David Mills. È stato accertato che il corrotto (Mills) e il corruttore (Berlusconi) si sono parlati per lo meno in un'occasione e incontrati in un'altra, ad Arcore.
d. Ha dichiarato di aver usato i "voli di Stato" soltanto per "esigenze di servizio" anche quando erano a bordo musici e ballerine, ma ha dovuto proteggere con il segreto di Stato le liste dei passeggeri e i piani di volo degli aerei presidenziali.

* * *

La quinta posta di questa storia, ancora per esclusiva responsabilità di Berlusconi, parla di prostituzione e di abitudini sessuali che il capo del governo vuole punire con il carcere. Anche in questo caso, il presidente del Consiglio ha ingannato il Paese che governa.
Patrizia D'Addario racconta di aver fatto sesso a pagamento con il capo del governo, la notte del 4 novembre 2008 (la paga un prosseneta, abituale ospite delle feste del premier). La donna raccoglie, a Palazzo Grazioli, fotografie e registrazioni di quella notte. La sua testimonianza è indiscutibile. Berlusconi e il suo avvocato ne sono consapevoli e accennano a una manovra di aggiramento. Ghedini si preoccupa innanzi tutto di evitare guai giudiziari al Capo: "Ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza, e vere non sono, il premier sarebbe l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile". (Affaritaliani. it, 17 giugno)

Berlusconi, dice l'avvocato, "sarebbe soggetto inconsapevole". Magari incantato, una notte, dalla bellezza di quella donna che non sapeva si prostituisse. Un povero diavolo, insomma, un po' ingenuo e citrullo. Ne ha approfittato gentaglia rapace e ingrata. È la linea di difesa che il premier accentua. "Purtroppo abbiamo sbagliato l'ospite, e lui ha sbagliato l'ospite dell'ospite", dice dalla "capitale del dolore", L'Aquila. (Ansa, 25 giugno).

E poi perbacco, gli dà manforte Ghedini, davvero qualcuno può credere che un "sultano" debba pagarsi il sesso? "Il presidente è uomo ricco di denari e di simpatia e di voglia di vivere. Certamente non ha bisogno che qualcuno gli porti le donne. Pensare che Berlusconi abbia bisogno di pagare 2000 euro una ragazza, perché vada con lui, mi sembra un po' troppo. Penso che potrebbe averne grandi quantitativi, gratis" (Corriere, 17 giugno). Grandi quantitativi, gratis. Lo lascia intendere anche Berlusconi. Si fa chiedere da un salariato della Casa: "Ha mai pagato una donna perché restasse con lei?". Risponde: "Naturalmente no. Non ho mai capito che soddisfazione ci sia, se non c'è il piacere della conquista..." (Chi, 24 giugno). Il piacere della conquista.

Questa è la scena. Già vista, la strategia di banalizzazione. Nessun eccesso, nessuna disinvoltura. Soltanto qualche decisione infelice, un carnet disordinato, un'incuria nell'aprire la porta di casa a chi non lo merita. Nulla di cui Berlusconi si debba vergognare: "Io non ho nulla di cui dovermi scusare. Non c'è nulla nella mia vita privata di cui mi debba scusare" (Chi, 24 giugno).

Anche stavolta Silvio Berlusconi inganna chi lo ascolta perché - anche se non c'è alcun rilievo penale in questi comportamenti, come teme Ghedini, né la magistratura pare interessata al "caso" - i ricordi invincibili dei testimoni, le parole intercettate da un'inchiesta giudiziaria, raccontano come le residenze private di Berlusconi (Villa Certosa, Palazzo Grazioli) si affollino con regolarità di prostitute di caro prezzo - "grandi quantitativi", direbbe Ghedini - ingaggiate dagli amici e dalle amiche del presidente secondo un rituale preciso e sempre uguale. Convocazione a Roma; obbligo di vestire in nero; di truccarsi con leggerezza; di essere gentile con il "presidente"; di trascorrere la notte con lui in pratiche che la malavita, a Bari, definisce "torte" (ma questa è un'altra storia).

* * *

Ora che "il mondo" ci ha lasciato di nuovo soli con noi stessi, immaginiamo di poter attribuire ai "Grandi della Terra" quel che si può assegnare al nostro premier. Immaginiamo di poter dire, senza timore di essere contraddetti, che Barack Obama è un bugiardo e ha mentito al suo Paese; che Nicholas Sarkozy va in vacanza con minorenni; che Angela Merkel porta con sé in voli di Stato musici e ballerini che allietano le sue serate; che Gordon Brown, imputato in un processo, ha corrotto un testimone; che Taro Aso si riempie la casa di prostitute a frotte, pagate da un suo amico a cui poi promette affari. Pensate che, con questo peso, le opinioni pubbliche consentirebbero a chiunque di quei "Grandi" di restare al loro posto? Perché questo da noi non avviene dovrebbe interessarci: ci mostra la malattia organica di un'Italia moralmente "gobba". A meno di non voler pensare, con Giolitti, che convenga soltanto tagliarle addosso un abito deforme.


(11 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le "torte" a Palazzo Grazioli raccontate dalle escort
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2009, 04:42:41 pm
Patrizia D'Addario rifiutò di restare di notte con le altre ragazze

Intercettate molte telefonate "preparatorie" del premier a Tarantini

Le "torte" a Palazzo Grazioli raccontate dalle escort

Oltre a "Gianpi" nell'inchiesta di Bari spuntano altri due procacciatori di ospiti femminili


di GIUSEPPE D'AVANZO e GIULIANO FOSCHINI

 
"Torte?", chiede il pubblico ministero. Accade qualche tempo fa, a Bari. Il magistrato interroga un trafficante di droga e l'uomo gli racconta i costumi della sua banda. "Torte" è un'espressione che il magistrato non ha mai sentito. Il pubblico ministero torna allora a chiedere al criminale: "Che cosa sono le "torte"?". L'altro gli risponde: "Le "torte", dottore: le orge, i festini, com'è che dite voi?". Il ricordo di quella formula - "torte" - affiora oggi nella conversazione di una fonte vicina all'inchiesta di Bari perché sono le "torte" il punto critico che rende politicamente imbarazzanti le ricostruzioni delle serate di Silvio Berlusconi. Tra le 19 ragazze, ospiti a pagamento nelle residenze del capo del governo e interrogate dalla procura di Bari, c'è più di una testimone che ha ammesso di aver trascorso, "con altre ragazze", la notte con Silvio Berlusconi.

Di "festino" e "orgia"" ha già parlato Patrizia D'Addario. Patrizia è, per la prima volta, a Palazzo Grazioli la sera del 15 ottobre 2008. Rifiuta di trascorrere la notte nel letto regalato al capo del governo da Vladimir Putin, "il letto grande". Ci rimarrà dopo, la notte del 4 novembre e di queste ore si sa - più o meno - tutto. Ma perché, quella prima volta, Patrizia lasciò Palazzo Grazioli?

Andare via non è stato un colpo di testa, sostiene Patrizia. Le orge, dice Patrizia, non sono mai riuscita a farmele piacere e avevo intuito che mi sarei trovata in quella sgradevole situazione se fossi rimasta, dopo la cena, i balli, la ola, le barzellette, i canti e la musica di Apicella. C'erano molte escort quella sera nella residenza del capo del governo. Per lo meno, cinque. Due molto appariscenti. Lesbiche, "le uniche in pantaloni, lavorano sempre in coppia". La cena era ancora in corso, ricorda Patrizia, quando Berlusconi mi volle mostrare le camere da letto. Soprattutto quella con "il lettone". Non eravamo soli, ricorda Patrizia. Con Berlusconi c'erano altre due escort che cominciarono a coccolare il "sultano". Berlusconi, dice Patrizia, mi chiamava, mi invitava con la voce e i gesti a unirmi a loro. Patrizia decise di chiudersi in bagno e uscirne soltanto quando il gruppo fosse tornato nel salone per completare la cena. Fu allora, nella camera con il "letto grande", che Patrizia, pur ingaggiata per duemila euro, decise di non rimanere per la notte. Ritornata in albergo, al Valadier, raccontò subito alla sua amica, Barbara Montereale, l'episodio. Barbara, tra molte reticenze, ne ha un ricordo ancora oggi vivo: "Patrizia ha preferito andar via perché c'erano altre due escort" e d'altronde ella stessa vide scene simili a Villa Certosa, poi, nel gennaio del 2009 "quando decine di ragazze straniere si stringevano a Papi, litigando tra loro, quasi aggredendosi".

* * *

Il racconto di Patrizia ha trovato una conferma con la testimonianza di un'altra signora, Maria Teresa De Nicolò, 37 anni, barese. La sua partecipazione alla serata di Palazzo Grazioli ha ripercorso, come se si trattasse di un rito, la stessa esperienza di Patrizia. Identiche le modalità, identiche le regole da rispettare. Convocazione a Roma, improvvisa e un po' misteriosa. Abitino nero, trucco leggero. Prima di andare a letto, se richiesto dal padrone di casa, una disponibilità assoluta a mostrare ammirazione estatica per i successi di "Silvio"; pieno divertimento per barzellette e canti; gratitudine per i regalini "da negozietto". Stesso contatto, Gianpaolo Tarantini. Povero Gianpi, racconta un amico, certi giorni era davvero disperato perché, se è agevole organizzare un "festino" con qualche giorno d'anticipo, diventa arduo farlo in un solo pomeriggio. Nell'estate-autunno del 2008, la sexual addiction di Berlusconi è compulsiva, la sua satiriasi indiavolata. Telefona anche dieci volte, nello stesso giorno, a Tarantini (intercettato dalla magistratura di Bari). Gli chiede di mettere insieme "le ragazze" per la sera anche con un anticipo di poche ore. Gianpi fa quel può, ricordano gli amici, ma la fretta è, senza eccezione, cattiva consigliera e così non sempre ha il tempo di "invitare" a Roma da Milano le "cortigiane perfette", "bellissime, molto giovani, molto professionali e, soprattutto, consapevoli della necessaria riservatezza".

Pressato, Gianpi deve accontentarsi, dicono gli amici, "di quel che ha sotto mano". E' così che a Palazzo Grazioli entra anche chi non avrebbe mai messo piede, con più tempo a disposizione. Maria Teresa viene convocata (prima e unica volta) in questa emergenza. Parte per Roma e, come accade a Patrizia, Barbara e Lucia R. ("ospiti" il 4 di novembre), scopre nei saloni del de Russie che la meta di quella serata di lavoro sarà Palazzo Grazioli. Maria Teresa, agli inquirenti di Bari, ha ammesso di aver fatto sesso con il presidente, "rimborsata" da Gianpi, ma quel che qui conta è la "torta", il numero delle "ragazze" che - quella notte (un "lunedì o un martedì di settembre del 2008" fa la vaga Maria Teresa, probabilmente martedì 23 settembre) - si trattiene con il capo del governo nella sua residenza di Palazzo Grazioli. Maria Teresa tace il numero delle "ragazze" (anche se l'ha riferito al magistrato che l'ha interrogata). E' disposta però ad ammettere, con Repubblica, che "c'erano altre ragazze". Qualcuna di quelle "ragazze" seguirà, il giorno dopo, Berlusconi a Melezzole, vicino a Todi, quando (come ha svelato l'Espresso) il presidente del Consiglio rinuncia a una "missione" a New York, alla partecipazione alla "campagna del Millennio" contro la povertà e la fame nel mondo, all'intervento all'assemblea delle Nazioni Unite per starsene, con le sue "ragazze", nell'health center di Marc Mességué (sbarrato agli estranei).

* * *

La rilevanza del racconto più veritiero delle serate di Silvio Berlusconi è dunque in questo "punto critico" non ancora illuminato: le "torte" di Palazzo Grazioli. Finora la scena ci è stata raccontata così. Un giovanotto ambizioso (Tarantini) conduce prostitute di caro prezzo nelle residenze del capo del governo offrendole al "sultano" (Berlusconi) per ingrassare affari e potere d'influenza. Il "sultano" - ingenuo e ignaro - fa sesso con una di quelle ragazze (Patrizia D'Addario). Emerso l'episodio, il "sultano" muove in tre mosse. Nega l'episodio ("Non ricordo la faccia di questa Patrizia"). Scredita la testimone ("I miei nemici politici l'hanno pagata per accusarmi"). Banalizza quel che è accaduto ("Ho soltanto scelto ospiti sbagliati").

Diciamolo con le parole di Nicolò Ghedini: Berlusconi è soltanto un "soggetto inconsapevole. Se io vado a casa del presidente e, per fare bella figura, mi presento con un'accompagnatrice, è difficile che lui possa saperlo. E, se anche poi vi fossero rapporti [sessuali tra il presidente e quella donna], lui continuerebbe a non sapere e quindi [il fatto] non può avere nessuna implicazione né giuridica né morale" (Agi, 18 giugno).

Lasciamo stare la giustizia (Bari non contesta a Berlusconi alcun ipotesi di reato e a Tarantini soltanto il favoreggiamento alla prostituzione: le ospiti non erano indotte a prostituirsi, era il loro mestiere e nessuno lo ignorava). Lasciamo stare la morale (è diritto di ciascuno avere le abitudini sessuali che ritiene opportune). Quel che conta qui è che cosa è accaduto e che cosa significa.

Quel che accade, ragionevolmente, lo si può dire così. Al contrario di quanto sostengono Berlusconi e il suo avvocato, il capo del governo è consapevole che le "ragazze" di Tarantini siano delle cortigiane. A Gianpi le chiede espressamente. Berlusconi sa della "professione" della D'Addario, come dice Patrizia, come conferma Barbara Montereale e testimonia - per altre circostanze - Maria Teresa De Nicolò.

Emerge, dunque, dall'inchiesta di Bari un tableau ben definito. Intorno al presidente del Consiglio, c'è un'organizzazione molto discreta, anche se spericolata, che fornisce prostitute al "sultano" per le sue serate con "torta" finale; una rete di servizio che si muove secondo moduli, programmi e desideri sempre uguali. Tarantini è soltanto uno dei server che il presidente del consiglio attiva quando la sexual addiction l'afferra. Dall'inchiesta emerge che lo stesso "lavoro" di Gianpi è assolto per lo meno da altre due personaggi (un professionista di Bari, una signora di Roma).

Questo accade. Quel che significa (lo ha già scritto qui Stefano Rodotà) interpella l'etica pubblica. "Un uomo politico non può mentire. Deve accettare la pubblicità di ogni sua attività quando questa serve per valutare la coerenza tra i valori proclamati e comportamenti tenuti" (Repubblica, 10 luglio). Da questo punto di vista, la scena è chiara. Berlusconi ha una volta di più, in questa storia, ingannato il Paese: non ignora che le "ragazze" che affollano il "lettone di Putin" siano prostitute e prostitute chiede, per le sue "torte", ai prosseneti che siedono al suo tavolo (non esita a "smanacciarle" subito sotto gli occhi della sua scorta).

Il comportamento privato del capo del governo è in fragorosa contraddizione con i valori (Dio, famiglia) che proclama in pubblico e con le leggi che propone al Parlamento (severe punizioni per chi favorisce la prostituzione e per chi fa sesso con le prostitute). E' questo lo stato delle cose che Berlusconi dovrebbe finalmente affrontare in pubblico, quali che siano gli esiti per la sua reputazione e per il suo destino politico.

(12 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quelle norme da riscrivere
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2009, 11:42:52 am
IL COMMENTO

Quelle norme da riscrivere

di GIUSEPPE D'AVANZO


La Costituzione (art. 74) assegna al Capo dello Stato l'incarico di promulgare le leggi o di chiedere "con un messaggio motivato alle Camere" una nuova deliberazione, quando intravede un vizio formale (sgorbi nel procedimento legislativo) o sostanziale (il contrasto della legge con i principi costituzionali). Ora appare abbastanza chiaro dal breve comunicato diffuso dal Quirinale e poi dalla lunga lettera inviata al presidente del Consiglio e ai ministri dell'Interno e della Giustizia che il capo dello Stato ritiene la nuova legge sulla sicurezza "incoerente". Napolitano è "perplesso" e addirittura "preoccupato". Troppe norme, in quel testo, e troppo eterogenee, spesso "prive dei necessari requisiti di organicità e sistematicità", così contraddittorie "con i principi generali dell'ordinamento e del sistema penale vigente" da sollevare "dubbi di irragionevolezza e di insostenibilità".

È una diagnosi critica e assai severa. Avrebbe giustificato un rinvio alle Camere del testo, ma - al contrario - la legge è stata promulgata con un invito al governo a fare meglio e a fare diritto ciò che è oggi storto e, domani, potrebbe diventare stortissimo. Napolitano sceglie la via più difficile, dunque. Prima promulga, poi scrive, consiglia, raccomanda, avverte. E' una strada che, prima di lui, non ha imboccato mai nessuno. E d'altronde mai nessuno, prima di Napolitano, ha dovuto sorvegliare una vita istituzionale divisa tra forza (straordinaria) della maggioranza e la debolezza (straordinaria) delle opposizioni, mutilata di ogni confronto parlamentare in una tableau dove la fragilità dei fondamenti condivisi è evidente. Il percorso che il Capo dello Stato si è scelto è il più tortuoso. Per necessità.

A occhio nudo, affiorano nelle mosse del Quirinale alcune innovazioni che possono apparire irrituali. Proviamo a enumerarle.
Il Capo dello Stato non partecipa alla funzione legislativa. Il rifiuto di promulgare una legge non è una bocciatura definitiva né un ostacolo definitivo. E' soltanto un rinvio (se le Camere l'approvano di nuovo, la legge deve essere promulgata). Al Capo dello Stato è riservato quindi soltanto il potere di un "richiamo solenne al Parlamento", un invito a riflettere, a riesaminare ancora quali sono gli effetti della nuova legge sul funzionamento delle istituzioni o sugli equilibri generali del sistema. Napolitano scorge nella legge i germi maligni di una "disomogeneità e una estemporaneità di numerose sue previsioni che privano il provvedimento di quelle caratteristiche di sistematicità e organicità che avrebbero dovuto caratterizzarlo". Dinanzi a questo quadro (ecco una prima irritualità) perché rinunciare a sollecitare il parlamento a un riesame più meditato? Quel "richiamo solenne", che la Costituzione assicura al Quirinale prima, giunge in questo caso dopo la promulgazione di una legge che, anche per il Capo dello Stato, mostra elementi di "rilevante criticità", spesso incoerenti "con i principi dell'ordinamento". Un testo che incuba già alla nascita "equivoci interpretativi e problemi applicativi". E - per dirne una - con l'attribuzione della gestione del reato di immigrazione clandestina al giudice di pace "disegna un "sottosistema" sanzionatorio non coerente con i principi generali dell'ordinamento e meno garantista di quello previsto per delitti di trattenimento abusivo sottoposti alla cognizione del tribunale".

Sono vizi seri, sono motivi gravi e fondati, sono ragioni che, nello spirito della lettera costituzionale, avrebbero giustificato un rinvio al parlamento, un ripensamento, non una lettera al governo che molti contesteranno. C'è qui una seconda irritualità. Perché scrivere al governo e soltanto per conoscenza al parlamento? Il presidente non può interferire con la funzione di indirizzo politico cui è, e deve rimanere, estraneo. La sua è una funzione di controllo che esercita sul governo, per la necessità e l'urgenza dei decreti legge, e sul parlamento per le leggi. Perché escludere o informare soltanto per cortesia istituzionale i presidenti di Camera e Senato, che molto hanno corretto il decreto partorito dall'esecutivo?
Si può cogliere, soprattutto, una terza irritualità nella mossa di Napolitano. Non esamina, nella lunga lettera, nessuno dei profili di illegittimità costituzionale sollevati da più parti, durante il lungo lavoro di gestazione della legge, e infine da un appello di ventidue illustri giuristi, tra i quali ex-presidenti e membri della Corte Costituzionale come Gustavo Zagreblesky e Guido Neppi Modona. Forse, sarebbe stato necessario. "L'ingresso o la presenza illegale del singolo straniero - si leggeva nell'appello - non rappresentano di per sé fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma sono l'espressione di una condizione individuale, la condizione di migrante: l'incriminazione assume, pertanto, un connotato discriminatorio contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali". Verso questo aspetto sostanziale, di "merito costituzionale" (il contrasto della nuova legge con la Carta), il Capo dello Stato non ritiene di dover volgere lo sguardo o rassicurare circa la coerenza tra i principi e le nuove norme.

Esplicitamente la legge non piace a Napolitano e il suo giudizio critico peserà, probabilmente, quando la Consulta ne vaglierà la costituzionalità. Se il Capo dello Stato le ha assicurato, in modo molto problematico, il suo sigillo lo si deve - è scritto nella nota del Quirinale - al fatto che il provvedimento contiene misure contro la criminalità organizzata che sono state approvate da un'ampia maggioranza e che non potevano essere sospese. Anche questo argomento non è solidissimo. Quelle norme contro il crimine organizzato sono state, a vista d'occhio, soltanto il paravento che ha consentito al governo e alla maggioranza di non far apparire la legge sulla sicurezza come un programma di repressione penale contro l'immigrazione. Aggravare le condizioni carcerarie del 41bis, quindi di chi è già in carcere, non pare un passo definitivo per sconfiggere le mafie né d'altronde la lotta al crimine avrebbe registrato un arretramento con il breve rinvio necessario per rendere la legge più equilibrata, costituzionale, meno distruttiva del sistema penale.

Ora, dopo la lettera di Napolitano, il governo promette di correggere le storture. Vedremo. La Lega davvero rinuncerà al risultato che ha conquistato? Il governo vorrà buttar via i successi di immagine (altri sono i fatti) che la legge contro i migranti gli regala?

(16 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'autunno del patriarca
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2009, 11:19:54 pm
IL COMMENTO

L'autunno del patriarca

di GIUSEPPE D'AVANZO


I documenti sonori resi pubblici dall'Espresso dicono che Patrizia D'Addario, prostituta, ha detto la verità e Silvio Berlusconi, capo del governo, ha mentito. È giunto allora il momento di tirare qualche (temporanea) conclusione sull'affare che, nel "carnevale permanente" dell'Italia di oggi, rischia di uscirne sfigurato e invece ha un solo, ostinatissimo punto fermo: Silvio Berlusconi è costretto o a tacere o a mentire perché non è nelle condizioni di rispondere ad alcuna domanda. Non è che il Cavaliere non abbia provato a dare qualche risposta. Ci ha provato ripetutamente, confusamente, animatamente, affannosamente e sempre in condizioni protette (giornali di sua proprietà, il servile servizio pubblico della Rai), mai riuscendo nell'impresa di non contraddirsi. Di non ingannare. Di non smentire se stesso. Di non dover ammettere a collo torto quel che aveva già pubblicamente negato. Oggi, nel mondo rovesciato che lo protegge, frulla qualche argomento buffo: in difficoltà dovrebbe essere chi chiede la verità e non chi, impossibilitato a raccontarla ai pensanti, vive sotto tutela, in fuga da se stesso e dalla sua vita, nascosto anche al suo amatissimo pubblico al quale sempre chiede che lo applauda e gli voglia bene. È il mondo della verità rovesciata. Sono i prodigi di un'Italia con malattie organiche, impavidamente adulatoria, pronta a proclamare presto Berlusconi anche "correttore di terremoti, delle eclissi, degli anni bisestili e degli altri errori di Dio".

La scena diventa da farsa se soltanto si ricorda che, nel corso del tempo, il lavoro giornalistico (non solo di questo giornale e di questo gruppo editoriale) ha sempre meglio definito il "sistema di scambio sesso-danaro-potere" inaugurato da Berlusconi (Dominijanni, Manifesto, 14 luglio). Si dice: non ci sono più spine che pungono il Cavaliere, magari un po' ammaccato, Berlusconi l'ha fatta franca anche questa volta, ed è tutto un vivamaria. Come se si potessero dimenticare le "storie" note. È vero che "la memoria politica ha delle sincopi" (Franco Cordero), ma in questo caso i ricordi non sono ancora deperiti. Conviene riproporli in bell'ordine: Berlusconi premia con candidature al Parlamento le giovani donne che sono state gentili con lui a Palazzo o in Villa. Berlusconi frequenta minorenni, ne lusinga una (Noemi) sbirciando un portfolio procuratogli da Emilio Fede, le promette un futuro nello spettacolo o, in alternativa, a Montecitorio. Berlusconi fa sesso con prostitute che affollano le sue feste, qualcuna (come Patrizia d'Addario) diventa candidata. La politica può assuefarsi a questo varietà che disonora le istituzioni e le rende vulnerabilissime come osservano anche le teste meno ammobiliate che, mentre gridano "che schifo!", non si accorgono di aver detto che "il governo è ricattato da succhiatrici di capezzoli"? Può essere considerata ordinaria, nel mondo evoluto, una così smaccata debolezza di un premier all'estorsione, al ricatto? È un aspetto rilevante della storia perché quel che non mancano in quest'affare sono le testimoni, e quindi gli attori di una possibile coercizione delle volontà del capo del governo. Sono decine e decine le amanti senza amore, ricompensate bene o mediocremente, che si sono succedute nel serraglio del capo del governo. Festa dopo festino. Orgia dopo orgia. Nel taccuino del pubblico ministero di Bari ci sono diciannove nomi di giovani donne che hanno partecipato alle feste di Palazzo Grazioli o di Villa Certosa. Il pubblico ministero deve dimostrare che un ruffiano ha favorito la prostituzione. Ne sono state sufficienti quattro, di quelle diciannove giovani donne, per chiudere il cerchio. Il loro racconto è stato univoco: sono state pagate dal ruffiano, amico di Berlusconi, per andare a Palazzo e, in qualche caso, per fare sesso con il "sultano" o infilarsi in formazioni - diciamo - più eclettiche e animate nel "letto grande", dono stravagante (o intenzionale) di Vladimir Putin. Il ruffiano le ha pagate per le loro prestazioni e quattro fonti di prova sono sufficienti per il processo, pensa il pubblico ministero. Che mette punto. Non vuole scandali. Vuole un processo.

Si sa come Berlusconi si scrolla di dosso la polvere: è vero, ho fatto sesso con Patrizia D'Addario, ma non sapevo che fosse una prostituta, ho invitato in casa un'ospite sbagliato, tutto qui. L'argomento del "sultano" è degno di Friedrich Durrenmatt: "Il caso è stato interpretato come intenzione, la sventatezza come proposito deliberato". In questa storia - è un domino, Veline, Noemi, D'Addario - affiora dunque una nuova tessera da vagliare: caso o intenzione, sventatezza o programma, la presenza di zambràccole nel "letto grande"? I documenti sonori dell'Espresso sono la risposta inoppugnabile all'interrogativo. Berlusconi sa che Patrizia è una prostituta (lo sa perché deve pagarla "con una busta"), lo sa per i giochi multipli che propone alla signora. È una realtà così caparbia che non lascia margini all'avvocato del presidente (quello dell'utilizzatore finale). Nicolò Ghedini deve negare alla radice che quella realtà ci sia; deve dire che è inventata nella pretesa - si potrebbe dire totalitaria - di eliminare in un colpo solo ragione, memoria e finanche l'udito.

A quasi tre mesi dal viaggio a Casoria per i diciotto anni di Noemi, un provvisorio rendiconto deve concludere che Silvio Berlusconi ha in questi mesi attraversato, senza pudicizia, tutta intera la fenomenologia della menzogna. Nella sua classificazione, Vladimir Jankélévitch distingue la menzogna in base al rapporto che intrattiene con la verità. E dunque c'è la dissimulazione, quando ci si limita a nascondere la verità (Berlusconi ha detto: "Non ho mai voluto candidare veline, non frequento minorenni"). L'alterazione, quando si modifica la natura del vero (Berlusconi ha detto: "Non sapevo che Patrizia fosse una prostituta"). La deformazione, quando se ne ingrandisce o se ne rimpicciolisce il formato (Berlusconi ha detto: "Ho visto tre, quattro volte Noemi e sempre con i genitori"). L'antegoria, quando si dice l'assoluto contrario (Berlusconi ha detto: "Non ho mai pagato una prostituta"). La fabulazione, quando invece di mascherare la verità, la si inventa di sana pianta (Berlusconi ha detto: "C'è un progetto eversivo contro di me").

Verità e menzogna. Etica pubblica. Fiducia tra eletto ed elettori. Tra i pifferi e le grancasse di un'Italia ingaglioffita o pavida, di questo ci parla uno scandalo, da cui il capo del governo non riesce a venir fuori. Non c'è bisogno di ripetere quanto hanno scritto qui Carlo Galli (L'etica della democrazia, 22 giugno), Stefano Rodotà (L'etica pubblica perduta, 10 luglio; Il dovere della chiarezza, 13 luglio), Edmondo Berselli (Verità finte e bugie vere, 15 luglio). Dovrebbe essere ormai chiaro che "chi mente - non importa su che cosa - è un pericolo per la libertà e la democrazia" e diventano "parole al vento" gli "assennati appelli alla concordia e al dialogo senza il parallelo, anzi preliminare, appello alla chiarezza della verità" (Gustavo Zagrebelsky, Quando il potere teme la verità, 17 luglio). A meno di non voler pensare, come il patriarca di Marquez: "Non importa che una cosa non sia vera, che cazzo, lo diventerà col tempo".

Quel tempo non arriverà fino a quando rifiuteremo di credere vero ciò che sappiamo falso, fino a quando continueremo a chiedere al patriarca di turno di rendere disponibile la verità in un dibattito pubblico. Finanche Berlusconi, all'alba della sua avventura politica, era d'accordo: "La gente deve fidarsi solo di chi dice la verità" (2 marzo 1994).

E dunque, presidente, adesso che è al suo autunno, come ci si può fidare di lei?

(21 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Negare è la prima regola dei corifei azzurri.
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2009, 11:03:30 am
Negare è la prima regola dei corifei azzurri.

Salvo smentirsi o essere smentiti da altri

La seconda regola è banalizzare. E poi c'è la campagna di discredito contro la D'Addario

Il Cavaliere, Ghedini e Tarantini al varietà delle contraddizioni

di GIUSEPPE D'AVANZO


Lo ha negato ostinatamente, ha evocato trame oscure e complotti assassini, ma Silvio Berlusconi sapeva che Patrizia fosse una prostituta perché i patti prevedevano che dovesse pagarla. Il "regalo" del Cavaliere aveva promesso Gianpaolo Tarantini alla signora.

La voce di Silvio Berlusconi, le parole di Patrizia D'Addario, ascoltate ora nelle registrazioni messe a disposizione dall'Espresso, rendono onirici i discorsi, le parole e i gesti distribuiti nel corso del tempo dal capo del governo, dal suo avvocato Niccolò Ghedini, dai corifei azzurri, dai commessi obbedienti dell'informazione. Stiamo soltanto al presidente del Consiglio e al suo consigliere legale. Il fatto è stranoto a chi non guarda soltanto i telegiornali controllati dal "sultano" anche se pagati dal contribuente. Patrizia D'Addario racconta di aver fatto sesso a pagamento con il capo del governo, la notte del 4 novembre 2008 (la paga un ruffiano, Gianpaolo Tarantini, benvenuto e atteso ospite delle feste del premier).

La donna raccoglie, a Palazzo Grazioli, fotografie e registrazioni di quella notte. La sua testimonianza è fin dalle prime battute di una solidità che imporrebbe cautela, economia verbale. Ghedini muove per primo. Il suo passo, come sempre gli capita, pretende di eliminare l'evento, come se il fatto concreto (una prostituta a Palazzo Grazioli) potesse essere cancellato: è uno sgorbio sulla lavagna. "Non credo che la D'Addario sia mai andata a casa del premier", dice Ghedini (Ansa, 17 giugno). C'è un metodo nella tecnica dell'avvocato e del suo Capo: non esiste alcun criterio di verità praticabile, soltanto opinioni e "credenze" che durano un giorno. E' una credenza o un'opinione che la D'Addario sia stata a Palazzo. Le informazioni che gli giungono da Bari (occhio, le registrazioni sono state consegnate al pubblico ministero e sono inesorabili) devono consigliargli una maggiore prudenza.

Il secondo passo tende a minimizzare gli esiti giudiziari. "Ancorché fossero vere le indicazioni di questa ragazza, e vere non sono, il premier sarebbe l'utilizzatore finale e quindi mai penalmente punibile". (Affaritaliani.it, 17 giugno). Escluso ogni danno legale, Ghedini passa a banalizzare quel che è accaduto: se pure fosse vero quel è accaduto ma non è vero quel che è accaduto (Ghedini sa essere psichedelico), Berlusconi "sarebbe soggetto inconsapevole". Quella sera, ammesso che la D'Addario fosse lì ma non è vero che fosse lì, Berlusconi è stato soltanto affascinato dalla bellezza di quella donna che non sapeva si prostituisse. Gli dà manforte Gianpaolo Tarantini.

Intervistato dal quotidiano della Casa, il ruffiano nega di pagare le signore "per prestazioni intime" con il premier: "Il presidente non poteva immaginare che io rimborsassi a delle ragazze le spese che dovevano sostenere per venire a Roma. Se avessi saputo che Patrizia D'Addario faceva la escort non l'avrei mai frequentata e tantomeno l'avrei portata a cena col presidente. Si era presentata come figlia di un imprenditore del settore edile" (Il Giornale, 27 giugno).

Vediamo come vanno davvero le cose nei documenti sonori dell'Espresso. Tarantini chiama Patrizia: "Ti passo a prendere alle nove e un quarto, andiamo lì...". Tarantini sa che Patrizia è una prostituta: "Lui non ti prende come una escort, capito? Lui ti prende come un'amica mia, che ho portato...". Tarantini sa che c'è l'eventualità che Patrizia debba fare sesso con il "sultano": "... Poi se lui decide rimani lì...". Se viene "eletta" per una notte "favorita" del serraglio, sarà ospitata nel "letto grande". Patrizia vuole essere pagata, beninteso: "Mille per la serata". I patti sono chiari. Gianpaolo non paga l'intera posta, solo un gettone, il resto tocca al "sultano". Dice "Mille te li ho già dati... poi se rimani con lui... ti fa il regalo solo lui...". Dunque, "se fa il regalo" Berlusconi è consapevole del lavoro di Patrizia. Non è il povero diavolo raggirato da invitati ingrati. E' questa la linea di difesa che il premier propone in pubblico. "Purtroppo abbiamo sbagliato l'ospite, e lui ha sbagliato l'ospite dell'ospite" (Ansa, 25 giugno).

Se ci sono limiti allo stravagante, si deve concludere al contrario che Berlusconi sollecita e sa qual è l'impegno di Tarantini e il lavoro professionale delle amiche che gli porta in casa. Gianpaolo conosce finanche le abitudini sessuali del premier ("Non usa il preservativo"). Prepara le "ragazze". Le rassicura che Berlusconi "farà il regalo". Patrizia D'Addario protesterà, il giorno dopo, che nessuna busta le è stata data. Tarantini se ne meraviglia.

Le registrazioni sgonfiano quel che ci è stato raccontato finora. Ghedini ci aveva rassicurato che nessuno poteva essere così sciocco da credere che il "sultano" dovesse pagarsi il sesso. "Il presidente non ha bisogno che qualcuno gli porti le donne. Pensare che Berlusconi abbia bisogno di pagare 2000 euro una ragazza, perché vada con lui, mi sembra un po' troppo. Penso che potrebbe averne grandi quantitativi, gratis" (Corriere, 17 giugno). Falso. Come falso è quel che racconta Berlusconi a un salariato della Casa: "Ha mai pagato una donna perché restasse con lei?". Risponde: "Naturalmente no. Non ho mai capito che soddisfazione ci sia, se non c'è il piacere della conquista..." (Chi, 24 giugno).

Più che falso, è colpevolmente menzognero il Cavaliere quando la butta in politica, adombrando alle spalle della D'Addario un complotto e un partito. "C'è qualcuno che ha dato un mandato molto preciso e benissimo retribuito a questa signora D'Addario" (Chi, 24 giugno). Non c'è il mandato del ruffiano amico che ha ingaggiato Patrizia, e non solo, per animare le sue notti, ma addirittura il solito "progetto eversivo".

Questa è la scena, questo il metodo. Primo, negare. Lo si è visto anche lunedì alla diffusione dei primi nastri. "Materiale senza pregio, del tutto inverosimile e frutto di invenzione", dice Ghedini (Ansa, 20 luglio). Quel che sentivamo era "frutto di un'invenzione" meglio tapparsi le orecchie. Secondo, banalizzare. Nessun eccesso del Cavaliere, soltanto un invito infelice. Le parole di Tarantini liquidano anche questa: "... Poi ti fa il regalo solo lui...". Terzo, il discredito contro la donna: "E' stata mandata e retribuita benissimo". Il solo che l'ha "retribuita" è stato Tarantini, Berlusconi se n'è dimenticato anche se lo doveva fare come era nei patti.

L'audio delle conversazioni a Palazzo Grazioli documenta che il capo del governo ha mentito a gola piena dal primo giorno di questa storia (terzo capitolo di uno scandalo cominciato con le Veline e continuato con Noemi). Non si può far torto a Luigi Zanda che ieri nell'aula di Palazzo Madama ha detto: "Gli ultimi scampoli di conversazione resi noti ieri e oggi sono lì a dimostrare quanto ci sia bisogno che chi governa il nostro Paese dica la verità. Anche nel dire il vero e il falso, il presidente Berlusconi ha superato ogni limite consentito. Non esiste alcuna nazione dove la menzogna dei governanti non corrompa pericolosamente la società e le istituzioni".

(22 luglio 2009)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Un primo passo dopo le bugie
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2009, 11:09:32 am
IL COMMENTO

Un primo passo dopo le bugie


di GIUSEPPE D'AVANZO


Come sa che non è il diavolo, Repubblica non ha mai pensato che Silvio Berlusconi fosse o dovesse essere "un santo". Sappiamo chi abbiamo di fronte: un leader politico eletto legittimamente e liberamente dagli italiani che ha oggi la responsabilità di guidare il Paese. Come lo fa? È di questo che parliamo. Di questo che si intende e si deve parlare: il Cavaliere come muove il suo potere, come interpreta le sue responsabilità? Danneggia il Paese o lo migliora? Ne deteriora o ne irrobustisce la democrazia?

Il profilo privato è stato ed è il jolly decisivo del successo politico di Berlusconi, mostrato e ossessivamente ostentato, consapevolmente esibito. Il Cavaliere lo autocelebra in ogni occasione chiassosamente come parte costitutiva della sua immagine pubblica, come garanzia del successo delle politiche del governo e del futuro radioso che attende ciascuno di noi. Chi ha reso del tutto indefinibile, nell'Italia ipocrita di ieri e di oggi, il confine tra la privacy e gli obblighi di status legati all'esercizio di funzioni pubbliche è soltanto Berlusconi.

Come Repubblica ha più volte ricordato, questa storia è nata perché Berlusconi ha voluto farla nascere. Come ha osservato anche chi guarda senza inimicizia all'avventura del premier, "le armi affilate" che hanno messo Berlusconi nei guai "provengono tutte da Berlusconi in persona". E' Berlusconi che umilia la moglie fino a superare ogni limite di tollerabilità. E' Berlusconi che frequenta e poi decide di festeggiare una minorenne costringendo Veronica Lario al divorzio. È Berlusconi che decide di lavare i panni di famiglia a Porta a porta, France2, in interviste ai giornali producendosi in un'autodifesa che, vagliata, si è dimostrata presto contraddittoria, incoerente, largamente bugiarda. E' Berlusconi che, per nascondere l'abituale licenziosità dei suoi comportamenti privati, ha organizzato una guerra mediatica e una scena di cartapesta con l'obiettivo di autorappresentarsi come un buon padre di famiglia, un figlio devoto nel ricordo dei genitori, un padre affettuoso, un nonno amorevole e commosso, un buon italiano che tira diritto e, come tutti i buoni italiani, crede in Dio e nella famiglia. Non un "santo", ma qualcosa che gli può stare vicino.

Chi lo sa, forse davvero all'alba di questa storia sarebbe stato sufficiente e liberatorio presentarsi in pubblico, come gli era stato consigliato, e dire: "Non sarei sincero se non aggiungessi le mie scuse per eccessi e disinvolture che hanno contribuito a rendere incresciosa questa situazione. Non me la caverò con la celebre battuta del presidente americano Grover Cleveland: 'Gli americani sanno di non aver eletto un eunuco'. Sono davvero rammaricato" (Giuliano Ferrara, il Foglio, 22 giugno).

Oggi è troppo tardi per fare il verso a Cleveland perché sono fiorite, dalla "licenziosità" della vita privata del capo del governo e dal rosario di inganni costruiti per oscurarla, due questioni politiche. Altro che gossip come si ripete nella corvée d'ossequio e anche in una smarrita opposizione senza bussola. Possono essere radicalmente separate in una liberaldemocrazia la politica e la morale? Il comportamento di un leader può essere sistematicamente immorale a petto di azioni di governo che pretendono di essere altamente morali e decidere della privacy di tutti: della vita, della morte, dell'aborto, del dolore, della cura, dell'embrione, dei comportamenti sessuali, fino a prevedere il carcere per chi sceglie una prostituta?

Nessuno ha obbligato Berlusconi a diventare un uomo di Stato. Lo ha fatto liberamente. Liberamente ha scelto di rendere conto all'opinione pubblica - come chiunque eserciti funzioni pubbliche - della coerenza tra valori proclamati e comportamenti tenuti. Si è rifiutato ostinatamente di farlo per mesi e tuttavia il lavoro giornalistico ha dimostrato, nel servile silenzio del servizio pubblico radiotelevisivo, che valori proclamati e condotte private girano per Berlusconi come ruote divaricate. Per eclissare questa realtà, il Cavaliere ha sollecitato una seconda, esplicita questione politica: qual è il grado di menzogna che è legittimo adoperare in politica? Una volta smascherata quella menzogna, e proprio per proteggere la fiducia che si è legittimamente conquistata nell'elettorato, il premier non deve rendere disponibile la verità in un pubblico dibattito?

Ora Berlusconi ammette che non è un "santo". Ammette quel che non può più negare, in verità, e tuttavia è un primo, non trascurabile passo. Non va sottovalutato. Il capo del governo conviene che i cittadini hanno diritto a conoscerlo al di là dei mimetismi da incantatore che si organizza. Potrebbe bastare se avessimo, in questi mesi, discusso soltanto di moralità privata. Berlusconi ha trasformato questa storia in una questione di etica politica e ora dovrà essere all'altezza degli interrogativi che egli stesso, con le sue menzogne, ha proposto al Paese. Coraggio, presidente, la strada è quella giusta ma lei è soltanto all'inizio.

(23 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La campagna d'autunno del Cavaliere azzoppato
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2009, 03:51:54 pm
IL CASO

La campagna d'autunno del Cavaliere azzoppato

di GIUSEPPE D'AVANZO


Il Cavaliere, per levarsi dai guai degli scandali politici e sessuali in cui s'è cacciato da solo, ci ha provato - prima - con una comunicazione sovrabbondante, ipertrofica. Televisione, interviste, maquillage familiare con foto a colori del Figlio Marito Padre Nonno così amorevole, così italiano. Non ha funzionato. Le menzogne erano così assordanti che gli sono scoppiate in mano. Cilecca. Dunque, cambio di marcia e di strategia. Il flusso verbale, le patetiche e quotidiane battute sulle minorenni, le grottesche vanterie da "santo puttaniere" sono state archiviate e sostituite dal silenzio, autoimposto e imposto. Gioco comodo perché, come ha scritto il Financial Times ieri, "Berlusconi guida un regime costruito sul suo impero mediatico che include il controllo delle televisioni nella quasi totalità e di buona parte della stampa scritta. Anche la Rai, la tv di Stato, ha evitato di seguire in maniera adeguata il caso di Patrizia D'Addario sul suo canale principale". Ora anche la strategia del silenzio appare inadeguata. E' utile a nascondere all'opinione pubblica domestica quanto siano disonorevoli le sue condotte private e vulnerabile il suo agire pubblico.
Oscura la catastrofe della sua reputazione all'estero, che finisce col travolgere anche la credibilità del Paese tutto intero, ma non muta di un'acca uno stato delle cose che - Berlusconi sa - peggiorerà in autunno.

Ecco perché, prima di dileguarsi per una decina di giorni chi lo sa dove e chi lo sa perché, il premier sta organizzando truppe, generali e piani per la "campagna di autunno". Oggi la crisi di Berlusconi la si può ricostruire così: il capo del governo, nell'Occidente euroamericano, è un'anatra zoppa. L'establishment internazionale attende la sua uscita di scena, prima o poi. Nel cortile di casa non va meglio, nonostante l'opposizione se ne stia in un angolo a guardarsi l'ombelico. I comportamenti di Berlusconi hanno pregiudicato molto seriamente la sua influenza nel mondo cattolico e i buoni rapporti con le gerarchie ecclesiastiche. Anche il Papa ha mostrato di condividere le severe critiche dell'Avvenire e dei vescovi piovute sul capo del premier.

In autunno, questa scena può diventare ancora più avversa di quanto lo sia oggi. Cominciamo dall'economia reale. È vero, ci sono micro-segnali di ripresa, ma come spiegano osservatori e protagonisti, "si stanno accumulando gli effetti di una recessione lunga e i prossimi mesi saranno inevitabilmente critici" (Corrado Passera). Molte piccole imprese, a settembre, saranno scomparse e con loro decine di migliaia di posti di lavoro. Dal punto di vista personale, per Berlusconi, non va meglio. In settembre, le inchieste di Bari su prostituzione e droga che vedono imputato Gianpaolo Tarantini, il giovane amico del presidente, potrebbero trovare una prima discovery. Potrebbero essere rese pubbliche le conversazioni tra il Cavaliere e il suo ruffiano (anche dieci al giorno). La Consulta potrebbe dichiarare incostituzionale la legge che lo rende immune e consegnarlo di nuovo ai giudici di Milano per la corruzione del testimone David Mills. La nuova legge sulle intercettazioni potrebbe svelare agli italiani come il capo del governo svenda la sicurezza di tutti per proteggere se stesso e i traffici del ceto dirigente legando le mani alla magistratura e imbavagliando la stampa.

Il tableau giustifica le preoccupazioni del Cavaliere. Come scrive Slavoj Zizek, Berlusconi avrà anche "la maschera da pagliaccio" ma solo per nascondere "un potere spietatamente efficiente" (London Review of Books e Internazionale, 24 luglio). È l'efficienza di una macchina di potere che il premier vuole mettere a punto prima dell'autunno. A cominciare da quel segmento che, nella sua avventura politica, è sempre stato decisivo, vitale: la comunicazione. È tutto quel che gli serve, in fondo. Con una comunicazione manipolata e truccata, Berlusconi elimina la verità effettuale delle cose (la crisi economica, l'immobilismo del governo); incuba le paure del Paese ("immigrati", "complotto eversivo", "comunisti"); trasforma l'ordinario in "miracolo" e ogni difficoltà o stallo in "emergenza nazionale"; sommerge il Paese di parole inutili e immagini ludiche; tiene gli italiani in uno stato di minorità che impedisce loro di andare, con qualche spirito critico e consapevolezza, oltre le emozioni e l'immaginazione. È questa difesa mediatica, è questo "miracolismo mediatico" che il capo del governo, protetto dal suo conflitto di interessi, vuole consolidare, rendere aggressivo e dominante, più di quanto oggi non lo sia, in attesa di isolare e colpire i suoi avversari o i non conformi con leggi ah hoc, manovre di potere, e magari le mosse di burocrazie sottomesse (Murdoch è soltanto il primo della lista degli "ostili", selezionata nelle riunioni segrete di questi giorni).

Il Cavaliere militarizza subito il fronte della comunicazione, quindi. Via Mario Giordano, il povero direttore del Giornale assoggettato quanto basta, ma senza alcun peso specifico. Che arrivi Vittorio Feltri da Libero, un "peso massimo". Che Clemente Mimun, direttore del Tg5, si adegui alla bisogna e all'esempio di Augusto Minzolini, direttore del Tg1. E se non se la sente, che lasci la seggiola a Maurizio Belpietro, quello sì che sa il fatto suo quando si tratta di menar le mani che poi a Panorama si troverà un altro "picchiatore" per dirigerlo. È con questo "pacchetto di mischia" (Minzolini, Feltri, Belpietro, Mimun) che il capo del governo vuole "militarizzare" la comunicazione e deformare il racconto della realtà. Può farlo certo in casa sua in assenza di una legge sul conflitto di interessi, ma è legittimo che lo faccia anche in quella casa di tutti che è il servizio pubblico radiotelevisivo? Può farlo senza che gli organi di garanzia tecnici, politici e istituzionali muovano un ciglio e trovino la forza di profferire parola? Sappiamo che Paolo Garimberti è in Viale Mazzini come "presidente di garanzia", meno si comprende che cosa e chi stia garantendo. Non certo il telespettatore italiano che non ha saputo nulla e nulla saprà di quanto in Italia e all'estero accade al capo del governo. Sappiamo naturalmente che esiste una "Commissione parlamentare per l'indirizzo e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi", presieduta da Sergio Zavoli, meno si può dire del suo lavoro di vigilanza, ieri passiva dinanzi alla lottizzazione, oggi taciturna e impotente dinanzi alla "militarizzazione" della Rai.

Siamo così oltre il livello di guardia per un'ordinata democrazia che forse anche il presidente della Repubblica dovrebbe guardare in questi affari. A meno di non volersi rassegnare, già dall'autunno, a quella che appare a Mario Perniola la migliore definizione di comunicazione: a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing, "una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa niente" (Macbeth).

(1 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il mondo meraviglioso del Cavaliere tra potere, menzogne, ...
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2009, 11:07:12 am
Il mondo meraviglioso del Cavaliere tra potere, menzogne, pubblicità e tv

di GIUSEPPE D'AVANZO

Abbiamo lasciato Berlusconi che organizza le sue serate a Palazzo o in Villa. Telefona ai suoi ruffiani, anche dieci volte al giorno, come posseduto da un'ossessione. S'informa delle ospiti. Ce ne sono di nuove?

Ne prescrive la mise. Si accerta che siano informate delle sue abitudini sessuali. Promette candidature politiche, ingaggi in tivvù, regali e "buste", cinquemila o diecimila euro secondo il gradimento. Contatta minorenni che non conosce, dopo averne scrutato il viso e il corpo da portfolio consegnatigli da salariati di Mediaset. Lo abbiamo visto in difficoltà quando anche la figlia Barbara (ma non i liberali di casa nostra) gli ricorda che, per un politico, per chi governa, privato è pubblico. Lo incontriamo ora a Palazzo Chigi con una gran voglia di far dimenticare quel che l'opinione pubblica internazionale conosce e soltanto tre italiani su dieci sanno (sette su dieci sono informati dalla televisione che egli controlla, e quindi non sanno alcunché). La scena è bizzarra per noi italiani e diventerà sorprendente per chi italiano non è.

Da solo, seduto a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi si racconta e riempie di se stesso ogni quadro possibile: planetario, europeo, nazionale, cittadino. Il suo ego non ha confini. Il mondo è lui nell'autorappresentazione che ci offre, nient'altro che lui con il suo carico di vitalismo, ottimismo, carisma, umanità, saggezza, savoir-faire, una capacità di lavoro senza eguali. In quattordici mesi, elenca l'Egocrate, centocinquantotto incontri internazionali, ventidue vertici multilaterali, dieci vertici bilaterali. Sono stato in piedi, dice, anche quarantaquattro ore con il solo ausilio di ventuno caffè. Dovunque, successi. Soltanto successi. Anzi, un unico successo ininterrotto, senza pause, costante nel tempo, operoso in ogni angolo di mondo. Se le truppe di Mosca si sono fermate a quindici chilometri da Tbilisi scongiurando un conflitto Russia-Georgia, il merito è di Berlusconi che ha evitato l'inizio di una nuova Guerra Fredda. Se Barack Obama ha firmato a Mosca il trattato per la limitazione delle armi nucleari, il merito è di Berlusconi che ha favorito "l'avvicinamento" della nuova amministrazione americana al Cremlino. Se l'Alleanza atlantica è ancora vegeta, lo si deve al lavoro di persuasione di Berlusconi che ha convinto il leader turco Erdogan a dare il via libera alla candidatura di Rasmussen. Se "l'Europa non resterà mai più al freddo", il merito è di Berlusconi che ha convinto Erdogan e Putin a stringersi la mano dinanzi al progetto del gasdotto South Stream. Nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi non c'è ombra né crisi. Non c'è il disonore personale né le menzogne pubbliche. Non c'è recessione né sfiducia. Non c'è né sofferente né sofferenza. Non ci sono più immigrati clandestini, non c'è crimine nelle città, non c'è più nemmeno la mafia. Regna "la pace sociale" e "nessuno è rimasto indietro" e, per quanto riguarda se medesimo, "non c'è nulla di cui deve scusarsi". Anche l'Alitalia è diventata, nel vaniloquio, un miracolo d'efficienza. Grazie ai "colpi di genio" di Berlusconi, anche i terremotati delle tendopoli all'Aquila sono felici perché "molti sono partiti in crociera e altri sono ospitati in costiera e sono tutti contenti".

A incontrarlo al bar, un bauscia di questa incontinenza (bauscia è bava, saliva: e anche il bavante, il salivante, il moccioso) si chiederebbe al barista di azzittirlo o di allontanarlo, ma quel bauscia è il nostro capo del governo. Ora all'estero - anche ricordando come Berlusconi, intossicato dalla sexual addiction, trascorre in realtà le sue giornate - liquideranno il protagonismo dell'Egocrate come l'ultima arlecchinata di un clown italiano. Noi, che da Berlusconi siamo e saremo governati, non possiamo farlo o per lo meno non possiamo limitarci alla derisione o all'invettiva. Più che disseccare le sue vanterie (per quanto riguarda il bilancio del governo, lo ha già fatto qui Tito Boeri, il 3 agosto) o autoconsolarci con uno sberleffo per quel "priapismo dell'Io", è più utile aprire gli occhi su quanto sta accadendo e accadrà. Meglio descrivere e decifrare quel che ci aspetta. Berlusconi va ascoltato con pazienza, infatti. Da gran fiume delle sue parole affiorano sempre, prima o poi, le "verità dell'asino", come ci ha spiegato Franco Cordero. Gli asini hanno una cattiva fama. Li dicono ottusi, poco intelligenti. Bestie trascurabilissime.

Ma, in realtà, il passo storto dell'asino è soltanto uno: "Svela piani che menti più sottili occultano". Càpita anche a Berlusconi e, solo, a Palazzo Chigi, ne offre un saggio. Se si riflette, le parole dell'Egocrate svelano una tecnica di dominio, un dispositivo di potere. La rappresentazione di se stesso e del lavoro del suo governo è esplicitamente "pubblicitaria", coerente con un'antica confessione di Berlusconi: "Non riesco a non vendere. Non ci riesco! Non riesco a svestire i panni del direttore commerciale" (D'Anna, Moncalvo, Berlusconi in concert). Soltanto nel linguaggio della pubblicità - senza profondità, istantaneo e istantaneamente dimenticato - può non esistere la realtà.

Così è nelle parole del premier: la recessione è alle nostre spalle; i disoccupati sono protetti e con un decente reddito; le imprese fiduciose; anche i terremotati sono contenti; le città sono sicure, mentre Obama Merkel Putin Erdogan - il mondo - pendono dalle labbra e dalle mosse del nostro premier. Nei modi d'espressione della pubblicità cade ogni scarto tra ciò che è davvero e ciò che si immagina possa essere, tra la situazione di fatto e il progetto. Ogni problema, per Berlusconi, è superabile con uno sforzo d'immaginazione, con una scarica di ottimismo e se ancora qualche problema persiste lo si deve alle forze del Male che non amano il Capo e quindi il popolo. Ogni dissenso è dunque un atto persecutorio contro il Capo e un'aggressione al popolo, un complotto contro gli italiani e l'Italia.

Questa scena, grottesca ma non per questo innocua, può diventare convincente soltanto se c'è un'informazione che la propone all'opinione pubblica come plausibile. E' quel che esplicitamente, come da verità dell'asino, Berlusconi chiede ai media italiani. Non facciano più domande, come già fanno i bravi giornalisti sportivi. Non diano conto del "negativo" perché, soprattutto per il giornalismo del servizio pubblico radiotelevisivo, "non sarà più sopportato". E che si sappia che è "anti-italiano" raccontare le difficoltà di un Paese in recessione, le sofferenze di chi - impresa, famiglia, lavoratore - ne è travolto. E' "anti-italiano" ricordare come il presidente passa il suo tempo a Palazzo e in Villa e con chi.

Pubblicità più televisione, il medium più potente, sono le armi del dispositivo con cui sempre di più avremo a che fare. Dobbiamo cominciare a fare i conti con il mondo di immagini che ha preso il posto delle realtà, svuotandola, a valutare gli effetti di una tecnica che ci defrauda dell'esperienza e della capacità di prendere posizione, che liquida ogni capacità di distinguere tra realtà e apparenza, che ci obbliga a un'abitudine che ci infantilizza. A ben vedere, pubblicità più televisione è la sola politica che ha in mente Berlusconi tra una cena a Palazzo Grazioli e una notte "a pagamento" a Villa Certosa.

(8 agosto 2009)
da forumista.net


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'Egocrate (silvio) è ossessionato.
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2009, 11:34:36 am
EDITORIALE -

Berlusconi ritiene una "deviazione" chiedergli conto delle sue menzogne e delle sue condotte che disonorano le istituzioniL'ossessione permanente


di GIUSEPPE D'AVANZO


L'Egocrate è ossessionato.
Diventa isterico, quando lo si contraddice con qualche fatterello o addirittura con qualche domanda. Se non parli il suo linguaggio di parole elementari e vaghe senza alcun nesso con la realtà; se non alimenti le favole belle e stupefacenti del suo governo; se non chiudi gli occhi dinanzi ai suoi passi da arlecchino sulla scena internazionale; se non ti tappi la bocca quando lo vedi truccare i numeri, il niente della sua politica e addirittura le sue stesse parole, sei "un delinquente", come ha detto di Repubblica qualche giorno fa.

O la tua informazione è "giornalismo deviato": lo ha detto di Repubblica, ieri. Che al Prestigiatore d'affari e di governo appaia "deviato" questo nostro giornalismo non deve sorprendere e non ci sorprende. È "naturale", come la pioggia o il vento, che il monopolista della comunicazione giudichi il nostro lavoro collettivo una "deviazione". Lo è in effetti e l'Egocrate non sa darsene pace: ecco la sua ossessione, ecco la sua isteria. Deviazione - bisogna chiedersi, però - da quale traiettoria legittima? Devianza da quale "ordine" conforme alla "legge"? E qual è poi questa "legge" che Berlusconi ritiene violata da un giornalismo che si fa addirittura "delinquenza"? La questione merita qualche parola.

Il potere e il destino di Berlusconi non si giocano nella fattualità delle cose che il suo governo disporrà o ha in animo di realizzare, ma soltanto in un incantato racconto mediatico. Egli vuole poter dire, in un monologo senza interlocutori e interlocuzione e ogni volta che lo ritiene necessario per le sue sorti, che ha salvato il mondo dal Male e l'Italia da ogni male. Esige una narrazione delle sue gesta, capace di creare - attraverso le sinergie tra il "privato" che controlla e il "pubblico" che influenza - immagini, umori, riflessi mentali, abitudini, emozioni, paure, soddisfazioni, odi, entusiasmi, vuoti di memoria, ricordi artefatti.

Berlusconi affida il suo successo e il suo potere a questa "macchina fascinatoria" che si alimenta di mitologie, retorica, menzogna, passione, stupidità; che abolisce ogni pensiero critico, ogni intelligenza delle cose; che separa noi stessi dalle nostre stesse vite, dalla stessa consapevolezza che abbiamo delle cose che ci circondano. Mettere in dubbio questa egemonia mediatica che nasconde e, a volte, distrugge la trama stessa della realtà o interrompere, con una domanda, con qualche ricordo il racconto affascinato del mondo meraviglioso che sta creando per noi, lo rende isterico.

È una "deviazione" - per dire - ricordare che non si ha più notizia dei mutui prima casa e della Robin tax o rammentare che dei quattro "piani casa" annunciati, è rimasto soltanto uno, e soltanto sulla carta. È una "deviazione" ripetere che non è vero che "nessuno è stato lasciato indietro", come non è vero che i nostri "ammortizzatori sociali" siano i "migliori del mondo". È "criminale" chiedere conto a Berlusconi della realtà, delle sue menzogne pubbliche, delle sue condotte private che disonorano le istituzioni e la responsabilità che gli è stata affidata. Lo rende ossessivo che ci sia ancora da qualche parte in Italia la convinzione che la realtà esista, che il giornalismo debba spiegare "a che punto stanno le cose" al di là della comunicazione che egli può organizzare, pretendere, imporre protetto da un conflitto di interessi strabiliante nell'Occidente più evoluto.

Nessuna sorpresa, dunque, che l'Egocrate ritenga Repubblica un giornale di "delinquenti" indaffarati a costruire un'informazione "deviata". Più interessante è chiedersi se, ammesso che non l'abbia già fatto, il governo voglia muovere burocrazie sottomesse - queste sì, nel caso, "deviate" - contro questa "deviazione" - e deviazione deve apparirgli anche una testimonianza contro di lui di una prostituta che ha pagato o l'indagine di un pubblico ministero intorno ai suoi comportamenti. È un fatto che Berlusconi esige e ordina che la Rai si pieghi nei segmenti ancora non conformi, come il Tg3, a quel racconto incantato della realtà italiana. Ancora ieri, Berlusconi - mentendo a gola piena e manipolando le circostanze - ha tenuto a dire che "è inaccettabile che la televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, sia l'unica tv al mondo ad essere sempre contro il governo".

Sarà questa la prossima linea di frattura che attende un paese rassegnato, una maggioranza prigioniera dell'Egocrate, un'opposizione arrendevole. Lo si può dire anche in un altro modo: accetteremo di vivere nel mondo immaginario di Berlusconi o difenderemo il nostro diritto a sapere "a che punto siamo"? Se questa è la prossima sfida, i dirigenti i lavoratori della Rai, del servizio radiotelevisivo sapranno mettere da parte ambizione, rampantismo, congreghe e difendere la loro "missione" pubblica, la loro ragione di essere? Per quanto riguarda Repubblica, Berlusconi può mettersi l'anima in pace: faremo ancora un'informazione deviata dall'ordine fantastico, mitologico che vuole imporre al Paese.

(11 agosto 2009)

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'Avvocato e il Cavaliere
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 03:57:56 pm
IL COMMENTO

L'Avvocato e il Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


SI E' insediato ieri alla direzione del Giornale della famiglia Berlusconi, Vittorio Feltri, un tipo che - a quanto dice di se stesso - "non ha la stoffa del cortigiano". Lo dimostra subito.
Feltri scatena, fin dal primo editoriale, un violentissimo, sbalorditivo assalto a Silvio Berlusconi, suo editore e capo del governo. Per dimostrare che, nel lavoro che lo attende, non sarà né ugola obbediente né sgherro libellista, il neo-direttore sceglie un astuto espediente. Le canta a nuora perché suocera intenda. O, fuor di metafora, ad Agnelli (morto) perché Berlusconi (vivo) capisca e si prepari.

Feltri si dice stupefatto per "quanto sta avvenendo sul fronte fiscale". Trasecola per quel che si dice abbia combinato in vita Gianni Agnelli che "avrebbe esportato o costituito capitali all'estero sui quali non sarebbero state pagate le tasse". Decide di liberarsi una buona volta di quell'inutile fardello che è il garantismo, favola buona soltanto per il Capo e gli amici del Capo, e picchia duro, durissimo.

Questo "furfante" di un Agnelli, scrive Feltri, "ha sottratto soldi al fisco", e quindi "ha procurato un danno allo Stato", "ai cittadini che le tasse le pagano"; ha saccheggiato "per montagne di quattrini neri" le casse di società quotate in Borsa, "derubando gli azionisti". E allora, si chiede, è più grave "rubare al popolo o toccare il sedere a una ragazza cui va a genio di farselo toccare"? Conclude quel diavolo di un Feltri: "Ne riparleremo".

E' l'impegno che Feltri assume dinanzi ai suoi lettori e la minaccia che il neo-direttore del Giornale riserva, nel primo giorno, al suo povero editore. Feltri non è ingenuo e non è uno sprovveduto. E' un professionista tostissimo e soprattutto ha memoria lunga. E statene certi - questo annuncia il suo editoriale - parlerà presto di quel "furfante" del suo editore. Gli getterà in faccia, senza sconti, le 64 società off-shore "All Iberian" che Berlusconi si è creato all'estero, governandole direttamente e con mano ferma.

Gli ricorderà, e lo ricorderà ai suoi lettori, come lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" siano transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri, sottratti al fisco con danno di chi paga le tasse; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come "i politici costano molto... ed è in discussione la legge Mammì").

E ancora, la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle" ); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma che hanno messo nelle mani del capo del governo la Mondadori; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato e in spregio dei risparmiatori, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.

In attesa di sapere se Agnelli sia stato o meno un "furfante", Feltri, che non è un maramaldo, ricorderà quanto sia furfantissimo il suo editore, come al fondo della fortuna di Berlusconi ci siano evasione fiscale e falso in bilancio, corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; manipolazione, a danno degli azionisti, delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

E, giurateci, quel diavolo di Feltri non si fermerà qui. Ricorderà le diciassette leggi ad personam che hanno salvato il suo editore da condanne penali, protetto i suoi affari, alimentato i profitti delle sue imprese. Ricorderà, con il suo linguaggio concreto e asciutto, quanto quell'uomo che ci governa sia, oltre che "un furfante", un gran bugiardo.

Rammenterà ai lettori del Giornale quando Berlusconi disse: "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l'esistenza" (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15,17). O quando giurò sulla testa dei figli: "All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità".

La trama dell'offensiva di Feltri contro il suo editore già fa capolino. Presto leggeremo un altro editoriale, altri editoriali all'acido muriatico. Nel solco delle menzogne diffuse dal premier che evade le tasse, Feltri ricorderà che è stato Berlusconi a mentire agli italiani negando di frequentare o di aver frequentato minorenni, giurando sulla testa dei figli di condurre una vita morigerata da buon padre di famiglia, prossima alla "santità", per intero dedicata alla fatica di governare il Paese.

Feltri concluderà che un uomo, un "furfante" che trucca bilanci, deruba i contribuenti e le casse dello Stato, si cucina legge immunitarie perché governa il Paese e per di più mente senza vergogna sull'origine della sua fortuna e sulla sua vita privata, diventata pubblica, non può essere affidabile quando parla del destino dell'Italia, qualsiasi cosa dica o prometta.


(23 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La menzogna come potere
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2009, 11:23:31 am
L'ANALISI

La menzogna come potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


Avanzare delle domande a un uomo politico nell'Italia meravigliosa di Silvio Berlusconi è già un'offesa che esige un castigo?

L'Egoarca ritiene che sollecitare delle risposte dinanzi alle incoerenze delle dichiarazioni pubbliche del capo del governo sia diffamatorio e vada punito e che quelle domande debbano essere cancellate d'imperio per mano di un giudice e debba essere interdetto al giornale di riproporle all'opinione pubblica. E' interessante leggere, nell'atto di citazione firmato da Silvio Berlusconi, perché le dieci domande che Repubblica propone al presidente del Consiglio sono "retoriche, insinuanti, diffamatorie".

Sono retoriche, sostiene Berlusconi, perché "non mirano a ottenere una risposta dal destinatario, ma sono volte a insinuare l'idea che la persona "interrogata" si rifiuti di rispondere". Sono diffamatorie perché attribuiscono "comportamenti incresciosi, mai tenuti" e inducono il lettore "a recepire come circostanze vere, realtà di fatto inesistenti". Peraltro, "è sufficiente porre mente alle dichiarazioni già rese in pubblico dalle persone interessate, per riconoscerne la falsità, l'offensività e il carattere diffamatorio di quelle domande che proprio "domande" non sono".

Come fin dal primo giorno di questo caso squisitamente politico, una volta di più, Berlusconi ci dimostra quanto, nel dispositivo del suo sistema politico, la menzogna abbia un primato assoluto e come già abbiamo avuto modo di dire, una sua funzione specifica. Distruttiva, punitiva e creatrice allo stesso tempo. Distruttiva della trama stessa della realtà; punitiva della reputazione di chi non occulta i "duri fatti"; creatrice di una narrazione fantastica che nega eventi, parole e luoghi per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di nemici e immaginari complotti politici.

Non c'è, infatti, nessuna delle dieci domande che non nasca dentro un fatto e non c'è nessun fatto che nasca al di fuori di testimonianze dirette, di circostanze accertate e mai smentite, dei racconti contraddittori di Berlusconi.

E' utile ora mettersi sotto gli occhi queste benedette domande. Le prime due affiorano dai festeggiamenti di una ragazza di Napoli, Noemi, che diventa maggiorenne. E' Veronica Lario ad accusare Berlusconi di "frequentare minorenni". E' Berlusconi che decide di andare in tv a smentire di frequentare minorenni. Nel farlo, in pubblico, l'Egoarca giura di aver incontrato la minorenne "soltanto tre o quattro volte alla presenza dei genitori". Questi sono fatti. Come è un fatto che le parole di Berlusconi sono demolite da circostanze, svelate da Repubblica, che il capo del governo o non può smentire o deve ammettere: non conosceva i genitori della minorenne (le ha telefonato per la prima volta nell'autunno del 2008 guardandone un portfolio); l'ha incontrata da sola per lo meno in due occasioni (una cena offerta dal governo e nelle vacanze del Capodanno 2009).

La terza domanda chiede conto al presidente del Consiglio delle promesse di candidature offerte a ragazze che lo chiamano "papi". La circostanza è indiscutibile, riferita da più testimoni e direttamente dalla stessa minorenne di Napoli. La quarta, la quinta, la sesta e settima domanda ruotano intorno agli incontri del capo del governo con prostitute che potrebbero averlo reso vulnerabile fino a compromettere gli affari di Stato. La vita disordinata di Berlusconi è diventata ormai "storia nota", ammessa a collo torto dallo stesso capo del governo e in palese contraddizione con le sue politiche pubbliche (marcia nel Family day, vuole punire con il carcere i clienti delle prostitute). La sua ricattabilità - un fatto - è dimostrata dai documenti sonori e visivi che le ospiti retribuite di Palazzo Grazioli hanno raccolto finanche nella camera da letto del Presidente del Consiglio.

L'ottava domanda è politica: può un uomo con queste abitudini volere la presidenza della Repubblica? Chi non glielo chiederebbe? La nona nasce, ancora una volta, dalle parole di Berlusconi. E' Berlusconi che annuncia in pubblico "un progetto eversivo" di questo giornale. E' un fatto. E' lecito che il giornale chieda al presidente del Consiglio se intenda muovere le burocrazie della sicurezza, spioni e tutte quelle pratiche che seguono (intercettazioni su tutto). Non è minacciato l'interesse nazionale, non si vuole scalzarlo dal governo e manipolare la "sovranità popolare"? In questo lucidissimo delirio paranoico, Berlusconi potrebbe aver deciso, forse ha deciso, di usare la mano forte contro giornalisti, magistrati e testimoni. Che ne dia conto. Grazie.

La decima domanda infine (e ancora una volta) non ha nulla di retorico né di insinuante. E' Veronica Lario che svela di essersi rivolta agli amici più cari del marito per invocare un aiuto per chi, come Berlusconi, "non sta bene". E' un fatto. Come è un fatto che, oggi, nel cerchio stretto del capo del governo, sono disposti ad ammettere che è la satiriasi, la sexual addiction a rendere instabile Berlusconi.

Questa la realtà dei fatti, questi i comportamenti tenuti, queste le domande che chiedono ancora oggi - anzi, oggi con maggiore urgenza di ieri - una risposta. Dieci risposte chiare, per favore. E' un diritto chiederle per un giornale, è un dovere per un uomo di governo offrirle perché l'interesse pubblico dell'affare è evidente.

Si discute della qualità dello spazio democratico e la citazione di Berlusconi ne è una conferma. E dunque, anche a costo di ripetersi, tutta la faccenda gira intorno a un solo problema: fino a che punto il premier può ingannare l'opinione pubblica mentendo, in questo caso, sulle candidature delle "veline", sulla sua amicizia con una minorenne e tacendo lo stato delle sue condizioni psicofisiche? Non è sempre una minaccia per la res publica la menzogna? La menzogna di chi governa non va bandita incondizionatamente dal discorso pubblico se si vuole salvaguardare il vincolo tra governati e governanti? Con la sua richiesta all'ordine giudiziario di impedire la pubblicazione di domande alle quali non può rispondere, abbiamo una rumorosa conferma di un'opinione che già s'era affacciata in questi mesi: Berlusconi vuole insegnarci che, al di fuori della sua verità, non ce ne può essere un'altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. La sua ultima mossa conferma un uso della menzogna come la funzione distruttiva di un potere che elimina l'irruzione del reale e nasconde i fatti, questa volta anche per decisione giudiziaria. La mordacchia (come chiamarla?) che Berlusconi chiede al magistrato di imporre mostra il nuovo volto, finora occultato dal sorriso, di un potere spietato. E' il paradigma di una macchina politica che intimorisce. E' la tecnica di una politica che rende flessibili le qualifiche "vero", "falso" nel virtuale politico e televisivo che Berlusconi domina. E' una strategia che vuole ridurre i fatti a trascurabili opinioni lasciando campo libero a una menzogna deliberata che soffoca la realtà e quando c'è chi non è disposto ad accettare né ad abituarsi a quella menzogna invoca il potere punitivo dello Stato per impedire anche il dubbio, anche una domanda. Come è chiaro ormai da mesi, quest'affare ci interroga tutti. Siamo disposti a ridurre la complessità del reale a dato manipolabile, e quindi superfluo. Possiamo o è già vietato, chiederci quale funzione specifica e drammatica abbia la menzogna nell'epoca dell'immagine, della Finktionpolitik? Sono i "falsi indiscutibili" di Berlusconi a rendere rassegnata l'opinione pubblica italiana o il "carnevale permanente" l'ha già uccisa? Di questo discutiamo, di questo ancora discuteremo, quale che sia la decisione di un giudice, quale che sia il silenzio di un'informazione conformista. La questione è in fondo questa: l'opinione pubblica può fare delle domande al potere?

(28 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'aggressione come strategia
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2009, 11:19:50 am
L'aggressione come strategia


di GIUSEPPE D'AVANZO



Chi abusa del suo potere, prima o poi, non tenterà più di affermare il principio della propria legittimità e mostrerà, senza alcuna finzione ideologica, come la natura più nascosta di quel potere sia la violenza, la violenza pura. Sta accadendo e accade ora a Silvio Berlusconi che, da sempre, dietro il sorriso da intrattenitore occulta il volto di un potere spietato, brutale, efficiente. Era nell'aria. Doveva accadere perché da mesi era in incubazione. Avevamo la cosa sotto gli occhi, se ne potevano scorgere le ombre. Sapevamo, dopo il rimescolamento nell'informazione controllata direttamente o indirettamente dall'Egoarca, che in autunno sarebbe cominciata un'altra stagione: un ciclo di prepotenza che avrebbe demolito i non-conformi, degradato i perplessi, umiliato gli antagonisti, dovunque essi abbiano casa. Dentro la maggioranza o nell'opposizione. Dentro la politica o fuori della politica. Nel mondo dell'impresa, della società, della cultura, dell'informazione.

Nessuno poteva immaginare che l'aggressiva "strategia d'autunno" avrebbe provocato l'inedita e gravissima crisi tra il governo italiano e la Santa Sede aperta dalla rinuncia del segretario di Stato Tarcisio Bertone di sedere accanto al presidente del Consiglio in una cena offerta dall'arcivescovo dell'Aquila nel giorno della "perdonanza".

Perdono mediatico chiedeva Berlusconi al Vaticano e l'aveva ottenuto. Nella sua superbia, l'uomo deve aver pensato che Oltretevere lo avrebbe assolto e "immunizzato" anche per il rito di degradazione che, nello stesso giorno, il Giornale dell'Egoarca ha voluto infliggere al direttore dell'Avvenire, "colpevole" di aver dato voce alle inquietudini del mondo cattolico per l'esempio offerto da chi frequenta minorenni e prostitute, di aver usato parole esplicite per censurare lo stile di vita del capo del governo. Anche contro la Chiesa, Berlusconi ha voluto mostrare la prepotenza del suo potere e la Chiesa ha chiuso la porta che gli era stata aperta.

Nelle ore di questa sconosciuta e improvvisa crisi tra Stato e Chiesa, quel che bussa alla porta di Berlusconi è soltanto la realtà che, per fortuna, alla fine impone le proprie inalterabili condizioni. Per cancellarla, nientificarla, l'Egoarca ha pensato di poter fare affidamento soltanto sul potere ideologico, egemonico e mediatico della sua propaganda, sull'accondiscendenza dei conformi e la pavidità dei prudenti sempre a caccia di un alibi. La "pubblicità" avrebbe dovuto rimuovere ogni storia, ogni evento (dalla "crisi di Casoria" alle stragi di migranti nel canale di Sicilia) sostituendoli con la narrazione unidimensionale e autocelebrativa delle imprese di chi ha il potere e, in virtù di questo possesso, anche la "verità". Forse, si ricorderà la conferenza stampa di Berlusconi di agosto. Il racconto vanaglorioso di un successo ininterrotto, attivo in ogni angolo della Terra.

Se le truppe di Mosca si sono fermate alle porte di Tbilisi scongiurando un conflitto Russia-Georgia, il merito è di Berlusconi che ha evitato l'inizio di una nuova Guerra Fredda. Se Barack Obama ha firmato a Mosca il trattato per la limitazione delle armi nucleari, il merito è di Berlusconi che ha favorito "l'avvicinamento" della Casa Bianca al Cremlino. Se l'Alleanza atlantica è ancora vegeta, lo si deve al lavoro di persuasione di Berlusconi che ha convinto il leader turco Erdogan a dare il via libera alla candidatura di Rasmussen. Se "l'Europa non resterà mai più al freddo", il merito è di Berlusconi che ha convinto Erdogan e Putin a stringersi la mano dinanzi al progetto del gasdotto South Stream. Nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi non c'è ombra né crisi. Non c'è recessione né sfiducia. Non c'è né sofferente né sofferenza. Non ci sono più immigrati clandestini, non c'è crimine nelle città, non c'è più nemmeno la mafia. Regna "la pace sociale" e "nessuno è rimasto indietro" e, per quanto riguarda se medesimo, "non c'è nulla di cui deve scusarsi". Grazie ai "colpi di genio" di Berlusconi, anche i terremotati delle tendopoli all'Aquila sono felici perché "molti sono partiti in crociera e altri sono ospitati in costiera e sono tutti contenti".

Questo racconto fantasioso deve essere unidimensionale, uniforme, standardizzato, senza incrinature. Deve far leva su un primato della menzogna a cui si affida il compito di ridisegnare lo spazio pubblico. Soprattutto deve essere protetto da ogni domanda o dubbio o fatto. A chi non accetta la regola, quel potere ideologico e mediatico riserverà la violenza pura, la distruzione di ogni reputazione, il veleno della calunnia. Guardatevi indietro. E' accaduto costantemente in questa storia che ha inizio a Casoria il 26 aprile, in un ristorante di periferia dove si festeggiano i 18 anni di una ragazza che, minorenne, Berlusconi ha voluto accanto a cene di governo e feste di Capodanno. Della moglie del capo del governo che dice "basta" e chiede il divorzio perché "frequenta minorenni" e "non sta bene" saranno pubblicate foto a seno nudo, le si inventerà un amante. Lo stesso rito di degradazione sarà imposto al giovane operaio che testimonia le modalità del primo contatto tra il 73enne capo del governo e la minorenne di Napoli; alla prostituta che racconta la notte a Palazzo Grazioli e le abitudini sessuali del capo del governo; al tycoon australiano che edita un Times troppo curioso; al fotografo che immortala l'Egoarca intossicato dalla satiriasi con giovani falene a Villa Certosa; all'editore di un giornale - questo - che si ostina a chiedere conto a Berlusconi, con dieci domande, delle incoerenze delle sue parole nella convinzione che è materia di etica politica e non di moralità privata rendere disponibile la verità in un pubblico dibattito. A questa stessa degradazione è stato ora sottoposto il direttore del giornale della Conferenza episcopale.

Berlusconi non si fermerà. Dal cortile di casa, questo potere distruttivo - che ha bisogno di menzogne, silenzio, intimidazione - minaccia di esercitarsi in giro per il mondo aggredendo, dovunque essi siano, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, negli Stati Uniti, i giornali che riferiscono della crisi dell'Egoarca, della sua irresponsabilità e inadeguatezza. Sarebbe ridicolo, se non fosse tragico. Quel che si intravede è un uomo solo, circondato da pochi - cattivi - consiglieri, prigioniero di se stesso, del suo delirio di potenza, delle sue favole, incapace di fare i conti con quella realtà che vuole annullare. E' un uomo, oggi più di ieri, violento e pericoloso perché nella sua crisi trascinerà lo Stato che rappresenta. Come ha fatto ieri, inaugurando il conflitto con la Santa Sede. E domani con chi altro? Non ci si può, non ci si deve rassegnare alla decadenza di un premier che minaccia di precipitare anche il Paese nel suo collasso.

(29 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Chi ha dato a Feltri la falsa "nota informativa"?
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 10:26:32 pm
Chi ha dato a Feltri la falsa "nota informativa"?

Su Boffo una velina che non viene dal Tribunale


di GIUSEPPE D'AVANZO


LA "nota informativa", agitata dal Giornale di Silvio Berlusconi per avviare un rito di degradazione del direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, non è nel fascicolo giudiziario del tribunale di Terni. Non c'è e non c'è mai stata. Come, in quel processo, non c'è alcun riferimento - né esplicito né implicito - alla presunta "omosessualità" di Dino Boffo. L'informazione potrebbe diventare ufficiale già domani, quando il procuratore della Repubblica di Terni, Fausto Cardella, rientrerà in ufficio e verificherà direttamente gli atti.

Bisogna ricordare che il Giornale, deciso a infliggere un castigo al giornalista che ha dato voce alle inquietudini del mondo cattolico per lo stile di vita di Silvio Berlusconi, titola il 28 agosto a tutta pagina: "Il supermoralista condannato per molestie/ Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi italiani e impegnato nell'accesa campagna stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione". Il lungo articolo, a pagina 3, dà conto di "una nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore disposto dal Gip del tribunale di Terni il 9 agosto del 2004". La "nota" è l'esclusivo perno delle "rivelazioni" del quotidiano del capo del governo. L'"informativa" subito appare tanto bizzarra da essere farlocca. Nessuna ordinanza del giudice per le indagini preliminari è mai "accompagnata" da una "nota informativa". E soprattutto nessuna informativa di polizia giudiziaria ricorda il fatto su cui si indaga come di un evento del passato già concluso in Tribunale.

Scrive il Giornale: "Il Boffo - si legge nell'informativa - è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla onde lasciasse libero il marito con il quale Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione. Rinviato a giudizio, il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un'ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione. Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa che, per questo motivo, aveva ritirato la querela...".

È lo stralcio chiave dell'articolo punitivo. È falso che quella "nota" accompagni l'ordinanza del giudice, come riferisce il Giornale. L'"informativa" riepiloga l'esito del procedimento. Non è stata scritta, quindi, durante le indagini preliminari, ma dopo che tutto l'affare era già stato risolto con il pagamento dell'ammenda. Dunque, non è un atto del fascicolo giudiziario. Per mero scrupolo, lo accerterà anche il procuratore di Terni Cardella che avrà modo di verificare, con i crismi dell'ufficialità, che la nota informativa non è agli atti e che in nessun documento del processo si fa riferimento alla presunta "omosessualità" di Boffo. La "nota informativa", pubblicata dal Giornale del presidente del Consiglio, è dunque soltanto una "velina" che qualcuno manda a qualche altro per informarlo di che cosa è accaduto a Terni, anni addietro, in un "caso" che ha visto coinvolto il direttore dell'Avvenire.

L'evidenza sollecita qualche domanda preliminare: è vero o falso che Dino Boffo sia "un noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni"? È vero o falso che la polizia di Stato schedi gli omosessuali?

Sono interrogativi che si pone anche Roberto Maroni, la mattina del 28 agosto. Il ministro chiede al capo della polizia, Antonio Manganelli, di accertare se esista un "fascicolo" che dia conto delle abitudini sessuali di Dino Boffo. Dopo qualche ora, il capo della polizia è in grado di riferire al ministro che "né presso la questura di Terni (luogo dell'inchiesta) né presso la questura di Treviso (luogo di nascita di Boffo) esiste un documento di quel genere" e peraltro, sostiene Manganelli con i suoi collaboratori, "è inutile aggiungere che la polizia non scheda gli omosessuali: tra di noi abbiamo poliziotti diventati poliziotte e poliziotte diventate poliziotti". "Da galantuomo", come dice ora il direttore dell'Avvenire, Maroni può così telefonare a Dino Boffo e assicurargli che mai la polizia di Stato lo ha "attenzionato" né esiste alcun fascicolo nelle questure in cui lo si definisce "noto omosessuale".

Risolte le domande preliminari, bisogna ora affrontare il secondo aspetto della questione: chi è quel qualcuno che redige la "velina"? Per quale motivo o sollecitazione? Chi ne è il destinatario?
C'è un secondo stralcio della cronaca del Giornale che aiuta a orientarsi. Scrive il quotidiano del capo del governo: "Nell'informativa si legge ancora che (...) delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo "sono a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori"". C'è qui come un'impronta. Nessuna polizia giudiziaria, incaricata di accertare se ci siano state o meno molestie in una piccola città di provincia (deve soltanto scrutinare i tabulati telefonici), si dà da fare per accertare chi sia o meno a conoscenza nella gerarchia della Chiesa delle presunte "debolezze" di un indagato. Che c'azzecca? E infatti è una "bufala" che il documento del Giornale sia un atto giudiziario. E' una "velina" e dietro la "velina" ci sono i miasmi infetti di un lavoro sporco che vuole offrire al potere strumenti di pressione, di influenza, di coercizione verso l'alto (Ruini, Tettamanzi, Betori) e verso il basso (Boffo). È questo il lavoro sporco peculiare di servizi segreti o burocrazie della sicurezza spregiudicate indirizzate o messe sotto pressione da un'autorità politica spregiudicatissima e violenta. È il cuore di questa storia. Dovrebbe inquietare chiunque. Dovrebbe sollecitare l'allarme dell'opinione pubblica, l'intervento del Parlamento, le indagini del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), ammesso che questo comitato abbia davvero la volontà, la capacità e soprattutto il coraggio civile, prima che istituzionale, di controllare la correttezza delle mosse dell'intelligence.

Quel che abbiamo sotto gli occhi è il quadro peggiore che Repubblica ha immaginato da mesi. Con la nona delle dieci domande, chiedevamo (e chiediamo) a Silvio Berlusconi: "Lei ha parlato di un "progetto eversivo" che la minaccia. Può garantire di non aver usato né di voler usare intelligence e polizie contro testimoni, magistrati, giornalisti?".

Se si guarda e si comprende quel che capita al direttore dell'Avvenire, è proprio quel che accade: il potere che ci governa raccoglie dalla burocrazia della sicurezza dossier velenosi che possano alimentare campagne di denigrazione degli avversari politici. Stiamo al "caso Boffo". La scena è questa. C'è un giornalista che, rispettando le ragioni del suo mestiere, dà conto - con prudenza e misura - del disagio che nelle parrocchie, nei ceti più popolari del cattolicesimo italiano, provoca la vita disordinata del capo del governo, il suo modello culturale, il suo esempio di vita. È un grave smacco per il presidente del Consiglio che vede compromessa credibilità e affidabilità in un mondo che pretende elettoralmente, indiscutibilmente suo. È un inciampo che può deteriorare anche i buoni rapporti con la Santa Sede o addirittura pregiudicare il sostegno del Vaticano al suo governo. Lo sappiamo, con la fine dell'estate Berlusconi decide di cambiare passo: dal muto imbarazzo all'aggressione brutale di chi dissente. Chiede o fa chiedere (o spontaneamente gli vengono offerte da burocrati genuflessi e ambiziosissimi) "notizie riservate" che, manipolate con perizia, arrangiate e distorte per l'occasione, possono distruggere la reputazione dei non-conformi e intimidire di riflesso i poteri - in questo caso, la gerarchia della Chiesa - con cui Berlusconi deve fare i conti. Quelle notizie vengono poi passate - magari nella forma della "lettera anonima" redatta da collaboratori dei servizi - ai giornali direttamente o indirettamente controllati dal capo del governo. In redazione se ne trucca la cornice, l'attendibilità, la provenienza. Quei dossier taroccati diventano così l'arma di una bastonatura brutale che deve eliminare gli scomodi, spaventare chi dissente, "educare" i perplessi. A chi altro toccherà dopo Dino Boffo? Quanti sono i dossier che il potere che ci governa ha ordinato di raccogliere? E contro chi? E, concluso il lavoro sporco con i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, a chi altro toccherà nel mondo della politica, dell'impresa, della cultura, della società?

(30 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'officina dei veleni
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2009, 10:22:05 pm
IL COMMENTO

L'officina dei veleni


di GIUSEPPE D'AVANZO

DUNQUE la "nota informativa", pubblicata dal Brighella che dirige il Giornale del capo del governo, non è né una "nota" né un'"informativa" né tanto meno un atto giudiziario. È una "velina". Ora è ufficiale: nel fascicolo del Tribunale di Terni non c'è alcun riferimento a Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, come a "un noto omosessuale". Lo dice il giudice di Terni: negli atti "non c'è assolutamente nessuna nota che riguardi le inclinazioni sessuali".

Da qui - dalla menzogna del Giornale di Berlusconi - bisogna ripartire per comprendere il metodo e le minacce di un dispositivo politico che troverà - per ordine del potere che ci governa - nuovi bersagli contro cui esercitarsi, altri indiscutibili falsi da agitare per punire gli avversari politici o chi dissente. La storia è nota. Boffo osa criticare, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare l'Egoarca. Deve avere una lezione. Non c'è bisogno di olio di ricino, genere merceologico antiquato. Una bastonatura mediatica è ben più funesta di un lassativo. Può essere definitiva come un colpo di pistola. È quel che tocca al direttore dell'Avvenire: un colpo di pistola che lo tramortisce. Finisce in prima pagina del Giornale di Berlusconi descritto così: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell'accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione".

C'è stata finora una regola accettata e condivisa nel pur rissoso giornalismo del nostro Paese diviso: spara duro, se vuoi, ma è legittimo farlo soltanto con notizie attendibili e fondate, confermate da testimonianze o documenti che reggano una verifica, pena il discredito pubblico, la squalifica di ogni reputazione professionale. Il collasso di questa regola di decenza può inaugurare una stagione critica. Per descriverla torna utile Brighella, antica maschera della commedia dell'arte che nasce nella Bergamo alta. Attaccabrighe, briccone, bugiardo, Brighella viene da briga, intrigo: "se il padrone promette di ricompensarlo bene, dirige gli imbrogli compiuti in scena". Il potere che ci governa immagina che i giornalisti debbano trasformarsi tutti in Brighella. Un Brighella in giro già c'è. Dirige il Giornale di Berlusconi. Si mette al lavoro e cucina l'aggressione punitiva per il dissidente. Gli hanno messo in mano un pezzo di carta anonimo, redatto nel gergo degli spioni e delle polizie. Chi glielo ha dato? Dov'è l'officina dei miasmi, dei falsi, dei dossier melmosi che il potere che ci governa promette di usare contro i non-conformi alla sua narrazione del Paese? Il foglietto che Brighella si ritrova sullo scrittoio è di quei frutti avvelenati. Non vale niente. È una diceria poliziesca. Il direttore del Giornale di Berlusconi la presenta ai lettori come una "nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore dell'Avvenire, disposto dal gip del Tribunale di Terni".

Quella "velina" diventa, nell'imbroglio di Brighella, un documento che gli consente di scrivere, lasciando credere al lettore di star leggendo un atto giudiziario: "Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconcie e offensive e di pedinamenti volti ad intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione".

Disinformazione e "falso indiscutibile", in questa manovra, fanno un matrimonio d'amore. Il documento è un falso indiscutibile. È utile però a un lavoro di disinformazione. La disinformazione, metodo maestro della Russia sovietica, contrariamente alla menzogna, contiene una parte di verità (anche in questo caso: Boffo ha accettato una condanna per molestie), ma questa viene deliberatamente manipolata con abilità. A Brighella non importa nulla delle molestie. Vuole gridare al mondo: il direttore del giornale della Conferenza episcopale è un frocio! Chi ha sensibilità per i diritti civili, i movimenti gay afflitti dall'Italia omofoba di oggi discuteranno dell'uso dell'omosessualità come colpa, difetto, vergogna, addirittura come reato. Qui interessa l'uso del falso nel dispositivo politico che minaccia. Colto con le mani nel sacco dei rifiuti, quando diventa evidente che quella "nota informativa" è soltanto una "velina" di spione diventata lettera anonima ai vescovi e riesumata per la bastonatura, Brighella dice: "Non ho mai parlato di informative giudiziarie. Abbiamo un documento (ma è la sentenza di condanna per molestie). Il resto non conta. Non conta da chi l'abbiamo avuto, non conta se ci sono degli errori". Sincer come l'acqua dei fasoi dicono a Bergamo per dire falso, bugiardo. È quella schifezza presentata come "nota informativa"? Come documento? Addirittura come atto giudiziario? Non ne parliamo più? Non è accaduto nulla? È stupefacente che la menzogna di Brighella venga presa sul serio proprio da quell'autorevole giornalismo italiano che finora ha accettato e condiviso la regola che sia legittima anche la durezza, pure la brutalità se in presenza di fatti, notizie, documenti, testimonianze affidabili. È sorprendente che si legga sul Corriere della sera di Ferruccio de Bortoli: "(Il direttore del Giornale) non retrocede di un passo" e su la Stampa di Mario Calabresi: "Nessuna retromarcia (del direttore del Giornale) sulla vicenda, dunque". Nessuna retromarcia?

Fingere di non capire, non valutare con severa attenzione quanto è accaduto oggi a Dino Boffo (domani a chi?), accettare di chiudere gli occhi dinanzi al metodo sovietico inaugurato dal potere che ci governa, con il lavoro di Brighella, ci rende tutti corresponsabili perché se chi diffonde una disinformazione è colpevole e chi le crede è uno sciocco, chi la tollera è un complice. Quella lucida aggressione, che trasforma il giornalismo in una pratica calunniosa senza regole, non può essere accettata con un'alzata di spalle né dall'informazione ancora indipendente né dalle istituzioni di controllo come il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Perché due cose ormai sono chiare in un affare che sempre più assume i contorni di una questione di libertà. Berlusconi pretende che l'industria delle notizie si trasformi o in organizzazione del silenzio (a questo pensa il Tg1 di Augusto Minzolini) o in macchina della calunnia (è il caso di Brighella).

La macchina della calunnia si sta alimentando, in queste ore, con "veline" e dossier che servitori infedeli delle burocrazie della sicurezza le offrono. Per sollecitazione del potere o per desiderio di servire un padrone, non importa. È rilevante il loro uso politico. A questo proposito, dice Francesco Rutelli, presidente del Copasir: "Non ho ricevuto finora nessuna segnalazione su coinvolgimenti diretti o indiretti di persone legate ai servizi di informazione". Ieri Rutelli ha incontrato Gianni De Gennaro, direttore del Dipartimento per l'informazione e la sicurezza (Dis). Chi sa se ha avuto qualche "segnalazione". Comunque, pare opportuno concludere con un messaggio agli spioni al lavoro nella bottega dei miasmi: per favore, dopo aver cucinato le vostre schifezze, mandate un sms a Francesco Rutelli. Grazie.

(1 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Mandante e utilizzatore
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 05:17:19 pm
IL COMMENTO

Mandante e utilizzatore

di GIUSEPPE D'AVANZO


Mai come oggi, i caratteri del "male italiano" sono il conformismo, l'obbedienza, l'inazione. Anche ora che un assassinio è stato commesso sotto i nostri occhi. Assassinio.

Con quale altra formula si può definire - in un mondo governato dalla comunicazione - la deliberata e brutale demolizione morale e professionale di Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, "reo" di prudentissimi rilievi allo stile di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto? Un funzionario addetto al rito distruttivo - ha la "livrea" di Brighella, dirige il Giornale del Padrone - "carica il fucile". Così dice. Il proiettile è un foglietto calunnioso, anonimo, privo di alcun valore. Si legge che Boffo è un "noto omossessuale". La diceria medial-poliziesca ripetuta tre o quattro volte assume presto la qualità di un prova storica. Non lo è. Non lo è mai stata. Brighella è un imbroglione e lo sa, ma è lì per sbrigare un lavoro sporco. Gli piace farlo. Se lo cucina, goloso. Colto con le mani nel sacco delle menzogne, parla ora d'altro: qualcuno gli crede perché sciocco o pavido. Non è Brighella a intimorire. È Quello-Che-Comanda-Tutto. È lui il mandante di quel delitto. È lui il responsabile politico. Contro Silvio Berlusconi ci sono quattro indizi. Già in numero di tre, si dice, valgono una prova.

Il primo indizio ha un carattere professionale. Qualsiasi editore che si fosse trovato tra i piedi un direttore che, con un indiscutibile falso, solleva uno scandalo che mette in imbarazzo Santa Sede, Conferenza episcopale, comunità cattoliche gli avrebbe chiesto una convincente spiegazione per l'infortunio professionale. In caso contrario, a casa. A maggior ragione se quell'editore è anche (come può accadere soltanto in Italia) un capo di governo che tiene in gran conto i rapporti con il Papa, i vescovi, l'opinione pubblica cattolica. Non è accaduto nulla di tutto questo. Gianni Letta ha dovuto minacciare le dimissioni per convincere Berlusconi a mettere giù due righe di "dissociazione". Può dissociarsi soltanto chi è associato e tuttavia nei giorni successivi, mentre il lento assassinio di Boffo continua, non si ode una parola di disagio dell'editore-premier a dimostrazione che il vincolo dell'associazione è ben più stretto di quella rituale presa di distanza: Berlusconi vuole far sapere Oltretevere che non ammette né critici né interlocutori né regole.

Il secondo indizio è documentale. Il 21 agosto, Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona a Brighella. Ne spiega così le ragioni ai suoi lettori: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove". Giordano non poteva essere più chiaro: mi è stato chiesto (e da chi, se non dall'editore-premier?) di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo. Che il Giornale sia diventato un'officina di veleni lo conferma un redattore in fuga. Luca Telese, sul suo blog, racconta di dossier e schifezze già pronte al Giornale contro "giornalisti o parenti di giornalisti di Repubblica". L'indiscrezione è confermata in Parlamento da "uomini vicini al premier" (la Stampa, 29 agosto)

Il terzo indizio è, diciamo così, politico e cronachistico. Berlusconi, incapace di governare nonostante i numeri in eccesso e un'opposizione fragile, ha "rinunciato al suo profilo riformatore" (Il Foglio, 31 agosto). Non ha più alcun "fine". Difende soltanto "i mezzi", il suo potere personale. Lo vuole assoluto. Conosce un unico metodo per tenerselo ben stretto nelle mani: un giornalismo pubblicitario e servile che consenta di annullare ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione fatta di emozioni e immagini composte e ricomposte secondo convenienza; un racconto che elimina ogni criterio di verità; un caleidoscopio mediatico che produce un'ignoranza delle cose utile a credere in un'Italia meravigliosa senza alcun grave problema, in pace con se stessa, governata da un "Superman". Per questa ragione Berlusconi ingaggia l'obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Per la stessa ragione, ma di segno opposto, liquida in un paio di mesi tre direttori di giornale. 2 dicembre 2008. Il Corriere della sera (direttore Paolo Mieli) e la Stampa (direttore Giulio Anselmi) rilevano il conflitto d'interessi dietro la decisione di inasprire l'Iva per Sky, diretto concorrente di Mediaset. Da Tirana, Berlusconi lancia il suo "editto": "I direttori di giornali, come la Stampa e il Corriere dovrebbero cambiare mestiere". 10 febbraio. Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix, non riesce a ottenere uno spazio informativo da Canale5 per raccontare la morte di Eluana Englaro. Protesta. L'Egoarca lo licenzia su due piedi. In aprile l'editto di Tirana trova il suo esito. Il 6, Mieli lascia il Corriere. Il 20, tocca ad Anselmi. Mentana non è più tornato in video. Anselmi e Mieli non fanno più i giornalisti. Hanno davvero cambiato mestiere.

Il quarto indizio contro Berlusconi è concreto, diretto e recente. Quando non può licenziare o far licenziare i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, Quello-Che-Comanda-Tutto organizza contro di loro intimidazioni: trascina in tribunale Repubblica colpevole di avergli proposto dieci domande e l'Unità per gli editoriali - quindi, per le opinioni - che pubblica. O dispone selvagge aggressioni. È il responsabile politico dell'assassino morale di Boffo preparato da Brighella. La maschera salmodiante combina campagne di denigrazione contro l'editore e il direttore di questo giornale. Poi l'editore-premier - come utilizzatore finale - si incarica di far esplodere quelle calunnie con pubbliche dichiarazioni rilanciate al tiggì della sera dall'obbediente Minzolini, che tace su tutto il resto.

Questa è la scena del delitto perfetto della realtà e del giornalismo. Sono in piena luce gli assassinii, gli assassinati, gli uccisori, il mandante. Vi si scorge anche un coro soi-disant neutrale. Vi fanno parte politici di prima e seconda fila che dicono: basta, torniamo alla realtà dei problemi del Paese. È proprio vero che "la pratica del potere ispessisce le cotenne". Queste teste gloriose, soffocate nella propria autoreferenzialità, non comprendono che è appunto questa la posta in gioco: la possibilità stessa di portare alla luce la realtà, di evitarne la distruzione, di raccontarla; di non fare incerta la distinzione tra reale e fittizio come Berlusconi pretende dai giornalisti anche a costo di annientare chi non accetta di farsi complice o disciplinato. Il dominio di Quello-Che-Comanda-Tutto passa, oggi e prima di ogni altra cosa, da questa porta. La volontà di tanti giornalisti "normali" che chiedono soltanto di fare il proprio lavoro con onestà e dignità ne esce umiliata. La loro inazione oggi non ha più una ragion d'essere di fronte alla brutalità dei "delitti" che abbiamo sotto gli occhi. La prudenza che induce tanti, troppi a decidere che qualsiasi azione o reazione sia impossibile, non li salverà. Il conformismo non li proteggerà. Il mandante dei delitti è un proprietario che conosce soltanto dipendenti docili e fedeli. Se non lo sei, ti bracca, ti sbrana, ti digerisce.

(3 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Uno scandalo politico
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2009, 10:49:13 am
IL COMMENTO

Uno scandalo politico

di GIUSEPPE D'AVANZO


La conversazione di Noemi Letizia con Sky risulterà molesta a Berlusconi. Per almeno tre ragioni. Riaccende l'interesse pubblico intorno alla relazione della ragazza napoletana (18 anni) con il capo del governo (73 anni, il 29 settembre) e la strategia del premier non lo consente, ora che il piano di battaglia per l'autunno prevede non più una difesa improvvisata giorno per giorno - spesso catastrofica - ma una controffensiva mediatica e la cinica, brutale aggressione dei "nemici".

La ragazza, caduta l'attenzione per la politica, si dice pronta per cominciare la sua carriera nel mondo dello spettacolo e sembra rivolgersi all'"amico di famiglia" perché attende oggi che le promesse del passato diventino realtà. Non chiede più un seggio in Parlamento, ma la concretezza di un contratto televisivo, di un ingaggio cinematografico. Soprattutto, Noemi aggiunge la sua risposta alla domanda di quando suo padre Elio e "Silvio" si sono conosciuti: a contraddizione così si aggiunge contraddizione.

La ragazza ricorda "Silvio" nella sua vita da sempre, da quando ha memoria (quanti anni ha, tre, cinque, sette anni?). I suoi ricordi contraddicono la ricostruzione di Elio e le parole del capo del governo. Che, come si sa, ne ha dette troppe. "[Elio] era l'autista di Bettino Craxi" (Ansa, 30 aprile). "Elio è un mio amico da tanti anni, con lui ho discusso delle candidature europee" (Porta a Porta, 5 maggio). "Conosco i genitori, punto e basta. Ho incontrato la ragazza tre o quattro volte e sempre alla presenza dei genitori" (France 2, 6 maggio). Dal suo canto, come si ricorderà, Elio Letizia sostiene che la "vera conoscenza [con Silvio] ci fu nel 2001 (...) A metà dicembre io e mia moglie andammo a Roma per acquisti e, passando per il centro storico, pensai che fosse la volta buona per presentare a Berlusconi mia moglie e mia figlia" (il Mattino, 25 maggio). Dunque: il capo del governo "per la prima volta vide Noemi" nel dicembre del 2001. Noemi ha dieci anni. Il ricordo di Elio Letizia non coincide con un altro, improvviso ricordo di Silvio Berlusconi. In quello stesso 25 maggio, la memoria del capo del governo disegna un'altra scena decisamente differente da quella che ha in mente Elio Letizia. "La prima volta che ho visto questa ragazza è stato a una sfilata", dice il premier (Corriere, 25 maggio). Quindi, in un luogo pubblico e non nei suoi appartamenti pubblici o privati. Non nel 2001, come dice Elio, ma più avanti nel tempo perché Noemi avrebbe avuto l'età adatta per "sfilare" (quattordici, quindici, sedici anni, 2005, 2006, 2007). Sono tutte versioni che non coincidono con quella che oggi offre la ragazza che, pur senza dar date, colloca prima del 2001 (da sempre, da quando ho memoria) la conoscenza con il leader.

Ogni volta che salta fuori questa storia di Noemi, Berlusconi appare "un baro preso con l'asso nella manica" (Giuliano Ferrara, Panorama, 4 settembre). E tuttavia ancora oggi bisogna chiedersi se l'amicizia con una minorenne del maturo capo del governo sia soltanto un fatto privato o anche una questione pubblica. Chiedere conto al premier di quella relazione è un'intrusione nella sua privacy o, come hanno spiegato qui Zagrebelsky, Rodotà e Galli, interpella l'etica pubblica perché non è irrilevante se lo stile di vita di chi governa contraddice i valori sociali e politici che pubblicamente proclama e impone agli altri? Si tratta di "moralismo", o in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti sotto tutti i profili, perché è stato chi governa a chiedere il voto e a instaurare con gli elettori un rapporto di fiducia? L'ostinazione a venire a capo di queste questioni - non trascurabili per un ordinato vivere civile - può essere definita "un'ossessione" o addirittura uno sbirciare dal "buco della serratura"?

Franco Cordero ripete spesso che in Italia "le memorie deperiscono e i fatti fluttuano". Questa storia non fa eccezione e pare utile fermare qualche fatto per evitare che la memoria inganni e si autoinganni. L'intero affare è stato sollevato in campo politico, da un'intelligenza politica, per ragioni politiche. Può la nuova classe dirigente del Paese essere selezionata negli studi televisivi, si chiede - prima delle elezioni europee - la fondazione farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini: "Assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare". Il tema appare caro anche alla moglie del premier che, pubblicamente, denuncia il "ciarpame del potere", paccottiglia politica (politica, non familiare né sentimentale): "Quello che emerge oggi, attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne. Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell'imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore". (Ansa, 28 aprile, 22,31).

Soltanto chi vuol essere cieco non vede. All'inizio di questa storia c'è una questione schiettamente politica. Come seleziona la destra riformista le nuove classi dirigenti? E' assennato e conveniente per il futuro del Paese che il leader di una voluminosa maggioranza lo faccia nei backstage delle sue tv o durante le feste a Palazzo o in Villa? Possono essere affidate responsabilità pubbliche o rappresentanza parlamentare a giovani fanciulle che hanno il solo merito di essere le "favorite" dell'"imperatore"? Da qui ha inizio lo scandalo che ancora oggi travolge Berlusconi. L'apparizione di Noemi Letizia lo sintetizza tutto e lo aggrava. E' la stessa ragazza a dire, il 28 maggio, che in futuro si dedicherà alla politica o allo spettacolo: "Lo deciderà Papi", come "con dolcezza" chiama Silvio. Politica o spettacolo, nelle parole sincere della ragazza, sono la stessa cosa. Non si sbaglia. E'È quel che contesta farefuturo e segnala Veronica Lario che denuncia: "Mio marito frequenta minorenni e non sta bene, come ho già detto ai suoi amici". Anche se molti oggi lo dimenticano, in buona o mala fede non importa, è stato proprio Berlusconi a mostrarsi consapevole che necessità etiche e politiche gli imponevano trasparenza; un pubblico rendiconto delle sue relazioni e del suo modo di governare; il documentato rifiuto delle censure della moglie e dell'accusa di avere condotte private disordinate e riprovevoli. Per queste ragioni, si presenta nel salotto bianco di Bruno Vespa - non proprio "il buco della serratura", ma l'agorà dell'infelice Italia televisiva - per dire: "Chi è incaricato di una funzione pubblica deve chiarire" (Porta a Porta, 5 maggio). Intenzione apprezzabile, addirittura saggia. Purtroppo insincera. Non può essere "un'ossessione" prendere Berlusconi sul serio e chiedergliene conto oggi (e ancora) se quelle sue spiegazioni sono risultate tutte farlocche, dalle candidature delle "veline" alla sua frequentazione di minorenni. Non può essere "moralismo" tenere il filo di un "primato della menzogna" che oggi appare il più autentico paradigma del potere berlusconiano, utile a confondere l'opinione pubblica e, da sette giorni, il venefico carburante per alimentare una "macchina della calunnia" lanciata, forte di un maestoso conflitto di interessi, contro i suoi avversari, veri o presunti che siano.

Noemi che si riaffaccia alla scena pubblica, chiedendo all'"amico di famiglia" il sostegno che gli ha promesso, ripropone il carattere politico di uno scandalo che mai è stato privato. Che non è né "un'ossessione" né un pettegolezzo, ma il ragionevole discorso pubblico di una decente democrazia occidentale.

(7 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Una mente prigioniera
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2009, 07:00:43 pm
IL COMMENTO

Una mente prigioniera

di GIUSEPPE D'AVANZO

Lo spettacolo, che va in scena da quindici anni, ha avuto una nuova replica da una televisione di Casa Berlusconi. Consueto il paradigma del capo del governo: un manipolo di "comunisti e catto-comunisti" conduce una "campagna eversiva" per tirarlo giù dalla sedia dove è stato collocato dalla volontà popolare e inaugurare "una tirannia". Addirittura, una tirannia. C'è qualcosa di disperante e di disperato in questa rappresentazione del discorso pubblico e domestico.

Parla più di Berlusconi, e delle sue ossessioni, che di un Paese governato con una maggioranza sovrabbondante e un'opposizione solida come il vapor acqueo. Ci dice molto di più dei fantasmi che, in chiave paranoide, assediano il premier che delle critiche che gli vengono proposte, da qualche isolata voce, in Italia e, da un coro, nel mondo. Risoluto a fare dei nostri giorni una nera notte con un unico punto di luce - se stesso - , Berlusconi è oggi incapace di riconciliarsi con la realtà o almeno con un suo succedaneo. È come se la strategia di comunicazione che lo ha condotto a uno straordinario successo, personale e politico, lo abbia imprigionato precludendogli ogni apprezzabile sguardo sul reale. Il Mago è stato sequestrato dallo specchio in cui ama guardarsi, dalle Lanterne che egli stesso ha costruito. Le relazioni con il Vaticano? Eccellenti, dice. L'azione del governo? Irresistibile, dice. Gli italiani? Vogliono essere come me, giura. Le domande che mi rivolgono? Insulti, mistificazioni, diffamazione, accusa.

È stupefacente che siano state dieci ordinarie domande a precipitarlo in questa sindrome che oggi preoccupa anche alleati, come Gianfranco Fini, ultima vittima delle sue fobie. Berlusconi avrebbe fatto meglio a rispondere, a levarsi dallo stato di "minorità civile" che lo ha afferrato, come gli suggerivano i consiglieri più sapienti. Non lo ha fatto e, peggio, ha chiesto l'intervento della magistratura perché non gli siano mai più proposte, siano vietate per ordinanza di un giudice.

Un'intimidazione, concorda con qualche ritardo il Corriere della sera con Ernesto Galli Della Loggia. Dei suoi argomenti è utile discutere. Scrutiamo la trama del suo ragionamento. C'è una premessa: l'iniziativa giudiziaria del premier è "sbagliata e riprovevole, ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria". La premessa, che sembra richiamare un mondo comune - un codice e un metodo condiviso tra i media, qualche principio logico, un rispetto di regole, doveri e diritti, un'attitudine disinteressata alla discussione - , è utile a preparare un giudizio (dubbio) e due risultati (stralunati). Il giudizio. Quelle domande sono un "puro strumento retorico" (è lo stesso argomento degli avvocati di Berlusconi, ahimè, che giudicano quelle domande diffamatorie e ne chiedono la censura). Quindi, sono quesiti tendenziosi: "Quale risposta sensata si può dare alla domanda: quali sono le sue condizioni di salute? Una domanda di quel tipo vuole affermare in modo indiretto, ma precisissimo, che non sarebbe adatto a fare il capo del governo".

La valutazione apre la strada alla prescrizione di quel che la stampa non deve fare. Non è "compito della libera stampa l'organizzazione di interminabili, feroci campagne giornalistiche". "Non è compito dei giornali decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, è compito degli elettori e soltanto degli elettori".

È evidente che di "comune" nel mondo dell'informazione predicato da Galli Della Loggia c'è molto poco, quasi nulla. Domandare, vi appare un'offesa. Reiterare una domanda che non trova ostinatamente una risposta è addirittura "ferocia". Chiedere poi della salute di chi ci governa, un passo a mezzo tra l'insensatezza e la provocazione. Così non è, con buona pace del Corriere, in tutto il mondo occidentale. I candidati alla Casa Bianca presentano in pubblico, con le cartelle del fisco, le cartelle cliniche per dimostrare che le loro capacità psicofisiche sono adeguate alla responsabilità che chiedono agli elettori. Thomas Eagleton, vice di George McGovern, in piena campagna elettorale nel 1972, abbandonò quando si scoprì che era sottoposto ad elettroshock per curare la depressione. Nel 1984, al secondo mandato, l'età di Ronald Reagan, 73 anni, fu motivo di perplessità e pressioni dei media. Nel match televisivo con Walter Mondale, 56 anni, Reagan esordì con una risposta strepitosa alla domanda di un giornalista: "Non farò della giovane età e inesperienza del mio rivale un motivo di scontro". Anche Mondale rise con il pubblico e il fattore età non ebbe più alcuna importanza. Ritornò rilevante quando Reagan fu operato per un cancro al colon. Lo staff medico rese trasparente i guai del presidente. Lo stesso è accaduto a John McCain quando Time (14 maggio 2008) chiese in copertina "Quanto è sano McCain?". Il candidato non si tirò indietro e i medici della Mayo Clinic misero a disposizione dei cronisti le cartelle cliniche (Cnn, 23 maggio 2008). Anche in Italia è apparso legittimo - né stravagante né tendenzioso - interrogarsi sullo stato di salute di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica a cavallo degli anni Novanta. Egli ammise "una depressione" e lo stesso Galli Della Loggia ne paventò una sindrome dietro "il suo ossessivo presenzialismo televisivo" (la Stampa, 8 dicembre 1991). Il lato comodo dello scrivere in Italia è che basta esporre i fatti. È stata la moglie del premier a porre all'attenzione pubblica la questione della salute di Silvio Berlusconi, dopo averla proposta in privato a Gianni Letta. "[Silvio] non sta bene. Ho chiesto al suo medico di aiutarlo come si fa con le persone che non stanno bene", ha detto Veronica Lario e, anche le rivelazioni di Patrizia D'Addario, raccolte proprio dal Corriere, hanno confermato quell'ipotesi di sexual addiction che avvelena la vita del capo del governo. Dinanzi a quella denuncia pubblica, bisognava tacere forse? Chiudere gli occhi, far finta di niente? Non è compito dell'informazione accertare lo stato delle cose? Repubblica ha cercato di farlo. Nel modo più diretto e corretto. Domenica 10 maggio, ha chiesto al sottosegretario Letta di incontrare il premier per rivolgergli alcune domande sollecitate dalle incoerenze emerse dal "caso Noemi", una minorenne, e dalle sue personali difficoltà svelate dalle parole di Veronica Lario. Si convenne che entro 72 ore ci sarebbe stata una risposta di Palazzo Chigi. Non è mai arrivata. Così si è deciso di rendere pubbliche le domande destinate al premier. È "feroce", questo metodo o è una prassi ordinaria, accettata nel "mondo comune" dell'informazione occidentale che non pretende di sostituire naturalmente gli elettori nelle loro decisioni (che ovvietà!), ma di renderli più consapevoli e informati nelle loro scelte. Il ruolo dei media non è altro che questo, come ha dimostrato l'Economist quando giudicò Berlusconi "inadatto al governo" sia nel 2001 che nel 2008, senza guadagnarsi le reprimende etiche, politiche e deontologiche di un Galli Della Loggia forse distratto.

Quel che preoccupa (e dovrebbe preoccupare chiunque) nel ragionamento del Corriere della sera è l'accettazione che la realtà, quale che sia, non possa fare capolino nel discorso pubblico più di tanto. Che evocarla, magari nelle prudenti anche se ostinate forme dell'interrogazione, sia una mossa abusiva e politicamente scorretta e faziosa. È una convinzione che appare del tutto egemonizzata culturalmente da un'idea di informazione effimera e istantanea. Disegna un mondo dove non esistono "fatti" né alcun modo di stabilire ciò che è vero perché non c'è più alcun criterio di verità praticabile se si esclude "ciò che viene dichiarato vero in ogni istante". È il mondo, il metodo, il dispositivo di potere di Berlusconi. Il premier pretende di confondere e confonderci avviluppandoci in un garbuglio di "credenze" che annullano eventi, circostanze, parole, ma il mestiere dell'informare non è accompagnare questa deriva, ma opporvicisi. È quello che ha fatto e farà Repubblica. Siamo certi che lo farà anche il Corriere quando accerterà che non c'è alcun "complotto eversivo catto-comunista" alle viste né alcuna "tirannia" alle porte, ma soltanto un uomo prigioniero dei suoi fantasmi e di una rabbia pericolosa per le istituzioni che rappresenta e il Paese che governa.

(8 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Lo scandalo in Parlamento
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 05:42:14 pm
IL COMMENTO

Lo scandalo in Parlamento

di GIUSEPPE D'AVANZO


È GIUNTO il tempo che Silvio Berlusconi vada in Parlamento ad affrontare uno scandalo che, sempre di più e ancor più limpidamente, rivela il disordine della sua vita privata. Che sarebbe anche affar suo, certo (lo si dice per i "neutralisti"), se non fosse contraddittorio con l'ordine che voleva imporre per legge alla nostra vita e incompatibile con la rappresentazione che ha dato di se stesso agli elettori.

Questo è già un problema di difficile soluzione per Berlusconi, ma non appare più il cuore dello scandalo. La gravità del caso politico - da affrontare con urgenza alla Camera e al Senato, nel luogo "politico" per eccellenza, - si annuncia nella sventatezza con cui il capo del governo assolve alle sue responsabilità pubbliche e si radica nella sua vulnerabilità. Un controllo delle date delle "feste" a Palazzo con gli impegni pubblici del presidente del Consiglio svela come, a volte, il premier viene meno ai suoi doveri istituzionali per non rinunciare ai suoi piaceri privati.

La serietà della questione è soprattutto, però, nella vulnerabilità che oggi circonda la sua persona e il suo ufficio. Il via vai di prostitute a Palazzo Grazioli, le cene, le feste, il sesso, le orge, insomma le abitudini di vita e il veleno della satiriasi espongono con tutta evidenza Silvio Berlusconi a pressioni e tensioni che nessuno è in grado oggi di immaginare. Nemmeno il presidente del Consiglio. Nemmeno l'occhiuta "squadra" dei suoi collaboratori più stretti che finora ha pensato di uscire dall'angolo in cui il premier si era cacciato da solo con le intimidazioni all'informazione, le pressioni sui possibili testimoni, i trucchi di sottomesse burocrazie della sicurezza.

Che l'Egocrate si fosse cacciato in un guaio che, con il tempo, sarebbe diventato catastrofico, è stato chiaro quando Patrizia D'Addario ha mostrato le fotografie e le registrazioni raccolte nella notte trascorsa con il premier. Ora Gianpaolo Tarantini completa il disegno e quel che si vede è esattamente quel si intuisce e si racconta da mesi. Un giovanotto ambiziosissimo, uomo d'affari temerario e cinico grimpeur sociale, fa leva sulle ossessioni personali di Berlusconi (ritorniamo a chiederlo, dopo la denuncia pubblica della moglie: quali sono le sue condizioni di salute?) per avvicinarlo, blandirlo, conquistarne l'attenzione e l'amicizia.

Tarantini ingaggia prostitute per il premier. Le accompagna nel suo Palazzo. Le rimborsa con moderazione e le paga, generoso, se fanno sesso con Berlusconi che finge di non sapere, non vedere, non capire. In qualche occasione, Tarantini offre alle "ragazze" (e lo ammette) della cocaina per ricompensarle. In cambio, il giovanotto, diventato prosseneta, chiede al capo del governo buoni contatti e autorevole influenza per chiudere affari con lo Stato. Il capo del governo glieli offre.

Sesso, prostituzione, affari, droga. In questo ambiente è precipitato Silvio Berlusconi, per un'intima fragilità irrisolta e denunciata per tempo da Veronica Lario. Da questo ambiente possono saltar fuori molti intrighi e troppi ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un'impunità eterna. Se ieri il tentativo di liquidare quest'affare come "spazzatura" e violazione della privacy era malinconico, oggi è irresponsabile. La vita disordinata che ha condotto - e che, secondo alcune fonti, ancora conduce in palazzi più appartati - rende Silvio Berlusconi pericolosamente esposto a coercizioni e vulnerabile alle pressioni.

Questa sua debolezza non è un "affare di famiglia" (ammesso che lo sia mai stato), ma interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale. Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente o addirittura compromettere il capo del governo? Le amiche di Tarantini, se il giovanotto ha detto il vero, sono più o meno trenta. Come Patrizia D'Addario, qualcuna tra loro ha conservato imbarazzanti documenti sonori o visivi di Berlusconi? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni - e magari le registrazioni e le immagini - in loro possesso? Senza voler considerare, poi, che Gianpaolo Tarantini è stato soltanto uno - uno solo - dei ruffiani del presidente, l'ultimo arrivato, il più arruffone a quanto pare.

Il lento ma inesorabile disvelamento della vita disordinata di un premier attossicato dalla sexual addiction deve pure trovare un punto di arrivo con un chiarimento pubblico se non si vuole trascinare nel baratro - con la reputazione di Berlusconi - anche la credibilità delle istituzioni. I costi pagati dal rifiuto del capo di governo a illuminare ciò che ancora oggi è oscuro non possono essere illimitati. Per evitare di chiarire i suoi rapporti con una minorenne, è salito su un ottovolante di dinieghi, abusi, aggressività, conflitti brutali che non gli ha portato e non gli può portare fortuna. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne lo hanno costretto a mentire in televisione.

Quella menzogna non l'ha avuta vinta e sono saltati fuori i portfolio che vengono consegnati a Berlusconi per scegliere i "volti angelici"; la cerchia dei ruffiani che gli riempie il Palazzo e la Villa di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita; la confessione di una prostituta pagata per una cena e per una notte di sesso con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale; intercettazioni telefoniche (un centinaio) con cui gli vengono annunciate "brune" e "bionde", indimenticabili che giustificano la diserzione del premier da un appuntamento ufficiale. Fino a quando potrà durare il silenzio dell'Egocrate? Che cosa lo costringe a mentire o gli impone di tacere? Non sono una via di uscita - ieri ce n'è stato un altro - gli ininterrotti flussi verbali, uguali nelle parole, nei gesti, nelle pause, nell'inutilità di guadagnare il rispetto che ha perduto. Che cosa deve ancora accadere perché Berlusconi trovi la forza, il coraggio, l'assennatezza di offrire al Paese quella verità su se stesso che ancora oggi rifiuta? La crisi personale di una leadership può diventare, per ostinazione di un narciso smarrito, discredito di una nazione? Il dramma di un uomo e di una leadership può diventare la tragedia di un Paese? Vada in Parlamento, finalmente, e si racconti, ci racconti. Non può cavarsela consigliando, al solito, di non leggere i giornali. L'informazione non ha altra possibilità che continuare a raccontarlo. La questione è se Berlusconi può raccontare se stesso. In pubblico e senza complicità.

(10 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Escort, festini, minorenni le dieci menzogne del Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:28:19 am
IL COMMENTO

Escort, festini, minorenni le dieci menzogne del Cavaliere


di GIUSEPPE D'AVANZO


DICE l'Egoarca che è stufo e replicherà "colpo su colpo". Dice, e sembra una sfida: "Venitemi a dire che non rispondo alle domande, siano quelle di Repubblica o di El Paìs". Più che rispondere, Silvio Berlusconi sfoggia - non è una novità, è la magia che gli riesce meglio - una sapienza stupefacente nell'uso della menzogna che manovra in ogni direzione. Ora nasconde la verità, ora la inventa di sana pianta, ora la nega contro ogni evidenza, ora la deforma secondo convenienza. Se si analizzano i nove minuti della perfomance autistica e autocelebrativa della Maddalena, dinanzi uno Zapatero sgomento, salta fuori un catalogo di dieci menzogne (e una sorprendente verità che gli sfugge inconsapevolmente).

1. La prima menzogna. L'Egoarca non risponde alle domande di Repubblica. Ne dimentica alcune. Due soprattutto suggerite dall'allarme della donna che lo conosce meglio, la moglie. Veronica Lario dice che Berlusconi "frequenta minorenni" e "non sta bene". Il capo del governo si tiene lontano da terreni che devono apparirgli minati. È stato documentato che ha frequentato due minorenni (Noemi e Roberta), invitate a Villa Certosa, senza i genitori nei giorni di Capodanno 2009. Noemi Letizia, minorenne, lo ha accompagnato a una cena del governo. C'è altro? Silenzio. Berlusconi non osa affrontare la questione della sempre più evidente sexual addiction che lo costringe a una vita sconveniente e pericolosa.

2. Berlusconi nega che nelle sue residenze ci siano "feste e festini". Dice che, come leader del suo partito, "fa una serie di incontri con i rappresentanti e le rappresentanti di organizzazioni politiche, come i circoli "Meno male che Silvio c'è"". È una bugia. Da quel che è stato documentato dall'indagine di Bari, dalle testimonianze di Tarantini e di alcune "ospiti" retribuite, gli appuntamenti notturni del premier non prevedono né discussione politiche (si parla soltanto dei successi dell'Egoarca, se ne ammirano gli interventi in giro per il mondo, si ride della sue barzellette) né la partecipazione di comitati di fans. Un cerchio stretto di ruffiani e ruffiane invita a Palazzo o in Villa ragazze ambiziose o professioniste del sesso che accettano di passare la notte con il presidente.

3. Dice l'Egoarca: "Non è vero che ho candidato "veline". Abbiamo fatto un corso per giovani laureate che volevano diventare assistenti di eurodeputati e ne abbiamo individuate tre con grandi capacità". È una menzogna. Il "corso" è stato organizzato per preparare candidati e candidate al Parlamento di Strasburgo, come hanno confermato nel tempo i ministri che vi hanno preso parte come docenti. È stato un corso di formazione dove la presenza di "veline" era così appariscente da essere raccontata con molti particolari dai giornali (ohibò!) della destra. Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una "velina" alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12 si legge che "Barbara Matera punta a un seggio europeo". "Soubrette, già "Letterata" del Chiambretti c'è, poi "Letteronza" della Gialappa's, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri, la Matera, scrive il Giornale, "ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. "Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto"". "E si vede", commenta il giornale di casa Berlusconi. Il secondo giornale che svela "la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare" è Libero, il 22 aprile. A pagina 12, le rivelazioni: "Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore" è il titolo. "Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl" è il sommario. I nomi della candidate che si leggono nella cronaca di Libero sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e "una misteriosa signorina" lituana, Giada Martirosianaite. Sono questi nomi, questi metodi a sollevare le critiche della fondazione farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini. La politologa Silvia Ventura avverte che "il "velinismo" non serve: assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare. Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole". "Ciarpame senza pudore", aggiunge Veronica Lario.

4. Dice l'Egoarca: "[Con Patrizia D'Addario] mi sono comportato come si deve comportare secondo me ogni padrone di casa". Quel che si sa del primo incontro di Berlusconi smentisce la correttezza di un padrone di casa consapevole di avere accanto una prostituta. "Che Patrizia fosse una escort, quella sera, lo sapevano tutti", dice Barbara Montereale, anche lei ingaggiata dal ruffiano del presidente, Gianpaolo Tarantini. C'è una traccia della consapevolezza del presidente. L'Egoarca "stropiccia" subito Patrizia D'Addario seduta accanto a lui sul divano, dinanzi agli uomini della sua scorta. Nel primo incontro, le propone di visitare la camera da letto in compagnia di altre due ragazze. La sollecita a entrare nel "lettone di Putin". La D'Addario rifiuta.

5. Dice l'Egoarca: "Nella patria di Casanova e dei playboy, la gioia più bella è la conquista. Se tu paghi che gioia ci potrebbe essere?". È una menzogna. Come Barbara Montereale, la D'Addario è stata ricompensata con una candidatura politica (doveva entrare nelle liste Europee, ottenne poi uno spazio per le elezioni comunali di Bari). Alla D'Addario Berlusconi promise anche un intervento politico per sistemare un affare edilizio. Corrispettivi dello scambio sesso-potere. Quando si alleggeriranno le pressioni corruttive e le intimidazioni sulle ragazze, anche straniere, ospiti di Villa Certosa (e immortalate dalle immagini di Salvatore Zappadu) si potrà forse riferire quello che alcune testimoni hanno raccontato: e cioè come Berlusconi distribuisse egli stesso alle falene le buste con il denaro. Si potrà dire della regola imposta come assoluta di non parlare "mai, mai" con le altre ragazze del denaro ricevuto perché in quelle buste il numero delle banconote non era sempre uguale, duemila, cinquemila, diecimila euro. Il "sultano" premiava la performance, a quanto pare.

6. Dice Berlusconi: "Un imprenditore di Bari, Tarantino o Tarantini, era venuto ad alcune cene facendosi accompagnare da belle donne. Erano ragazze che questo signore portava come amiche sue, come sue conoscenti". È stupefacente che il capo del governo finga di non ricordare il nome del suo ruffiano e banalizzi ora un'intensa amicizia. Le intercettazioni delle loro conversazioni - e soprattutto la loro frequenza - contraddicono le sue parole. Tarantini e Berlusconi si sentivano anche dieci volte al giorno e nei brogliacci della procura della Repubblica ci sono decine e decine di telefonate. Nessun reato, dice ora il procuratore di Bari. In ogni caso, lo scambio tra il presidente del consiglio e il suo ruffiano è chiaro: l'Egoarca chiede "belle donne", Tarantini (pagandole) gliele procura. In cambio, il ruffiano conta sull'influenza del premier per concludere affari. Forse non c'è reato, ma il baratto può dirsi limpido per la rispettabilità delle istituzioni e neutro per la gestione della cosa pubblica?

7. La settima menzogna custodisce una singolare verità. Dice Berlusconi: "Io sono stato vittima di un attacco di una persona [la D'Addario] che ha voluto creare artatamente uno scandalo". L'Egoarca non si rende conto di confermare una delle questioni più rilevanti di questo caso: la sua vulnerabilità. Una vita disordinata e sconveniente per il decoro e l'onore della responsabilità pubblica che ricopre lo ha reso fragile, ricattabile. È falso che la D'Addario lo abbia ricattato (ha solo risposto a un pubblico ministero che la interrogava offrendo documenti sonori che da sempre maniacalmente raccoglie in ogni occasione). È vero che Berlusconi sia ricattabile. Quante sono le ragazze che possono minacciarlo? Il via vai di prostitute a Palazzo Grazioli, le cene, le feste, il sesso, le orge, le sue abitudini di vita e il veleno della satiriasi espongono con tutta evidenza Silvio Berlusconi a pressioni e tensioni che nessuno è in grado oggi di immaginare.

8. Dice l'Egoarca: "L'informazione buona è la tv". L'informazione televisiva, controllata direttamente o indirettamente dal capo del governo, è stata pessima. Si è trasformata in una "macchina del silenzio" che ha negato a sette italiani su dieci le notizie più elementari e comprensibili di un "caso" che ha screditato e scredita in tutto il mondo il presidente del consiglio e, con lui, il nostro Paese. E tuttavia è stata proprio la televisione a fargli lo scherzo più maligno. A maggio l'Egoarca va a Porta a porta per spiegare "veline" e Noemi. Infila un rosario di bugie e contraddizioni che, dopo mesi, ancora lo soffocano. Quando si accorge dell'errore, ritorna davanti alla telecamere per dire un'altra bubbola strabiliante: "Non ho detto niente".

9. Berlusconi dice: "Non c'è alcuno scontro con la Chiesa". La menzogna è contraddetta dall'impossibilità oggi per Berlusconi di incontrare il Papa, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, il presidente dei vescovi italiani Angelo Bagnasco. Una difficoltà acutizzata dal character assassination del direttore dell'Avvenire, Dino Boffo (accusato dal giornale del premier di omosessualità con un falso documento giudiziario). Le parole più severe contro Berlusconi sono state pronunciate dal segretario generale della Cei, il vescovo Mariano Crociata: "Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati. Soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio". Buoni rapporti?

10. Dice Berlusconi: "Credo di essere di gran lunga il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni". Bè, questa è davvero la menzogna più grossa.

(12 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il coltello del potere
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2009, 10:20:13 am
IL COMMENTO

Il coltello del potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


Ora che si annuncia il character assassination di Gianfranco Fini, come per la brutale liquidazione del direttore dell'Avvenire, non tiene conto discutere di chi preme il grilletto.

Quel che conta è mettersi dinanzi la figura del mandante, le ragioni della sua mossa intimidatoria per fermare l'immagine della scena distruttiva in cui siamo precipitati. Quel che accade, non c'è altro modo per dirlo: Silvio Berlusconi, con il suo giornale, avverte il partner che, en passant, è anche la terza carica della Repubblica. Lo minaccia con formule che fanno venire il freddo alla nuca: "Ultima chiamata per Fini... Fini ha l'esigenza immediata di trovare una ricollocazione: o di qua o di là. Non gli è permesso... Deve risolversi subito... E ricordi che, bocciato un Lodo Alfano, se ne approva un altro". E infine, lo scintillio del coltello: "Ricordi che delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio. Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. E' sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme".

Nella "strategia della tensione" (le Monde), inaugurata per l'autunno dal capo del governo, il giornalismo diventa strumento di intimidazione e minaccia. Ce ne possiamo meravigliare? L'avevamo già visto all'opera contro Dino Boffo, quel giornalismo assassino. Quel che conta è scorgere dietro quell'alterazione dell'informazione, la manovra politica, seguire i passi del manovratore. Anche quel dispositivo si era avvistato per tempo. Dopo il rimescolamento nell'informazione controllata direttamente o indirettamente dall'Egoarca, era già chiaro in luglio che sarebbe cominciato il tempo dell'aggressività. Non era difficile prevedere che una stagione di prepotenza avrebbe demolito deliberatamente i non-conformi, degradato i perplessi, umiliato gli antagonisti. Dentro la maggioranza o nell'opposizione. Dentro la politica o fuori della politica. Nel mondo dell'impresa, della società, della cultura, dell'informazione. Nessuno oggi - si deve aggiungere - può dirsi al sicuro dalle ritorsioni dell'Egoarca. Non lo è stata la moglie del premier, la madre dei suoi figli, che per prima ha subito un mortificante rito di degradazione. Non lo è stata la Chiesa dei vescovi italiani, umiliata con le accuse taroccate al direttore dell'Avvenire. Ora tocca al presidente della Camera al quale viene interdetto, con la minaccia di "uno scandalo", di manifestare il proprio pensiero, che poi dovrebbe essere un suo diritto costituzionale. Vale la pena di parlare di Costituzione. Nel lavoro assegnato dal capo del governo al suo giornale, c'è innanzitutto la distruzione dei principi della Carta. L'Egoarca sa che la Corte costituzionale potrebbe cancellare la legge che lo rende immune e fa sapere che se ne impiperà. Farà approvare una nuova legge. Disporrà che sia "immediatamente in vigore". I giudici sono avvisati. Del Parlamento l'Egoarca non se ne cura, è un trascurabile accidente. Se il presidente della Camera ritiene di doversi mettere di traverso, magari rispettando i regolamenti, sappia che finirà nel tritacarne di uno scandalo che non c'è, ma che i media controllati faranno credere vero e infamante. Fini è anche co-fondatore del partito del presidente del Consiglio, è un uomo libero che liberamente - anche se in contrasto con il partner politico - esprime le sue convinzioni su temi (immigrazione, fine-vita) sensibili e controversi. Il presidente del Consiglio gli fa sapere che deve tacere, adeguarsi, rendere le sue idee conformi. In caso contrario, la "macchina della calunnia", che ha organizzato in Sardegna e ad Arcore quest'estate, lo stritolerà.

Il paradigma che informa, in questa stagione, l'Egoarca è soltanto un fragoroso, orientale abuso del potere. Berlusconi ha rinunciato anche all'obiettivo dichiarato di ridurre i poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella sua figura di premier cancellando il quadro politico dove competono le forze sociali e politiche, rivendicando le sue decisioni direttamente in televisione in nome della legittimità conquistata con il voto. Oggi, Berlusconi non reclama più nemmeno la legittimità di quel potere. Preferisce mostrarne, senza alcuna finzione ideologica, con immediata concretezza, soltanto la violenza pura. Gli interessa soltanto alimentare l'efficienza di una macchina di potere che non vive di idee, progetti, discussioni, riforme, alterità, ma di brutalità, imperio, conformismo e terrore. Quel che si intravede è un uomo solo, circondato da cattivi consiglieri, prigioniero di una sindrome narcisistica, incapace di fare i conti con una realtà che non controlla più, che non riesce più annullare. Illiberale fino alle midolla, avverte il declino e vede ovunque oscuri pericoli. Nella stampa estera, nelle cancellerie europee, nell'Ue, tra i suoi alleati di governo e di partito, nelle gerarchie ecclesiastiche, nella magistratura, nell'informazione pubblica. Ogni dissenso - anche il più motivato e amichevole - gli appare un atto persecutorio cui replicare "colpo su colpo". Questa deriva rende oggi Silvio Berlusconi un uomo violento e pericoloso. Nella sua crisi trascinerà lo Stato che rappresenta. Lo abbiamo già detto e ogni giorno diventa più vero. La scena in cui siamo precipitati è la decadenza di un leader che non accetta e non accetterà il suo fallimento. Trascinerà il Paese nella sua sconfitta, dividendolo con l'odio.

(15 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il ruffiano e il presidente
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 10:31:45 am
L'ANALISI.

Quel tentativo disperato di chiudere il caso escort

Dalle mosse dei magistrati gli ultimi guai di Tarantini

Il ruffiano e il presidente

di GIUSEPPE D'AVANZO


Gianpaolo Tarantini deve essersi detto: faccio così, ammetto negli interrogatori quel che non posso negare o contraddire e dunque le feste a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa; il pagamento delle prostitute che infilavo nelle cene e nel letto di Silvio Berlusconi; l'uso della cocaina che a decine di grammi distribuivo nelle mie feste private. Confesso i legami cuciti - sempre attraverso notti di sesso nella garçonniere all'angolo Extramurale Capruzzi, a Bari - con gli amministratori regionali di sinistra, come quel Sandro Frisullo. Lascio capire che anche quel D'Alema - sì, quel D'Alema - l'ho avuto a tavola o in barca.

"Qualche volta" dico, alludendo a un'amicizia che purtroppo non è mai nata. Concludo che qualche affaruccio me n'è venuto - è vero, diciamo una certa "visibilità con i primari" che poi mi dovevano comprare le protesi che vendevo - ma poi niente di che, tutto sommato. Chiedo il patteggiamento (due anni di pena) ed esco da questa storia un po' ammaccato e con qualche benemerenza da mettere sul tavolo nella mia seconda vita. Ho soltanto 35 anni, no? Un merito sarebbe stato sicuro e consistente, deve aver pensato Tarantini. Se patteggio, tengo fuori dai guai "il Presidente" perché nessuno potrà più ficcare il naso nelle decine e decine di telefonate tra me e lui - intercettate, purtroppo. Quelle chiacchiere, sì che lo metterebbero in imbarazzo.

La strategia di difesa di Tarantini è legittima, come tante altre. Si sbriciola dinanzi al rifiuto del pubblico ministero. Che nega il patteggiamento (applicazione della pena su richiesta delle parti) perché - dice il procuratore di Bari, Antonio Laudati - "l'attendibilità delle dichiarazioni dell'indagato deve essere verificata con ulteriori accertamenti. È vero, ho detto che, leggendo i verbali sui giornali, appare evidente che non ci sono responsabilità del presidente del Consiglio, ma le indagini non sono terminate e si deve verificare quanto è stato raccontato. Lo faremo in tempi rapidi".

Le parole del procuratore devono aver spaventato Tarantini, e non soltanto Tarantini. Che era nei guai e ci si ficca ancora più a fondo, a testa in giù. Comincia (sostiene la guardia di finanza) a trafficare con i testimoni e con le prove. Se le aggiusta per rendere attendibili, per i magistrati, i suoi ricordi. Forse, progetta una fuga all'estero per tirare il fiato e alleggerire la pressione in attesa di una luna migliore. Si vedrà se gli investigatori hanno visto giusto.

Nell'attesa, alla mossa di Gianpi, la procura ne oppone un'altra, tattica e astuta. Non ne chiede l'arresto, ma soltanto il fermo. Quindi, è obbligata a consegnare al giudice delle indagini preliminari, che dovrà convalidarlo, soltanto qualche pezzullo di carta che documenta il pericolo di fuga o l'inquinamento probatorio e nulla di più. Lo scrigno delle fonti di prova già raccolte resterà chiuso e quindi, per il momento, le intercettazioni del presidente del Consiglio, le testimonianze delle giovani falene che hanno trascorso la notte a Palazzo o in Villa, gli amici di Gianpi che tiravano su la cocaina che egli dispensava con generosità, le tracce dei traffici sanitari resteranno ben protette.

* * *

Un'indagine penale non è soltanto l'accertamento di responsabilità personali (come sembra credere Ernesto Galli Della Loggia), è anche teatro, memoria collettiva, luce che illumina il mondo, che rivela pratiche, passioni, coraggio, debolezze, irresponsabilità, che racconta la tenuta di regole e dispositivi che evitano anarchia e soprusi e fanno ordinato il nostro vivere insieme. È un ordigno che riesce a dirci, qualche volta, e spesso non in modo esaustivo, dove viviamo, che cosa vi accade, con chi abbiamo a che fare. Da questo punto di vista, la storia di Gianpaolo Tarantini non è questo termitaio dai corridoi intricati.
<b>Il ruffiano e il presidente</b>

Gianpi è in affari e s'è fatto ruffiano per accrescerli. Tutto qui, in soldoni. La sua intuizione è che, nell'Italia di oggi, il potere del sesso - l'influenza che può avere sugli uomini che governano il Paese o una Regione o un'Azienda sanitaria - ha la stessa energica forza corruttiva del denaro, grimaldello decisivo per gli affari neri degli anni novanta. È acuto il fiuto del giovanotto che forse avrà studiato anche psicologia sociale nel suo master in marketing all'università di Herisau, nello svizzero Canton Appenzello. L'intuizione, comunque, è subito vincente a Bari. Sandro Frisullo, vicepresidente regionale, abbocca all'amo di Tarantini. Gianpi gli organizza in un appartamento in affitto in via Giulio Petroni, angolo via Extramurale Capruzzi, incontri sessuali ora con Terry De Nicolò ora con Vanessa Di Meglio, ricompensate con cinquecento euro.

Tarantini attende l'arrivo dell'amico. Cenano in tre. Al caffè, Gianpi si leva di torno. Le chiama "attenzioni" non corruzione. "Le attenzioni da me avute per Frisullo mi hanno consentito - dice - di essere presentato al dottor Valente, direttore amministrativo dell'Asl di Lecce. Chiedevo un'accelerazione dei pagamenti per le prestazioni effettuate dalle mie aziende e l'esecuzione di una delibera adottata in materia di acquisto di tavoli operatori. So che Frisullo ha rappresentato più volte le mie esigenze a Valente ed io personalmente ne ho parlato con lo stesso Valente. I pagamenti sono avvenuti anche se comunque in ritardo, altrettanto per la delibera. La frequentazione di Frisullo mi serviva soprattutto per acquistare visibilità agli occhi dei primari che portavo da Frisullo".

* * *

Il metodo funziona, dunque. Tarantini decide di fare un salto, il gran salto, l'avventurosa capriola verso un sorprendente, inatteso successo. Dice a se stesso che se la sua intuizione è efficace in Puglia perché non deve esserlo altrove. Magari a Roma, nella Capitale, e con l'uomo che ha in mano in Paese? Dicono che le cose siano andate così. Non è stato il giovane ruffiano a bussare alla porta di Berlusconi, ma - scaltro, forse già conosce le debolezze del presidente - Tarantini è riuscito a giocare con Berlusconi come il gatto con il topo.

Accade nell'estate del 2008. Tarantini affitta, pagando centomila euro al mese (pare), la villa Capriccioli, a cinque minuti da Porto Cervo e non troppo lontano dalla Villa Certosa del capo del governo. A quel punto è un gioco da ragazzi - anche se molto, molto costoso - riempire la casa, il giardino, la spiaggia di bellezze, di cocaina, di allegria e risate e poi attendere, immobile come un ragno. Il calabrone cade nella rete. Pare che l'Egoarca non se ne capacitasse e il suo grandioso senso del sé ne fosse ferito: quelle giovani donne non si dirigevano alla Certosa, ma altrove, da un altro. Chi diavolo è questo "Gianpi" di cui tutti parlano quest'estate? Berlusconi chiede di sciogliere l'arcano a Sabina Beganovic, "l'ape regina" (Dagospia), donna così fidata da essersi tatuata su un piede "S. B. l'uomo che mi ha cambiato la vita". La Beganovic torna dall'Egoarca con le informazioni giuste e Tarantini ha finalmente accesso a corte. Con lui, le sue "ragazze".
"Io - sostiene oggi il giovanotto - ho voluto conoscere il presidente Berlusconi e mi sono sottoposto a spese notevoli per entrare in confidenza con lui e, sapendo del suo interesse per il genere femminile, non ho fatto altro che accompagnare da lui le ragazze che presentavo come mie amiche tacendogli che a volte le retribuivo". Berlusconi gradisce molto e consente a Tarantini di coltivare un sogno di potenza: perché rinchiudersi nel piccolo recinto degli affari sanitari pugliesi e non pensare in grande? Perché non diventare, grazie all'amicizia con "il Presidente", un imprenditore di carattere nazionale, europeo o, perché no?, un lobbista per tutte le decisioni che "il Presidente" può favorire, per i business che l'intervento del "Presidente" può rendere fluidi e vincenti?

L'impresa non pare impossibile a Tarantini. Bisogna investire un po' di denaro, pagare le prostitute, accompagnarle a Palazzo Grazioli. Che ci vuole? La difficoltà semmai è avere sempre le "ragazze" a disposizione perché, si sa com'è "il Presidente", magari chiama nella tarda mattinata, prima o dopo un Consiglio dei ministri, e vuole che a sera - dopo un paio d'ore, maledizione - la festa sia organizzata. Ci sono giorni che Gianpi è come fuori di testa. Lo vedono agitato e inquieto come una mosca contro un vetro. Ha chiamato "il Presidente" e lui non ha disposizione quel che serve. Telefona, ritelefona, chiama e richiama questo, quello, chiunque possa aiutarlo, chiunque conosca almeno "una donna immagine che all'occorrenza avrebbe potuto anche effettuare prestazioni sessuali". Così ingaggia, il 16 ottobre, Patrizia D'Addario.

Gianpi riesce sempre a cavarsela con un salto mortale. Per non farne più, e rompersi il collo, comincia a corteggiare con accorti regali la rete di "ragazze" controllate, per così dire, da Sabina Beganovic. Forse per ingraziarsele, le rifornisce di cocaina, in palazzi sbagliati, off-limits. Non ne possono venire che guai che, infatti, non mancano. Il 20 dicembre del 2008, l'"ape regina" perde la pazienza, telefona a Gianpi (intercettato) e lo affronta a muso duro.

Sabina. "Hai capito Gianpaolo, che cazzo fai? Mandi alla gente regali e metti a me in una bruttissima situazione. Cioè io non so niente e tu ti spacci per mio amico ... Per favore, non mi mettere in questa situazione"

Gianpaolo. "Io non l'ho fatto perché ti voglio sorpassare".

Sabina. "Ma figurati, non fare il furbo con me... Non mi mettere nei casini. Non fare il paraculo con me".

Gianpaolo. "Io non ho mai portato niente".

Sabina. "Ah bello!, io ho i testimoni. Ti ho detto: non fare il furbetto con me".

* * *

I conflitti con Sabina Beganovic non impediscono, in cinque mesi, a Tarantini (come ammette) di accompagnare trenta "ragazze" a diciotto cene del Presidente. Non tutte sono state pagate, non tutte sono prostitute, anche se in qualche caso "non disdegnano di essere retribuite per prestazioni sessuali". Gianpi tocca "il cielo con un dito". È nelle grazie del Presidente, finalmente. Può chiedergli di incontrare Guido Bertolaso per certe sue ambizioni (che, dice, ambizioni resteranno). Tarantini è il compagno fisso del "Presidente" in spensieratezze notturne, così appassionate da convincere il capo del governo a saltare qualche impegno pubblico. Come (lo racconta l'Espresso in edicola) tra il 23 e il 28 settembre. Le cose vanno così.

Il 23 settembre iniziano i lavori delle Nazioni Unite. Ci sono i leader del mondo. Durante la prima giornata parlano George W. Bush, Nicholas Sarkozy, il presidente iraniano Ahmadinejad. Gianpi a Roma ha organizzato per il premier una festicciola con Carolina Marconi, Francesca Garasi, Geraldine Semeghini, Terry De Nicolò. Ci si diverte e si fa presto a vedere l'alba. Il giorno dopo (mercoledì) Berlusconi decide di non partire più per il Palazzo di Vetro. Diffonde una buona ragione. Patriottica e irreprensibile. Deve seguire da vicino la crisi dell'Alitalia. Se ne stufa presto, però, ammesso che ne abbia mai avuto l'intenzione. In gran segreto raggiunge il castello di Torre Errighi, nei pressi di Melezzole di Montecchio di Terni e Health Center di Marc Méssegué, riaperto per la sua improvvisa visita. "Berlusconi di fatto scompare dai radar per cinque giorni" scrive l'Espresso. Frattini e Letizia Moratti sono costretti a presentare da soli l'Expo 2015 di Milano mentre Gianni Letta, sostenuto da Walter Veltroni, fa i salti mortali per far firmare la pace tra la Cai e i sindacati e salvare l'Alitalia.

L'indimenticabile settimana dell'Egoarca finisce così. Domenica 28 un elicottero della protezione civile lo accompagna dal castello di Torre Errighi a Ciampino, dove prosegue per Milano, destinazione San Siro. C'è il derby, e sugli spalti "il Presidente" è in compagnia di Tarantini. Gianpi ha con sé una nuova ragazza. La chiamano l'Angelina Jolie di Bari. Si chiama Graziana Capone, che racconta il post-partita: passeggiata in auto, arrivo ad Arcore, cena e festino con una decina di ragazze. Il Milan ha vinto uno a zero, il premier è euforico. "Abbiamo tirato fino a tardi, le quattro forse, qualcuna si è addormentata sul divano" (Repubblica). Il fastidio alla schiena del Presidente non c'è più, come per un miracolo. Dopo poche ore di sonno, Berlusconi può festeggiare di nuovo sul lago Maggiore i suoi settantadue anni in una scena, questa volta tutta familiare. "Ora resto a lavorare - dice ai giornalisti - Nessuna festa serale, perché abbiamo già festeggiato oggi" (l'Espresso).

* * *

Tarantini oggi vuole riuscire nell'impresa di liberarsi con il minimo danno dalle sei inchieste che lo coinvolgono senza danneggiare il presidente del Consiglio. Un'altra avventurosa capriola. Dice: "Ho fatto una cavolata, sono stato uno stupido. Quando ho avuto la possibilità di conoscere Berlusconi, ho toccato il cielo con un dito. Non mi sembrava vero. Poi l'ho conosciuto sul piano personale, con la sua simpatia, il suo calore umano, il suo rispetto per gli altri, la sua genialità. Davvero irresistibile. E ho creduto che sarebbe stato più facile frequentarlo facendomi accompagnare da bellissime ragazze. Gli chiedo scusa" (il Giornale). Gianpi non deve essere stato sollevato quando ha sentito "il Presidente" fingere dalla Maddalena di non ricordare nemmeno il suo cognome. "Un imprenditore di Bari, Tarantino o Tarantini, era venuto ad alcune cene facendosi accompagnare da belle donne. Erano ragazze che questo signore portava come amiche sue, come sue conoscenti".

Tutto cancellato, dunque? Come se quei fantastici mesi di feste, scorribande, canti, barzellette, cene, belle donne in tubino nero e trucco leggero, passioni, sesso non fossero mai esistiti. Come se le decine e decine di conversazioni telefoniche tra lui e "il Presidente" - quanto pressante, a volte - non ci fossero mai state. Come se il sogno di Tarantini fosse soltanto il delirio di un provinciale convinto che il potere del sesso è quel che serve oggi per fare affari e addirittura chiudere in una rete di ragno, quel calabrone del capo del governo. "Utilizzatore finale" - certo - ma anche complice del ruffiano (le intercettazioni documentano la sua disponibilità per i maneggi del giovanotto) e regista di uno spettacolo di cui era unico protagonista, unico spettatore, il solo impresario.

Può essere anche che finisca senza conseguenze la ricostruzione giudiziaria, si vedrà, ma quel che ci racconta quest'indagine penale è altro e ben visibile. Ci dice dove viviamo, che cosa vi accade, con chi abbiamo a che fare e non è sempre necessaria una sentenza della magistratura per comprendere e giudicare. Spesso, basta soltanto buon senso e un miccino di onestà.

(19 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Berlusconi chiama la politica a difesa del suo patrimonio
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2009, 10:04:25 pm
L'ANALISI.

Berlusconi chiama la politica a difesa del suo patrimonio

Metà del Paese chiamata a sostenerlo per un episodio di corruzione

E il premier trasforma in complotto un'ordinaria storia di malaffare

di GIUSEPPE D'AVANZO


La politica, per Silvio Berlusconi, è nient'altro che il modo più efficace per accrescere e proteggere il suo business. È sempre stato così fin da quando, neolaureato fuori corso in giurisprudenza, si dà agli affari. Forte di legami politici con le amministrazioni locali e regionali - e qualche "assegno in bocca" - diventa promotore immobiliare. La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale. La collusione con la politica - la corruzione d'un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari - gli permette di ottenere, dal presidente del consiglio corrotto, due decreti d'urgenza e, dal parlamento, una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest. Non proprio un prometeo dell'economia, nel 1994 è in rotta e fallito (gli oneri del debito della Fininvest - 4000 miliardi di lire - superano l'utile operativo del gruppo).

Ha perso però i protettori travolti dal malaffare tangentocratico e s'inventa "imprenditore della politica" convertendo l'azienda in partito. E' ancora la politica che gli consente di manomettere, con diciassette leggi ad personam, codici e procedure per evitare condanne penali per un variopinto numero di reati (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione) fino all'impunità totale della "legge Alfano" che gli assicura un parlamento diventato bottega sua (domani la Consulta ne vaglierà la costituzionalità).

Non c'è da sorprendersi allora se, condannato oggi al pagamento di un risarcimento di 750 milioni di euro per aver trafugato la Mondadori corrompendo un giudice, Silvio Berlusconi si nasconda ancora una volta dietro il paravento della politica. E' sempre la sua carta jolly per confondere le acque, cancellare i fatti, rendere incomprensibile quel che è accaduto, difendere - dietro le insegne dell'interesse pubblico - il suo interesse personale. Secondo un copione collaudato nel tempo, il premier anche oggi è lì a cantare la favola dell'"aggressione politica al suo patrimonio", dell'"assedio ad orologeria". Evoca, con le parole della figlia Marina (presidente di Mondadori), il "momento politico molto particolare". Piagnucola: "Se è così, chiudo". Minaccia (gli capita sempre quando è a mal partito) che chiamerà alle urne gli elettori, se sarà contrariato. Bisogna dunque dire se c'entra la politica, in questa storia della Mondadori. La risposta è sì, c'entra ma (non è un paradosso) soltanto perché salva Berlusconi dai guai (e non è una novità).

Ricapitoliamo. E' il giugno 2000. Berlusconi è accusato di aver comprato la sentenza che gli ha permesso di mettere le mani sul più grande impero editoriale del Paese scippandolo a Carlo De Benedetti (editore di questo giornale). Per suo conto e nel suo interesse, gliela compra l'avvocato e socius Cesare Previti (poi suo ministro). L'udienza preliminare del "caso Mondadori" ha un esito sorprendente: non luogo a procedere. E' salvo. Il pubblico ministero Ilda Boccassini si appella. La Corte le dà ragione, ma Previti e Berlusconi hanno destini opposti. Per una svista, i legislatori nel 1990 si sono dimenticati del "privato corruttore" aumentando la pena della corruzione nei processi soltanto per il "magistrato corrotto". Correggono l'errore nel 1992, ma i fatti della Mondadori sono anteriori a quell'anno e dunque Berlusconi è passibile della pena meno grave, da due a cinque anni (corruzione semplice), anziché da tre a otto (corruzione in atti giudiziari). Se ottiene le attenuanti cosiddette generiche, può farla franca perché il reato sarebbe estinto. La sentenza del 25 giugno 2001 le concede a Berlusconi, non a Previti che va a processo. Stravagante la motivazione che libera il premier: è vero, Berlusconi ha corrotto il giudice, ma si è adeguato a una prassi d'un ambiente giudiziario infetto e poi l'attuale suo stato "individuale e sociale" (si è appena insediato di nuovo a Palazzo Chigi) merita riguardi. Diciamolo in altro modo. Per i giudici non si possono negare le attenuanti, e quindi la prescrizione, a quell'uomo che - è vero - è un "privato corruttore" perché è "ragionevole" e "logico" che il mandante della tangente al giudice sia lui, ma santiddio oggi governa l'Italia, è ricco, potente, conduce la sua vita in modo corretto, come si fa a mandarlo a processo? Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione, affrontare il giudizio, dimostrare la sua estraneità, pretendere un'assoluzione piena o almeno testimoniare e dire perché ha offerto a Previti i milioni da cui attinge per pagare il mercimonio del giudice. Non lo fa, tace, si avvale della facoltà di non rispondere e il titolo indecoroso di "privato corruttore" gli resta appiccicato alla pelle.

Dunque, prima conclusione. La politica di ieri e di oggi non c'entra nulla se si esclude il salvataggio del premier, "privato corruttore". Bisogna riprendere il racconto da qui perché la favola dell'"aggressione politica al patrimonio" di Berlusconi si nutre di un sorprendente argomento: "Il processo non ha mai riguardato la Fininvest che si limitò a pagare compensi professionali a Previti".

Occorre allora mettere mano alle sentenze. C'è un giudice, Vittorio Metta, che già è stato corrotto da Previti per un altro affare (Imi-Sir). Viene designato come relatore dell'affare Mondadori. La designazione è pilotata con sapienza. Scrive le 167 pagine della sentenza in un solo giorno, ventiquattro ore, "record assoluto nella storia della magistratura italiana". In realtà, la sentenza è scritta altrove e da chi lo sa chi: "Da un terzo estraneo all'ambiente istituzionale", si legge nella sentenza di primo e secondo grado. Venti giorni dopo il deposito del verdetto (14 febbraio 1991), la Fininvest (attraverso All Iberian, il "gruppo B very discreet") bonifica a Cesare Previti quasi 2 milioni e 800 mila dollari (3 miliardi di lire). Su mandato di chi? Nell'interesse di chi? "La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell'interesse e su incarico del corruttore" scrivono i giudici dell'Appello che condannano Cesare Previti non perché concorre al reato di Vittorio Metta (il giudice), ma perché complice del "privato corruttore" (Berlusconi). "E' la Fininvest - conclude infine la Corte di Cassazione - la fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris", del baratto che consente a Berlusconi da diciotto anni di avere nella sua disponibilità la Mondadori.

Rimettiamo allora in ordine quel si sa e ha avuto conferma nel lungo percorso processuale, in primo grado, in appello, in Cassazione. Berlusconi è un "privato corruttore". Incarica il socius Previti di corrompere il giudice che decide la sorte e la proprietà della casa editrice. Previti ha "stabilmente a libro paga" Vittorio Metta. Il giudice si fa addirittura scrivere la sentenza. Ottiene "almeno quattrocento milioni" da una "provvista" messa a disposizione dalla Fininvest che "incassa" in cambio la Mondadori.

Questi i nudi fatti che parlano soltanto di malaffare, corruzione, baratterie, di convenienze privatissime e non di politica e mai di interesse pubblico. Di politica parla oggi Berlusconi per salvare se stesso. Come sempre, vuole che sia la politica a tutelare business e patrimonio privati. Per farlo, non rinuncia - da capo del governo e "privato corruttore" - a lanciare una "campagna" che spaccherà in due - ancora una volta - un'opinione pubblica frastornata e disinformata. Berlusconi chiede un'altra offensiva di plagio mediatico con il canone orientale delle tv e dei giornali che controlla e influenza: non convincere, non confutare, screditare. Il premier giunge a minacciare le elezioni anticipate, come se il suo destino fosse il destino di tutti e l'opacità della sua fortuna una responsabilità collettiva. Ripete la solita filastrocca che si vuole "manipolare con manovre di palazzo la vittoria elettorale del 2008 ed è ora che si cominci a esaminare l'opportunità di una grande manifestazione popolare". In piazza, metà del Paese. In difesa di che cosa? Si deve rispondere: in difesa della corruzione che ha consentito a Berlusconi la posizione dominante nell'informazione e nella pubblicità. E perché poi dovremmo tornare a votare? In difesa del suo portafoglio. L'Italia esiste, nelle intenzioni del capo del governo, soltanto se si mobilita a protezione delle fortune dell'uomo che la governa.

(5 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Lodo Mondadori: per il giudice Berlusconi «è corresponsabile»
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2009, 10:05:13 pm
Lodo Mondadori: per il giudice Berlusconi «è corresponsabile»


5 ottobre 2009


Silvio Berlusconi è «corresponsabile della vicenda corruttiva» alla base della sentenza con cui la Mondadori fu assegnata a Fininvest. Lo scrive il giudice Raimondo Mesiano nelle 140 pagine di motivazioni con cui condanna la holding della famiglia Berlusconi al pagamento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti. «È da ritenere - scrive il giudice - 'incidenter tantum' e ai soli fini civilistici del presente giudizio, che Silvio Berlusconi sia corresponsabile della vicenda corruttiva per cui si procede».

«Per mero scrupolo motivazionale - spiega ancora il giudice - è qui da aggiungere che la responsabilità della convenuta è qui impegnata perché la condotta del Berlusconi è stata all'evidenza posta in essere nell'ambito dell'attività gestoria di Fininvest, e cioè nell'ambito della cura degli interessi di quest'ultima».

Il giudice, nelle motivazioni della sentenza, scrive che «vale osservare che i conti All Iberian e Ferrido erano conti correnti accesi su banche svizzere e di cui era beneficiaria economica la Fininvest. Non è quindi
assolutamente pensabile - scrive Mesiano - che un bonifico dell'importo di Usd 2.732.868 (circa tre miliardi di lire) potesse essere deciso ed effettuato senza che il legale rappresentante, che era poi anche amministratore della Fininvest, lo sapesse e lo accettasse».
«In altre parole - conclude il giudice -, il tribunale ritiene qui di poter pienamente fare uso della prova per presunzioni che nel giudizio civile ha la stessa dignità della prova diretta (rappresentazione del fatto storico). È, come è noto, la presunzione un argomento logico, mediante il quale si risale dal fatto noto, che deve essere provato in termini di certezza, al fatto ignoto».

La stima del risarcimento. «Complessivamente - scrive inoltre il giudice - il danno patrimoniale si compone della somma di 284.051.294 euro a titolo di danno derivante dalle condizioni deteriori alle quali fu pattuita la spartizione del gruppo L'Espresso-Mondadori rispetto alle condizioni di una trattativa non inquinata dalla corruzione del giudice Metta. A questa somma si aggiungono 8.207.892 euro per danno da spese legali sostenute, e altri 20.658.276 euro per danno da lesioni dell'immagine imprenditoriale dell'attrice (la Cir, ndr)».

L'importo complessivo di 312.917.463 euro, secondo il giudice, «deve essere rivalutato dalla data di commissione dell'illecito che va fatta coincidere con quella del deposito della sentenza del 1991 della Corte d'Appello di Roma ed addizionata di interessi compensativi medi per un totale in moneta attuale di 543.750.834 euro per capitale e 393.693.680 euro per interessi compensativi medi e così per l'importo complessivo di 937.444.514 euro oltre ad interessi legali dal giorno della presente pronuncia al saldo».
Se questi sono i danni patrimoniali complessivi, il giudice ricorda però che la Cir «ha ragione» nella misura in cui, la corruzione di Metta ha reso imparziale il collegio che annullò il lodo arbitrale nel 1991 e quindi il danno subito è un danno cosiddetto «da perdita di chance». Vale a dire, spiega il giudice «posto che nessuno sa come avrebbe deciso una Corte incorrotta, certamente è vero che la corruzione del giudice Metta privò la Cir della chance di ottenere da quella Corte una decisione favorevole». Per questo il giudice ha riconosciuto alla Cir l'80% della somma quantificata in 937.444.514 euro che è pari a 749.955.611 euro.

5 ottobre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da ilsole24ore.com


Titolo: D'AVANZO Gridare al golpe: l'ultimo abuso di chi si crede padrone del Paese.
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:06:48 am
EDITORIALE

Gridare al golpe: l'ultimo abuso di chi si crede padrone del Paese

di GIUSEPPE D'AVANZO


Leggete con attenzione queste parole. Le diffondono nel primo pomeriggio i presidenti del gruppo del Popolo della Libertà alla Camera e al Senato, come dire la maggioranza politica che governa il Paese. Due i presidenti e due i vicari. Si chiamano Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino. Ricordate questi nomi ché parlano e gridano come oche in Campidoglio nel nostro interesse, a difesa della nostra democrazia. Ecco che cosa dicono e di che cosa, preoccupatissimi, avvertono gli italiani: "Mentre il governo Berlusconi affronta la realizzazione degli impegni assunti con gli elettori, si tenta di delegittimarne l'azione. Siamo certi che questo disegno non troverà spazio nelle istituzioni. Gli attacchi ci portano ad assicurare che in Parlamento, così come nel Paese, il centro destra proseguirà la politica del fare e del governare che nessun disegno eversivo potrà sconfiggere". Disegno eversivo, addirittura. Bisogna drizzare le antenne, essere vigili, accidenti. Accade qualcosa di imprevisto, inimmaginabile e potenzialmente pericoloso e noi che ce ne stiamo qui, sciocchini, a pensare che il Tg1 di Augusto Minzolini sia una sventura per l'informazione e l'opinione pubblica.

La faccenda deve essere terribilmente seria se una maggioranza forte di sovrabbondanti numeri parlamentari, sicura nel consenso popolare e gratificata dall'obbedienza di un establishment gregario perché fragile, decide di lanciare un allarme di questo genere. Disegno eversivo. Viene da immaginare che le forze armate (chi? l'Arma dei carabinieri? l'Esercito? l'Aeronautica o la Marina?) fanno sentire un minaccioso ukase nel Palazzi del governo, sul collo dei ministri il peso della sciabola. O che truppe armate (russe, tedesche?) si preparano a violare i confini nazionali con la complicità di traditori della Patria o formazioni rivoluzionarie stiano guadagnando dai monti le vie che portano a Roma, alla Capitale. Viene in mente, in questo pomeriggio nero, che già al mattino il Brighella che dirige il giornale del capo del governo, ci ha avvertito: c'è un golpe in atto, e noi - maledetti - che non lo avevamo preso su serio, come sempre.

Golpe, disegno eversivo. Che diavolo accade, che cosa non abbiamo visto, intuito, compreso? Deve essere proprio vero che l'Italia è in pericolo come mai, se anche il capo del governo, Silvio Berlusconi, l'Egoarca, proprio lui, dice: "Sappiano comunque tutti gli oppositori che il governo porterà a termine la sua missione quinquennale e non c'è nulla che possa farci tradire il mandato che gli italiani ci hanno conferito". L'uomo che comanda tutto vuole dirci - sia benedetto - che non mollerà, che qualcuno vuole levarselo di torno con mezzucci illeciti e antidemocratici, addirittura con la violenza, ma lui - statista tutto d'un pezzo - non gliela darà vinta. L'affare è serio, non c'è dubbio.

Interviene anche l'amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani (e non è questo un segno che la democrazia è in pericolo?) per avvertire che "si vuole colpire Silvio Berlusconi". Conviene svegliarsi, mettersi al lavoro e cercare di capire che cosa minaccia l'Italia, la democrazia, il governo legittimamente eletto dal voto popolare. I quattro dell'apocalisse che dirigono in Parlamento il Popolo della Libertà offrono una traccia: "I contenuti di una sentenza che arriva venti anni dai fatti rafforza l'opinione di quanti pensano che si sta tentando con mezzi impropri di contrastare la volontà democratica del popolo italiano". È una sentenza allora la minaccia per la democrazia? Sì, dice l'Egoarca "allibito": "È una sentenza al di là del bene e del male, è certamente una enormità giuridica". Sì, dice il boss della squadra rossonera: "È assurdo ipotizzare che vi siano stati comportamenti men che corretti di Fininvest e Berlusconi".

Che cosa avrà mai deliberato questa sentenza? Il carcere per l'Egoarca? Il suo esilio dal Paese che governa? L'interdizione dal pubblico ufficio cui lo hanno chiamato gli italiani? Leggere la sentenza, allora, per capire chi sono i golpisti, dove si nasconde la minaccia per la nostra democrazia. Prima sorpresa.
È una sentenza civile e si tira un sospiro di sollievo perché le motivazioni di un giudice monocratico, appellabili e dunque soltanto primo momento di una controversia tra due soggetti privati (Berlusconi, De Benedetti), non può rappresentare un rischio né per la democrazia né per il governo. Che c'entra il disegno eversivo? Come può essere quella decisione - peraltro non definitiva - addirittura un golpe? E che diavolo ci sarà mai scritto in quella motivazione di 146 pagine che lascia "allibito" l'uomo che comanda tutto? Di Berlusconi si parla in quattro pagine, 119/122. Quel che si legge, lo si può riassumere in pochi punti.

1. Berlusconi fino al 29 gennaio 1994 è stato presidente del consiglio di amministrazione della Fininvest. Indiscutibile, come è indiscutibile che a quella data non era né capo partito né parlamentare né capo del governo. Era soltanto un imprenditore che cura i suoi affari. Come li cura, lo si legge al punto due.

2. Un suo avvocato - suo, di Berlusconi - corrompe il giudice per manipolare una sentenza che consente alla Fininvest di acquisire la Mondadori. L'incarico all'avvocato corruttore lo assegna Berlusconi?

3. Berlusconi, per certi inghippi legislativi che qui è inutile ricordare, deve rispondere non di corruzione in atti giudiziari, ma di corruzione semplice. I giudici decidono di concedergli le attenuanti (è diventato presidente del Consiglio e sembra tenere la retta via: merita riguardo) e, fatti due conti, concludono di "non doversi procedere" contro Berlusconi: "Il reato è estinto per intervenuta prescrizione".

4. Berlusconi non ci sta. Vuole il "proscioglimento nel merito". Chiede che si dica: è innocente. La Cassazione gli dà torto: no, se guardiamo le prove che abbiamo sotto gli occhi, non c'è alcuna evidenza della tua innocenza. Ora, Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione. Non lo fa. Si accontenta di essere il "privato corruttore" che, con la complicità dell'avvocato, ha comprato la sentenza.

5. Ragiona ora il giudice civile. È dimostrato che i soldi della corruzione provengono da conti della Fininvest, dove è apicale la posizione di Berlusconi. È "normale" e "ordinario" credere che un bonifico di quella entità (3 miliardi), utilizzato per la corruzione, possa essere inoltrato solo se chi presiede alla compagine sociale l'autorizzi. Questa prova si chiama presuntiva e il giudice scrive: "La prova per presunzioni nel processo civile ha la stessa dignità della prova diretta" e giù - nelle motivazioni - sentenze delle Sezioni unite della Cassazione. Conclude il giudice: "Silvio Berlusconi è corresponsabile della vicenda corruttiva". Ha ragione o torto, lo si vedrà con il tempo.

Questi i fatti e le parole che coinvolgono Berlusconi, uomo di affari che cede all'imbroglio per averla vinta, nella sentenza che condanna la Fininvest a un risarcimento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti. Ora non si comprende come l'accertamento di ragioni giuridiche tra due privati e la decisione di un giudice possano compromettere la nostra democrazia e far gridare al golpe. Soprattutto perché sono soltanto privatissimi fatti loro - di Berlusconi e De Benedetti - e non nostri.

Non c'è alcun interesse pubblico in questa storia. Di pubblico ci deve essere soltanto la preoccupazione di chi vede trasformare gli affari dell'Egoarca, condotti negli anni precedenti all'avventura politica con metodi malfamati - in questione politica. Di pubblico ci deve essere soltanto l'allarmata conferma che Berlusconi trasfigura in affare nazionale i suoi affari privati con un'ostinazione che, da un lato, gli impedisce di governare con credibilità e, dall'altro, gli consente di sovrapporre la sua sorte personale al destino del Paese. Come se l'Italia fosse Berlusconi e la sua ricchezza, il suo portafoglio fossero la nostra ricchezza e il nostro portafoglio. Questa sciocchezza la possono riferire i quattro corifei dell'Egoarca, che non temono il ridicolo, o scrivere i Brighella dell'informazione di regime, che ha quotidiana confidenza con la menzogna, ma a chiunque è chiaro che il grido contro l'inesistente disegno eversivo è soltanto l'ultimo abuso di potere di un capo di governo che crede di essere il proprietario del Paese.

© Riproduzione riservata (6 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'immunità illegittima
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:52:39 am
IL COMMENTO

L'immunità illegittima

di GIUSEPPE D'AVANZO


SE SI mette la sordina alla rituale filastrocca di Berlusconi (giudici comunisti) e alle intimidazioni di Bossi; se si lasciano in un canto le stralunate favole dell'avvocato Ghedini (processi evanescenti) e si legge - lontano dal rumore - la decisione della Corte costituzionale, si può dire che è finita come doveva finire.

Come si sapeva sarebbe finita, perché non c'era nulla di più scontato che la bocciatura della legge immunitaria che l'Egoarca s'era apparecchiato. La Consulta dichiara illegittimo l'articolo 1 della "legge Alfano" - legge perché è del tutto improprio e abusivo parlare di "lodo" che è un arbitrato condiviso, mentre quella legge è al più un arbitrio. Nell'art. 1 si legge che "i processi penali nei confronti del (...) presidente del Consiglio (è il solo tra le quattro alte cariche dello Stato che ha di questi grattacapi, ndr) sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione".

La previsione viola, dicono i giudici, due principi costituzionali perché "tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge" (art. 3) e "le leggi di revisione della Costituzione sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni (...)" (art. 138). Ora è in discussione qui non il che cosa, ma il come. La Corte ha già riconosciuto, nella bocciatura della "legge Schifani", che è di "interesse apprezzabile" l'"esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle rilevanti funzioni connesse a quelle cariche". Detto in altro modo, i giudici costituzionali non ritengono avventato (incostituzionale) che si voglia offrire - nell'interesse dei governati - un "ombrello" protettivo a chi governa il Paese, presiede lo Stato e il Parlamento. D'altronde fino al 1993, la Costituzione ha previsto l'immunità per i parlamentari (potevano essere inquisiti, processati o arrestati solo con l'autorizzazione della Camera di appartenenza).

Dunque, va bene un'immunità che tuteli la "serenità" di chi governa, ma attraverso quale percorso legislativo la si deve garantire? L'iter deve essere quello ordinario che può essere combinato con una maggioranza semplice o quello più complesso che impone al Parlamento due deliberazioni a distanza di tre mesi e una maggioranza dei due terzi, senza la quale la legge - prima della sua entrata in vigore - può essere sottoposta a referendum popolare? Era questa la questione che doveva decidere la Corte.

Ecco, la Consulta ha concluso (e non è una sorpresa) che per assicurare serenità a chi governa, si deve correggere la Costituzione e quindi non è sufficiente una legge ordinaria. L'obiezione che governo e maggioranza oppongono, con furore, a questa conclusione è: potevate dircelo prima; ne avete avuto l'occasione, non lo avete fatto: perché? Esplicitamente, il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, protesta: "È incomprensibile come i giudici costituzionali abbiano potuto spendere, nel 2004, pagine su pagine di motivazioni senza fare alcun riferimento alla necessità di una legge costituzionale. Tale argomento, preliminare e risolutivo, è inspiegabile che venga evocato quest'oggi". L'accusa di Alfano, che riecheggia anche nelle proteste di Berlusconi ("Sono stato preso in giro"), non ha fondamento.

Come hanno spiegato, più di un anno fa e in ogni occasione utile, cento costituzionalisti con un pubblico appello. Nel 2004, alla Corte fu sufficiente la constatazione preliminare dei difetti di legittimità della "legge Schifani" per affondare quello "scudo", "assorbito - si leggeva nella sentenza - ogni altro profilo di illegittimità costituzionale". Era, è la frase chiave di quella sentenza. Oggi chi protesta la dimentica o preferisce dimenticarla. La Corte non rinnega principi da se stessa già enunciati, come tende a dire la maggioranza, perché, nel 2004, "si limitò a constatare che la previsione legislativa difettava di tanti requisiti e condizioni (la doverosa indicazione dei reati a cui l'immunità andrebbe applicata, il doveroso pari trattamento dei ministri e dei parlamentari nell'ipotesi dell'immunità del premier e dei presidenti delle due Camere), tali da renderla inevitabilmente contrastante con i principi dello Stato di diritto".

Ma le osservazioni critiche della Consulta non pregiudicavano la questione di fondo: "la necessità che qualsiasi forma di prerogativa che comporta deroghe al principio di eguale sottoposizione di tutti alla giurisdizione penale debba essere introdotta necessariamente ed esclusivamente con una legge costituzionale". Ripetiamolo allora. Si può attenuare il principio dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma soltanto se si riscrive la Costituzione e, per farlo, bisogna muoversi nel solco delle regole previste dalla revisione costituzionale, perché una legge ordinaria non è idonea a introdurre nel nostro ordinamento una disposizione che affievolisca il principio che ci rende tutti uguali davanti alle legge, anche se la volontà popolare ti ha spedito a Palazzo Chigi.

Le polemiche che infiammano ora la scena politica non parlano dell'esito - prevedibilissimo perché già scritto - della decisione della Corte Costituzionale, ma di un conflitto tra il primato del diritto e i diritti dell'investitura popolare. Berlusconi ritiene che, sostenuto dalla maggioranza del Paese, debba essere liberato da ogni controllo e reso immune da un potere che immagina sottordinato, subalterno. Egli si ritiene l'unico e solo depositario (proprietario?) del "vero e reale diritto del popolo" e, in quanto tale, gli deve essere concesso di agire e di decidere anche contra legem.

Il suo potere non deve trovare ostacoli, non deve essere limitato o condizionato dal contesto politico e istituzionale, dal Parlamento, dai contrappesi, dalla stessa Costituzione e dai suoi garanti. Egli è il popolo, è l'Italia e grida "Viva l'Italia, viva Berlusconi". Questa identificazione gli consente - lo pretende - di liberarsi di un passato oscuro, di avere mano libera nell'esercizio del comando e della decisione. Quando, imputato nel processo Sme, il 16 giugno del 2003 finalmente si presentò in un'aula di Tribunale non per essere interrogato (sempre si è avvalso della facoltà di non rispondere), ma per rendere dichiarazioni spontanee, Berlusconi esordì con la stessa prepotenza di queste ore.

Disse al presidente del Tribunale che gli ricordava che la legge è uguale per tutti, "Sì, è vero la legge è uguale per tutti ma per me è più uguale che per gli altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani". È quel che dice e ripete oggi e pretenderà che diventi reale, domani. Ci aspettano giorni tristi.

© Riproduzione riservata (8 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Se il Cavaliere vuole farsi Stato
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2009, 05:29:02 pm
EDITORIALE

Se il Cavaliere vuole farsi Stato

di GIUSEPPE D'AVANZO

Non si riesce a tenere il conto delle menzogne e dei ricatti che l'Egoarca riesce a distillare nei suoi flussi verbali, ormai oltre ogni controllo di ragionevolezza, del tutto catturati dal suo disturbo narcisistico. Stiamo ai fatti. Il lucidissimo furore di Berlusconi si accende per i pasticci che si combina da solo, con la sua compulsività.

Frequenta minorenni; riempie palazzi e ville di prostitute arruolate da un ruffiano; trascura gli affari di Stato per allegre scorribande amorose. Contestato dalla moglie in pubblico, se ne va nel luogo pubblico per eccellenza - la televisione - per recuperare (sa di doverlo fare) un'apprezzabile accountability. Sbaglia la mossa. Esige che le sue favole diventino scritture sacre. Se non accade - e non accade - s'infuria.
Ingaggia maschere con mazza ferrata che, dai giornali e tv che controlla, fanno per lui il lavoro più sporco, "assassinando" la personalità di chi gli appare, anche da lontano, "un nemico". Scatena gagliofferie, aggressioni, conflitti che (lungo l'elenco) investono, nel tempo, la moglie; impauriti testimoni delle sue imbarazzanti avventure; la Repubblica; il suo editore; il suo direttore; l'Unità; addirittura il salmodiante Corriere della sera; la stampa internazionale tutta; il servizio pubblico televisivo che non è al suo servizio; un pugno di comici, il cinema nazionale; l'Avvenire; la Conferenza episcopale italiana; il presidente della Camera; il presidente della Repubblica; la Corte Costituzionale; la magistratura tutta; un'opposizione che, peraltro, è oggi una bottega chiusa per inventario.

L'Egoarca mostra, dietro il sorrisone, come il suo potere sia pura, nuda violenza. Non guadagna un punto. Ne ricava soltanto il discredito internazionale, un distruttivo "sputtanamento" che si completa, nelle opinioni pubbliche e nelle cancellerie d'Occidente, quando, con posa da bauscia al bar nell'ora del "camparino", si vanta di aver convinto George W. Bush a mettere sul tavolo 700 miliardi di dollari per far fronte alla crisi finanziaria; di aver detto a quei due, Barack Obama e Vladimir Putin, di far la pace altrimenti non li avrebbe invitati al G8 di cui deve essere il proprietario; di "aver mandato Sarkozy" all'Est dopo avergli spiegato quel che avrebbe dovuto dire per risolvere la crisi georgiana; di essere messaggero presso il Papa, in un incontro della durata di minuti 3, dei "saluti di Obama", come se il presidente degli Stati Uniti d'America avesse bisogno dell'Egoarca per discutere con Joseph Ratzinger. Un premier così garrulo e vanìloquo, che crede di potersi muovere sulla scena pubblica come tra le plaudenti prostitute ingaggiate per il salotto di Palazzo Grazioli, non ha bisogno di essere screditato. Si scredita da solo con le sue mani e, con le sue parole e condotte, disonora e danneggia l'intero Paese. Oggi se c'è in giro un antagonista della rispettabilità dell'Italia nel mondo è Silvio Berlusconi. Lo sappiamo noi, lo sanno i caudatari e le congreghe che lo sostengono, lo sa chiunque guardi ai nostri affari da oltre confine.

L'Egoarca non se ne cura. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori, consigli, regole, critiche, misura istituzionale, saggezza politica. Ubriaco dei sondaggi che gli servono (ma sono sinceri?), è incapace di guardare in faccia la realtà che si è cucinato da solo e che ogni giorno irresponsabilmente riscalda. Sarebbe un errore tuttavia credere che i suoi coups de théatres siano dominati dall'istinto. Bisogna sempre guardare che cosa bolle nella pentola dell'Egoarca. L'uomo è lucidissimo. Nella brodaglia che ha scodellato a Benevento si coglie un cambio di strategia, un ritorno all'antico. Come se quindici anni non fossero passati, Berlusconi evoca i fantasmi mentali di allora, ricostruisce lo stesso contesto di grande forza evocativa che gli portò fortuna a partire dal 1993. Suona così. Un manipolo di toghe "di sinistra" mi minaccia come già accadde nel 1994 quando azzopparono il mio primo governo con un avviso di garanzia. Con la complicità della magistratura, "la sinistra" vuole espropriare il popolo del suo voto. Per farlo, con la correità di un presidente della Repubblica "di sinistra", la Corte costituzionale "di sinistra" ha dovuto contraddirsi mentre un giudice "di sinistra" aggredisce le mie aziende.

Non c'è una parola di quel che dice l'Egoarca che corrisponda ai fatti. Nel 1993 la corruzione inghiotte ogni anno 10mila miliardi di lire mentre l'indebitamento pubblico - cresciuto del 92 per cento negli anni dei governi dell'"amico Craxi" - oscilla tra i 150 e 250 mila miliardi, più 15/25 mila miliardi di interessi annui. La Prima Repubblica crolla non per la pressione della magistratura (una favola), ma per la disperazione di chi non può più pagare il prezzo della corruzione alla politica e denuncia i corrotti. Berlusconi, prossimo al fallimento, è creatura di quel sistema politico. Gli ha assicurato ogni privilegio. Quaglia pronta al salto, si apposta però sotto le insegne dell'antipolitica e vince. Entusiasta di quelle toghe che gli hanno aperto la strada al potere, offre a due di loro (Davigo e Di Pietro) la poltrona di ministro (rifiutano). Cade quando Bossi non ne può più dei maneggi corruttivi dell'alleato che gli stanno mangiando la Lega e decide di voltargli le spalle il 6 novembre del 1994, due settimane prima che Berlusconi riceva l'avviso di garanzia che ancora oggi lo fa tanto strepitare.

Come accade per la disonorevole vita privata che conduce, l'inesauribile ripetizione di concetti inconsistenti ci mostra come la menzogna abbia un primato nella "politica narrativa" di Berlusconi. Sia il nucleo più autentico del suo sistema politico. Abbia una funzione essenziale perché abitua alla confusione e infine all'indifferenza, a un presente smemorato, a una grottesca distanza tra quel che si dice e quel che è accaduto davvero. È in questo varco che il Berlusconi "sputtanato" intende muoversi (e si muoverà) con un nuovo obiettivo. Lo sollecitano due eventi, nulla che abbia a che fare con l'interesse nazionale. Il primo, con tutta evidenza. È una controversia tra due società private, la Fininvest di Berlusconi, la Cir di De Benedetti (è l'editore di questo giornale). Anche il secondo evento, a pensarci, non è di interesse pubblico. Non si discute - come pure sarebbe legittimo - la reintroduzione nella Carta costituzionale dell'immunità per i rappresentanti del popolo, cancellata dopo 45 anni nel 1993. Si discute dell'impunità di Berlusconi. Di uno solo perché tra le quattro alte cariche che ne hanno diritto con la "legge Alfano" soltanto Berlusconi ha gravi rogne giudiziarie per comportamenti tenuti - peraltro - quando ancora non era né un leader né il premier. Quindi, sono due fatti privati di un uomo diventato con gli anni capo di governo, sostenuto da una granitica maggioranza cui il Paese chiede di governare, a scatenare una paralizzante "guerra di religione" che travolge ogni cosa e destino, uomini e istituzioni, riattivando una falsa "narrazione" cara all'Egoarca e ai suoi corifei.

Se la "narrazione" sa di muffa, l'obiettivo è novissimo. Se nel 1994 gli venne buona per governare, oggi è utile per un'altra manovra che si scorge ormai a occhio nudo. Che cosa sono le aggressioni al capo dello Stato? Perché la denigrazione della Corte costituzionale? Perché l'annuncio di una vendicativa riforma della giustizia? Come giustificare la segreta e abusiva raccolta di informazioni (è accaduto negli archivi del Csm) che, opportunamente manipolate, serviranno per bastonare il giudice che gli ha dato torto? Come sempre per difendere se stesso e i suoi privatissimi interessi, l'Egoarca non si accontenta più di fare le leggi che altri, da lui separati, vaglieranno e applicheranno. Egli vuole liberarsi di ogni potere di controllo.

Non si accontenta, con 344 seggi alla Camera e 174 al Senato, di poter fare le leggi. Esige anche il monopolio di farle valere. Screditandoli perché "di parte", reclama anche il possesso diretto e legale degli strumenti di potere statali. Ha soltanto una maggioranza, ma manco fosse un premio politico, un plusvalore politico che gli è dovuto, pretende di essere lo Stato. Dice: il popolo lo vuole. Dimentica che, dei 36 milioni di italiani che hanno votato il 13 e 14 aprile 2008, 17 milioni sono con lui e 19 milioni gli hanno voltato le spalle, se non si vuol contare quei due italiani su dieci che, astenendosi, si sono chiamati fuori dalla contesa. All'Egoarca va ricordato che non è l'Italia, è solo il provvisorio capo di un governo. Purtroppo, come dargli torto, molto "sputtanato".

© Riproduzione riservata (12 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Chi tocca i fili muore
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2009, 03:48:02 pm
L'EDITORIALE

Chi tocca i fili muore

di GIUSEPPE D'AVANZO


Coincidenze. Che volete che siano? Soltanto coincidenze. Poco meno di due settimane fa, viene fuori che il premier è convinto di essere il bersaglio di un complotto internazionale. Vuole scoprire chi tira le fila dell'operazione.

Così chiede aiuto "ai servizi di una potenza amica e non alleata", scrive il Corriere della sera (6 ottobre). Senza giri di parole, Berlusconi implora l'aiutino dell'amico Putin. L'indiscrezione galleggia non smentita per ventiquattro ore. Soltanto quando l'opposizione ne chiede conto con un paio di interrogazioni parlamentari, l'Egoarca salta su e nega tutto, ma la frittata è già fatta. Non sentendogli aprire bocca per un giorno intero, gli uomini del capo si sentono autorizzati in quelle ore a qualche confidenza pericolosa: lui avrebbe chiesto all'amico del Kgb qualche dossier da usare contro i suoi avversari, il capo dello Stato è il primo della lista. Balle, senza dubbio. Come è una coincidenza, soltanto una coincidenza, che il giornale di Berlusconi pubblichi ora un primo dossier delle polizie segrete dell'ex-impero sovietico contro Corrado Augias. Tanto fumo, neppure l'ombra di arrosto in quelle cartacce. Tant'è. Corrado non ha bisogno di essere difeso qui. Lo farà da solo.

Qui interessa ragionare del dispositivo di dominio che Berlusconi ha inaugurato con la politica dello scandalo e sulla necessità, per il premier, dello scandalo come metodo di governo. Detto in altro modo, perché un potere solido nelle alleanze politiche, gratificato da un'imponente maggioranza parlamentare, premiato dal diffuso consenso degli elettori, rinuncia a governare per abbandonarsi a un'aggressione permanente alimentata dalla menzogna?

Le due questioni sono connesse, se si tiene il fuoco sulla menzogna. La menzogna è necessaria a Berlusconi per punire, distruggere e, al tempo stesso, creare. Berlusconi l'ha usata e l'userà a piene mani. Può farlo senza sforzo. Dispone di un agglomerato di potere politico-mediatico-burocratico spaventoso. Non lo utilizza per confutare le ragioni degli avversari o convincere gli altri delle proprie buone ragioni. Lo dispiega per denigrare chi non si conforma, per demolire i perplessi; per punire la reputazione di chi (pochi giornali, qualche testimone) non occulta i "duri fatti"; per screditare la fiducia in chi non si inchina alla sua volontà o convenienza (è accaduto al presidente della Repubblica, al presidente della Camera, ai giudici costituzionali, all'editore, al direttore, al fondatore di questo giornale). È la ragione che, il 3 ottobre, ha spinto centinaia di migliaia di cittadini ad affollare piazza del Popolo in difesa dell'articolo 21 della Costituzione nella convinzione non che, in Italia, non ci sia in assoluto libertà di stampa, ma che sia indispensabile proteggere, come ha detto Roberto Saviano, "la serenità di lavorare, la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni". Anche chi, ieri, ha mostrato una legittima perplessità per quella protesta, potrà oggi forse convenire che in Italia è sempre più presente e opprimente l'intimidazione per chi si rifiuta di tacere, di dimenticare e omettere; per chi si ostina a smascherare le favole dell'Egoarca lasciando affiorare nella nebulosa "politica narrativa" del Cavaliere la realtà o, più semplicemente, la legge.

A costoro è riservata una brutale menzogna e la barbara rappresaglia dei giornali e delle televisioni controllate dal premier. Ne hanno fatto le spese in molti, qualche nome lo abbiamo già fatto (Giorgio Napolitano, Gianfranco Fini, i giudici della Consulta eletti dal Quirinale, Carlo De Benedetti, Ezio Mauro, Eugenio Scalfari). Altri nomi è doveroso ricordare: Veronica Lario, accusata di avere un amante dal Brighella che oggi dirige il giornale del marito; Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, umiliato con un documento contraffatto reso pubblico dal giornale dell'Egoarca; Raimondo Mesiano, il giudice civile che ha deciso il risarcimento per la "sentenza Mondadori" comprata dalla Fininvest (inseguito dalle telecamere nascoste di Mediaset, è risultato colpevole di indossare calze turchesi).

Nelle redazioni, in Parlamento, nelle istituzioni c'è oggi la consapevolezza che chi contraddice la "narrazione" dell'Egoarca deve essere pronto a subire una severa lezione perché la sua reputazione sarà minacciata dalla menzogna. Che ha altre due funzioni specifiche nel sistema politico di Berlusconi. Distrugge la trama stessa della realtà; crea una narrazione fantastica che nega eventi, parole e documenti per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di verità rovesciate, fantasmi, fumose dicerie, immaginari complotti politici.

Così, per stare alle ultime cronache, si deve dire che la Corte costituzionale ha smentito se stessa bocciando la "legge Alfano" (non è vero, dicono schiere di costituzionalisti); che Berlusconi ha subito 106 processi (sono dodici più quattro sospesi). Si deve sostenere che "la sentenza Mondadori è giusta" dimenticando la corruzione del giudice che se l'è lasciata scrivere dai corruttori pagati dalla Fininvest. Si deve dire che nel 1994 il primo governo Berlusconi si sbriciolò per un avviso di garanzia e non per la decisione di Umberto Bossi. Cancellata la realtà, la si può creare come s'inventa una filastrocca ripetendola poi ad infinitum. E dunque: c'è un complotto internazionale di un gruppo editoriale italiano (il gruppo Espresso); c'è l'aggressione di una magistratura politicizzata che vuole distruggere il patrimonio del premier-tycoon; c'è in atto una manovra che vuole espropriare il popolo della sua volontà da parte "della sinistra" e di rappresentanti delle istituzioni che sono "tutti di sinistra".

Sul nascondimento della realtà e sulla menzogna Berlusconi costruisce la sua politica che si nutre soltanto di comunicazione e non di azioni e decisioni, tutte risolte nell'annuncio di iniziative che verranno. Condotta esclusivamente sui media e coi media, la politica vuota di Berlusconi, piena soltanto dei suoi privati interessi, deve controllare con pugno di ferro lo spazio mediatico perché è in quel perimetro che è nato, è stato costruito e oggi si deve difendere il suo potere. È questa la ragione che induce il premier a distruggere, a spaventare chi, in quel perimetro, fa il suo lavoro rispettandone la decenza. È questa la ragione che gli suggerisce di non affermare - governando - la legittimità del proprio potere (che peraltro nessuno nega), ma di mostrare come la natura più nascosta di quel potere sia la violenza pura. Un abuso di potere che, sì, colpisce i suoi avversari o critici, ma serve da lezione anche a chi, nel suo schieramento, nel suo esecutivo, vuole essere alleato e consigliere leale e non corifeo e cane fedele.

Quel che abbiamo sotto gli occhi non è, allora, una guerra tra gruppi editoriali né la guerra di un gruppo editoriale contro un governo, come racconta la "narrazione" berlusconiana accettata purtroppo anche da chi vuole essere il sereno custode delle terre di mezzo. Questa banalizzazione, che inventa una "guerra", nasconde la realtà: chi tocca i fili della comunicazione - e quindi della politica e degli interessi dell'Egoarca - mette in gioco la sua reputazione, la sua dignità, il bene più prezioso: il suo buon nome. Bisognerà avere presto molto coraggio, nel mondo dell'informazione, nelle istituzioni, nelle magistrature, per denunciare lo scandalo di una politica che vive di scandali e menzogne.

© Riproduzione riservata (19 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La macchina del fango
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2009, 06:58:39 pm
IL COMMENTO

La macchina del fango


di GIUSEPPE D'AVANZO

Berlusconi si cucina da solo i suoi guai. Distrugge, di giorno, i muri che i suoi consiglieri fabbricano, di notte, per difenderlo. Quelli si erano appena rimboccati le maniche, con buona volontà, per riproporre - complici, le debolezze di Piero Marrazzo - la separatezza e l'inviolabilità della sfera privata dalla funzione pubblica (ancora!).

Salta fuori che l'Egoarca ha avvertito per tempo il governatore: "C'è in giro un video contro di te". Frammento superbo della nostra vita pubblica. Merita di essere analizzato, e con cura. Viene comodo farlo in quattro quadri.

Nel primo quadro, bisogna riscrivere con parole più adatte quel che sappiamo. Non il signor Silvio Berlusconi, ma il presidente del consiglio - proprietario del maggior gruppo editoriale del Paese - allerta il governatore "di sinistra" che il direttore di una sua gazzetta di pettegolezzi (Chi) ha in mano un video che lo compromette. Glielo ha detto la figlia (Marina, presidente di Mondadori). A questo punto, il capo del governo potrebbe consigliare all'altro uomo di governo di non perdere un minuto e di denunciare il ricatto all'autorità giudiziaria. Nemmeno per sogno. Il presidente del Consiglio indica all'altro attraverso chi passa il ricatto, ne fornisce indirizzo e numero di telefono: che il governatore si aggiusti le cose da solo mettendo mano al portafoglio e "ritirando la merce dal mercato", come pare si dica in questi casi. È la pratica di uomini che governano senza credere né alla legge né allo Stato, né in se stessi né nella loro responsabilità. In una democrazia rispettabile, l'argomento potrebbe essere definitivo. Nell'"Italia gobba", la legalità è opzione, mai dovere, e quindi l'argomento diventa trascurabile. Trascuriamolo (per un attimo solo) e immaginiamo che Marrazzo riesca nell'impresa di ricomprarsi quel video.

È il secondo quadro. Vediamo che cosa accade a questo punto. Piero Marrazzo annuncia la sua seconda candidatura al governatorato. Si vota in marzo. Il candidato "di sinistra" è consapevole che il suo destino politico e personale è nelle mani del leader della coalizione "di destra". In qualsiasi momento, quello può tirare la corda e rompergli il collo. A quel punto, a chi appartiene la vita di Piero Marrazzo? A se stesso, alle sue decisioni politiche, ai suoi comportamenti privati o alla volontà e alle strategie dell'antagonista? È una condizione di vulnerabilità politica che dovrebbe consigliargli la piena trasparenza a meno di non voler diventare un burattino. Al contrario, Marrazzo tace e tira avanti. Scoppia lo scandalo e mente ("È una bufala", "Non c'è alcun video"). Lo scandalo diventa insostenibile e ancora rifiuta la responsabilità della verità: non dice dell'avvertimento di Berlusconi; non dice come si procura il denaro che gli occorre per le sue scapestrate avventure. (Sono buone ragioni per chiedergli di nuovo le dimissioni perché non è sufficiente l'ipocrita impostura dell'autosospensione). Quel che accade al governatore ci mostra in piena luce come funziona "una macchina".

È il terzo quadro. Al centro della scena, i direttori delle testate di proprietà del presidente del Consiglio (o da lui influenzate). In questo caso, Alfonso Signorini, direttore di Chi, già convocato d'urgenza da una vacanza alle Maldive per confondere, con una manipolazione sublunare della realtà, il legame del premier con una minorenne.

Signorini spiega come vanno le cose in casa dell'Egoarca, premier e tycoon. Direttamente con le redazioni o, indirettamente, da strutture esterne o da chi vuole qualche euro facile - i direttori raccolgono fango adatto a un rito di degradazione. Una volta messa al sicuro la poltiglia del disonore (autentica o farlocca, a costoro non importa), il direttore avverte i vertici del gruppo, l'amministratore delegato e il presidente. Che si incaricano di informare l'Egoarca. A questo punto, il premier è padrone del gioco. Pollice giù, e scatta l'aggressione. Pollice su, e il malvisto finisce in uno stato di minorità civile. Accade al giudice Mesiano, spiato dalle telecamere di Canale5.

Berlusconi addirittura annuncia l'imboscata: "Presto, ne vedremo delle belle". Accade al direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un cauto e motivato dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle. A ben vedere, accade oggi al ministro dell'Economia che può intuire sul giornale del premier qualche avvertimento. Suona così: "Tremonti in bilico"; "Se Tremonti va, Draghi arriva". C'è da chiedersi: quanti attori del discorso pubblico sono oggi nella condizione di sottomissione che anche Marrazzo era disposto ad accettare?

Quarto e ultimo quadro, allora. Non viviamo nel migliore dei mondi. La personalizzazione della politica ha cambiato ovunque le regole del gioco e il fattore decisivo di ogni competizione è la proiezione negativa o positiva dell'uomo politico - e della sua affidabilità - nella mente degli elettori. È la ragione che fa del "killeraggio politico - scrive Manuel Castells (Comunicazione e potere) - l'arma più potente nella politica mediatica". I metodi sono noti. Si mette in dubbio l'integrità dell'avversario, nella vita pubblica e in quella privata. Ricordate che cosa accade a McCain e Kerry? Si ricordano agli elettori, "in modo esplicito o subliminale", gli stereotipi negativi associati alla personalità del politico, per esempio essere nero e musulmano in America. È la lezione che affronta Barack Obama. Si distorcono le dichiarazioni o le posizioni politiche. Si denunciano corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti che sostengono il politico. Naturalmente, le informazioni distruttive si possono raccogliere, se ci sono; distorcerle, se appaiono dubbie o controverse; fabbricarle, se non ci sono. È uno sporco lavoro, che ha creato negli Stati Uniti, dei professionisti. Uno di loro, Stephen Marks, consulente dei repubblicani, ha raccontato in un libro (Confessions of a Political Hitman, Confessioni di un killer politico) il suo modus operandi. È interessante riassumerlo: "Passo I, il killer politico raccoglie il fango. Passo II, il fango viene messo in mano ai sondaggisti che determinano quale parte del fango arreca maggior danno politico. Passo III, i sondaggisti passano i risultati a quelli che si occupano di pubblicità, che passano i due o tre elementi più dannosi su Tv, radio e giornali con l'intento di fare a pezzi l'avversario politico. Il terzo passo è il più notevole. Mi lascia a bocca aperta l'incredibile talento degli addetti ai media... quando tutto è finito, l'avversario ha subito un serio colpo, da cui non riesce più a riprendersi". Qui, quel che conta è la segmentazione del lavoro e soprattutto "l'incredibile talento degli addetti ai media" perché devono essere i più abili e i più convincenti. I media, negli Stati Uniti, non sono a disposizione della politica e per muoverli occorre "provocare fughe di notizie rimanendo al di fuori della mischia", offrire "merce" che regga a una verifica, a un controllo, che sia significativa e in apparenza corretta anche quando è manipolata.

In Italia, non esiste questo scarto. Non c'è questa fatica da fare perché non c'è alcuna segmentazione della politica mediatica. Uno stesso soggetto ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che mette freddo alle ossa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. I più onesti, dovunque siano, dovrebbero riconoscerlo: non parliamo più di trasparenza della responsabilità pubblica, di vulnerabilità, di pubblico/privato. Più semplicemente, discutiamo oggi della libertà di chi dissente o di chi si oppone. O di chi potrebbe sentirsi intimidito a dissentire o a opporsi all'Egoarca.

© Riproduzione riservata (27 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il Cavaliere tra processi, prescrizioni e voglia di ...
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2009, 08:17:02 am
L'ANALISI

Il Cavaliere tra processi, prescrizioni e voglia di cambiare la Carta

di GIUSEPPE D'AVANZO

Anche per i giudici dell'appello, David Mackenzie Mills è un testimone corrotto e, se c'è un corrotto, ci deve essere un corruttore.
Il corruttore è Silvio Berlusconi. Non è in aula, è decisamente in salvo. Ma questa nuova sentenza pesa su di lui come un macigno - o come un incubo - perché ripropone un paio di cose che sappiamo (o dovremmo sapere) del capo del governo. Se ne possono elencare tre.

Raccontano come la frode sia stata la via maestra per costruire - prima - e per difendere - poi - l'impero Fininvest/Mediaset.

Spiegano le torsioni della sintassi legale del presente.

Annunciano la tempesta politica che scuoterà il Paese in un prossimo futuro.

Non c'è bisogno di farla tanto lunga.
Mills, per conto di Berlusconi, crea un arcipelago di società off-shore (All Iberian). Quando i procuratori di Milano ne scorgono il profilo, per Berlusconi è questione vitale inventarsi l'impossibile per uscire dall'angolo. La corruzione di Mills, pagato dal capo del governo per mentire in aula, è un passaggio obbligato. Il motivo è elementare.
Le società, create e amministrate dall'avvocato inglese, custodiscono il grande, indicibile segreto dell'Egoarca. Lungo i sentieri storti del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che premiano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.

Strappato il velo che nasconde questa scena, Berlusconi non solo ci rimette le penne in un tribunale, ma del mito che ha costruito per sé e il suo talento, che cosa resta?
Il tableau polverizza il "corpo mistico" dell'ideologia berlusconiana. Ecco ora che cosa si vede: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Ancora nel giugno dell'anno scorso, Berlusconi nega: "Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008, ore 15,47).

Come sempre, Berlusconi intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, "responsabile di fronte agli elettori", e il suo passato di imprenditore di successo.
Crea un confine indefinibile tra pubblico e privato. Se ne comprende il motivo perché, nell'ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese. Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell'infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della "società dell'incanto" che lo beatifica. Per salvarsi da questo disvelamento, Berlusconi è disposto a ogni magia. E' storia dell'altro ieri. Cancella reati. Distorce le regole del processo.
Riscrive i tempi della prescrizione. In posa da povero cristo, dice di aver subito 106 processi.

E' una favola.
La ripetono come un'eco i commessi a stipendio e le ugole obbedienti retribuite con il canone televisivo (sono dodici i processi finora, più quattro ancora in corso). Non si accontenta. Minaccia di gettare per aria l'intera amministrazione della giustizia fermando centomila processi per affossarne uno solo, il suo. Ottiene in cambio dal Parlamento - quasi fosse un'estorsione - una legge che lo rende immune. La scrivono male. E' uno sgorbio. La Corte costituzionale la cancella, ma il risultato - l'Egoarca - l'incassa. Era a un passo dalla condanna, la "legge Alfano" lo esclude dal processo. Che ora ricomincia di nuovo, davanti a nuovi giudici che dovranno valutare le fonti di prova, le ventidue testimonianze, le nove rogatorie, come se un processo non ci fosse già stato. Non ce la si farà in un anno e mezzo e quindi il processo nasce ferito a morte in attesa che l'uccida la prescrizione.

Siamo al presente.
Berlusconi non si fida di quest'esito. Si sente accerchiato dalle ombre. Vive di sospetti. Vede in ogni angolo un congiurato. Avverte, come un tormento, il declino della sua parabola. "E se usassero quel processo per farmi fuori?" si chiede. Vuole una norma ordinaria, approvata presto, prima di Natale, che gli dia la certezza che quella storia si chiuda definitivamente. Vuole una prescrizione ancora più stretta. Difficilmente l'avrà, a quanto pare. Manipolerà così un "legittimo impedimento" più rigido e restrittivo, che gli consentirà di prendere tempo, di rinviare le udienze, di deciderne il calendario, di mandarlo a carte quarantotto. Salvo, ancora una volta, dal giudizio, Berlusconi non può accontentarsi. E' impensabile che possa insediarsi al Quirinale nell'anno 2013 con quella condanna indiretta sul gobbo.

Siamo al futuro.
E' un corruttore, anche se in tribunale ci ha rimesso soltanto il corrotto. Pure un Parlamento, comandato come una scolaresca, potrebbe negargli l'ascesa a Monte Cavallo. L'Egoarca sceglierà la via più breve, la più diretta. Come sempre. Vorrà riscriversi la Costituzione e farsi spingere lassù dal "popolo" per far dimenticare la rete di imbrogli che lo ha fatto ricco, i garbugli che lo hanno protetto, l'inganno del suo mito.

© Riproduzione riservata (28 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Per troppo tempo quel video di Marrazzo custodito nelle stanze di Berlusconi
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2009, 10:25:34 am
L'INCHIESTA.

Nella Procura di Roma si valuterà pure la ricettazione

L'irruzione avviene il 3 luglio, e già l'11 il filmato viene messo in vendita

Per troppo tempo quel video di Marrazzo custodito nelle stanze di Berlusconi


di GIUSEPPE D'AVANZO


Ricatto a Marrazzo. La fonte vicina all'inchiesta non ci gira intorno: "Non c'è alcun altro politico di destra o di sinistra, ministro in carica, ministro uscente, professionista celebre o ignoto, "Chiappe d'oro" o d'argento nella nostra indagine". Forse salteranno fuori domani o forse mai. Per intanto, si deve dire che il vivamaria di indiscrezioni e nomi sussurrati che avvelenano o eccitano il Palazzo appare soltanto un efficace lavoro per confondere l'affaire. Che ha due capitoli. Il primo è noto. All'unisono tutti - una volta tanto - chiedono che sia chiuso con le dimissioni di Marrazzo. Riguarda le debolezze private del governatore, la leggerezza di un uomo pubblico che, ricattato, non denuncia il ricatto e, scoperto il ricatto, mente o dissimula nella scriteriata speranza di salvare il collo e la reputazione. Ma fu vero ricatto o Marrazzo può avere qualche ragione se ha creduto, per quasi quattro mesi, di essere stato vittima di una rapina e non di un'estorsione?

Bisogna allora leggere il secondo capitolo della storia dove la trama degli eventi è sconnessa, la successione contraddittoria, le volontà e le azioni senza senso. Tre carabinieri, tre tipi sinistri, con la complicità di un pusher tossicomane (Gianguarino Cafasso), penetrano con la forza in un appartamento dove il governatore è in compagnia di un viado. Lo sbattono contro un muro. Lo obbligano a sfilarsi i pantaloni (è l'ultima versione di Marrazzo). Sistemano un palcoscenico con trans scollacciato, denaro, cocaina, tessera dell'"Associazione nazionale esercenti cinema" con foto. Riprendono la scena con un cellulare. Gli svuotano il portafoglio (2.000 euro). Lo obbligano a firmare tre assegni per 20 mila euro (che non incassano). Se ne vanno. È il 3 luglio, venerdì. Già qualche giorno dopo, l'11 luglio, il pusher tossicomane contatta, attraverso il suo avvocato, la redazione di Libero (diretto da Vittorio Feltri). È bizzarro un ricatto con i ricattatori che non provano nemmeno a spillare denaro alla vittima, ma si preoccupano subito di rendere inutilizzabile l'arma minacciosa che si sono procurati. Perché? La ragione ce l'abbiamo sotto gli occhi: Piero Marrazzo non è stato mai ricattato dai carabinieri. Quelle canaglie non ci hanno mai pensato. Avrebbero dovuto comportarsi in un altro modo. Hanno il governatore nelle loro mani, troppo terrorizzato per denunciarli. Possono mettersi comodi e spremerlo per bene, e a lungo, ottenendo denaro e favori. Con tutta evidenza, non è questa la loro missione. Non chiedono niente, non vogliono niente, non si fanno mai vivi per batter cassa. Il lavoro sporco che devono sbrigare è un altro: incastrare il governatore e "sputtanarlo". Ecco perché cercano di vendere subito il video. L'iniziativa, a tutta prima, appare stupida, incomprensibile, se parliamo di estorsione. Si rivolgono all'agenzia PhotoMasi di Milano. Non ha torto Carmen Masi a chiedersi oggi: "Quale ricattatore cerca di rendere pubblico l'oggetto del ricatto? È assurdo". Infatti, lo è. Hai un bottino che può durare nel tempo e lo trasformi in un piatto di lenticchie mangiato una volta e per sempre?
Chi sono allora questi furfanti vestiti da carabinieri? Bisogna chiederlo alla fonte vicina all'inchiesta. Quello si gratta la testa e dice: "Ce ne occuperemo a tempo debito. Ora si possono fare solo tre ipotesi. 1. Sono tre pezzenti. 2. Sono "comandati". 3. Sono eterodiretti". La prima ipotesi è la più improbabile". Per dare un senso a una storia che non sta in piedi, si deve accantonare il ricatto che non c'è, che non c'è mai stato, ed esplorare la strada che imbocca il video. Chi lo vede? Chi lo possiede?

È, dunque, l'11 luglio. Un avvocato, per conto del pusher tossicomane, contatta la redazione di Libero. Due giornaliste, tre giorni dopo (il 15), incontrano Gianguarino Cafasso che mostra loro, in una stamberga della Cassia, il filmato con Marrazzo. È Cafasso a parlare di "politici e trans, di cui sa tutto" e di quello chiamato "Chiappe d'oro". Vuole 500mila euro (che nel tempo si riducono a 90 mila) per le immagini del governatore: "così chiudo con questa vita". Le giornaliste non sono convinte. I tre minuti del video sembrano taroccati. Chiedono di rivederlo. Niente da fare. Un paio di giorni per decidere o non se ne fa niente, dice Cafasso. Le giornaliste informano Vittorio Feltri che decide di lasciar perdere. Il video si muove ancora. Prima di ferragosto viene proposto ad Oggi (gruppo Rizzoli). Un inviato del settimanale lo visiona il 1 settembre a Roma. Gli appare taroccato. Vuole verificarne l'attendibilità. Gli viene impedito. La direzione di Oggi (Andrea Monti. Umberto Brindani), qualche giorno dopo, chiude la trattativa con la PhotoMasi, incaricata di commercializzare il video da un quarto carabiniere della banda. Il dischetto continua a girare per vie misteriose che vanno oltre i contatti dell'agenzia milanese. Non è più Cafasso a muoverlo. Stroncato dai suoi vizi e dal diabete, è morto in una stanza d'albergo. In settembre sente parlare del video Maurizio Belpietro, diventato direttore di Libero. Riesce a farselo mostrare, anche se non ne entra in possesso, il 12 ottobre. Anche lui s'impiomba dinanzi a quelle immagini troppo confuse che ipotizza false, ma ormai negli ambienti del governo e del centro-destra molti sanno che quel video esiste e che, prima o poi, si troverà il modo per mostrarlo a tutti. C'è chi storce la bocca per il disgusto e lascia filtrare da fine settembre la notizia del "filmatino", rifiutato da Feltri e Belpietro. Sono i primi giorni di ottobre, ormai, e il lavoro sporco dei carabinieri, forse "comandati", forse eterodiretti, mostra la corda. Nessuno vuole il video nelle testate che avrebbero avuto l'interesse politico - Cafasso è esplicito con le croniste di Libero - a pubblicarlo. Feltri l'ha rifiutato. Belpietro non l'ha voluto. A Mario Giordano, direttore del Giornale fino a luglio, non è stato nemmeno proposto.

Bisogna ricominciare daccapo, cambiando qualcosa nella procedura. Quando Carmen Masi contatta Alfonso Signorini, direttore di Chi (Mondadori), ottiene materialmente il video (l'agenzia non l'ha mai posseduto) e viene autorizzata finalmente dai quattro furfanti a lasciarlo in visione al possibile acquirente. È il cinque ottobre, Signorini riceve il dischetto, firma una ricevuta. Copia le immagini. Ora è decisivo sapere che cosa accade tra la Mondadori, Palazzo Grazioli, Villa San Martino, tra il 5 e il 19 ottobre, quando Berlusconi chiama Marrazzo per dirgli che c'è un video compromettente e che farebbe meglio a ricomprarselo dall'agenzia mentre gli detta il numero di telefono di Carmen Masi e di un possibile mediatore. Nella nebbia, c'è qualche punto fermo. Signorini decide di non pubblicare. È certo che non restituisce il dischetto. È certo che informa il presidente della Mondadori (Marina Berlusconi) e l'amministratore delegato (Maurizio Costa). È certo che Silvio Berlusconi ha modo di vedere il video che Signorini ha consegnato a Marina. I tempi diventano determinanti. Quando il direttore di Chi consegna le immagini a Marina? Quando Marina le mostra al padre? Quanto tempo Silvio Berlusconi si rigira tra le mani il dischetto prima di telefonare a Marrazzo?

I tempi sono determinanti perché, in quelle ore, il diavolo ci metta la coda. Le cose vanno così. Un pubblico ministero di una procura italiana sta dietro a una banda di trafficanti di droga che sta combinando "un affare molto, molto grosso". Telefoni sotto controllo. "Cimici" ambientali. Pedinamenti. Insomma, l'ambaradam di questi casi. Nella "rete" resta impigliato uno dei carabinieri canaglia che ha aggredito Marrazzo. L'"ascolto" si allarga ai suoi telefoni. Quello parla con uno della combriccola in divisa e si sente dire: "... il video del presidente...".
Il video del presidente. Il pubblico ministero a chi può pensare? Non è romano, non è laziale. L'ultima persona che gli può venire in mente è Marrazzo. Pensa a quel presidente, a Berlusconi. Si dispera. È di fronte a un'alternativa del diavolo. Sa di dover intervenire subito per proteggere il capo del governo da chissà che cosa ed è consapevole che, se lo fa, gli va per aria l'inchiesta. Decide di liberarsi della patata bollente. Intorno al 9 ottobre chiama il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Cataldo, e gli spiega l'impiccio: occupatevene voi, vi mando le carte, voi mettete le mani sul video, ammesso che esista, io salvo la mia inchiesta, voi salvate Berlusconi. Così sarà. Il 14 ottobre un'informativa del Ros mette in moto la procura di Roma.

A questo punto, si deve immaginare Berlusconi. Da un lato, come presidente del consiglio, il 19 viene informato che magistrati e carabinieri sono sulle tracce di "un video del presidente" che potrebbe coinvolgerlo. Dall'altro, come proprietario della Mondadori, quel mattino ha sul tavolo il video che magistrati e carabinieri stanno cercando. Non devono essere state ore serene. Se non si muove, se non fa qualcosa, chi toglie dalla testa dell'opinione pubblica che il presidente del consiglio - protetto da uno straordinario conflitto di interessi - governi una "macchina del fango", nel tempo sbattuta contro la reputazione di Dino Boffo (direttore dell'Avvenire), Gianfranco Fini (presidente della Camera), Raimondo Mesiano (giudice responsabile di avergli dato torto in una causa civile)? Chi azzittirà le grida della "solita sinistra" e dei "comunisti" persi dietro al cattivo pensiero che quel video - né pubblicato né restituito né consegnato alla magistratura - sia custodito in attesa di tempi migliori, magari elettorali? Berlusconi decide d'impulso, come sempre. Vuole uscire dall'angolo, ribaltare la scena. Chiama il governatore: "Non mi potranno dire che non sono stato un gentiluomo". Gli dice di muoversi. Spera che Marrazzo faccia in fretta. Compri il video, lo distrugga cancellando un lavoro malfatto che può essere molto pericoloso. Come si sa, il governatore si muove lento, i carabinieri veloci. Quel che rimane è storia di questi giorni e annuncia un terzo capitolo ancora non scritto.

Ora le rogne sono tutte della procura di Roma perché quel che è avvenuto è chiaro alla luce del codice penale. Articolo 640, ricettazione. "Chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve o occulta cose provenienti da un qualsiasi delitto o comunque s'intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due a otto anni". È indubbio che Signorini, Marina Berlusconi e Maurizio Costa, per procurarsi un profitto, hanno ricevuto quel video palesemente ottenuto con un delitto (con la violenza e la violazione del domicilio). È indubbio che Silvio Berlusconi si sia intromesso per far acquistare, prima, e occultare, poi, quella "cosa proveniente da un delitto". Se la legge è uguale per tutti, è ragionevole pensare che la procura di Roma cercherà di capire chi ha "pilotato" i falsi ricattatori mentre invierà a Milano, per competenza, le carte di una ipotetica ricettazione.

© Riproduzione riservata (30 ottobre 2009)
da corriere.it


Titolo: La macchina del fango partita da Milano come un manuale di killleraggio...
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2009, 12:33:35 pm
L'analisi. Da Berlusconi a Signorini, tutti i burattinai del caso Marrazzo

Combinato anche un incontro tra l'editore di "Libero" e la titolare dell'agenzia Masi

La macchina del fango partita da Milano come un manuale di killeraggio politico

di GIUSEPPE D'AVANZO


Le cose stanno così. Quei carabinieri che aggrediscono Piero Marrazzo in un appartamento privato, in compagnia di un viado, non sono canaglie a caccia di un bottino.

Non stanno preparando un'estorsione contro il governatore. Stanno raccogliendo il "materiale" per un ricatto che sarà utilizzato da altri, in altro modo, in un'altra città, con un altro obiettivo da quello del denaro (si è mai visto un estorsore che rinuncia al prezzo dell'estorsione?). Sono canaglie che forse bisognerà cominciare a definire rat-fuckers, come si chiamavano tra loro, orgogliosi, gli operativi dell'affare Watergate. Schiacciano con violenza Marrazzo contro un muro. Lo obbligano a calarsi i pantaloni. Lo fotografano. Trasferiscono il video a Milano.

E' Milano, con la sua industria editoriale, la scena del delitto. Perché è solo lì che quelle immagini possono trovare la mano che le pubblica. È da questo momento che l'affaire mostra un significato pubblico e un senso politico che rende oziosa, peggio incoerente con i fatti, la tiritera "chi di sesso ferisce, di sesso perisce". Che cosa succede? Qualcosa che - niente di più, niente di meno - si può leggere nei manuali di un "assassino politico". Il political hitman deve uccidere ma non lasciare la sua impronta. Così si deve "provocare una fuga di notizie verso i media rimanendo al di fuori della mischia mentre l'avversario viene tempestato da rispettabili giornalisti". Accade nel nostro caso. Le immagini vengono proposte a Oggi. La direzione (Andrea Monti, Umberto Brindani) le rifiuta. Bisogna venire allo scoperto, allora. Accettare il rischio di compromettersi. È questo il momento in cui la scena s'illumina e appaiono al proscenio i protagonisti, le comparse, il mattatore. Nel primo atto, il protagonista assoluto è Alfonso Signorini. Che soltanto una irresponsabile ingenuità potrebbe far definire semplicemente "il direttore di Chi". A leggere le testimonianze di un carabiniere canaglia, di un fotografo, della titolare della Photo Masi che ha l'incarico di commercializzare il video del ricatto, Signorini è il padrone del gioco. Riceve in Mediaset e tratta in Mondadori. Dispone per l'intera gamma dei periodici del gruppo editoriale. Lo dice con chiarezza, nei giorni successivi, informando costantemente Silvio Berlusconi.

E' esplicito uno dei carabinieri canaglia, Antonio Tamburrino: "A me fu detto che Signorini ne avrebbe dovuto parlare con Silvio Berlusconi". E' un fatto che Signorini è il playmaker in quella compagnia e nell'affaire. Consiglia, indica, sollecita. Combina non soltanto le scelte dei direttori dei media berlusconiani, sovraordinato a Vittorio Feltri, capataz del giornale di famiglia, ma anche delle testate del gruppo Angelucci (Libero, il Riformista). Organizza un incontro di Photo Masi con il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, il 12 ottobre. Due giorni dopo, Signorini combina un breafing tra Carmen Masi e Angelucci. Dice la Masi: "Angelucci visiona il filmato, si dimostra interessato, promette una risposta entro le ore 19 della stessa sera. Ho informato Signorini. Verso le 17, mi ha contattato telefonicamente. Mi ha detto di fermare tutto perché Panorama era molto interessato al tutto e dovevano decidere chi doveva pubblicare il tutto".

Mente dunque Signorini quando, con voce rotta di falso sdegno, protesta (è storia di qualche giorno fa) che "lui e soltanto lui ha deciso di non pubblicare le immagini di Marrazzo". Sua è la guida della "macchina". Chi ne decide direzione, percorso e velocità non è Signorini. E', come appare chiaro nel secondo atto di questa vicenda, Silvio Berlusconi, il mattatore. Sa del video, lo vede, lo valuta. Misura le convenienze per due settimane (5/19 ottobre). E' più utile pubblicarlo subito o conservarlo per tempi politicamente più opportuni? Il 19 ottobre, l'imprevisto. Lo informano che i carabinieri sono a caccia di un "video del presidente". Berlusconi comprende che non può starsene con quelle immagini sul tavolo: il "presidente" non è lui, ma quel disgraziato di Marrazzo. Lo chiama, gli dice che deve comprarselo in fretta, il video. Signorini lo aiuterà, ma - se è vero quel che riferisce lo staff del governatore a Esterino Montino (oggi governatore vicario) - aggiunge: "Rivolgiti a Giampaolo Angelucci, ti libererà dai guai". Il capo del governo non rinuncia agli utili. Con quella mossa, sa di poter avere in futuro la piena disponibilità del destino di Marrazzo. Per intanto, consegna il governatore, commissario straordinario alla sanità, al maggiore imprenditore regionale della sanità privata. Sempre ci sono anche gli affari, propri e degli amici, nelle manovre del capo del governo. Non è il solo contatto del premier con Marrazzo. Il 21 ottobre, il Cavaliere comunica al governatore che è tutto finito, i carabinieri sono ormai in azione, hanno arrestato i furfanti e stanno perquisendo la redazione di Chi. Esterino Montino, che è lì accanto a lui, vede Marrazzo sbiancare come per un malore. Bisogna ora dire quel che vediamo. Furfanti delle burocrazie della sicurezza incastrano un politico. Le immagini, estorte con la violenza in un appartamento privato, vengono consegnate a un alto funzionario (Signorini) di un sistema editoriale (Mondadori, Mediaset e indirettamente Tosinvest di Angelucci) governato direttamente da un proprietario che è anche presidente del consiglio. E' una macchina organizzata per seppellire nel fango chiunque osi dissentire.

Quel che accade in via Gradoli, ha dunque la stessa rilevanza di un prologo, in questa storia. Con buona pace di chi, come Giuliano Ferrara, parla di "deriva sessuofobica". L'affaire Marrazzo non è una storia di sesso e il sesso non è il focus della storia. L'affaire ci espone, nei suoi ingranaggi, una "macchina del fango" di cui già avevamo avvertito la pericolosità. E' la "macchina del fango", il cuore di questa storia. Il sesso l'alimenta. Le abitudini private di un ceto politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale sono o possono diventare il propellente di un dispositivo di dominio capace di modificare equilibri, risolvere conflitti, guadagnarsi un silenzio servile, azzittire e punire chi non si conforma, mettere in fuori gioco o espellere dalla competizione politica gli avversari.

L'affaire Marrazzo svela, come meglio non si potrebbe, le pratiche e le tecniche di un potere che, per volontà e per metodo, abusa di se stesso mostrandosi come pura violenza. Nessuno può meravigliarsene. Berlusconi, come gli autentici bugiardi, lascia sempre capire che cosa ha in mente perché - sempre - dice quel che fa e fa quel che dice. Scombussolato dalla "crisi di primavera" quando salta fuori la "commistione tra boudoir e selezione della classe dirigente politica", arruffato da una minorenne che confessa come e quando "Papi" gli ha promesso o la ribalta dello spettacolo televisivo o un seggio in Parlamento come custode della volontà di quel popolo sovrano evocato in ogni occasione, Berlusconi in luglio riordina le idee e lancia la "campagna di autunno". Cambia squadra. Vittorio Feltri al Giornale. Belpietro a Libero. Signorini su tutti. Gli avversari, veri o presunti, sono colpiti come birilli. Accade al giudice Mesiano, spiato e calunniato dalle telecamere di Canale5. Accade al direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, minacciato di "uno scandalo a luci rosse" perché responsabile di un civile dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle dipinta come un'adultera. È accaduto ora a Marrazzo, ma quanti ora temono che possa accadere anche a loro? Altro che le puzzette al naso di chi ancora ci annoia con lo sproloquio sul gossip. Non parliamo di letto, di pubblico/privato e ormai nemmeno più di trasparenza e fragilità della responsabilità pubblica. Discutiamo di libertà.

© Riproduzione riservata (31 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La verità a rate
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 09:53:33 am
IL COMMENTO

La verità a rate


di GIUSEPPE D'AVANZO

Piero Marrazzo, governatore dimissionario del Lazio, è un cocainomane. Lo ammette, nel suo secondo interrogatorio, correggendo quel che ha detto nel primo. La cocaina sul tavolo, ripresa in segreto dal cellulare di carabinieri furfanti, era sua.

L'aveva comprata e non è vero che quella polvere bianca era stata sistemata dai militari che si erano introdotti nell'appartamento con la forza. Un altro frammento di verità. Un'altra ammissione. Viene da chiedersi: ci sono altre confessioni? Marrazzo ha davvero e finalmente detto tutto? Perché a tornare indietro con la memoria, del governatore si ricordano soltanto omissioni, mezze verità, frottole. Più o meno dieci giorni fa - è già nota la notizia dei carabinieri ricattatori, dell'esistenza di un video compromettente - Marrazzo si presenta davanti alle telecamere per dire che è tutta "una bufala", che "il video non esiste" e, se esiste, "è manipolato".

Una "verità" che regge per poche ore. Il video c'è, lo ritrae con un viado, dinanzi al tavolo con cocaina e denaro. Nuova versione. È vero, ero in quell'appartamento con Natalì (il viado), ma non c'era droga. La droga ce l'hanno messa quelle canaglie dei carabinieri per rovinarlo, per estorcergli del denaro. È il 22 novembre. In quelle ore appare chiaro, come osserva Repubblica, che sono necessarie e improrogabili le dimissioni del governatore e non per le sue debolezze private, ma per quel suo comportamento di chi non dice e sembra non voler dire quel che è accaduto.

Riprendiamo qualche argomento di allora. "Il governatore del Lazio non ha detto di essere stato ricattato né tantomeno ha denunciato l'estorsione, come avrebbe dovuto fare. Non ha detto di aver firmato assegni - ai carabinieri che lo minacciavano - per evitare che scoppiasse uno scandalo. Ora che lo scandalo è esploso, non dice che cosa è accaduto e non sembra disposto ad ammettere le sue responsabilità. Marrazzo sembra non comprendere che gli scandali sono lotte per il potere proprio perché mettono in gioco la reputazione personale di chi governa e la fiducia di chi è governato. Quanto è affidabile oggi il governatore? Si può avere fiducia in lui? Marrazzo si protegge da ogni interrogativo agitando le ragioni della privacy. Come se questa formula magica - la mia privacy - potesse evitargli quella che, altrove, chiamano "valutazione di vulnerabilità": quanto le sue decisioni possono essere libere dalle pressioni o dai ricatti ai quali lo espone la sua scapestrata vita privata? Nel pasticcio in cui si è cacciato, il governatore ha solo una strada davanti a sé. Obbligata ed esclusiva: assumersi la responsabilità della verità. Non c'è e non può essercene un'altra, meno che mai il farfuglio di mezze verità e menzogne intere che Marrazzo ha sfoggiato".

Siamo, più o meno, ancora a questo punto. Purtroppo. Il governatore sostiene di non aver nemmeno compreso di essere vittima di un ricatto. Giovedì scorso, ha raccontato - in via privata - qualcosa in più: quei due carabinieri mi hanno sbattuto contro un muro; mi hanno costretto a calare i pantaloni; poi mi hanno portato via il denaro, ho pensato a una rapina; sì, ho firmato gli assegni, ma poi li ho fatti bloccare dalla banca, quelli non si sono fatti più vivi, così non ho più pensato alla "cosa".

Se quel che si sa a quest'ora è corretto, è una ricostruzione che ha molte, troppe smagliature. Nel video, anche se confusamente, si ascolta Marrazzo implorare i carabinieri di "non rovinarlo", promette loro denaro e favori. Ora che accade, secondo il governatore? Quelli arraffano 5.000 euro in contati dal tavolo (denaro per la cocaina e per il sesso) e tre assegni per 20 mila euro (che non incasseranno mai) e vanno via senza farsi più vedere e sentire. Seguiamo ora i carabinieri. Sono convinti di fare un po' di grana vendendo il video girato segretamente. Quanto? 40/50 mila euro da spillare nell'industria editoriale degli scandali. E perché non chiederli a Marrazzo, senza complicarsi tanto la vita o affidare il proprio destino professionale a gente che non conoscono?
Questo per i carabinieri: più che canaglie appaiono degli idioti degni di un film di Joel ed Ethan Coen.

Marrazzo non è da meno. Subisce un'aggressione, lo sorprendono con il naso incipriato in casa di un viado e pensa di essersela cavata con 5.000 euro e la furbata degli assegni firmati e poi bloccati. E tuttavia, ammettiamo per un attimo che le cose stiano così, che cosa pensa, dice e fa Marrazzo quando il 19 ottobre gli telefona Berlusconi? Che cosa gli dice il capo del governo? È vero, che gli consiglia di rivolgersi ad Alfonso Signorini e - come riferisce lo staff del governatore a Esterino Montino (oggi governatore vicario) - aggiunge: "Rivolgiti a Giampaolo Angelucci, ti libererà dai guai". In quel momento, chiunque, al posto di Marrazzo, avrebbe capito che la sua carriera politica era al capolinea. Come può pensare un governatore di continuare il suo lavoro correttamente dopo che deve la salvezza al maggior imprenditore della sanità? Come è evidente, ci sono ancora angoli di questo affaire da chiarire. Marrazzo deve fare la sua parte. Oggi, come ieri, gli si chiede di assumersi la responsabilità della verità. Al di là dell'inchiesta giudiziaria, al di là delle sue avventatezze private, lo deve a se stesso e a chi ha avuto fiducia in lui.

© Riproduzione riservata (3 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Processi veloci, ultimo trucco
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2009, 09:35:20 am
IL COMMENTO

Processi veloci, ultimo trucco

di GIUSEPPE D'AVANZO


PERBACCO, ecco finalmente i "problemi reali del Paese". O meglio, l'unico problema del Paese che, come in un'ossessione paranoica, a Berlusconi e alla sua gente appare reale: i processi di Berlusconi. Come evitare che il presidente del consiglio affronti il tribunale e un giudizio? La narrazione di questa necessità, che dovremmo sentire come un obbligo dovuto al sovrano, si nutre di finzioni, inganni, autoinganni, rovesciamento di senso.

Nel corso del tempo, ha mutato i suoi pretesti. Prima è stata accompagnata dal giocoso ritornello "così fan tutti" e ci è stato lasciato intendere che dovunque, nel mondo, chi governa è immune dal processo. È una balla, ma è stata all'origine di una legge (la "Schifani") incostituzionale e presto silurata dalla Consulta. All'inizio di questa legislatura, nuova legge immunitaria ("Alfano") e nuovo argomento: se deve difendersi nelle aule di un tribunale, il capo del governo non può governare. Quindi, si sospenda il processo. Gli si consenta di svolgere il suo incarico. In aula ci andrà dopo. La Corte costituzionale boccia il nuovo sgorbio: processo e governo possono coesistere se giudici e imputato (che governa) concordano un calendario di udienze che non pregiudica le responsabilità del presidente del consiglio e consenta al tribunale di accertare che cosa è accaduto e per colpa di chi. La coerente soluzione costituzionale non può essere accettata perché un processo, in ogni caso, ci sarà e, per Berlusconi, è giusto l'intralcio che va aggirato. Dunque, si ricomincia. Questa volta, con una sprezzante limpidezza della ragione che impone "una soluzione definitiva".

Il perché ha una sua formula sfrontata e una declinazione più ideologica. Della prima s'incarica Fedele Confalonieri: "Le leggi ad personam? [Silvio] Le fa per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro". Della seconda, se ne cura Giuliano Ferrara: "C'è un solo vero dilemma: della guida di questo Paese decide il popolo o decide l'ordine giudiziario?". Al fondo dell'argomento, c'è una tesi insidiosa e controversa: Berlusconi ha il diritto di prevalere su tutti gli altri poteri dello Stato (anche il potere giudiziario, anche il parlamento, anche la corte costituzionale), perché soltanto lui è "eletto direttamente dal popolo". Quindi, nessuno lo può giudicare a meno di non volere azzerare la volontà popolare, con un colpo eversivo della democrazia. Ilvo Diamanti e Giovanni Sartori hanno dimostrato con qualche numero che "l'asserzione è falsa" perché Berlusconi non è insediato "direttamente" dalla volontà popolare e lo vota, sì e no, un terzo degli italiani. Troppo poco per concludere che Berlusconi è il popolo e il popolo è Berlusconi. Ma tant'è, questo è l'argomento che ci viene oggi proposto. Irrobustito, si fa per dire, da due "quadri" diventati ormai "classici", nonostante la loro inconsistenza: la magistratura ha liquidato abusivamente, quindici anni fa, un sistema politico (per credere alla favola, bisogna dimenticare che diecimila miliardi di tangenti l'anno avevano già distrutto il Paese); Berlusconi, una volta in politica nel 1994, è stato perseguitato dalle "toghe rosse" con ostinazione (in questo caso, si dimentica che Mediaset e Publitalia erano sotto inchiesta già nel 1992 e Berlusconi era già stato al centro negli anni ottanta di indagini e condanne penali).

Questa figurazione truccata, che ieri ha ottenuto anche un sorprendente editoriale del direttore del Tg1 a favore del ripristino dell'immunità parlamentare, sostiene il nuovo schema con cui faremo i conti nei prossimi mesi. L'ultimo paradigma, escogitato dai "tecnici" di Berlusconi, si poggia ancora una volta su una narrazione alterata. È interessante scorgere quale prezzo Berlusconi intende far pagare alla sua maggioranza, al suo governo, alla macchina della giustizia, ai cittadini pur di guadagnare l'impunità.
Si dice: la giustizia è lenta, va riformata nell'interesse dei cittadini. È un'assoluta priorità correggere la prescrizione (il tempo che lo Stato si concede per accertare i fatti e la responsabilità). Quindi - ecco l'ultimo scarabocchio - tagliamo subito di un quarto i tempi di prescrizione dei procedimenti in corso per i reati commessi prima del 2 maggio 2006 con pena massima fino a dieci anni e stabiliamo che i processi devono essere celebrati in sei anni (tre per il tribunale, due per l'appello, uno per la cassazione).

Bisogna ora chiedersi: è vero che, riformata così la prescrizione, i processi saranno più rapidi? La risposta è che non è vero. La riforma (condivisibile) è soltanto un imbroglio se non si provvede a mettere il sistema in condizione di celebrare i processi in tempi compatibili con la nuova prescrizione. Ma di questo obiettivo Berlusconi e i suoi non vogliono discutere perché, con tutta evidenza, i procedimenti da cancellare con quelle norme sono i tre processi che, dopo la bocciatura della "legge Alfano", attendono il capo del governo (Mills, diritti Mediaset, Mediatrade).

Vediamo ora quali sono gli effetti di questa mossa per la giustizia e per la politica. I quattro quinti dei reati previsti dal codice penale sono puniti con una pena massima inferiore ai dieci anni. Se si considera che, in media, i processi durano sette anni e mezzo, anche i non addetti comprendono che i quattro quinti dei processi italiani sarà azzerato, le vittime dei reati umiliate, i rei liberi come farfalle. Ecco perché si parla di amnistia mascherata e di massa. Qui, il prezzo maggiore lo paga la sicurezza dei cittadini, che pure è uno dei cardini del programma di governo. L'esito disastroso ha come pendant rovinoso l'effetto sul quadro politico e istituzionale. Il presidente della Repubblica non vuole "riforme né occasionali né di corto respiro". Il presidente della Camera concorda che il processo sia breve, ma ritiene che ridurre unicamente i tempi della prescrizione non trasforma un sistema arrugginito in una macchina efficiente. Dal loro canto, i magistrati hanno fatto sapere che, per dare più rapidità al processo, sono necessarie più risorse e, da subito, qualche accorgimento tecnico. Per esempio, la posta elettronica per le migliaia di notifiche e avvisi inviati agli avvocati; la sospensione dei processi penali per gli imputati irreperibili, che impegnano i tribunali senza alcuna utilità; la depenalizzazione dei reati minori, per riservare il costoso processo penale, alle questioni di reale allarme sociale.

Sappiamo anche un'ultima cosa. Che il Pd di Bersani è disposto a un dialogo con il governo per sostenere una nuova stagione di "riforme strutturali", ma esclude che la giustizia ad personam sia una priorità. È questa allora la mappa dei conflitti autunnali che Berlusconi accenderà se dovesse ostinarsi nella sua pretesa di rendersi immune, costi quel che costi. Contro il capo dello Stato; contro il presidente della Camera e parte della maggioranza (quella che fa riferimento a Fini); contro la magistratura; contro lo spirito riformista dell'opposizione; contro la sicurezza dei cittadini; contro le vittime dei reati. Uno scontro senza quartiere che Berlusconi è disposto a provocare in nome dei "problemi reali del Paese". Anzi, dell'unico problema reale che conta per lui, il suo.

© Riproduzione riservata (10 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La corruzione costa 25mila euro a testa ma in Italia non è ...
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 10:20:06 am
L'inchiesta/1.

Sbalorditivo il silenzio di chi si batte per il Sistema Italia: dagli imprenditori ai sindacati, alle associazioni di risparmiatori e consumatori

La corruzione costa 25mila euro a testa ma in Italia non è un reato grave

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
Paese meraviglioso l'Italia. Quando non si acceca da solo, chiude gli occhi. Il frastuono politico assorda e il rumore mediatico lascia nascosta qualche verità e - in un canto - fatti che, al contrario, meritano molta luce e l'attenzione dell'opinione pubblica. La disciplina del "processo breve" ce l'abbiamo sotto gli occhi e vale la pena di farci i conti, senza lasciarci distrarre da ingenui e imbonitori. Qualche punto fermo. Il disegno di legge pro divo Berluscone non rende i processi rapidi (è una cristallina scemenza). Quel provvedimento fabbrica una prescrizione svelta e improvvisa come un fulmine che uccide. Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato responsabile - e leale con i suoi cittadini - si concede un tempo adeguato per accertare il reato e punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più problematico e laborioso il suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il delitto. Le regole della prescrizione svelta e assassina (dei processi) capovolgono questo criterio di efficienza e buon senso.

Più grave è il reato, minore è il tempo per giudicarlo. I magistrati avranno tutto il tempo per processare uno scippatore e tempi contingentati per venire a capo, per dire, di abuso d'ufficio, frodi comunitarie, frodi fiscali, bancarotta preferenziale, truffa semplice o aggravata: quel mascalzone di Bernard Madoff, che ha trafugato 50 miliardi di dollari ai suoi investitori, ne gioirebbe maledicendo di non essere nato italiano.

Ora il disegno di legge potrà essere corretto e limato ma - statene certi - non potrà mai lasciare per strada la corruzione propria e impropria perché Silvio Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari e con il corrotto già condannato in appello (David Mills), ha bisogno di quel "salvacondotto" per levarsi dai guai. Un primo risultato si può allora scolpire nella pietra: l'Italia è il solo Paese dell'Occidente che considera la corruzione un reato non grave e dunque, se le parole e le intenzioni hanno un senso, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile, economicamente tranquilla. Nessuno pare chiedersi se ce lo possiamo permettere; quali ne saranno i frutti; quali i costi economici e immateriali; quale il futuro di un Paese dove "corrotto" e "corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore", "immigrato clandestino", "automobilista distratto", e la corruzione così inoffensiva da meritare una definitiva depenalizzazione o una permanente amnistia.

Il silenzio su questo aspetto decisivo della "prescrizione svelta", inaugurata dalla "legge Berlusconi", è sorprendente. È sbalorditivo che il dibattito pubblico sul minaccioso pasticcio, cucinato dagli avvocati del premier nel suo interesse, non veda protagonisti anche la Confindustria, chi ha cara la piccola e media impresa, i sindacati, gli economisti, le autorità di controllo del mercato e della concorrenza, le associazioni dei risparmiatori e dei consumatori, i ministri del governo che ancora oggi si dannano l'anima per dare competitività al "sistema Italia". Come se il circuito mediatico e "pubblicitario" del presidente del consiglio fosse riuscito a gabellare per autentica la storia di un ennesimo conflitto tra politica e giustizia, e dunque soltanto affare per giuristi, toghe e giornalisti. Come se questo progetto criminofilo non parlasse di sviluppo e arretratezza; di passato e di futuro; di convivenza civile, organizzazione sociale, legittimità delle istituzioni, trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese.

È stupefacente questo silenzio perché ognuno di noi paga ancora oggi e pagherà domani, con l'ipoteca sul futuro di figli e nipoti, il prezzo della corruzione del passato, quasi sette punti di prodotto interno lordo ogni anno, 25mila euro di debito per ciascun cittadino della Repubblica, neonati inclusi. Settanta miliardi di euro di interessi passivi, sottratti ogni anno alle infrastrutture, al welfare, alla formazione, alla ricerca. È una condizione che corifei e turiferari, vespi e minzolini, occultano all'opinione pubblica. È necessario qualche ricordo allora per chi crede al "colpo di Stato giudiziario", alla finalità tutta politica dell'azione delle procure, favola ancora in voga in queste ore nel talk-show influenzati dal Cavaliere. Quando Mani Pulite muove i suoi primi passi, il giro di affari della corruzione italiana è di diecimila miliardi di lire l'anno, con un indebitamento pubblico tra i 150 e il 250 mila miliardi più 15/25 miliardi di interessi passivi. L'abitudine alla corruzione cancella ogni sensibilità del ceto politico per i conti pubblici. Inesistente negli anni sessanta, il debito cresce fino al 60 per cento del prodotto interno lordo negli anni ottanta. Sale al 70 per cento nel 1983. Tocca il 92 per cento nei quattro anni (1983/1987) di governo Craxi, per chiudere alla vigilia di Mani Pulite, nel 1992, al 118 per cento. Non c'è dubbio che, in quegli anni, una maggiore attenzione della magistratura alla corruzione, e la consapevolezza sociale del danno che produce, favorisce il parziale rientro dal debito, utile per adeguarsi ai parametri di Maastricht. Di quegli anni - 1993/1994 - è infatti il picco di denunce dei delitti di corruzione. Con il tempo, la tensione si allenta. Lentamente la curva dei delitti denunciati decresce e nel 2000 torna ai livelli del 1991, quelli antecedenti all'emersione di Tangentopoli. Negli anni successivi la legislazione ad personam (taglio dei tempi di prescrizione per i reati economici, dalla corruzione al falso in bilancio), i condoni fiscali, le difficoltà della legge sul "risparmio" (in realtà sulla governance) chiudono il cerchio e una stagione.

Da qui, allora, occorre muovere per comprendere e giudicare un progetto che può spingere l'Italia, nell'interesse di uno, in prossimità di una condizione da "paese emergente". Perché la difficoltà della nostra storia recente nasce nel fondo oscuro della corruzione. Tirarsene fuori è una necessità in quanto c'è - non è un segreto, anche se è trascurato dal discorso pubblico e dai cantori dell'Egoarca - una simmetria perfetta tra la corruzione e le criticità per la società e il Paese. Mercati dominati da distorsioni e "tasse immorali" (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti) garantiscono benefici soltanto agli insiders della combriccola corruttiva. Oltre a perdere competitività, i mercati corrotti non attraggono investimenti di capitale straniero e sono segnati da una bassa crescita (troppe barriere all'entrata, troppi rischi di investimento). Non c'è studio o analisi che non confermi la relazione tra il grado di corruzione e la crescita economica, soprattutto per quanto riguarda le medie e piccole imprese che sono il nocciolo duro della nostra economia reale. Infatti, le piccole e medie imprese - si legge nella relazione parlamentare che ha accompagnato la ratifica della convenzione dell'Onu contro la corruzione diventata legge il 14 agosto del 2009 - , "oltre a non avere i mezzi strutturali e finanziari delle grandi imprese (che consentono loro interventi diretti e distorsivi) risultano avere meno peso politico e minori disponibilità economiche per far fronte alla richiesta di tangenti". La corruzione diventa un costo fisso per le imprese e un onere che incide pesantemente nelle decisioni di investimento. Sono costi, per le piccole e medie imprese, che possono essere determinanti per l'entrata nel mercato, così come possono causarne l'uscita dal mercato. E in ogni caso sono costi che hanno rilevanti ricadute su altri fronti: ricerca, innovazioni tecnologiche, manutenzione, sicurezza personale, tutela ambientale.

Per queste ragioni, la corruzione dovrebbe trovare una sua assoluta priorità nell'agenda politica e gli italiani se ne rendono conto anche se magari non sanno, come ha scritto il ministro Renato Brunetta, che il balzello occulto della corruzione "equivale a una tassa di mille euro l'anno per ogni italiano, neonati inclusi". Secondo Trasparency International, un organismo "no profit" che studia il fenomeno della corruzione a livello globale, il 44 per cento degli italiani crede che la corruzione "incide in modo significativo" sulla sua vita personale e familiare; per il 92 per cento nel sistema economico; per il 95 nella vita politica; per il 85 sulla cultura e i valori della società. Più del 70 per cento della società ritiene che nei prossimi anni la corruzione sia destinata a non diminuire.

Il disastroso quadro nazionale è noto agli organismi internazionali. È di questi giorni il rapporto del Consiglio d'Europa sulla corruzione in Italia. Il Consiglio rileva che in Italia i casi di malversazione sono in aumento; che le condanne sono diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una discrezionalità che confina con l'arbitrarietà. Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d'Europa (Greco) ha inviato all'Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l'interruzione dei processi) normative (nuove figure di reato).

La risposta alle preoccupazioni della comunità internazionale - che appena al G8 dell'Aquila ha sottoscritto il dodecalogo dell'Ocse per un global legal standard (peraltro fortemente voluto da Tremonti) - è ora nel disegno di legge della "prescrizione svelta". La corruzione è trascurabile. Non è il piombo sulle ali dell'economia italiana. Non è la tossina che avvelena il metabolismo della società italiana. Non è il muro che ci impedisce di scorgere il futuro. È un grattacapo del capo del governo. Bisogna eliminarlo anche al prezzo di non avere più un futuro per l'Italia intera. Dove sono in questo piano inclinato "gli uomini del fare" che credono nella loro impresa, nel merito, nel mercato, nella concorrenza? E perché tacciono?

© Riproduzione riservata (18 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il Cavaliere e la favola dei 106 processi
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2009, 03:27:51 pm
L'INCHIESTA/2

Il Cavaliere e la favola dei 106 processi

di GIUSEPPE D'AVANZO


SI dice: il processo sia "breve" e se questa rapidità cancella i processi di Silvio Berlusconi sia benvenuta perché contro quel poveruomo, dopo che ha scelto la politica (1994), si è scatenato un "accanimento giudiziario" con centinaia di processi.

Al fondo della diciottesima legge ad personam, favorevole al capo del governo c'è soltanto uno schema comunicativo, fantasioso, perché privo di ogni connessione con la realtà. È indiscutibile che un giudizio debba avere una ragionevole durata per non diventare giustizia negata (per l'imputato innocente, per la vittima del reato). "Processo breve", però, è soltanto un'efficace formula di marketing politico-commerciale. Nulla di più. Per credere che dia davvero dinamismo ai dibattimenti, bisogna dimenticare che le nuove regole (durata di sei anni o morte del processo) sono un imbroglio, se non si migliorano prima codice, procedura, organizzazione giudiziaria. Sono una rovina per la credibilità del "sistema Italia", se definiscono "non gravi" i reati economici come la corruzione. Con il tempo, la ragione privatissima del disegno di legge è diventata limpida anche per i creduloni, e i corifei del sovrano ora ammettono in pubblico che la catastrofica riforma è stata pensata unicamente per liberare Berlusconi dai suoi personali grattacapi giudiziari. L'effrazione di ogni condizione generale e astratta della legge deve essere sostenuta - per conformare la mente del "pubblico" - da un secondo soundbite, quella formuletta breve e convincente che, come una filastrocca, deve essere recitata in tv, secondo gli esperti, al ritmo di 6,5 sillabe al secondo, in non più di 12/15 secondi. Diffusa, ripetuta e disseminata dai guardiani vespi e minzolini dei flussi di comunicazione, suona così: Silvio Berlusconi ha il diritto di proteggersi - sì, anche con una legge ad personam - perché ha dovuto subire centinaia di processi dopo la sua "discesa in campo", spia di un protagonismo abusivo e tutto politico della magistratura che indebolisce la democrazia italiana.

Bene, ma è vero che Berlusconi è stato "aggredito" dalle toghe soltanto dopo aver scelto la politica? E quanto è stato "aggredito"? Davvero lo è stato con "centinaia di processi" tutti conclusi con un nulla di fatto? Domande che meritano parole factual, se si vuole avere un'opinione corretta anche di questo argomento sbandierato da tempo e accettato senza riserve anche dalle menti più ammobiliate.

Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso se si ascolta il presidente del consiglio. Dice il Cavaliere: "In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni" (10 ottobre 2009). Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l'iperbole paterna: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?" (Corriere, 10 ottobre). Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l'alto: "I processi contro Berlusconi sono 109" (Porta a porta, 15 ottobre). Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: "Non esageriamo, i processi sono 26".

Ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni? In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici. Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori (la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione); fondi neri per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell'affare Mediatrade (il pm si prepara a chiudere le indagini).

Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell'art. 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria". Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati).

È vero, l'inventario annoia ma qualcosa ci racconta. Ci spiega che senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) affatturate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato un "delinquente abituale". Anche perché, se non avesse corrotto un testimone (David Mills, già condannato in appello, lo protegge dalla condanna in due processi), non avrebbe potuto godere delle "attenuanti generiche" che lo hanno reso "meritevole" della prescrizione che egli stesso, da presidente del consiglio, s'è riscritto e accorciato.

L'imbarazzante bilancio giudiziario non liquida un lamento che nella "narrativa" di Berlusconi è vitale: fino a quando nel 1994 non mi sono candidato al governo del Paese, la magistratura non mi ha indagato. Se non si lasciano deperire i fatti, anche questo ossessivo soundbite non è altro che l'alchimia di un mago, pubblicità. Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l'accusa è archiviata). È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa. Nel 1993 - un anno prima della sua prima candidatura al governo - la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia. Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo "politico" dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano. Ammette che le "fiamme gialle" hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992), tutti controlli che precedono l'avventura politica dell'Egoarca. Accidentale è anche la scoperta dei fondi esteri della Fininvest. Vale la pena di ricordarlo. Uno dei prestanomi di Bettino Craxi, Giorgio Tradati, consegna a Di Pietro i tabulati del conto "Northern Holding". Li gestisce per conto di Craxi. Sul conto affluisce, senza alcun precauzione, il denaro che il gotha dell'imprenditoria nazionale versa al leader socialista.

C'è una sola eccezione. Un triplice versamento non ha nome e firma. Sono tre tranche da cinque miliardi di lire che un mittente, generoso e sconosciuto, invia nell'ottobre 1991 a Craxi. "Fu Bettino a annunciarmi l'arrivo di quel versamento", ricorda Tradati. Le rogatorie permettono di accertare che i miliardi, "appoggiati" su "Northern Holding", vengono dal conto "All Iberian" della Sbs di Lugano. Di chi è "All Iberian"? Per mesi, i pubblici ministeri pestano acqua nel mortaio fino a quando un giovane praticante dello studio Carnelutti, un prestigioso studio legale milanese, confessa al pool di avere fatto per anni da prestanome per conto della Fininvest in società create dall'avvocato londinese David Mackenzie Mills.
Così hanno inizio le rogne che ancora oggi Berlusconi deve grattarsi. Il caso, la fortuna, la sfortuna, fate voi. Tirando quell'esile filo, saltano fuori 64 società off-shore del "gruppo B di Fininvest very secret", create venti anni fa e alimentate prevalentemente con fondi provenienti dalla "Silvio Berlusconi Finanziaria". È in quell'arcipelago che si muovono le transazioni strategiche della Fininvest che, come documenterà la Kpmg, consentono a Berlusconi e al suo gruppo di "alterare le rappresentazioni di bilancio"; "esercitare un controllo con fiduciari in emittenti tv che le normative italiane estere non avrebbero permesso"; "detenere quote di partecipazione in società quotate senza informare la Consob e in società non quotate per interposta persona"; "erogare finanziamenti"; "effettuare pagamenti"; "intermediare tra società del gruppo l'acquisizione dei diritti televisivi"; "ricevere fondi da terzi per finanziare operazioni di Fininvest effettuate per conto di terzi". È il disvelamento non di un episodio illegale, ma di un metodo illegale di lavoro, dello schema imprenditoriale illecito che è a fondamento delle fortune di Silvio Berlusconi. Per dirla tutta, e con il senno di poi, sedici processi per venire a capo di quel grumo di illegalità oggi appaiono addirittura un numero modesto. Nel "group B very discreet della Fininvest" infatti si costituiscono fondi neri (quasi mille miliardi di lire). Transitano i 21 miliardi che rimunerano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. E c'è altro che ancora non sappiamo e non sapremo?

Tutti i processi che Berlusconi ha affrontato e deve ancora affrontare nascono per caso non per un deliberato proposito. Un finanziere che confessa, un giovane avvocato che si libera del peso che incupisce i suoi giorni consentono di mettere insieme indagine dopo indagine, ineluttabili per l'obbligatorietà dell'azione penale, una verità che il capo del governo non potrà mai ammettere: il suo successo è stato costruito con l'evasione fiscale, i bilanci truccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Per Berlusconi, la banalizzazione della sua storia giudiziaria, che egli traduce e confonde in guerra alla (o della) magistratura, non è il conflitto della politica contro l'esercizio abusivo del potere giudiziario, ma il disperato e personale tentativo di cancellare per sempre le tracce del passato e di un metodo inconfessabile. Con quali tecniche Berlusconi ha combattuto, e ancora affronterà, questa contesa è un'altra storia.

© Riproduzione riservata (20 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quei misteri e quei segreti del computer di Brenda
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2009, 10:01:27 pm
LE INDAGINI/

Dopo il pestaggio la trans aveva paura, ma è stata lasciata sola

Se l'assassino ha le chiavi aveva tutto il tempo di portar via il pc e distruggerlo

Quei misteri e quei segreti del computer di Brenda

di GIUSEPPE D'AVANZO


C'È di certo che Brenda è morta distesa nel soppalco, asfissiata (forse) dai fumi di un incendio che si è sviluppato nei venti metri quadrati del suo minuscolo appartamento della Cassia. Si può escludere il suicidio. Troppo macchinoso per chi, come Brenda, era facile a gesti autolesionistici: si è tagliata braccia e vene appena qualche settimana fa. Due le ipotesi che sono in piedi. Omicidio o incidente domestico.

Brenda, come sempre, ha bevuto troppo whisky e ha buttato giù troppi psicofarmaci (ne ha comprati mercoledì sera e ne ha chiesto in giro, alle sue amiche, giovedì).
Si addormenta. Nel "tugurio", come viene definito l'alloggio da chi l'ha visto, nasce un incendio lento. Il fumo la uccide nel sonno. L'ipotesi è sostenuta da qualche circostanza. La porta è chiusa a doppia mandata. Nessun segno di colluttazione. Nessuna traccia di violenza sul corpo del viado.

Le stesse circostanze, a sentire qualche voce di dentro in Procura, possono convincere, al contrario, per l'omicidio. L'assassino, gli assassini hanno le chiavi di casa e non hanno bisogno di manomettere la serratura. Attendono che Brenda si addormenti con calma e appiccano il fuoco. Si allontanano dopo aver infilato il computer sotto l'acqua del lavabo per cancellarne le immagini e i testi memorizzati. Proprio il computer potrebbe essere il grimaldello per scombinare l'ipotesi.

Se l'assassino, gli assassini avevano le chiavi - e Brenda già si è assopita - hanno tutto il tempo per frugare nell'appartamento, trovato in ordine, e portar via il computer per poi distruggerlo con calma altrove, senza lasciarlo in quella casa presumendo che l'acqua ne rovini la memoria (e non è così, i tecnici delle polizie sono in grado di recuperarne i contenuti).

Perché lo abbandonano allora, in bella mostra, sulla scena del "delitto"? Giusto per farlo ritrovare - un po' a mollo, è vero - ma ancora in grado di liberare tutti i veleni che potrebbe contenere o contiene?

Comunque, queste sono tutte storie perché la pasticciona procura di Roma (due procuratori aggiunti e due sostituti sul luogo del delitto, ognuno con le sue opinioni e suggestioni, ognuno con i suoi orientamenti e indicazioni, tanto per fare maggiore confusione in un caso già ambiguissimo) apre un'inchiesta per "omicidio volontario". Una mossa tattica e consueta, va detto. Consente a chi indaga un'invasività investigativa che altre imputazioni non permetterebbero. E tuttavia un'accusa che oggi farà parlare, a buon diritto, di un omicidio nell'affaire Marrazzo - forse il secondo, dopo la "misteriosa morte" di Giangavino Cafasso, pusher, ruffiano, primo spacciatore alla stampa del video del governatore in compagnia del viado Natalie, "scoppiato" forse per overdose, forse per diabete, forse per mano assassina, in un albergo di Roma il 12 settembre.

Quale sarà l'esito dell'inchiesta, omicidio o incidente domestico, cambia poco - e si scuserà il cinismo - perché non è la morte di Brenda l'essenziale di questo nuovo capitolo dell'affaire Marrazzo.

Brenda era una vita alla deriva, una persona che nessuno ha saputo e voluto sostenere nel più difficile passaggio della sua vita già difficile. In queste settimane, nell'indifferenza di tutti, è stata minacciata, brutalmente picchiata, derubata del suo cellulare. Forse, il vero obiettivo del pestaggio. Brenda aveva paura. Lo diceva, lo gridava. Nessuno l'ha ascoltata o aiutata e chi oggi la piange ha lacrime di coccodrillo.

Quel che, alla fine, conterà in questa storia è quel che Brenda si lascia dietro: il computer. È, appunto, la memoria di quel computer, ora umido d'acqua, il nuovo centro della storia. Se assassini ci sono, forse, hanno ucciso non per cancellare tracce e prove, ma per far sì che tracce e prove siano trovate. Quel computer custodisce immagini e video che possono compromettere la congrega di nomi illustri o eccellenti che frequentavano il viado? Un fatto è certo. Brenda, approfittando della debolezza dei suoi ospiti o l'istupidimento provocato dalla cocaina che sniffavano con lei, "rubava" immagini di quegli incontri.

Nel caso di Piero Marrazzo, lo ha ammesso. Protagonisti del video: Brenda; un altro viado, Michelle; il governatore. Dice Brenda ai carabinieri nei primi giorni di novembre: "Certo, avevo quel video, lo custodivo nel mio pc ma l'ho distrutto perché avevo paura". È il video - "Marrazzo, con due viado, che sniffa cocaina" - di cui molto si parla nei circoli politici e giornalistici della Capitale, nell'ultima settimana di settembre. È una circostanza che, seppure confusamente, conferma anche Piero Marrazzo, il 2 novembre: "Ho avuto incontri con un'altra persona, un certo Blenda. Nell'occasione di un incontro con Blenda, ricordo che è passato anche un altro trans di cui non rammento il nome. Mi sembra che ho avuto solo due incontri con Blenda. Né Blenda o Natalie mi hanno mai chiesto del denaro o ricattato in relazione a foto o video che mi ritraevano. Non sono a conoscenza di video o foto scattate da Blenda in occasione di questi incontri, ma il mio stato confusionale, dovuto all'assunzione occasionale di cocaina, non mi mette in condizione di saperlo".

Si può distruggere una persona, anche senza torcerle un capello. La si può "assassinare" con un'immagine che può essere più minacciosa e mortale di un cappio o di un colpo di pistola. Il computer di Brenda, sia morta per omicidio o incidente domestico, potrà rivelarsi nei prossimi giorni e settimane un devastante arsenale di sopraffazione morale, alimentato dal sesso e dalle immagini catalogate in un computer.

Ogni delitto è sempre una catastrofe e ogni catastrofe ci svela sempre che è accaduto qualcosa che non capiamo perché quel che conta sapere - per capire davvero - non ci viene detto e non lo conosciamo. Ma, in questa storia di Piero Marrazzo e ora di Brenda, qualcosa si è già compreso o intuito: le abitudini private di un ceto politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale sono state, sono e possono diventare gli strumenti di ricatti spietati e distruttivi, utili a modificare equilibri, risolvere conflitti; in qualche caso, adatti a "muovere le cose", concludere affari o farli saltare. Brenda, quale che sia la ragione della sua morte, si è trovata al centro di questo gorgo fangoso, attrice consapevole di una tragedia scritta e diretta da altri.

© Riproduzione riservata (21 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Per Silvio Berlusconi 18 salvacondotti in 15 anni
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2009, 10:36:00 am
L'INCHIESTA

Per Silvio Berlusconi 18 salvacondotti in 15 anni

di GIUSEPPE D'AVANZO


ANCHE William Shakespeare può essere utile per comprendere come Berlusconi si difende da quell'umana, precaria "verità" che la magistratura ha il dovere di ordinare.
In Misura per misura - "commedia oscura" che racconta di giustizia, potere, autorità, morale, dignità umana - il Lord vicario Angelo incontra Isabella che lo implora di salvare suo fratello dalla pena di morte (scena IV, II atto). Il Lord: "Egli non morrà, Isabella, se voi mi darete amore". Isabella: "Io ti denunzierò Angelo, bada! Firma subito il perdono di mio fratello, o ch'io proclamerò a voce spiegata, davanti a tutti, che specie di uomo sei". Il Lord: "E chi vuoi che ti creda, Isabella? Il mio nome (...) e il posto che occupo nello Stato avranno un peso maggiore di quello della tua accusa. Tutto quello che dirai avrà il sapore di calunnia (...) Dì pure in giro tutto quello che credi. La mia menzogna avrà più peso della tua verità".

Il modo con cui Silvio Berlusconi si difende dalla magistratura è in quelle poche parole: "La mia menzogna avrà più peso". Per dirla con una formula di Massimo Nobili (L'immoralità necessaria, il Mulino), è "la forza del potere contro la verità". Questo è il paradigma che da sempre il capo del governo oppone alla giustizia. Se si vuole averne un'idea concreta, è interessante riportare alla luce il frammento di una storia del 1994.

In quell'estate, le cose vanno così: Berlusconi ha vinto le sue prime elezioni, è sistemato a Palazzo Chigi. In un altro angolo d'Italia, a Sciacca (Agrigento), i carabinieri friggono nel caldo d'agosto dietro le tracce lasciate da Salvatore Di Ganci, mafioso di alto grado. Il mafioso se l'è svignata sotto il loro naso. In meno di un'ora, ha abbandonato la sua scrivania di direttore della Cassa Centrale di Risparmio per farsi latitante ed evitare l'arresto. Adesso i carabinieri lo cercano e confidano che i suoi amici al telefono, prima o poi, possano dare una mano con una parola imprudente. Hanno linee telefoniche sotto controllo. Tra gli altri, anche il numero di Massimo Maria Berruti. Bel tipo, questo Berruti, ormai da tre legislature parlamentare della Repubblica (Forza Italia, PdL).
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Nel 1978, da capitano della Guardia di Finanza, controlla la Edilnord (azienda del Gruppo Fininvest, all'epoca Edilnord S. a. s. di Umberto Previti & C.). Interroga Silvio Berlusconi. Che, con faccia di cuoio, gli dice di ignorare chi fossero i soci della società: "Io sono un semplice consulente". Berruti beve la frottola. Chiude il controllo. Poco dopo, lascia il Corpo e, come avvocato, prende a curare gli interessi di alcune società della Fininvest.

In quell'estate del 1994, Berruti è attivissimo come il suo telefono. L'uomo ha un problema: sa che i pubblici ministeri di Milano ronzano intorno ai militari del Nucleo tributario della Guardia di Finanza che, nel 1991, si sono messi in tasca 130 milioni di lire per chiudere gli occhi in una verifica fiscale alla Mondadori. L'8 giugno Berruti incontra, a Palazzo Chigi, Berlusconi e, nelle settimane successive, cerca un "contatto" con l'ufficiale corrotto per dirgli di tenere la bocca chiusa sulla Mondadori, se dovesse essere interrogato dai pubblici ministeri. La manovra non sfugge alla procura. Arresta il mediatore (un sottufficiale della Guardia di Finanza). Che racconta delle pressioni. Berruti sente che per lui le ore sono contate. Sarà interrogato, forse arrestato.

Ora è il 10 agosto 1994, sono le 10,29, e i carabinieri di Sciacca intercettano la conversazione di Berruti con Berlusconi. Il documento fonico, raccolto nell'indagine del mafioso Di Ganci, non potrà per legge essere utilizzato in un altro procedimento. Tuttavia, ancora oggi, quel colloquio tra Berruti e il suo Capo rivela e custodisce l'intero catalogo degli argomenti che, in quindici anni, Berlusconi utilizzerà per difendersi dal suo passato, convinto che la menzogna del potere abbia, debba avere più peso della "verità". Per lui, convincere non è altro che ingannare, null'altro.
Dunque, esordisce Berruti (chiama da casa, sa o presume di essere ascoltato): "Sono Massimo, presidente... [I pubblici ministeri] Mi vogliono parlare. Sembra che qualcuno abbia detto che io sono andato a chiedere a qualcuno di non parlare delle cose Fininvest".

Tocca a Berlusconi spiegare che cosa l'uomo deve fare e dire ai pubblici ministeri: "Vabbé, lei dice, ma voi siete pazzi... Dice, io non ho niente da nascondere. Voi fate una cosa di questo genere su un cittadino della Repubblica, voi pigliate... e lei si mette a urlare: voi siete dei pazzi, delle belve feroci, lei non può mettermi in galera, questo è sequestro di persona, eccetera... [Dell'uomo che l'accusa, dirà]: pezzo di rincoglionito che capisce lucciole per lanterne... Poi faccia dichiarazioni ai giornalisti: non se ne può più di questi matti. Faccia dichiarazioni prima di entrare dentro. [Dica] Con tutto questo non si fa altro che andare contro l'interesse del Paese, perché il Paese ha bisogno di lavorare in fiducia, in tranquillità, bisogna ricostruirlo!.. Questi [magistrati] ... sono dei nemici pubblici".

Se si sbrogliano queste frasi - le più sinceramente bugiarde che Berlusconi abbia mai detto - si ritrova, denudato, il nucleo più autentico delle ragioni che l'Egoarca oppone a una magistratura che si ritrova tra le mani le concrete evidenze di un sistema economico costruito grazie alla corruzione e la frode. Berlusconi non accetta di discutere le abitudini della sua bottega né di dimostrare che il dubbio dei pubblici ministeri sia infondato, un indizio senza certezza, un documento - in apparenza, opaco - a doppia lettura. Rifiuta alla radice la legittimità di chiedergli conto del suo comportamento. Non riconosce alcuna fondatezza e costituzionalità al lavoro della magistratura (accertare che cosa è accaduto, per responsabilità di chi). E' l'unica via di fuga che può liberarlo da contestazioni che non può affrontare. Quegli uomini in toga sono dei "pazzi".

Prima di sapere che cosa sanno o hanno raccolto o vogliono chiedere, bisogna subito urlargli contro; gridare allo scandalo, alla violenza; denunciarli come eversori che distruggono la "fiducia del Paese". Sono "nemici pubblici" che bisogna allontanare e annichilire. Pur di non rispondere di ciò che è stato, il capo del governo è disposto anche a sopportare il peggiore dei sospetti.

Ancora oggi, nella ricerca di impunità, Berlusconi si muove lungo la via che, quindici anni fa, indica a Massimo Maria Berruti. Si tiene lontano dalle aule. Arringa al "pubblico" la sua innocenza e le cattive intenzioni di quei "matti" in toga nera. Invoca il maglio dell'informazione (che controlla) per intimidirli, umiliarli, screditarli e la manipolazione dei media (che influenza) per distruggere il passato, oscurare con la menzogna i fatti, lasciar deperire - nell'opinione pubblica - la memoria. E' "la forza del potere contro la verità", come dirlo meglio? Berlusconi rivendica il suo potere per eliminare ogni accusa, ogni prova, ogni testimonianza e, insieme, degradare a funzione sottordinata ogni altro potere dello Stato che possa obbligarlo a fare i conti con la "verità". La manovra è addirittura trasparente. "Se [Silvio] non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi [di Mediaset] oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l'accusa di mafia", confessa Fedele Confalonieri (Repubblica, 25 giugno 2000). Berlusconi, quell'arma impropria del potere politico, l'ha agitata senza risparmio.

Delle diciotto leggi ad personam che si è scritto, otto proteggono e rafforzano i suoi affari, dieci lo tutelano dalla legge. Si è riscritto le regole del processo (i tempi della prescrizione), dei codici, della procedura (il divieto di appello del pubblico ministero per le sentenze di proscioglimento). Ha legiferato per abolire reati (il falso in bilancio), rimuovere i giudici (legittimo sospetto), annullare fonti di prova (le rogatorie). Infine, per rendersi immune (le leggi "Schifani" e "Alfano"). All'inizio, ha travestito il suo conflitto di interessi con pose umili: "Il presidente del Consiglio, che è un primus inter pares e coordina l'attività degli altri ministri, ha l'obbligo morale di astenersi quando sono sul tappeto decisioni che potrebbero riguardare anche i suoi interessi" (Corriere, 20 settembre 2000).

Oggi, dopo la bocciatura della "legge Alfano", anche questa maschera è caduta e il capo del governo rivendica di essere "primus super pares". Se ne deve dedurre che "la legge è uguale per tutti, ma non sempre lo è la sua applicazione", in particolar modo per il capo del governo, "investito del suo ruolo dalla sovranità popolare" (Nicolò Ghedini alla Corte Costituzionale, 6 ottobre 2009). E' la pretesa di un'indivisibilità della sovranità che eclissa ogni divisione dei poteri istituzionali. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole perché è "un'esperienza eterna" che chi ha il potere, se non trova un limite, ne abuserà. Come il Lord vicario di Shakespeare, 1604.

Stupefacente è che questo avvenga nel 2009, nell'Occidente liberale, in Italia. Dove con la leggenda di un "accanimento giudiziario" (16 processi non 106, come dice il capo del governo), anche soi disantes liberali possono sostenere che il rispetto delle regole sia più nefasto della loro violazione o, in alternativa, che per salvare la Repubblica bisogna immunizzare un solo cittadino del Paese. Con l'esito - è questo che ci attende, se Berlusconi la spunterà - di depenalizzare addirittura il reato di corruzione in una scena pubblica dove è abolita ogni distinzione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario con la creazione di uno "stato d'eccezione" che annulla e contraddice ogni aspetto normativo del diritto, anche quello fondamentale di essere eguali davanti alla legge. E' un paradigma di governo che invoca, in nome della sovranità, "pieni poteri" (plein pouvoirs). Come se potessimo trascurare, anche soltanto per un attimo, che l'esercizio sistematico dell'eccezione conduce necessariamente alla liquidazione della democrazia.
(Le prime due puntate sono state pubblicate il 18 e il 20 novembre)

© Riproduzione riservata (23 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO Mafia, perché i pentiti accusano Berlusconi
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2009, 11:44:33 am
Ad una svolta l'indagine di Firenze sulle stragi del 1993.

Il nome del presidente del Consiglio nei verbali degli uomini della cosca di Brancaccio

Mafia, perché i pentiti accusano Berlusconi

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO


NELL'INCHIESTA sui mandanti delle stragi del 1993 estranei a Cosa Nostra entrano Autore 1 e Autore 2. Gli ultimi interrogatori della procura di Firenze hanno una particolarità. Tecnica, ma comprensibilissima. I primi testimoni sono stati ascoltati in un'inchiesta a "modello 44", "notizie di reato relative a ignoti". Gli ultimi, a "modello 21", dunque "a carico di noti". I pubblici ministeri, nei documenti, non svelano i nomi dei nuovi indagati. Chi sono Autore 1 e 2? Secondo le indiscrezioni pubblicate già nei giorni scorsi dai quotidiani vicini al governo, sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, la cui posizione era stata già archiviata il 3 maggio del 2002. Se così fosse, l'atto è dovuto. Non è un mistero (un migliaio di pagine sono state depositate, tre giorni fa, al processo di appello a Dell'Utri che si celebra a Palermo) che un nuovo testimone dell'accusa - Gaspare Spatuzza - indica nel presidente del consiglio e nel suo braccio destro i suggeritori della campagna stragista di sedici anni fa. Queste sono le "nuove" dai palazzi di giustizia, ma quel che si scorge è molto altro. L'intero fronte mafioso è minacciosamente in movimento. "La Cosa Nostra siciliana" si prepara a chiedere il conto a un Berlusconi che appare, a ragione, in tensione e sicuro che il peggio debba ancora venire.

Accade che, nella convinzione di "essere stata venduta" dopo "le trattative" degli anni Novanta, la famiglia di Brancaccio ha deciso di aggredire - in pubblico e servendosi di un processo - chi "non ha mantenuto gli impegni". Ci sono anche i messaggi di morte. Al presidente del Senato, Renato Schifani, siciliano di Palermo. O, come raccontano le "voci di dentro" di Cosa Nostra, avvertimenti che sarebbero piovuti su Marcello Dell'Utri. Un'intimidazione che ha - pare - molto impaurito il senatore e patron di Publitalia. Sono sintomi che devono essere considerati oggi un corollario della resa dei conti tra Cosa Nostra e il capo del governo. È il modo più semplice per dirlo. Perché di questo si tratta, del rendiconto finale e traumatico tra chi (Berlusconi) ha avuto troppo e chi (Cosa Nostra) ritiene di avere nelle mani soltanto polvere dopo molte promesse e infinita pazienza. Questo scorcio di 2009 finisce così per avere molti punti di contatto con il 1993 quando la Penisola è stata insanguinata dalle stragi: Roma, via Fauro (14 maggio); Firenze, via Georgofili (27 maggio); Milano, via Palestro (27 luglio); Roma, S. Giorgio al Velabro e S. Giovanni in Laterano (28 luglio); Roma, stadio Olimpico (23 gennaio 1994), attentato per fortuna fallito. Nel nostro tempo, non c'è tritolo e devastazione, ma l'annuncio di una "verità" che può essere più distruttiva di una bomba. Per lo Stato, per chi governa il Paese.

Per capire quel che accade, bisogna sapere un paio di cose. La famiglia mafiosa dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano di Brancaccio a Palermo è il nocciolo irriducibile - con i Corleonesi di Riina e Bagarella, con i Trapanesi di Matteo Messina Denaro (latitante) - di una Cosa nostra siciliana che oggi ha il suo "stato maggiore" in carcere e in libertà soltanto mischini senza risorse, senza influenza, senza affari, incapace anche di concludere uno sbarco di cocaina perché priva del denaro per acquistare un gommone. La seconda cosa che occorre ricordare è che gli "uomini d'onore" non hanno mai ammesso di essere un'"associazione" (Giovanni Bontate che, in un'aula di tribunale, usò con leggerezza il noi fu fatto secco appena libero).

I mafiosi non hanno mai accettato di discutere i fatti loro, anche soltanto di prendere in considerazione l'ipotesi di lasciar entrare uno sguardo estraneo negli affari della casa, figurarsi poi se gli occhi erano di magistrato. Apprezzati questi due requisiti "storici", si può comprendere meglio l'originalità di quanto accade, ora in questo momento, dentro Cosa Nostra. Tra Cosa Nostra e lo Stato (i pubblici ministeri). Tra Cosa Nostra e gli uomini (Berlusconi, Dell'Utri) che - a diritto o a torto, è tutto da dimostrare - i mafiosi hanno considerato, dal 1992/1993 e per quindici anni, gli interlocutori di un progetto che, dopo le stragi, avrebbe rimesso le cose a posto: i piccioli, il denaro, al sicuro; i "carcerati" o fuori o dentro, ma in condizioni di tenere il filo del loro business; mediocri e distratte politiche della sicurezza; lavoro giudiziario indebolito per legge; ceto politico disponibile, come nel passato, al dialogo e al compromesso con gli interessi mafiosi.

Sono novità che preparano una stagione nuova, incubano conflitti dolorosi e pericolosi. La campana suona per Silvio Berlusconi perché, nelle tortuosità che sempre accompagnano le cose di mafia, è evidente che il 4 dicembre - quando Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, testimonierà nel processo di appello contro Marcello Dell'Utri - avrà inizio la resa dei conti della famiglia dei fratelli Graviano contro il capo del governo che, in agosto, ha detto di voler "passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia".

È un fatto sorprendente che i mafiosi abbiano deciso di parlare con i pubblici ministeri di quattro procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano). Vogliono contribuire "alla verità". Lo dice, con le opportune prudenze, anche Giuseppe Graviano, "muto" da quindici anni. Quattro uomini della famiglia offrono una collaborazione piena. Sono Gaspare Spatuzza, Pietro Romeo, Giuseppe Ciaramitaro, Salvatore Grigoli. Spiegano, ricordano. Chiariscono come nacque, e da chi, l'idea delle stragi che non "avevano il dna di Cosa Nostra" e che "si portarono dietro quei morti innocenti". Indicano l'"accordo politico" che le giustificò e le rese necessarie "per il bene della Cosa Nostra". I nomi di Berlusconi e Dell'Utri saltano fuori in questo snodo.

Gaspare Spatuzza, 18 giugno 2009, ricostruisce la vigilia dell'attentato all'Olimpico: "Giuseppe Graviano mi ha detto "che tutto si è chiuso bene, abbiamo ottenuto quello che cercavamo; le persone che hanno portato avanti la cosa non sono come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci hanno chiesto i voti e poi ci hanno venduti. Si tratta di persone affidabili". A quel punto mi fa il nome di Berlusconi e mi conferma, a mia domanda, che si tratta di quello di Canale 5; poi mi dice che c'è anche un paesano nostro e mi fa il nome di Dell'Utri (...) Giuseppe Graviano mi dice [ancora] che comunque bisogna fare l'attentato all'Olimpico perché serve a dare il "colpo di grazia" e afferma: ormai "abbiamo il Paese nelle mani"".
Pietro Romeo, 30 settembre 2009: "... In quel momento stavamo parlando di armi e di altri argomenti seri. [Fu chiesto a Spatuzza] se il politico dietro le stragi fosse Andreotti o Berlusconi. Spatuzza rispose: Berlusconi. La motivazione stragista di Cosa Nostra era quella di far togliere il 41 bis. Non ho mai saputo quali motivazioni ci fossero nella parte politica. Noi eravamo [soltanto degli] esecutori".

Salvatore Grigoli, interrogatorio 5 novembre 2009: "Dalle informazioni datemi (...), le stragi erano fatte per costringere lo Stato a scendere a patti (...) Dell'Utri è il nome da me conosciuto (...), quale contatto politico dei Graviano (...) Quello di Dell'Utri, per me, in quel momento era un nome conosciuto ma neppure particolarmente importante. Quel che è certo è [che me ne parlarono] come [del nostro] contatto politico". E' una scena che trova conferme anche in parole già dette, nel tempo. I ricordi di Giuseppe Ciaramitaro li si può scovare in un verbale d'interrogatorio del 23 luglio 1996: "Mi [fu] detto che bisognava portare questo attacco allo Stato e che c'era un politico che indicava gli obiettivi, quando questo politico avrebbe vinto le elezioni, si sarebbe quindi interessato a far abolire il 41 bis (...). Quando Berlusconi [è] stato presidente del Consiglio per la prima volta, nell'organizzazione erano tutti contenti, perché si stava muovendo nel senso desiderato e [si disse] che la proroga del 41 bis era stata solo per 'fintà in modo da eliminarlo del tutto alla scadenza".

Ci sarà, certo, chi dirà che non c'è nulla di nuovo. "Pentiti di mafia" che confermano testimonianza di altri "pentiti di mafia" ci sono stati ieri, ci sono oggi. La differenza, in questo caso, è come questi uomini che hanno saltato il fosso sono trattati dagli altri, da chi - in apparenza - resta ben saldo nelle sue convinzioni di mafioso, nel suo giuramento d'omertà. Li rispettano, sorprendentemente. Non era mai capitato. Non li considerano degli "infami". Accettano il dialogo con loro. Anche i più ostinati come Cosimo Lo Nigro e Vittorio Tutino.

Cosimo Lo Nigro, il 10 settembre del 2009, è seduto di fronte a Gaspare Spatuzza. Spatuzza gli dice che "ha gioito - oggi me ne vergogno - , ma ho gioito per Capaci perché quello [Falcone] rappresentava un nemico per Cosa Nostra... ma il nostro malessere inizia nel momento in cui ci spingiamo oltre (...) su Firenze, Roma, Milano...". Lo Nigro lo ascolta, senza contraddirlo. Spatuzza ricostruisce come andarono le cose durante la preparazione della strage all'Olimpico. Lo Nigro lo lascia concludere e gli dice: "Rispetto le tue scelte, ma ancora ti chiedo: sei sicuro di ciò che dici e delle tue scelte?". Vittorio Tutino accetta di essere interrogato dai Pm di Caltanissetta. Non fa scena muta. Parla. Il suo verbale d'interrogatorio deve essere interessante perché viene secretato.

Già queste mosse annunciano la nuova stagione, ma la dirompente novità è nei cauti passi dei due boss di Brancaccio, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Sono i più vicini a Salvatore Riina. Hanno guidato con mano ferma la loro "batteria" fino a progettare la strage - per fortuna evitata per un inghippo nell'innesco dell'esplosivo - di un centinaio di carabinieri all'Olimpico il 23 gennaio del 1994. Sono in galera da quindici anni. Hanno studiato (economia, matematica) in carcere. Dal carcere si sono curati dell'educazione dei loro figli affidati ai migliori collegi di Roma e di Palermo e ora sembrano stufi, stanchi di attendere quel che per troppo tempo hanno atteso. Spatuzza racconta che, alla fine del 2004, Filippo Graviano, 48 anni, sbottò: "Bisogna far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati". La frase è eloquente. C'è un accordo. Chi lo ha sottoscritto, non ha rispettato l'impegno. Per cavarsi dall'angolo, c'è un solo modo: dissociarsi, collaborare con la giustizia, svelare le responsabilità di chi - estraneo all'organizzazione - si è tirato indietro. Accusarlo può essere considerato "un'infamia"?

Filippo Graviano, il 20 agosto 2009, accetta il confronto con Gaspare Spatuzza. C'è una sola questione da discutere. Quella frase. Ha detto che "se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati"? La smentita di Filippo Graviano è ambigua. In Sicilia dicono: a entri ed esci. Dice Filippo a Gaspare: "Io non ho mai parlato con ostilità nei tuoi riguardi. I discorsi che facevamo erano per migliorare noi stessi. Già noi avevamo allora un atteggiamento diverso, già volevamo agire nella legalità. Noi parlavamo di un nostro futuro in un'altra parte d'Italia". La premessa è utile al boss per negare ma con garbo: "Mi dispiace contraddire Spatuzza, ma devo dire che non mi aspetto niente adesso e nemmeno nel passato, nel 2004. Mi sembra molto remoto che possa avere detto una frase simile perché, come ho detto, non mi aspetto niente da nessuno. Avrei cercato un magistrato in tutti questi anni, se qualcuno non avesse onorato un presunto impegno".

Filippo non ha timore di pronunciare per un boss parole tradizionalmente vietate, "legalità", "cercare magistrati". Si spinge anche a pronunciarne una, indicibile: "dissociazione". Dice, il 28 luglio 2009: "Da parte mia è una dissociazione verso le scelte del passato (...). Oggi sono una persona diversa. Faccio un esempio. Nel mio passato, al primo posto, c'era il denaro. Oggi c'è la cultura, la conoscenza. (...) Io non rifarei le scelte che ho fatto".

Anche Giuseppe Graviano, 46 anni, il più duro, il più autorevole (i suoi lo chiamano "Madre natura" o "Mio padre"), incontra i magistrati, il 28 luglio 2008. E' la prima volta che risponde a una domanda dal tempo del suo arresto, il 27 gennaio 1993. Dice: "Io sono disposto a fare i confronti, con coloro che indico io e che ritengo sappiano la verità. Sono disposto a un confronto con Spatuzza ma cosa volete che sappia Spatuzza che non sa niente, faceva l'imbianchino, sarà ricattato da qualcuno". Sembra che alzi un muro e che il muro sia insuperabile, ma non è così. Quando gli tocca parlare delle stragi del 1993, ragiona: "Perché non mi avete fatto fare il confronto con i pentiti in aula, quando l'ho chiesto? Così una versione io, una versione loro e poi c'è il magistrato [che giudica]: voi ascoltavate e potevate decidere chi stava dicendo la verità. La verità, [soltanto] la verità di come sono andati i fatti.. . io vi volevo portare alla verità. E speriamo che esca la verità veramente. Ve ne accorgerete del danno che avete fatto. Se noi dobbiamo scoprire [la verità], io posso dare una mano d'aiuto. Io dico che uscirà fuori la verità delle cose. Trovate i veri colpevoli, i veri colpevoli. Si parla sempre di colletti bianchi, colletti grigi, colletti e sono sempre innocenti [questi, mentre] i poveri disgraziati...".

Gli chiedono i magistrati: "Lei sa che ci sono colletti bianchi implicati in queste storie?". Risponde: "Io non lo so. Poi stiamo a vedere se... qualcuno ha il desiderio di dirlo che lo sa benissimo... Ma io non posso dire la mia verità così. Perché non serve a niente. Invece, ve la faccio dire, io, [da] chi sa la verità".

Ora bisogna mettere in ordine quel che si intuisce nelle mosse di Cosa Nostra. I "pentiti" non sono maledetti da chi, in teoria, stanno tradendo. Al contrario, ricevono attestati di solidarietà, segnali di rispetto, addirittura cenni di condivisione per una scelta che alcuni non hanno ancora la forza di decidere. E' più che un'impressione: è come se chi offre piena collaborazione alla magistratura (Spatuzza, Romeo, Grigoli) abbia l'approvazione di chi governa la famiglia (Giuseppe e Filippo Graviano) e ancora oggi può essere considerato al vertice di un'organizzazione che, in carcere, custodisce l'intera memoria della sua storia, delle sue connessioni, degli intrecci indicibili e finora non detti, degli interessi segreti e protetti. In una formula, il peso di un ricatto che viene offerto con le parole e i ricordi delle "seconde file" in attesa che le "prime" possano valutare quel che accade, chi e come si muove.

Ecco perché ha paura Berlusconi. Quegli uomini della mafia non conoscono soltanto "la verità" delle stragi (che sarà molto arduo rappresentare in un racconto processuale ben motivato), ma soprattutto le origini oscure della sua avventura imprenditoriale, già emerse e documentate dal processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri (condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Di denaro, di piccioli minacciano allora di parlare i Graviano e gli uomini della famiglia di Brancaccio. Dice Spatuzza: "I Graviano sono ricchissimi e il loro patrimonio non è stato intaccato di un centesimo. Hanno investito al Nord e in Sardegna e solo così mi spiego perché durante la latitanza sono stati a Milano e non a Brancaccio. È anomalo, anomalissimo". Se a Milano - dice il testimone - Filippo e Giuseppe si sentivano più protetti che nella loro borgata di Palermo vuol dire che chi li proteggeva a Milano era più potente e affidabile della famiglia.

© Riproduzione riservata (27 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Sono i soldi degli inizi del Cavaliere l'asso nella manica dei Graviano
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 12:44:16 pm
L'INCHIESTA -

Il peso del ricatto al premier della famiglia di Brancaccio sembra legato all'inizio della sua storia di imprenditore

Sono i soldi degli inizi del Cavaliere l'asso nella manica dei fratelli Graviano

Più che un eventuale avviso di garanzia per le stragi del '93, il premier dovrebbe temere il coinvolgimento da parte delle cosche sulle storie di denaro affari e politica

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO



Soldi. Soldi "loro" che non sono rimasti in Sicilia, ma "portati su", lontano da Palermo. "Filippo Graviano mi parlava come se fosse un suo investimento, come se la Fininvest fossero soldi messi da tasca sua". Per Gaspare Spatuzza, da qualche parte, la famiglia di Brancaccio ha "un asso nella manica". Quale può essere questo "jolly" non è più un mistero. Per i mafiosi, che riferiscono quel che sanno ai procuratori di Firenze, è una realtà il ricatto per Berlusconi che Cosa Nostra nasconde sotto la controversa storia delle stragi del 1993. Nell'interrogatorio del 16 marzo 2009, Spatuzza non parla più di morte, di bombe, di assassini, ma del denaro dei Graviano. E ha pochi dubbi che Giuseppe Graviano (che chiama "Madre Natura" o "Mio padre") "si giocherà l'asso" contro chi a Milano è stato il mediatore degli affari di famiglia, Marcello Dell'Utri, e l'utilizzatore di quelle risorse, Silvio Berlusconi.

Il mafioso ricostruisce la storia imprenditoriale della cosca di Brancaccio, con i Corleonesi di Riina e Bagarella e i Trapanesi di Matteo Messina Denaro, il nocciolo duro e irriducibile di Cosa nostra siciliana.
È il 16 marzo 2009, il mafioso di Brancaccio racconta ai pubblici ministeri del "tesoro" dei Graviano. "Cento lire non gliele hanno levate a tutt'oggi. Non gli hanno sequestrato niente e sono ricchissimi".

"Non si fidano di nessuno, hanno costruito in questi vent'anni un patrimonio immenso". Per Gaspare Spatuzza, due più due fa sempre quattro. Dopo il 1989 e fino al 27 gennaio 1994 (li arrestano ai tavoli di "Gigi il cacciatore" di via Procaccini), Filippo e Giuseppe decidono di starsene latitanti a Milano e non a Palermo. Hanno le loro buone ragioni. A Milano possono contare su protezioni eccellenti e insospettabili che li garantiscono meglio delle strade strette di Brancaccio dove non passa inosservato nemmeno uno spillo. E dunque perché? "E' anomalissimo", dice il mafioso, ma la chiave è nel denaro. A Milano non ci sono uomini della famiglia, ma non importa perché ci sono i loro soldi e gli uomini che li custodiscono. I loro nomi forse non sono un mistero. Di più, Gaspare Spatuzza li suggerisce. Interrogatorio del 16 giugno: "Filippo ha nutrito sempre simpatia nei riguardi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, (...) Filippo è tutto patito dell'abilità manageriale di Berlusconi. Potrei riempire pagine e pagine di verbale [per raccontare] della simpatia e del... possiamo dire ... dell'amore che lo lega a Berlusconi e Dell'Utri".

"L'asso nella manica" di Giuseppe Graviano, "il jolly" evocato dal mafioso come una minaccia - sostengono fonti vicine all'inchiesta - non è nella fitta rete di contatti, reciproche e ancora misteriose influenze che hanno preceduto le cinque stragi del 1993 - lo conferma anche Spatuzza - , ma nelle connessioni di affari che, "negli ultimi vent'anni", la famiglia di Brancaccio ha coltivato a Milano. E' la rassicurante condizione che rende arrogante anche Filippo, solitamente equilibrato. Dice Gaspare: "[Filippo mi disse]: facceli fare i processi a loro, perché un giorno glieli faremo noi, i processi".

Nella lettura delle migliaia di pagine di interrogatorio, ora agli atti del processo di appello di Marcello Dell'Utri, pare necessario allora non farsi imprigionare da quel doloroso 1993, ma tenere lo sguardo più lungo verso il passato perché le stragi di quell'anno sono soltanto la fine (provvisoria e sfuggente) di una storia, mentre i mafiosi che hanno saltato il fosso - e i boss che hanno autorizzato la manovra - parlano di un inizio e su quell'epifania sembrano fare affidamento per la resa dei conti con il capo del governo.

Le cose stanno così. Berlusconi non deve temere il suo coinvolgimento - come mandante - nelle stragi non esclusivamente mafiose del 1993. Può mettere fin da ora nel conto che sarà indagato, se già non lo è a Firenze. Molti saranno gli strepiti quando la notizia diventerà ufficiale, ma va ricordato che l'iscrizione al registro degli indagati mette in chiaro la situazione, tutela i diritti della difesa, garantisce all'indagato tempi certi dell'istruttoria (limitati nel tempo). Quando l'incolpazione diventerà pubblica, l'immagine internazionale del premier ne subirà un danno, è vero, ma il Cavaliere ha dimostrato di saper reggere anche alle pressioni più moleste. E comunque quel che deve intimorire e intimorisce oggi il premier non è la personale credibilità presso le cancellerie dell'Occidente, ma fin dove si può spingere e si spingerà l'aggressione della famiglia mafiosa di Brancaccio, determinata a regolare i conti con l'uomo - l'imprenditore, il politico - da cui si è sentita "venduta" e tradita, dopo "le trattative" del 1993 (nascita di Forza Italia), gli impegni del 1994 (primo governo Berlusconi), le attese del 2001 (il Cavaliere torna a Palazzo Chigi dopo la sconfitta del '96), le più recenti parole del premier: "Voglio passare alla storia come il presidente del consiglio che ha distrutto la mafia" (agosto 2009).

Mandate in avanscoperta, non contraddette o isolate dai boss, le "seconde file" della cosca - manovali del delitto e della strage al tritolo - hanno finora tirato dentro il Cavaliere e Marcello Dell'Utri come ispiratori della campagna di bombe, inedita per una mafia che in Continente non ha mai messo piede - nel passato - per uccidere innocenti. Fonti vicine alle inchieste (quattro, Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano) non nascondono però che raccogliere le fonti di prove necessarie per un processo sarà un'impresa ardua dall'esito oggi dubbio e soltanto ipotetico. Non bastano i ricordi di mafiosi che "disertano". Non sono sufficienti le parole che si sono detti tra loro, dentro l'organizzazione. Non possono essere definitive le prudenti parole di dissociazione di Filippo Graviano o il trasversale messaggio di Giuseppe che promette ai magistrati "una mano d'aiuto per trovare la verità". Occorrono, come li definisce la Cassazione, "riscontri intrinseci ed estrinseci", corrispondenze delle parole con fatti accertabili. Detto con chiarezza, sarà molto difficile portare in un'aula di tribunale l'impronta digitale di Silvio Berlusconi nelle stragi del 1993.

Questo affondo della famiglia di Brancaccio sembra - vagliato allo stato delle cose di oggi - soltanto un avvertimento che Cosa Nostra vuole dare alla letale quiete che sta distruggendo il potere dell'organizzazione e, soprattutto, uno scrollone a uno stallo senza futuro, che l'allontana dal recupero di risorse essenziali per ritrovare l'appannato prestigio.

Il denaro, i piccioli, in queste storie di mafia, sono sempre curiosamente trascurati anche se i mafiosi, al di là della retorica dell'onore e della famiglia, altro non hanno in testa. I Graviano, dice Gaspare Spatuzza, non sono un'eccezione. Nel loro caso, addirittura sono più lungimiranti. Nei primi anni novanta, Filippo e Giuseppe preparano l'addio alla Sicilia, "la dismissione del loro patrimonio" nell'isola. Spatuzza (16 giugno 2009): "Nel 1991, vendono, svendono il patrimonio. Cercano i soldi, [vogliono] liquidità e io non so come sono stati impiegati [poi] questi capitali, e per quali acquisizioni. Certo, non sono restati in Sicilia". I Graviano, a Gaspare, non appaiono più interessati "alle attività illecite". "Quando Filippo esce [dal carcere] nell'88 o nel 1989, esce con questa mania, questa grandezza imprenditoriale. I Graviano hanno già, per esempio, le tre Standa di Palermo affidate a un prestanome, in corso Calatafimi a Porta Nuova, in via Duca Della Verdura, in via Hazon a Brancaccio". Filippo - sempre lui - si sforza di far capire anche a uno come Spatuzza, imbianchino, le opportunità e anche i rischi di un impegno nella finanza. Le sue parole svelano che ha già a disposizione uomini, canali, punti di riferimento, competenze. "[Filippo] mi parla di Borsa, di Tizio, di Caio, di investimenti, di titoli. (...). Mi dice: [vedi Gaspare], io so quanto posso guadagnare nel settore dell'edilizia, ma se investo [i miei soldi] in Borsa, nel mercato finanziario, posso perdere e guadagnare, non c'è certezza. Addirittura si dice che a volte, se si benda una scimmia e le si fa toccare un tasto, può riuscire meglio di un esperto. Filippo è attentissimo nel seguire gli scambi, legge ogni giorno il Sole 24ore. Tiene in considerazione la questione Fininvest, d'occhio [il volume degli] investimenti pubblicitari. Mi dice [meraviglie] di una trasmissione come Striscia la notizia. Minimo investimento, massima raccolta [di spot], introiti da paura. "Il programma più redditizio della Fininvest", dice. Abbiamo parlato anche di Telecom, Fiat, Piaggio, Colaninno, Tronchetti Provera, ma la Fininvest era, posso dire, un terreno di sua pertinenza, come [se fosse] un [suo] investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua, la Fininvest".

E' l'interrogatorio del 29 giugno 2009. Gaspare conclude: "Le [mie] dichiarazioni non possono bruciare l'asso [conservato nella manica] di Giuseppe" perché "il jolly" non ha nulla a che spartire con la Sicilia, con le stragi, con quell'orizzonte mafioso che è il solo paesaggio sotto gli occhi di Spatuzza. Un mese dopo (28 luglio 2009), i pubblici ministeri chiedono a Filippo in modo tranchant dove siano le sue ricchezze. Quello risponde: "Non ne parlo e mi dispiace non poterne parlare".

Ora, per raccapezzarci meglio in questo labirinto, si deve ricordare che i legami tra Marcello Dell'Utri e i paesani di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri - nella metà degli anni settanta - tra Silvio Berlusconi e la créme de la créme di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova (il mafioso, "che poteva chiedere qualsiasi cosa a Dell'Utri", siede alla tavola di Berlusconi anche nelle cene ufficiali, altro che "stalliere"). Nella scena che prepara la confessione di Gaspare Spatuzza, quel che è originale è l'esistenza di "un asso" che, giocato da Giuseppe Graviano, potrebbe compromettere il racconto mitologico dell'avventura imprenditoriale del presidente del consiglio.

Con quali capitali, Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero glorioso e ben protetto. Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari. Probabilmente capitali sottratti al fisco, espatriati, rientrati in condizioni più favorevoli, questo era il mestiere del conte Carlo Rasini. Ma è ancora nell'aria la convinzione che non tutta la Fininvest sia sotto il controllo del capo del governo.

Molte testimonianze di "personaggi o consulenti che hanno lavorato come interni al gruppo", rilasciate a Paolo Madron (autore, nel 1994, di una documentata biografia molto friendly, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer), riferiscono che "sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle [22] holding [che controllano Fininvest]. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire". Sembra di poter dire che il peso del ricatto della famiglia di Brancaccio contro Berlusconi può esercitarsi proprio tra le nebbie di quel venti per cento. In un contesto che tutti dovrebbe indurre all'inquietudine. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia, per sottrarsi a quel ricatto rovinoso, anche Berlusconi è chiamato a fare finalmente luce sull'inizio della sua storia d'imprenditore.

Il Cavaliere dice che si è fatto da sé correndo in salita senza capitali alle spalle. Sostiene di essere il proprietario unico delle holding che controllano Mediaset (ma quante sono, una buona volta, ventidue o trentotto?). E allora l'altro venti per cento di Mediaset di chi è? Davvero, come raccontano ora gli uomini di Brancaccio, è della mafia? È stata la Cosa Nostra siciliana allora a finanziarlo nei suoi primi, incerti passi di imprenditore? Già glielo avrebbero voluto chiedere i pubblici ministeri di Palermo che pure qualche indizio in mano ce l'avevano.

Quel dubbio non può essere trascurabile per un uomo orgoglioso di avercela fatta senza un gran nome, senza ricchezze familiari, un outsider nell'Italia ingessata delle consorterie e prepotente delle lobbies.

Berlusconi, in occasione del processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri, avrebbe potuto liberarsi di quel sospetto con poche parole. Avrebbe potuto dire il suo segreto; raccontare le fatiche che ha affrontato; ricordare le curve che ha dovuto superare, anche le minacce che gli sono piovute sul capo. Poche parole con lingua secca e chiara. E lui, invece, niente. Non dice niente. L'uomo che parla ossessivamente di se stesso, compulsivamente delle sue imprese, tace e dimentica di dirci l'essenziale. Quando i giudici lo interrogano a Palazzo Chigi (è il 26 novembre 2002, guida il governo), "si avvale della facoltà di non rispondere". Glielo consente la legge (è stato indagato in quell'inchiesta), ma quale legge non scritta lo obbliga a tollerare sulle spalle quell'ombra così sgradevole e anche dolorosa, un'ombra che ipoteca irrimediabilmente la sua rispettabilità nel mondo - nel mondo perché noi, in Italia, siamo più distratti? Qual è il rospo che deve sputare? Che c'è di peggio di essere accusato di aver tenuto il filo - o, peggio, di essere stato finanziariamente sostenuto - da un potere criminale che in Sicilia ha fatto più morti che la guerra civile nell'Irlanda del Nord? Che c'è di peggio dell'accusa di essere un paramafioso, il riciclatore di denaro che puzza di paura e di morte? Un'evasione fiscale? Un trucco di bilancio? Chi può mai crederlo nell'Italia che ammira le canaglie. Per quella ragione, gli italiani lo avrebbero apprezzato di più, non di meno. Avrebbero detto: ma guarda quel bauscia, è furbissimo, ha truccato i conti, gabbato lo Stato e vedi un po' dove è arrivato e con quale ricchezza!

D'altronde anche per questo scellerato fascino, gli italiani lo votano e gli regalano la loro fiducia. E dunque che c'è di indicibile nei finanziamenti oscuri, senza padre e domicilio, che gli consentono di affatturarsi i primi affari?

E' giunto il tempo, per Berlusconi, di fare i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma en plein air dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese.

da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quelle nebbie misteriose sulle origini della Fininvest
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2009, 03:14:25 pm
Dalla Banca Rasini a Spatuzza, i misteri mai chiariti

Il "giallo" sul 20% del capitale è anche in un libro pubblicato nel '95 dalla Mondadori

Quelle nebbie misteriose sulle origini della Fininvest

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO


IL RACCONTO di Repubblica di come i mafiosi di Brancaccio ritengano di avere "un asso nella manica" da giocare contro la Fininvest ha provocato le proteste di Marina Berlusconi, presidente della holding, e l'annuncio di azioni penali e civili di Mediaset. La protesta di Mediaset è temeraria.

Forse per un equivoco o soltanto per offrire ai giornali della Casa un titolo aggressivo, sostiene che, nell'inchiesta, ci sia scritto: "il 20 per cento di Mediaset appartiene alla mafia". È falso. Nessuno ha scritto una frase di questo genere. Nessuno poteva scriverla. Mediaset nasce come società quotata in Borsa soltanto nel 1996 mentre la cronaca dà conto, per la prima volta, degli interrogatori dei mafiosi di Brancaccio che raccontano vicende degli anni ottanta e primi anni novanta, comunque precedenti al 27 gennaio 1994, quando Filippo e Giuseppe Graviano sono stati arrestati a Milano. L'inchiesta si occupa di Fininvest, non di Mediaset. Di quel che i mafiosi riferiscono della Fininvest (detiene il 38,618 per cento di Mediaset).

Gaspare Spatuzza rivela ai pubblici ministeri di Firenze che "Filippo Graviano mi parlava come se Fininvest fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua". È una dichiarazione che ripropone la questione mai accantonata della provenienza dei capitali che hanno favorito l'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi che di suo - è noto - risorse non ne aveva a disposizione. Per sintetizzare i dubbi che ancora ci sono su quell'inizio, Repubblica ha ritenuto di citare una breve frase dal libro di Paolo Madron, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer: "Sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle holding che controllano Fininvest. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire" (pag.137).

Contro questa frase muove oggi con indignazione e qualche sovrattono Marina Berlusconi. Lasciamo in un canto i suoi insulti. La presidente della Fininvest dichiara: "Il 100 per cento della Fininvest, come emerge incontrovertibilmente da tutti i documenti, appartiene alla nostra famiglia, a Silvio Berlusconi e ai suoi figli. Così è oggi e così è da sempre, non c'è mai stata una sola azione della Fininvest che non facesse capo alla famiglia Berlusconi". Se così è, perché la Fininvest non ha mai considerato calunnioso e diffamatorio il libro di Madron, diventato nel tempo anche autorevole direttore di Panorama Economy, periodico della Casa? Perché se ne duole soltanto oggi? Possibile che le sia sfuggito un libro pubblicato da una casa editrice dal 1995 di proprietà della Mondadori?

Di quel lavoro, qualcosa si sa. Paolo Madron è forse il solo giornalista che abbia avuto modo di incontrare e intervistare a lungo il conte Carlo Rasini, patron della Banca Rasini che mise a disposizione del giovane Berlusconi fidejussioni, prima, finanziamenti, poi. Madron riesce a incontrare Rasini nella sua casa ai Bastioni di Porta Venezia, a Milano. La conversazione è lunga, piacevole e assai intrigante.

Il conte banchiere racconta come "in realtà, le città giardino di Berlusconi sono servite a qualche famiglia milanese per far rientrare le valigie di soldi depositate a suo tempo in Svizzera". Ricorda di come, un giorno, Berlusconi "va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno portato fuori tanti soldi e che, se lui ci metterà una buona parola, potrebbero dargli fiducia". Rasini ne parla con il padre di Berlusconi, Luigi, che non vorrebbe. Ha paura che il figlio "resti schiacciato dalla sua ambizione". Ma Rasini, come ha fatto altre volte, non gli fa mancare il suo aiuto. "In fondo, quale migliore occasione per far tornare il denaro dal paese degli gnomi e farlo fruttare bello e pulito nelle mani di quel giovanotto che dove tocca guadagna?".

Ora Madron è a colazione da Carlo Rasini. Gli chiede conto di quei finanziamenti e il conte banchiere gli rivela che Berlusconi ha restituito, di quelle somme, soltanto l'ottanta per cento. "E l'altro venti?", chiede Madron. Rasini sorride e gli dice: "L'altro venti per cento non è stato restituito; so come sono andate le cose e a chi appartiene quel venti per cento, ma non glielo dirò". Marina Berlusconi, nel suo sdegno, sostiene ancora: "Anni e anni di indagini e perizie ordinate proprio dalla procura di Palermo si sono concluse con l'unico possibile risultato: (...) nell'azionariato Fininvest (...) non esistono zone d'ombra".

L'affermazione è imprudente, se si legge la sentenza della II sezione del Tribunale di Palermo che ha condannato Marcello Dell'Utri, braccio destro di Berlusconi. La consulenza dell'accusa, scrivono i giudici, nonostante la "parziale documentazione" messa a disposizione, "evidenzia la scarsa trasparenza o l'anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984. [Questa conclusione] non ha trovato smentita dal consulente della difesa Dell'Utri", il professor Paolo Maurizio Iovenitti, docente alla Bocconi di Finanza mobiliare e Analisi strategiche e valutazioni finanziarie.

Iovenitti ha ammesso in aula che alcune operazioni erano "potenzialmente non trasparenti". Scrivono allora i giudici: "Non è stato possibile, da parte dei consulenti [del pubblico ministero e della difesa], risalire in termini di assoluta certezza e chiarezza all'origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. (...). La consulenza Iovenitti non ha fatto chiarezza sulla vicenda in esame [e], pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest, non ha contribuito a chiarire la natura di alcune operazioni finanziarie "anomale" e a evidenziare la correttezza delle risultanze societarie, contabili e bancarie del gruppo Fininvest".

Naturalmente sull'intera questione, avrebbe potuto far luce con autorevolezza Silvio Berlusconi. Si sa come andarono le cose. Interrogato il 26 novembre del 2002 a Palazzo Chigi, il presidente del consiglio si è "avvalso della facoltà di non rispondere". Così le perplessità sulle origini della fortuna di Berlusconi restano ancora vive. Ora che Cosa Nostra sembra ricattare il premier, sarebbe necessario illuminare quel che ancora oggi è oscuro, più che gridare a un "disegno politico di annientamento".

© Riproduzione riservata (29 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Successi e contraddizioni nella lotta alla mafia
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:21:04 am
Successi e contraddizioni nella lotta alla mafia

di GIUSEPPE D'AVANZO


LA DEBOLEZZA di Cosa Nostra è scritta nelle cose. La leadership "corleonese" è in galera, se si esclude Matteo Messina Denaro. Le seconde file devono scontare decenni di carcere. In libertà, terze file e qualche "vecchia gloria" degli anni Settanta/Ottanta, ammesso che la nomenclatura di ieri corrisponda a quella di oggi e non ci siano uomini che non conosciamo, potenti con gran pedigree criminale, ma senza volto. La pressione degli apparati repressivi dello Stato non si allenta. È costante, invasiva e i risultati sono molto soddisfacenti. Come è accaduto ieri, ancora una volta dopo l'arresto di Domenico Raccuglia (15 novembre).

Cade nelle rete a Palermo Gianni Nicchi, 28 anni, mafioso sperto nonostante la giovane età, un "uomo di pistola" che l'arresto di Antonino Rotolo (giugno 2006) - il suo capo a Pagliarelli - ha lanciato ai vertici dell'organizzazione. A Milano, è stato preso Gaetano Fidanzati, 75 anni, un nero passato alle spalle di trafficante di droga (tra i più attivi), un presente di guida della famiglia dell'Acquasanta, lasciata vacante dai fratelli Galatolo. Un doppio, eccellente colpo. Un frutto succoso della collaborazione e dello spirito di sacrificio degli organi dello Stato. L'entusiasmo interessato di Silvio Berlusconi tende a dimenticarlo.

Questi ricchi raccolti, che possono ricondurre - anche presto - la patologia criminale siciliana a livelli fisiologici, sono possibili per il lavoro ostinato delle polizie e l'impegno tenace dei pubblici ministeri di Palermo e Milano. Dunque, di quelle burocrazie della sicurezza cui il governo non è in grado di assicurare adeguate retribuzioni e migliori risorse; di due procure da anni diventate bersaglio fisso degli assalti polemici del presidente del Consiglio; di quell'ordine giudiziario che appare l'obiettivo mai dimenticato dei punitivi progetti legislativi della maggioranza.

Berlusconi, anche con buone ragioni, è soddisfatto e dice: "A Palermo siamo riusciti a catturare Gianni Nicchi, che è il numero due di Cosa Nostra. E a Milano abbiamo catturato Danilo Fidanzati, che è il numero tre di Cosa Nostra". Al di là della classifica che, con mafia e mafiosi, lascia sempre il tempo che trova, è quel "siamo" che interessa di più. Berlusconi intende con quel "siamo", noi del governo e quindi io che lo guido? O, dietro quel noi, c'è la consapevolezza che Cosa Nostra può essere distrutta soltanto dall'impegno plurale, coordinato e ininterrotto di tutte le articolazioni dello Stato e della società, governo, Parlamento, amministrazioni, magistratura?

Diciamo che si può pensare che il presidente del Consiglio abbia la tentazione di cancellare con gli eccellenti risultati dell'azione repressiva delle polizie e della magistratura tutti i grattacapi che i ricordi di Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, hanno riproposto. Ora non c'è dubbio che le parole del nuovo testimone dell'accusa nel processo Dell'Utri e nelle inchieste (riaperte) per le stragi del 1992 e 1993 non abbiano ancora adeguati riscontri. Come è fuori discussione che la discovery delle sue rivelazioni sia stata prematura e probabilmente l'anticipazione ne pregiudicherà l'esito, comunque problematico.

Tuttavia quell'accusa - "Berlusconi e Dell'Utri sono i responsabili delle stragi del 1992 e 1993" - è così tragica che impone di essere verificata con rigore per giudicarla o una menzogna o una spaventosa verità. Lasciarla galleggiare è il peggio che può accadere. Anche Berlusconi dovrebbe comprenderlo e sapere che non sarà l'arresto di Nicchi e Fidanzati - e si spera presto la cattura di Matteo Messina Denaro - a eliminare la necessità, il dovere di accertare quanto è accaduto nella transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, stagione scandita dalle cariche di tritolo.

Anche perché le difficoltà in cui vivono le forze dell'ordine e l'ostilità manifesta riservata alla magistratura non sono le sole contraddizioni della politica della sicurezza del governo. Se ne possono rintracciare altre. La vendita dei patrimoni confiscati alla mafia appare a molti addetti un "segnale positivo" lanciato a Cosa Nostra perché le nuove procedure consentono alle famiglie di rientrarne in possesso attraverso prestanomi. Il dibattito sull'abolizione del "concorso esterno in associazione mafiosa" appare ad altri un modo per evitare al premier una futura imputazione e una garanzia per Marcello Dell'Utri, magari da incassare in Cassazione. E anche un espediente per rassicurare la "borghesia mafiosa": è vero, il gioco contro le famiglie di Cosa Nostra è molto duro, ma contro chi ha protetto gli interessi criminali, ricavandone degli utili, può dormire tra due guanciali, il governo non lascerà indietro nessuno.

© Riproduzione riservata (6 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le anomalie di un processo
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 03:33:43 pm
IL COMMENTO

Le anomalie di un processo

di GIUSEPPE D'AVANZO


Nell'aula risuonano i tre "no" tondi e secchi di Filippo Graviano. "Conosce Marcello Dell'Utri?", chiede la Corte. "No!", risponde. "Ha mai incontrato Marcello Dell'Utri?". "Assolutamente no!". "Ha mai avuto rapporti anche indiretti con Marcello Dell'Utri?". "No!". I tre "no" rendono molto soddisfatta la difesa del senatore. Fanno dire a Berlusconi che "siamo alle comiche". Susciteranno gli animati strepiti dei turiferari del Cavaliere.

Con buone ragioni, se l'affare lo si semplifica fino a non tener conto delle anomalie di questo processo e dell'abitudine tutta siciliana all'omissione, all'ambiguità, al non detto che allude, al detto che nasconde: la migliore parola è quella che non si dice, dicono nell'Isola. Anche ieri, la parola più determinante non è stata detta. Avrebbe potuto dirla Giuseppe Graviano. È lui che organizza le stragi del 1993, non Filippo. È lui, non Filippo, che - secondo Gaspare Spatuzza - si gloria di "essersi messo il Paese nelle mani" forte delle promesse di Berlusconi ("quello di Canale 5") e di Dell'Utri ("il paesano"). Con una sola parola, il mafioso di Brancaccio avrebbe potuto o distruggere la credibilità di Spatuzza o dannare all'inferno il senatore. Quella parola l'ha rifiutata per il momento almeno fino a quando non gli saranno attenuante le severe condizioni carcerarie che lo affliggono.

Ora ci si può sbizzarrire con l'ermeneutica. Giuseppe Graviano a chi sta parlando obliquamente? Chi minaccia? Chi ricatta? I magistrati, che ritiene responsabili del suo regime di detenzione? O il governo che incrudelisce le regole? Ogni risposta può essere buona e in ogni caso, in assenza della testimonianza del mafioso, inservibile per un processo che ormai mostra le sue anomalie, in modo fin troppo palese.

La Corte d'appello deve decidere se Marcello Dell'Utri sia stato "punto di riferimento" costante nel tempo, per gli affari e gli interessi di Cosa Nostra. Ogni processo, spiegano i giuristi, è racconto. I protagonisti (l'accusa, l'imputato, i testimoni, gli avvocati, i giudici) offrono una loro "narrazione" che consente di comporre e dotare di senso eventi frammentari e informazioni sparse o, come scrive Michele Taruffo, di fare un mosaico con un mucchio di pezzi di vetro colorati. Negli anni, l'apertura del dibattimento nel processo d'appello ha incluso tutte le possibili "narrazioni" e punti di vista. Si conosce la narrazione mafiosa, interna a Cosa Nostra, giudicata veritiera dall'accusa. Per stare all'essenziale. Marcello Dell'Utri è stato l'uomo della mafia siciliana a Milano, dove sono state impiegate le ricchezze accumulate dall'organizzazione negli anni da vacche grasse del traffico degli stupefacenti. Si conosce la "verità" processuale che oppone Marcello Dell'Utri. È vero, ho conosciuto Vittorio Mangano, mafioso. È vero, ho proposto e ottenuto per lui un lavoro nella villa di Berlusconi ad Arcore, ma non ho nulla a che fare con Cosa Nostra e i suoi affari anche se, qualche volta, mi sono trovato seduto a tavola con uomini che non sapevo fossero mafiosi. Si conosce la "storia" ricostruita dai giudici di primo grado che hanno condannato il senatore a nove anni di carcere. È in questo quadro già definito che un procuratore generale, inadeguato al suo compito, decide di riversare il "racconto" di Gaspare Spatuzza. A processo di fatto concluso, è un'anomalia per tre buone ragioni.

La prima è la qualità della testimonianza del mafioso diventato testimone dell'accusa. È un "quadro" di Cosa Nostra, esperto di assassinii e bombe, non un capo. Non si muove sulla linea di confine dove la mafia incontra lo Stato e la politica. Non può riferire quel che direttamente sa o ha saputo o organizzato e controllato, ma soltanto quel che altri (Giuseppe Graviano) gli hanno riferito. Sono parole che non sono sostenute né da altre testimonianze né da verifiche esterne (seconda anomalia). Quindi, come qui è stato già scritto, sono parole non convalidate per ora né da riscontri "intrinseci" né "estrinsechi", come richiede la Cassazione. Gettarle nell'agone di un processo così improvvidamente ha un doppio esito, del tutto anomalo (e siamo a tre). Come è chiaro oggi, i ricordi di Spatuzza raccolti in tempi diversi, da procure diverse, prive di alcun coordinamento, anzi spesso in sospetto l'una per il lavoro dell'altra, sono apparsi vaghi e variabili. La testimonianza di Spatuzza (ma non ci voleva un mago per prevederlo) è stata inutile nel processo contro Dell'Utri. E, così prematuramente disvelata, sarà (non ci vuole un mago per prevederlo) presto inutilizzabile per avviare una seria indagine sui mandanti delle stragi del 1992/1993 "esterni a Cosa Nostra".

Silvio Berlusconi, sempre così critico nei confronti della magistratura, dovrebbe compiacersi della dilettantesca disinvoltura togata che gli ha offerto l'opportunità di essere accusato di comportamenti spaventosi nello stesso momento in cui quelle accuse si rivelavano mediocri, prive di vita, e si sgonfiavano come un soufflé mal cucinato. Gli è stato agitato contro - e in pubblico - uno spauracchio che, alla resa dei conti, si è dimostrato di pezza evitando così di farne, nella segretezza del lavoro istruttorio, uno minaccioso strumento di scavo. Se non fosse troppo provocatorio notarlo, si potrebbe dire che la magistratura con la sua disorganizzazione, con le ossessioni autoreferenziali di troppi uffici del pubblico ministero, con la fragilità di chi teme di essere sconfitto dalla sentenza prossima, ha lavorato come un Ghedini qualsiasi per l'immagine del Cavaliere e le sue fortune consentendogli di cavarsi da un angolo che avrebbe potuto diventare pericoloso, con il tempo e una buona indagine. Anche la posizione di Marcello Dell'Utri ne ricava degli utili. L'arrivo di Spatuzza, per la comunicazione e quindi per la politica, trasforma il processo contro il senatore nel "processo Spatuzza" come se il mafioso di Brancaccio diventato testimone fosse la sola e unica fonte di prova dell'accusa liquidando così l'insieme di fatti, prove, testimonianze che il giudice di primo grado ha definito non soltanto plausibili, ma una veridica dimostrazione probatoria.

Polemiche a parte, la testimonianza di Spatuzza ha avuto finora soltanto l'esito di stiracchiare un dibattimento che non ha più nulla da raccogliere o raccontare, di trasformarlo in un processo infinito diventato spettacolo noioso a interpretazioni fisse: la Corte appare sempre più ostile alle ragioni dell'accusa (le smorfie, i gesti, i sorrisi quasi di censura di un sapientissimo giudice a latere ne sono l'indizio più lucido); il procuratore chiamato a rappresentare l'accusa appare sempre più impreparato, inadeguato, in affanno, quasi rassegnato; la difesa gioca di rimessa nella consapevolezza che i tempi lunghi lavorano a favore dell'imputato. Forse è giunto il tempo - come chiede Dell'Utri - di chiudere, in un modo o in altro, questo processo che può soltanto avvelenare un clima politico, già consapevolmente attossicato dalle iniziative del capo del governo, senza aumentare di un palmo né la qualità delle prove dell'accusa né la coerenza delle ragioni della difesa. Anche perché - lo si può dire con ragionevole certezza - alla "storia" del processo mancheranno le decisive "narrazioni" di Berlusconi e di Giuseppe Graviano. L'uno e l'altro sempre si avvarranno della facoltà di non rispondere. Berlusconi, che già lo ha fatto in primo grado, anche a costo di affossare l'amico per occultare i suoi primi passi d'imprenditore. L'altro - il mafioso - per continuare il suo ricattatorio "dialogo" con interlocutori senza volto.

© Riproduzione riservata (12 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'assalto ai giornalisti
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 09:22:35 am
COMMENTO

L'assalto ai giornalisti

di GIUSEPPE D'AVANZO


NEMMENO il più ostinato pessimismo poteva attendersi che sarebbe durato un sol giorno lo sbigottimento e il dolore per il volto insanguinato di Silvio Berlusconi. Poche ore per sbarazzarsi, come di un ostacolo ingombrante, di ogni solidarietà umana, pensiero autocritico, reciproco invito a evitare il dissolversi di ogni legame comunitario, ad accettare una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune.

Il volto di Berlusconi, contorto dalla sofferenza inflittagli dalla violenza di un matto, avrebbe potuto (e dovuto) sollecitare ciascuno di noi a sentirsi communis, "colui che condivide un carico", e tutti noi communitas allegata da un dovere, da un debito, dalla promessa di un reciproco dono (munus) che nessuno può tenere per sé. Quando è durato quest'incanto? Dieci ore, quindici? Appena i luoghi pubblici (il Parlamento, i talk-show televisivi) si sono riaperti, è ritornata la notte abitata dallo spirito di intolleranza, esclusione, violenza che appaiono il segno distintivo di questa cultura di governo. Chi ha armato la mano del matto? Chi è il mandante? Di chi è la colpa? E quindi chi deve essere sorvegliato, punito, imbavagliato, espulso? Quali sono i giornali, i giornalisti, i social network che devono ammutolirsi? Quali regole e controlli dare alle manifestazioni pubbliche? Quali sono i "padri" di quella "cultura responsabile del clima d'odio" da mettere all'indice (e c'è chi già elenca, incauto: Gobetti, Bobbio, Gramsci, Dossetti)?

Sono domande che ripropongono con un'eco funesta "una lotta politica recitata come una parodia dell'eterna guerra civile". Esaltato da un rancore cieco, da un'inimicizia assoluta e irreparabile, il coro berlusconiano - animato in Parlamento da Fabrizio Cicchitto e, in Rai, da Bruno Vespa - elimina ogni differenza tra la critica legittima e l'aggressione violenta, tra il disaccordo ragionato e la destabilizzazione. Trasforma l'avversario politico in un criminale, il dissenziente in un terrorista. Il mestiere d'informare di Repubblica diventa "disegno eversivo", minaccia per il legittimo governo del Paese, un intero gruppo editoriale - il nostro - agenzia ostile all'interesse nazionale, più o meno un'association politico-criminelle.

I toni, gli argomenti che si ascoltano hanno molto in comune a una caccia alle streghe. Chiunque in questi mesi si è sottratto alla nobilitazione dell'esistente, al racconto unidimensionale e autocelebrativo del soggetto centrale unico, detentore della verità e del potere, viene iscritto in una black list. Accade al Gruppo Espresso, al Fatto, a Santoro e ad Annozero, ai pubblici ministeri che hanno avuto la sventura di incontrare sulla loro strada il capo del governo o qualche suo amico. Per tutti si annunciano adeguati castighi.

Si distingue in questo lavoro prepotente Bruno Vespa, dimentico di quanta solidarietà e comprensione abbia circondato il premier. Estrapola, da un lungo ragionamento, una frase di Marco Travaglio e lo indica all'opinione pubblica come il mandante morale della violenza subita da Berlusconi. Con un'ipocrita sfrontatezza lo chiama al telefono, durante la trasmissione, per chiedergli se ha qualcosa da dire in quel processo ingiusto, improvvisato alle spalle di un imputato ignaro e assente, non sostenuto da alcuno dei presenti. È la mossa più barbarica cui si è assistito in queste ore. Il metodo e il giornalismo di Marco Travaglio sono discutibili come quelli di chiunque altro - e qui sono stati discussi con severità - , ma egli è soltanto un giornalista. Non ha alle spalle un partito o un'organizzazione qualsiasi. Non è protetto da una scorta. Può contare soltanto sulla credibilità del suo lavoro, sul consenso che ne ricava tra chi lo legge e lo ascolta. Abbandonarlo così indifeso e solitario al conflitto che divide il Paese, è un'irresponsabilità tanto più grave perché matura da una tribuna che dovrebbe mostrare equilibrio e moderazione, essere l'interprete migliore del monito pacificatorio del presidente della Repubblica.

La violenza e l'intolleranza di queste ore smascherano l'insincerità dei falsi pacificatori e ripropongono il paradigma di una politica che si alimenta non di unità, ma di divisione; non di ordine, ma di disordine. È un dispositivo di governo che giustifica e potenzia se stesso nell'eccitare i conflitti più aggressivi che circolano nella società, tra la società e lo Stato, nello Stato. Lungo queste continue "linee di frattura" che di volta in volta individuano un "nemico" (quanti ne possiamo contare dall'inizio della legislatura, dai "negri", ai "froci", ai "fannulloni"?), si potenzia un progetto politico che pretende di esercitare la sovranità senza limiti, in nome del "potere costituente del popolo", con una "decisione" che lascia indistinto il diritto e l'arbitrio, l'eccezione e la regola. Il pazzo gesto di Massimo Tartaglia, rafforzato dalle emozioni che hanno smosso, appare al coro berlusconiano un'eccellente occasione per rilanciare l'obiettivo di ridurre i poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella figura di un premier che può fare a meno di ogni contrappeso, di ogni controllo di garanzia, di ogni soggezione alla legge. La follia di un uomo diventa addirittura l'opportunità per riscrivere il pactum societatis che definisce le condizioni del nostro stare insieme. Non si comprende che cosa c'entri il gesto di un matto con la necessità di una riforma costituzionale. Si comprende benissimo come, in questa metamorfosi della nostra democrazia, l'informazione possa essere un inciampo da rimuovere, un attore da minacciare, un "nemico" da indicare con nome, cognome e società di appartenenza alla vendetta del "popolo sovrano". Già lo si è letto, purtroppo: "In una democrazia non spetta ai giornali giudicare chi governa". Al contrario, noi crediamo che, quale che sia l'idea di democrazia che si ha in testa, tutti i modelli prevedono l'esistenza di uno spazio al quale i cittadini accedono attraverso lo scambio di informazioni e il confronto degli argomenti, per farsi un'opinione delle questioni di interesse generale.
Alimentare di informazioni la sfera pubblica, arricchirla di notizie, ragioni e argomenti è il nostro lavoro. Piaccia o non piaccia al piduista Cicchitto, al servizievole Vespa, al coro che si dice "della libertà", continueremo a farlo.

© Riproduzione riservata (17 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Cipriani, l'uomo del dossier Telecom "Tronchetti sapeva ...
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2009, 03:05:27 pm
L'INTERVISTA

L'udienza preliminare dura da sei mesi in tribunale a Milano

Cipriani, l'uomo del dossier Telecom "Tronchetti sapeva quel che facevo"

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - "Spiavo per il Sismi e per Telecom, e l'allora presidente Marco Tronchetti Provera sapeva tutto delle mie attività". Lo dice Emanuele Cipriani, l'uomo dei dossier Telecom, in una intervista a Repubblica. Cipriani: "Spiavo per Telecom e Sismi
Tronchetti Provera sapeva tutto". Emanuele Cipriani, 49 anni, è "l'uomo dei dossier Telecom" o, come più gli piace definirsi, "un imprenditore della sicurezza privata".

Oggi è il solo imputato "eccellente" di quella oscura storia (lo scandalo dello spionaggio Telecom nell'èra Tronchetti Provera) ad avere ancora interesse a non far cadere il velo su una scena dove, nonostante le omissioni del lavoro istruttorio, affiorano dossier illegali; figure che decidono della cosa pubblica senza alcuna responsabilità istituzionale; comportamenti obliqui di governanti; ricatti; corruzione piccola e grande; debolezze della magistratura, dell'informazione, delle amministrazioni dello Stato e, al centro, una sorda lotta per il potere che non si fa mai trasparente.

Il processo Telecom è diventato, come ampiamente previsto da Repubblica (non ci voleva un mago), un niente che non fa onore alla magistratura milanese. Anche senza l'incombente "processo breve" che lo soffocherebbe, l'udienza preliminare in corso da sei mesi vede il fuggi fuggi degli imputati. Il cinquanta per cento ha patteggiato. Quelli che restano si affidano al colpo di spugna della prescrizione.

Emanuele Cipriani, al contrario, ha un diavolo per capello. Non per la minaccia di una condanna penale, che forse non ci sarà, ma per il blocco dei suoi beni, per di più minacciati dalla rivalsa di Telecom e Pirelli, costituite parte civile contro di lui. Ai suoi occhi, la beffa dopo il danno. Dice Cipriani: "Non voglio essere e non sarò il capro espiatorio di questa storia. Quei soldi sono il frutto del mio lavoro".

Un frutto avvelenato, ottenuto con procedure illegali.
"Questo è vero soltanto in parte. Ammetto - l'ho fatto con la procura di Milano - che alcuni dossier si sono avvantaggiati di manovre non corrette, ma l'illegalità non è stata la regola, tutt'altro, l'attività verteva spesso in consulenze e servizi ad alto valore aggiunto, sempre strettamente legate al business aziendale. Nell'estate di due anni fa, in oltre duecento ore di interrogatorio, ho raccontato ai pubblici ministeri, pratica per pratica...".

Cioè, dossier per dossier...
"Preferisco chiamarle pratiche. Ho raccontato, dicevo, chi me le ha commissionate e l'obiettivo legale o illegale dell'operazione e, infine, la fattura di riferimento e da chi mi è stata pagata".

Che cosa vuole dire questo?
"Vuol dire che, sempre, in ogni circostanza, per ogni pratica, il mio lavoro è stato svolto nella consapevolezza del committente Pirelli-Telecom e nell'interesse delle società e, in alcuni casi, del presidente Marco Tronchetti Provera, nonché di suoi conoscenti e addirittura di alcuni suoi legali che erano miei clienti".

Ma, signor Cipriani, è proprio questa "dipendenza" diretta che l'inchiesta ha escluso. L'acquerello dipinto dai pubblici ministeri è un altro. Tre amici d'infanzia (Tavaroli, Mancini, Cipriani) fanno carriera partendo dal fondo della scala. Conquistano la potente e ricca security della Telecom (Giuliano Tavaroli), il controspionaggio militare (Marco Mancini), un'importante posizione nell'intelligence privata (Emanuele Cipriani). Incrociano le informazioni in loro possesso. Formano dossier spionistici in libertà con le risorse della tlc e dello Stato. Lucrano profitti e potere personali. Fine dell'affaire.
"E' un quadro falso. Non è vero che Tronchetti non sapesse chi fossi io. Ne era consapevole. Egli ha chiesto e ottenuto informazioni sul suo personale di servizio, dai domestici alla guardarobiera della signora Afef. Molte di queste pratiche non erano illegali, non erano aggressive e sono state pagate da Telecom e da Pirelli. Mi sono occupato personalmente della tutela della signora Afef; delle vacanze in barca del dottore in giro per il mondo; della sicurezza della sua barca a Saint Tropez; del matrimonio della figlia Giada a Portofino dove c'era tutta l'Italia che conta. E sono sorpreso che Tronchetti oggi dica di non saperne nulla. Ai magistrati ho raccontato di svariate pratiche aperte a suo esclusivo beneficio. E questo, naturalmente, è soltanto l'aspetto diciamo privato, svolto nell'interesse del Dottore. Per la maggior parte, il mio lavoro si è sviluppato nell'interesse delle società a verifica delle condizioni dei business a rischio".

Se capisco bene, lei è infuriato per il blocco dei suoi beni, incattivito dalla possibilità che Telecom si dichiari parte lesa minacciando di mettere le mani nel suo "tesoretto", arrabbiato perché la procura di Milano si è fermata, intimidita, sulla soglia della camera oscura dell'affaire. Il suo rancore e interesse le consigliano di far saltare il banco. E' così, è questo che sta dicendo?
"Mi ascolti bene. In oltre 200 ore di interrogatorio, io ho fatto ai pubblici ministeri nomi, cognomi, circostanze, indicato i dossier legali e quelli illegali, le notizie di reato che vi erano contenute. Ho invocato inutilmente per mesi che cercassero riscontri e testimonianze alle mie dichiarazioni. Non è accaduto nulla. Ho detto con chiarezza che Tronchetti Provera era a conoscenza dei contenuti di quei dossier o direttamente o indirettamente. Si è preferito credere alla favola che il Dottore quasi non avesse rapporti con Giuliano Tavaroli che era il mio referente diretto...".

Non è così?
"Per niente. Oggi si dice che, negli anni, Tronchetti ha ricevuto Tavaroli soltanto in qualche occasione e per non più di qualche minuto. Non è vero. Giuliano aveva accesso diretto e costante a Tronchetti, in qualsiasi momento. Io posso testimoniarlo. E' capitato che raggiungessi Tavaroli con un dossier che mi aveva commissionato. Lo ragguagliavo su quel che avevo scoperto. Non avevo ancora finito che Giuliano afferrava il telefono, chiedeva alla segreteria di Tronchetti di poter raggiungere il presidente e subito dopo, con il dossier sotto il braccio, lo raggiungeva. E questo è soltanto un aspetto del lavoro svolto per Pirelli/Telecom".

Perché ci sono altri aspetti?
"Certo, quelli istituzionali".

Che intende dire?
"Intendo dire che sono a conoscenza di questioni molto delicate che hanno visto sovrapporsi l'attività svolta per Telecom con il lavoro trattato per soggetti istituzionali e nell'interesse nazionale".

Senza tanti giri di parole, signor Cipriani, lei ha lavorato per Telecom e Pirelli e anche per il governo e i servizi segreti?
"E' bene precisare che le attività per le aziende erano regolate dalle aziende, come è stato riscontrato. Per le collaborazioni con il Sismi, non posso risponderle perché sono vincolato al segreto di Stato. Posso dirle che è acclarato che io ho avuto rapporti con il Sismi, in taluni casi insieme ad altre istituzioni dello Stato. Con l'assenso del pubblico ministero, al tempo, ho riferito di due operazioni, di cui una internazionale, molto importanti per la sicurezza del Paese. Non sono state le uniche. Non sono sicuro di poterle dire di più senza violare il segreto di Stato. Finora ho taciuto per più alti interessi nazionali, ma non ci sto a farmi fare terra bruciata intorno, a passare per un avido truffatore, lo spione che ha tradito la fiducia che gli era stata ingenuamente concessa da Tronchetti Provera e dal Sismi. Non ci sto a distruggere il mio lavoro, la mia onorabilità per proteggere qualche furbastro che oggi finge di non sapere o di non aver mai saputo. Per di più, dopo essere stato messo nella condizione di non potermi difendere perché quei dossier cui ho lavorato saranno distrutti e, con loro, le tracce e le ragioni dei committenti che me li hanno richiesti".

Nell'udienza del 13 novembre, la sua difesa (gli avvocati Francesco Caroleo Grimaldi e Vinicio Nardo) ha chiesto a Marco Mancini, già capo del controspionaggio del Sismi, "se avesse mai incontrato Marco Tronchetti Provera". Mancini ha opposto il segreto di Stato. Tronchetti ha subito fatto sapere "di non aver mai avuto rapporti con il signor Mancini". E' in questo criptico batti e ribatti che si nasconde la chiave della sua difesa cui non intende rinunciare?
"Senta, anch'io mi sento vincolato al segreto di Stato e vedremo il Governo cosa dirà, ma intanto credo di poterle dire che Tronchetti è fin troppo ingenuo a dire di non avere avuto mai rapporti con il generale Pollari e Mancini. E' certo che Mancini e Pollari, suo direttore dell'epoca, hanno incontrato l'allora presidente di Telecom in varie occasioni tra il 2002 e il 2004".

E questo che vuol dire?
"Glielo dirò in modo brutale. Di fronte alla mia tentata distruzione morale, ho soltanto due strade da percorrere: o parlo o non parlo. Glielo ripeto: non farò capro espiatorio, non sarò il solo a pagare il prezzo di una storia scritta da altri".

Signor Cipriani, questo è un ricatto. Chi sta minacciando?
"Io non ho mai ricattato nessuno e sfido chiunque a dire se è mai stato ricattato da me: le pratiche non erano per il sottoscritto, ma per chi me le commissionava. Giri la domanda a costoro. Credo che - la mia - sia una difesa legittima dopo avere servito fedelmente, in molti anni di attività, un portafoglio clienti di tutto rispetto; le società Pirelli e Telecom; un uomo d'impresa (Tronchetti Provera) e, quando mi è stato richiesto, lo Stato".

Le parole di Emanuele Cipriani dimostrano che l'affaire Telecom, miniaturizzato fino alla caricatura dall'inchiesta della procura di Milano, distilla ancora liquido velenoso "dietro le quinte dell'ufficialità economica e politica e di un lavorio sordo fatto di favori, di ricatti, di relazioni più o meno sporche e più o meno segrete" (Galli della Loggia, 27 settembre 2006). La sottile speranza (allo stato dell'arte, ingiustificata) è che l'udienza preliminare in corso a Milano sappia fare luce su quel groviglio che i pubblici ministeri non hanno voluto o potuto illuminare. Le dichiarazioni di Emanuele Cipriani lo rendono doveroso. Soprattutto ora che ritornano in auge protagonisti di quel recente, buio passato come Niccolò Pollari, candidato a diventare presto Consigliere per la Sicurezza del capo del governo.

© Riproduzione riservata (23 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Inutile indagare sul Sismi è segreto di Stato
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2010, 10:49:21 am
Dal 2001 al 2006 intelligence militare, security Telecom e agenzie private in team era un "nemico" chi si opponeva al governo.

Un maxi dossier dedicato ai Ds

Inutile indagare sul Sismi è segreto di Stato

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - Agenti della Cia sequestrano Abu Omar, un cittadino egiziano, a Milano. L'intelligence italiana ha collaborato all'extraordinary rendition? Segreto di Stato, dice Berlusconi. L'archivio di dossier raccolto da Nicolò Pollari, direttore del Sismi, in un "ufficio riservato" in via Nazionale a Roma era legale o illegale? Quali potevano essere le finalità istituzionali per spiare, a partire dal 2001 e intensamente fino al 2003 e saltuariamente fino al 2006, quattro procure della Repubblica (Milano, Torino, Roma, Palermo), 203 giudici (47 italiani) di 12 paesi europei e giornalisti e leader dell'opposizione del centrosinistra? Qual era l'"interesse nazionale" che consigliava di sorvegliarne le iniziative; di intimidirli con operazioni di disinformazione; di screditarli con manovre "anche traumatiche"? Segreto di Stato, dice Berlusconi. Quali "motivi istituzionali" imponevano al capo del controspionaggio del Sismi, Marco Mancini, un lavoro comune con la Telecom di Marco Tronchetti Provera, la security di Giuliano Tavaroli, l'intelligence privata di Emanuele Cipriani? Segreto di Stato, dice oggi Berlusconi.

Le tre decisioni del governo, che liquidano anni di indagini, processi in corso e cancellano, con le pratiche oscure di una burocrazia dello Stato, ogni trasparenza e i diritti delle "vittime" spiate, screditate, violate nella loro privacy, inaugurano un nuovo, pericoloso corso del "segreto" nella vicenda pubblica italiana.

Le tre decisioni del governo, che liquidano anni di indagini, processi in corso e cancellano, con le pratiche oscure di una burocrazia dello Stato, ogni trasparenza e i diritti delle "vittime" spiate, screditate, violate nella loro privacy, inaugurano un nuovo, pericoloso corso del "segreto" nella vicenda pubblica italiana. L'attività dei servizi di informazione, dal punto di vista operativo, mira alla raccolta di notizie utili alla salvaguardia non solo dell'indipendenza e dell'integrità dello Stato (riconducibili alla politica estera e di difesa), ma anche (sul piano interno) alla tutela dello Stato democratico e delle istituzioni che lo sorreggono.

Per usare le formule del decreto del presidente del Consiglio (pubblicato in Gazzetta Ufficiale 16 aprile 2008) gli "interessi supremi da difendere con il segreto di Stato" sono "l'integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali; la difesa delle Istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento; l'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e le relazioni con essi; la preparazione e la difesa militare dello Stato". A vista d'occhio, non c'è alcuna connessione tra questi "interessi supremi" e il lavoro sporco del Sismi di Nicolò Pollari. Come si può credere che il dibattito culturale di un'associazione europea di magistrati minacci l'integrità della Repubblica italiana? Come si può pensare che un'inchiesta giornalistica pregiudichi l'indipendenza dello Stato?
Come si può immaginare che la pubblica riflessione di un'opposizione parlamentare, le sue iniziative possano rappresentare una minaccia per la difesa dello Stato?

Nel caso dell'archivio riservato di via Nazionale, nell'affaire Telecom, nel sequestro Abu Omar, l'interpretazione delle regole del generale Nicolò Pollari e ora i provvedimenti di Berlusconi hanno creato un sillogismo deforme. Lo Stato, la Repubblica, le Istituzioni sono il governo, qualunque siano le sue decisioni, mosse, progetti e responsabilità. Ogni opposizione al governo - controllo giurisdizionale o informazione o convinzione culturale o dissenso politico - diviene immediatamente nell'azzardata dottrina del generale, ora confermata dal presidente del Consiglio, "una minaccia alla sicurezza nazionale", quindi un'eversione che giustifica ogni mezzo, ogni attività di spionaggio, finanche una "pianificazione traumatica". Per anni, si è voluto rappresentare questo sentiero stortissimo con una tautologia.
Si è detto, l'intelligence è l'intelligence: si sa, lavora con metodi sporchi, spesso oltre i confini della legalità. Ma la questione che dovrebbe interrogarci non si nasconde nel metodo, ma nel fine. Non è nell'illegalità possibile del lavoro di intelligence, ma nella legittimità di quel lavoro che trova ragioni soddisfacenti e adeguate soltanto "nella difesa dello Stato" e non può trovarle, come è accaduto al Sismi di Pollari, nella protezione di un equilibrio politico; nello scudo per un governo (quale che sia); nell'aggressione ad altre indipendenti funzioni dello Stato (la magistratura), della politica (l'opposizione), della società (la stampa), dell'economia e, infine, nella creazione di un potere "autonomo", extraistituzionale che si offre al miglior offerente politico.

Questa mutazione genetica di una burocrazia dello Stato, del suo lavoro con licenza di delinquere e l'asimmetria tra compiti istituzionali e pratiche quotidiane ha oggi la firma, il timbro, la convalida del presidente del Consiglio. E' una decisione che fa leva su una sentenza della Corte Costituzionale definita da molti costituzionalisti "scandalosa". Con la pronunzia n.106/2009, la Consulta sostiene che "l'individuazione degli atti, dei fatti, delle notizie che possono compromettere la sicurezza dello Stato e che devono rimanere segreti" costituisce il risultato di una valutazione "ampiamente discrezionale". E' un giudizio che esclude ogni sindacato giurisdizionale perché, sostiene la Corte, ne sarebbero capovolti "i criteri essenziali del nostro ordinamento" a cominciare da quello secondo cui "è inibito al potere giurisdizionale di sostituirsi al potere esecutivo e alla pubblica amministrazione e di operare il sindacato di merito sui loro atti". A giudizio della Corte costituzionale, l'esercizio del potere di segretazione è assoggettato soltanto al Parlamento, "la sede normale di controllo nel merito delle più alte e più gravi decisioni dell'Esecutivo".

Dovrebbe essere dunque il Parlamento, con il suo comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), a decidere se è coerente e corretta la copertura del segreto di Stato alle attività di un "apparato" legale/clandestino del tutto "visibile" tra il 2001 e il 2006, come ha provato a documentare Repubblica nel corso del tempo. Una piattaforma spionistica, nata con la connessione dello spionaggio militare con diverse branche dell'investigazione, a partire dall'intelligence business della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove è esistita una "control room" e una "struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: poteva entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato".

E' proprio qui il punto dolente e minaccioso dell'affare Telecom che il segreto di Stato ora cancella. Quante sono le informazioni, i dossier - per dirla tutta, i ricatti - che possono condizionare il lavoro del parlamento, dei parlamentari, dei partiti, delle loro leadership? E' stato sempre e soltanto questo il nodo avvistato dentro i traffici di quella "piattaforma spionistica" che le indagini di una timida (o intimidita) magistratura e un processo avrebbero dovuto sciogliere e che ora la decisione di Berlusconi taglia di netto.
Per dirne una, durante la legislatura 2001/2006, quell'"agglomerato oscuro fatto di agenzie di investigazione e polizie private in combutta con infedeli servitori dello Stato che si muove in una logica di ricatto" - "uno spettacolo spaventoso" lo definì Marco Minniti, viceministro agli Interni del governo Prodi - ha raccolto, "con cadenza semestrale", informazioni in Europa su presunti finanziamenti dei Democratici di Sinistra. E' il "dossier Oak" (Quercia), alto una spanna, denso di conti correnti, bonifici, addirittura con i nomi e i cognomi di presunti "riciclatori" e "teste di legno" dei finanziamenti occulti dei Ds che fanno capo ai leader del partito.

Sono informazioni (vere o false, non importa) che possono pesare sul controllo parlamentare degli atti dell'Esecutivo? Ora che il segreto di Stato impedirà di portare alla luce anche soltanto lacerti delle sue attività, quanto peserà sul "mercato della politica" la presenza di quel network spionistico e gli archivi che ha messo insieme?

Se il "potere democratico" è, come scriveva Norberto Bobbio, il "governo del potere pubblico in pubblico", oggi va registrato il minaccioso ritorno del regno del segreto, degli arcana (imperii e dominationis), della "ragion di Stato", della mai morta Italia dei ricatti.

La qualità della nostra democrazia non ne può guadagnare.

© Riproduzione riservata (06 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'amore per se stesso
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:54:26 pm
IL COMMENTO

L'amore per se stesso

di GIUSEPPE D'AVANZO


È stata breve la stagione dell'amore di Silvio Berlusconi. Distratto o confuso dalle sue stesse dolci parole, il presidente del Consiglio non si è accorto dell'esplosione di odio assassino che ha attraversato Rosarno (non ha detto una sola parola su quella tragedia, forse perché in fondo quelli erano negri e gli altri terroni, per dirla con il Brighella che gli dirige il giornale di famiglia). Ora al rientro dalla convalescenza, concentratissimo, il capo di governo discute di libertà. Le leggi ad personam, dice, non sono altro che "leggi ad libertatem". Amore, libertà. Le parole suonano bene e hanno un buon odore, ma non bisogna farsi ingannare. Le formule non accennano mai a un noi, sempre a un Io e dunque va meglio precisato l'orizzonte politico e istituzionale che si scorge: Berlusconi inaugura oggi la stagione dell'amore per se stesso, della libertà per se stesso. Novità? Nessuna, naturalmente. Diciannove leggi ad personam ci hanno abituati, nel tempo, ai trucchi nascosti dietro una quinta scorrevole che qualche malaccorto definisce la volontà riformatrice di un governo, una sfida "costituente" da non lasciar cadere, l'opportunità di un confronto nel merito.

Il "merito", come si dice, è sempre lo stesso. Ha un nome, un cognome, una faccia, un passato da imprenditore creativo e spregiudicatissimo; un presente da capo di governo in conflitto d'interessi invasivo e perenne che disprezza la sovranità della Costituzione; un futuro da Primus, da Eletto che pretende un'immunità speciale dalla Legge. È musica che conosciamo e Berlusconi, che non delude mai, non ce ne priverà nei prossimi mesi. Dice che ha lavorato intensamente alle tappe di una riforma fiscale. È una manovra di distrazione di massa, anche questa non nuova alla vigilia di ogni elezione. In realtà, ha riproposto un'iniziativa già fallimentare tre lustri fa (due aliquote) e irrealizzabile oggi, come tutti sanno e dicono a bocca storta. Il meglio delle sue energie, come si scopre adesso, Berlusconi lo ha riservato al programma di libertà per se stesso dai processi, dalla giustizia per il presente e per il futuro. Appena rientrato sulla tolda del comando unico, è salito al Quirinale per informare il capo dello Stato delle sue trovate, dopo aver rassicurato i suoi che "Napolitano deve dargli una mano". La prima trovata è un decreto legge (quindi, immediatamente esecutivo) che imporrebbe una sospensione di tre mesi ai processi in cui il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto "contestazioni suppletive". È accaduto durante il dibattimento contro David Mills, testimone corrotto e condannato in primo e secondo grado (Berlusconi è accusato di averlo corrotto, il processo paralizzato dai lodi immunitari deve ora ricominciare). Contestazioni suppletive anche nel processo per la compravendita dei diritti televisivi Mediaset, ancora in corso (Berlusconi è imputato di frode fiscale).

Se il decreto legge dovesse essere firmato perché "urgente" dal capo dello Stato, Berlusconi con quest'abito cucito a sua misura guadagnerebbe, senza patemi, il tempo necessario per condurre in porto il "processo breve" che prevede la durata complessiva di sei anni. Una correzione che, se approvata, fulminerebbe  -  perché "estinti" - i processi che lo vedono imputato, ma - si sa - Berlusconi non si accontenta mai. Ecco allora la seconda idea originale progettata durante la convalescenza: perché non rendere liberi - e quindi immuni dalla legge, dal processo e dal giudizio - anche le società, dopo le persone? Di qui, la proposta contenuta nell'emendamento, che oggi sarà presentato al Senato, di un'estensione del "processo breve" anche alle persone giuridiche, quindi alle società che devono rispondere di reati contabili, danni erariali, di responsabilità amministrative per reati commessi da figure apicali nell'interesse aziendale. Mediaset ne ricaverebbe qualche sollievo nei suoi contenziosi giudiziari come la Pirelli-Telecom di Marco Tronchetti Provera, l'Eni e l'Italgas che devono rispondere di truffa ai danni dei consumatori, ma soprattutto Impregilo di Benetton, Ligresti e Gavio, per dire alla rinfusa di qualche processo già in corso.

È un'iniziativa non soltanto auto protettiva, allora. Elimina, con la separazione dei poteri pubblici (si crea un'area di immunità protetta dalla legge), anche ogni separazione tra la sfera pubblica e la sfera privata, tra poteri politici e poteri economici, una separazione essenziale che fa parte del costituzionalismo dello Stato moderno, "ancor prima della democrazia" aggiunge Luigi Ferrajoli. Il ritorno all'attività di Berlusconi ha un pregio indiscutibile. Con una sola mossa e in poche ore, lascia cadere ogni maschera. Si libera dell'alibi della "riforma della giustizia". Rende chiara la sua volontà e offre un saggio di quel che intende per "riforma costituzionale" agli incauti che hanno voluto credere nel suo "spirito costituente" condito dalla primitiva teologia politica del bene e del male, dell'amore e dell'odio. Egli, che è il bene, e addirittura l'organo monocratico che rappresenta la volontà dell'intero popolo sovrano, vuole soltanto costituzionalizzare se stesso, la sua anomalia, la concentrazione del suo potere, il suo conflitto di interesse.

Vuole riscrivere le regole comuni a partire dalla personalizzazione del suo potere che immagina e pretende separato da un Parlamento umiliato, immune dalla legge, confuso fino all'indistinzione con gli interessi economici che lo sostengono nella sua volontà di potenza. Berlusconi sa di sacrificare con la nuova tornata di leggi ad personam ogni possibilità di confronto con le opposizioni, ma ci ha davvero mai creduto in una discussione dagli esiti condivisi? È difficile crederlo. Lo strappo di Berlusconi dimostra come al fondo del suo "spirito costituente" ci sia soltanto una vecchia idea che Gianfranco Miglio già nel 1994, con la prima vittoria della destra, espresse in modo brutale. La Costituzione non è un accordo tra tutti sulle regole del gioco, ma è un "patto che i vincitori impongono ai vinti. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l'altra metà. Poi si tratta di mantenere l'ordine nelle piazze".
 

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da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Mills Il denaro fu versato dopo la testimonianza: dettaglio..
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2010, 02:25:44 pm
IL RETROSCENA.

Preparato da Alfano per risolvere una disputa interpretativa da cui dipende il caso Mills

Emendamento sul reato di corruzione
 
Ecco l'asso segreto per salvare Silvio

Il 25 febbraio la Cassazione deve confermare o no la condanna del teste pagato dal premier

Il denaro fu versato dopo la testimonianza: dettaglio da cui dipende la gravità del reato

di GIUSEPPE D'AVANZO

PER  comprendere le mosse di Berlusconi bisogna chiedersi qual è la via più diretta che può salvarlo subito dai processi in attesa che, dopo le elezioni, ritorni la quiete politica indispensabile per la riforma delle immunità parlamentari, il salvacondotto per il futuro. Berlusconi, si sa, "ha riflessi costanti, non tollera le vie mediate, sceglie d'istinto la più corta, come il caimano quando punta la preda".
 
La diagnosi di Franco Cordero torna utile per raccapezzarci in queste ore che vedono accumularsi e sovrapporsi iniziative legislative, disegni di legge, decreti con forza di legge, progetti di riforma costituzionale con "la sospensione per la durata del mandato del procedimento" per tutti i parlamentari. Il presidente del Consiglio ha in mano molte carte da giocare: il processo breve al Senato (cancella i suoi processi); il legittimo impedimento alla Camera (introduce una norma temporanea che consente il rinvio del processo del Cavaliere, in vista dell'approvazione della riforma costituzionale); tre decreti passepartout (milleproroghe, trasferimenti d'ufficio dei magistrati, piano carceri) che possono ospitare, last minute, l'asso (o gli assi) che nasconde nella manica. La strategia del Cavaliere è sempre camaleontica. Vive di nebbia, svolte, diversivi, doppie intenzioni, falsi bersagli. Era forse una mossa deviante il decreto legge che avrebbe bloccato i processi per novanta giorni. È certo una frottola che quel decreto fosse utile per affrontare in serenità la campagna elettorale delle Regionali (figurarsi, il Cavaliere dà il meglio di sé nel ruolo della vittima di complotti inesistenti). Bisogna dunque guardare altrove e porsi sempre la stessa domanda: qual è la trovata che "disarma il nemico" e chiude ora e in modo definitivo la partita più vicina, rognosa e segnata, cioè il processo Mills? (Il capo del governo è accusato di aver pagato il testimone David Mills, già condannato in primo e secondo grado; è un processo segnato perché, come dice l'avvocato inglese, è "assurdo e illogico che uno sia condannato e l'altro assolto". È vero, perché la corruzione si consuma in due: se c'è un corrotto, Mills, ci deve essere anche un corruttore, Berlusconi).

Il "riflesso costante" di Berlusconi è di muoversi con modi spicci modificando le regole del gioco a partita in corso, andando al sodo senza tante storie. In difficoltà, nel passato, ha abolito reati (falso il bilancio), cancellato prove (rogatorie), sostituito giudici (legittimo sospetto). C'è chi consiglia di verificare se sia in cottura oggi la stessa minestra, con uno degli stessi ingredienti. C'è chi suggerisce (anche nella maggioranza) di non guardare alle aule del parlamento, ma alle aule di giustizia: "Quel che può accadere nelle aule di giustizia troverà una corrispondenza nelle decisioni delle Camere". Vale la pena di seguire il suggerimento e dunque di spostarsi da Palazzo Madama e Montecitorio al Palazzaccio della Cassazione. Qui, il 25 febbraio, le Sezioni Unite decideranno se confermare, cancellare o rinviare a nuovo giudizio la sentenza di condanna di David Mills (con effetti vincolanti per il destino di Berlusconi).

In Cassazione si respira una brutta aria. Equivoca, di imbarazzo, di sospetto. Un emendamento del governo in milleproroghe, sponsorizzato dal primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone e approvato dal ministro di Giustizia, promette di elevare a 76 anni (da 75) l'età pensionabile. "Con l'innalzamento dell'età pensionabile  -  ha già scritto il Sole 24 ore  -  Carbone resterà primo presidente fino all'estate 2011, il che gli consentirà, tra l'altro, di candidarsi alla Consulta quando, a ottobre 2010, scadrà il mandato di Francesco Amirante magistrato di Cassazione, attualmente presidente della Corte Costituzionale". Un ipotetico scambio di favori, un pasticcio che già si è avvistato in passato quando, nel 2002, alla vigilia della decisione della Cassazione sul "legittimo sospetto" sollevato sul capo dei giudici dei processi Sme e Imi-Sir, Berlusconi ha allungato di tre anni, correggendo la Finanziaria, la vita professionale delle toghe portandola da 72 a 75 anni. Quella volta gli andò male, ma ora il terreno  -  spiegano gli addetti  -  è più felice, il concime decisamente più fertile. Ecco perché.

La corte d'appello di Milano, che ha condannato Mills a 4 anni e sei mesi di carcere, ha stabilito che il prezzo della falsa testimonianza  -  salvifica per Berlusconi  -  fu pagata dal corruttore dopo e non prima della sua testimonianza. Si chiama "corruzione susseguente". Il quesito, che il 25 febbraio deve trovare la risposta delle Sezioni Unite, è se la "corruzione susseguente" può integrare il reato di "corruzione in atti giudiziari" o soltanto la "corruzione semplice". Il fatto è che la Corte di Cassazione ha una giurisprudenza controversa. Con la sentenza n. 1065, il 25 maggio 2009, ha stabilito che "il delitto di corruzione in atti giudiziari può essere realizzato anche nella forma della corruzione cosiddetta susseguente" confermando una decisione del 20 giugno 2007 (sentenza n. 1358), ma in contrasto con un'altra sentenza (n. 33435) del 4 maggio 2006. Qui si legge: "La corruzione in atti giudiziari si caratterizza per essere diretta a un risultato e non è compatibile con l'interesse già soddisfatto su cui è modulato lo schema della corruzione susseguente". La "corruzione susseguente", pagata dopo l'imbroglio, come è avvenuto per David Mills, è dunque "corruzione in atti giudiziari" o "corruzione semplice"? Se la Cassazione dovesse decidere che è "semplice", Berlusconi sarebbe fuori pericolo perché il reato sarebbe già prescritto. Se stabilisse che è "in atti giudiziari", il Cavaliere sarebbe fritto perché, accertato che Mills incassa il prezzo della sua falsa testimonianza nel febbraio del 2000, la prescrizione cade soltanto a metà del 2012. La materia è così dubbia e discutibile però che nessuno tra gli addetti azzarda una previsione a meno che "la volontà del legislatore" non faccia pendere la bilancia decisamente a favore della corruzione semplice e quindi per la prescrizione (salvo Mills, ma salvo definitivamente anche Berlusconi, per l'altro processo  -  la frode fiscale sui diritti Mediaset  -  si vedrà, c'è tempo).
 
È, a questo punto della ricognizione, che i suggeritori sapienti consigliano di verificare quali emendamenti sono stati messi a punto in autunno dal governo, o meglio dal ministro Angelino Alfano, proprio (pare) su suggerimento del primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone. "Se ne è già parlato", dicono.
 
Se n'era parlato, ma se n'era perso il ricordo, tuttavia è vero: in novembre, Alfano ha preparato un emendamento al "processo breve" per "perfezionare" il reato di corruzione in atti giudiziari. La modifica dell'art. 319 ter (reato di corruzione in atti giudiziari) chiarisce in modo inequivocabile che "è da ritenersi non punibile la corruzione "susseguente"". Scrive il Tempo, il 24 novembre 2009: "Legge o emendamento al processo breve. Sarebbe questa, secondo quanto si è appreso in ambienti della maggioranza di governo, una delle ipotesi tecniche al vaglio del Pdl. In questo modo uscirebbero dai rispettivi processi il premier Silvio Berlusconi e l'avvocato inglese David Mills". Ecco dunque uno dei jolly nascosti nella manica del Cavaliere: la non punibilità della "corruzione susseguente" come corruzione in atti giudiziari. La mossa avrebbe una sua legittimazione nei contrasti della giurisprudenza, nella necessità di fare luce di un'ambiguità. Il "delitto perfetto" avrebbe l'indubbio vantaggio di obbligare i giudici delle Sezioni Unite a tenere conto della "volontà del legislatore" magari espressa soltanto al Senato in extremis, in coda all'approvazione del "processo breve". Anche se non sarebbe l'unica possibilità per i commessi obbedienti del Cavaliere. L'emendamento salvifico potrebbe essere inserito nei decreti milleproroghe o trasferimenti d'ufficio dei magistrati nelle sedi disagiate, che vanno approvati entro il 17 febbraio. E dunque otto giorni prima della decisione della Cassazione, 25 febbraio. "Come il caimano quando punta la preda".
 
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da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La pretesa immunitaria
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 06:10:13 pm
IL COMMENTO

La pretesa immunitaria

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL "processo breve" è la ventesima legge approvata nell'interesse di Silvio Berlusconi dai commessi nominati in Parlamento dalla Lega e dal Partito della libertà. È una legge che salva l'Egoarca (morirà il rognosissimo processo Mills, dove è accusato di corruzione). Qualche effetto immediato. La legge sfascia la già malmessa macchina giudiziaria. Non c'è, infatti, nessun contemporaneo provvedimento che asciughi le procedure, depenalizzi i reati, renda più efficiente l'organizzazione giudiziaria, qualifichi le risorse umane e incrementi gli strumenti materiali.
Il "processo breve" impoverisce le casse dello Stato perché si creano condizioni favorevoli alla "casta" (ministri, sindaci, amministratori pubblici) per non risarcire il danno di sperperi e distrazioni. Allontana dalla condanna le società che hanno la responsabilità amministrativa dei reati commessi dal management nell'interesse dell'azienda. Prepara soprattutto un processo ingiusto e diseguale. Lasciate immutati, oltre ogni ragionevolezza, i reati, le procedure e le garanzie processuali, il processo non potrà che avere tempi lunghi. Effetti a lungo termine. Un processo - da un lato, nato per essere dilatato nei tempi e, dall'altro, strozzato nella durata - è uno strumento destinato a diventare superfluo, inutilizzabile, inutile. Soprattutto è un arnese che non potrà essere mai "giusto", nonostante le filastrocche a uso televisivo delle ugole obbedienti. Perché danna i poveri cristi senza risorse e premia chi ha il denaro per pagarsi legulei competenti nell'esplorare i labirinti della procedura. In conclusione, il paese sarà più fragile, insicuro e criminofilo con giubilo dei delinquenti con e senza colletto bianco: c'è finalmente il modo legale per arraffare, arricchirsi, farsi prepotente senza danno, malvivere senza pagare dazio né allo Stato né agli innocenti diventate vittime.

Il "processo breve", frutto avvelenato di un'arrogante pretesa immunitaria, è soltanto l'intimidatoria ipoteca che, per ora, Berlusconi lascia sul tavolo. È già accaduto appena ieri, nel 2008. Con un emendamento al decreto sicurezza, il capo del governo si fa approvare la sospensione di un anno dei processi per fatti commessi prima del 1 luglio 2002, la cui pena non ecceda i dieci anni (è il suo caso). La norma manda all'aria centomila processi. Berlusconi l'agita per rendere accettabile come "danno minore" un provvedimento che lo rende immune fino a fine mandato (il "lodo Alfano" sarà approvato l'11 luglio 2008 e bocciato dalla Consulta, perché incostituzionale, il 7 ottobre 2009).

Il quadro tattico, in apparenza, non pare diverso in quest'anno di grazia 2010. Distruttivo dell'intero sistema giudiziario, il "processo breve" è il mostruoso sgorbio che dovrebbe convincerci ad accogliere, come riduttivo di un rovinoso danno, un altro provvedimento che, senza umiliare l'interesse collettivo, può ottenere lo stesso risultato: il congelamento dei processi del Cavaliere. E soltanto apparenza. In realtà, in quest'occasione la strategia che si intravede dietro mosse rituali guarda più lontano, è più pericolosa perché vuole essere definitiva.

Il "male minore" (per i cittadini, per lo Stato), che dovrebbe salvare l'Egoarca dalle sue rogne giudiziarie, è il disegno di legge sul "legittimo impedimento" (da lunedì alla Camera). È la riformulazione, ancora per via ordinaria e quindi incostituzionale, del "lodo Alfano". La definiscono "disposizione temporanea in materia di legittimo impedimento del presidente del consiglio a comparire nelle udienze penali". Prevede che "costituiscano motivo di rinvio delle udienze gli impegni istituzionali del capo del governo". La norma sarà valida, per "tutti i processi in corso in ogni fase, stato o grado", solo per 12 mesi in attesa di una riforma costituzionale che reintroduca l'immunità parlamentare (già pronta la proposta bi-partisan Chiaromonte-Compagna). Naturale che Berlusconi non si fidi dell'escamotage o della solidità di quel "ponte". Perché dovrebbe vedere garantita la sua salvezza in una legge (il "legittimo impedimento") che oltraggia la Costituzione in attesa che la Costituzione venga poi riscritta per cicatrizzare la ferita? Un pasticcio, come nemmeno un Ghedini potrebbe organizzare. È ovvio che il capo del governo vorrà raddoppiare la sua pressione sull'opposizione, sul capo dello Stato, sulla magistratura, sull'opinione pubblica con l'uno e l'altro dei provvedimenti ("processo breve" e "legittimo impedimento") per ottenere il consenso ad aprire subito (e al diavolo il governo e le difficoltà del Paese) una "stagione costituente" che assegni alle Camere il potere di "disporre, a garanzia della funzione parlamentare, la sospensione del procedimento per la durata del mandato" (così si legge nel disegno di legge Chiaromonte-Compagna).

Ora si ascoltano molti pareri favorevoli al ritorno irrobustito dell'immunità parlamentare. Poco male. Allarma che l'opposizione - e anche segmenti di una magistratura stressata e "stanca di guerra" - non si accorgano che la revisione dell'immunità (il Cavaliere deve farsela approvare anche dall'opposizione perché, impopolarissima, non supererebbe il referendum) è nelle manifeste intenzioni di Berlusconi la cruna attraverso cui infilare il cammello della "costituzionalizzazione" di se stesso, dell'anomalia dei suoi interessi confusi e sovrapposti, il congegno per potenziare un potere che immagina limitato da troppi contrappesi (parlamento, ordine giudiziario, capo dello Stato, Corte costituzionale). A Bonn è stato fin troppo chiaro, a questo proposito. È dunque la riforma della Costituzione l'ancoraggio finale di una strategia cominciata oggi con l'approvazione al Senato del "processo breve". L'agenda politica può essere favorevole per il progetto. Dopo le elezioni regionali (marzo), non si voterà per tre anni. Lontano dagli elettori, il sistema politico potrà ritornare sordo e autoreferenziale. Le carte sono già in tavola, se le si vuole vedere. L'Egoarca chiede che la Costituzione diventi strumento di chi governa, Instrument of Government, dispositivo per esercitare il potere. Ci si sarebbe aspettato che, nella sinistra nouveau style, qualche autorevole oracolo ricordasse che la Carta fondamentale della Repubblica è figlia di un costituzionalismo che non l'ha immaginata strumento di governo ma di garanzia contro gli abusi del potere. Al contrario, evocando la "bozza Violante" (fine del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei deputati, Senato federale), le menti soi-disant "realiste" dell'opposizione sembrano convolare verso la linea tracciata dall'Egoarca. Enfatizzano la modernità della "bozza", ne occultano in pubblico il più autentico obiettivo: il rafforzamento dei poteri del premier. Che, una volta immunizzato per sempre, è appunto l'obiettivo dell'Egoarca.

Bisogna prendere atto oggi che non si odono voci responsabili che denuncino quanto possa essere pericoloso imboccare questa strada. "Chi ci salverà da Berlusconi, "padre costituente"?", si chiedeva nel 2004 lo storico Sergio Luzzatto. La risposta provvisoria è oggi questa: a livello politico, nessuno sembra aver voglia di salvarci. Chi potrebbe farlo o tace o dissimula le sue intenzioni. Soffiano arie bicamerali e, dopo il voto regionale, infurieranno impetuose, aggressive e libere.

© Riproduzione riservata (21 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La filastrocca del complotto
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2010, 06:02:37 pm
IL COMMENTO

La filastrocca del complotto

di GIUSEPPE D'AVANZO


È "una persecuzione e, come sempre, prima delle elezioni", dice Berlusconi come da copione. C'è qualcuno che ancora può credere che i tempi di un'indagine possano essere regolati sull'agenda politica? Niccolò Ghedini, il chierico per eccellenza, finge di crederlo e lo suggerisce. È il primo a uscire allo scoperto. Ghedini indossa molte maschere nel teatro di Silvio Berlusconi. È l'avvocato delle difese corsare che proteggono il presidente del consiglio negli affari milanesi.

È il soprintendente, controllore e coordinatore, di un multiforme sistema legale - nazionale e internazionale - che si preoccupa di rappresentare trasversalmente gli interessi di imputati e testimoni che potrebbero mettere nei guai, da Bari a Los Angeles, il capo del governo. È il parlamentare che ispira, sulle questioni di giustizia, i lavori della Camere. È il ministro di giustizia effettivo, anche se in via Arenula non ci mette mai piede: Angelino Alfano è solo l'attor giovane in scena e si può essere Guardasigilli anche da Palazzo Grazioli o Villa San Martino. Di Ghedini sono le sofisticherie, le furberie, i mostri disseminati - senza risultato, finora - nei codici e nelle procedure per evitare al Cavaliere processi e sentenze. L'avvocato di Padova ha imparato da Berlusconi un'arte affabulatoria, con il tempo diventata monotona. Ricordate? Al Cavaliere capitò di negare - e con sdegno - di aver riformato a uso proprio il falso il bilancio e le rogatorie. Me lo imponevano le norme europee, disse.

La pretesa di negare quel che tutti sanno e ricordano è la strategia abituale di Berlusconi e Ghedini. La si può rappresentare così: in pubblico, respingere ogni evidenza con un assalto istrionesco e idrofobo appena una toga si avvicina al Cavaliere (seguirà tempesta mediatica dei giornali della casa e la claque dei Tg obbedienti). In tribunale, in assenza di giudici pieghevoli, difesa a istrice, asfissia ostruzionistica, infiniti cavilli perditempo. In parlamento, leggi ad personam. Dinanzi all'opinione pubblica, denuncia dell'aggressione giudiziaria.

Lo spettacolo va in scena anche ieri sera quando diventa ufficiale che il pubblico ministero di Milano ha concluso le indagini sui metodi di Mediatrade ipotizzando per Silvio Berlusconi l'appropriazione indebita delle risorse di Mediaset (quotata in Borsa).
Il fabulario di Berlusconi e Ghedini prevede a questo punto l'evocazione (noiosissima) di un complotto politico: i pubblici ministeri colpiscono ora "perché si sta riformando la giustizia e a marzo si vota per le regionali". Dimentica, l'avvocato mille maschere, che addirittura da ottobre 2009 si sa che quell'indagine è di fatto chiusa. Ghedini ne conosce il merito, le fonti di prova, gli atti, i documenti, le testimonianze, i tempi e l'impianto organizzato dall'accusa, ma gridare all'accanimento investigativo è sempre una buona medicina per non affrontare i fatti.

I fatti? Dove sono i fatti? Quali sono? È il secondo passo, rituale come una filastrocca precostituita. Dice Ghedini: "Le contestazioni mosse hanno dell'incredibile sia per il contenuto sia per gli anni a cui si riferiscono, periodo in cui Silvio Berlusconi non aveva la benché minima possibilità di incidere sull'azienda". Anche una superficiale verifica smaschera il gioco. L'affarismo societario nascosto in Mediatrade affiora con una domanda: perché un gigante come Mediaset rinuncia a trattare i diritti televisivi direttamente con le majors per affidare la faccenda a un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama? Il pubblico ministero ritiene di avere dimostrato che Agrama acquistava i diritti e poi li rivendeva alle società di Berlusconi "a prezzi enormemente gonfiati". A Los Angeles li comprava a cento. A Milano li rivendeva a mille. E la differenza tra cento e mille restava all'estero e Agrama si preoccupava, molto curiosamente, di "restituire" i profitti su conti nella disponibilità di manager Mediaset, in Svizzera, nel Principato di Monaco, alle Bahamas.

Possibile che Berlusconi si facesse truffare come un sempliciotto da quell'americano? O non è il caso di pensare che quell'Agrama sia un socio occulto di Berlusconi? Purtroppo per Ghedini, come per la corruzione di David Mills, nell'inchiesta oggi conclusa appaiono testimoni che, cittadini di un altro mondo dove mentire è pericoloso e indecente, la raccontano tutta. Come Bruce Gordon, responsabile della vendite della Paramount. Dice Gordon: "In Paramount le società di Agrama sono indistintamente indicate come Berlusconi companies e l'esposizione creditoria come Berlusconi receivables". Gordon dice che l'ascesa al governo di Berlusconi non ha mutato di una virgola quella situazione. "Agrama - ricorda Bruce Gordon - ci diceva che continuava a riferire a Silvio Berlusconi sulle negoziazioni per l'acquisto dei film anche dopo la sua nomina a presidenza del consiglio". Dunque, non esistevano gli affari di Agrama, ma soltanto quelli di Berlusconi. Che poi il Cavaliere governasse un paese, che importa?
Questo il quadro (ipotetico, beninteso). Questi i fatti che - certo - possono essere controversi ed è per questo che si fanno i processi: in un processo leale (quindi, giusto), "la difesa è una forza che resiste all'accusa e non che sfugge all'accusa". Ma nonostante sia il suo mestiere, Ghedini disprezza la discussione del merito. Provoca, protesta, deplora, inventa paesaggi sublunari preferendo lavorare alla malfamata immunità ora che il "processo breve" è stato approvato al Senato e il legittimo impedimento lo sarà alla Camera. È una fenomenologia (o una commedia?) che non ha nulla di nuovo. Come nulla di nuovo s'annuncia nel "discorso agli italiani" che Berlusconi minaccia nella notte.

© Riproduzione riservata (23 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le campagne del Cavaliere contro la stampa
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 10:33:20 am
IL COMMENTO

Le campagne del Cavaliere contro la stampa

di GIUSEPPE D'AVANZO

Indifferente al significato dell'impegno internazionale che lo attende da oggi in Israele, Berlusconi riesce a parlare, in un colloquio con Haaretz, delle sue personali contrarietà domestiche ficcandole senza imbarazzo tra la politica di colonizzazione dei territori arabi, le relazioni diplomatiche tra Tel Aviv e Damasco, il minaccioso programma nucleare di Teheran. Prigioniero di se stesso, l'Eletto non può concepire agenda nazionale e internazionale che non preveda la glorificazione della sua azione di governo, l'autoelogio, un'incontrollata quantità di menzogna politica. Come un bambino capriccioso che sorride, piagnucola e ringhia se non lo si coccola come desidera, Berlusconi chiede all'appuntamento internazionale l'applauso che gli assicuri un qualche restyling della sua compromessa credibilità di "uomo di Stato". Vaste programme, che lo costringe a parlare di se stesso anche in quest'occasione.

Lo fa nel solito modo: "Sono stato vittima per molti mesi di una campagna di stampa che è stata probabilmente la più aggressiva e calunniosa di quante ne siano mai state condotte contro un capo di governo. Ho subito aggressioni politiche, mediatiche, giudiziarie, patrimoniali e anche fisiche".
Sono parole sventurate per più ragioni. È inopportuna l'occasione, soprattutto. I problemi aperti in Medio Oriente dovrebbero apparire al presidente del Consiglio più rilevanti delle sue personali difficoltà. È sbagliato il luogo in cui mette in scena il suo piagnisteo contro l'informazione e la giustizia. Israele è una democrazia che sa essere severa contro gli errori e le debolezze di chi governa. Nel corso del tempo, ne hanno fatto le spese anche "padri della patria" come Yitzhak Rabin e Ariel Sharon. Un capo di Stato, Moshe Katzav (Likud), ha dovuto lasciare l'incarico e affrontare un processo per molestie sessuali. Dopo insistenti inchieste giornalistiche   -  anche della tv pubblica  -  due ministri, Avraham Hirschson (Kadima) e Shlomo Benizri (Shas), sono stati condannati a cinque e quattro anni di carcere per corruzione e riciclaggio. L'anno scorso, con un anno di anticipo sulla fine del mandato, il premier Ehud Olmert (Kadima), accusato di corruzione, si è dimesso pur dichiarandosi innocente con parole che non ascolteremo mai dalla voce di Berlusconi: "Sono orgoglioso di essere il primo ministro di un Paese che indaga i suoi primi ministri, in cui nessuno è al riparo dalla legge".

Sono parole che avrebbero dovuto consigliare a Berlusconi una maggiore discrezione tanto più che la metà dei cittadini del nostro Paese, come Olmert, pensa che nessuno  -  tanto meno chi governa protetto da un micidiale conflitto d'interessi  -  possa essere messo "al riparo della legge". Soprattutto se deve dar conto di condotte che lo hanno visto corrompere giudici e testimoni e truffare il fisco, e lo vedono manipolare la produzione legislativa a suo vantaggio anche al prezzo di sfasciare l'amministrazione della giustizia, cancellare la certezza della pena, trasformare l'Italia nel Paese più criminofilo d'Occidente.

Il vittimismo consegnato a Haaretz è infine il clamoroso smascheramento di una congiuntura politica nazionale. Ripropone il canone di un "regime della menzogna" che inganna l'opinione pubblica intenzionalmente e consapevolmente, ben sapendo che cosa si sta deliberatamente nascondendo. Berlusconi avrebbe potuto far tesoro della solidarietà umana e politica ricevuta dopo l'aggressione di piazza Duomo per inaugurare una nuova stagione. Al contrario, egli svela come ogni auspicio di dialogo sia soltanto una strategia di comunicazione vuota. Ancora una volta soltanto finzione, menzogna. L'Egoarca assimila il gesto di un pazzo a una catena di eventi politici, che egli stesso ha provocato, ancora tutti aperti. Oggi come ieri, attuali. Il ritorno alla ribalta delle candidature di "veline" ripresenta la commistione pubblico/privato, l'umiliazione di una rappresentanza politica degradata a fatto privato, quel disprezzo delle donne che ha convinto Veronica Lario a parlare, in primavera, di "ciarpame politico". L'accusa, lanciata dall'house organ di famiglia di un "complotto" ordito da un network di "magistrati, politici e giornalisti" attraverso Patrizia D'Addario per screditare il capo di governo, riscrive nell'agenda politica la questione della "vulnerabilità" di Silvio Berlusconi. Perché delle due, l'una. O Panorama, nonostante le smentite della Procura di Bari, dispone di riscontri a quell'ipotesi di cospirazione e si ha la dimostrazione che le domande, eluse dal presidente del Consiglio per mesi, hanno ancora oggi un fondamento di grande interesse perché è in gioco la sicurezza nazionale (quali sono oggi i comportamenti del capo del governo? Le condotte di ieri lo hanno reso prigioniero di pressioni che non conosciamo?). O Panorama non ha riscontri coerenti con le sue accuse e affiora di nuovo una questione già intravista in autunno: la "macchina del fango" che un potere politico, mediatico ed economico, concentrato in una sola mano, può muovere contro tutti coloro che, per ragioni diverse, sono considerati "nemici". Come è accaduto, nel corso del tempo, a una moglie "ribelle"; al direttore dell'Avvenire troppo critico; al presidente della Camera troppo perplesso; all'editore, al direttore, ai giornalisti di un gruppo editoriale troppo interrogativo.

Se saltasse fuori che il complotto di Panorama non è altro che un bluff, diventerebbe necessario e attuale verificare come alcune testate della casa editrice del capo del governo abbiano trasformato scientificamente lo scandalo in uno strumento di lotta per il potere politico minacciando per l'oggi e il domani la reputazione dei non conformi, dei dissenzienti o semplicemente dei neutrali. Nel caleidoscopio delle verità rovesciate che organizza, Berlusconi si rappresenta  -  anche in occasioni molto inopportune  -  come vittima di "campagne di stampa e aggressioni", ma càpita che i fatti siano ostinati e potrebbero dimostrare presto come sia proprio il presidente del Consiglio l'accorto regista della black propaganda che avvelena il Paese, l'architetto di una menzogna pubblica che compromette la res publica, lo spazio democratico e la possibilità di gettarci alle spalle l'odio che Berlusconi alimenta con sapienza comunicativa. Anche quando è all'estero.

© Riproduzione riservata (01 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'impunità assoluta
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2010, 02:19:16 pm
IL COMMENTO

L'impunità assoluta

di GIUSEPPE D'AVANZO


Senza alcun dibattito pubblico, le immunità per le oligarchie politiche e le burocrazie dello Stato, che si rendono obbedienti, appaiono il canone che ispira le mosse del governo e la produzione legislativa della maggioranza.

Si fa largo l'idea di "un primato della politica" che vuole rendere indiscutibile, per chi ha il potere, una protezione assoluta nei confronti del controllo di legalità. Ovunque si guardi, si può afferrare la tendenza della politica a costruire schermi, muri, privilegi, autoesenzioni. In una sola giornata, si possono cogliere due segni della pericolosa asimmetria che incuba, nascosta, nel Palazzo.

Un disegno di legge, in discussione al Senato (relatore Piero Longo, avvocato di Berlusconi), prescrive ai giudici come valutare le fonti di prova offerte dai "disertori" delle mafie. Se il progetto diventasse legge, le dichiarazioni rese dal coimputato (e da imputati di procedimento connesso) avrebbero valore probatorio "solo in presenza di specifici riscontri esterni". Anche se il dibattimento riuscisse a raccogliere "riscontri meramente parziali", quelle dichiarazioni sarebbero "inutilizzabili". Sono norme che possono disarticolare annientandole, dal punto di vista giudiziario, le dichiarazioni di quei testimoni dei processi di mafia che impropriamente diciamo "pentiti". Quanti saranno i processi che "moriranno" per infarto legislativo? E che ne sarà della lotta alle mafie, glorificata appena qualche giorno fa dall'intero governo a Reggio Calabria?

Non è una novità che i ricordi, le accuse dei "collaboratori di giustizia" debbano avere verifiche "interne" ed "esterne", conferme "intrinseche e estrinseche", come si dice nel gergo dei legulei. Si sa che non sono sufficienti le dichiarazioni incrociate. Lo ha stabilito, e da tempo, la Corte suprema di Cassazione, chiarendo però che se due "disertori" concordano con una ricostruzione dei fatti, il lavoro del giudice deve accertare "in modo scrupoloso e meditato, l'autonomia di ogni singola collaborazione. In caso di positiva verifica di attendibilità, dalla convergenza delle dichiarazioni devono trarsi tutte implicazioni del caso. Si deve in particolare dedurre l'efficacia di riscontro reciproco delle dichiarazioni convergenti e il consolidamento del quadro di accusa". (Corte Suprema di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza n. 542/2008, sul cosiddetto caso Contrada).

Ora, è fin troppo facile farsi venire cattivi pensieri, in tempi di leggi ad personam. E' fin troppo semplice intuire che la norma contro i testimoni di mafia nasca, d'improvviso e segreta, quando all'orizzonte del processo contro Marcello Dell'Utri appare Gaspare Spatuzza, che non esita a chiamare in causa anche il presidente del Consiglio. Con la nuova legge, anche se Filippo e Giuseppe Graviano avessero confermato in aula il racconto del loro compare, l'intera ricostruzione sarebbe stata inutilizzabile.

Qui però preme rilevare altro, la volontà del legislatore di creare argini così ferrei da impedire e restringere i "naturali" margini di autonomia interpretativa del giudice. Si vieta ogni interpretazione della legge. Si afferma l'idea di un giudice che si conformi rigidamente alla volontà del legislatore anche a costo di accantonare principi costituzionali, ragionevolezza, buon senso, convincimento logico. Affiora una concezione "assolutistica" del "primato della politica" sulla giurisdizione.

La tendenza è ancora più evidente nelle conclusioni del caso Abu Omar. L'uomo, Osama Nasr Moustafà (Abu Omar è il nome religioso), è l'imam nella moschea di viale Jenner a Milano. Ha 39 anni, è egiziano, in Italia è protetto dal diritto di asilo. La Cia lo accusa di essere un "terrorista" di Al Qaeda. E' una cinica astuzia, abituale nella stagione della "guerra al terrore". L'accusa è un modo per dare pressione al povero disgraziato, metterlo con le spalle al muro schiacciato da un'alternativa del diavolo: o collabora con l'intelligence americana e italiana e si fa spia tra i suoi o Cia e Sismi (l'intelligence italiana diretta da Niccolò Pollari) lo incappucciano, lo sequestrano, lo spediscono nella sala di tortura di un carcere nordafricano dove la sua ostinazione a conservarsi "integro" verrà messa alla prova. E' quel che accade all'egiziano. Chi rapisce Abu Omar il 17 febbraio 2002? Un processo a Milano accerta che sono stati agenti della Cia. Che ruolo hanno avuto le barbe finte di casa nostra? Il giudice Oscar Magi ha le idee molto chiare. Scrive, nelle motivazioni, che Niccolò Pollari, il suo staff, i suoi agenti erano a conoscenza dell'azione degli "americani", si sono voltati dall'altra parte e, quando è scoppiata la grana, hanno ostacolo e inquinato le indagini della magistratura. Pollari e i suoi si salvano da una condanna protetti da un segreto di Stato, opposto dai governi Prodi e Berlusconi con un "paradosso logico e giuridico": sul sequestro di Abu Omar non c'è segreto, ma il segreto impedisce di accertare le responsabilità di chi ci ha messo le mani. Il giudice di Milano osserva che l'iniziativa del governo estende "l'area del segreto in modo assolutamente abnorme" trasformando il segreto di Stato "in un'eccezione assoluta e incontrollabile allo stato di diritto".

Un'interpretazione "pericolosa" che, anche in presenza di reati gravissimi (il sequestro di persona lo è), offre alle barbe finte "un'immunità di tipo assoluto non consentita da nessuna legge di questa Repubblica" e affidata all'arbitrio dell'autorità.

Qui è l'arbitrarietà dell'opposizione del segreto di Stato a mostrarci come la giurisdizione sia umiliata da una politica che impone la sua sovranità e con il suo "primato" offre un'impunità di dubbia legittimità costituzionale a burocrati sottomessi e docili.

Il lavoro dei servizi di informazione deve salvaguardare l'indipendenza e l'integrità dello Stato, tutelare lo Stato democratico e le istituzioni che lo sorreggono. Il segreto è lo strumento che consente all'intelligence di difendere gli "interessi supremi". Che sono "l'integrità della Repubblica; la difesa delle Istituzioni; l'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati; la preparazione e la difesa militare dello Stato". Nessuno di questi interessi può essere minacciato dall'accertamento di che cosa è accaduto - e con la responsabilità di chi - quella mattina del 17 febbraio del 2003, a meno di non pensare che diventi legale un sequestro di persona e legittima la violazione della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Il governo ritiene, dunque, che sia nelle sue prerogative anche la tutela di un interesse non "supremo" ma politico disegnando quindi, ancora una volta, una scena che attribuisce una signoria della politica sulla legge. Se ne scorge l'esito. La regola non è più la pubblicità e il segreto, l'eccezione. Al contrario, il segreto diviene (può divenire da oggi) pratica d'uso quotidiano di un presidente del Consiglio che decide, alla luce di un interesse tutto politico, che cosa si può conoscere e che cosa deve restare pubblicamente nascosto.

Il legislatore che, rivendicando un "primato", si cucina per sé e per la sua oligarchia una protezione dalla legalità e un governo che rifiuta di governare in pubblico pretendendo per sé un potere sovrano e segreto non separano soltanto la legittimità dalla legalità, ma anche la democrazia dalla Costituzione. Sembra questo il più autentico focus della stagione che ci attende. 

(02 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il Cavaliere, il Vaticano e la congiura contro Boffo
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2010, 09:23:34 am
IL COMMENTO

Il Cavaliere, il Vaticano e la congiura contro Boffo

di GIUSEPPE D'AVANZO

C'E' STATO, dunque, dentro le gerarchie di Santa Romana Chiesa una cospirazione. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, muove contro la Conferenza Episcopale Italiana di Angelo Bagnasco. Francesco Cossiga - con l'occhio lungo di chi è abituato a vedere nel sottofondo dei poteri - rivela le ragioni per tempo. Il presidente emerito della Repubblica, adeguatamente informato, anticipa tutti, quasi disegna nel minuto ciò che accadrà presto, le teste che cadranno, le forze in campo, la posta politica in gioco. Berlusconi è sotto tiro. Ci si è cacciato da solo, in un angolo, festeggiando una minorenne. La sua vita sconveniente piace poco o punto alle parrocchie e ai parroci, che non tacciono imbarazzo e amarezza in lettere all'Avvenire. Il monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, ascolta quelle voci e lamenta: "Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati; soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio" (6 luglio, Ferriera di Latina).

Cossiga prende di petto il segretario della Cei: "Si è passato il segno. Altro che "festini e libertinaggio": sarebbe bastata una dichiarazione sull'etica, riferita alla situazione generale, come si è sempre fatto". Insistere su questi temi, ragiona Cossiga, svela "una spaccatura che riguarda la politica, non l'etica". Ecco la scena che egli vede: "Vogliono tenersi buona una parte dell'episcopato e del movimento ecclesiale, vicino al centro-sinistra. Hanno puntato sul Pd di Franceschini, tirano la volata all'unico leader post-dc rimasto.
Se il direttore dell'Avvenire vanta che, all'interno del suo giornale, ognuno decide liberamente a chi devolvere l'8 per mille, siamo in presenza di un gruppo in dissidenza non con il centro-destra, ma potenzialmente con la parte della Chiesa che fa capo al Papa". Cossiga è brutale con il direttore dell'Avvenire: "Non riesco a dare nessuna spiegazione agli scritti del non reverendo Boffo che, posto inopportunamente alla direzione del giornale pur sempre organo ufficiale della Cei, dovrebbe astenersi da questi continui attacchi, dovuti in parte alle sue note preferenze politiche, ammantate da scelte religiose" (il Giornale, 24 agosto).


* * *

Le parole di Francesco Cossiga raccontano a chi ha orecchie per intendere

(1) perché il giornale del capo del governo colpisce qualche giorno dopo Dino Boffo;

(2) per chi suona la campana della sua character assassination;

(3) chi deve trarre vantaggio dallo scandalo che è già in cottura. Berlusconi è in bilico, pericolosamente fragile. Lo rendono vulnerabile le sue abitudini. Lo indeboliscono i comportamenti privati. Ancor più lo debilitano le reazioni paralizzate che oscillano dalla menzogna pubblica a un silenzio impotente, screditandolo sulla scena internazionale e tra il suo elettorato. Lo segnalano i sondaggi. I consiglieri politici che gli sono accanto comprendono che, se anche i vescovi italiani gli muoveranno pubblicamente contro - come lascia credere l'intervento del segretario della Cei - il capo del governo sarà fritto, la sua stagione politica arriverà a un triste capolinea.

In questo campo di tensioni politiche, religiose e linee di forza, più schiettamente, di potere, il direttore dell'Avvenire Dino Boffo diventa il magnete che attrae l'intero spettro delle reazioni alla situazione critica; l'obiettivo contro cui si scarica il desiderio della Curia romana di regolare i conti con un episcopato reso troppo autonomo dalle politiche di Camillo Ruini; la volontà del segretario di Stato Tarcisio Bertone di sostenere il periclitante Silvio Berlusconi e di riprendere nelle sue mani la guida della Chiesa italiana; la determinazione del Cavaliere ad aggredire "colpo su colpo", chiunque - familiare, alleato, oppositore, editore, giornalista - gli si pari davanti, critico. Scannare Dino Boffo, come sempre accade al capro espiatorio, è una lucidissima necessità terapeutica. È un esercizio che aggira le contraddizioni che non si riescono a risolvere (può una Chiesa che chiede "pudore, sobrietà, autocontrollo" affidarsi a un "libertino irresponsabile"?). È la manovra che consente di rinviare la soluzione del problema (possono i cattolici italiani guardare con fiducia e rispetto a Berlusconi?). È la mossa che può liquidare dal proscenio un "uomo-istituzione", per di più laico, cui i gerarchi ecclesiali, con il rancore di molti, hanno affidato il governo dell'intero media-system cattolico, l'Avvenire, Sat 2000, la televisione sulla quale la Cei riversa importanti risorse, InBlu, il network radiofonico di ben 200 radio. Sul capo di Dino Boffo si precipitano un odio e un risentimento assoluti. Si intravedono molte mani al lavoro e sempre le loro mosse sono intenzionali.

* * *

Sulla scena appaiono ora i congiurati. Sono stati chiamati in causa, in questi giorni. Bisogna dirne il nome e il cognome. Sono il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Il direttore dell'Osservatore romano, Gian Maria Vian. Le informazioni distruttive si possono raccogliere, fabbricare o distorcere isolando un fatto vero dal suo contesto e manipolandolo con cura. È la politica dello scandalo. Ha i suoi protocolli. Vengono rispettati anche in questo caso. Per distruggere Dino Boffo, i congiurati hanno a disposizione una muffa. La si conosce da cinque anni: una condanna penale per molestie che il direttore dell'Avvenire, per proteggere un suo assistente, ha accettato rifiutando il giudizio e l'appello. Può non bastare (è roba già vista, è aria fritta) e, dunque, grazie ai buoni uffici di un qualche spione (secondo fonti vicine a Boffo, un professore dell'Università Cattolica di Milano), "Sua Eccellenza" chiede informazioni. Le riceve. Trenta righe, precedute dalla dicitura "Riscontro a richiesta di informativa di Sua Eccellenza". Nel testo si legge la calunnia che taglierà la testa al capro espiatorio ricomponendo l'ordine compromesso: "Il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni e gode indubbiamente di alte protezioni, correità e coperture in sede ecclesiastica". Il veleno assassino è pronto. Ora bisogna provocare una "fuga di notizie" rimanendo fuori della mischia e lasciando che il lavoro sporco sia completato dai giornali.

* * *

L'azione intenzionale di chi, "primo ministro" (Bertone), pretende un riequilibrio di poteri che ridimensioni l'autonomia della "Chiesa nazionale italiana", perché "non ci possono essere "piccoli vaticani" sparsi nei cinque continenti" (Vittorio Messori), incrocia il disegno del presidente del Consiglio che, in estate, ha riorganizzato la sua "mischia mediatica", ha deciso di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti. Ha stilato una lista di nemici e vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono incerti. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. Che il piano sia questo, lo svela Mario Giordano, costretto a lasciare la direzione del Giornale: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove" (il Giornale, 21 agosto). Giordano non poteva essere più chiaro: l'editore e premier mi ha chiesto di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.

Vittorio Feltri, il nuovo arrivato, è disposto, altro che. Scrive che "il suo fucile è carico". Gian Maria Vian lo avvicina. Gli fa consegnare il dossier manipolato, "autenticandolo". Lo rassicura: è un'iniziativa voluta dal cardinale Bertone. A delitto consumato, il segretario di Stato telefonerà a Feltri (secondo una confidenza sfuggita a Boffo con i suoi collaboratori) ringraziandolo per "aver reso un servizio alla Chiesa e al Papa". Ma non è la Chiesa che il direttore del Giornale vuole servire. Egli è al servizio del suo editore e di una nuova strategia politica che altera il giornalismo in calunnia. Una tecnica di minacciosa disinformazione che vuole terrorizzare gli avversari politici, intimorire tutti affinché chiunque smarrisca "la serenità di lavorare" e i giornalisti "la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni" (Roberto Saviano). Quando ascolta Vian, il nuovo direttore sa bene qual è la sua missione. Non si prende nemmeno la briga di dare un'occhiata a quelle carte false (falsa è la "nota informativa" che offrirà al suo pubblico come documento giudiziario). Le pubblica. È il 28 agosto del 2009.

Dopo cinque mesi la menzogna che, nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi, nasconde la realtà vuole farci credere che l'"assassinio" di Dino Boffo è stato ideato e consumato soltanto nelle stanze vaticane. Dovremmo dimenticare oggi che sulla scena di quel delitto ci sono anche le impronte del Cavaliere. La character assassination del direttore di Avvenire (mai illuminata nei mandanti e nei moventi da alcun giornale) è l'esito di due azioni intenzionali che, come Cossiga ci ha spiegato in anticipo, sono state organizzate per dare "a ciascuno, il suo". A Tarcisio Bertone il governo (anche politico) dell'episcopato italiano. A Silvio Berlusconi, una via d'uscita da guai che, con l'abbandono della Chiesa, potevano travolgerne il destino. Una eccellente occasione di rappresentarsi come un potere che, nelle difficoltà, non avrebbe rinunciato a mostrare - con i dossier, l'intimidazione, di lì a poco colpiranno Napolitano, Fini, la Corte Costituzionale - la violenza pura che custodisce.

© Riproduzione riservata (03 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2010, 09:30:50 am
IL COMMENTO /

Le rivelazioni di Massimo Ciancimino

Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia

L'obbligo di chiarire quella leggenda nera

di GIUSEPPE D'AVANZO


I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un'aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell'Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.

I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l'intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell'impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto
quando in un'aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell'Interno dell'epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".

I legami tra Marcello Dell'Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.

Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell'impresa, ma soltanto "socio d'opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un'ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l'ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un'idea covata da Marcello Dell'Utri fin dal 1992.

È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E' uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull'inizio di una storia imprenditoriale e sull'incipit di un romanzo politico.

È la seconda ragione di disagio, l'assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un'evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l'uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell'interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.

I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un'istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un'aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d'abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all'aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.

© Riproduzione riservata (09 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO I burocrati del Cavaliere - (o bucanieri?).
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2010, 10:31:56 am
L'EDITORIALE

I burocrati del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


Berlusconi ricomincia là dove s'era interrotto. Riprende il suo lavoro da Bonn, dallo spirito populista, bonapartista e anticostituzionale che ha accaldato il suo intervento al congresso del Partito Popolare Europeo.

In quell'occasione, il premier denuncia due organi supremi di garanzia: la presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale.
Li accusa di essere strumenti politici di parte, al servizio di un "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier. Schernisce la Costituzione. Annuncia di volerla, di "doverla" cambiare. In nome del popolo sovrano. Quel giorno, 10 dicembre 2009, diviene chiaro "il sentimento da abusivo con cui il primo ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida".
Egli si sente un estraneo nell'architettura istituzionale che dovrebbe rappresentare. Un estraneo e un prigioniero, perché quell'architettura egli l'avverte come un'armatura che lo soffoca e deprime, mentre pretende di dominarla e maneggiarla come fosse morbida pelle. Quel giorno a Bonn, come osservò Repubblica, è nitida la sfida che Berlusconi lancia: non vuole essere, tra gli altri, garante di un ordinamento. Vuole creare, sotto il segno dello stato d'eccezione, un nuovo ordine che riconosca il suo potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani che si bilanciano tra di loro: "il leader del popolo che lo sceglie nel voto", quindi liberato di ogni contrappeso dall'unzione suprema di una sovranità inviolabile.

Venne poi il 13 dicembre, piazza Duomo, quel matto di Massimo Tartaglia, l'aggressione e la violenza, il volto insanguinato del premier e, per settimane, l'estremo grado di intensità di un discorso pubblico declinato intorno alla distinzione di amico/nemico apparve una strada senza uscita a molta parte del Paese. Sfratta ogni illusione di una nuova temperie la sortita che dà avvio, dopo quella crisi, al nuovo anno politico. Come d'abitudine, si consuma in un ambiente "compatibile", protetto dal suo "notaio" televisivo, nelle forme del flusso verbale ininterrotto che eclissa fatti (come la vulnerabilità cui lo espone una vita capricciosa); nasconde le proprie responsabilità (come per la character assassination di Dino Boffo, schiacciato con un documento falso dal suo giornale). Il premier ritorna su un suo chiodo fisso. Rivendica il diritto di decidere quali sono, dove sono i "nemici", quei gruppi professionali che minacciandolo aggrediscono  -  sostiene  -  l'esistenza dello Stato stesso che egli, per volontà popolare, incarna. Naturalmente, a Roma come a Bonn, comincia dai magistrati.
Dice: "Non si può governare attaccati da pubblici dipendenti quali sono i giudici. Rispondere all'uso politico della giustizia con un uso democratico del voto popolare è legittimo e assolutamente doveroso". Lasciamo perdere la solita polemica sull'"uso politico della giustizia". Pare più essenziale osservare che ancora una volta Berlusconi interpreta, con coerenza  -  ieri come oggi e come accadrà domani  -  il quadro politico-istituzionale intorno al divisivo concetto di amico/nemico. I magistrati sono "nemici" perché (come ogni altro organo di garanzia e di controllo) impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l'urgenza di provvedimenti legislativi che ne riducano i poteri (con una riforma della giustizia) proteggendo al tempo stesso chi governa dalla loro azione (con le leggi immunitarie). A rendere ancora più chiaro qual è lo spirito "costituente" che agita il premier è il fatto del giorno: l'indagine penale che coinvolge Guido Bertolaso. La coincidenza aiuta a capire.

Il "padrone" della Protezione civile rappresenta alla luce del sole, nel modo più vivido, il nuovo "ordine" che Berlusconi esige.
Bertolaso interpreta il paradigma della "militarizzazione della decisione politica" che il premier immagina debba essere lo strumento d'uso quotidiano del governo, il dispositivo che consente di sospendere le norme, di trasformare il diritto in una decisione che va liberata dal perimetro in cui la costringe la legge. La Protezione civile di Guido Bertolaso ha rappresentato e rappresenta appunto questo: il sostanziale svuotamento della partecipazione politica a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica. E' accaduto in alcune occasioni  -  e va detto  -  per evidenti necessità, come per i rifiuti di Napoli e il terremoto dell'Aquila. Ma intorno a queste indiscutibili urgenze, la Protezione civile è cresciuta su se stessa per volontà di Berlusconi, in un vuoto di diritto, con emergenze raccontate e immaginate come estreme o improrogabili. Tutto si è trasformato in stato di necessità. Il G8 della Maddalena; i Mondiali di nuoto; l'Expo di Milano; il quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Copertino a Lecce; il congresso eucaristico nazionale, previsto ad Ancona nel settembre del 2011. Conta qui osservare il metodo che la fortuna politica e istituzionale di Bertolaso ci propone, o meglio ci conferma.

In uno "Stato legislativo", dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce "in nome della legge", le burocrazie sono "neutrali", uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti. Berlusconi non vuole essere l'anonimo esecutore di leggi e norme (lo si sa, lo si è già detto). Egli non intende governare in nome della legge, ma in nome della "necessità concreta". Pretende che lo Stato si muova dietro le "emergenze" (autentiche o artefatte che siano, non importa), vuole che il governo decida delle "situazioni" che ritiene prioritarie. Berlusconi s'immagina alla guida di uno "Stato governativo" che si definisce per la qualità decisiva che riconosce al comando concreto, applicabile subito, assolutamente necessario e virtualmente temporaneo, sempre conflittuale perché esclude e differenzia. Pretende che le burocrazie condividano la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un'élite politica e non istituzionale. Ecco come Berlusconi immagina debbano essere i magistrati, "pubblici dipendenti".

È dunque in queste ragioni  -  tutte politiche  -  che va afferrato il più autentico significato della simbiosi tra Berlusconi e Bertolaso: l'uno, l'uomo che decide al di là e oltre le norme; l'altro, l'uomo che lavora nel "vuoto di diritto" che quella decisione crea. Berlusconi forse potrebbe fare a meno dell'intero suo gabinetto, ma non di Bertolaso perché il sottosegretario e direttore della Protezione civile materializza molte condizioni che il premier ritiene costitutive del suo potere: la creazione volontaria di uno stato d'eccezione permanente; una prassi di governo che vive di decreti con immediata forza di legge e trasforma il comando in un ininterrotto "caso d'eccezione"; l'immunità da ogni controllo. Si può concludere chiedendosi come sia possibile in questo clima discutere di riforme costituzionali. Di quale Costituzione si vuole parlare? Di quella che abbiamo o del nuovo "ordine" berlusconiano annunciato a Bonn ieri e a Roma oggi?


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da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La difesa fragile del Grande Capo che sapeva tutto
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2010, 04:48:10 pm
IL COMMENTO / Bertolaso ammette di non aver "controllato tutto"

Ma che qualcosa non andasse per il verso giusto doveva averlo capito da tempo

La difesa fragile del Grande Capo che sapeva tutto

di GIUSEPPE D'AVANZO


I SEVERI - e spesso assai mediocri -  censori del "circo mediatico-giudiziario" dovrebbero prenderne atto. Nello scandalo che umilia la Protezione civile, non è il giornalismo a doppiare, sovrapporsi (o incrudelire) la conduzione giudiziaria di un processo. Accade esattamente il contrario: è stata la magistratura ad accertare, nelle forme dell'indagine penale, le "storie di ordinaria corruzione" che un dignitoso giornalismo aveva già offerto all'attenzione dell'opinione pubblica, del ceto politico, del governo. Non stupisce che, nell'epoca della "crisi del reale", i funzionari della menzogna vogliano convertire questo imbroglio di corruzione pubblica - e umana desolazione - in un episodio di patta e spada con l'usuale appendice di donne deprezzate a benefit e "bustarella". Gli addetti alla adulterazione del discorso pubblico vogliono ridurre l'intera trama alla replica di uno slogan ideologico: il privato non è pubblico, quindi non può essere giudicato. Il segno di questo affaire non è nella segretezza dei comportamenti privati dei protagonisti, ma - al contrario - nella scandalosa pubblicità dei loro traffici pubblici. Chi, senza perdere la faccia, può dire di non aver saputo? Da più di un anno, l'agglomerato "gelatinoso" che accompagna le azioni - extra ordinem - della Protezione civile è stato raccontato nel minuto. Nomi, cognomi, incroci familiari, società, fatturato, bilanci, cointeressenze, partecipazioni, sprechi e inefficienze si sono lette nelle inchieste di Repubblica, l'Espresso, Report, Annozero, il Fatto. La "Premiata ditta Balducci & co."; le relazioni tra i "soggetti attuatori" dei progetti della Protezione civile e imprenditori come Diego Anemone; i poteri senza controllo e le risorse senza fondo di Guido Bertolaso, "l'uomo dalle mani d'oro", costituiscono da oltre un anno il quadro opaco e risaputo cui un governo responsabile e una politica attenta all'interesse pubblico avrebbero dovuto metter mano con prontezza.


* *  *

Ora scrutare all'indietro, e in quel buio, ci consente di valutare, in prima approssimazione, e senza tener conto degli esiti dell'istruttoria penale, l'accountability di Guido Bertolaso. Si può e deve cominciare dalle sue parole. Gli argomenti con cui il sottosegretario e capo della Protezione civile si salvaguarda da accuse e critiche sono tre, in sostanza. Dice: (1) "Qualcuno può aver tradito la mia fiducia, ma non ho elementi per sostenerlo"; (2) "Io non ho seguito direttamente e personalmente la vicenda degli appalti"; (3) "Ha gestito tutto Angelo Balducci (ora è in galera), uno che è diventato presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, cioè la massima autorità in Italia: non mi pare di aver affidato l'incarico al primo che passava per strada. Dopo di lui, c'è stato un altro "soggetto attuatore" (Fabio De Santis, anch'egli in carcere) ma c'era qualcosa che non mi convinceva e l'ho sostituito con Gian Michele Calvi, un professore di fama internazionale".

Dunque, Bertolaso "si chiama fuori" così: non ha mai visto ombre nella sua Protezione civile; gli uomini che ha scelto erano al di sopra di ogni sospetto; in ogni caso, egli non ha mai messo becco negli appalti. Sono argomenti molto fragili. Che qualcosa non andasse per il verso giusto, Bertolaso lo capisce e lo concede: quel De Santis non gli piace. Lo rimuove dopo cinque mesi. Perché? Con quali "elementi"? A chi comunica i suoi dubbi? Quali verifiche decide per chiudere i "buchi" dei protocolli e delle procedure? Come non è attendibile sostenere che una buona reputazione abbia sempre accompagnato i "soggetti attuatori" prescelti. Il credito degli "attuatori" (il soggetto deputato alla realizzazione del progetto) è al lumicino da tempo. Di Balducci si conoscono gli affari di famiglia che incrociano gli oneri del suo incarico. Angelo, il padre di famiglia, coopta l'Anemone Costruzioni nel risanamento della Maddalena (appalti per 100 milioni). La moglie di Angelo (Rosanna Thau) è in società ("Erretifilm") con la moglie di Diego Anemone (Vanessa Pascucci). Il figlio di Angelo (Filippo) compra con Diego Anemone il centro sportivo della Banca di Roma a Settebagni. Nasce il "Salaria Sport Village".

Anche Gian Michele Calvi è prigioniero di un temperamento familistico (insegna al dipartimento di Meccanica strutturale dell'Università di Pavia; dopo essere stato "attuatore" alla Maddalena, oggi è il direttore del progetto C. A. S. E., la ricostruzione all'Aquila di 183 edifici, 4.600 appartamenti per 17mila persone con appalti per 695 milioni di euro). La "Myrmex" di suo fratello (Gian Luca) rileva chi lo sa perché la malandata "Tecno Hospital" di Giampaolo Tarantini che, per le sue prestazioni di prosseneta, è stato molto caro a Silvio Berlusconi prima che scoppiasse il rumore per le feste in Villa e a Palazzo. Così caro da riuscire a ottenere - grazie a buoni uffici del premier - un incontro privato con Bertolaso per via di un desiderato ingresso del ruffiano nella rosa delle società al lavoro nel post-terremoto aquilano. Nell'affollato intreccio di interessi pubblici, privati e familiari si intravedono ambiguità - se misfatti penali, lo si accerterà - , ma senza dubbio Bertolaso avrebbe dovuto trarne già da tempo "elementi" sufficienti per una qualche diffidenza. Che, invece, contro ogni evidenza, nega ancora oggi. Bisogna chiedersi perché.

La ragione può essere questa: anche Bertolaso partecipa al disinvolto coinvolgimento della sua famiglia nelle "emergenze" affrontate dalla Protezione civile. Suo cognato (Francesco Piermarini) "è stato impiegato nei cantieri della Maddalena ed è in rapporti con Diego Anemone", l'imprenditore in affari (ora è in carcere) con il figlio e (attraverso la moglie) con la moglie di Angelo Balducci. Cadono così due degli argomenti difensivi di Guido Bertolaso. Inchieste giornalistiche gli hanno offerto "elementi" per mettersi in sospetto, per ridimensionare la reputazione dei tecnici che ha scelto, ma il capo della Protezione civile non può denunciare - nemmeno oggi che quelle pratiche sono diventate scandalo - il fondo "gelatinoso" del suo dipartimento perché anche le sue pratiche sono collose quanto le condotte di chi dovrebbe contestare. Le parole di Bertolaso, che possono apparire soltanto un'imprudenza, sono allora il frutto di un deliberato proposito di tacere perché egli è vulnerabile come gli altri. I passi storti di quelli sono equivalenti alle sue mosse molto dubbie.

* * *

Già potrebbe bastare, e invece l'argomento più debole della difesa di Guido Bertolaso lo si rintraccia in un'affermazione che non ha ricevuto finora l'adeguata attenzione. Il capo della Protezione civile dice: "Io non ho seguito direttamente e personalmente la vicenda degli appalti".

Sono parole che decidono in modo definitivo l'accountability di Guido Bertolaso. Egli trattiene nelle sue mani un potere inconsueto. Si muove oltre le norme, in un "vuoto di diritto". Lo "stato di necessità", che lo attiva, gli rende possibile e concreta qualsiasi decisione, anche contro la legge. È un potere eccezionale rinvigorito, come mai è accaduto, anche da privilegio aggiuntivo. Come ha rilevato il senatore Luigi Zanda in Senato, in Bertolaso "sono concentrati i poteri politici del governo (è sottosegretario) e quelli amministrativi di un ufficio pubblico (è il capo del dipartimento)". Egli è dunque il responsabile per eccellenza, l'indiscusso accountable, colui che non solo dirige un progetto, un programma, una misura d'intervento, ma decide anche politiche, priorità, urgenze.

Bertolaso è allora doppiamente "accountable", responsabile: nei confronti del Parlamento come membro del governo, nei confronti del governo come capo del dipartimento. In qualsiasi momento dovrebbe essere pronto a dichiarare in che modo viene eseguito l'incarico, come viene impiegato il denaro, in quale misura sono stati raggiunti gli obiettivi e quali aspettative sono state soddisfatte. Accountability è l'esatto contrario di arbitrio. Presuppone trasparenza, garanzie, assunzione di responsabilità e rendiconto sulle attività svolte, soprattutto sempre l'impegno a dichiararsi. Bertolaso, che non ha esitato a prendere su di sé doppi poteri, con quelle parole ("Nulla so di appalti") rifiuta curiosamente di assumersi le responsabilità che quei poteri gli hanno attribuito. È troppo anche per l'Italietta di oggi. Perché delle due, l'una: o Bertolaso si è occupato degli appalti come il suo incarico gli comanda e oggi non la racconta tutta. O non se n'è occupato, come dice, ed è venuto meno ai suoi obblighi. È un contesto che non può essere liquidato con qualche cronaca, le solite grida rabbiose di Berlusconi contro la magistratura in attesa che i giudici sciolgano tutti i nodi. Ci sono altri e buoni modi per mettere a fuoco quel che è accaduto e accade nella Protezione civile. Il più lineare - anzi necessario perché è in discussione la privatizzazione della Protezione civile - è che Bertolaso faccia in Parlamento il resoconto del suo lavoro e che le Camere ne discutano con rigore, mentre il governo fermi e corregga il suo decreto legislativo.

Sarebbe l'esito più coerente per quel che si scorge in questa storia: una democrazia è viva ed equilibrata se ai pesi (poteri) corrispondono contrappesi (controlli) in grado di vigilare e, nel caso, segnalare il funzionario corrotto o incapace. In quest'occasione, s'è vista l'efficienza di alcuni controlli (una stampa intraprendente, una magistratura lesta e non intimidita). Manca ora l'esame del Parlamento che non dovrebbe farsi paralizzare dal "vergognatevi" di chi crede all'unicità del suo potere e alla "sacra" intoccabilità degli uomini scrutinati per esercitarlo.

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da repubblica.it


Titolo: D'AVANZO Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2010, 05:27:32 pm
IL COMMENTO / Le rivelazioni di Massimo Ciancimino

Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia

L'obbligo di chiarire quella leggenda nera

di GIUSEPPE D'AVANZO


I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un'aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell'Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.

I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l'intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell'impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto
quando in un'aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell'Interno dell'epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".

I legami tra Marcello Dell'Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.

Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell'impresa, ma soltanto "socio d'opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un'ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l'ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un'idea covata da Marcello Dell'Utri fin dal 1992.

È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E' uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull'inizio di una storia imprenditoriale e sull'incipit di un romanzo politico.

È la seconda ragione di disagio, l'assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un'evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l'uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell'interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.

I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un'istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un'aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d'abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all'aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.

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da repubblica.it


Titolo: D'AVANZO Giustizia, il codice della volpe così il Cavaliere cambia le regole
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2010, 11:26:34 am
L'ANALISI

Giustizia, il codice della volpe così il Cavaliere cambia le regole


di GIUSEPPE D'AVANZO

IL disegno di legge contro la corruzione, annunciato da Silvio Berlusconi, non c'è perché non poteva esserci. Nel mondo meraviglioso di mister B., i fatti sono immaginari e la comunicazione sostituisce l'azione. Chi si ricorda del "piano casa"? Berlusconi: "Venerdì, faremo il provvedimento sul piano casa che avrà effetti straordinari sull'edilizia" (7 marzo 2009). Non se n'è avuta più traccia. E tuttavia, anche nel mondo fiabesco del Cavaliere, emerge con molta coerenza il principio di non contraddizione tutte le volte che sono in ballo gli affari, la storia e il destino del presidente del consiglio. Berlusconi che annuncia di voler inasprire le pene per i corrotti, di voler liberare il suo partito e quindi il Parlamento e il governo da "chi sbaglia o commette dei reati" è la volpe che pretende di essere custode del pollaio. E' una scena non disponibile in natura, a meno di voler credere che il bianco possa essere uguale e contrario al nero. A meno di non immaginare  -  ma chi è così ingenuo o stupido?  -  che il presidente del consiglio voglia allontanare dalle sue stanze gli uomini che lo hanno accompagnato nella sua avventura, pagando al successo dell'"uomo del fare" un alto conto giudiziario.

Qualche nome soltanto, estratto dal "cerchio stretto" che lo circonda. Marcello Dell'Utri, condannato in primo grado per mafia; Massimo Maria Berruti, condannato per favoreggiamento nella storia delle tangenti alla Guardia di Finanza; Aldo Brancher condannato per falso in bilancio; Romano Comincioli impicciato in bancarotte fraudolente e false fatture. Birbantelli, birbaccioni, direbbe il Capo, che per suo conto si è scritto un curriculum da gran briccone. Ora che "chi sbaglia" dovrebbe pagare, vale la pena ricordare rapidamente gli "sbagli" del Cavaliere, discussi in sedici processi, quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori; fondi neri per i diritti tv Mediaset; appropriazione indebita nell'affare Mediatrade.


Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa e nel secondo caso - le tangenti alla Guardia di Finanza - il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria".

Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che si attribuiscono a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1.500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati).

Si può dire che buona parte della storia politica del Cavaliere sia stata consumata nel manipolare la legge per tenersi lontano da condanne probabili. Senza le amnistie, le riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) preparate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato oggi un "delinquente abituale" e non un "birbantello". Difficile immaginare che il Cavaliere voglia espellere se stesso dal partito che ha creato, dalla maggioranza parlamentare che ha nominato, dal governo che presiede.

Che il "giro di vite sulla corruzione" fosse soltanto un espediente per rassicurare un elettorato disilluso dal malcostume che affiora nello scandalo della Protezione civile, lo si era capito ieri. Non deve stupire - oggi - che la trovata da marketing politico non sia nemmeno riuscita a mostrarsi come il simulacro che sostituisce l'evento. Quando discute di sorvegliare e punire, il Cavaliere diventa terribilmente serio, gli cade l'umore, non ha voglia di barzellette. Vuole che il sorvegliare sia problematico e il punire improbabile. Lungo questa strada corre da anni e, sveltissimo, in questa legislatura. Un provvedimento di maggiore inibizione della corruzione avrebbe contraddetto, in modo radicale, tutte le sue politiche. Soprattutto due capisaldi: il processo breve e gli interventi sulle condizioni che consentono le intercettazioni telefoniche, unico modo per venire a capo dei crimini dei "colletti bianchi".

Il "processo breve", si sa, non è altro che una prescrizione rapida. Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato responsabile si concede un tempo adeguato per accertare il reato e punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più laborioso il suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il delitto. Dovrebbe essere così per la corruzione se non fosse che Berlusconi, dettando le regole del "processo breve" (gli servono per venir fuori dalla condanna nel processo Mills), considera quel reato non grave, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile, così inoffensiva da meritare una depenalizzazione o una permanente amnistia.

"Corrotto" e "corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore", "immigrato clandestino", "automobilista distratto". Interessa poco a Berlusconi, "uomo del fare", se i mercati dominati da distorsioni e "tasse immorali" (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti, un balzello occulto che equivale a una tassa di mille euro l'anno per ogni italiano, neonati inclusi) garantiscono benefici soltanto agli insiders della combriccola corruttiva. Come dimostra con vivacità lo scandalo della Protezione civile.
Il governo dovrebbe intervenire contro la corruzione per rafforzare competitività perché i mercati corrotti sono segnati sempre da una bassa crescita (troppe barriere all'entrata, troppi rischi di investimento). Dovrebbe essere consapevole che è dimostrata la relazione tra il grado di corruzione di un "sistema" e la sua crescita economica. Dovrebbe, in altri termini, considerare il contrasto alla corruzione una priorità per rimettere in sesto in Paese. Ce lo chiedono peraltro anche gli organismi internazionali.

Un rapporto del Consiglio d'Europa sulla corruzione in Italia, recentemente, ha rilevato che dalle nostre parti i casi di malversazione sono in aumento; le condanne sono diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una discrezionalità che confina con l'arbitrarietà. Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d'Europa ha inviato all'Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l'interruzione dei processi), normative (nuove figure di reato). Le sollecitazioni sono rimaste lettera morta e si può dubitare che il presidente del consiglio abbia voglia di leggerle.

Lo slogan "più severità contro la corruzione" è quel che è, soltanto un vivamaria elettorale, comunicazione politica per correre ai ripari dinanzi a pessimi sondaggi che segnalano il disincanto degli italiani in blu che hanno creduto in Berlusconi antipolitico e lo ritrovano identico a un leader politico della Prima Repubblica, "commissario ideologico" di un "sistema" che assicura affari e prebende ad amici, familiari, clientes. Alla fine, non fosse altro per salvare la faccia e affrontare la campagna delle Regionali, qualcosa verrà fuori, magari l'annuncio di regole per una maggiore trasparenza nella pubblica amministrazione, come chiede Renato Brunetta, per far sì che almeno lì "i fenomeni corruttivi si marginalizzino e diventino fisiologici". E' un'intenzione che difficilmente potrà farsi strada lungo gli accidentati percorsi parlamentari ostruiti dalle leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento, nuova legge immunitaria). Le parole di Berlusconi contro la corruzione resteranno quel che sono, la stravaganza di un imbonitore che vuole far credere che la volpe possa badare al pollaio.
 

© Riproduzione riservata (20 febbraio 2010)
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Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO "Tangenti pulite e fatturate" il business consulenze d'oro
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2010, 09:24:46 am
Nuovo filone di indagine nell'inchiesta sulle grandi opere

Ecco la ragnatela di Bertolaso. La fuga di notizie provoca un'accelerazione

"Tangenti pulite e fatturate" il business consulenze d'oro

di GIUSEPPE D'AVANZO


LA FIGURA, le mosse abusive, la fiacchezza morale di Achille Toro sono decisivi per comprendere che cosa è accaduto; perché; che cosa accadrà ora; in quale budello è finito Bertolaso; la "tangente pulita" che oggi definisce la corruzione italiana. Achille Toro è l'influente procuratore aggiunto di Roma. Sovraintende le inchieste contro la pubblica amministrazione marcia. Si sente in pectore il nuovo procuratore della Capitale (ahinoi, se non fosse stato costretto a dimettersi, non avrebbe avuto torto a crederlo).

Quando le sue parole si manifestano nell'universo sonoro dell'inchiesta che esamina gli affari extra ordinem della Protezione civile, i pubblici ministeri di Firenze hanno già pronto il calendario delle loro iniziative. Due blocchi di arresti da eseguire nello stesso giorno dentro il sistema, direbbe Denis Verdini, cresciuto come una metastasi lungo il corpaccione ipertrofico della Protezione civile e nelle strutture di governo dei Lavori pubblici. L'uno e le altre sottomesse all'urgenza della politica di creare un cerchio chiuso e oligarchico di consenso e obbedienza. I prosecutors hanno sistemato una stabile ragnatela intorno agli attori che decidono e beneficiano degli appalti del Dipartimento di Guido Bertolaso. Comunicazioni, dati, informazioni, immagini, documenti confermano, senza ambiguità, la scena e il delitto. All'ombra del "vuoto di diritto", creato dall'emergenza, si è formata una consorteria affaristica. Vi fanno parte imprenditori, spesso scadenti per capacità industriale, alti funzionari dello Stato delle opere pubbliche, influenti giudici amministrativi  -  regionali e della Corte dei conti  -  addetti ai controlli che, al contrario, sono cointeressati, in proprio, agli affari dei controllati. In cima alla piramide, Guido Bertolaso, onnipotente per la mano libera che gli consente la legislazione straordinaria, dominante per il rapporto diretto, protetto, esclusivo con il sottosegretario Gianni Letta e il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Bertolaso è al corrente di quel fondo fangoso? O, come dice oggi, è "parte lesa" perché non sa, non comprende, s'occupa di altro?


Nell'inchiesta nata a Firenze, la mappa degli illegalismi, che ha il suo centro nella Protezione civile, è divisa in tre grandi aree: gli appalti "in deroga" del Dipartimento di Bertolaso (G8, Mondiali di nuoto, intervento nell'area terremotata dell'Aquila, celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia...); il quadro milionario che aiuta la distribuzione arbitraria delle consulenze per quelle opere ("tangenti pulite e fatturate", si sente dire); le manovre organizzate con gli "arbitrati", la decisione privata che risolve le controversie che oppongono le società appaltatrici di lavori pubblici alle amministrazioni che glieli hanno affidati (lo Stato è sempre perdente, soccombe nel 95 per cento dei casi).

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Ogni inchiesta implica una strategia, un'economia, un modello. I pubblici ministeri di Firenze, nel loro lavoro, evitano fantasmi e forzature (modello). Si scoprono soltanto quando il terreno processuale appare solido, il reato documentato, le responsabilità ragionevolmente definite (strategia). Non infieriscono con atti di accusa e carcere, se non è indispensabile (economia). Si può dire che, in altri luoghi, Bertolaso forse sarebbe stato arrestato. Di sicuro sarebbe stato arrestato Mario Sancetta, consigliere delle Corte dei conti e presidente di sezione. Doveva essere "controllore", dalle carte emerge come un intrigante mediatore di affari. Suggerisce agli imprenditori dove giocare le loro chances, negli appalti del porto di Civitavecchia, della Fiera Spa di Milano, all'Aquila distrutta in aprile. Favorisce incontri (l'amico e imprenditore Rocco Lamino con Luisa Todini, parlamentare della maggioranza, alla guida di un'impresa vincitrice d'appalti per il terremoto abruzzese). Sancetta dice di avere "buoni argomenti per avvicinare Bertolaso" che ha procedimenti aperti alla Corte dei conti. Dice di poter condizionare ("influire") l'ex ministro Pietro Lunardi (è stato al ministero il capo del suo ufficio legislativo). Non si sa perché e come.

Il presidente Mario Sancetta non viene arrestato perché a Firenze avvertono la loro competenza incerta. Accade anche per Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, interfaccia diretto di Bertolaso. L'intervento della procura di Roma appare il più coerente e corretto per legge. Qui cominciano imprevisti incidenti. In quella procura c'è una toga infedele. È Achille Toro, il procuratore addetto ai reati della pubblica amministrazione. Offre servizi spionistici alla combriccola affaristica. Quando da Firenze avvertono Roma che presto saranno inviati i risultati di un'istruttoria che richiede, "per competenza", l'intervento della Capitale, Toro allerta la consorteria. Tra il 28 e il 30 gennaio, come ha raccontato ieri la Repubblica, i movimenti del network diventano indiavolati. Incontri di buon mattino "senza telefoni" anticipano che "pioverà molto". I discorsi, dinanzi al peggio, si fanno depressi. "Mi sembri un morto", dice la moglie ad Angelo Balducci. È vero, Balducci è molto sconfortato. Il procuratore gli ha fatto sapere che sarà arrestato. Il grand commis corre ai ripari. Chiama lo studio dell'avvocato Coppi prima di raggiungere Palazzo Chigi e incontrare Guido Bertolaso e "quell'altro", con ogni probabilità Gianni Letta. Toro, per suo conto, vuole essere più avveduto. Lavora subito per coprirsi le spalle. Convoca una cronista e gli "soffia" che "il telefono di Angelo Balducci è intercettato dai Ros per conto della procura di Firenze". La notizia sarà pubblicata il 9 febbraio. Tornerà utile se le cose si mettono male, pensa il magistrato. Si precostituisce un alibi. Potrebbe dire Toro a chi lo interroga: come potete pensare che abbia fatto la spia, la notizia dell'indagine e delle intercettazioni di Balducci era nota, pubblica, scritta nera su bianco nelle cronache. Non sanno - né Balducci né Toro - che i guai sono più vicini di quanto immaginano. Balducci sarà arrestato il giorno dopo. Toro saprà di essere indagato per violazione del segreto istruttorio e, una volta trasferita a Perugia l'indagine, per corruzione. Si dimetterà il 17 febbraio per scrollarsi così di dosso la probabilità di essere arrestato (ancora con la toga sulle spalle, avrebbe potuto inquinare le indagini).

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Il "servizio" offerto dal procuratore alla consorteria di imbroglioni mette sottosopra il calendario dei pubblici ministeri di Firenze. Sono costretti ora a muoversi in fretta. Volevano agire con due diversi iniziative (arresti a Roma e a Firenze). Ne devono privilegiare una, quella nella Capitale, per distruggere subito e in fretta la trama che tesse Achille Toro, per evitare fughe all'estero (un paio già in preparazione), l'inquinamento delle prove, la scomparsa dei documenti, le pressioni inevitabili del potere sulle burocrazie della sicurezza. L'urgenza non è priva di conseguenze. Lascia in secondo piano l'esame del gran circo degli "arbitrati" che costa allo Stato, più o meno, 350 milioni di euro l'anno e arricchisce di, più o meno, 25 milioni l'anno gli "arbitri": un ristretto club di avvocati  -  non più di una decina  - , giudici amministrativi, avvocati generali dello Stato, giudici contabili. Il "tradimento" di Achille Toro provoca un secondo danno. Rallenta l'intervento sulla rete delle "tangenti pulite e fatturate", come ormai hanno imparato a chiamarle anche fonti vicine all'inchiesta.

Si tratta di questo. La Protezione civile ha centinaia di consulenti. Ci sono consulenze di "area politica ed economica", di "ricerche e di indagine". Se ne rintracciano alcune stravaganti. "Consulenti di comunicazione politica e pubblica nel settore", consulenti di "accessibilità immediata agli specialisti del settore per la risoluzione di problematiche improvvise", "consulenti in strategie e tecniche dell'informazione, di immagine e divulgazione della cultura di protezione civile", consulenti per "coadiuvare il Capo del Dipartimento nelle attività collegate all'iter parlamentare dei provvedimenti legislativi", "consulente per le attività di comunicazione visiva". Ogni progetto o intervento della Protezione civile può rendere necessario, per un brevissimo, breve o lungo periodo, un'"assistenza tecnica", di "sperimentazione e analisi", dall'emergenza piogge in Friuli Venezia Giulia all'emergenza Pantelleria, dalla "Commissione generale di indirizzo Campionati del mondo di ciclismo su strada 2008" alle celebrazioni per il 150 anni dell'Unità d'Italia. I consulenti possono tirar su centinaia di migliaia di euro o anche trentamila euro per pochi giorni di lavoro e senza alcuna fatica o competenza. Le fumisterie degli incarichi corrispondono all'assoluta arbitrarietà degli ingaggi e delle selezioni, spesso direttamente decise da Guido Bertolaso. Tuttavia, se si guarda con attenzione ai nomi dei consulenti, alle loro famiglie e relazioni e ruoli pubblici, si intravede una razionalità e un disegno. Nelle liste dei consulenti delle più bizzarre e ben pagate consulenze, ci sono coloro che direttamente possono proteggere il sistema che si è creato negli interstizi operativi della Protezione civile. La consulenza non è altro che "una tangente pulita e fatturata" per tener buono il giudice amministrativo, l'assessore riluttante, il giudice contabile, il pargolo scapestrato del parlamentare, il genero del capo corrente, il procuratore cui si chiede di farsi quietista e guardare da un'altra parte. È il modo di creare intorno al sistema un muro di supporters e un anello di complicità.

Terzo e ultimo danno per l'inchiesta di Firenze. L'infedeltà di Toro ha costretto a una discovery anticipata. La premura ha frenato l'accertamento di che cosa sapesse davvero Guido Bertolaso di quel che si muoveva dentro e intorno alle traboccanti responsabilità. È l'ultima questione da affrontare.

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Sembra di poter dire: Bertolaso crede che convincere sia ingannare. Ancora ieri ha ripetuto: "Vogliono distruggere la mia credibilità". Il fatto è che la sua affidabilità è in calare per quel che non ha fatto, quando sarebbe stato necessario, e per quel che oggi dice e dissimula risistemando gli avvenimenti del passato come meglio gli conviene. Dice: nessuno mi ha avvertito, mentre è stato avvertito dell'indagine e proprio dal maggiore indagato, Angelo Balducci. È una prognosi con un forte rilievo induttivo che il presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, messo sul chi vive dalle informazioni che abusivamente gli offre Achille Toro, si precipiti a Palazzo Chigi e riveli al capo del Dipartimento della Protezione civile le rogne che sono vicine. È una suggestione, è vero, anche se molto ragionevole. Con chi volete che ne parli, quel pover'uomo di Balducci? È vicino alla rovina. Lo è, non soltanto per le sue voglie, ma anche per le azioni che hanno mosso e assestato tasselli già pronti, integrato con la sua influenza e potere e docilità il sistema che ha, nel suo vertice operativo, Guido Bertolaso. Oggi Bertolaso disconosce Balducci. Nelle sue parole Balducci appare un tipo che si è ritrovato tra i piedi, non ha potuto evitare, anche se l'avrebbe fatto volentieri. Non sapeva che fosse quel fior di manigoldo ("Sono stato ingannato", dice).

Nella storia dell'indagine di Firenze, invece, ci sono i segni della loro antica relazione, a volte complice. Quando il 30 gennaio, il presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici si precipita a Palazzo Chigi per incontrare "Bertolaso e quell'altro" non è la prima volta che invoca l'aiuto dell'onnipotente leader tecnocratico del governo. Accade anche alla fine del 2008. Succede questo. L'Espresso racconta (23 dicembre) come in una casa di produzioni cinematografica, la Erretifilm srl, si incrocino i destini di Rosanna Thau, 62 anni, moglie di Angelo Balducci, e di Vanessa Pascucci, 37 anni, moglie di quel Diego Anemone che, pur dichiarando 26 dipendenti, si taglia la fetta più grossa dei 300 milioni di euro necessari per costruire il centro congressi per il G8 della Maddalena. In quell'occasione, Balducci concorda con Bertolaso una lettera per denunciare "la evidente natura scandalistica dell'articolo [che] introduce, ad arte, le attività hobbistiche della signora Thau, ventilando commistioni del tutto inesistenti". Bertolaso prende subito, e pubblicamente, per buona la replica. Nelle stesse ore diffonde un comunicato: "Il capo del Dipartimento della Protezione Civile e commissario delegato per il G8, dott. Guido Bertolaso, ha ricevuto dall'ingegner Balducci una relazione che ribadisce la regolarità delle procedure seguite ed esclude qualsiasi legame familiare con imprese impegnate nella realizzazione delle opere". Pur promettendo la massima trasparenza sul caso, la Protezione civile toglie in quelle ore dal suo sito le ordinanze di Palazzo Chigi con cui Balducci era stato nominato "soggetto attuatore" e il provvedimento con cui Silvio Berlusconi ha chiesto a Bertolaso di "assicurare un'adeguata attività di verifica degli interventi infrastrutturali posti in essere dai soggetti attuatori".

È una buona occasione per tagliare i ponti con Balducci. Non accade. È il momento giusto per liquidare quel Anemone. Non accade neanche questo. Al contrario, le carte fiorentine raccontano come il capo della Protezione civile accetti di incontrare l'imprenditore, non in ufficio né al circolo della Salaria. Si incontrano in strada, in piazza Ungheria ai Parioli. Parlano di appalti. Di lievitazione e adeguamento di prezzi. Con la soddisfazione di Anemone che, salutato Bertolaso, dice ai suoi compari: "L'ho convinto". I modi per difendersi e di persuadere sono molti. Quelli scelti da Guido Bertolaso, finora, devono far dimenticare troppi ricordi e indizi e prove per poter essere efficaci e convincerci che egli ignorasse i segreti della sua bottega.

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Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il giorno dell'ipocrisia nel porto delle nebbie
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 02:56:09 pm
IL COMMENTO

Il giorno dell'ipocrisia nel porto delle nebbie

di GIUSEPPE D'AVANZO


SOLITAMENTE discreto, il procuratore di Roma Giovanni Ferrara decide di prendere la parola in pubblico. È già un errore. Conviene sempre che per i magistrati parlino i fatti. Nella carne viva di un'istruttoria o di un processo, poi è doveroso che quei fatti siano offerti soltanto nei luoghi deputati: l'udienza, l'aula. Gli argomenti che il Procuratore adopera peggiorano il quadro. Ferrara non trova il coraggio o l'umiltà di dirsi almeno addolorato per quanto è accaduto nel suo ufficio e a se stesso. Ha scelto incautamente per il governo del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione una toga rivelatasi infedele, Achille Toro.

Achille Toro, si scopre, sopisce, tronca le indagini e - si scopre - addirittura spiffera agli indagati gli esiti che incuba lo scandalo della Protezione civile. Un buon motivo per rammaricarsi in pubblico della sua infelice preferenza; rassicurare della incorruttibilità degli altri pubblici ministeri; impegnarsi a comprendere che cosa e perché non è andato per verso giusto, come cambiare pagina. Ferrara non si cura di questo. A Toro, alla criticità che il suo comportamento apre nella sua procura, Ferrara non sembra interessato. Prende la parola per un altro sorprendente lavoro da sbrigare: biasimare le mosse della procura di Firenze, demolire la correttezza di un'inchiesta che scuote il mondo politico e il governo mentre svela le abitudini combriccolari che si nascondono dietro la "politica dell'emergenza".

Il suo argomento è diabolico: quei pubblici ministeri non erano "competenti". Dovevano astenersi da fare alcun passo perché i reati ipotetici sono stati commessi a Roma e la procura della Capitale è la sola abilitata a procedere. È una denuncia radicale: quell'inchiesta è illegittima e forse addirittura illegale. Ferrara sa che, sopravvissuto alla caduta della dittatura e confusamente accomodato dal legislatore, il nostro codice fornisce "un terreno di cultura ideale ai contrasti ideologici degli operatori". C'è un luogo delegato per risolvere queste controversie ed è la Corte di cassazione. È la strada che, sollevando una polemica pubblica e alquanto artefatta anche nel merito, Ferrara non imbocca. Vuole una polemica politica. La sollecita. Preme per gettare discredito su Firenze annientando un lavoro politicamente sensibile. La sortita dell'alto magistrato, con quel silenzio sulle malefatte di Achille Toro e con lo strepito contro l'altra procura, ravviva in un colpo solo il dubbio e la confusione che circondano da molto tempo la procura di Roma. Ufficio spesso quietista, qualche volta affetto dal morbo del conformismo, quasi intimidito dalla propria indipendenza.

Quel "morbo", annotava Piero Calamandrei, non è altro che un'ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; che non si piega alla pressione del potere, ma se l'immagina e la soddisfa in anticipo. Spesso i meccanismi intellettuali, le atmosfere emotive, le solidarietà corporative che si scorgono nell'ufficio di Ferrara appaiono affette da quella malattia e le parole arroganti sembrano rivendicare quella antica, bizzarra, discutibile pretesa - quasi castale - della procura di Roma di essere il foro penale precostituito per i Potenti: dovunque delinquano, Roma loquitur. Come accadeva - ricorda Franco Cordero - nella Francia ancien régime dove "si chiamavano Committimus le lettere grazie a cui date persone, schivando le solite giurisdizioni, adivano una corte sovrana".

C'erano dunque, al mattino, già buone ragioni per preoccuparsi e chiedersi se non sia giunto il tempo che anche la procura di Roma coltivi meglio la sua autonomia e indipendenza dal potere politico, ma quel che accade nel pomeriggio finisce per rendere grottesco, o "italiano" (fate voi), il caso. Ottanta sostituti si ribellano alla mossa del loro capo. Si convoca un'assemblea. Toni accessi, valutazioni severe. Si chiede a Ferrara di smentire quel che gli viene attribuito o di accettare il rimprovero di una nota collettiva e pubblica dei suoi collaboratori. Ne nasce un comunicato tartufesco, incredibilmente firmato anche da Ferrara, dove si legge che con la procura di Firenze "non c'è alcuno scontro" perché "la professionalità di quei colleghi non è in discussione"; che a Roma c'è "disagio" per quel che ha combinato Achille Toro, ma la sua infedeltà non può macchiare le toghe degli altri in un ufficio che "è coeso" e dunque non sfiducia il capo.

La nota è un capolavoro di ipocrisia, il fragile tentativo di dare una parvenza di solidità e coerenza a un'aria fritta che lascia irrisolta la sobria diffidenza che si nutre per la procura di Roma. È un'apprensione che non si può cambiare in un giorno né in una stagione. Si possono almeno cambiare subito le abitudini di quell'ufficio e aprire spazi ai molti pubblici ministeri che chiedono di fare soltanto il lavoro che la Costituzione assegna loro. Tocca a questi sostituti battere un colpo per diradare le nebbie che ancora si vedono intorno a quel Palazzo. Si deve avere fiducia che questo accadrà presto.

© Riproduzione riservata (23 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Ritorno al 1994
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2010, 05:32:05 pm
IL COMMENTO

Ritorno al 1994

di GIUSEPPE D'AVANZO


"Una delle più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale". Se soltanto si prende in considerazione come, con quali parole e intensità, i pubblici ministeri di Roma definiscono l'affaire che travolge oggi Fastweb e Telecom, si può comprendere a che punto siamo. Per provare a dirlo, occorre mettere in fila quel che accade. Gli arresti in flagranza di amministratori con la "bustarella" in tasca. Lo scandalo che ha svelato la corruzione e il malcostume nascosto dal potere d'eccezione concesso alla Protezione civile di Guido Bertolaso in nome del "fare" e del miracolismo mediatico. I fondi neri e il riciclaggio per migliaia di milioni di euro prodotti dal business illegale delle due società telefoniche. I brogli elettorali e, addirittura, l'ingresso in Parlamento di un uomo selezionato da un clan mafioso. La cronaca racconta, a chi vuole sentire, che corruzione e malaffare segnano come una malattia la nostra vita pubblica. È vero (e meno male), che non la definisce nella sua interezza, ma appunto è una patologia grave e diffusa che minaccia l'esistenza e lo sviluppo del Paese.

Dovremmo finalmente prenderne atto senza ipocrisia. La buona politica ne dovrebbe prendere atto. La buona società dovrebbe imporre l'urgenza di affrontarla. Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca, recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese (anche questo è stato avventurosamente detto).

Per un decennio, si è voluto raccontare la corruzione italiana come una storia definitivamente chiusa con il crollo della Prima Repubblica. Per un lustro  -  e ancora con maggior pervasività e petulanza nello scorcio di questa ultima legislatura  -  le immagini venute fuori da un caleidoscopio di verità rovesciate hanno rappresentato la patologia italiana come l'invenzione di un pugno di magistrati ostinatamente tentati dal potere, come la trovata di una politica e di qualche querulo giornale a corto di argomenti, modernità, cultura e visione. Il coinvolgimento nel mondo illegale del gotha delle società telefoniche  -  giovani interpreti della contemporaneità, energie e intelligenze affacciate nello stretto sentiero che separa il non più dal non ancora  -  dimostra che dalla nostra malattia non siamo guariti nel 1994. Anche la nuova generazione di uomini d'affari è stata afferrata dal gorgo che non si è voluto eliminare. Per quindici anni politica e giustizia si sono dati battaglia e, nel rumore dello scontro, sono andate smarrite le ragioni che hanno reso e rendono fragile la politica e robusto, invasivo l'intervento giudiziario. Si è voluto far credere che il problema riguardasse soltanto gli uomini in toga, la loro volontà di potenza. Per anni, e ancora poche settimane fa, è parso che l'assoluta priorità non fosse prosciugare i pozzi neri, distruggere la rete di connivenze e omertà, dare luce all'invisibilità e alla segretezza, sempre necessarie alle dinamiche e all'espansione del malaffare. Urgente  -  ci hanno detto  -  era assicurare una protezione immunitaria al ceto politico. È la mitologia e il disegno politico che una realtà degradata e fatti ostinatissimi hanno sciolto nell'arco di poche settimane mutando il segno del clima politico e forse il destino della legislatura.

Oggi all'ordine del giorno non c'è più il ripristino dell'immunità dei parlamentari. Oggi appare intollerabile che la corruzione sia considerata da un disegno di legge criminofilo (il processo breve, già approvato in un ramo del Parlamento) un reato non grave, una pratica così penalmente lieve e socialmente risibile da rendere accettabile che i tempi processuali per aggredirla siano contingentati. La concretezza della patologia italiana, la lunga catena di scandali che inchiodano il Paese davanti a uno specchio, dovrebbe renderci consapevoli di quel che in Occidente tutti sanno: la corruzione crea una quantità di criticità che distruggono le istituzioni, la vitalità della democrazia, i valori etici, la giustizia. Minaccia la stabilità e la sicurezza della società.
Discutere di corruzione  -  ne sono consapevoli a Milano come a L'Aquila, in Piemonte come in Calabria  -  vuol dire interrogare i modi della convivenza civile, della nostra organizzazione sociale, della legittimità delle istituzioni, della trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese. Vuol dire discutere di quelle regole che il mito ideologico berlusconiano ha ritenuto inutili o irrilevanti, soltanto legacci capaci di imbrigliare le energie vitali. Significa ricordare che la corruzione (lo si vede nello scandalo della Protezione civile) tende a occupare gli spazi di discrezionalità lasciati a singoli individui, politici, amministratori o comunque pubblici ufficiali e in modo particolare affiora dove maggiormente si concentrano il potere politico e potere economico. Vuol dire ripristinare, al di là dell'intervento della magistratura che arriva sempre dopo, il canone della responsabilità, sistemi di controllo efficienti e credibili, garanti che sappiano proteggere le regole e prevenire i comportamenti e i "sistemi" patologici, gli abusi, i conflitti di interesse, le distorsioni del mercato.

A questo punto, dunque, siamo oggi, e dobbiamo soltanto chiederci se saremo in grado di venirne fuori prima che un'altra Repubblica cada sotto il peso della sua debolezza. Con un salto all'indietro, siamo ritornati alla casella di partenza. Al 1994, quando morì l'illusione di un risanamento del Paese.

© Riproduzione riservata (24 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO - DAVID MILLS è stato corrotto.
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2010, 12:02:26 pm
IL COMMENTO

La prova delle menzogne

di GIUSEPPE D'AVANZO


DAVID MILLS è stato corrotto.

È quel che conta anche se la manipolazione delle norme sulla prescrizione, che Berlusconi si è affatturato a partita in corso, lo salva dalla condanna e lo obbliga soltanto a risarcire il danno per il pregiudizio arrecato all'immagine dello Stato. Questa è la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Per comprenderla bisogna sapere che la corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è corrotto, il presidente del Consiglio è il corruttore.

Per apprezzare la decisione, si deve ricordare che cosa ha detto, nel corso del tempo, Silvio Berlusconi di David Mills e di All Iberian, l'arcipelago di società off-shore creato dall'avvocato inglese. "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario" (Ansa, 23 novembre 1999). "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008). Bisogna cominciare dalle parole  -  e dagli impegni pubblici  -  del capo del governo per intendere il significato della sentenza della Cassazione.

Perché l'interesse pubblico della decisione non è soltanto nella forma giuridica che qualifica gli atti, ma nei fatti che convalida; nella responsabilità che svela; nell'obbligo che oggi incombe sul presidente del Consiglio, se fosse un uomo che tiene fede alle sue promesse.

Dunque, Berlusconi ha conosciuto Mills e, come il processo ha dimostrato e la Cassazione ha confermato (il fatto sussiste e il reato c'è stato), All Iberian è stata sempre nella sua disponibilità. Sono i due punti fermi e fattuali della sentenza (altro è l'aspetto formale, come si è detto). Da oggi, quindi, il capitolo più importante della storia del presidente del consiglio lo si può raccontare così. Con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, David Mills dà vita alle "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest". Le gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio "somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali" che lo ricompensano della testimonianza truccata.

Questa conclusione rivela fatti decisivi: chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi; che cosa è stato nascosto dalla testimonianza alterata dell'avvocato inglese. Si comprende definitivamente come è nato, e con quali pratiche, l'impero del Biscione; con quali menzogne Berlusconi ha avvelenato il Paese.

Torniamo agli eventi che oggi la Cassazione autentica. Le società offshore che per brevità chiamiamo All Iberian sono state uno strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo e della sua avventura imprenditoriale. Anche qui bisogna rianimare qualche ricordo. Lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi mentre, in parlamento, è in discussione la legge Mammì. In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche. Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente. Dunque, l'atto conclusivo del processo Mills documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c'è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la sua imprenditorialità, l'efficienza, la mitologia dell'homo faber, l'intero corpo mistico dell'ideologia berlusconiana ha il suo fondamento nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

E' la connessione con il peggiore passato della nostra storia recente che, durante gli interminabili dibattimenti del processo Mills, il capo del governo deve recidere. La radice del suo magnificato talento non può allungarsi in quel fondo fangoso perché, nell'ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese. Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell'infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della "società dell'incanto" che lo beatifica. Per scavare un solco tra sé e il suo passato e farsi alfiere credibile e antipolitico del nuovo, deve allontanare da sé l'ombra di quell'avvocato inglese, il peso di All Iberian. È la scommessa che Berlusconi decide di giocare in pubblico. Così intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, responsabile di fronte agli elettori, e il suo passato di imprenditore di successo. Se quel passato risulta opaco perché legato a All Iberian, di cui non conosce l'esistenza, o di David Mills, che non ha mai incontrato, egli è disposto a lasciare la politica e addirittura il Paese. Oggi dovrebbe farlo davvero perché la decisione della Cassazione conferma che ha corrotto Mills (lo conosceva) per nascondere il dominio diretto su quella macchina d'illegalità e abusi che è stata All Iberian (la governava). Il capo del governo non lo farà, naturalmente, aggrappandosi come un naufrago al legno della prescrizione che egli stesso si è approvato. Non lascerà l'Italia, ma l'affliggerà con nuove leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento), utili forse a metterlo al sicuro da una sentenza, ma non dal giudizio degli italiani che da oggi potranno giudicarlo corruttore, bugiardo, spergiuro anche quando fa voto della "testa dei suoi figli".

© Riproduzione riservata (26 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La legge-bavaglio dimostra che Berlusconi si può fermare
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 02:45:01 pm
La legge-bavaglio dimostra che Berlusconi si può fermare

di GIUSEPPE D'AVANZO

Dunque, si può. Berlusconi può essere fermato, può essere costretto a precipitose ritirate. La sua ambizione cesaristica e il progetto post-costituzionale che l'accompagna si possono costringere nel solco dei principi costituzionali (del loro rispetto). È la buona notizia di questa storia della legge contro le intercettazioni (purtroppo ce n'è anche una cattiva) e vale la pena ragionarci su perché il congelamento (sine die?) di una legge liberticida e criminogena indica in modo scintillante un paio di cose non trascurabili o che molti hanno trascurato e trascurano ancora oggi. Berlusconi non è il nostro Destino. Non è il Fato cui dobbiamo inchinarci, rassegnati, disposti a sopportare tutto, silenziosi perché travolti dalla "rassicurante frustrazione" di chi è stato espropriato finanche della capacità espressiva per rappresentare il proprio disagio. In questa occasione, un'opinione pubblica critica, ampi settori del mondo dell'informazione  -  questo giornale e i suoi lettori in testa  -  , segmenti non irrilevanti della maggioranza, qualche presidio istituzionale e addirittura un'opposizione che ritrova le ragioni del suo esistere hanno trovato la forza di obbiettare il proprio dissenso sentendo come un sopruso quella legge.

Come una vergogna non opporvicisi; come un dovere civico impedire la distruzione del diritto dei cittadini alla sicurezza e all'informazione. Se Berlusconi non è una necessità ineluttabile, non è scritto allora nella pietra che la nostra democrazia debba essere fatalmente affidata a chi come il Cavaliere "vince di default e governa attraverso la demoralizzazione cinica" (Slavoj Zizek).

Sono due convincimenti che da oggi bisogna coltivare con cura e impegno perché la sconfitta che Berlusconi incassa non è soltanto lo stop a un disegno di legge. Il passo falso di oggi è anche il tracollo di un'idea politica che attribuisce il potere di una "decisione assoluta" a chi governa perché solo il comando diretto e indiscusso può assicurare la "governabilità" del Paese. Chi dissente da questo paradigma di governo o soltanto lo limita per dovere istituzionale o lo vaglia per impegno professionale e civile diventa - in questo quadro politico e, se si vuole, psicologico - il pericoloso agente del declino da affrontare. Ecco perché, nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto alla forza, Berlusconi avverte da sempre come un obbligo improrogabile intervenire contro la magistratura limitando l'uso delle intercettazioni o contro l'informazione promettendo il bavaglio a chi pubblica il testo di "un ascolto".

Magistratura e informazione - i due ordini che, in un'equilibrata architettura di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri - diventano "nemici" da ridurre a uno stato di costrizione perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l'urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi - va ricordato - avrebbe voluto fin dal quinto Consiglio dei ministri del suo governo con immediata forza di legge, costretto a una marcia indietro dal Capo dello Stato e dalla Lega, che avrebbe dovuto spiegare alla sua gente di aver negato le intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione.

Se la bocciatura del disegno di legge è anche la sconfitta di un'idea politica, si deve osservare che le nuove regole avrebbero voluto, sì, appesantire l'investigazione con intralci, intoppi, bizzarri obblighi soltanto per proteggere le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendendo più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy, ma quella legge avrebbe dovuto codificare una sorta di "diritto positivo della crisi" che impone ossequio alla funzionalità delle decisione politica e dunque il silenzio ai giornalisti, onerose penitenze economiche agli editori non conformi e un'innocua agenda di lavoro al pubblico ministero.
Questo "presepio" non è piaciuto perché ridisegna una nuova forma costituzionale con un governo abusivamente armato di più poteri e un cittadino abusivamente privato dei suoi diritti. Il progetto fallisce non per l'inettitudine politica di Berlusconi, come argomenta Giuliano Ferrara, ma al contrario per l'abbagliante riverbero della sua politicità. Il Cavaliere posa ad antipolitico, ma chi può credergli? Alla politica classica la dignità che egli non riconosce, che palesemente disprezza è di stare al di là e al di sopra degli interessi particolari che agitano la società civile.

Per il capo del governo, la politica non è altro che potere pubblico esercitato senza scrupoli a protezione, innanzitutto, dei propri interessi economici e, poi, dei gruppi, ceti, lobby che lo sostengono. È questa convinzione che rende necessaria la pretesa di immunizzarsi da ogni controllo; di rendere Legge la sua persona e le sue convenienze personali; indiscutibili le sue decisioni e scelte anche quando nomina un socius ministro soltanto per sottrarlo alla giustizia (è il caso di Aldo Brancher). I controlli della magistratura, dell'informazione hanno scovato e mostrato che cosa nasconde l'illusionismo pubblicitario del Cavaliere. Hanno ricomposto una realtà dissolta dal dominio mediatico del governo, illuminato il conflitto d'interessi che strangola il servizio pubblico della Rai, rivelato le miserie e il vuoto della sua affabulazione, la corruzione nascosta nel modello del trauma e del miracolo, dell'emergenza risolta con un prodigio. È infatti lo scandalo della Protezione civile che ha convinto Berlusconi a giurare il pubblico "mai più intercettazioni" perché quel sistema, affidato alla leadership amministrativa di Gianni Letta e alla guida tecnocratica di Bertolaso, è il prototipo del potere che egli pretende. È il dispositivo che anche pubblicamente egli invoca quando dice: "Per governare questo Paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile".

È la politicità di questo disegno dunque che è stata rifiutata: questa volta non tutti hanno creduto che i personali interessi di Silvio Berlusconi fossero gli interessi del Paese e del "popolo" e meno che mai una battaglia per il diritto alla privacy. Il Cavaliere ha dovuto prendere atto che forzare la mano avrebbe messo a serio rischio il suo governo, le alleanze, il suo prestigio. È una buona notizia. Il programma di andare oltre la democrazia parlamentare verso un governo legittimato dal carisma e dal potere del Sovrano è stato fermato. È un buon inizio anche per affrontare la cattiva notizia. Berlusconi ci riproverà. Non ha altra alternativa per conservare se stesso che dissolvere non solo nei fatti, ma anche formalmente, l'equilibrio costituzionale e il principio di legalità. Sarà la battaglia d'autunno e ci sarà modo di parlarne.

 

(19 giugno 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il predone
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2010, 03:37:49 pm
IL COMMENTO

Il predone

di GIUSEPPE D'AVANZO

PENSIAMO ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l'intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta.
Bisogna convincersene, quell'uomo sarà sempre in grado di mostrare un'intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l'opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l'affaire Brancher.

La storia la si conosce. C'è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l'addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.

Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una
frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l'una e l'altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l'incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.

Fin dall'annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti  -  se non agli ingenui  -  che Aldo Brancher diventa ministro per un'unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.

C'è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest'affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo  -  il Cesare di Arcore  -  che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.

Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo  -  chiamatelo come volete  -  di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli  -  nel suo potere e volontà  -  di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma  -  come per Brancher  -  in una casa dell'impunità per corifei e turiferari. Quel che l'affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l'abuso e l'istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.

Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l'uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l'esecutore muto degli ordini dell'esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull'oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l'annichilimento delle istituzioni.

Umiliante e illuminante, l'affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d'istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l'antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L'affaire Brancher conferma che non c'è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all'opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?

(25 giugno 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La truffa del Cavaliere
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2010, 06:16:28 pm
IL COMMENTO

La truffa del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO

Il capo dello Stato smaschera il gioco e lascia senza veli gli abusi di potere, la truffa politica, l'umiliazione delle istituzioni occultati nell'affaire Brancher. Il neo-ministro  -  cooptato da Berlusconi a capo di un dicastero al solo scopo di evitargli un processo per appropriazione indebita  -  si è aggrappato al "legittimo impedimento" per evitare il dibattimento. "Devo organizzare il ministero" si è giustificato con i giudici. Non c'è nulla da organizzare, spiega ora Giorgio Napolitano, perché il ministero di Brancher  -  quale che sia: per l'attuazione del federalismo o per il decentramento e la sussidiarietà  -  è un ministero senza portafoglio.

Quindi, conclude una nota del Quirinale, "non c'è nessun nuovo ministero da organizzare" e, di conseguenza, nessun legittimo impedimento da invocare. La logica conclusione dell'intervento del capo dello Stato sembra essere: c'è un solo, corretto gesto che oggi il neo-ministro può proporre: si faccia processare. Le poche parole di Napolitano, secche e fattuali, lasciano l'intera Operazione Impunità del governo Berlusconi senza alibi. Ne mostrano la violenza istituzionale.

Contiamo gli abusi, gli inganni, le truffe dell'affaire. È stato ingannato il capo dello Stato. Gli è stata presentata la nomina di Brancher come un riequilibrio indispensabile all'efficienza del governo, era soltanto un espediente per rendere quell'uomo immune alla giustizia. Si è lasciato credere - a un Paese in attesa di decisioni e politiche che lo proteggano dalla crisi - che fosse necessario un nuovo ministero. Falso. Di questo ministero - di cui peraltro si ignorano ragione, missione e anche la denominazione - non c'è alcun bisogno. Si è piegata l'oggettività di una funzione pubblica, la legittimità di un'istituzione (addirittura, il governo) alla soggettiva urgenza di un signore che, da sempre nell'inner circle di Arcore, è nel cuore di Silvio Berlusconi fin dai tempi in cui il Cesare di oggi era soltanto uno spregiudicato imprenditore. Si è mentito ai giudici. Un falso doppio. Ha mentito l'imputato-ministro, ma ha mentito anche il governo che, al contrario del capo dello Stato, ha taciuto per un'intera giornata una verità elementare: Brancher non ha alcun ministero da organizzare.

La sequenza di abusi, inganni e truffe del governo rende necessario soddisfare con qualche risposta pubblica una curiosità e indispensabile una mossa politica. La curiosità è sulla bocca di tutti: perché Silvio Berlusconi si è cacciato in questo pasticcio? Ne aveva proprio bisogno? Che cosa ce lo ha costretto? A ragionare su quel che si sa, è incomprensibile. Aldo Brancher è imputato, nel processo Antonveneta, di appropriazione indebita. Ha "grattato" qualche centinaia di migliaia di euro al banchiere Gianpiero Fiorani. Brancher avrebbe potuto affrontare il processo senza troppi patemi e approfittare agevolmente dei labirinti procedurali messi a punto in due legislature dal Cavaliere per annientare il processo penale e rendere arduo ogni accertamento dei fatti e delle responsabilità. L'ampio ventaglio di opportunità offerte da codici, che hanno ridotto il processo a ferro arrugginito, gli avrebbero ragionevolmente dato la possibilità di farla franca senza danno. Ma ammettiamo che, con una sentenza, il danno alla fine sarebbe arrivato. Quale danno? Una condanna neutralizzata dall'indulto che avrebbe fatto fatica a guadagnare, nei giornali, uno spaziuccio tra le brevi di cronache. Perché allora sollevare questo polverone? Perché accendere le luci su un processo che si trascina stancamente nella penombra e nel disinteresse? Quale minaccioso racconto o vergogna può farvi capolino se l'imputato Brancher entra in aula?
Perché Berlusconi si convince a mettere la sua faccia su un abuso politico e una truffa istituzionale che, senza alcuna speranza di occultamento, avrebbero provocato l'interesse dell'opinione pubblica, l'irritazione dell'alleato leghista, la contrarietà del cofondatore del Popolo della Libertà, il fragore dell'opposizione? Un gioco a saldo tutto, e decisamente, negativo. Bisogna allora chiedersi: qual è la ragione che obbliga Berlusconi ad affrontare questa tempesta? Quale ricatto si muove dietro le quinte? E quale fragilità il capo del governo deve coprire con la cooptazione nel governo di Aldo Brancher?

Nelle democrazie sane c'è un luogo dopo porre queste domande e ottenere risposte che possono essere vagliate e verificate: è il Parlamento. Berlusconi dovrebbe avere il coraggio di affrontarlo, per una volta. E l'opposizione e i settori della maggioranza coinvolti inconsapevolmente in quest'affaire molto imbarazzante dovrebbero pretenderlo. Come appare obbligatoria una mossa politica. Se la sintassi istituzionale e la grammatica politica avessero ancora un significato, Aldo Brancher dovrebbe dimettersi fin da oggi, prima di raggiungere il tribunale di Milano. Le parole di Napolitano sembrano pretenderlo. La nota del Quirinale si può leggere, al fondo, anche così: se credi di fare il ministro per evitare un processo, non hai diritto a essere ministro perché le ragioni che tu lo sia sono venute meno; hai il dovere di affrontare il processo senza alcuna immunità perché è scritto che tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge. 
 

(26 giugno 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Cavaliere, ci dica se la legge è uguale per tutti
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 10:01:54 am
IL CASO

Cavaliere, ci dica se la legge è uguale per tutti

di GIUSEPPE D'AVANZO 

DUNQUE, martedì prossimo Silvio Berlusconi è atteso in Parlamento per un discorso che i suoi desiderano sia addirittura memorabile. Che cosa si intende per "memorabile"? Quando e come le parole di un uomo di Stato diventano storiche? Vediamo.

Si sa che il premier, nel suo intervento, illustrerà i cinque punti programmatici (giustizia, Mezzogiorno, fisco, federalismo e sicurezza) per rilanciare la corsa di un governo a corto di fiato. Berlusconi chiederà ai suoi alleati ostili (Fini) o delusi (Lega) di sottoscrivere intorno alle cinque questioni un "patto" per concludere la legislatura con un decoroso rispetto delle urgenze del Paese e degli impegni elettorali.
L'iniziativa può avere due esiti. Il primo, miserello. Berlusconi si accontenta di una risicata maggioranza che certifichi la sopravvivenza del suo governo e - insieme - la morte di ogni autarchia della sua leadership, costretta in una condizione di minorità politica a mendicare - di volta in volta - il consenso di Bossi, l'approvazione di Tremonti, la non belligeranza di Fini e il benestare finanche del governatore siciliano Raffaele Lombardo, di Storace, dei transfughi dell'Udc. Una pietosa baraonda senza futuro.

Il secondo approdo, imprevedibilissimo, è nello stile del signore di Arcore che, figlio viziato della politica della Prima Repubblica, si è inventato campione dell'antipolitica nella Seconda Repubblica (qualsiasi cosa questa formula significhi). Minorità? Autonomia limitata? Vaniloquio, cicaleccio di politici di professione - lo immaginiamo dire ai suoi - posso farne a meno di queste preoccupazioni ché sono capace di scrivere l'agenda dell'attenzione pubblica come voglio e quando voglio; ché la mia leadership non dipende dalle manovre romane - me ne fotto - ma dal rapporto diretto - che ho - con il popolo, con i suoi umori che sapientemente posso mescolare e maneggiare. Qualcuno pensa che non sia più in grado di farlo?

Le sabbie mobili
Si fa fatica a credere che Berlusconi, a un passo dal suo traguardo (la corsa al Quirinale), si accontenti di vivacchiare mediocremente fino a quando Fini sarà pronto con il suo nuovo partito o magari, per qualche seggiola in meno o finanziamento caduto, Lombardo o per dire un Cuffaro spengano le macchine che tengono in vita il governo. È più probabile che, come gli consigliano, Berlusconi provi la posa dello "statista" (è accaduto una sola volta il 25 aprile 2009 a Onna nel giorno del ricordo della Resistenza). È plausibile che egli tenti di tirarsi fuori dalle sabbie mobili che lo stanno inghiottendo con un'invenzione che "generi la politica dall'antipolitica, l'ordine dal caos".

Certo, può accadere anche questo, anche questa volta. Berlusconi ha dato in questi sedici anni prova di come possa governare il Barnum italiano con la frusta, con il sorriso, con una menzogna strepitosa, con la pura energia della sua teatralità, con lo sciagurato favore di un'opposizione inconcludente fino allo sconforto, ma il passaggio che il presidente del Consiglio affronterà tra una settimana appare finale perché questa volta - e in modo definitivo - pare in discussione lo stesso "contratto emotivo" che il popolo della destra ha sottoscritto identificandosi in lui, rappresentandosi in lui più che essere da lui rappresentato.

In questa curva dell'avventura berlusconiana, appare in gioco la "forza del sogno" che il Cavaliere ha indotto da tre lustri nel metabolismo sociale del Paese alimentando l'illusione, come è stato detto, di una potenza individuale e di gruppo, di una felicità e un benessere possibile, raggiungibile da chiunque, per chiunque a portata di mano se fossero stati gettati per aria - come egli prometteva - alcuni ostacoli: i "comunisti", i migranti, l'informazione, il sindacato, i magistrati, la Rai pubblica, la cultura "giustizialista", il fisco, la Costituzione... Bene, la maggioranza elettorale degli italiani ha creduto nell'Italia che aveva in mente ("Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme un nuovo miracolo italiano"). Gli hanno detto: fallo, facci felici. Gli hanno consegnato in tre occasioni (1994, 2001, 2008) le chiavi del Palazzo e che cosa gli hanno visto combinare? Pochissimo. Quasi nulla. Quasi niente.

L'uomo del fare
L'uomo del fare, oculatissimo a coltivare il suo particulare, si è dimostrato un incapace quando i beni sono collettivi e gli affari pubblici. Nessuna delle strettoie che, nello schema illusorio di Berlusconi, ci trattengono sulla soglia della prosperità è stato mai rimosso con le riforme promesse. Nessuno. Nonostante le magie manipolatorie, chiunque ha potuto rendersi conto - anche i mafiosi di lui dicono: Iddu pensa solu a iddu - che in questi anni Berlusconi ha avuto una sola bussola: la sua tutela personale, la protezione della sua roba e quindi, soprattutto, l'assoluta necessità di evitare i processi che lo coinvolgono. Una dopo l'altra, le legislature vengono e vanno, quale che sia la forza della maggioranza che lo sostiene, in estenuanti fatiche parlamentari che devono assicurargli l'impunità.

Una gigantesca macchina politico, giudiziaria, mediatica ferma nel tempo, che divora ogni cosa, ogni altro problema, argomento, intelligenza, dibattito, cancellando il presente e le priorità del Paese. Ce n'è una sola, nel mondo dell'Egoarca: il suo destino minacciato dall'opacità dei comportamenti che ne hanno fatto un tycoon. È dal passato che l'Egoarca si deve proteggere. È una coazione a ripetere che conferma le ragioni originarie della corsa politica di Berlusconi. Non ci sono state nascoste, in verità. Ce le ha spiegate per tempo Fedele Confalonieri quali fossero: "La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremo sotto un ponte o in galera. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento nel "lodo Mondadori"" (Repubblica, 25 giugno 2000). Ancora più recentemente, Confalonieri ripete: "Le leggi ad personam? Le fa per proteggersi. Se non fai le leggi ad personam vai dentro" (La Stampa, 2 novembre 2009).
Siamo esattamente - oggi - nello stesso punto dove la storia è cominciata sedici anni fa. Ieri come oggi, il primo e solo punto dell'agenda politica del Cavaliere è combinarsi un'impunità tombale. Lo svela, nella demoralizzazione cinica dei più, un altro turiferario delle cerimonie di Arcore: "Adesso và a spiegare alla gente che buona parte del gigantesco casino in cui si trova la politica italiana dipende dalle decisioni della Corte costituzionale". (Bruno Vespa, Panorama, 16 settembre 2010).

Rapido riepilogo per chi avesse perduto qualche battuta. Il 14 dicembre la Consulta decide se la legge del legittimo impedimento può vivere o è costituzionalmente nata morta. Quella legge che protegge l'Egoarca dai giudici per diciotto mesi dovrebbe dargli respiro e consentire di imporre al Parlamento una nuova legge immunitaria questa volta costituzionale, dopo gli scarabocchi ("lodi") di Schifani e Alfano. Naturalmente, Berlusconi non si fida né dei giudici costituzionali né dei parlamentari ed è già al lavoro con i suoi azzeccagarbugli per scavare trincee e alzare muri che possano fermare la mano del giudice. Un nuovo intervento sulla prescrizione. Il divieto di utilizzare sentenze passate in giudicato. Una nuova legge sul legittimo impedimento che possa indurre la Corte a rinviare, il 14 dicembre, ogni pronunciamento. Una nuova legge costituzionale che egli conta di far approvare in doppia lettura entro l'aprile del 2011 prima di contarsi con un referendum confermativo (sempre che l'opposizione, complice o intontita, scandalosamente non l'approvi). Una "road map" - come la chiamano allegramente - che impegnerà da oggi e per un anno il Parlamento, il confronto tra i partiti, l'opinione pubblica e i media, l'intero discorso pubblico.

Da questo punto di vista, il "gigantesco casino in cui si trova la politica italiana" è meno ingarbugliato di come pretendono di raccontarcelo. Se non ci si lascia ingabbiare da ipocrisie anestetiche e tartufismi, la sola questione che ha l'interesse di Berlusconi - tra le cinque che egli proporrà tra una settimana al Parlamento, chiedendo un voto di fiducia - è la giustizia. Non la giustizia di tutti, la giustizia per tutti, ma la giustizia che riguarda da vicino lui, che preoccupa personalmente lui, che minaccia la di lui preziosissima roba. Nessuna sorpresa. Berlusconi è esattamente questo: è potere statale che, senza scrupoli e apertamente, protegge se stesso e i suoi interessi economici. È una rotta sempre più problematica in un'Italia infelice con un prodotto interno congelato, una ripresa lentissima, il debito pubblico in aumento, l'occupazione ancora in ribasso, le entrate dello Stato in flessione a petto di un'evasione fiscale che tocca tetti mai sfiorati in un deserto di politiche pubbliche a favore del lavoro, delle imprese, delle famiglie, del Mezzogiorno disgraziatissimo. È questa contraddizione - l'intera vita parlamentare assorbita dalle urgenze del Capo e non dai bisogni del Paese - che può decidere il collasso della "forza del sogno", la rescissione di quel "contratto emotivo" che ha reso vincente il Cavaliere di Arcore. Anche perché quel che Berlusconi teme soprattutto è il cosiddetto "processo Mills" che è un processo assai rivelatore.

Il mito e la realtà
Breve memento per gli smemorati. Con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, l'avvocato inglese David Mills dà vita alle "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest". Le gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio da Berlusconi "somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali" che lo ricompensano della testimonianza truccata. Questa storia non è più aperta soltanto al sospetto, come si dice. È un complesso di fatti coerente, dotato di senso che illumina chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi. Si comprende con quali pratiche fraudolente, sia nato l'impero del Biscione. All Iberian è stato lo strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo.

Anche qui bisogna rianimare, per l'ennesima volta, qualche ricordo. Lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi destinati non si sa a chi mentre, in Parlamento, è in discussione la legge Mammì. In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche. Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente. La sentenza della Cassazione (che cancella per prescrizione la condanna di Mills confermandone i trucchi della testimonianza e la corruzione) documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c'è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la mitologia dell'homo faber ha il suo fondamento nel malaffare, nell'illegalità, nella corruzione della Prima Repubblica. Consapevole di quanto questo ritratto di se stesso sospeso nella narrazione di David Mills contraddica la scintillante immagine del tycoon sempre vincente per genio fino ad umiliarne l'ideologia (è il mio trionfo personale che mi assegna il diritto di governare, sono le mie ricchezze la garanzia dell'infallibilità della mia politica), Berlusconi ha dovuto scavare tra sé e il suo passato un solco che lo allontanasse dall'ombra di quell'avvocato inglese. Questa necessità gli è stata sempre chiara negli ultimi dieci anni. Cosciente che se fosse prevalso il Berlusconi scorto nella trama svelata da David Mills, la sua avventura politica sarebbe apparsa il patetico sogno di grandezza di un briccone, in definitiva di un pover'uomo melodrammatico che vuole soltanto farla franca, il Cavaliere ha mentito a gola piena scommettendo però, in pubblico, la sua testa. "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario" (Ansa, 23 novembre 1999). "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008).

Bugiardo, corruttore, spergiuro anche quando fa voto della "testa dei suoi figli". Sono panni che non può indossare. Per non indossarli è disposto anche a farsi imbozzolare in una minorità politica, anche a tenere fermo il Paese - per un altro intero e lungo anno - nella palude del suo interesse personale ingaggiando, in nome della solita falsa rivoluzione, un nuovo scontro con la democrazia parlamentare, gli organi di garanzia costituzionale, con gli stessi principi della Carta, legge delle leggi.

La legge è uguale per tutti?
È per tirarlo fuori da questo labirinto che i consiglieri più accorti spingono il premier a fare del suo intervento del 28 settembre un discorso memorabile, "da statista". Hanno ragione, se non preparano le consuete fumisterie da fiera peronista. Noi crediamo - e lo diciamo anche con la convinzione del nostro disincanto - che ci sia un solo modo concreto e credibile, per Berlusconi, di dimostrarsi all'altezza della ambizione e responsabilità pubblica. Difenda il suo onore, la sua storia, la verità dei suoi giuramenti. Accetti di dimostrare nel solo luogo appropriato - il processo - l'irreprensibilità delle sue condotte e della sua fortuna. Eserciti in quel luogo - l'aula di un tribunale - i diritti della difesa. Le procedure proteggono quei diritti e a Berlusconi, sostiene, gli argomenti per farlo non mancano. Lo faccia. Martedì prossimo in Parlamento il presidente del Consiglio rivendichi di essere cittadino tra i cittadini con gli stessi diritti e gli stessi doveri di chiunque. Reclami - egli - l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e chieda di essere processato a Milano senza alcuno scudo, impedimento, immunità. Metta da parte le sue personali preoccupazioni per lasciare libera la politica - il governo, il Parlamento - di affrontare le inquietudini degli italiani e le difficoltà del Paese. L'Italia ha dato tanto a Berlusconi, è giunto il tempo che Berlusconi dia qualcosa all'Italia che non sia una legge ad personam. Presidente, vuole dire - e finalmente dimostrare - che la legge in Italia è davvero uguale per tutti?   

(21 settembre 2010) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2010/09/21/news/cavaliere_ci_dica_se_la_legge_uguale_per_tutti-7266376/?ref=HREC1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO I finiani: mossi anche i Servizi.
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 10:12:33 am
IL CASO

"Ecco come gli uomini del premier hanno manovrato la macchina del fango"

I finiani: mossi anche i Servizi. Hanno isolato otto questioni "decisive per capire" e il direttore del Secolo Perina le ha ordinate come se fossero domande.  Il presidente della Camera ha avuto la certezza che la casa di Montecarlo non è del cognato

di GIUSEPPE D'AVANZO


Ora, tra Berlusconi e Fini, tutto ritorna in alto mare. Come prima. Se è possibile, peggio di prima. Molto peggio. Va per aria la pace concordata per scrivere insieme una legge immunitaria costituzionale e quindi la road map che avrebbe consentito al governo di vivacchiare per lo meno fino ai primi mesi del 2012 quando il referendum confermativo avrebbe dovuto decidere il destino della legislatura. Che cosa è accaduto? Perché il presidente della Camera ha chiesto ai suoi "ambasciatori" Italo Bocchino e Giulia Bongiorno di chiudere ogni canale di comunicazione e trattativa con il ministro della Giustizia Alfano e l'avvocato del Cavaliere Ghedini? Quali evidenze hanno convinto Fini che quella trattativa politico-legislativa è una falsa trattativa, una trappola, soltanto un modo per temporeggiare in attesa che si concluda il character assassination; una parentesi tattica per dar modo agli "assassini politici" di concludere il lavoro sporco di demolizione di ogni affidabilità pubblica del co-fondatore del Popolo della Libertà? La risposta che si raccoglie negli ambienti vicini al presidente della Camera non è ambigua: "Fini ha qualche prova e la ragionevole certezza che le informazioni distruttive che ogni giorno vengono pubblicate da il Giornale e Libero, controllati dal presidente del Consiglio, sono fabbricate in un circuito che fa capo direttamente a Silvio Berlusconi".

Fini, nel pomeriggio di ieri, può dire ai suoi "ambasciatori" che quel che gli viene riferito, quel che gli viene mostrato, quel che ha accertato con indagini private non lascia spazio al dubbio. Gli uomini più esposti nell'aggressione riferiscono passo dopo passo del loro lavoro e delle loro mosse al Cavaliere. Che martedì, alla vigilia del titolo "Fini ha mentito, ecco le prove", ha incontrato Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti, i "sicari" del Giornale, e ieri Amedeo Laboccetta, il parlamentare del Pdl, vecchio esponente napoletano di An, capace di "muovere le cose" nei Caraibi grazie all'influenza di Francesco Corallo. Altro nome chiave - Francesco Corallo - di questa storia. Figlio di Gaetano, detto Tanino, latitante catanese legato al boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, Francesco Corallo è nei Caraibi "l'imperatore di Saint Maarten", dove gestisce con attività collegate a Santo Domingo alberghi, un giornale, quattro casinò con l'Atlantis World, multinazionale off-shore, partner dei nostri Monopoli di Stato nel business (complessivamente 4 miliardi di euro) delle slot machines ufficiali. Le mani che s'intravedono nella "macchina del fango" che muove contro Fini da mesi sono di Berlusconi, Feltri, Angelucci (editore di Libero), Laboccetta (Corallo), dicono senza cautela gli uomini del presidente della Camera.

"Non è più il tempo della prudenza. Abbiamo sufficienti informazioni per poter ricostruire che cosa è accaduto e per responsabilità di chi". Gli uomini di Fini hanno isolato otto questioni "decisive per capire" e Flavia Perina, direttora del Secolo d'Italia, le ha ordinate come se fossero domande. "È vero, come ha scritto Libero che c'è un rapporto personale tra l'ex primo ministro di Santa Lucia e Silvio Berlusconi che "deve far tremare Fini" (nell'isola di Santa Lucia è registrata la società proprietaria dell'appartamento di Montecarlo affittato dal cognato di Fini, ndr)? È vero, come ha scritto il Giornale il 17 settembre scorso che sono stati inviati a Santa Lucia agenti dei Servizi e della Guardia di finanza, e chi li ha mandati? È vero che a Santa Lucia ci sono, e da tempo, inviati della testata di Paolo Berlusconi, il Giornale e del mondadoriano Panorama? E' vero che la lettera di Rudolph Francis, con la dicitura "riservata e confidenziale" è stata fatta filtrare alla stampa estera attraverso un sito di Santo Domingo, località di residenza - guarda caso - di Luciano Gaucci? E' solo una coincidenza che Gaucci sia la "mina vagante" della stagione dei talk show, indicato negli scorsi giorni come possibile ospite eccellente di Matrix, l'Ultima Parola e persino Quelli che il calcio? Cosa significa l'ambigua nota in coda alla lettera di Francis "le nostre indagini restano in corso in una prospettiva di una determinazione finale"? E ancora, come è immaginabile che il ministro di un paradiso fiscale giudichi "pubblicità negativa" la segretezza delle società off-shore, posto che essa è il principale motivo per cui il suo Paese sta in piedi? Dice niente a nessuno il fatto che l'attuale editore di El National, Ramon Baez Figueroa, sia anche proprietario di diverse reti televisive come Telecanal e Supercanal?".

Gli otto dubbi retorici consentono di ricostruire il puzzle che, benché ancora monco, Gianfranco Fini ha sotto gli occhi. Indagini private gli hanno confermato che Giancarlo Tulliani non è il proprietario dell'appartamento di Montecarlo. Sospiro di sollievo: il giovane cognato avrebbe sempre potuto mentirgli ostinatamente, e fino ad oggi. Con la certezza dell'estraneità di Tulliani, Fini ha potuto sistemare meglio le altre tessere del mosaico. Si è chiesto: ma è ragionevole che un'isola (Santa Lucia) che vive con la leva della sua legislazione offshore si dia da fare per svelare i nomi dei proprietari di una società registrata in quel paradiso fiscale? Un non-sense. Epperò perché il ministro di Giustizia scrive che è Tulliani il proprietario delle sue società sospette? Ma è vero che questo ha scritto quel ministro? E' autentica quella lettera o su carta intestata (autentica) è stata sovrapposto un testo apocrifo?

La lettera se la sono rigirata a lungo tra le mani, ieri, Giulia Bongiorno e Italo Bocchino e hanno concluso che o la lettera è del tutto falsa o, anche se non lo è, non aggiunge nulla di nuovo a quel che si sa perché conferma che, secondo fonti monegasche, Giancarlo Tulliani è il "beneficiario dell'appartamento" che potrebbe voler dire soltanto che Tulliani è - bella scoperta, a questo punto - l'affittuario dell'immobile. Gianfranco Fini è apparso più interessato a ricostruire, con le informazioni che ha a disposizione, lungo quale canale e con quali protagonisti quella lettera manipolata si sia messa in movimento consapevole che il mandante dell'assassinio politico provochi la fuga di notizie rimanendo al di fuori della mischia. Dicono che sul tavolo intorno a cui Fini ha incontrato i suoi collaboratori sia rimasto a lungo un foglio, presto annotato con nomi, frecce, connessioni. Lo si può ricostruire così.

Uomini dei servizi segreti o della Guardia di finanza raggiungono Santa Lucia (la notizia è del Giornale). Devono soltanto sovrintendere che "le cose vadano nel verso giusto", che quel ministro di Giustizia dica quel che deve o fornisca le lettere con intestazione originale che necessitano. E' stato lo stesso Silvio Berlusconi a predisporre le cose potendo contare sul "rapporto personale tra l'ex ministro di Santa Lucia e il nostro presidente del Consiglio". Un legame (notizia di Libero) che "deve far tremare Fini". Bene, viene confezionato il falso. Ora deve arrivare in Italia senza l'impronta digitale del mandante. Bisogna seguire le frecce sul foglio dinanzi a Gianfranco Fini. Da Santa Lucia la lettera farlocca (o ambigua) arriva su un sito e poi nelle redazioni di due giornali di Santo Domingo. Da qui afferrata come per una pesca miracolosa dal sito Dagospia. Ora - gli uomini di Fini chiedono - chi ispira Dagospia? Credono di saperlo. Anzi, dicono di saperlo con certezza: "Dagospia, sostenuto dai finanziamenti di Eni ed Enel, è governato nelle informazioni più sensibili da Luigi Bisignani, il piduista, l'uomo delle nomine delicate, braccio destro operativo di Gianni Letta dal suo ufficio di piazza Mignanelli". Da Dagospia l'informazione manipolata slitterà sulle prime pagine di Giornale e Libero. Che potranno dire: abbiamo rilanciato soltanto una notizia pubblicata dalla stampa internazionale.

Una menzogna che tace e copre e manipola quanto ormai è chiaro a tutti dal character assassination di Veronica Lario, Dino Boffo, Raimondo Mesiano, Piero Marrazzo e ancora prima di Piero Fassino. Il giornalismo, diventato tecnica sovietica di disinformazione, alterato in calunnia, non ha nulla a che fare con queste pratiche che non sono altro che un sistema di dominio, un dispositivo di potere. Uno stesso soggetto, Silvio Berlusconi, ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi da più di un anno e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore ancora una volta, con l'"assassinio" di Gianfranco Fini, è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. Il presidente della Camera sembra determinato a spezzare il gioco e, saltato il tavolo della non belligeranza, la partita appare soltanto all'inizio e sarà la partita finale.

(23 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/23/news/d_avanzo_dossier-7336462/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quella verità che accusa il Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2010, 04:45:37 pm
IL CASO

Quella verità che accusa il Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


COMINCIANO a manifestarsi fatti solidi e addirittura qualche nome. La dinamica della "macchina del fango", ingolfata di documenti falsi, s'inceppa e rincula  -  come sempre: è già accaduto per l'assassinio mediatico del direttore dell'Avvenire, Dino Boffo. Conviene indicare subito i fatti. I "sicari" pubblicano un documento del ministro della Giustizia dell'isola caraibica off-shore Santa Lucia dove sono custodite le società proprietarie della casa monegasca affittata dal cognato di Fini, Giancarlo Tulliani.
Il documento attribuisce al "parente" la diretta proprietà dell'appartamento. Il foglio ministeriale, pubblicato da due quotidiani di Santo Domingo (El Nacional, Listin Diario), ripreso in Italia dal sito Dagospia, rilanciato con molto rumore e definitive, incaute certezze da il Giornale e Libero appare anche alla luce del solo buon senso una frottola abborracciata alla meglio.

Che interesse può avere un paradiso fiscale a svelare alla prima pressione il nome del proprietario di una società nata nei Caraibi proprio per proteggersi con l'anonimato? Chiunque comprende che sarebbe stata una irragionevole leggerezza perché è plausibile il rischio di perdere, in pochi giorni e per quella bocca larga, decine di migliaia di presenze incognite e senza nome che fanno prosperare quell'isola. È stata, mercoledì, la prima delle obiezioni del "cerchio stretto" del presidente della Camera. Oggi quell'intuito si è irrobustito con un'evidenza. La tipografia di Stato di Santa Lucia  -  la National printing corporation  -  nega che il documento che avrebbe dovuto affondare Giancarlo Tulliani, e con lui la terza carica della Stato, sia autentico. Il carattere originale della scritta Attorney  -  General's Chambers è differente da quello pubblicato dai quotidiani domenicani e italiani. Spiega un funzionario della National printing corporation al ilfattoquotidiano. it: "Non ho memoria che ci abbiamo mai chiesto di cambiare carattere. E noi non riforniamo carte intestate digitali, ma solo stampate". Si può farla breve. Quel documento è stato manipolato. E' del tutto artefatto. Nemmeno la carta intestata è autentica e, se non lo è l'intestazione, non può esserlo a maggior ragione il contenuto. A questo punto, è necessario chiedersi chi ha confezionato l'inganno. Da quarant'otto ore, il presidente della Camera e i suoi collaboratori si dicono convinti di aver rintracciato il mandante politico, gli "assassini", le mosse dell'agguato che avrebbe dovuto cancellare il futuro politico di Gianfranco Fini, distruggerne la rispettabilità personale, costringerlo alle dimissioni e all'oblio. Fini è così convinto di essere venuto a capo della "manovra", così persuaso che dietro il "falso" ci siano le "manine" organizzate da Silvio Berlusconi che dispone la fine immediata di ogni trattativa politica per individuare il percorso più rapido e protetto per consegnare al Cavaliere una legge immunitaria per via costituzionale. E' una decisione che apre una partita mortale che non prevede il pareggio. Uno dei due antagonisti dovrà soccombere. Non se lo nascondono i più stretti collaboratori di Fini se si decidono a dire, come fa Italo Bocchino, "il dossier è stato prodotto ad arte da una persona molto vicina a Berlusconi che ha girato per il Sudamerica, di cui al momento opportuno saprete il nome". "Comunicheremo nelle forme adeguate chi è la persona che si è premurata di costruire questa patacca", aggiunge Fabio Granata.

Ora è necessario ricostruire quel che il presidente della Camera e il suo staff hanno messo insieme per poter accusare il Cavaliere. Dicono i fedelissimi di Gianfranco Fini che bisogna riordinare passo dopo passo, notizia dopo notizia, come è stata montata e da chi la trappola. La prima mossa, 15 settembre, la si scorge nel notiziario dell'agenzia di stampa il Velino, di proprietà di Daniele Capezzone, portavoce del Popolo della Libertà. "Anche la casa di Montecarlo nelle maglie della nostra intelligence e delle Fiamme Gialle?", si chiede Vittorugo Mangiavillano. Questo Mangiavillano  -  ricordano i finiani  -  "è da sempre ritenuto pedina giornalistica dei servizi segreti e di manovre oscure e tossiche. Lo si vede tra le quinte della stagione dei veleni che colpì alla fine degli anni ottanta Falcone e il pool di Palermo. Ora scrive  -  e dà una notizia  -  'Gli 007 italiani e la Guardia di finanza da tempo hanno iniziato a controllare le società che, direttamente o indirettamente, hanno rapporti con la pubblica amministrazione. E la Printemps (proprietaria della casa di Montecarlo) sarebbe stata costruita da italiani o da prestanomi di italiani'". Passano due giorni e, il 17 settembre, la rivelazione di Mangiavillano si trasferisce nelle colonne del Giornale sotto il titolo "I servizi segreti seguono la pista che porta ai Caraibi". Quello stesso giorno i tre direttori del servizi segreti (Dis, Aise, Aisi) smentiscono che l'intelligence italiana si stia occupando di quell'affare. "Naturalmente, dicono gli uomini di Fini, nessuno ha mai pensato che i Servizi mettessero le mani in questo pozzo nero. Ma quelle notizie, la loro provenienza, la credibilità che ricevevano da redazioni molto prossime al governo sono suonate alle nostre orecchie come un campanello d'allarme. Ci siamo chiesti: ci sono agenti segreti che si sono messi al lavoro privatamente su input non istituzionali, anche se molto autorevoli? Per trovare una risposta accettabile a questa domanda abbiamo interrogato fonti nazionali e internazionali". Anche internazionali perché, come ha argomentato Italo Bocchino ad Annozero, "ciò che accade in Italia, in un'Italia schiacciata alquanto supinamente sugli interessi e l'amicizia di Putin e Gheddafi non lascia indifferenti i nostri alleati in Occidente". Da qui, da nostri alleati impensieriti per la nostra politica internazionale  -  lasciano capire gli uomini di Fini  -  è venuta la prima indicazione del nome di chi si è mosso nei Caraibi per confezionare e diffondere il falso documento del ministro di Santa Lucia. Lo stesso nome  -  aggiungono fonti di Futuro e Libertà  -  è saltato fuori da un autorevole fonte interna. E' ora di farlo, questo nome: Valter Lavitola. Difficile definire Lavitola. Imprenditore del pesce in Brasile (Empresa Pesqueira de barra de Sao Joao Lida, Rio de Janeiro). Editore e direttore dell'Avanti!. Politico ambizioso ma di piccolo cabotaggio che si muove frenetico da un partito ad un altro per approdare infine prima nell'Italia dei Valori e infine nel Popolo della Libertà, dove Berlusconi chiede di candidarlo "perché ci ha dato una mano ad acquisire qualche senatore utile a far cadere il governo Prodi". Lavitola deve aver fatto proprio un buon lavoro perché sarà candidato alle Europee 2004. Gli va male, ma  -  come oggi ricordano i finiani  -  "Berlusconi gli compra l'Avanti! e soprattutto ne fa il rappresentante del presidente del Consiglio per il Centro e Sud America". Un incarico ad personam che l'inner circle del Cavaliere digerisce male e che comunque gli consente di essere sull'aereo presidenziale quando Berlusconi visita in luglio Brasile e Panama. Lavitola avrà il suo momento di gloria quando si scopre che  -  per il piacere del Sultano  - organizza a San Paolo, nella suite presidenziale dell'hotel Tivoli, una festicciola notturna con cinque ragazze e una celebre ballerina di lap dance.

Questo è Valter Lavitola. Vediamo ora qual è  -  secondo i collaboratori del presidente della Camera  -  il suo ruolo nella trappola. "È Lavitola  -  ti raccontano  -  che briga ai Caraibi per confezionare il documento falso che accusa il cognato di Fini. Per quel che ci viene riferito è Lavitola che si procaccia la sua pubblicazione non nei giornali di Santa Lucia, che ancora oggi ignorano la storia, ma in quelli di Santo Domingo dove i due giornali concorrenti pubblicano lo stesso testo, parola per parola". "È Lavitola  -  continuano i finiani  -  che una volta rientrato in Italia consegna il falso direttamente nella mani di Berlusconi che lo gira, attraverso Daniela Santanché, alla direzione de il Giornale che, il giorno prima della pubblicazione del titolo "Ecco la prova" incontra il presidente del Consiglio per riceverne l'ultimo, definitivo placet".

Questa è la ricostruzione messa insieme da Gianfranco Fini e dai suoi collaboratori. Una prima approssimata conclusione si può trarre. Se hanno ragione gli amici di Fini  -  e certo hanno ragione se il documento pubblicato dai giornali controllati dal presidente del Consiglio è farlocco  - , il capo del governo muove una campagna ossessiva di calunnia e degradazione per condizionare la volontà e le decisioni della terza carica dello Stato. È la riproposizione dei sintomi di una democrazia malata. È, con i colpi che ancora lancerà il Cavaliere, il tema che terrà banco nei prossimi giorni.
 

(24 settembre 2010) © Riproduzione riserva
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/24/news/quella_verit_che_accusa_il_cavaliere-7372014/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Due debolezze a confronto
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2010, 05:09:45 pm
L'ANALISI

Due debolezze a confronto

di GIUSEPPE D'AVANZO

Immaginiamo che noi si abbia un nemico che ci vuole vedere morti. Immaginiamo che questo nemico nella sua vita non sia mai andato troppo per il sottile nella difesa dei suoi interessi o in oblique pratiche che gli consentono di accrescere la sua fortuna.

Immaginiamo addirittura che questo nostro nemico abbia dato nel tempo lampanti e documentatissime prove di saper corrompere capi di governo, ministri, giudici, parlamentari. Immaginiamo che anche in quest'occasione - la partita è mortale: o la vince o perde tutto - non rinunci ai suoi metodi spicci e convinca con buoni argomenti fruscianti o con qualche efficace minaccia un governo o un ministro di uno staterello off-shore a convocare una conferenza stampa per dire Tal dei Tali è il beneficiario di un trust nel nostro Paese. Immaginiamo che Tal dei Tali non sa niente di quel trust, come farà a difendersi? Quali leve potrà muovere per tirarsi fuori dai guai? La sua disarmata parola contro il ministro che magari ha firmato e autenticato un documento gonfio di menzogne. In questo caso, Tal dei Tali lo possiamo considerare colpevole e quindi fritto, morto, fottuto?

Immaginiamo ora la deliziosa gioia del Corruttore, chiamiamolo così, se questo schema dovesse prevalere lasciando tutti confusi, senza parole, incapaci di vederne la trama e la pericolosità. Per il Corruttore il gioco si fa molto facile. L'operazione si potrà ripetere per tutti i suoi nemici o semplicemente contro chi gli sta sul gozzo. Che so, l'avversario politico, l'alleato dubbioso, il direttore di giornali disobbediente, il banchiere insofferente, l'anchorman non conforme. Un'accusa: quello, Pinco, ha i soldi all'estero. Un frusciante argomento o un'intimidazione tosta convince un ministro dello staterello. Zac, il bersaglio è affondato.

Chi, oggi, si sbraccia gridando al "Verdetto", alla "Mazzata", al "Caso chiuso" invocando "Ora Fini si dimetta", "Ora chieda scusa" conferma che l'Italia è un Paese gobbo. Accade che un ministro di uno staterello dei Caraibi, Santa Lucia, dica: "Sì, quel documento l'ho scritto io" e manco fossero le tavole del Talmud quel che c'è scritto in quel foglio di carta diventa la Verità indiscutibile nel cerchio rumoroso e patetico dei sempre ostinatissimi "garantisti" di casa nostra e in una platea di osservatori e critici che si lascia confondere dallo strepito e dimentica di chiedersi che cosa accade? Che cosa ci è stato detto? Chi lo ha detto e come e perché?
Il perché è decisivo in questo caso: non si è mai visto il governo di un paradiso fiscale convocare una conferenza stampa per svelare il beneficiario di un trust. Che cosa lo convinto a questo passo?

Santa Lucia è un paradiso fiscale. Come tutti i centri off-shore, la riservatezza a tutela dei clienti è il vero valore aggiunto dei suoi servizi finanziari. Comunicare le generalità di un titolare di società è come se una banca svizzera pubblicasse spensieratamente i nomi dei titolari dei suoi conti correnti criptati. Potete crederlo? E allora perché dobbiamo credere senza un dubbio, senza un'esitazione, senza porre una domanda, che quest'allegro disvelamento possa avvenire in un paradiso fiscale del Caraibi? Per di più farlo - svelare i beneficiari di una società - è esplicitamente vietato dalla legge in quel Paese. "In Santa Lucia divulgare dati personali di un cliente senza la sua autorizzazione è un reato punibile con multa o prigione. Gli affari di una società off-shore possono essere rivelati solo quando il suo titolare è stato condannato nel suo Paese d'origine per un reato criminale valido anche per il sistema legislativo di St. Lucia". (www. stluciafinance. com/offshore-advantages. html, redatto dallo studio legale Glitzenhirn Augustin & Co. law practice).

Giancarlo Tulliani non è stato condannato in Italia. Per quel che se ne sa non è stato mai nemmeno indagato. Se avesse rispettato la legge del suo Stato, il ministro di Giustizia Francis non avrebbe potuto fare né la conferenza stampa né il nome di Tulliani. Se si è deciso al passo, deve averlo fatto in stato di costrizione. Qual era questo stato di necessità?

Lorenzo Rudolph Francis accenna alle improvvise difficoltà che il suo governo ha dovuto fronteggiare in questo lasso di tempo. Dice: "L'attenzione dei giornalisti italiani e - pare - la presenza dei servizi segreti stava danneggiando la reputazione della piccola isola che vive della sua riservatezza sulle vicende fiscali dei clienti".
Giornalisti e servizi segreti, dunque. I giornalisti italiani (tre o quattro) sono arrivati a Santa Lucia soltanto negli ultimi giorni. A chi potevano far paura, poi? Qualche timore autentico devono averlo provocato gli agenti dei servizi segreti indicati dal ministro. Di quali servizi segreti? Ce n'erano di italiani? O anche di altri Paesi? E in questo caso, di quali Paesi? Chi hanno contattato? Su chi e con quali argomenti hanno mosso la loro pressione?

Il ministro salva la faccia ripetendo che con quell'andirivieni di spioni aggressivi c'era "il rischio di danneggiare l'economia dell'isola". Si è così convinto a scrivere al primo ministro quella letterina riservata poi finita nelle redazioni di due giornali in un Paese, Santo Domingo, a mille miglia di distanza. Questo si comprende perché pubblicata a Santa Lucia quella nota avrebbe consegnato il cronista alla galera. "Non so come la lettera che ho scritto al primo ministro sia finita nelle mani dei giornalisti che l'hanno pubblicata", dice infine il ministro. E' illegittimo credere che l'affare possa anche essere andato in un altro modo? Così: il governo pressato non dagli agenti segreti - mero strumento operativo - ma con ogni evidenza dai governi di quei servizi segreti abbia deciso di uscire dall'angolo concordando con quei Paesi, con quei governi la redazione del "confidencial memo" (con contenuti falsi, ma non importa), la "fuga" del documento verso le redazioni, la conferenza stampa del ministro per confermarne l'autenticità. Questo circuito tossico può davvero farci credere che il caso sia chiuso, che si possa credere alla scena organizzata ai Caraibi?

Questo affare è ancora tutto da scrivere. Anche se le ugole ubbidienti del Sovrano, i Brighella che ne dirigono i giornali, gridano vittoria e pretendono o la genuflessione del vinto o, in alternativa, la sua decapitazione, il "caso" ci mostra soltanto due debolezze a confronto. Debole è stato finora Gianfranco Fini che, pur dichiarandosi assolutamente certo dell'estraneità di suo cognato alla proprietà dell'immobile di Montecarlo, non ha ancora mostrato in pubblico le ragioni di quella "certezza assoluta". Debole è anche Berlusconi che, come sempre quando è a mal partito (gli è capitato negli affari come in politica), si affida al lavoro sporco che non sempre gli addetti gli combinano a regola d'arte. Qualche volta gli incaricati si fanno beccare con le mani nel sacco e anche in questo caso hanno disseminato intorno più di una traccia. La partita mortale tra il capo del governo e il presidente della Camera non è ancora all'epilogo. Chi crede che poche parole di un ministro caraibico possano chiudere il match può sbagliarsi. E anche di grosso.
 

(25 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/25/news/debolezze_confronto-7409008/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO I metodi dell'Innominato e la libertà del dissidente
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2010, 11:20:11 am
L'ANALISI

I metodi dell'Innominato e la libertà del dissidente

di GIUSEPPE D'AVANZO


Il discorso di Gianfranco Fini è un confronto diretto con Silvio Berlusconi, il mandante del suo tentato e finora mancato "assassinio politico". Un raffronto tra la sua etica pubblica e la moralità dell'altro. Tra le proprie consuetudini private e politiche e i costumi politici dell'altro. Tra i suoi disarmati metodi di discussione pubblica e la violenza della macchina del fango che il Cavaliere può scatenare e  -  da un anno  -  scatena giorno dopo giorno.

Di volta in volta, il rivale può essere: la moglie, un giornalista dissenziente, un alleato riluttante. Il presidente della Camera non pronuncia mai il nome del suo antagonista. Mai, ma l'intero intervento del presidente della Camera va interpretato alla luce del paragone tra due storie umane e politiche, tra due metodi. Fini ripercorre l'affaire di Montecarlo e lascia bene in vista quel che ormai palesemente non funziona più nella nostra democrazia. Non aggiunge nessun elemento nuovo sulla proprietà di quell'appartamento di 50/55 metri quadrati di Montecarlo, se non la sua rabbia quando scopre che il cognato Giancarlo Tulliani è in affitto in quella casa di boulevard Princesse Charlotte 14. Si rimprovera "una certa ingenuità".

Si chiede: "È Giancarlo Tulliani il vero proprietario della casa di Montecarlo?". Il presidente della Camera non azzarda una risposta perché non sa rispondere. Non può rispondere, perché non sa. Non ne sa niente, ma non se ne lava le mani. Comprende che quel passaggio dell'affaire non è un dettaglio trascurabile, ma decisivo e non nasconde i suoi dubbi. Dice: "Gliel'ho chiesto con insistenza: egli (Tulliani) ha sempre negato con forza, pubblicamente e in privato. Restano i dubbi? Certamente, anche a me". Potrebbe chiuderla lì seguendo l'esempio di Berlusconi che, negli anni, ha lasciato che il suo braccio destro fosse condannato per associazione mafiosa (Dell'Utri) e il braccio sinistro per corruzione (Previti) e sempre per comportamenti e relazioni e reati che hanno favorito le sue fortune e avventure. E dunque di che cosa dovrebbe preoccuparsi, Fini, con quella compagnia? E tuttavia egli segue un'altra strada. Assume un impegno pubblico, anche se si dichiara estraneo, inconsapevole, ingenuo. "Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la presidenza della Camera. Non per personali responsabilità - che non ci sono - bensì perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe".

È tirando il filo della sua etica pubblica che Fini può tracciare la mappa dell'etica pubblica dell'altro, dell'Innominato, e marcare le eccentriche anomalie della scena italiana. C'è un signore - Silvio Berlusconi, l'Innominato - "ha usato e usa società off-shore per meglio tutelare il patrimonio familiare, aziendale e per pagare meno tasse" - che accusa chi "non ha né denaro né ville intestate a società off-shore" di frequentare i paradisi fiscali. Sempre quel signore - Berlusconi - che, facendo leva su leggi che si è apparecchiato come capo del governo, ha salvato la testa da processi che ne hanno accertato le gravissime responsabilità getta in faccia all'altro - Fini, "in 27 anni di Parlamento e 20 alla guida del mio partito, mai stato sfiorato da sospetti di illeciti" - una storia dove "non è stato commesso alcun tipo di reato, non è stato arrecato alcun danno a nessuno. E, sia ancor più chiaro, in questa vicenda non è coinvolta l'amministrazione della cosa pubblica o il denaro del contribuente. Non ci sono appalti o tangenti, non c'è corruzione né concussione".

Ecco dunque che cosa succede: "Un affare privato è diventato un affare di Stato per la ossessiva campagna politico-mediatica di delegittimazione della mia persona: la campagna si è avvalsa di illazioni, insinuazioni, calunnie propalate da giornali di centrodestra e alimentate da personaggi torbidi e squalificati".
È il preoccupato disegno che, della nostra democrazia, abbozza Fini. È l'ombra minacciosa che incupisce i giorni della nostra Repubblica. La si può scorgere nella lunga sequenza di "assassini mediatici" che sono diventati, in assenza di politiche pubbliche e di decisioni necessarie per il Paese, l'unica operosa attività cui si dedica il capo del governo. Dispone la raccolta del fango. A ogni avversario o nemico dichiarato o potenziale è riservato un dossier. Leggerezze ben manipolate possono diventare colpe e vergogna. Quando non ci sono né colpe né leggerezze, il fango lo si crea. Tornano utili i bugdet illimitati di cui dispongono i "raccoglitori di fango", faccendieri, funzionari prezzolati delle nostre burocrazie della sicurezza, ma anche spioni di altri Paesi. Creato il dossier, lo si può pubblicare cadenzando i tempi politici. L'Innominato se lo pubblica sui suoi media, il dossier infamante. Per questa strategia, nell'agosto dello scorso anno, l'Innominato rivolta i giornali del centro-destra (il Giornale, Libero) come calzini. Sceglie persone adatte al nuovo canone bellico. Fini, ricorda, fu tra i primi a essere "avvisato" di marciare diritto se non voleva guai. Fece lo stesso il passo storto che poi non è altro che l'esercizio del diritto a dissentire. Contro di lui è auspicato, dice, "il metodo Boffo. (C'era) chi mi consigliava dalle colonne del giornale della famiglia Berlusconi di rientrare nei ranghi se non volevo che spuntasse qualche dossier - testuale - anche su di me, "perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera". Profezia o minaccia? Puntualmente, dopo un po', è scoppiato l'affare Montecarlo".

Gianfranco Fini avverte, dunque, come spaventosa questa "meccanica", ne avverte la pericolosità, ne avverte un'anomalia che può manomettere i necessari equilibri di una democrazia. Il suo intervento denuncia un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che deforma l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. Constata che siamo ben oltre una fisiologica dialettica politica. Più semplicemente, avverte Fini, discutiamo della libertà di chi dissente o di chi si oppone.

Il presidente della Camera vede al lavoro una macchina, vede in azione un dispositivo che vuole "colpire a qualunque costo l'avversario politico", eliminarlo. Così, dice, "si distrugge la democrazia, si mette a repentaglio il futuro della libertà". È un giornalismo adulterato che si fa calunnia, "manganello", pestaggio e olio di ricino, il perno del meccanismo. Fa venire il freddo alle ossa. Pretende che "ci si metta in riga" se non si vuole assaggiare il "metodo Boffo" (liquidato con una campagna montata su un documento clamorosamente falso). C'è ancora l'Innominato a governare questa fabbrica di veleni che sono "i giornali del centro destra che non pubblicano notizie, che non ci sono, ma insinuazioni, calunnie e dossier" che possono essere costruiti in giro per il mondo con le risorse inesauribili dell'Innominato. Basta guardare quel che è accaduto a Santa Lucia dove "un ministro scrive al suo premier perché preoccupato del buon nome del paese per la presenza di società off-shore coinvolte non in traffici d'armi, di droga, di valuta, ma nella pericolosissima compravendita di un piccolo appartamento a Montecarlo". Si può crederlo? Non si può crederlo ed è giusto indicare il mandante politico. Soltanto chi non vuole sentire, vedere, giudicare può far finta oggi di non comprendere che Fini ha indicato in Berlusconi il tessitore della manovra che ha provato a schiacciarlo. Il presidente della Camera crede che possa ritornare la politica sulla scena pubblica nazionale. Si può essere scettici che ciò accada fino a quando, impaurito dal suo stesso fallimento, terrà banco un Innominato che ha abbandonato il sorriso ingannatore per mostrarci come il vero volto del suo potere sia la violenza.

(26 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/26/news/analisi_d_avanzo-7434012/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Chi accusa Fini "dimentica" i segreti della Fininvest.
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2010, 11:55:00 am
L'ANALISI

La trave dell'offshore nell'occhio del Cavaliere

Chi accusa Fini "dimentica" i segreti della Fininvest.

Una rete di 64 società per gli affari fuori bilancio.

In sette anni movimentati 3.500 miliardi di lire

di GIUSEPPE D'AVANZO


Quello che vale per ciascuno di noi, vale per Silvio Berlusconi? L'etica pubblica che vincola gli attori politici, obbliga anche il Cavaliere? E, soprattutto, la legge è uguale anche per il capo del governo? Sono le domande che attendono una risposta mercoledì quando Berlusconi terrà alla Camera un discorso che i suoi annunciano memorabile. Vedremo se lo sarà davvero.

Di certo, il capo del governo è atteso a una prova decisiva e ci si augura che, come al solito, non giochi la partita da parolaio fumigante trasformando la notte in giorno, il bianco in nero. Anche perché quegli interrogativi si sono irrobustiti dopo il pubblico chiarimento offerto dal presidente della Camera. Bene, c'è un bruscolo nell'occhio di Gianfranco Fini. È colpevole forse di aver dato fiducia a un "cognato" scavezzacollo. Ipotizziamo la scena peggiore (finora non dimostrata). Il "cognato" ha imbrogliato il presidente della Camera. Ha simulato la compravendita della casa di Montecarlo. In realtà, se l'è comprata nascondendo la proprietà diretta dietro il paravento di una società off-shore dell'isola caraibica di Santa Lucia. Se così fosse, Fini si dimette (è il suo impegno). È responsabile di "ingenuità". Ecco il peccato perché, come ricorda, "non è stato commesso alcun tipo di reato, non è stato arrecato alcun danno a nessuno; non è coinvolta l'amministrazione della cosa pubblica o il denaro del contribuente. Non ci sono appalti o tangenti, non c'è corruzione né concussione". A sollecitare questo atteggiamento c'è un archetipo del sentimento morale - la vergogna - e il tormento di una coscienza che avverte come propria anche la colpa altrui che non si è riuscito a intuire, prevedere, annullare. Le dimissioni mi sono imposte, dice Fini, dalla "mia etica pubblica", anche se "sia ben chiaro, che personalmente non ho né denaro, né barche né ville intestate a società off-shore, a differenza di altri che hanno usato, e usano, queste società per meglio tutelare i loro patrimoni familiari o aziendali e per pagare meno tasse".

È sotto gli occhi di tutti la disarmonia tra quel che viene rimproverato, urlato a Fini e quel che viene perdonato o addirittura colpevolmente dimenticato di Berlusconi. Come è stravagante non scorgere il disequilibrio tra i possibili esiti politici. Per i libellisti della "macchina del fango" organizzata dal Cavaliere - e anche per qualche corista che si dice neutrale - Fini deve scomparire. Un peccato di ingenuità in un affare privato dovrebbe determinare le sue dimissioni da presidente della Camera mentre, al contrario, una diretta, documentata, consapevole responsabilità in comportamenti criminali che hanno corrotto gli affari pubblici e provocato un danno alle casse dello Stato dovrebbe essere così trascurabile da consentire a Berlusconi di governare fino alla fine della legislatura prima di ascendere addirittura al Colle più alto come presidente della Repubblica. Le memorie deperiscono in casa nostra. Conviene rianimarle con quale fatto.

La KPMG, una delle più prestigiose società di revisione contabile del mondo, un colosso dell'accounting, l'arte della certificazione di bilancio, deposita - il 23 gennaio del 2001 - 800 pagine di un'analisi tecnico-contabile di sette anni di bilanci della galassia societaria Fininvest, dal 1989 al 1996, quella che per brevità è stata chiamata "All Iberian". Si sa quel che dice il Cavaliere di "All Iberian" ("Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario", Ansa, 23 novembre 1999).

Il documento di KPMG racconta come vanno le cose nella società di Berlusconi: Fininvest sommerge buona parte della sua contabilità. Nascosta da un doppio registro, movimenta, nei 7 anni analizzati dalla perizia, almeno 3 mila e 500 miliardi, 884 dei quali occultati su piazze off-shore. "Per alterare la rappresentazione della situazione economica, finanziaria e patrimoniale nel bilancio consolidato Fininvest", scrive KPMG. Si scopre che la Fininvest opera attraverso due comparti societari. Il "Gruppo A" - ufficiale - e il "Gruppo B", riservato. Lo spiega l'avvocato inglese David Mills, che ne costruisce l'architettura riferendone direttamente anche a Silvio Berlusconi: "Il Gruppo B è un'espressione utilizzata per differenziare le società ufficiali del gruppo A da quelle, pur controllate nello stesso modo dalla Fininvest, che non dovevano apparire come società del gruppo per essere tenute fuori dal bilancio consolidato. Un promemoria definiva le società del gruppo B "very discreet" (molto riservate), perché il collegamento con il gruppo Fininvest rimanesse segreto".
La KPMG individua 64 società off-shore su tre livelli. Al primo appartengono 29 sigle, distribuite geograficamente in quattro aree. "Ventuno società hanno sede nelle Isole Vergini inglesi, cinque nel Jersey, due alle Bahamas, una a Guernsey". "Altre tredici società - anch'esse off-shore - formano il secondo livello. Si tratta di "controllate" da società del primo livello da cui non si distinguono né per funzioni, né per organizzazione societaria". Caratteristica comune anche alle 22 sigle del terzo ed ultimo livello. Ancora KPMG: "La gestione (di queste società) è a cura di amministratori e personale del gruppo Fininvest". I reali beneficiari (beneficial owner) sono "amministratori, dirigenti, consulenti o società del gruppo Fininvest". Dalla Fininvest "dipende quasi esclusivamente il loro finanziamento che avviene attraverso le medesime banche e società fiduciarie".

Ricapitoliamo: c'è un comparto segreto, protetto all'estero, ne fanno parte 64 società direttamente controllate da Fininvest. In nome e per conto di Fininvest, concludono transazioni in settori ritenuti strategici per il Gruppo. I loro bilanci sono invisibili, ma solo alla contabilità ufficiale, perché i dirigenti di Fininvest ne hanno il pieno controllo. Come abbiamo già detto, tra il 1989 e il 1996 attraverso il comparto B sono stati stornati dai bilanci Fininvest 884 miliardi e 500 milioni. Cifre parziali, sostiene KPMG, perché "i conti cui è stato appoggiato per sette anni il comparto migrano verso le Bahamas. A Nassau, in Norfolk House, a Frederick Street, ha sede la Finter Bank & Trust. Qui, su nuovi conti sarebbe affluita la ricchezza del fu comparto B".
A meno che Silvio Berlusconi non l'abbia fatta rientrare in Italia protetta dallo "scudo" costruito dai suoi governi, si può ragionevolmente dire che ancora oggi egli custodisce in paradisi fiscali una parte del suo patrimonio. Può Berlusconi muovere l'arsenale politico, economico, mediatico che ha sottomano per liquidare un presidente della Camera dissidente chiedendogli conto di un indimostrato bruscolo (una fiducia mal riposta) che quello, Fini, ha negli occhi e restare al suo posto nonostante le prove dell'affarismo societario che fanno di lui, Berlusconi, un primatista indiscusso? Quale "regime personale" può giustificare questa difformità? Quale assuefazione dello storto sul diritto? Nessuna ragione potrebbe spiegarla, se non un abuso di potere o un potere che si fa violenza o la colpevole rassegnazione a un peggio che non trova mai un limite. A ben vedere, anche il conflitto con Gianfranco Fini chiama il presidente del Consiglio a un passo memorabile, alla necessaria decisione di rivelare di quale trama è fatta la sua etica pubblica, di dimostrarsi finalmente all'altezza della sua responsabilità e della sua ambizione. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo. Berlusconi rinunci alla tentazione di stringere intorno al collo del Paese la corda dei suoi affanni. Non sprofondi il Parlamento in una nuova stagione di leggi ad personam (immunità costituzionale, legittimo impedimento, processo breve, limiti agli ascolti telefonici). Difenda il suo onore, come ha fatto Gianfranco Fini. Pretenda di dimostrare nei processi che lo attendono a Milano la trasparenza della sua fortuna. Eserciti nell'aula di un tribunale e non nel Palazzo del Potere i diritti della difesa. Rivendichi con dignità di essere cittadino tra i cittadini con gli stessi diritti e gli stessi doveri di chiunque. Reclami - egli - l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e chieda di essere processato senza alcuno scudo, impedimento, immunità. Metta da parte i suoi affanni e ossessioni per lasciare libera la politica - il governo, il Parlamento - di affrontare le difficoltà del Paese. Si deve tornare a chiederglielo. Presidente, domani, con solennità vuole dire e finalmente dimostrare che la legge in Italia è davvero uguale per tutti?

(28 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/28/news/berlusconi_offshore-7498633/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il ricatto sulla giustizia
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2010, 05:16:13 pm
IL COMMENTO

Il ricatto sulla giustizia

di GIUSEPPE D'AVANZO

BERLUSCONI posa da liberale nei quasi 60 minuti del suo intervento. Come se davvero credesse nel liberalismo, nella pretesa di risolvere il "politico" con la discussione o immaginasse la politica come amicizia e competizione.

Come se davvero egli desiderasse "istituzioni che risolvono la concretezza e conflittualità sociale e politica nella rappresentanza parlamentare, nella produzione di leggi universali e astratte, nella separazione e nell'equilibrio dei poteri, nella differenza tra Stato e società". Come se non ci avesse dato modo di comprendere che la politica che ha in mente è l'esatto contrario: è decisione che crea confini, differenze, esclusioni; è opposizione radicale tra un amico e un nemico; è convinzione che l'unità passa attraverso la divisione e l'ordine attraverso il disordine. Più che politica, dunque, guerra e come tutte le guerre può concludersi soltanto con l'annientamento dell'altro.
Per comprendere quanto sia fasulla la Grande Recita dello Statista Saggio e Paziente, cui si è costretto o è stato costretto, si deve attendere che Berlusconi affronti il capitolo giustizia. A quel tasto suona sempre sincero nei suoi desideri. Non li nasconde nemmeno questa volta. Vuole disarmare Carta costituzionale, leggi, codici, tribunali, magistratura per cancellare "l'uso politico della giustizia" che, dice, "è stato e continua a essere un elemento di squilibrio tra ordini e poteri dello Stato". Quella bestia nera in toga deve essere
resa innocua ed egli cambierà le regole "nell'interesse collettivo". Separazione delle carriere e Csm diviso in due, parità dell'accusa e della difesa che poi vuol dire pubblico ministero degradato ad avvocato dell'accusa e ridotto alla performance verbale con la polizia che - sotto il controllo del governo - investiga, raccoglie prove, decide quale indagine coltivare, con quali risorse e con quanta rapidità. Lo schema garantisce impunità pro se et suis e magari offre l'opportunità di colpire a morte l'avversario molesto o l'alleato dissidente, oggi aggrediti soltanto dal Barnum mediatico che possiede o influenza. Già potrebbe bastare per ripetere che Berlusconi è potere statale che, senza scrupoli e apertamente, protegge se stesso e i suoi interessi economici.

Ma non basta perché, come sempre, il Cavaliere propone un'alternativa del diavolo che, per molti, ha i caratteri dell'estorsione: o mi si garantisce l'immunità o distruggo la macchina giudiziaria. In nome della riduzione del danno, del "meno peggio", egli esige di incassare un utile privato: un'immunità che lo protegga dagli assalti possibili in futuro e un'impunità che imbavagli il giudice per gli affari oscuri del passato (la corruzione di un testimone che lo salva da condanne certe; l'appropriazione indebita, la frode fiscale nell'acquisto dei diritti televisivi) e impedisca ai tribunali di confermare accuse che renderebbero il Cavaliere moralmente incompatibile con l'ufficio governativo. Anzi, nell'occasione, Berlusconi annuncia come intende manipolare i quadri legali per fabbricarsi una legge che gli consenta di non risarcire chi (la Cir) si è visto scippare un'azienda (la Mondadori) grazie alla corruzione del giudice (Metta) che decise la controversia. Il risarcimento è stato fissato finora in 750 milioni di euro. Berlusconi imprenditore non ha alcuna voglia di pagarlo e il Berlusconi premier anticipa che "il governo presenterà a breve un piano straordinario per lo smaltimento dei processi delle cause civili pendenti". Che di straordinario in quel piano ci sia soltanto l'arroganza di chi trasforma il potere pubblico in affare privato sembra comprenderlo il capogruppo di Futuro e Libertà, Italo Bocchino. Che avverte: "Siamo favorevoli a smaltire le cause civili pendenti ma non saremo mai d'accordo con una legge che tolga la possibilità a un solo cittadino o a una sola azienda di questo Paese di avere la giustizia che aspetta dal suo giudice civile".

La Grande Recita dello Statista Saggio e Paziente, al capitolo giustizia, ci offre il piccolo Berlusconi di sempre, prigioniero del suo conflitto d'interesse, ossessionato dalla difesa di se stesso e della sua roba, incapace di declinare le ragioni e le priorità del Paese. È la conferma che il nodo che soffoca la politica italiana continuerà a essere nei prossimi mesi la giustizia. Non la giustizia di tutti, la giustizia per tutti, ma la giustizia che riguarda da vicino lui, che preoccupa personalmente lui, che minaccia il di lui preziosissimo patrimonio. Il presidente del Consiglio avrebbe potuto volare alto, come centinaia di migliaia di cittadini gli chiedevano. Avrebbe potuto semplicemente dire: mi farò processare perché, credo, che la legge sia uguale per tutti. Questa volontà è la migliore garanzia della mia affidabilità di capo di governo che non vuole schiacciare con le proprie personali pene la vita degli italiani e l'interesse nazionale. Semplici parole, discorso e impegno da "paese normale" che Berlusconi non può dire né immaginare. È una impossibilità che, mentre ci ripropone le mediocri ragioni del suo impegno pubblico, lo consegna e lo imprigiona con tutta evidenza in uno stato di minorità politica. Ora  -  anatra zoppa  -  dovrà chiedere il consenso e la comprensione dell'odiato alleato, Gianfranco Fini, per ottenere con una correzione provvisoria del legittimo impedimento, e poi con una riforma della Costituzione, l'immunità di cui ha bisogno come dell'aria che respira. Con due esiti paradossali. Berlusconi, che ha preparato la trappola che doveva liquidare per sempre il "traditore", ora deve tenerlo in vita se non vuole perire con lui. Per di più, la manovra non garantisce il buon risultato: Fini potrebbe dargli corda fino a quando non staccherà la spina del governo perché sarà pronto con il nuovo partito alle elezioni.

(30 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/30/news/il_ricatto_sulla_giustizia-7567570/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La firma del Cavaliere
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 09:17:59 am
IL COMMENTO

La firma del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO

BERLUSCONI se ne sta zitto. Non si cura della crepa che s'allarga tra il governo e gli industriali, dopo la violenza subita dalla Marcegaglia per mano del giornale di famiglia. Tace con arroganza e "firma" l'aggressione. Lo comprende anche il comitato di presidenza della Confindustria. Che va per le spicce e sceglie con parole essenziali di non arretrare dinanzi all'imboscata e alle minacce del foglio del Cavaliere. Non teme nemmeno di denunciare il degrado di un'azione di governo che, incapace di assolvere alle sue responsabilità, immiserisce nel rancore e nella vendetta liberando una violenza che pretende di umiliare la libertà morale di chi rappresenta migliaia di imprese. Confindustria esprime solidarietà a Emma Marcegaglia, e ci mancherebbe.

È quasi un atto dovuto. Né dovuti né scontati sono gli argomenti che gli industriali propongono. Scrivono: "La libertà d'informazione è un bene prezioso che va difeso e tutelato, ma chiunque, a maggior ragione se ricopre ruoli di rappresentanza, ha il diritto e il dovere di esprimere giudizi e valutazioni, senza timori di azioni che possano lederne l'immagine e la moralità". Dunque, Confindustria ha un'opinione su quanto è accaduto al suo presidente. La Marcegaglia ha espresso dei giudizi e delle valutazioni che hanno messo in movimento la macchina del fango politico-informativa che progettava contro di lei un rito di degradazione, una bastonatura che avrebbe voluto condizionare un suo diritto e un suo dovere, influenzare le sue parole, limitare la sua indipendenza. Scrive il comitato di presidenza: "L'indipendenza è da sempre la forza del sistema Confindustria. Emma Marcegaglia, nel suo ruolo di presidente degli imprenditori italiani, è simbolo di questa indipendenza, che non può in alcun modo essere attaccata o messa in discussione". C'è dunque chi, con un'intimidazione, ha provato a vincolare l'autonomia della Marcegaglia e l'autodeterminazione della Confindustria. Chi?

Scrive Confindustria: "Stiamo assistendo a un imbarbarimento del clima politico, che oltre a creare sentimenti di disaffezione e disistima nei cittadini, non incoraggia le imprese a continuare a lottare per difendere ed accrescere il benessere che abbiamo conquistato". È dunque la barbarie della politica  -  e non la ferocia di un giornalismo degradato a killeraggio  -  che ispira per Confindustria i sicari che avrebbero dovuto friggere la Marcegaglia. Sembra di vedere qui un dito puntato contro il presidente del Consiglio. È Berlusconi che la presidente di Confindustria critica in settembre. È Berlusconi che tace oggi. Non una parola. Non un rigo per esprimere sostegno e apprezzamento a una donna che, quale che sia l'esito dell'inchiesta giudiziaria, ha già avuto modo di dire di aver patito come "un avvertimento, come un rischio reale e concreto per la sua persona e per la sua immagine", come un manifesto tentativo di "coartare la sua volontà" l'annuncio che la direzione del Giornale aveva raccolto  -  e si preparava a pubblicare  -  un dossier contro di lei. Non un rigo. Non una parola di Berlusconi per spegnere l'incendio. Il silenzio è assordante. È molto eloquente. Autorizza a immaginare che il capo del governo non abbia nessuna voglia di smentire o contraddire i suoi sicari e nessuna intenzione di venire incontro a chi lo ha criticato in nome delle imprese. È questo silenzio, si può credere, la chiave che consente di interpretare, da un lato, le parole severe del comitato di presidenza di Confindustria contro "l'imbarbarimento della politica" e, dall'altro, la decisione del giornale del Cavaliere di pubblicare oggi quatto pagine di guai giudiziari e liti familiari dei Marcegaglia. Con un cambio di direzione sorprendente.

Ieri, Feltri (direttore editoriale), Sallusti (direttore responsabile), Porro (vicedirettore) banalizzavano l'affare dandosi di gomito dinanzi alle telecamere. Non c'è stato mai alcun dossier! Nelle telefonate si "cazzeggiava"! È vero, si diceva: faremo male a Emma per settimane; i segugi sono già a Mantova; il super dossier giudiziario è già pronto. Ma non era vero niente! Era quel Porro che aveva voglia di ridere e "per una volta" c'è chi lo ha preso sul serio. Ora, cambio di scena. Sallusti dice che il dossier c'era e "venti carabinieri" non l'hanno trovato e sequestrato così ora si può pubblicare. Feltri fa sapere che ne farà, addirittura, quattro pagine: "C'è di tutto". In questo bailamme, un solo fatto appare chiaro. Berlusconi non intende muovere un dito per evitare l'ennesimo conflitto scatenato in suo nome e per suo conto. È un distacco che conferma come dietro le aggressioni del suo giornale ci sia sempre la sua volontà, il suo risentimento contro chi immagina lo abbia tradito o lo voglia tradire. Contro chi non crede (o non crede più) alle sue performance di illusionista, al suo mondo di immagini, umori, riflessi mentali, paure, odio del tutto artefatti come le emozioni dinanzi alla visione di un film. Esaltato da un rancore cieco, gonfio di un'inimicizia assoluta e irreparabile, il Cavaliere non riesce a scorgere nessuna differenza ormai tra la critica legittima e l'aggressione violenta, tra il disaccordo ragionato e la destabilizzazione.

Ogni dissenso diventa per lui "disegno eversivo", sfida per il legittimo governo del Paese, assedio alla sua persona. Chi rompe l'equilibrio del regime che governa  -  sia la moglie, un giornalista, un alleato, il presidente della Camera, il presidente degli industriali  -  deve essere trascinato nel fango e distrutto. È questa la missione di un non-giornalismo trasformato in killeraggio politico. È improprio parlare di libertà di stampa dinanzi a questa anomalia del tutto nuova anche per il giornalismo italiano da sempre prigioniero delle divisioni ideologiche e dell'asprezza del conflitto politico che hanno ostacolato lo sviluppo di una cultura professionale separata dalle opzioni politiche. Questo non-giornalismo è soltanto la vetrina della collera di Berlusconi. Si nutre di calunnia e di menzogna. Diffama e pretende di distruggere ogni reputazione. Contamina ogni rispettabilità. Umilia e ferisce. È artefice di un linciaggio violento, permanente e senza vincoli che si alimenta degli odi del padrone. È soltanto lo strumento di una lotta politica declinata come guerra civile. Una guerra dichiarata unilateralmente da Berlusconi contro tutti. Oggi anche contro la Marcegaglia e Confindustria.

(09 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/09/news/d_avanzo_marcegaglia-7878886/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO I signori dei dossier
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2010, 09:24:40 am
L'ANALISI

I signori dei dossier

di GIUSEPPE D'AVANZO

Bisogna ascoltare la vittima. Interrogata, Emma Marcegaglia dice: "Ho sicuramente percepito l'avvertimento come un rischio reale e concreto per la mia persona e per la mia immagine (...) Il Giornale era piccato sia per le mie dichiarazioni contro l'operato del governo sia, soprattutto, per il fatto che io stessa e Confindustria ci siamo sempre filati poco il Giornale (...) Non mi era mai capitato che un quotidiano tentasse di coartare la mia volontà con queste modalità". Le modalità ora sono note. La presidente di Confindustria in agosto critica in più occasioni il governo. La macchina del fango (l'abbiamo vista al lavoro e denunciata da un anno a questa parte) si prepara a travolgerla se non corregge il suo pensiero. La "sventurata" non si corregge.
Al Giornale della famiglia Berlusconi raccolgono dunque un dossier (così annuncia il vicedirettore) e si preparano all'abituale rito di degradazione a meno che non ci sia  -  ultima chance  -  un passo indietro della Marcegaglia, un pubblico ripensamento magari in un'intervista concessa al giornale che vuole umiliarla per "venti giorni di seguito".

Quel che conta è quella formula: "coartare la mia volontà", come dice la Marcegaglia. Sono parole che separano il diritto-dovere di informare e ogni possibile modello di giornalismo da un giornalismo degradato a minaccia e calunnia. Un pessimo, miserabile giornalismo che non informa, ma deforma; un alambicco venefico a uso politico che non si assegna l'incarico di rendere più consapevole la volontà dei propri lettori, ma di screditare i non conformi al potere, di condizionarne la volontà, le parole, le decisioni. Chi parla oggi di libertà di stampa, dinanzi agli "avvertimenti" contro la Marcegaglia, agli ascolti telefonici subiti dal direttore e vicedirettore del Giornale, alle perquisizioni in redazione, nasconde il nodo che va sciolto. In gioco non è la libertà dell'informazione, ma semplicemente e più drammaticamente la libertà dei cittadini spaventata, aggredita dall'informazione controllata direttamente dal potere politico e diventata il manganello che disfa chi dissente, la sua vita, la sua reputazione, il suo futuro. La questione trasferita nel terreno giuridico trova un'etichetta: violenza privata, una fattispecie che appare inadeguata ai comportamenti spietati e distruttivi che indica, alla violenza che designa. E comunque è di questo che discutiamo: di "un delitto contro la libertà morale, intesa come libertà dell'individuo di determinarsi spontaneamente e liberamente".

Ancora un volta, non tiene conto discutere dei sicari, di chi materialmente si è incaricato e s'incarica del lavoro sporco (sono pagati per farlo, lo fanno: che dio li perdoni). È più rilevante ricordare quanti delitti contro la libertà morale sono stati commessi in quest'ultimo anno; chi li ha commissionati e perché; quali sono le conseguenze per  la nostra libertà, per la nostra democrazia. Bisogna indicare, allora, il mandante perché un responsabile di questo metodo  -  che ha trasformato la politica in scandalo, il giornalismo in killeraggio, l'uso di informazioni distruttive  in strategia per prevalere nella contesa politica punendo i dissidenti  -  c'è. Ha un nome. È Silvio Berlusconi.

Le sue impronte digitali sono dovunque. A cominciare dall'inizio di questa storia. Luglio 2009. Berlusconi non è messo bene. Scombussolato dalla commistione tra boudoir e selezione della classe dirigente politica, travolto da una minorenne che confessa come e quando "Papi" le ha promesso o la ribalta dello spettacolo televisivo o un seggio in Parlamento come custode della volontà del popolo sovrano,  il Cavaliere programma una "campagna di autunno". Promette che replicherà "colpo su colpo". Decide di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti, tutte le articolazioni del multiforme potere che si è assicurato con un maestoso conflitto d'interesse. Stila una lista di nemici. Vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi dipendenti che gli appaiono mosci, deboli. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. Li sceglie. Li nomina. È il padrone di un'industria di notizie di carta e di immagini che muove come vuole. È anche il presidente del Consiglio e governa le burocrazie della sicurezza (già abbiamo visto in un'altra stagione i suoi servizi segreti pianificare la demolizione dei "nemici in toga"). La sovrapposizione dei tre poteri (politico, economico, mediatico) può essere letale. Deve esserlo. Chiede e raccoglie nelle sue mani le informazioni  -  vere, false, mezze vere, mezze false, sudice, fresche o ammuffite  -  che possano tornare utili per il programma di vendetta e punizione che ha preparato. Quelle informazioni, opportunamente manipolate, sono rilanciate dai giornali del premier nel silenzio dei telegiornali del servizio pubblico che controlla, nell'acquiescenza di gruppi editoriali docili o intimiditi. Questo è il metodo.

Gli avversari, autentici o immaginati, cominciano a cadere come birilli. La prima a farne le spese è Veronica Lario, moglie ribelle. La ritraggono a seno nudo. Le attribuiscono un amante. È un'adultera. Segue il direttore dell'Avvenire, Dino Boffo. È colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Il sicario del Giornale lo aggredisce con una falsa informativa giudiziaria. Gli grida contro: sei un omosessuale. Quel delitto avviene sotto gli occhi di tutti. Anime fioche e prudenti in cerca di un alibi per la loro arrendevolezza fingono di non vedere e tacciono. Il silenzio colpevole e complice consente a Berlusconi di abbandonare ogni scrupolo, di dispiegare contro i suoi avversari le pratiche e le tecniche di un potere che rinuncia ad ogni legittimità per mostrarsi come pura violenza. Il dispositivo liberato di ogni impaccio, di ogni decenza o scrupolo democratico, dopo Boffo il giornalista, investe Mesiano il giudice. Lo spiano e lo calunniano le telecamere di Canale5. Tocca poi al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un civile dissenso politico. Lo minacciano di "uno scandalo a luci rosse" se "non rientra nei ranghi". Il presidente della Camera non rientra nei ranghi. Al contrario, spiega in pubblico con più decisione le ragioni del suo dissenso. Gli assestano la lunga bastonatura dell'appartamento di Montecarlo in affitto al cognato. Contro questo avvilimento della politica e del governo alza la voce Emma Marcegaglia. Contro di lei si prepara la furia dei sicari...

Sempre dietro queste manovre ricattatorie appare Berlusconi. È lì in prima persona. Lo si scorge ancora  -  se ricordate  -   nell'affare Marrazzo. È al Cavaliere che viene consegnato il video del ricatto. Invita il governatore a comprarselo non a denunciare i ricattatori. Trattiene le immagini per sé: avrebbero potuto tornare utili in campagna elettorale. Si avvista la presenza del Cavaliere nel dossier che, dentro il Popolo della libertà, preparano per schiacciare Caldoro, governatore della Campania. Gli viene presentato quel documento. Il Cavaliere non se ne scandalizza. E d'altronde, per andare indietro di qualche anno, riceve nelle sue mani i nastri delle intercettazioni tra Fassino e Consorte. Li ascolta ad Arcore e a chi glieli consegna il premier dirà:  "Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo"? L'utilità politica di quell'intercettazione è così evidente che il Giornale di famiglia  -  chi altro?  -  la pubblicherà sette  giorni dopo.

Se, dunque, si rimettono in sesto i ricordi, la violenza inflitta a Emma Marcegaglia per "coartare la sua volontà" sorprende soltanto gli ipocriti che non vogliono vedere come una macchina del fango dove si concentrano potere politico, economico e mediatico mette in pericolo la nostra libertà. Quel che ci viene periodicamente rivelato (Lario, Boffo, Mesiano, Marrazzo, Fassino, Caldoro, Fini, Marcegaglia) è  -  come ci è parso chiaro da tempo  -  un sistema di dominio che spaventa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. È una tecnica di intimidazione che minaccia la libertà di chi dissente o di chi si oppone all'uomo che governa. È, più semplicemente, un attentato alla libertà.

(08 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/08/news/dossier_d_avanzo-7838634/?ref=HREA-1


Titolo: G. D'AVANZO Così colpisce la fabbrica dei dossier al servizio del Cavaliere
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2010, 06:19:54 pm
IL CASO

Così colpisce la fabbrica dei dossier al servizio del Cavaliere

Veleni e disinformazione diventano verità. Dal caso del giudice Vaudano, a Igor Marini e Telekom Serbia. Dagli avvertimenti a Marrazzo a Boffo, Fini e Marcegaglia. Il sistema usato è quello della "opposition research", lo stesso confessato dall'americano Stephen Marks in un libro dal titolo "Confessioni di un killer politico"


di GIUSEPPE D'AVANZO

Ci si può anche svagare e chiamare il direttore del giornale di Silvio Berlusconi Brighella. Brighella, come la maschera della commedia dell'arte che nasce nella Bergamo alta: un attaccabrighe, un briccone sempre disponibile "a dirigere gli imbrogli compiuti in scena, se il padrone lo ricompensa bene". Un bugiardo che di se stesso può scrivere senza arrossire: "Sono insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico. Mi manca la stoffa del cortigiano". La canzonatura finirebbe per nascondere un meccanismo, un paradigma che trova nell'uomo che dirige il giornale del Capo soltanto un protagonista di secondo ordine e nel lavoro sporco, che accetta di fare, solo uno dei segmenti di un dispositivo di potere. Tuttavia. Da qui è necessario muovere. Dal mestiere del direttore del giornale di Berlusconi in quanto la barbarie italiana, che trasforma in politica la compravendita del voto e quindi la corruzione di deputati e senatori, definisce informazione  -  e non violenza o abuso di potere  -  la torsione della volontà, la sopraffazione morale di chi dissente dal Capo attraverso un'aggressione spietata, distruttiva, brutale che macina come verità fattoidi, mezzi fatti, fatti storti, dicerie poliziesche, irrilevanti circostanze, falsi indiscutibili. Un'atrocità che pretende di restare impunita o quanto meno tollerata perché, appunto, giornalismo. Ma, quella roba lì, la si può dire informazione? È un giornalista, il direttore del giornale di Silvio Berlusconi? Il suo mestiere è il giornalismo?


Vediamolo al lavoro nel "caso Boffo", quindi nel momento inaugurale in cui egli mette a punto quel che, con prepotente mafiosità, gli uomini vicini al capo del governo definiscono ora "il metodo Boffo".
Sappiamo come sono andate le cose. Dino Boffo critica, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare il capo del governo. Deve avere una lezione che dovrà distruggerlo senza torcergli un capello. Il colpo di pistola che liquida il direttore dell'Avvenire è la prima pagina del giornale di Berlusconi. Sarà presentato così: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell'accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione". Le prove dell'omosessualità di Boffo? Non ci sono. L'unico riscontro proposto - un foglietto presentato come "la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore" - è uno strepitoso falso. In un Paese non barbarico il giornalista autore di quello "sconclusionato e sgrammaticato distillato di falsità e puro veleno costruito a tavolino per diffamare", come scrive Boffo, avrebbe avuto qualche rogna. Forse avrebbe visto irrimediabilmente distrutta la sua reputazione perché, caduto l'Impero sovietico, la calunnia consapevole non può essere definita giornalismo. Non accade nulla. Anche i petulanti "liberali" - intimoriti o complici - tacciono, ieri come oggi. Si rifiutano di prendere atto che in quel momento - agosto 2009 - si inaugura la metamorfosi di un minaccioso dispositivo politico che già si era esercitato - con un altro circuito, con altri uomini - tra il 2001 e il 2006.

Nella XIV legislatura, durante il II e il III governo Berlusconi s'era già visto all'opera un network di potere occulto e trasversale concentrato nel lavoro di disinformazione e specializzato in operazioni di discredito. Un "apparato" legale/clandestino scandaloso, ma del tutto "visibile". Era il frutto della connessione abusiva dello spionaggio militare (il Sismi di Nicolò Pollari) con diverse branche dell'investigazione, soprattutto l'intelligence business della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove è esistita una "control room" e una "struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: poteva entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato". Ricordiamo quel che accadde (ormai agli atti e documentato). Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, questa piattaforma spionistica pianifica operazioni - "anche cruente" - contro i presunti "nemici" del neopresidente del Consiglio. Ne viene stilato un elenco. Si raccolgono dossier. Quando è necessario si distribuiscono nelle redazioni amiche, controllate o influenzate dal potere del Capo e trasformate in officine dei veleni. Per dire, il giudice Mario Vaudano è un "nemico". Pochi lo conoscono, ma ha avuto un ruolo fondamentale nell'inchiesta Mani Pulite. Era in quegli anni al ministero di Giustizia e si occupava delle rogatorie estere richieste dal pool di Milano. Se ne occupava con grandi capacità e la sua efficienza lo trasforma in una "bestia nera" da annientare. Tanto più che il giudice - incauto - vince un concorso per l'Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF: protegge gli interessi finanziari dell'Unione europea, contrastando la frode, la corruzione, ogni altra forma di attività illegale). La nomina di Mauro Vaudano "viene bloccata personalmente da Berlusconi" (Corriere della sera, 11 aprile 2002) mentre si mette in moto il dispositivo. Un ufficio riservato del Sismi spia il bersaglio (anche la moglie francese del giudice, Anne Crenier, giudice anche lei, scoprirà e denuncerà di essere stata spiata dal Sismi con intrusioni nella sua posta elettronica). Il fango raccolto sarà depositato nella redazione del giornale di Berlusconi. Campagna stampa. Intervento del ministro di giustizia che alla fine avvierà contro il povero giudice un'inchiesta disciplinare.

Qui non importa capire se queste mosse sono configurabili come reato. È necessario comprenderne il movimento, isolare i protagonisti, afferrare i modi e l'azione di un potere micidiale - politico, economico, mediatico - capace di stritolare chiunque. È un potere che si dispiega in quegli anni, come oggi, contro l'opposizione politica, contro uomini e istituzioni dello Stato rispettose del proprio ufficio pubblico e non piegate al comando politico, contro il giornalismo non conforme. Una commissione d'inchiesta parlamentare - Telekom Serbia - diventa fabbrica di miasmi. Con lo stesso canone. Si scova un figuro disposto a non andare troppo per il sottile. Si chiama Igor Marini. Lo presentano come consulenze finanziario, come conte, è un facchino dell'ortomercato di Brescia. Lo si consegna ai commissari e quindi alla stampa amica. Quello diventa un fiume in piena. Rivelazioni clamorose accusano l'intero vertice dell'opposizione (Prodi, Fassino, Dini, Veltroni, Rutelli, Mastella). Il giornale del Capo dedicherà trentadue (32) prime pagine alle frottole di quel tipo oggi in galera per calunnia. Alla vigilia delle elezioni 2006 la consueta macchina denigratoria si muove ancora contro Romano Prodi, leader dell'opposizione. L'ufficio riservato del Sismi prepara un falso documento. Lo si accusa di aver sottoscritto accordi tra Unione europea e Stati Uniti che legittimano i sequestri illegali della Cia come il rapimento in Italia di Abu Omar. Il dossier farlocco sarà pubblicato su Libero, direttore Vittorio Feltri, dal suo vice Renato Farina, ingaggiato e pagato dal Sismi, reo confesso ("... ammetto i rapporti intrattenuti con uomini del Sismi in qualità di informatore, ammetto di avere accettato rimborsi dal Sismi, ammetto di aver intervistato i Pm Spataro e Pomarici per carpire informazioni da trasmettere al Sismi..."), condannato a sei mesi di reclusione per favoreggiamento, radiato dall'Ordine dei giornalisti, oggi parlamentare del Popolo della libertà.

In questi casi scorgiamo un antagonista che irrita o inquieta il Capo, l'attività storta di un istituzione, il ruolo decisivo dell'informazione controllata dal Capo. Quel che accade a Vaudano e Prodi sono soltanto due campioni di un catalogo che, nella XV legislatura - questa - ha trovato altri protagonisti e un nuovo schema di lavoro a partire da una solida convinzione: la politica è del tutto mediatizzata, ogni azione politica si svolge all'interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei media. È sufficiente allora fabbricare e diffondere messaggi che distorcono i fatti e inducono alla disinformazione, fare dello scandalo la più autentica lotta per il potere simbolico, giocare in quel perimetro la reputazione dei competitori, degli antagonisti, dei critici, soffocare la fiducia che riscuotono, e il gioco è fatto. Rien ne va plus. È un congegno che impone al giornalismo di essere più rigoroso, più lucido, più consapevole.

Altra storia se si parla del Brighella che dirige il giornale del capo del governo. Bisogna coglierne il ruolo, nel congegno, e definirne il lavoro. Vediamo il suo modus operandi. Individua il nemico del Capo da colpire, magari se lo lascia suggerire anche se non gli "manca la stoffa del cortigiano". Raccoglie tutte le informazioni lesive che si possono reperire, fabbricare e distorcere intorno a un fatto isolato dal suo contesto. È una pratica che ha un nome. Non è una pratica giornalistica. È, negli Stati Uniti, la componente chiave di ogni campagna politica. Si chiama opposition research. Per farla bisogna "scavare nel fango", come racconta uno dei maestri di questo triste mestiere, Stephen Marks. Colpito da una certa stanchezza morale e personale, Marks ha rivelato le sue tattiche e quelle della sua professione in un libro intitolato "Confessioni di un Killer Politico", Confessions of Political Hitman. È abbastanza semplice il lavoro, in fondo. I consulenti politici del Candidato indicano chi sono gli uomini più pericolosi per il suo successo. I sondaggisti individuano quali sono le notizie che possono maggiormente danneggiare il politico diventato target. Ha inizio la ricerca. Documenti d'archivio, dichiarazioni alla stampa, episodi biografici, investimenti finanziari, interessi finanziari, dichiarazioni di redditi, proprietà e donazioni elettorali. Insomma, una ricostruzione della vita privata e pubblica del politico preso di mira. A questo punto le informazioni raccolte selezionate tra le più controproducenti per l'avversario da distruggere vengono trasformate in messaggi ai media e in informazioni lasciate trapelare ai giornalisti. Questo è il lavoro del "killer politico" e bisognerà dire che, anche se nello stesso ramo dell'assassinio politico, l'impegno del direttore del giornale di Berlusconi è più comodo. Non ha bisogno di fare molte ricerche. Se gli occorrono documenti qualche signore, per ingraziarsi il Capo, glieli procura. In alcuni casi, è lo stesso Capo che si dà da fare (è accaduto con i nastri delle intercettazioni di Fassino, consegnati ad Arcore e da lui smistati al giornale di famiglia; è accaduto con il video di Marrazzo).

L'informazione è, in questo caso, politica senza alcuna mediazione e potere senza alcuna autonomia perché l'una e le altre sono nelle mani del Capo. Quindi, se non ci sono in giro carte autentiche, si possono sempre fabbricare come nel "caso Boffo". Se non si vuole correre questo rischio, si può sempre ripubblicare quel che è stato già pubblicato, metterci su un bel titolo disonorevole e ripeterlo per due settimane. Colpisci duro, qualcosa si romperà. Per sempre. Questa è la regola. Chi colpire? No problem. Sa da solo chi sono i "nemici" del suo Capo. Quel Fini, ad esempio. Subito lo definisce "il Signor Dissidente". È il dissenso che è stato chiamato a punire. Lo sa riconoscere nella sua fase aurorale. Scrive: "Il Signor Dissidente non è stato zitto. Anzi, ha parlato troppo (...) ha ribadito le critiche al governo e al suo capo, la sua contrarietà alla politica sull'immigrazione, alle posizioni della Lega in proposito, alle leggi sulle questioni etiche". Il Signor Dissidente parla? Deve essere punito. Come? Il direttore annuncia: "È sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme". (Il Giornale,14 settembre 2009).

Il "giornalismo" di Vittorio Feltri è questo: minaccia, violenza, abuso di potere. Non importa sapere qui se è anche un reato. Dopo il character assassination in serie di questi dodici mesi, ne sappiamo abbastanza per giudicare. Ora non è rilevante conoscere se a questo "assassino politico", dunque a un professionista di una "macchina politica" e non informativa, si deve riconoscere lo status di giornalista. Non glielo si può riconoscere. È un political hitman. È un altro mestiere. Non è un giornalista. Non è lui il problema. Il problema è il suo Capo. Come non è in discussione la libertà di informare o la libertà di fare un giornalismo d'inchiesta. Quel che si discute è la minaccia che precede il lavoro d'inchiesta; è un giornalismo, un finto giornalismo agitato, come nel caso di Emma Marcegaglia, quasi fosse un manganello per fare piegare il capo al malcapitato. Quel che è importante adesso sapere è quanti sono nella vita pubblica italiana coloro che, ricattati dal Capo con questi metodi, tacciono? O spaventati da questi metodi tacceranno? Con quale rassegnazione si potrà accettare un congegno che consegna al capo del governo la reputazione di chiunque, come una sovranità sulle nostre parole, pensieri, decisioni?
 

(11 ottobre 2010)
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/11/news/dossier_d_avanzo-7933677/?ref=HREC1-6


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Sulla riforma della giustizia la partita finale del governo
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2010, 03:43:13 pm
L'ANALISI

Sulla riforma della giustizia la partita finale del governo

di GIUSEPPE D'AVANZO


Frastuono e molti strepiti. Previsti, utilissimi per la congiuntura politica, come vedremo, ma non troppo ragionevoli. Se i corifei del Cavaliere che oggi fanno confusione avessero chiesto all'avvocato del premier Nicolò Ghedini se dietro la convocazione di Silvio Berlusconi in procura a Roma ci sia una manovra politica, un accanimento giudiziario, una trappola mediatica probabilmente si sarebbero sentiti rispondere: no, ragazzi, calma, è più o meno un atto scontato che ci aspettavamo da quando abbiamo saputo a Milano che le indagini sui diritti tv di Mediaset per gli anni 2003 e 2004 erano state trasferite nella Capitale per competenza: in quei due anni, infatti, la società sotto inchiesta, "Reti televisive italiane" controllata Mediaset al 100%, aveva sede legale a Roma.

"Era proprio necessario un invito a comparire?", avrebbero potuto allora chiedere gli sdegnati (a comando) turiferari del Cavaliere. Ghedini, se in vena di schiettezza, avrebbe saputo spiegare loro che l'invito a comparire non è altro che un espediente dei pubblici ministeri per guadagnare un po' di tempo.
Sapete, avrebbe potuto dire l'avvocato, quei poverini si sono trovati sul gobbo un processo più o meno già morto perché la prescrizione - che meno male ci siamo accorciato con una legge ad hoc - lo avrebbe cancellato già la prossima settimana e allora per stiracchiare i margini quelli hanno firmato l'invito a comparire. Il provvedimento interrompe i tempi della prescrizione e il rimedio potrebbe concedere ai pubblici ministeri più o meno un altro anno e mezzo.

Naturalmente, nessuna assennata decifrazione del provvedimento della procura di Roma avrebbe fermato gli schiamazzi perché l'invito a comparire precipitato nel conflitto politico consente al Cavaliere, da un lato, di far dimenticare che cosa gli viene contestato nel processo e, dall'altro, gli permette di rilanciare l'offensiva contro la magistratura, contro la Costituzione, contro gli organi di controllo come la Consulta. In effetti, come sempre i suoi processi, anche l'inchiesta sui diritti tv di Mediaset potrebbe mostrare con quali pratiche sono stati costruiti il successo e la fortuna di Silvio Berlusconi. Il meccanismo ipotizzato dal pubblico ministero è simile a quello del processo in cui Berlusconi è imputato a Milano di frode fiscale per i fondi neri creati da Mediaset attraverso la compravendita dei diritti Tv e cinematografici. Mediaset, con la Rti, rinuncia a trattare i diritti televisivi direttamente con le majors americane, come fino agli anni '80 faceva personalmente Silvio Berlusconi, e affida l'incarico a un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama. Una bizzarria, in apparenza. Perché pagare a un mediatore una provvigione quando un rapporto diretto con le majors oltre che più efficace sarebbe stato più economico? Semplice, sostiene l'accusa: per "fare la cresta".

Le cose andavano così, per i pubblici ministeri: Mediaset non compra direttamente, ma da quell'Agrama. Acquista con società offshore (Century One e Universal One e altre come la Wiltshire Trading e la Harmony Gold). A loro volta queste cedono i diritti ad altre società gemelle. Il prezzo, a ogni cambio di mano, si gonfia. La differenza tra il valore reale del diritto di sfruttamento televisivo del film e quello pagato in Italia, alla fine di quella catena di Sant'Antonio, consente a Mediaset di mettere da parte un bel gruzzolo al riparo del fisco sottraendo risorse alla società quotata in borsa e dunque alla disponibilità degli azionisti. Mediaset nega tutto con collera: "I diritti cinematografici sono stati acquistati a prezzi di mercato e tutti i bilanci e le dichiarazioni fiscali della società sono stati redatti nella più rigorosa osservanza dei criteri di trasparenza e delle norme di legge".

È una sicurezza che dovrebbe convincere Silvio Berlusconi ad affrontare il processo, come un cittadino tra i cittadini, e non evitarlo come l'inferno, la peste, una maledizione, ma - si sa - da quell'orecchio il Cavaliere è sordo (io, unto dal Signore, uguale agli altri?) e diventa muto come un pesce quando è chiamato a spiegare i metodi del suo lavoro. Così c'è da scommettere che il 26 ottobre, giorno della convocazione in procura, il premier non si presenterà dinanzi ai pubblici ministeri. Che comunque con la loro mossa dovuta gli consentono di rilanciare il piano annunciato a Bonn il 10 dicembre 2009. Ricordate? Disse Berlusconi: "Oggi in Italia la sovranità è passata dal Parlamento al partito dei giudici. Dobbiamo rimediare. La Costituzione italiana dice che la sovranità appartiene al popolo, è il popolo che vota ed è il Parlamento che fa le leggi, ma se queste leggi non piacciono al partito dei giudici della sinistra questo si rivolge alla Corte Costituzionale che ha undici componenti su quindici che appartengono alla sinistra. Di questi, cinque sono di sinistra in quanto di nomina del presidente della Repubblica e noi abbiamo avuto purtroppo tre presidenti della Repubblica consecutivi tutti di sinistra. Quindi da organo di garanzia la Corte costituzionale si è trasformata in organo politico che abroga le leggi decise dal Parlamento. Quindi la sovranità oggi in Italia è passata dal Parlamento a partito dei giudici. Una situazione transitoria perché stiamo lavorando per cambiarla, anche attraverso una riforma della Costituzione".

Detto fatto perché Berlusconi, gran bugiardo, quando parla di giustizia è sempre sincero e fa sempre quello che dice. Così è già pronto il progetto di rendere "qualificata" la maggioranza nella Corte Costituzionale per bocciare o promuovere una legge. Servirà il sì o il no di due terzi dei giudici, 10 su 15. Il nuovo ordine, mostrato e proposto già ai leader della maggioranza, è stato per il momento accantonato nelle bozze che saranno sottoposte al consiglio dei ministri la prossima settimana. Rimane lì come una minaccia, che può essere sempre riproposta, e soprattutto come segnale della volontà di Silvio Berlusconi di passare da una Costituzione che prevede una democrazia liberale basata sulla divisione dei poteri e sui controlli reciproci a un'altra incardinata sull'investitura popolare-elettorale che rende onnipotente colui che l'ottiene. Un sistema costituzionale nel quale l'investitura popolare ha la meglio su ogni limite e controllo con il rischio, per ripetere qui una preoccupazione di Gustavo Zagrebelsky, di precipitare "dallo stato di diritto allo stato della forza", dalla democrazia liberale a "un dispotismo in forma democratica" perché è autoritaria una democrazia dove il governante non sta sotto la legge (lex facit regem), ma è il governante a farsi la legge su misura (rex facit legem). Sarà interessante capire se Gianfranco Fini seguirà il Cavaliere lungo questa deriva. Se ne deve dubitare. Già dopo l'esternazione di Bonn, lo lasciò solo. Disse il presidente della Camera: "Le parole di Silvio Berlusconi, secondo cui la Consulta sarebbe un organo politico, non possono essere condivise" perché "è certamente vero che la "sovranità appartiene al popolo", ma il presidente del Consiglio non può dimenticare che esso "la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione" (art. 1). Ed è altresì incontestabile che gli articoli 134 e 136 indicano chiaramente il ruolo di garanzia esercitato dalla Corte Costituzionale".

Sono parole che ripetute oggi possono mandare a gambe all'aria il progetto di riforma costituzionale della giustizia che separerà le carriere dei magistrati; spaccherà in due il Consiglio superiore della magistratura; sottrarrà la polizia giudiziaria al controllo del pubblico ministero; introdurrà la responsabilità civile delle toghe e l'inappellabilità delle sentenze se l'imputato è assolto. Intorno a questa riforma punitiva dei giudici - più che migliorativa della giustizia - si giocherà e in tempi brevi la partita finale e il destino della legislatura. Come già è stato detto, sarà sulla giustizia che cadrà il governo e l'invito a comparire per il Cavaliere, anche se espediente processuale, è soltanto l'avvenimento che accelera i tempi della resa dei conti dentro la maggioranza.

(16 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/16/news/d_avanzo_berlusconi-8109033/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il forziere di famiglia del Cavaliere
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2010, 10:02:49 am
L'analisi

Chi c'è dietro quella banca?

Il forziere di famiglia del Cavaliere

Gli intrecci della Banca Arner.

Di Berlusconi il "conto numero 1". Tra i clienti Doris e i Previti. Nella sede milanese anche i conti delle holding che fanno capo ai figli Marina e Piersilvio. L'istituto è sotto inchiesta per riciclaggio, e Bankitalia ne certifica l'opacità

di GIUSEPPE D'AVANZO


Lo spin è il movimento rotatorio, l'avvitamento o l'effetto ricurvo di un palla da gioco. Lo spinning è la procedura con cui il politico previene o contrasta la diffusione di informazioni imbarazzanti, è la tecnica che plasma le mezze verità per costruire storie, finzioni opportunamente orientate. Le procedure diversive sono tipiche dello spinning.

Se sei in imbarazzo su una questione, afferrane un'altra. Se non ce l'hai sotto mano, creala, inventala e parla di quello. Spiega chi studia e analizza i discorsi politici: "L'atteggiamento sensato di fronte alla strategia diversiva consiste nel riportare l'attenzione sulla questione principale: quali sono le domande a cui non è stata data risposta? Qual è la risposta e perché non viene fornita? Contro la diversione sistematica c'è un solo strumento: l'iterazione, il riportare insistentemente l'attenzione sul punto principale, sui contenuti in discussione, e sul vero e sul falso che lo riguarda" (Franca D'Agostini, Verità avvelenata, Bollati Boringhieri).

Sono utili queste definizioni per comprendere l'iniziativa di Nicolò Ghedini contro Report e apprezzare il lavoro iterativo di Milena Gabanelli perché non è la prima volta che Report affronta le opacità della banca Arner e il suo intreccio con gli affari, i soldi e gli uomini di Silvio Berlusconi. Se l'avvocato del Capo chiede un intervento contro una trasmissione Rai si finirà per parlare di Potere e di Rai e non di quel che ha rivelato l'inchiesta televisiva. Che al contrario è la questione più importante (l'altra, pur rilevante, ne è soltanto un corollario). Cerchiamo di capire di che cosa si tratta.

Nella sede milanese della banca svizzera Arner la famiglia Berlusconi ha quattro conti correnti per un totale di 60 milioni di euro, di cui uno intestato direttamente al presidente del Consiglio per dieci milioni (è il conto n. 1 della banca) e altri tre per 50 milioni a capo delle holding italiane Seconda, Ottava e Quinta, amministrate dai figli Marina e Piersilvio. Tra i clienti della banca ci sono molti nomi dello stato maggiore del Cavaliere: Ennio Doris, fondatore del gruppo Mediolanum; la famiglia dell'avvocato Cesare Previti, condannato in via definitiva per i casi Imi-Sir e Lodo Mondadori; Salvatore Sciascia, direttore dei servizi fiscali del gruppo Fininvest condannato in via definitiva dalla Cassazione a 2 anni e 6 mesi per la corruzione di alcuni ufficiali della Guardia di Finanza. Alla Arner vengono gestite le società anonime Centocinquantacinque e Karsira Holding, che a cascata controllano due società amministrate dalla famiglia di Giovanni Acampora anche lui condannato per il Lodo Mondadori. Alla Arner vengono gestiti i soldi della Flat Point Development Limited, una immobiliare con proprietari misteriosi che sta costruendo ville ad Antigua per Silvio Berlusconi. Infine, last but non least, la Arner ha avuto tra i suoi fondatori Paolo Del Bue che, nella sentenza che ha condannato David Mills, è definito l'amministratore di società (Century One, Universal One) riconducibili "direttamente a Silvio Berlusconi".

La presenza di Berlusconi, dei figli, degli amministratori del patrimonio personale del Capo, degli amici del cerchio strettissimo - come Previti, Sciascia, Acampora: uomini che si immolano per salvare il Capo - lasciano credere che la Banca Arner sia nel cuore del Cavaliere. Così vicina alla sua attenzione che alcuni arrivano a sussurrare che Arner sia del Cavaliere. La questione merita una domanda diretta: signor presidente, la banca Arner è sua? L'interrogativo che, un anno fa, Milena Gabanelli propone al premier è però un altro. Report, nel novembre del 2009, dà conto delle opacità della Arner e illustra per quali ragioni e circostanze la banca vicina a Berlusconi è sotto il torchio dagli ispettori della vigilanza della Banca d'Italia che vi rintracciano "gravi irregolarità a causa delle carenze e delle violazioni in materia di contrasto del riciclaggio".

L'inchiesta di Report in quell'occasione si chiude con un appello, diciamo così. Milena Gabanelli si chiede "se non sarebbe opportuno, per il premier, prendere i suoi 60 milioni di euro, spostarli dalla banca Arner e depositarli in un'altra banca italiana un po' più trasparente". L'appello cade nel vuoto. E la Gabanelli ora ci ritorna su. Questa volta scopre che il 20 settembre 2007 Berlusconi ha comprato quattro acri di terra da una società di Antigua, la Flat Point Development, impegnata a costruire sull'isola caraibica ville e villoni su un'area di 160 ettari. Report spiega che di questa Flat non si conoscono i proprietari effettivi. Sono protetti da un sistema di scatole cinesi che sfocia a Curacao, Antille olandesi, e da un rosario di prestanomi e fiduciari con nomi italiani. Legittimo quindi, anche in questa occasione, la seconda domanda che Milena Gabanelli pone a Silvio Berlusconi: "I 22 milioni di euro portati dal nostro premier ad Antigua corrispondono al reale valore di mercato di ciò che ha acquistato? E a chi li ha versati e chi è il proprietario di mezza isola? Un imprenditore catanese? Lui medesimo? Un'opacità che il presidente del Consiglio avrebbe il dovere di dissipare".

Siamo allora al nocciolo della questione. Anche in questo caso, lo si può riassumere con qualche domanda. Chi è il proprietario effettivo della Banca Arner? E' di Silvio Berlusconi? Se non lo è, il Cavaliere ne conosce l'identità? Se Silvio Berlusconi è soltanto uno dei correntisti - anche se il numero 1 - quali sono i motivi che lo spingono a utilizzare un istituto di credito di pessima reputazione, sotto inchiesta per riciclaggio, cosi oscuro da convincere Bankitalia a sostenere "l'impossibilità di accertare i beneficiari economici di alcune società che hanno il conto alla Arner Italia" e, fra queste, la Flat Point Development Limited di Antigua? A chi Berlusconi ha versato il denaro per acquistare i terreni di Antigua? Conosce i proprietari della Flat Point di cui i pubblici ministeri di Milano segnalano "l'assoluta opacità dell'effettivo beneficiario" e rilevano le "causali poco verosimili" di "trasferimenti di somme all'estero" tra Flat Point, la filiale italiana di Arner Bank (che ha due dirigenti indagati per riciclaggio) e poi la Arner svizzera? Può Berlusconi smentire pubblicamente che la Flat Point Development Limited sia una sua proprietà? Ecco queste sono le questioni imbarazzanti che hanno convinto Ghedini a giocare una palla ad effetto per parlar d'altro.

(18 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/18/news/quella_villa_d_avanzo-8169812/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il privilegio dell'Eletto
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2010, 04:59:13 pm
L'ANALISI

Il privilegio dell'Eletto

di GIUSEPPE D'AVANZO

È un'imprudenza credere che l'emendamento alla "legge Alfano" designi soltanto l'impunità del presidente del Consiglio.
C'è in questa mossa una conferma avvilente, certo, ma anche un'aggressione alla democrazia costituzionale e alla repubblica parlamentare così come, fin qui, le abbiamo conosciute. È  azzardato minimizzare. Per orientarci, cominciamo dalla conferma. Anzi dalle conferme.

L'emendamento, approvato dalla commissione Affari Costituzionali del Senato, decide che potranno essere sospesi i processi nei confronti di presidente della Repubblica e presidente del Consiglio "anche relativi a fatti antecedenti l'assunzione della carica". Lo sappiamo.
C'è un solo soggetto interessato alla questione. Silvio Berlusconi. È imputato per corruzione di un testimone, frode fiscale, appropriazione indebita in tre processi che, se celebrati, lo vedrebbero a mal partito: nel processo per la corruzione dell'avvocato David Mills si può dire che sia addirittura già fritto. Conferme, dunque. Il Cavaliere ha deciso di diventare leader politico per evitare i controlli alle sue condotte spregiudicate ("La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, noi oggi saremo sotto un ponte o in galera", Fedele Confalonieri, Repubblica, 25 giugno 2000). Ci ha messo qualche anno. È stato arrugginito rovinosamente il processo; sono stati cancellati o abbuonati reati; sono stati ristretti i tempi della prescrizione. Le manipolazioni della legge e i provvedimenti ad personam hanno ottenuto il loro scopo: Berlusconi si è salvato per il rotto della cuffia ("intervenuta prescrizione") da processi che hanno accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, il suo coinvolgimento diretto in reati penali ("Le leggi ad personam? Silvio le fa per proteggersi. Se non fai le leggi ad personam vai dentro", Confalonieri, La Stampa, 2 novembre 2009).

Ancora una conferma la si trova nello slittamento di senso che Berlusconi applica alla parola "giustizia" e all'intenzione di volerla riformare. Dice "giustizia" e non pensa alla giustizia di tutti, la giustizia per tutti, ma alla giustizia che riguarda da vicino lui, che preoccupa personalmente lui, che minaccia la sua roba. Dice "riforma della giustizia" e prepara un'ipocrisia anestetica che gli consentirà di lasciar credere che è al lavoro per noi. Come accade in queste ore. Manda in giro il ministro di Giustizia a presentare una riforma della giustizia che non si farà mai, mentre con l'emendamento approvato al Senato cura i suoi personali guai. Nessuna sorpresa. È una conferma. Berlusconi è potere statale che, senza scrupoli e apertamente, protegge se stesso e i suoi interessi economici.

Ora possiamo lasciare le conferme e intravedere, nell'emendamento che assicura l'impunità al Cavaliere, la metamorfosi costituzionale che nasconde. Il presidente del Consiglio, come già hanno sostenuto i suoi avvocati dinanzi alla Corte costituzionale nella discussione per l'Alfano numero 1, vuole essere primus super pares. La Consulta ha bocciato quest'interpretazione. Pur con "significative differenze" tra capo del Governo e ministri, hanno sostenuto i giudici, "non è configurabile una preminenza del presidente del consiglio che ricopre una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares". Escludendo i ministri dall'immunità che protegge il premier, si mescolano adesso le carte. Approvata la nuova legge costituzionale (conta di farlo in dodici/diciotto mesi), Berlusconi sarà primus super pares per i poteri che gli derivano dalla designazione diretta del voto popolare.

C'è qui, un presunto adeguamento della Costituzione formale a una pretesa Costituzione materiale che avrebbe il suo fondamento decisivo, come va dicendo Berlusconi non adeguatamente contrastato, in una sovranità popolare finalmente libera di esprimersi senza il vincolo della legge, senza l'ossessione per l'ordine costituito, senza la mediazione delle istituzioni. Anche se ancora oggi ha bisogno del voto di fiducia del Parlamento per governare, Berlusconi preferisce far credere che sia il voto popolare che lo rende primus super pares e lo consegna a uno status privilegiato. Non è stato votato in Parlamento come un anonimo deputato, dice. È stato votato come capo del Governo.
È il corto circuito tra governo e popolo che  -  come ha osservato Carlo Galli  -  taglia fuori il potere legislativo, il Parlamento, spodestandolo, nella gerarchia dei poteri dello Stato, dal primo posto che gli compete nelle costituzioni moderne.

È proprio la legittimazione della sovranità popolare, l'unzione che dovrebbe sollevare Berlusconi, l'Eletto, oltre l'ordinamento giuridico garantendogli  -  con l'emendamento approvato ora al Senato  -  il privilegio immunitario di essere esonerato con legge costituzionale dalla legge ordinaria. Nessun processo lo toccherà. L'impunità che conquista il Cavaliere è soltanto l'aspetto più appariscente e arrogante della questione. Ce n'è un altro che lavora nelle fondamenta costituzionali, minandole. L'impunità costituzionale assicurata a Berlusconi svela come "un potere costituente" voglia scardinare l'ordinamento costituito e crearne uno nuovo ridisegnando gli equilibri dello Stato per il vantaggio di una sola persona. In modo da rendere "permanente, quotidiano e al contempo perenne" il caso d'eccezione che Berlusconi rappresenta. In modo che egli possa costituzionalizzare se stesso e tutte intere le sue anomalie in un nuovo equilibrio che separa l'ordine della legalità dall'ordine della legittimità mentre il privato diventa pubblico e il diritto penale diritto costituzionale. Lo Stato che conosciamo diventa così un'altra cosa. Una cosa sconosciuta, da nessuno invocata, da nessuno discussa, che va accettata perché conviene e lo pretende una sola persona.

Se non fossimo dinanzi a una tragedia repubblicana ci sarebbe da ridere perché è ridicola la sproporzione tra le categorie del politico che si evocano in questi casi (sovranità popolare, potere costituente, stato d'eccezione) e il mediocre obiettivo di salvare da un paio di processi un uomo che ha fatto fortuna con troppa scaltrezza truffaldina. Purtroppo c'è poco da ridere perché, con la legge in via di approvazione in Parlamento, può cadere anche l'ultima condizione che fa di Berlusconi un cittadino uguale agli altri. Guardiamo i poteri che controlla oggi: economico, mediatico, legislativo, esecutivo. La soggezione alla legge è l'unico aspetto che lo rende ancora uguale agli altri. Se ci rassegna all'inerzia di questa deriva, anche quell'ultimo argine può franare mutando definitivamente, con la Costituzione, il destino del Paese.

(20 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/20/news/d_avanzo_lodo-8248477/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il vero obiettivo è azzoppare i pm
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 03:35:24 pm
L'ANALISI / 1

Il vero obiettivo è azzoppare i pm

di GIUSEPPE D'AVANZO

LA riforma della giustizia è una favola buona per gli ingenui. Nei tre striminziti fogli che il ministro della Giustizia porta in giro, al Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo dei Marescialli, non c'è alcuna traccia di riforma. Nessuna correzione di ciò che è oggi storto. Nessuna cura delle criticità del sistema. "Riforma" è un eufemismo.

Consente all'Eletto di manipolare la Costituzione per rendere innocuo il pubblico ministero, la bestia nera. Il sedicente rinnovamento della giustizia non è altro che questo: l'assalto all'autonomia e all'indipendenza delle procure; il tentativo di fare del pubblico ministero non un "potere" né un "ordine" ma "un ufficio" - sarà così definito - che rappresenta nel processo le fonti di prova raccolte dalle polizie dipendenti da una mano governativa che, a sua volta, deciderà con il ministro di Giustizia "le priorità" nell'esercizio dell'azione penale. Addio articolo 112 della Carta: "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale". Liquidato l'articolo 109: "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".

C'è anche altro nel programma del governo: la separazione delle carriere; lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura e l'aumento della quota delle presenze politiche; il principio di responsabilità di giudici e pm; l'Alta Corte di disciplina; l'inappellabilità delle sentenze
di assoluzione; le eccezioni al principio di inamovibilità. Ma l'intero profilo della "riforma" non perde mai d'occhio l'azione penale obbligatoria e ha un unico focus: il pubblico ministero indipendente, che si immagina debba essere diretto per vie oblique dal governo. Sono idee che non restituiranno alcuna efficacia, alcun equilibrio, alcuna ragionevolezza all'amministrazione della giustizia. Di ben altro c'è bisogno, come da anni ripetono gli addetti.

Il catalogo delle necessità è noto. Revisione delle ottocentesche circoscrizioni giudiziarie (sono 165, potrebbero diventare 60). Riduzione dei tribunali (sono oggi 1.292). Introduzione della posta elettronica per l'esecuzione delle notifiche (cinquemila cancellieri ne consegnano brevi manu agli avvocati 28 milioni ogni anno). Depenalizzazione dei reati minori per riservare il processo penale - molto costoso - alle questioni di maggiore allarme sociale. Rinnovamento della professione forense: "più avvocati, più cause" e gli avvocati in Italia sono 230mila, 290 ogni 100 mila abitanti, contro 4.503 magistrati giudicanti in un rapporto avvocato/giudice strabiliante che demolisce il processo civile. Limitazione del ricorso in Cassazione (30 mila sentenze l'anno). E soprattutto la riforma di un processo penale che ibrida tutti i difetti dei possibili modelli (inquisitorio, accusatorio) trasformandolo in un gioco dell'oca interminabile e incoerente. Oggi gli atti dell'indagine non valgono per il dibattimento (in coerenza con la logica del processo accusatorio) però le garanzie del dibattimento sono state estese alle indagini preliminari (in contraddizione con la logica accusatoria). Così l'indagine - e non il processo - è un dibattimento anticipato mentre il rinvio a giudizio, più che essere una valutazione della necessità di un dibattimento, è diventato una sentenza sull'istruttoria (sul lavoro del pubblico ministero). Il processo ne è soffocato. La sovrabbondanza di assillanti formalismi lo disintegrano in una rosa di microprocessi. Giudizio sull'inazione (archiviazione). Giudizio sui tempi dell'azione. Giudizio sulle modalità dell'azione (misure cautelari). Giudizio sulla completezza delle indagini e sul fondamento dell'azione (udienza preliminare). Un processo, in cui ogni atto può generare un microprocesso, che richiede avvisi, notifiche, discussioni, deliberazioni e consente ripetute impugnazioni, non potrà avere mai una "ragionevole durata". Figurarsi se può essere "breve" come vuole, soltanto per amore di se stesso, Silvio Berlusconi. Non lo sarà neanche domani con la sedicente "riforma" che lo conserva labirintico, obeso, avvizzito e lunghissimo, ma vuole addomesticarlo riducendo all'impotenza un pubblico ministero che - si ipotizza nei tre foglietti di Alfano - potrebbe anche essere "elettivo" con la nomina di magistrati onorari alle funzioni di accusatore.

Ci toccherà vedere pubblici ministeri con il fazzolettone verde alla Lega al collo o, nel Mezzogiorno, pubblici ministeri imposti dalle mafie? Probabilmente no. Questa riforma non si farà mai e d'altronde riscrivendo un paio di articoli della Costituzione non si trasforma il pubblico ministero in un burocrate al servizio del governo perché "la Carta non è fatta di norme disarticolate come atomi separati. È un sistema con nessi interni" (Franco Cordero). Alla fine questa favoletta della "riforma della giustizia" servirà soltanto ad avvelenare ancora di più un clima politico già attossicato; ad alzare la posta per rendere "male minore" il via libera all'impunità del premier; a distrarre l'opinione pubblica dai clamorosi fallimenti del governo; a preparare la piattaforma della campagna elettorale del 2011. Ancora una volta e come sempre, necessità dell'Eletto e non degli elettori. 

(22 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/22/news/il_vero_obiettivo_azzoppare_i_pm-8318382/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'abuso di potere
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2010, 11:34:54 am
L'ANALISI

L'abuso di potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


"Ho buon cuore" dice.
Silvio Berlusconi ammette di essere intervenuto con la sua autorità di capo del governo sulla polizia di Milano per favorire una giovane amica in stato di fermo con sul groppo un'accusa di furto. Ha un buon cuore e, se può, una mano la dà, dice. C'è un non trascurabile requisito. Si deve essere suoi amici o dipendenti o familiari o protetti o corifei e il soccorso, la tutela, la salvaguardia arriverà.

Non scopriamo oggi che, nel regime berlusconiano, il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici. Senza scrupoli e apertamente. Con l'intervento a favore della giovanissima Karima Keyek, in arte Ruby; quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo "pubblica" finanche la sfera privatissima dell'Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Siamo nell'infelice Italia e quel che la scena mostra ancora una volta non può sorprenderci perché l'abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica.

Il Cavaliere non accetta critiche, travolge ogni misura istituzionale. Non conosce il raziocinio politico che gli dovrebbe consigliare discrezione, affidabilità, trasparenza, equilibrio per onorare la responsabilità e rispettare il decoro della funzione. Attese sublunari per l'Eletto. Conquistato il bottino dei voti sufficienti per governare, invece di sentire gli oneri dell'incarico, se ne sente liberato. Fino al punto di non avvertire alcun disagio nell'esigere in una notte di maggio che i poliziotti facciano in fretta ad affidare una ragazzina che frequenta la sua villa e le sue cerimonie notturne a una persona di sua fiducia (una venticinquenne soubrette e igienista dentale trasformata in eletta del popolo).

In uno "Stato legislativo", dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce "in nome della legge", le burocrazie sono "neutrali", uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti. Berlusconi che non vuole essere l'anonimo esecutore di leggi e non intende governare in nome della legge, ma in nome di ciò che ritiene necessario a se stesso, pretende ora che la burocrazia dello Stato si trasformi in ufficio ubbidiente e sottomesso. Anche qui si misura un altro passo verso il precipizio perché fino a ieri - è sufficiente prendere atto del ruolo di Guido Bertolaso - il capo del governo pretendeva che le burocrazie condividessero la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un'élite politica e non istituzionale. Oggi anche questo standard scolora, trasformando con un abuso di potere l'ufficio pubblico in un obbligo servile.

È soltanto una delle "violenze" che abbiamo sotto gli occhi.
Era già un abuso di potere telefonare in un pomeriggio di autunno del 2008, da un palazzo di Roma e senza conoscerla, a una ragazzina (Noemi Letizia) che sta facendo i compiti nella sua "cameretta" per sussurrarle ammirazione per "il volto angelico" e inviti a conservare la sua "purezza". Era un abuso di potere ancora maggiore imporre ai genitori della ragazza di confermare la fiaba di "una decennale amicizia" con il premier, nata invece soltanto qualche tempo prima grazie a un book fotografico abbandonato da Emilio Fede sullo scrittoio presidenziale. È un abuso di potere - disonorevole per un uomo di Stato - trascurare la fragilità di una giovanissima ragazza, il suo evidente disagio umano e sociale, per afferrare soltanto la vitalità, la bellezza sfruttandone il bisogno e le ambiziosissime smanie. L'abuso di potere per Berlusconi ne annuncia sempre altri. Non occorre un mago Merlino per sapere che, nei prossimi giorni, una nuova "violenza" si scatenerà sulla ragazza. La poveretta, come è accaduto anche per Noemi Letizia, dovrà rettificare, correggere, negare, contraddirsi, smentire ciò che è scritto nero su bianco in un pugno di interrogatori che raccontano quanto disordinati siano tornati ad essere i comportamenti del capo del governo.

C'è qualcosa di notturno e patologico nel declino di una leadership sempre più affannosa e affannata. Nel suo crepuscolo se ne intravede il macroscopico deficit. È l'incapacità di interpretare una politica all'interno delle regole, costretta a adulterarsi in una perenne violenza istituzionale che non assicura alcun governo al Paese ma soltanto più tempo a chi governa. Già era arduo rassegnarsi a questo destino. Ora appare difficile accettare la cristallina inadeguatezza di Berlusconi. Il capo del governo appare incapace non solo di rispettare il livello di onore che la sua responsabilità dovrebbe imporgli, ma addirittura se stesso. Una previsione non può essere che cupa. L'Io ipertrofico di Berlusconi non ammette interlocutori, consigli, regole, critiche, equilibrio istituzionale, saggezza politica. Incapace di guardare in faccia la realtà che si cucina da solo, trascinerà irresponsabilmente il Paese nella sua caduta. Impedire questa rovina non può essere un dovere soltanto per le opposizioni.

(29 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/29/news/d_avanzo_commento-8535673/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'abuso di potere / 2
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2010, 03:13:06 pm
L'ANALISI

L'abuso di potere / 2

di PIERO COLAPRICO E GIUSEPPE D'AVANZO

NON è successo niente, vuol fare credere Berlusconi. È vero, telefona al capo di gabinetto della questura di Milano, lo fa per tirare fuori dai guai la sua giovanissima amica marocchina. È accusata ancora una volta di furto, ma è persecutorio vedere in questa mossa un abuso di potere, perché poi le regole in questura sono state rispettate fino in fondo, no? Dunque, nessun illegalismo. Karima Heyek, 17 anni, "alias Ruby Rubabaci", alias "Ruby Rubacuori", doveva essere affidata a qualcuno e Berlusconi ha soltanto indicato, come un buon padre di famiglia, come una persona di buon cuore, a chi affidare la minorenne (che, fino a quel momento, pensava fosse maggiorenne).

Prima di intervenire su quel funzionario, il Cavaliere si è preoccupato di spedire in via Fatebenefratelli una sua amica, Nicole Minetti, 25 anni, igienista dentale diventata consigliere regionale. È questo che, raccontando una menzogna e ipotizzando un iperbolico incidente internazionale, chiede alle 23 del 27 maggio il premier al capo di gabinetto: affidate la ragazza, che è nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak al consigliere regionale, che tra qualche minuto sarà da voi.

Ora qui s'incontra una prima incoerenza. Nicole Minetti, in tutte le dichiarazioni di queste ore, sostiene di non aver mai ospitato in casa sua Ruby.

"Conosco Ruby come conosco numerose altre persone del mondo televisivo. Ci tengo a precisare che con la signorina Ruby non ho rapporti di amicizia, né l'ho mai ospitata in casa mia". Quindi, delle due l'una. O Ruby è stata affidata alla Minetti e Nicole non ha assolto al suo impegno. Oppure Ruby non è mai stata affidata effettivamente alla Minetti. Lei è soltanto uno "schermo", l'asso truccato che il Cavaliere gioca nella sua affannosa partita.

C'è un unico luogo dov'è possibile sciogliere il dilemma. E' la riservatissima procura dei minori di Milano. Le regole prevedono infatti che sia il sostituto procuratore di turno, interpellato dalla polizia, ad autorizzare il rilascio del minore: per indirizzarlo in un luogo preciso e protetto, o sotto la tutela di una persona affidabile. La risposta che si raccoglie al tribunale dei minori sul "caso Ruby" è questa: va controllato se le disposizioni che quella notte il sostituto procuratore dà alle forze di polizia sono state rispettate.

Già porre in questi termini la questione rivela che c'è quanto meno una possibile sconnessione tra le indicazioni di quella notte del sostituto procuratore e le mosse di chi decide, alle 2 del 28 maggio, di lasciare andare via la diciassettenne Ruby con Nicole Minetti. Una Ruby che finirà poi in una specie di porto di mare, di quei posti che terrorizzano i buoni padri di famiglia: la casa di una ragazza brasiliana dall'incerto mestiere, incapace  -  per usare le formule del tribunale dei minori  -  di offrire la tutela doverosa e necessaria. Anzi, Ruby e la coinquilina si accapiglieranno per una gelosia sessuale con tale violenza da rendere necessario l'intervento degli agenti d'una volante per "lite in condominio", come si legge nella relazione di servizio.

Il tableau giustifica una prima approssimata radiografia dell'abuso di potere di Silvio Berlusconi. A cominciare da una bizzarria. E' irragionevole e anomalo che il premier telefoni personalmente al capo di gabinetto di via Fatebenefratelli nella notte tra il 27 e 28 maggio per tirare fuori dai guai l'amica minorenne accusata di furto. C'è un eccesso d'urgenza nel suo intervento precipitoso. Un'angosciosa pena. Una concitazione che, nelle ore successive, travolgerà la routine della questura di Milano per riaffiorare nelle forme dell'apprensione oggi, quando i protagonisti affastellano contraddittorie ricostruzioni della loro amicizia con Ruby. Che cosa spinge Berlusconi a muoversi direttamente? Che cosa teme? Senza nessun moralismo, ci si può chiedere: possibile che il capo del governo, che vuole proteggere una giovanissima amica che si è messa nei guai, non abbia accanto nessuno, a Palazzo Chigi, al ministero dell'Interno, nel suo staff ristretto che sbrighi affari border line di quel tipo, con la telefonata giusta al numero giusto? Sembra incredibile, ma pare di no.

Chi conosce il Cavaliere sostiene che si è mosso da solo "perché è sempre ghe pensi mi". Sembra troppo che il superomismo del Cavaliere si eserciti con un evento in apparenza alquanto trascurabile. Forse l'evento non è trascurabile, per il Cavaliere. E c'è chi avanza un'altra ipotesi: il premier vede materializzarsi, con la presenza di Ruby in questura, il fantasma che i suoi consiglieri più affidabili gli hanno da tempo annunciato. Prima o poi, qualcuna di queste amiche ti tradirà.

Ruby ha tutte le caratteristiche per combinare un pasticcio catastrofico per il premier (e non è affatto detto che questo non stia accadendo). Parla troppo. E' fantasiosa. Ha un talento particolare a confondere e mescolare il vero con il falso. Ma è sufficientemente intrigante e si fa voler bene. E' ragionevole che sia questa leva che spinge Berlusconi a muoversi in prima persona e con irruenza. Nella relazione che è stata consegnata al ministro dell'Interno, Roberto Maroni, si legge anche l'ora e la modalità dell'intervento del capo del governo, che avviene a poche ore dalla lite in strada tra Ruby e la ballerina trentunenne Caterina P., che lavora con l'agenzia Lele Mora.

L'amica del premier le ha rubato 3mila euro, è andata via da casa sua con due anellini e le magliette della ragazza. E Caterina P., che alle 18.15 l'ha riconosciuta in un centro benessere di corso Buenos Aires, chiama il 113 "per fare arrestare la ladra. Ruby  -  racconta la bruna Caterina  -  sale su un taxi, che segue la volante, e io che non ho nemmeno un euro vado a piedi per fare la denuncia. Non vedrò più Ruby, né so ancora oggi delle indagini sul furto, si sono dimenticati tutti dei soldi trafugati a me da quella lì, una da paura, veniva a cercarla certa gente che ho i brividi ancora adesso". Non è, insomma, Ruby esattamente la "brava gente" che frequenta le ville e i palazzi del premier, secondo il premier.

Ora c'è un nodo ben stretto da sciogliere. Chi ha avvisato il presidente del consiglio del fermo di Ruby? Si conosce la versione della ragazza: al momento dell'intervento della polizia nel centro benessere è presente un'amica comune, che allerta Nicole Minetti. Questa ricostruzione è però contraddetta dalla Minetti: non conosco così bene Ruby, in realtà è stato Berlusconi a chiamarmi e a dirmi di andare in via Fatebenefratelli. E' una versione che ne sostiene un'altra che si raccoglie in questura: ai minori noi non togliamo il telefono cellulare. Può essere dunque stata Ruby a telefonare direttamente al capo del governo. Un'ipotesi non stramba perché Ruby ha certamente il numero del caposcorta di Berlusconi: nelle indagini della procura milanese  -  i tabulati sono stati richiesti già da tempo  -  ci sono i riscontri di molte telefonate tra i due cellulari.

Ricapitoliamo. Tra le 18.15 (Ruby arriva in questura) e le 23 (Berlusconi parla con il capo di gabinetto) comincia una partita a due. Ruby è nei guai, si rivolge all'amico Silvio. Silvio si attiva. Chiama Nicole Minetti. Le ordina di andare in questura.

E' un'ora prima di mezzanotte quando, come ha anticipato il Corriere della Sera, il capo di gabinetto della questura di Milano riceve una telefonata dal "caposcorta" di Berlusconi. L'ufficiale si limita a presentarsi e ad annunciare al funzionario che gli sta per passare il capo del governo. Ora è Berlusconi che parla. Quel che gli dice, il Cavaliere lo ripete in queste ore in pubblico: "Ho voluto dare aiuto a una persona che poteva essere consegnata non a una comunità o alle carceri, che non è una bella cosa, ma data in affidamento. Siccome mi aveva rappresentato un quadro di vita a dir poco tragico, l'ho aiutata. Tutto qui".

Berlusconi vuole dimostrare che il suo intervento è stato trascurabile, forse inutile. Non si accorge di confessare la sua vera intenzione: cambiare le carte in tavola. Determinare un esito diverso da quel che egli temeva potesse essere, immaginava dovesse essere: la ragazza ristretta in una comunità, o addirittura in gattabuia. E' questo l'incubo del Cavaliere, quella notte. Come avrebbe potuto reagire quella ragazza imprevedibile, che tre mesi prima era stata con lui alla festa di San Valentino ad Arcore? E che, ancora a marzo, aveva passato la notte a Villa San Martino? Che cosa avrebbe potuto raccontare? Che cosa si sarebbe potuta inventare? Meglio metterla al sicuro. Meglio piazzarle accanto una persona di fiducia, in grado di controllarne le mattane. Berlusconi sceglie Nicole Minetti, una sua creatura, inventata dal niente da lui e che a lui deve tutto.

La questura di Milano e, non c'è dubbio, il ministro dell'Interno in Parlamento (risponderà a un question time) sosterranno che "sono state eseguite tutte le ordinarie procedure previste dal protocollo per i casi di rintraccio di persona minorenne. Solo dopo che la questura ebbe accertata la mancanza di posti presso le comunità della zona, dopo l'autorizzazione del magistrato competente e con il consenso della giovane marocchina, ella fu affidata alla signora Minetti". Né poteva essere diversamente, se si dà retta a Berlusconi. Che dice: "Non ho influenzato assolutamente nessuno. Non avrei potuto pensare di esercitare un potere che non ho. Tra l'altro tutti sanno che in Italia il primo ministro non ha nessun potere". Come se fosse del tutto trascurabile per un funzionario dello Stato  -  nel nostro caso, il capo di gabinetto della questura di Milano  -  ricevere nel cuore della notte la telefonata del presidente del consiglio che gli chiede se è in stato di fermo una "egiziana" e se la si può affidare a una signora che presto arriverà lì, "da voi", magari senza lasciare traccia del passaggio della ragazza. Quindi nessuna foto, nessun verbale. Berlusconi ridimensiona. In fondo, che avrò fatto mai?, domanda.

Che cosa succede in questura tra le 23 (Berlusconi chiama) e le 2.00 (Ruby esce) lo si conosce leggendo le relazioni di servizio, oggi nel fascicolo dei pubblici ministeri che indagano per sfruttamento della prostituzione Lele Mora, Emilio Fede, Nicole Minetti. Raccontano gli agenti: la giovane funzionaria di turno nella centrale operativa arriva trafelata nel corridoio del piano terra, dove si affaccia l'ufficio del "Fotosegnalamento". Secondo la prassi, Ruby deve appoggiare le dita sulla lastra fotografica che si collega al Cerved, il cervellone del ministero dell'Interno. Questa semplice operazione consente agli agenti di dare un'identità a chi è sprovvisto  -  come lei  -  di documenti ed è stato già ospite  -  come lei  -  di una questura italiana. Consente di conoscere in tempo reale quali sono i precedenti penali e se  - come lei  -  ci si è allontanati da una casa-famiglia. La relazione inviata al ministro Maroni conferma che questo protocollo è stato rispettato. Quel che non è chiaro nel soggiorno di Ruby in questura non è il rispetto formale delle procedure, ma l'esito delle procedure. Qui affiora più di qualche dubbio. Che nesso c'è tra una marocchina minorenne con residenza a Letojanni, Messina, scappata dalla comunità La Glicine per farsi randagia di lusso a Milano, accusata di furto in più d'una occasione, e nientemeno che  -  parola del presidente  -  la nipote dell'egiziano Hosni Mubarak? E' un fatto che questa storia del prestigioso e fasullo legame familiare non viene raccontato alla procura dei minori. E' un fatto che quella notte la polizia interpella il sostituto di "turno minori", più volte. E' un fatto, però, che quelle disposizioni, in quelle ore, saranno com'è prassi soltanto orali. Diventeranno rapporto scritto il giorno successivo. E' un fatto che la procura della Repubblica ha acquisito questo documento per verificare se c'è una corretta corrispondenza tra le disposizioni impartite a voce tra il 27 e 28 maggio dal magistrato alla polizia e quel che effettivamente la questura ha fatto. Tasto dolente è sempre il ruolo di Nicole Minetti, alla quale  -  come abbiamo visto  -  la polizia affida Ruby, ma che una volta in strada se ne lava le mani.

Una volta in strada Nicole, sostiene Ruby, non si comporta come il consapevole affidatario che si deve occupare di lei. Nicole è lì perché c'è stata mandata: ora sono passate le due e Nicole ha soltanto un'ultima faccenda da spicciare. Deve chiamare Berlusconi, che l'ha spedita lì, aggiornarlo su quanto accaduto, rassicurarlo che Ruby non gli è ostile, anzi gli è riconoscente. Silvio rabbonisce la ragazza: ti voglio bene anche se non sei egiziana e non sei maggiorenne. Come dire, non ce l'ho con te, ti voglio ancora bene anche se mi hai mentito. Addirittura sulla nazionalità. Peggio, sull'età. L'asso truccato calato dal premier ha fatto la sua parte nel gioco affannoso di quella notte anche se la questura, forse avventurosamente, ancora oggi si ostina a sostenere che Nicole Minetti sia stata l'affidataria della minorenne marocchina. Nella prossima settimana, si verrà a capo della questione. In fondo, non è un'operazione complicata. La procura di Milano dovrà confrontare le disposizioni del sostituto procuratore dei minori e i verbali e le condotte della polizia. Sullo sfondo, i tabulati delle telefonate ricevute e fatte dagli attori di questa storia che è meno cristallina di quanto vuol far credere il Cavaliere e ha solo una certezza: l'abuso di potere che ha deformato il lavoro della polizia.

(30 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/30/news/l_abuso_di_potere_2-8573787/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'abuso di potere / 4
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2010, 10:18:51 pm
L'ANALISI

L'abuso di potere / 4

di GIUSEPPE D'AVANZO

È ancora possibile, a volte, distinguere tra ciò che accade e ciò che la politica narra. Detto in altro modo, separare i fatti dalle fabbricazioni spettacolari e pubblicitarie del potere che ci trasformano in passivi consumatori di favole. Il "caso di Ruby" è una di queste occasioni. Nel calderone si avvistano gli ingredienti primi del sistema (o regime) berlusconiano: l'abuso di potere e la menzogna. Li troviamo in coppia, intrecciati  -  abuso di potere e menzogna  -  in tutti i capitoli di questa storia.

Primo capitolo. Berlusconi al telefono. Ruby, da oggi maggiorenne, è una sua giovanissima amica. Frequenta Villa san Martino ad Arcore. Anima le serate del Cavaliere. È esuberante, instabile, incapace di tenersi fuori dai guai. Quando finisce in questura e Ruby lo chiama (o fa chiamare), il presidente del Consiglio è scosso da un'inquietudine che, all'esterno, appare irragionevole. Se non fosse il premier, i motivi della frenesia sarebbero fatti suoi. Governa e il suo stato d'animo turbato diventa interesse pubblico. A maggior ragione quando, abusando del suo potere, chiama ripetutamente il capo di gabinetto della questura di Milano per esigere che la ragazza sia affidata a "un'incaricata della presidenza del consiglio dei Ministri", Nicole Minetti, invocando con una menzogna la ragion di Stato: quella ragazza è la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak.

Secondo capitolo. I trucchi in questura. Messa sotto pressione, intimidita, la burocrazia adotta il codice che patisce: abuso di potere e menzogna. È un abuso deformare le prassi consolidate per venire incontro alle pretese del capo del governo. Ruby è un soggetto fragile. È una minore, senza famiglia, senza documenti, senza casa, senza fonti di reddito accertate, imprigionata in un ambiente arrischiato. Il pubblico ministero chiede che la polizia rintracci una comunità protetta dove possa essere sempre reperibile. Se non c'è posto, non lasci la questura: la ragazza deve essere custodita in sicurezza. L'arrivo di Nicole Minetti, "incaricata della presidenza del consiglio dei Ministri", non appare una ragione per cambiare idea: una volta identificata, Ruby dovrà andare in comunità. Ecco allora che, per rimuovere l'ostacolo della disposizione del magistrato  -  che è poi l'ostacolo della legge, è la legalità  -  burocrati di rango mentono. Riferiscono al magistrato la menzogna del premier (è la nipote di Mubarak), poi mentono in proprio. Inventano che il magistrato sia d'accordo ad affidare Ruby a Nicole Minetti. È una falsità che scrivono nei loro rapporti interni e nelle relazioni che inviano al capo della polizia e al ministro dell'Interno.

Terzo capitolo. Gli interrogatori di Ghedini. Abuso di potere e menzogna si intravedono anche nell'attività dell'avvocato del premier Niccolò Ghedini. L'entourage di Berlusconi  -  quello "notturno": Lele Mora, per fare un nome  -  sa che Ruby è stata più volte interrogata dalla procura di Milano in luglio e ancora in agosto. Che cosa ha detto? Ci si può fidare di quel che racconta quella scapestrata ragazza a Lele Mora e a sua figlia Diana? E se non dicesse tutto, dopo aver detto troppo o tutto là dentro, in procura?
Il premier, molto agitato, affida a Niccolò Ghedini il contrattacco cautelativo. Una segretaria di Palazzo Chigi convoca le giovani ospiti del premier nello studio legale Vassalli in via Visconti di Modrone a Milano per affrontare la questione delle "serate del presidente".

Quel che Ghedini ha dunque l'incarico di proteggere sono "le serate" di Silvio Berlusconi. Deve raccogliere da quelle giovani donne dichiarazioni giurate che confermino quel che il Cavaliere va dicendo: si rilassa a volte, come è giusto che sia, ma in cerimonie che non hanno nulla di scandaloso o perverso. Sono "testimonianze" necessarie per evitare al premier altro discredito. La procura di Milano indaga per favoreggiamento della prostituzione Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti. Berlusconi teme che la prostituzione, ipoteticamente favorita dai suoi tre amici, abbia il teatro proprio a Villa San Martino nelle "serate rilassanti" che il Cavaliere organizza. Non si rintraccia alcun reato per il capo del governo. Anche nell'ipotesi peggiore, egli sarebbe l'"utilizzatore finale", come direbbe Ghedini. Anche se si scoprisse che le sue ospiti sono minorenni, nessun problema penale: l'utilizzatore non è tenuto a conoscere l'età della sua ospite. È fuori di dubbio, però, che se si dimostrasse che la villa del capo del governo è stato il palcoscenico della prostituzione predisposta dagli indagati l'onore, la dignità, il decoro del padrone di casa (e utilizzatore finale) riceverebbero una severa mazzata.

Ecco allora la missione di Ghedini. Interrogare le ragazze, raccogliere i loro ricordi e lasciarle dire con buon anticipo dell'innocenza di quelle occasioni. Ghedini può farlo. La sua iniziativa è ineccepibile perché l'art. 391-nonies del codice di procedura penale regola "l'attività investigativa preventiva" del difensore "che ha ricevuto apposito mandato per l'eventualità che si instauri un procedimento penale". Nell'eventualità che Berlusconi sia indagato, Ghedini già prepara le prove non solo dell'estraneità del Cavaliere, ma dell'insussistenza del "fatto". Fin qui, la forma è rispettata, ma la sostanza della storia può essere ragionevolmente raccontata alla luce del binomio abuso di potere/menzogna. Occorre un pizzico di senso comune. Decine di ragazzine, ragazze, giovani donne, che hanno partecipato ai "bunga bunga" presidenziali, sono convocate  -  ora addirittura a Villa San Martino  -  e trovano Ghedini. L'avvocato chiede: mi racconta che cosa accade alle serate del presidente? Sono appuntamenti innocenti o peccaminosi? Si fa sesso? Lei ha fatto sesso con il presidente? Quelle poverette non hanno né arte né parte. Hanno una sola ambizione: fare televisione, apparirvi. Sono addirittura in casa del grande tycoon. Come dire, a un metro dal cielo. Arrivate a quel punto, potrebbero mai dire una parola storta contro o sul conto del presidente del Consiglio? In questi interrogatori "preventivi", nella figura di chi li ottiene, nel luogo stesso in cui si raccolgono, si può avvertire una violenza, s'avvista un abuso di potere. È concreto il rischio che possa essere soffocata la libertà morale delle interrogate, la loro libertà di determinarsi "spontaneamente e liberamente". Come è ragionevole credere che i loro racconti potrebbero diventare tasselli della Grande Menzogna che dovrebbe tirar fuori Berlusconi dal pozzo nero in cui ha voluto cacciarsi. Abuso di potere e menzogna, come sempre.

(01 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La vendetta della mafia ultima bugia del Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 11:35:05 am
L'ABUSO DI POTERE/8

La vendetta della mafia ultima bugia del Cavaliere

La vita disordinata rende vulnerabile il capo del governo. Lo spinge in uno stato di minorità.

Lo rivela debole, ricattabile, facilmente prigioniero.

Nelle parole di Ruby e Nadia un uomo inaffidabile

di GIUSEPPE D'AVANZO


DUNQUE, sostiene Berlusconi, può essere addirittura la mafia a manovrare le ragazze, minorenni e no, prostitute o no, che vanno svelando con documentati ricordi le "serate del presidente". Dice il premier: "Visti i colpi che stiamo infierendo alla mafia, nessuno oggi può con certezza escludere che alcune cose che accadono siano frutto della vendetta della malavita".

Il mentitore è sempre solitario e superficiale. È la ragione per cui la menzogna, per se stessa abuso di potere se chi mente è un leader politico chiamato a dar conto in pubblico delle sue condotte, non ha mai una gittata troppo grande né un'ampiezza veramente razionale. È un logos con la vista corta. Ne fa le spese anche un bugiardo compulsivo come Berlusconi.

È in un angolo. Ci si è cacciato da solo. Vuole uscirne in fretta e con danni lievi. Evocare un'aggressione mafiosa, come ritorsione e vendetta per le iniziative del governo, gli appare una buona idea per liberarsi di una pressione che può piegarlo. Il vittimismo - chi meglio del Cavaliere può saperlo? - è sempre una medicina efficace nella terra dei piagnoni. In questo caso, l'idea è pessima. Lasciar credere che ci siano i mafiosi dietro le Ruby, le Nadie è autodistruttivo. L'accostamento conferma quel che, con la visione delle foto di Antonello Zappadu, i racconti di Noemi Letizia, le registrazioni di Patrizia D'Addario, già appare chiaro: la vita disordinata, che conduce, rende vulnerabile il capo del governo. Lo spinge in uno stato di minorità. Lo rivela debole, ricattabile, facilmente prigioniero di uno stato di costrizione che si può creare con un comodo sforzo mandandogli in casa una ragazzina per poi manipolarlo.

È quello che la mafia, secondo Berlusconi, può fare o sta addirittura facendo nei suoi confronti. Prendiamolo sul serio. Forse il presidente del Consiglio (il mentitore è sempre superficiale) non si rende conto di convalidare le ragioni di chi - nell'opinione pubblica, in parlamento - gli chiede conto da un anno delle sue deliranti routine private che, indebolendone la funzione e minacciandone le responsabilità, diventano affare pubblico.

O Berlusconi si protegge dalle sue debolezze cambiando vita o le sue ossessioni glielo impediscono. Non può fare l'uno e l'altro. A meno di un altro abuso di potere che la mafia, secondo Berlusconi, può fare o sta addirittura facendo nei suoi confronti. Prendiamolo sul serio. Forse il presidente del Consiglio (il mentitore è sempre superficiale) non si rende conto di convalidare le ragioni di chi - nell'opinione pubblica, in parlamento - gli chiede conto da un anno delle sue deliranti routine private che, indebolendone la funzione e minacciandone le responsabilità, diventano affare pubblico.

Più di un anno fa, quando diventa noto che il fotoreporter Antonello Zappadu ha in archivio 5.000 foto "rubate" nella villa di Porto Rotondo, i tre membri di destra del Copasir (Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello, Giuseppe Esposito) chiedono l'avvio di un'indagine per verificare "quale protezione hanno dato e danno al presidente del Consiglio le strutture dello Stato a ciò preposte, in primo luogo uno dei servizi segreti?".

Al fondo di quella iniziativa c'è una ragionevolissima convinzione: i luoghi abitati dal presidente del consiglio sono di interesse nazionale; custodiscono gli affari di Stato; meritano l'attenzione che si riserva alla sicurezza della Repubblica. È stravagante che dinanzi alle cronache quotidiane - minorenni nelle ville del Cavaliere assistono a cerimonie erotiche; prostitute che vanno e vengono e sono in possesso del numero personale del capo del governo e non esitano a ingaggiarlo quando si trovano nei guai - quegli stessi uomini si oppongano a che il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copasir) chieda a Berlusconi come l'intelligence lo protegga. O meglio quali sono gli incarichi che egli ha voluto affidare ai cinquanta uomini che, in assoluta autonomia dalle gerarchie, lo tutelano. Chiarimenti che sembrano del tutto necessari soprattutto se si ricorda che ad alcuni di quegli uomini dello Stato è stato assegnato, a quanto pare, il compito di coordinare gli accessi delle ragazze in villa o al palazzo; di controllarne i comportamenti e le relazioni; di levarle dai guai quando vi si cacciano; di espellerle dalla vita del Cavaliere quando mostrano una pericolosa aggressività. Sono spiegazioni del tutto urgenti ora che lo stesso premier ipotizza che ci possa essere la mafia dietro le rivelazioni di Ruby e Nadia.

Il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti è soltanto uno dei luoghi dove Berlusconi potrebbe (dovrebbe) far luce e dar conto di una irresponsabilità politica che lo spinge a confessare esplicitamente di non essere in grado di escludere che la sua condotta abbia messo a rischio la sicurezza del nostro Paese. È una questione che già è stata posta in parlamento da trentacinque senatori del Partito democratico. Con un'interpellanza interrogano Berlusconi sulla "potenziale ricattabilità del Primo Ministro italiano e dei rischi a cui potrebbero essere state esposte tutte quelle informazioni, anche segretissime, contenute nei dossier che Berlusconi è tenuto ad esaminare e che riguardano la difesa del nostro Paese e gli impegni cui siamo tenuti per l'appartenenza alla Nato". "La questione - spiega Luigi Zanda a Palazzo Madama - riguarda anche la sicurezza economica dell'Italia. Ad esempio, la delicatezza e la vulnerabilità della nostra posizione (ricordata anche dall'Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia), per i rifornimenti energetici e i nostri rapporti con mercati delicati come quelli della Russia e della Libia. Non è difficile comprendere come a un uomo di governo che tratta in prima persona affari di questa natura e di tale consistenza economica e geopolitica, venga richiesto di non ricevere a casa sua decine di donne sconosciute con tanto di registratori e di macchine fotografiche".

C'è una contraddizione che oggi Berlusconi è chiamato a risolvere. Perché egli non può, da un lato, temere di essere ricattato dalla mafia per la sua disordinata vita privata e, dall'altro, rivendicare con orgoglio quel disordine come quando dice: "Sono orgoglioso del mio stile di vita. Se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva come terapia mentale per pulire il cervello da tutte le preoccupazioni, nessuno alla mia età mi farà cambiare stile di vita del quale vado orgoglioso".

Delle due, l'una. O Berlusconi si protegge dalle sue debolezze cambiando vita anche "alla sua età" in nome della responsabilità pubblica che liberamente ha voluto assumere. O le sue ossessioni compulsive glielo impediscono e forse deve ripensare al suo ruolo pubblico. E' un fatto certo che non può fare l'uno e l'altro. A meno che consumi un altro abuso di potere. A meno che non ci abbia raccontato un'altra menzogna e quella storia della mafia che lo minaccia con le parole di Ruby e Nadia sia la favola di un uomo in fuga da se stesso, disertore dagli impegni e oneri, uomo di Stato palesemente inaffidabile. Per quel che dice. Per quel che fa.

(05 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/05/news/la_vendetta_della_mafia_ultima_bugia_del_cavaliere-8764242/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'abuso di potere/11
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 06:05:38 pm
L'ANALISI

L'abuso di potere/11

di GIUSEPPE D'AVANZO

CHE cosa accade in Afghanistan ai nostri soldati? In quali operazioni sono impegnati? Qual è il grado di minaccia terroristica che incombe sull'Italia? Perché il presidente del consiglio ha ritenuto di tutelare con il segreto di Stato i rapporti tra il Sismi e la Telecom di Marco Tronchetti Provera, a proposito dei dossier raccolti abusivamente dalla società telefonica? Qual è l'interesse nazionale che ha convinto Berlusconi ad apporre il segreto di Stato all'archivio illegale messo insieme da Pio Pompa, braccio destro del direttore del Sismi Nicolò Pollari? E ancora: qual è il grado di accessibilità alle residenze del presidente del Consiglio?

Sono queste, più o meno, le domande che il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (ha funzioni di controllo sul lavoro dei servizi segreti) ha in animo di rivolgere al capo del governo. Come si vede, sono questioni connesse alla sicurezza nazionale; al destino e alle strategie delle nostre truppe in guerra. Sono problemi rilevanti come l'inviolabilità della privacy aggredita in modo illegale da una piattaforma pubblico/privata di spionaggio abusivo organizzata da un servizio segreto in collaborazione con una società telefonica.
 
Sono argomenti che meriterebbero una parola chiara del presidente del Consiglio i cui poteri sono stati rafforzati dalla legge del 2007 a svantaggio dei ministri della Difesa e dell'Interno. Ma Berlusconi fa orecchie da mercante. Finge di non sentire e, se sente, non se ne cura. Liquida come inutile o provocatorio quell'incontro. Teme che gli si chieda conto di quanto protette o violabili siano le sue abitazioni, troppo e mal frequentate. Ne nasce un muro contro muro. Berlusconi non ha alcuna intenzione di rispondere. Il Copasir non ha alcuna voglia di rinunciare al suo diritto-dovere di ascoltare il presidente del Consiglio che ha "l'alta direzione e la responsabilità generale" dell'intelligence e decide dell'"apposizione, la tutela e la conferma dell'opposizione del segreto di Stato". Mercoledì il comitato, presieduto da Massimo D'Alema, rinnoverà la richiesta di audizione del presidente del Consiglio "cui la legge n.124 del 2007 attribuisce in via esclusiva e non delegabile alcune competenze, sul cui esercizio il comitato ha il dovere di acquisire informazioni ed elementi di valutazione".

Ne può venir fuori un conflitto politico e istituzionale. Come può reagire il Copasir all'indifferenza del capo del governo? Deve accettare quel rifiuto e quel silenzio  -  dunque, quell'abuso di potere  -  o ci sono delle strade per costringere il premier a offrire informazioni e chiarimenti che egli solo può dare perché egli solo ha il controllo diretto delle politiche e dell'operatività delle strutture di intelligence? Escluso il conflitto istituzionale formalizzato dinanzi alla Corte costituzionale, si fa strada in queste ore un'altra procedura. In caso di nuovo rifiuto o di una nuova mancata risposta, il Copasir potrebbe approvare a maggioranza la richiesta di una mozione di censura che i presidenti di Camera e Senato potrebbero inserire nell'ordine del giorno dei lavori d'aula. Un'altra grana per Berlusconi. Un'altra possibile occasione per contarsi in una stagione in cui i numeri sono troppo ballerini per affrontare con serenità il voto delle assemblee.

Berlusconi vive come un incubo qualsiasi confronto che non si esaurisca nell'abituale, enfatico monologo autocelebrativo. Non gli importa dar conto dello stato del conflitto in Afghanistan o delle misteriose ragioni che gli hanno consigliato di coprire con un silenzio complice la più massiccia operazione di dossieraggio illegale dai tempi del Sifar. Quel che egli teme è altro e, come sempre, lo riguarda personalmente e molto da vicino. Il Cavaliere vede come un'occasione pericolosa dover rispondere anche all'elementare interrogativo sulle condizioni, regole e prassi di accessibilità alle sue residenze. Si è cacciato, come sempre, nei guai da solo. È stato lui stesso a ipotizzare che le giovani e giovanissime testimoni della sua vita disordinata siano in realtà strumenti di ritorsione di una mafia punita severamente dalla determinazione delle politiche del governo. Naturale che ci si interroghi sulla vulnerabilità di quelle case, delle sue ville e palazzi.

I luoghi abitati dal presidente del Consiglio custodiscono gli affari di Stato; meritano l'attenzione che si riserva ai luoghi di interesse pubblico. Già nel dicembre dello scorso anno l'autorità delegata ai servizi segreti (Gianni Letta) e i capi delle strutture furono chiamati a spiegare come proteggevano le residenze del premier travolte da fotoreporter (Antonello Zappadu) e ospiti armate di registratore e fotocamere (Patrizia D'Addario). Ora tutte le criticità già evidenti nel 2009 si sono riproposte. Se possibile, con quadri ancora più pericolosi, se si pensa ai racconti di Ruby e Nadia. Minorenni nelle ville del Cavaliere assistono a cerimonie erotiche. Prostitute vanno e vengono in quelle stanze, non controllate da nessuno. Alcune di loro sono in possesso del numero personale del capo del governo e non esitano a invocarne l'intervento quando si trovano nei guai. C'è poi il problema delle scorte del presidente. Quali sono gli incarichi che il capo del governo ha voluto affidare ai cinquanta uomini che, molti di provenienza Fininvest e in assoluta autonomia dalle gerarchie, lo tutelano? Chiarimenti che  -  si deve ripetere  -  sono necessari soprattutto se si ricorda che ad alcuni di quegli uomini dello Stato è stato assegnato  -  a quanto pare  -  il compito non istituzionale, improprio, illegittimo, umiliante di coordinare gli accessi delle ragazze in villa; di controllarne i comportamenti e le relazioni; di levarle dai guai quando vi si cacciano; di espellerle dalla vita del Cavaliere quando mostrano una pericolosa aggressività.

Per evitare domande a cui non può rispondere senza danneggiare se stesso (l'accessibilità delle sue ville), Berlusconi fugge anche dinanzi agli interrogativi cui deve e saprebbe rispondere (Afghanistan, minaccia del terrorismo, dossieraggi). A dimostrazione che sempre, abusando del suo potere, il capo del governo trasforma la sua convenienza privata in decisione pubblica. 

(09 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/09/news/l_abuso_di_potere_11-8902830/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Feltri e la sua "macchina del fango" assolti dall'Italietta...
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2010, 11:00:29 pm
IL CASO

Feltri e la sua "macchina del fango" assolti dall'Italietta del quieto vivere

Le critiche all'Ordine dei giornalisti per le sanzioni al direttore del Giornale "cancellano" le campagne dettate da Berlusconi, e costituiscono una lesione alla libertà di stampa

di GIUSEPPE D'AVANZO


Una policroma assemblea di Tartufi ci sta spiegando che quando parliamo della sanzione inflitta a Vittorio Feltri, direttore editoriale de il Giornale, discutiamo di libertà di stampa. Nell'assembramento si scorgono personaggi solitamente compatibili come il cane e il gatto.

Per fare qualche nome: Pierluigi Battista, il liberale QC (quando conviene) del Corriere della sera, e l'inflessibile direttore de il Fatto Antonio Padellaro, "un comunista di merda" (la definizione affettuosa è di Feltri). Nella mischia, con il sorriso canzonatorio d'ordinanza fa capolino il direttore del Tg7, Enrico Mentana. Simula una furba equidistanza e appioppa ai suoi telespettatori una frottola: "... e comunque la notizia data da Feltri era fondata". Quel che accade non è nuovo perché è antica, nell'Italietta nostra, la tolleranza per i vizi altrui e stupefacente la capacità dell'establishment di perdonare e perdonarsi. Un lavoro comodo da sbrigare. Si afferra un fatto concreto, lo si frulla fino a farne un'astrazione e il gioco è fatto. La rimozione è compiuta, ora si può andare avanti con le cattive abitudini di sempre.

Le commosse geremiadi per la libertà di stampa, in questo caso, servono a nascondere all'opinione pubblica tre fatterelli concretissimi. Uno. L'assassinio mediatico di Dino Boffo, il direttore de l'Avvenire che, con prudenza, biasima l'Egoarca perché "frequenta minorenni". Due. Il falso indiscutibile di un giornalismo degradato a tecnica di intimidazione. E' quel che Mentana sottrae alla vista dei suoi spettatori: Feltri pubblica una "velina" fabbricata da non si sa chi, la presenta come una "nota informativa" inserita in un fascicolo giudiziario e accusa il direttore dell'Avvenire di omosessualità. Tre. Il character assassination di Boffo è soltanto la prima incursione di una pianificazione predisposta da chi governa per intimorire chi dissente. Svela una "macchina del fango". Mostra un letale dispositivo di potere che si alimenta di menzogne distruttive a fini politici. Chi si muove in nome e per conto di un meccanismo di questa violenza può invocare la libertà di stampa? Questo lavoro può dirsi giornalismo?

Conviene muovere da qui e ricordare quel che si vuole oggi cancellare e fare il nome che conta perché Feltri è soltanto il cinico interprete - nemmeno il più rilevante, come vedremo - di una bozza scritta da Silvio Berlusconi. Si può davvero affrontare questa storia di sicari senza fare il nome del mandante?

Va detto che Berlusconi conosce un solo modo per tenersi stretto un potere che non ha fini e conosce solo i mezzi. E' il lavoro pubblicitario di un giornalismo servile che annulla ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione che elimina ogni criterio di verità. E' un racconto che produce un'ignoranza delle cose e esibisce un'Italia meravigliosa e in pace con se stessa. Per questa ragione Berlusconi ingaggia l'obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Non si accontenta. Qualcuno lo ricorderà: non gli va giù l'autonomia dei direttori del Corriere (Paolo Mieli) e de la Stampa (Giulio Anselmi). "Dovrebbero cambiare mestiere", dice da Tirana. Esaudiscono il desiderio. Mieli e Anselmi davvero cambiano mestiere. Anime fioche fino ad ieri, gli occhiuti custodi della libertà di stampa di oggi non si accorgono di quel che accade alla libertà di stampa nemmeno quando perde il posto Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix. Sono momentaneamente muti e sordi e ciechi. Poi il premier si caccia nei guai festeggiando a Casoria una minorenne e, per fronteggiare la crisi, anche Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona. A Vittorio Feltri. Giordano spiega così le ragioni: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove". Giordano è esplicito: l'editore mi ha chiesto di fare del mio quotidiano un'officina di veleni, il decoro me lo impedisce e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.

Notate l'elenco che mette giù Giordano: "direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati". E' esattamente il catalogo di target contro cui, appena insediato, Vittorio Feltri scatena la "macchina del fango" del suo falso giornalismo. "Assassina" Dino Boffo (il direttore dei giornali). Calunnia l'editore di questo giornale (ingegnere). Scredita Veronica Lario (first lady) accusandola di essere l'amante del suo caposcorta (body guard). Come un avvoltoio, scuote la tomba di Giovanni Agnelli (avvocato). Al povero Giordano non hanno detto (o Giordano l'ha taciuto nel commiato) che c'è un altro bersaglio - il più politicamente rilevante - nell'agenda predisposta dal Cavaliere: Gianfranco Fini. Feltri lo affronterà subito con modi da guappo: si rimetta in riga o gli faccio piovere addosso uno scandalo a luci rosse.

Chi non capisce ora che Feltri s'è trovato già pronto il copione da interpretare che l'altro, Giordano, conosce e si rifiuta di mettere in scena? Feltri si accontenta di un gioioso conto in banca e si compiace di apparire facendo la faccia feroce. Per il resto, non fa storie. Digerisce anche le pietre. Lo confessa. Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo. Feltri la pubblica. La foto di Veronica Lario - "velina ingrata" - a seno nudo? Che ne sa lui, gliel'ha messa sul tavolo Sallusti perché, sapete - confida Feltri - io, Berlusconi, non lo sento mai; lui sì, ogni giorno, a quanto pare. L'intervista che disonora Veronica Lario dicendola amante di Antonio Orlandi, body guard? E che ne so io - dice in confidenza a Luca Telese - "l'intervista l'ho letta ch'era già in pagina, l'aveva fatta Sallusti e non io...".

Facciamola corta, Vittorio Feltri - a credergli - non sa nulla. E' il direttore che non dirige, non controlla, non filtra, non sceglie.
Fanno tutto gli altri. I piani di battaglia vengono preparati ad Arcore da Berlusconi, editore e premier. Gli ordini sono trasmessi ad Alessandro Sallusti che s'incarica di infiocchettarli per bene e farseli vidimare da Feltri che non dice mai no e di suo aggiunge sessanta righe.

Una volta svelata la macchina del fango, scoperta la sua meccanica, portate a nudo le funzioni e i protagonisti, se ci fosse qualche traccia d'archetipo del sentimento morale - che so, vergogna e colpa - l'affare sarebbe chiuso. Sarebbero sufficienti quel che si chiamano "sanzioni di vergogna". Chi è responsabile di comportamenti scorretti viene escluso dall'ambiente. Sarebbe un danno ben più grave della sospensione di tre mesi dal lavoro (pensate soltanto al denaro che Feltri ci rimetterebbe). La "shame culture" sottintende però un'etica e la sua condivisione.

Come ci insegna la policroma assemblea di Tartufi, l'establishment giornalistico non ritiene che la perdita di reputazione - e soprattutto di credibilità - costituisca un danno per chi fa informazione. Chiede a gran voce che un Ordine dei giornalisti senza legittimità non infligga alcuna sanzione al "povero Feltri". Dicono: c'è il codice penale e civile per quello. Salvo poi, quando interviene la magistratura (come per i dossier in preparazione contro la Marcecaglia), strepitare come oche del Campidoglio contro l'invasione di campo del potere giudiziario.

C'è qui la stupefacente vittoria del mondo berlusconiano, il trionfo di una cultura che ignora i tormenti della coscienza infelice, rifiuta ogni regola per i suoi piani e argine per i suoi impulsi, pretende un'esenzione da ogni punizione perché così fan tutti. Non è vero, non tutti fanno così. Non tutti, come Feltri, hanno degradato l'informazione in comunicazione al servizio del potere trasformandola nell'ingranaggio di una macchina politica che scatena contro i suoi antagonisti campagne di denigrazione. Feltri si accontenti dei tre mesi di sospensione.

Gli è andata bene. L'informazione non sentirà la sua mancanza. E' vero, mancherà alla comunicazione politica di Silvio Berlusconi, sempre che quello non si consoli con il veloce Sallusti.

(14 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/14/news/feltri_libert_stampa-9087662/?ref=HREC1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Feltri e la sua "macchina del fango" assolti dall'Italietta...
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2010, 10:23:45 am
IL CASO

Feltri e la sua "macchina del fango" assolti dall'Italietta del quieto vivere

Le critiche all'Ordine dei giornalisti per le sanzioni al direttore del Giornale "cancellano" le campagne dettate da Berlusconi, e costituiscono una lesione alla libertà di stampa

di GIUSEPPE D'AVANZO


Una policroma assemblea di Tartufi ci sta spiegando che quando parliamo della sanzione inflitta a Vittorio Feltri, direttore editoriale de il Giornale, discutiamo di libertà di stampa. Nell'assembramento si scorgono personaggi solitamente compatibili come il cane e il gatto.

Per fare qualche nome: Pierluigi Battista, il liberale QC (quando conviene) del Corriere della sera, e l'inflessibile direttore de il Fatto Antonio Padellaro, "un comunista di merda" (la definizione affettuosa è di Feltri). Nella mischia, con il sorriso canzonatorio d'ordinanza fa capolino il direttore del Tg7, Enrico Mentana. Simula una furba equidistanza e appioppa ai suoi telespettatori una frottola: "... e comunque la notizia data da Feltri era fondata". Quel che accade non è nuovo perché è antica, nell'Italietta nostra, la tolleranza per i vizi altrui e stupefacente la capacità dell'establishment di perdonare e perdonarsi. Un lavoro comodo da sbrigare. Si afferra un fatto concreto, lo si frulla fino a farne un'astrazione e il gioco è fatto. La rimozione è compiuta, ora si può andare avanti con le cattive abitudini di sempre.

Le commosse geremiadi per la libertà di stampa, in questo caso, servono a nascondere all'opinione pubblica tre fatterelli concretissimi. Uno. L'assassinio mediatico di Dino Boffo, il direttore de l'Avvenire che, con prudenza, biasima l'Egoarca perché "frequenta minorenni". Due. Il falso indiscutibile di un giornalismo degradato a tecnica di intimidazione. E' quel che Mentana sottrae alla vista dei suoi spettatori: Feltri pubblica una "velina" fabbricata da non si sa chi, la presenta come una "nota informativa" inserita in un fascicolo giudiziario e accusa il direttore dell'Avvenire di omosessualità. Tre. Il character assassination di Boffo è soltanto la prima incursione di una pianificazione predisposta da chi governa per intimorire chi dissente. Svela una "macchina del fango". Mostra un letale dispositivo di potere che si alimenta di menzogne distruttive a fini politici. Chi si muove in nome e per conto di un meccanismo di questa violenza può invocare la libertà di stampa? Questo lavoro può dirsi giornalismo?

Conviene muovere da qui e ricordare quel che si vuole oggi cancellare e fare il nome che conta perché Feltri è soltanto il cinico interprete - nemmeno il più rilevante, come vedremo - di una bozza scritta da Silvio Berlusconi. Si può davvero affrontare questa storia di sicari senza fare il nome del mandante?

Va detto che Berlusconi conosce un solo modo per tenersi stretto un potere che non ha fini e conosce solo i mezzi. E' il lavoro pubblicitario di un giornalismo servile che annulla ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione che elimina ogni criterio di verità. E' un racconto che produce un'ignoranza delle cose e esibisce un'Italia meravigliosa e in pace con se stessa. Per questa ragione Berlusconi ingaggia l'obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Non si accontenta. Qualcuno lo ricorderà: non gli va giù l'autonomia dei direttori del Corriere (Paolo Mieli) e de la Stampa (Giulio Anselmi). "Dovrebbero cambiare mestiere", dice da Tirana. Esaudiscono il desiderio. Mieli e Anselmi davvero cambiano mestiere. Anime fioche fino ad ieri, gli occhiuti custodi della libertà di stampa di oggi non si accorgono di quel che accade alla libertà di stampa nemmeno quando perde il posto Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix. Sono momentaneamente muti e sordi e ciechi. Poi il premier si caccia nei guai festeggiando a Casoria una minorenne e, per fronteggiare la crisi, anche Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona. A Vittorio Feltri. Giordano spiega così le ragioni: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove". Giordano è esplicito: l'editore mi ha chiesto di fare del mio quotidiano un'officina di veleni, il decoro me lo impedisce e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.

Notate l'elenco che mette giù Giordano: "direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati". E' esattamente il catalogo di target contro cui, appena insediato, Vittorio Feltri scatena la "macchina del fango" del suo falso giornalismo. "Assassina" Dino Boffo (il direttore dei giornali). Calunnia l'editore di questo giornale (ingegnere). Scredita Veronica Lario (first lady) accusandola di essere l'amante del suo caposcorta (body guard). Come un avvoltoio, scuote la tomba di Giovanni Agnelli (avvocato). Al povero Giordano non hanno detto (o Giordano l'ha taciuto nel commiato) che c'è un altro bersaglio - il più politicamente rilevante - nell'agenda predisposta dal Cavaliere: Gianfranco Fini. Feltri lo affronterà subito con modi da guappo: si rimetta in riga o gli faccio piovere addosso uno scandalo a luci rosse.

Chi non capisce ora che Feltri s'è trovato già pronto il copione da interpretare che l'altro, Giordano, conosce e si rifiuta di mettere in scena? Feltri si accontenta di un gioioso conto in banca e si compiace di apparire facendo la faccia feroce. Per il resto, non fa storie. Digerisce anche le pietre. Lo confessa. Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo. Feltri la pubblica. La foto di Veronica Lario - "velina ingrata" - a seno nudo? Che ne sa lui, gliel'ha messa sul tavolo Sallusti perché, sapete - confida Feltri - io, Berlusconi, non lo sento mai; lui sì, ogni giorno, a quanto pare. L'intervista che disonora Veronica Lario dicendola amante di Antonio Orlandi, body guard? E che ne so io - dice in confidenza a Luca Telese - "l'intervista l'ho letta ch'era già in pagina, l'aveva fatta Sallusti e non io...".

Facciamola corta, Vittorio Feltri - a credergli - non sa nulla. E' il direttore che non dirige, non controlla, non filtra, non sceglie.
Fanno tutto gli altri. I piani di battaglia vengono preparati ad Arcore da Berlusconi, editore e premier. Gli ordini sono trasmessi ad Alessandro Sallusti che s'incarica di infiocchettarli per bene e farseli vidimare da Feltri che non dice mai no e di suo aggiunge sessanta righe.

Una volta svelata la macchina del fango, scoperta la sua meccanica, portate a nudo le funzioni e i protagonisti, se ci fosse qualche traccia d'archetipo del sentimento morale - che so, vergogna e colpa - l'affare sarebbe chiuso. Sarebbero sufficienti quel che si chiamano "sanzioni di vergogna". Chi è responsabile di comportamenti scorretti viene escluso dall'ambiente. Sarebbe un danno ben più grave della sospensione di tre mesi dal lavoro (pensate soltanto al denaro che Feltri ci rimetterebbe). La "shame culture" sottintende però un'etica e la sua condivisione.

Come ci insegna la policroma assemblea di Tartufi, l'establishment giornalistico non ritiene che la perdita di reputazione - e soprattutto di credibilità - costituisca un danno per chi fa informazione. Chiede a gran voce che un Ordine dei giornalisti senza legittimità non infligga alcuna sanzione al "povero Feltri". Dicono: c'è il codice penale e civile per quello. Salvo poi, quando interviene la magistratura (come per i dossier in preparazione contro la Marcecaglia), strepitare come oche del Campidoglio contro l'invasione di campo del potere giudiziario.

C'è qui la stupefacente vittoria del mondo berlusconiano, il trionfo di una cultura che ignora i tormenti della coscienza infelice, rifiuta ogni regola per i suoi piani e argine per i suoi impulsi, pretende un'esenzione da ogni punizione perché così fan tutti. Non è vero, non tutti fanno così. Non tutti, come Feltri, hanno degradato l'informazione in comunicazione al servizio del potere trasformandola nell'ingranaggio di una macchina politica che scatena contro i suoi antagonisti campagne di denigrazione. Feltri si accontenti dei tre mesi di sospensione.

Gli è andata bene. L'informazione non sentirà la sua mancanza. E' vero, mancherà alla comunicazione politica di Silvio Berlusconi, sempre che quello non si consoli con il veloce Sallusti.

(14 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/14/news/feltri_libert_stampa-9087662/?ref=HREC1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il premier sotto ricatto
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2010, 09:01:47 am
IL COMMENTO

Il premier sotto ricatto

di GIUSEPPE D'AVANZO


Inaspettatamente in un solo giorno, anzi in poche ore, emergono dal passato e dal presente le relazioni pericolose di Silvio Berlusconi con le mafie. La liaison allontana da lui anche la fedele e fidata Mara Carfagna. Annuncia altri sismi per il suo governo. Apre nuove crepe nella già compromessa affidabilità del capo del governo. Le cose, a quanto pare, vanno così.

Infuriati per la nomina a commissario per i rifiuti di Stefano Caldoro, governatore della Campania, decisa dal Consiglio dei ministri, due politici indagati per mafia Nicola Cosentino e Mario Landolfi si presentano a Palazzo Grazioli. Affrontano Silvio Berlusconi a brutto muso minacciandolo di non votare la fiducia se non avesse annullato il decreto legge che, assegnando alla Campania 150 milioni di euro, consente al governatore anche l'adozione di "misure che prevedono poteri sostitutivi" nei confronti degli enti inadempienti. Il capo di governo che, entro il 14 dicembre, ha bisogno di voti in Parlamento come dell'aria che respira li rassicura. Promette una rapida retromarcia. La notizia si diffonde e il ministro Mara Carfagna - molto si è data da fare per quel decreto legge che sottrae l'emergenza all'opacità dei potentati locali - annuncia che, dopo la fiducia, lascerà il governo e il partito del presidente.

Così dunque stanno le cose. La ricattabilità del premier è di assoluta evidenza. La sua debolezza politica - e ormai di leadership - lo espone a ogni pressione, alle più imbarazzanti coercizioni, a umilianti
inchini dinanzi a personaggi non solo discussi, ma decisamente pericolosi.

È imbarazzante l'imposizione che il capo del governo subisce da Nicola Cosentino, 51 anni, da Casal di Principe, salvato dall'arresto per mafia solo dal voto della maggioranza. L'uomo ha il controllo pieno di quattro delle cinque Province campane (Napoli, Caserta, Salerno, Avellino). Sono queste istituzioni che amministrano i flussi della spazzatura e governano le società di gestione che hanno sostituito i consorzi infiltrati da ogni genere di illegalità, malaffare, prepotenza criminale (il consorzio di Caserta è costato fino all'aprile scorso, 6,5 milioni di euro al mese). Tutta la parabola politica di Cosentino si può spiegare e raccontare dentro l'emergenza rifiuti. Quelle crisi - indotte e cicliche - hanno convogliato in quella disgraziata regione un fiume di denaro (dal 2001 al 2009 tre miliardi e 546 milioni di euro) e proprio nei consorzi - e oggi nelle società di gestione - la politica ha incontrato il potere mafioso e ha messo a punto la distribuzione di benefici, rendite, utili, organizzando un "sistema della catastrofe" che, da quella rovina, ha spremuto influenza, consenso e ricchezza. A farla da padrone la camorra, a cominciare dalla camorra dei Casalesi. Hanno guadagnato e guadagnano sull'affitto delle aree destinate a discarica e dei terreni dove vengono stoccate le ecoballe. Lucrano sul noleggio dei mezzi e soprattutto nei trasporti.

Nicola Cosentino rappresenta il punto di equilibrio - oscuro e ambiguissimo - di questo "sistema" che oggi appare sfidato, dentro il Popolo della Libertà, dall'asse Caldoro-Carfagna e, dentro la maggioranza, da Futuro e Libertà, in Campania diretto da Italo Bocchino. Il decreto legge che assegna al governatore poteri commissariali può essere considerato il successo di questo schieramento. Il passo indietro di Berlusconi ripristina ora le gerarchie di un "sistema" che ha in Cosentino il leader e nel potere intimidatorio della camorra la sua forza. Si sapeva che l'uomo di Casale di Principe ha sempre avuto un'arma da puntare alla tempia del governo. In qualsiasi momento poteva far saltare gli equilibri che hanno permesso a Berlusconi di rivendicare le capacità tecnocratiche di eliminare i rifiuti dalla Campania con un miracolo che ha liquidato quella disgrazia con una magia. L'illusionismo manipolatorio aveva in Cosentino il suo garante. Un garante di cui oggi Berlusconi non può liberarsi. Per due motivi: Cosentino gli farebbe mancare i suoi voti il 14 dicembre e, peggio, nella prossima e vicina campagna elettorale seppellirebbe l'immagine del Cavaliere sotto l'immondizia e i miasmi.

Come non può fare oggi a meno di Cosentino, il Cavaliere non ha potuto liberarsi in passato di quel Marcello Dell'Utri che, si legge nelle motivazioni della Corte d'Appello che lo ha condannato a sette anni di reclusione, fu "mediatore" e "specifico canale di collegamento" tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Dell'Utri, scrivono i giudici, è l'uomo che ha consentito ai mafiosi delle "famiglie" di Palermo di "agganciare" "una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico".

È questa allora la scena che abbiamo sotto gli occhi. Un capo del governo che, nella sua avventura imprenditoriale, è stato accompagnato - per lo meno fino al 1992 - dalla presenza degli uomini di Cosa Nostra e, oggi, per proteggere la maggioranza che sostiene il governo deve chinare il capo dinanzi alle pretese del politico considerato dalla magistratura il più compromesso con gli interessi dei Casalesi. È uno stato di dipendenza, di oscurità, di minorità politica che nessun arresto di latitante, confisca di bene miliardario, statistica e classifica di successi dello Stato potrà ribaltare. Le vittorie dello Stato contro le mafie non riescono a diventare il riscatto personale di Berlusconi - e della sua storia - da quei poteri criminali con cui egli si è intrattenuto negli anni della sua impresa economica e ancora oggi si deve tener vicino per sopravvivere nel suo crepuscolo politico.

(20 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/20/news/premier_ricatto-9303815/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Una filastrocca per giocare la carta dell'emergenza.
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 04:43:50 pm
L'ANALISI

Berlusconi, la teoria del complotto primo passo verso la campagna elettorale

Una filastrocca per giocare la carta dell'emergenza.

Gli eventi messi in fila da Frattini per gridare alla cospirazione non hanno alcun punto di contatto, nessuna coerenza

di GIUSEPPE D'AVANZO


Un complotto contro l'Italia, dunque. Il governo condivide la preoccupazione di Franco Frattini che esista una cospirazione, "una strategia diretta a colpire l'immagine dell'Italia sulla scena internazionale". L'aggressione al nostro Paese, sostiene il ministro degli Esteri, si alimenta enfatizzando quattro crisi.

La tragedia delle tremila tonnellate di rifiuti che soffocano Napoli; il crollo della Domus dei Gladiatorii a Pompei; le investigazioni (fondi neri?) negli affari di Finmeccanica, il primo gruppo industriale italiano nel settore dell'alta tecnologia, tra i primi dieci player nel mondo per Aerospazio, Difesa e Sicurezza; le rilevazioni che Wikileaks si prepara a diffondere, cablogrammi diplomatici con accuse di corruzione, 2,7 milioni di e-mail che il Dipartimento di Stato americano ha scambiato con le rappresentanze diplomatiche nel mondo: conterrebbero "imbarazzanti commenti" su diplomatici e leader mondiali, ce ne sarebbe anche per il nostro Paese e per i nostri leader.

Gli eventi messi in fila da Frattini per gridare alla cospirazione non hanno alcun punto di contatto, nessuna coerenza. Anche a forzarne la lettura non possono "far sistema" e sistematico è sempre un complotto. È difficile sovrapporre o accostare l'archeologia ai rifiuti o i rifiuti ai sistemi di difesa, se si vuole stare ai fatti. Più agevole forse scorgere dei nessi ipotetici tra Finmeccanica e Wikileaks, tra il lavoro nel mondo del gruppo industriale e l'attività corruttiva che il sito di Julian Assange svelerà
nelle prossime due settimane.

Per farla corta, il complotto contro l'Italia denunciato da Frattini è troppo elaborato e, si sa, tanto più è elaborato un complotto, tanto meno è probabile che esista. Il solo filo che può tenere insieme i rifiuti, l'incuria per i nostri beni culturali, gli illegalismi (possibili) nella gestione di Finmeccanica e le e-mail di Dipartimento di Stato è l'immagine del Paese, la reputazione e l'affidabilità della sua leadership. Qui si può anche immaginare che i cablogrammi spediti dall'ambasciata americana da Roma a Washington possano fare disastrosamente la loro parte dando conto dell'ambiguità dell'"amicizia" tra Berlusconi e Putin, del legame tra il Cavaliere e Gheddafi, della natura occulta degli accordi economici tra Italia-Russia-Libia o addirittura delle scapestrate e irresponsabili abitudini private che rendono il nostro capo del governo ricattabile in qualsiasi momento. Anche in questo malaugurato caso, però, si può parlare di cospirazione o agitare - come fanno i corifei del Cavaliere - lo spettro di una "potente centrale politico-affaristica" che vuole distruggere il governo e impadronirsi del Paese?

È sufficiente soltanto il buon senso per impedirsi di dar credito a questo racconto. Se si parla di Napoli e della sua catastrofe ambientale è perché non c'è in Occidente un'altra città ridotta in questo stato o un altro governo che, dopo anni e miliardi di euro, non sappia mettere fine a quella sciagura. Se si parla di Pompei è perché nessuna altra civiltà (se si esclude l'oscurantismo dei Talebani) demolisce o abbandona alla distruzione i simboli della sua storia e della sua cultura. Se si deve raccontare di che cosa accade in Finmeccanica è perché un faccendiere legato a banditi, mafiosi, neonazisti e massoni (Gennaro Mokbel) riesce a mettere le mani, pagando 8 milioni e 300 mila euro, sul 51 per cento della società Digint, partecipata al 49 per cento da Finmeccanica Group, il fiore all'occhiello dell'industria nazionale.

Dov'è, che c'entra il complotto? Che c'entra il Burattinaio? E chi può esserlo, poi? Chi può credere decentemente che questi fatti non si sovrappongano per una coincidenza, per una causalità ma grazie al lavoro di un "potenza" ostile? Sappiamo che sempre la propaganda prospera dalla fuga dalla realtà nella finzione e che noi non crediamo alla realtà del mondo visibile e sempre più ci fidiamo più della nostra immaginazione, ma anche in questo caso un'opinione pubblica anche se ipnotizzata dal rumore dei media fa fatica a credere a un'onnipotenza che tutto comprende, a un onnipotente che tutto programma.

Se ne rende conto anche il governo, a tarda sera. Consapevole dell'inconsistenza di ogni spiegazione cospiratoria, Frattini deve correggere il tiro: "Non vi è un unico burattinaio, ma una combinazione di informazioni inesatte e di enfatizzazione mediatica di fattori negativi il cui risultato è dannoso per l'immagine dell'Italia". Un piano contro il quale il comunicato di Palazzo Chigi invoca "fermezza e determinazione per difendere l'immagine nazionale e la tutela degli interessi economici e politici del Paese".

Ora qualche nebbia sembra diradarsi. Dunque, i problemi non sono i fatti ma chi li racconta o chi deve accertarli. Per il governo, non bisogna riferire e riflettere su "i fattori negativi". Se lo si fa, ci si iscrive alla schiera dei cospiratori, ai nemici dell'Italia che minacciano l'immagine nazionale e gli interessi economici del Paese. Un atteggiamento, dice Berlusconi, "anti-italiano". È "anti-italiana" l'informazione. È "anti-italiana" la curiosità della magistratura per Finmeccanica. Eliminato il giornalismo e l'ordine giudiziario - sembra di capire - l'Italia del Cavaliere non avrebbe più problemi né macchie né angosce. Contro questi "nemici" il governo invoca "fermezza e determinazione". Quali saranno, viene da chiedere, gli strumenti, le iniziative o le leggi che l'esecutivo disporrà o approverà per difendere immagine nazionale e interessi economici?

Senza dubbio, si può anche beffeggiare quest'ultima trovata complottistica per coprire i sempre più fragorosi fallimenti del governo. Antonio Di Pietro lo fa disegnando un Frattini che alza troppo il gomito prima di prendere la parola in pubblico. Un minimalismo beffardo può essere un errore, però. Quando il potere spinge il cospirazionismo nel cuore stesso della vita politica di un Paese si deve sapere udire il suono di un pericolo, l'annuncio di un rischio. Si deve poter vedere non tanto la mediocre infelicità dell'iniziativa, ma la trama di una politica.
Lo si può dire così. Come si può giustificare lo stupefacente crollo di un regime politico incardinato in un leader carismatico e popolarissimo, sostenuto da una maggioranza politica numericamente inattaccabile e da un consenso quasi ipnotico? Se l'autorità politica è incapace di riconoscere le proprie responsabilità e la sua incompetenza, si fa strada soltanto un'altra possibilità: la soluzione cospiratoria che più rendere ragione dei fatti - di tutti i fatti accaduti - in modo unitario, senza coinvolgere il malgoverno, le inettitudini delle persone, l'inidoneità delle politiche. È una strada - la teoria del complotto - che offre anche un qualche ragionevole elemento di speranza. Se si individuano e afferrano "i cospiratori", se li si colpisce o in ogni caso si impedisce loro di nuocere ancora, la battaglia può essere vinta, l'Italia potrà essere liberata non da chi l'ha ridotta in miseria e rovina ma, con un rovesciamento di ruoli e responsabilità, da chi ne ha subito finora le disgrazie.

Non si deve trascurare l'irrompere nella "narrazione" del Cavaliere del cospirazionismo finora utilizzato per proteggere se stesso non per denunciare le minacce contro il Paese. È vero, il cambio di passo può essere semplicemente l'inizio della prossima campagna elettorale. La filastrocca la si può già sentire: una "potente centrale politica e finanziaria", con un complotto, mi ha impedito di governare e di fare gli interessi del Paese, datemi la maggioranza del 51 per cento e vi libererò da ogni nemico. Ma c'è anche un'altra possibilità che deve essere tenuta in considerazione. Che cosa può produrre la diffusione della leggenda di una cospirazione nello stato di insicurezza (percepito e concreto) che angoscia il Paese? Al crepuscolo della sua avventura politica, Berlusconi potrebbe essere tentato di giocare la carta dell'emergenza, una condizione straordinaria che, nell'interesse del Paese, richiede decisioni che sacrifichino le norme, un diritto liberato dalla legge.

"La creazione volontaria di uno stato d'eccezione - ha scritto Giorgio Agamben - è divenuta una della pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche quelli cosiddetti democratici". D'altronde, lo abbiamo sempre saputo che Berlusconi avrebbe trascinato il Paese nella sua caduta.


(27 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/27/news/teoria_complotto-9557405/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Perché allarmano i festini selvaggi
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 12:00:21 pm
L'ANALISI

Perché allarmano i festini selvaggi

Da Noemi a Ruby gli scandali diventano questioni istituzionali.

Negli Usa dicono: il premier è più attento alle proprie fortune private che alla cosa pubblica

di GIUSEPPE D'AVANZO

Perché allarmano i festini selvaggi
Un premier accompagnato a Washington da "una profonda sfiducia". Un uomo "incapace, vanitoso". Un leader europeo "inefficace", "fisicamente e politicamente debole", sfibrato e fiacco di giorno dopo le lunghe notti bruciate in wilde partys, in orge e festini. Niente di più e niente di meno che un "portavoce di Putin" in Europa con il quale ha un rapporto "straordinariamente stretto".

Un rapporto mediato da un oscuro "intermediario italiano", santificato dalla comune cultura machista che riconduce quell'amicizia a "festini selvaggi". Un legame celebrato con "generosi regali" e lucrosi e redditizi contratti energetici. Berlusconi potrà anche riderci sopra, come fa sapere, ma il profilo del premier che, secondo el Pais, New York Times, Guardian, Der Spiegel, la diplomazia americana affida al Dipartimento di Stato è avvilente. Anche nei pochi, pubblici scampoli di informazioni - un nulla rispetto ai tremila cablogrammi "italiani" che saranno resi noti nei prossimi giorni - il nostro capo di governo appare un politico inaffidabile, prigioniero di una vita disordinata, vanaglorioso fino al parossismo, indifferente al destino dell'Europa, apparentemente distaccato anche dalle sorti del suo Paese, attratto soprattutto dal versante affaristico della politica.

L'immagine di un Berlusconi attento alle proprie fortune private - più che alla cosa pubblica che è stato chiamato ad amministrare - è così radicata a Washington
che addirittura convince, all'inizio di quest'anno, il segretario di Stato americano Hillary Clinton a chiedere alle ambasciate di Roma e di Mosca "informazioni su eventuali investimenti personali" di Berlusconi e Putin che "possano condizionare le politiche estere dei due Paesi". Come se i due "amici" conducessero gli affari di Stato nell'interesse del proprio portafoglio. Bisognerà leggere con attenzione il contesto in cui fioriscono questi giudizi. Berlusconi in un dispaccio è definito "un alleato preziosissimo" anche se sembra di capire più per la sua debolezza che lo rende manipolabile che per le sue convinzioni politiche e scelte geopolitiche. Bisognerà soprattutto valutare la qualità delle "fonti" dell'ambasciata americana a Roma, avere conferme che siano - come qualcuno suggerisce - "di assoluta fiducia" del presidente del Consiglio.

Perché non dirlo? I documenti riservati della diplomazia americana diffusi da Wikileaks rivelano il Berlusconi che conosciamo e che ostinatamente metà del Paese non può "riconoscere" perché non sa, perché buona parte dei media controllati o influenzati dal Cavaliere non possono né vogliono raccontarglielo. E' il premier che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, purtroppo: fragile come può essere fragile chi vive un mondo abitato soltanto da se stesso; debole come è debole chi conduce una vita magnetizzata dal proprio interesse particolare; inadatto a governare come i suoi fallimento dimostrano ogni giorno; vulnerabile come chi conduce una vita caotica e quindi inaffidabile per chi deve condividere con lui decisioni, scelte, una politica.
Oggi più di ieri, alla luce dei dispacci della diplomazia americana, appare malinconico il tentativo del presidente del consiglio e degli obbedienti corifei di liquidare gli scandali che lo hanno visto protagonista negli ultimi diciotto mesi come "spazzatura", come gossip, come violazione della privacy presidenziale. Se il premier riceve prostitute nelle sue residenze private diventate sedi del governo; se in quei palazzi (Villa San Martino, Villa Certosa e Palazzo Grazioli) si consumano ogni settimana "festini selvaggi" con decine di giovani donne - alcune minorenni - reclutate alla meno peggio da talent scout professionisti o improvvisati, a volte per disperazione anche sul marciapiede; se gli incontri del Cavaliere con Putin perdono ogni crisma di ufficialità per farsi, in luoghi protetti da occhi indiscreti, personali e riservati con un'agenda che non ha nulla di politico, è un obbligo fare di quelle faccende un "caso" politico. Non si possono nascondere queste abitudini del potere sotto il tappeto come se fossero trascurabile polvere perché quegli affari raccontano la vulnerabilità di Berlusconi, interpellano la credibilità delle istituzioni e, come Repubblica va dicendo da tempo, minacciano la sicurezza nazionale, la reputazione internazionale del nostro Paese. Con buona pace dei maestrini che per conformismo invitavano a parlare di ben altri problemi (pur di non parlare di questo), la riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non ha consentito e non poteva consentire a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui si è cacciato da solo e con la colpevole complicità di chi gli è stato accanto in questi anni.
Dispiace cadere nel convenzionale, ma ora i nodi stanno venendo al pettine e non c'è stato mai un dubbio che questa crisi prima o poi dovesse scoppiare. Perché non ci volevano doti da indovino per comprendere che se sono in giro centinaia di ragazze, protagoniste di quei "festini selvaggi", il capo del governo può essere umiliato e ricattato in ogni momento. Era sufficiente chiedersi dove finiscono o dove possono finire le informazioni - e magari le registrazioni e le immagini - in loro possesso e concludere che il progressivo disvelamento della vita scapestrata del premier e della sua fragilità privata, che non poteva sfuggire ai nostri partner e al nostro maggiore alleato, rendeva immediatamente Berlusconi indegno della sua responsabilità pubblica, inattendibile per gli alleati e, nel contempo, screditato il nostro Paese nel mondo.

Mettiamo in fila quel abbiamo saputo in quest'ultimo anno e mezzo. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne; la cerchia di prosseneti che gli riempie palazzi e ville di donne a pagamento, in qualche caso minorenni; la confessione di una donna che è stata pagata per una cena e per una notte con in più la promessa di una candidatura politica. Davvero ci possiamo oggi stupire se Berlusconi appare a Washington un frivolo inetto, meritevole di "una profonda sfiducia", preoccupato soltanto di organizzare i suoi wilde partys, del tutto disinteressato alla sua diurna agenda di lavoro di un capo di governo? E poi davvero così sorprendente dover oggi trarre delle conclusioni a proposito dell'adeguatezza di Berlusconi alla sua carica pubblica? Lo ha fatto questo giornale e la questione è stata posta anche in parlamento da trentacinque senatori del Partito democratico. Con un'interpellanza interrogarono Berlusconi sulla "potenziale ricattabilità del Primo Ministro italiano e dei rischi a cui potrebbero essere state esposte tutte quelle informazioni, anche segretissime, contenute nei dossier che Berlusconi è tenuto ad esaminare e che riguardano la difesa del nostro Paese e gli impegni cui siamo tenuti per l'appartenenza alla Nato".
"La questione - spiegò il senatore Luigi Zanda con parole che oggi sembrano un vaticinio - riguarda anche la sicurezza economica dell'Italia. Ad esempio, la delicatezza e la vulnerabilità della nostra posizione (ricordata anche dall'Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia), per i rifornimenti energetici e i nostri rapporti con mercati delicati come quelli della Russia e della Libia. Non è difficile comprendere come a un uomo di governo che tratta in prima persona affari di questa natura e di tale consistenza economica e geopolitica, venga richiesto di non ricevere a casa sua decine di donne sconosciute con tanto di registratori e di macchine fotografiche". "Festini selvaggi" e affari energetici, l'avventura politica di Berlusconi pare essere tutta qui.

(29 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/29/news/d_avanzo_wiki-9628967/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO I teoremi del gran bugiardo
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2010, 05:20:03 pm
I teoremi del gran bugiardo

di GIUSEPPE D'AVANZO

Berlusconi torna a parlare di complotto: "Qualcuno paga le ragazze per screditarmi", dice. Vero o falso? Abbiamo capito da qualche tempo che al fondo del "caso Berlusconi" c'è "una nuova civilizzazione" che abolisce l'idea stessa di verità. È un dispositivo che rende indifferente sulla scena politica l'attendibilità del premier.

Perché egli  -  abusando del suo potere e del conflitto di interessi che lo protegge  -  si può cucinare la verità come meglio gli conviene in quel momento, salvo poi prepararsene ancora un'altra, il giorno dopo. Quanto valgono le parole dette dal presidente del Consiglio? Vanno prese sul serio o liquidate con un'alzata di spalle? Bisogna decidersi. Non può sfuggire che le grida di Berlusconi  -  "È tutto falso, qualcuno paga quelle ragazze che raccontano dei festini"  -  siano il nucleo stesso di un sistema politico che cancella ogni distinzione tra vero e falso. Con quel grido il premier elimina, non solo le sue parole  -  appena ieri ci ha raccontato come quelle feste con venti, trenta giovani e giovanissime donne lo rilassino, "una, due volte alla settimana"  -  ma esige che siano cancellati i ricordi nella mente dell'opinione pubblica e i fatti concreti: le parole delle minorenni Noemi e Ruby; la memoria di Nadia e di Terry; addirittura le voci e le immagini raccolte da Patrizia. Berlusconi pretende che sia accettato il suo personale canone secondo il quale è
vero ciò che egli dichiara vero. Punto. Nel suo mondo di cartapesta, la verità degradata a "credenza" dura un solo giorno e il Gran Bugiardo che l'ha fabbricata non può mai essere accusato di mentire perché ha abolito l'idea stessa di verità.

Sappiamo che per Berlusconi funziona così e tuttavia, per una volta, lasciamo in un canto la necessità di stabilire quanta menzogna possa sopportare una democrazia prima di collassare e prendiamo molto sul serio le sue parole.

Dunque, sostiene Berlusconi: quel che riferisce l'ambasciata americana di Roma al Dipartimento di Stato è falso. Non ci sono "festini", tanto più "selvaggi": "le ragazze che ne parlano sono pagate". Ora anche qui, lasciamo al senatore Gaetano Quagliariello la convinzione che Via Veneto copi Repubblica e dimentichiamo  -  come assicura chi ha avuto modo di consultare la corrispondenza diplomatica  -  che quelle informazioni sono state fornite ai diplomatici Usa da "ambienti della coalizione di maggioranza, del governo, del Parlamento e da ambienti dell'imprenditoria". Diamo per accertata la buona fede di Berlusconi quando rivela che c'è un qualche potere, "entità", manina, manona che paga quelle ragazze per accusarlo di una patologica satiriasi. È evidente che la storia non può finire qui, con una "verità" del giorno che sarà presto cancellata dalla "verità" del giorno dopo. Se c'è in giro  -  come giura il Cavaliere  -  chi paga delle prostitute o delle minorenni per calunniarlo, in gioco non c'è soltanto la rispettabilità del cittadino Silvio Berlusconi da Arcore, ma un interesse nazionale che obbliga lo Stato in tutte le sue articolazioni a proteggere il capo del governo; a fare luce sulla manovra che vuole screditarlo; a individuare i cospiratori che lo minacciano. A prendere molto sul serio il presidente del Consiglio, si deve credere che egli sia in grado di documentare le sue accuse.

Le storie dei suoi "festini" sono sotto gli occhi dell'opinione pubblica dall'aprile del 2009 quando divenne pubblica l'amicizia del settantaquattrenne Cavaliere con la minorenne Noemi Letizia. Si deve pensare che in questi mesi il capo del governo abbia messo sotto pressione i servizi segreti (magari anche spioni privati e non solo Niccolò Ghedini) per venire a capo delle ragioni di un rosario di eventi e confessioni che ha svelato abitudini personali che sono molto pericolose per uno statista. Si deve credere che l'intelligence gli abbia potuto offrire in questo tempo un quadro dello stato delle cose e magari anche il profilo o i nomi dei possibili cospiratori.

D'altronde, tra le tante "verità del giorno", appena due settimane fa, Berlusconi indicò nella mafia il mandante della crisi innescata dalle dichiarazioni di Ruby Rubacuori, la minorenne venuta dal Marocco: "Nessuno può negare  -  disse  -  che alcune delle cose che accadono siano una vendetta della malavita". Accusa che non ha più ripetuto. Ora pare giunto il momento di scoprire le carte, se carte ci sono nelle mani di Berlusconi. Il percorso non è tortuoso. Gli interlocutori del capo del governo, nella grammatica istituzionale, sono due: il Parlamento e la magistratura. Il capo del governo accetti di incontrare una buona volta il Copasir, come gli fa obbligo la legge. Sveli la trama che assedia la sua persona e il suo governo. Subito dopo, raggiunga una procura della Repubblica, magari quella di Milano dove è già aperta un'inchiesta contro coloro che conducono giovani donne alle feste di Arcore. Affidi ai quei pubblici ministeri i dossier che gli sono stati consegnati dall'intelligence. Confidi ai magistrati i suoi ricordi, le sue angosce, l'intuizione che di certo avrà su chi corrompe quelle ragazze per danneggiarlo. Nell'interesse del Paese, collabori a smascherare il complotto e i cospiratori. Offra il suo doveroso servizio alla sicurezza e all'integrità dell'Italia. Berlusconi non ha altre strade da percorrere a meno che non voglia essere considerato un uomo incapace di assumersi le sue responsabilità e un Gran Bugiardo.

(30 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/30/news/teoremi_bugiardo-9665908/?ref=HRER3-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quei cablo americani su un premier fragile e squalificato.
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2010, 04:11:19 pm
IL DOCUMENTO DI WIKILEAKS

L'obiettivo: banalizzare le rivelazioni per difendere un potere grottesco

Quei cablo americani su un premier fragile e squalificato.

Letta e Cantoni non sono entità neutre dell'establishment berlusconiano: braccio destro e vecchio amico.

Il Cavaliere non si preoccupa del bene comune: mai nelle carte svelate c'è l'iniziativa di un uomo di Stato

di GIUSEPPE D'AVANZO

L'obiettivo: banalizzare le rivelazioni per difendere un potere grottesco Gianni Letta e Silvio Berlusconi
Gianni Letta e Giampiero Cantoni. Bisogna cominciare da qui, dalle fonti dell'ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, dalla loro qualità, dai loro nomi. La strategia diversiva organizzata dagli uomini di Berlusconi nelle prime ore della "crisi WikiLeaks" è nota: l'ambasciata di via Veneto  -  ripetono ugole obbedienti  -   invia al Dipartimento di Stato niente di più e niente di meno che una miserabile "rassegna stampa" con un "copia e incolla" delle cronache dei giornali più ostili al Cavaliere.

Giornali come Repubblica, per capirci. Che volete che sia? Vi aspettate una bomba? Avrete un petardo bagnato!
Questa filastrocca è stata ripetuta a mo' di giaculatoria in questi giorni e c'è ancora chi, come l'infelice avvocato Niccolò Ghedini, ha da ripeterlo in queste ore, per contratto e per passione. Si comprende la trama: il premier deve trasformare le rivelazioni dei cablogrammi diplomatici in fuffa; banalizzarne il significato; minimizzarne gli esiti politici interni; limitare i catastrofici effetti internazionali per la sua reputazione e per la credibilità dell'Italia.

Bene, in questo teatro di cartapesta irrompono ora i nomi delle fonti della diplomazia americana. Gianni Letta e Giampiero Cantoni non sono identità neutre dell'establishment berlusconiano. Letta è il braccio destro, l'alter ego di Silvio Berlusconi, l'effettivo capo del governo nei lunghi periodi in cui al Cavaliere viene a noia o non può affrontare la
fatica del governare. Giampiero Cantoni è meno conosciuto ma, non per questo, meno rilevante. Amico di lunga data di Berlusconi, è stato presidente di Efibanca e della Banca nazionale del lavoro. Caduto nella polvere nella stagione di Mani Pulite (patteggia una condanna per corruzione e bancarotta fraudolenta), rinasce con Forza Italia. Oggi è il presidente della commissione Difesa del Senato. Sono Letta e Cantoni - e quindi fonti dirette, informate dei fatti, non ostili al capo di governo, anzi a lui devote - a spiegare all'ambasciatore David Thorne il declino di Silvio Berlusconi, i suoi incubi, l'angosciante decadenza fisica, le ragioni di un crepuscolo politico che lo abbandonano, prigioniero, a patologiche ossessioni: il sesso, il denaro, l'angoscia di vedersi sottratto il potere.

D'altronde, Letta e Cantoni non possono offrire all'ambasciatore il racconto vanaglorioso dell'ininterrotto rosario di successi del Cavaliere. Possono mica ripetergli che se le truppe di Mosca si sono fermate alle porte di Tbilisi scongiurando un conflitto Russia-Georgia, il merito è di Berlusconi che ha evitato l'inizio di una nuova Guerra Fredda. O ricordargli che se Barack Obama ha firmato a Mosca il trattato per la limitazione delle armi nucleari, il merito è di Berlusconi che ha favorito "l'avvicinamento" della Casa Bianca al Cremlino. O ancora, che se l'Alleanza atlantica è ancora vegeta, lo si deve al lavoro di persuasione di Berlusconi che ha convinto il leader turco Erdogan a dare il via libera alla candidatura di Rasmussen o ripetergli che se "l'Europa non resterà mai più al freddo", il merito è di Berlusconi che ha convinto Erdogan e Putin a stringersi la mano dinanzi al progetto del gasdotto South Stream. Queste sono bubbole pronte per il "mercato" nazionale.

Questo racconto fantasioso, standardizzato, senza incrinature è buono per l'Italia del Tg1 di Minzolini. Nelle conversazioni tra le "due personalità personalmente e professionalmente vicine a Berlusconi" e David Thorne si scorgono accenni di un sincera ansia per le sorti del Paese, una schietta preoccupazione per l'incapacità del capo del governo di far fronte alle sue responsabilità. O, per dirla in altro modo, la convinzione che la sua fragilità privata - e fisica e psicologica - gli impedisca con evidenza di far fronte al suo impegno pubblico. Non affiora nessun biasimo o denigrazione.
Soltanto l'inquietudine di chi deve prendere atto del declino di uomo che è stato una volta vigoroso, vitale e ammirato. È questo il messaggio che l'ambasciata di Roma invia allora a Washington: Berlusconi è un uomo debole, reso instabile dalla satiriasi: una sexual addiction che lo debilita fisicamente. È politicamente fragile, un intralcio anche per i suoi che se ne vogliono liberare presto e hanno già preso a pensare come farlo e quando e come. Tormentato da difficoltà finanziarie, guai giudiziari, scandali sessuali, egli non appare in grado di decidere, di fare il suo lavoro.

Appaiono lontani i tempi in cui Berlusconi era capace di giocare sempre la sua partita e sempre border line con grande spregiudicatezza, come racconta l'ambasciatore Ronald Spogli in un cable del 26 ottobre 2005. I sondaggi lo danno sotto di otto punti e il Cavaliere, preoccupato per la vicina campagna elettorale che lo opporrà a Prodi, chiede "specificamente" di poter incontrare George W. Bush a Washington e di parlare prima di una sessione congiunta del Congresso "per migliorare le sue prospettive, prima delle elezioni di aprile 2006". Spogli ricorda che Berlusconi "pianifica" il viaggio e butta giù una "lista della spesa". Chiede una dichiarazione presidenziale a sostegno di valori condivisi; il supporto per estendere nel 2005 il mandato delle Nazioni Unite in Iraq; progressi concreti del piano per migliorare la sicurezza dell'Iraq e permettere una riduzione delle truppe italiane.

Il Berlusconi del 2009 è un altro. L'email inviata al Dipartimento di Stato a Washington ha una data, 27 ottobre, e un titolo chiarissimo: "Italia: gli scandali fanno pagare un prezzo sulla salute personale e politica di Berlusconi".
Il sottosegretario Gianni Letta, ricorda l'ambasciatore, dice il 23 ottobre che Berlusconi è "fisicamente e politicamente debole". Era normalmente iperattivo, oggi è "privo d'energia" e addirittura "depresso" dopo l'aggressione subita in piazza Duomo a Milano. Il giorno prima, il 22 ottobre, Giampiero Cantoni è stato più esplicito. "Siamo tutti preoccupati per la sua salute" dice a un funzionario dell'ambasciata e osserva che Berlusconi è svenuto tre volte in pubblico e che "i suoi test medici sono risultati un gran pasticcio".
"Cantoni - si legge nel dispaccio - ha detto che le frequenti nottate di Berlusconi e la tendenza per feste scatenate non gli concedono riposo a sufficienza". Sveglio di notte e insonnolito di giorno. L'ambasciata lo conferma al Dipartimento di Stato con qualche ricordo diretto: "Berlusconi si è addormentato brevemente durante una visita di cortesia dell'ambasciatore a settembre, ed è apparso distratto e stanco in un evento del 19 ottobre cui ha partecipato l'ambasciatore".

Ancora Cantoni garantisce come "Berlusconi sia dominato da preoccupazioni private. Osserva che si è sentito allontanato dalla sua famiglia da quando sua moglie Veronica Lario ha provocato uno scandalo pubblicando una lettera aperta e chiedendo il divorzio e accusando il premier settantaquattrenne di frequentare minorenni". Teme che la Lario possa dimezzare le sue ricchezze con il divorzio: "A quel che si dice, (lei) chiede il 50 per cento del patrimonio personale di Berlusconi più 100 milioni di pensione annuale".
Soldi e timori. Ancora soldi, ancora timori. La vita di Berlusconi pare oscillare come un pendolo tra l'incubo maniacale di vedere assottigliare il proprio tesoro e il proprio potere e il panico di chi, in forma paranoica, si sente assediato da mondo. Non è soltanto la moglie a dargli fastidi finanziari. Secondo Cantoni, "Berlusconi teme che sarà necessario liquidare importanti "attivi" dei suoi affari per affrontare la multa di 750 milioni di euro ordinata dal tribunale civile", scrive l'ambasciata e intende la sanzione inflitta alla Fininvest come indennizzo dei danni causati alla Cir di Carlo De Benedetti con la corruzione del giudice che ha deciso la controversia Mondadori.

Sorpreso a festeggiare Noemi Letizia, il premier non pensa di aver deciso una mossa inopportuna. Non crede di dover dare ordine alla sua vita e decenza alle sue frequentazioni. Immagina un intrigo. Cantoni confida: "Il premier pensa che i servizi di intelligence italiani gli abbiano teso una trappola". La Corte Costituzionale boccia la legge che dovrebbe immunizzarlo (il "lodo Alfano") e il premier - racconta Gianni Letta - ha "uno scoppio d'ira". Accusa "il presidente della Repubblica di lavorare contro di lui e reagisce in modo emotivo contro il sistema giudiziario in generale". Ancora un complotto, insomma. Gianni Letta riferisce che "lo scoppio d'ira di Silvio Berlusconi provoca relazioni gelide con il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: un episodio che fa apparire debole", il capo del governo.

Il premier vede macchinazioni in ogni passaggio. Dimentica quanto gli sia abituale cedere alla tentazione dell'intrigo. Con Piero Marrazzo gioca come il gatto con il topo, si scopre.
Il funzionario americano ricorda e scrive nel cablogramma che, mentre conversa con Cantoni, questi riceve una telefonata di Berlusconi che "lo informa dell'imminente arresto di quattro carabinieri sospettati di aver incastrato con un ricatto sessuale il governatore regionale del Lazio". Il caso, osserva l'ambasciatore nella nota, "venne alla luce sulla stampa qualche giorno dopo". I furfanti furono arrestati il 21 ottobre, quanti giorni prima Berlusconi ha saputo dell'arresto dei ricattatori? E da chi, dai carabinieri del Ros o in linea diretta dalla Procura di Roma? E perché imbroglia Marrazzo fino al giorno dell'arresto dei quattro furfanti invitandolo a comprarselo in fretta, il video del ricatto, magari rivolgendosi "a Giampaolo Angelucci, che ti libererà dai guai"?
I cablogrammi diplomatici sono un affresco e il disegno che si scorge squalifica l'uomo che ha preteso di stringere una maiestas, un di più di potere rispetto a qualsiasi altro potere. Nella sua persona, nelle sue angosce shakespeariane, nella sua realtà fisica, nei suoi gesti, nel suo corpo, nelle sue trame, nelle sue fantasie, nella sua sessualità, nel suo modo di essere, appare un personaggio grottesco, mai preoccupato del bene comune, sempre del suo personale bene, sempre di se stesso, del suo denaro, della sua fortuna, del suo potere. Mai che nelle carte finora svelate ci sia l'iniziativa, la parola, la vita di un uomo di Stato.

(03 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/03/news/d_avanzo_letta-9786211/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Una violenza annunciata
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 04:21:47 pm
IL COMMENTO

Una violenza annunciata

di GIUSEPPE D'AVANZO

La violenza, alla fine, è diventata l'unica realtà di una giornata che ha visto manifestare a Roma gli aquilani senza ricostruzione, i napoletani senza diritto alla salute, minacciati da tonnellate di rifiuti, e soprattutto  -   in decine e decine di migliaia  -  gli studenti senza futuro, agitati dalla riforma Gelmini. Una rappresentazione dunque del disagio, dell'insicurezza di un Paese che non riesce più a farsi ascoltare, che non trova più alcuna linea di condivisione tra se stesso e chi lo governa; un Paese abbandonato, dimenticato, smarrito nelle nebbie di un illusionismo mediatico che riscrive la realtà reinventandola con una narrazione spettacolare dove l'Aquila è stata già ricostruita. Napoli è stata già pulita; scuola, università e ricerca sono state già risanate dalle innovazioni del ministro. Il racconto autocelebrativo e bugiardo semina in chi lo subisce - e, subendolo, è ridotto al silenzio - rancore, risentimento, rabbia. Sentimenti che in questi lunghi mesi - per Napoli e L'Aquila, anni - sono rimasti freddi, sotto controllo e non hanno mai prodotto brutalità perché lucida è la consapevolezza che la violenza cancella ogni ragione e ogni possibilità di averne.

Non è stato così ieri, quando la violenza si è fatta assoluta. Come sempre accade quando diventa assoluta, la violenza ha raschiato via gli obiettivi futuri dei movimenti che erano in piazza - le loro speranze, le loro ragioni - e si è
fatta padrona della giornata. Ha dominato la situazione nella ellittica spirale dove la violenza della polizia reagisce alla violenza dei dimostranti e c'è posto soltanto per la tensione, la paura, le urla, il fuoco, il ritmo dei colpi, le bastonature.

Che cosa è accaduto? Quel che si sapeva da giorni sarebbe accaduto. Un gruppo di black bloc o anarchici, chiamateli come volete, si sono impossessati della protesta e del "cuore" della Capitale. Con logiche e organizzazione "militari" hanno cercato e ottenuto lo scontro diretto con le forze dell'ordine. Hanno costruito barricate. Hanno sistematicamente bruciato auto, vandalizzato "i simboli del capitalismo" come agenzie bancarie e bancomat e distrutto l'intera area del Tridente - via del Corso, via del Babuino, via di Ripetta - a ridosso dei palazzi della Repubblica, a Monte Citorio la Camera dei Deputati; a Palazzo Madama, il Senato; a Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio; a Palazzo Grazioli, la residenza privata del capo del governo. Con operazioni diversive, che hanno ingannato i "reparti mobili", sono riusciti a far esplodere tre bombe carta agli Uffici del Vicario, a pochi metri dalla Camera; a minacciare Palazzo Grazioli, a "conquistare" per lungo tempo via del Corso e poi, per più di un'ora, piazza del Popolo.

Come è potuto accadere? E' quel che il governo dovrebbe spiegare. Si sapeva che il "blocco nero" ci sarebbe stato. Si sapeva che con loro ci sarebbero state frange dei movimenti anarco insurrezionalisti greci e tedeschi, come poi è davvero stato. E allora? Perché si è accettato di subire la loro prepotenza con lo stesso fatalismo con cui si accetta che piova e faccia freddo? Ora naturalmente ci sarà l'intelligence che dirà "l'avevamo detto", le polizie che diranno: "l'allarme era troppo generico e sommario per intervenire". Il risultato non cambia: sotto gli occhi delle forze dell'ordine, un paio di centinaia di "neri" hanno potuto devastare il centro storico di Roma, il "cuore" politico e istituzionale della Capitale e imbruttire movimenti di protesta responsabili che finora hanno fatto leva soprattutto su parole, analisi, ragionevoli argomenti. Soltanto gli irresponsabili corifei del Sovrano possono sovrapporre le violenze dei black bloc al voto di fiducia. Soltanto un Gasparri può vedere nelle "violenze di piazza, la conseguenza della predicazione violenta di troppi apprendisti stregoni". Quale predicazione violenta? Quella paziente e pacata degli aquilani? Quella ostinata e mite degli studenti e dei ricercatori universitari che, con la più violenta delle scelte, salgono su un tetto per "farsi vedere"? La verità è che nel governo, nella maggioranza c'è chi valuta come un'occasione politica - non disprezzabile con i tempi che corrono - il ritorno a una stagione di violenza. Consente di invocare "repressione", come fa Sacconi, ancor prima di comprendere e giudicare. Permette di inaugurare una nuova emergenza e ancora uno "stato d'eccezione". Soprattutto concede di nascondere, tra i fumi delle auto bruciate e le grida contro il "nuovo terrorismo", il fallimento di un governo incapace di dare risposte a un'Italia sofferente e fragile. E' quella che ieri, con Roma, ha pagato il maggior prezzo a tre ore di violenza annunciata.

(15 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/15/news/d_avanzo_scontri-10213487/?ref=HRER3-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La speranza e i manganelli
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 11:01:54 am
L'ANALISI

La speranza e i manganelli

di GIUSEPPE D'AVANZO


ASCOLTATO Maroni che si lamenta della magistratura e osservate le mosse di Alfano che ordina un'ispezione ministeriale, si deve concludere che il governo non ha capito o non vuole capire che cosa è accaduto a Roma il 14 dicembre. Peggio, sembra non comprendere che cosa può accadere mercoledì prossimo quando al Senato sarà approvata definitivamente la "riforma Gelmini". Questo provvedimento ormai non parla più soltanto dell'università o agli studenti e ai ricercatori.

È diventato il simbolo della crisi di una generazione e del suo futuro. Si è trasformato nella rappresentazione dell'indifferenza dei governanti per i governati, dell'incapacità del potere di ascoltare chi è in difficoltà e impaurito. È ormai l'allegoria del disinteresse della politica per la sofferenza del mondo del lavoro, per lo smarrimento di chi, colpito da una catastrofe (un terremoto, la crisi dei rifiuti), è stato abbandonato a se stesso.

Il 14 dicembre a Roma non è accaduto soltanto che un gruppo di violenti si sia impadronito della protesta e - poi - la violenza di ogni ragione. È accaduto che per la prima volta nei modi del tumulto (lasciamo perdere l'esasperazione di chi parla di "guerriglia") ha preso forma pubblica e collettiva un rancore senza speranza, la rabbia di un Paese incattivito, socialmente fragile, segnato "da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà e soprattutto di impoverimento", come documenta Marco Revelli nel suo Poveri, noi. Un Paese dove il prezzo della crisi - e delle soluzioni preparate dal governo - cala come un maglio sulla vita e sulle aspettative soprattutto dei più giovani. Le statistiche ufficiali ce lo raccontano. Per l'Osce, nei 33 Paesi maggiormente industrializzati, l'Italia è al penultimo posto per l'occupazione giovanile con il 21,7 per cento di occupati: soltanto uno su cinque lavora. Tra chi è occupato il 44,4 per cento ha un lavoro precario e il 18,8 lavora part-time. Tra chi è disoccupato, il 40 per cento lo è da lungo tempo e il 14,9 ormai non studia né lavora. D'altronde - dice Marco Revelli - "l'80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l'informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato".

Se rimuove questo quadro, il governo si impedisce di comprendere, ammesso che lo voglia, le ragioni della violenza. Non le ragioni di chi, vestito o no di nero, centro sociale o "cane sciolto", vuole "stare in piazza" con le pratiche dei black bloc e, prigioniero di un freddo nichilismo, non si fa alcuna illusione sulla democrazia e pensa - come il "blocco nero" - che "la violenza non sia un problema morale, è semplicemente la vita, il mondo in cui siamo capitati che non lascia altra strada che l'illegalità".

Queste ragioni sono inaccettabili e questa violenza va anticipata, isolata e ogni illegalità punita. È un'operazione che può avere un esito positivo soltanto se - in tutti coloro che il 14 dicembre non si sono opposti o hanno addirittura approvato quelle violenze - si alimenta una speranza nella democrazia e la fiducia nel dialogo con le istituzioni; se si attenua la convinzione diffusa in una larga fascia di giovani (16/35 anni) di essere le vittime sacrificali del declino, le anime morte della crisi.

Il messaggio che ieri il governo ha voluto diffondere è stato di segno opposto. Come se la crisi sociale rappresentata il 14 dicembre potesse essere affrontata come "questione di ordine pubblico", Maroni e Alfano hanno voluto dire soltanto della forza, con quale violenza e determinazione il governo avrebbe affrontato l'emergenza di nuovi tumulti. Lo hanno fatto nei soliti modi di un governo che crede in un diritto diseguale e immagina, per i potenti, un diritto debole e per i deboli leggi e dispositivi brutali. Questi campioni del "garantismo" che chiedono legittimamente per Cosentino, Dell'Utri, Verdini, Bertolaso l'accertamento della responsabilità personali, la verifica della fondatezza delle accuse e dell'attendibilità delle fonti di prova pretendono, abusivamente, un lavoro all'ingrosso per i giovani e giovanissimi arrestati a Roma l'altro giorno. Invocano, al di là delle prove, una detenzione esemplare non per le dirette responsabilità degli indagati, ma per le colpe di chi è riuscito a farla franca come se la stessa presenza a una manifestazione travolta dalle violenze sia già una prova di colpevolezza. Un'idea autoritaria che trova la sua dimostrazione nella insensata proposta del sottosegretario all'interno Alfredo Mantovano di allargare il "divieto di accedere alle manifestazioni sportive" (il D. a. spo.) dagli stadi alle piazze, come se una manifestazione di dissenso possa essere paragonata a una partita di calcio.

È l'avvilita idea di democrazia della destra berlusconiana. Ci deve consigliare attenzione perché non sarà con la forza e con "la repressione", invocata già a caldo dal ministro Sacconi, che si verrà a capo della crepa che si è aperta tra le generazioni più giovani e le istituzioni. Sarebbe azzardato e imprudente se un governo politicamente e socialmente debole decidesse di rafforzare se stesso allargando quella ferita, accendendo la collera invece di raffreddarla prestando ascolto alle ragioni del disagio.

(18 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/18/news/speranza_manganelli-10343062/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Diritto di polizia
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2010, 02:29:36 pm
IL COMMENTO

Diritto di polizia

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL DISEGNO, ogni ora che passa, si fa chiaro e non sorprende. Il governo, politicamente debole, sordo alle difficoltà del Paese, lontano da una società che umilia, vuole rilanciare se stesso inventando una nuova emergenza. Addirittura un'emergenza "terrorismo". Secondo una leadership politica che fa vanto di essere stata fascista (La Russa, Gasparri, Alemanno), "terrorismo" sarebbero le manifestazioni di protesta contro la "riforma Gelmini" e potenziali "terroristi" chi vi partecipa.

Quindi, sostenuta dal ministro dell'Interno, prima ha escogitato lo sciagurato trucco di far valere per i manifestanti più ostinati  -  scelti come? selezionati da chi?  -  il divieto di accedere alle manifestazioni sportive (D. a. spo.) di fatto ipotizzando un ritorno al Testo di Pubblica Sicurezza in vigore, dal 1926, nel ventennio fascista. Quel testo, che definiva misure di prevenzione in base al solo sospetto, non imponeva di accertare la responsabilità diretta per fatti considerati dalla legge reati. Per sottoporre il "soggetto pericoloso" a una severa vigilanza e lontano da casa, riteneva sufficiente un ipotetico "pericolo alla sicurezza pubblica e all'ordine politico". Sono più o meno  -  non vi pare?  -  le ragioni che hanno convinto in coro il ministro dell'Interno (Maroni) e della Giustizia (Alfano) a dare sulla voce ai giudici che, in attesa del processo, hanno rimandato a casa i giovani e giovanissimi arrestati il 14 dicembre a Roma.

Già poteva bastare per dirsi impensieriti dai giorni che verranno, ma eravamo soltanto all'inizio di una progressione autoritaria. Maurizio Gasparri  -  chi altro?  -  chiede ora "arresti preventivi". Il presidente dei senatori della destra dice: "Serve una vasta e decisa azione preventiva. Si sa chi c'è dietro la violenza scoppiata a Roma. Tutti i centri sociali i cui nomi sono ben noti città per città. Qui ci vuole un "7 aprile". Mi riferisco al giorno in cui furono arrestati tanti capi dell'estrema sinistra collusi con il terrorismo".

Sorprendersi? Le parole di Gasparri  -  non smentito da quel capo di governo che, amante dei trucchi, chiama a sé i "moderati" per difendere il suo malfermo potere  -  confermano quel che già avevamo capito da tempo, in verità. Innanzitutto che, ammesso e non concesso che non sia stata una trovata da marketing politico, la "rivoluzione liberale" promessa da Berlusconi fallisce per l'incapacità politica di progettarla e per la cultura di un'élite che non si è allontanata di molto dalle celebrazioni del fascismo delle leggi razziali e della Repubblica di Salò. Due. Il "garantismo" della destra italiana non è altro che la difesa di un diritto del privilegio e dell'esclusione che dovrebbe assicurare indulgenze ai Potenti e rigido e inflessibile castigo ai Deboli. Lo abbiamo già visto in azione contro rom e migranti. Ora Gasparri lo pretende contro gli avversari politici richiamando, con la storia del "7 aprile" del 1979, il momento forse più limpido di quel che un filosofo del diritto, Luigi Ferrajoli, ha definito la "crisi della ragione giuridica" che ha attraversato per decenni le emergenze del terrorismo e della mafia.

Anche se oggi non si scorge alcun pericolo, alcuna urgenza, alcun terrorismo, nessun terrorista, la destra di governo chiede che siano attive le stesse prassi di quella stagione: prassi in cui prevalgono le ragioni dell'efficienza coniugate alla facile idea, propria del senso comune autoritario, che la giustizia "deve guardare al reo dietro al reato, alla sua pericolosità dietro la sua responsabilità, all'identità del nemico più che alla prova dei suoi atti d'inimicizia" (Ferrajoli). Tre. In coerenza con la propria cultura politica, la destra di governo invoca uno Stato etico dove morale e diritto si confondono e la salvaguardia del principio di stretta legalità è sacrificato ai "poteri arbitrari che trovano il loro spazio naturale nella definizione non tassativa dei reati, nella flessibilità delle pene, nel potere dispositivo, e non cognitivo, del giudice" (Norberto Bobbio).

Ci sarà tempo per interrogarsi sulla pressione scaricata sulle polizie sospinte dalla volontà autoritaria del governo nello spazio stretto tra la politica e il diritto, tra la violenza e la legge (già "Genova 2001" ci ha detto che in uno Stato che si presenta come questurino c'è chi è disponibile a un'illegalità criminale quando il dissidente diventa un "nemico" da annientare). Oggi vale la pena soltanto rinnovare una preoccupazione che sarà opportuno che sia condivisa nelle prossime ore. Contro un movimento di giovani che rifiuta un progetto di ordine sociale, che si oppone a un'eterna precarietà, alla caduta di ogni garanzia di eguaglianza e chiede opportunità e futuro, il governo decide di rafforzare se stesso preparando il peggio. Evoca un "diritto di polizia" e un uso della violenza. Accende la rabbia. Eccita gli animi meno consapevoli. Cinicamente fa di conto: nuovi disordini gli fanno gioco, debole come è. È questa la funesta trappola che, a partire da oggi, i "movimenti" dovranno aggirare con lucidità e intelligenza.

(20 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/20/news/commento_d_avanzo-10402610/?ref=HREA-1


Titolo: I DOCUMENTI DI WIKILEAKS (D'AVANZO. GRECO. RAMPINI)
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2011, 06:24:33 pm
I DOCUMENTI DI WIKILEAKS

Berlusconi, Putin e quel biglietto la vera storia del gas di Mosca

Chi è Valentino Valentini: nelle rivelazioni del sito di Assange sarebbe lui l'uomo ombra indicato dall'ambasciatore Spogli come intermediario d'affari del presidente del Consiglio in Russia.

Le altre figure dei "fedelissimi" del premier e il loro ruolo
 
da Roma GIUSEPPE D'AVANZO
da Milano ANDREA GRECO
da New York FEDERICO RAMPINI


"VALENTINO Valentini, fino a qualche anno fa, non parlava il russo: diciamo che lo balbettava...", ricorda chi glielo ha sentito parlare a Villa Abamelek, la residenza dell'ambasciata russa a Roma. "Era il russo di un bambino ai primi anni della scuola elementare". Eppure, nelle rivelazioni di WikiLeaks (leggi il documento) 1, sarebbe lui la shadowy figure, l'uomo ombra indicato dall'ambasciatore Spogli come intermediario d'affari di Silvio Berlusconi in Russia. Allevato da Publitalia, assistente del Cavaliere al parlamento europeo, deputato dal 2001, oggi segretario particolare del premier, Valentini si autodefinisce "consigliere speciale per le relazioni estere e tutor delle imprese italiane in Russia". Ci hanno detto, appunto: "Per la conoscenza di quella lingua". Che però - almeno fino al 2005 - non conosce.

Infatti, a palazzo Chigi ha lavorato in pianta stabile (in attesa che le performance di Valentini migliorassero) un interprete, l'armeno Ivan Melkumian, sempre presente negli incontri pubblici e privati del Cavaliere. C'è un primo arcano da sbrogliare, allora: perché, con una noiosa cerimonia a Villa Abamelek, Valentini è stato insignito proprio nel 2005 del prestigiosissimo ordine di Lomonosov con motivazioni che non sono mai state rese note? Quali sono i meriti che egli ha raccolto per la Russia di Putin? La domanda è intrigante anche perché è difficile trovare un capitano d'impresa attivo in Russia che abbia incontrato per motivi concretamente professionali Valentini o abbia soltanto avuto eco delle sue attività a vantaggio delle imprese italiane. Alcuni italiani a Mosca - per dimostrare l'assoluta estraneità del segretario particolare del premier agli interessi della comunità italiana - raccontano come si svolgono le sue visite nella città degli zar. "Valentini sbarca in uno degli aeroporti di Mosca. Lo attende un'auto messa a disposizione da Antonio Fallico. E' il presidente di Zao Banca Intesa (sussidiaria del gruppo Intesa San Paolo) e cugino di Marcello Dell'Utri o almeno così va dicendo da decenni. Valentini raggiunge l'albergo - il Metropol di fronte al Bolshoi in Teatralny Proiezd - o, in alternativa, direttamente il Cremlino da dove riemerge qualche ora o qualche giorno dopo per ripartire verso l'Italia. Nessuno lo vede. Nessuno lo incontra. Nessuno sa che cosa sia venuto a fare". Tra quanti non lo sanno, ci sono anche gli americani. L'ambasciatore a Roma, Ronald Spogli, il 26 gennaio 2009, si chiede chi fosse davvero "l'uomo chiave di Berlusconi in Russia, che viaggia senza staff né segreteria diverse volte al mese. Non è chiaro cosa vada a fare a Mosca, ma ci sono pesanti indiscrezioni sul fatto che presidi gli interessi di Berlusconi in Russia". Bisogna dunque seguire il filo dei soggiorni moscoviti di Valentini per saperne di più. E' utile perché s'incontra un altro personaggio chiave degli imperscrutabili rapporti tra l'Italia di Berlusconi e la Russia di Putin: Antonio Fallico, una volta comunista, dal 1974 a Mosca dove lo chiamano "il professore" (titolo non usurpato, ha insegnato Letteratura barocca all'Università di Verona), anch'egli onorato il 21 aprile del 2008 da Putin con l'"Ordine dell'Amicizia dei Popoli", la più alta decorazione statale russa riservata ai cittadini stranieri.

Fallico può essere raccontato in modo speculare a Valentini. Se Valentini è l'uomo di Berlusconi a Mosca, Fallico è l'uomo di Putin in Italia. Cura gli interessi economici della Russia e quindi soprattutto gli affari energetici che rappresentano il 70% delle esportazioni verso l'Italia. La Zao Banca Intesa, che presiede, ha il mandato di advisory della Gazprom, il colosso energetico controllato direttamente dallo Stato, per tutta l'attività italiana, dalla vendita di gas al progetto di metanodotto South Stream. "Il professore" ha rapporti diretti con il Cremlino, con il premierato di Putin, con la presidenza di Dmitri Medvedev. E' console onorario della Russia a Verona (gli è stata concessa anche la possibilità di rilasciare visti). A Verona ha voluto che fosse inaugurata presto la sede della rappresentanza italiana della Gazprom. E' l'italiano più potente di Mosca.

Se si riuscisse a rendere trasparenti - di Fallico - le attività e - di Valentini - le missioni al Cremlino si potrebbe comprendere presto quanto siano legittimi o scorretti i sospetti di Hillary Clinton sulla natura affaristica delle convergenze politiche tra Berlusconi e Putin. Non è l'unico enigma di questa storia, protetta quasi in ogni angolo e increspatura dal segreto. Segreto di Stato sono in Russia gli affari energetici (per chi sgarra c'è la pena di morte). Misteriosi sono gli effettivi proprietari della Centrex Group, società che vende in Europa occidentale il gas russo, la cui catena azionaria finisce in una palazzina di tre piani al 199 di via Arcivescovo Makarios III a Limassol, Cipro, senza una targa né una buca delle lettere. Commercial secret è il prezzo del metano che Eni corrisponde a Gazprom. Segreti i documenti dei giacimenti di Karachaganakh e Kashagan che Eni si rifiuta di esibire anche quando è chiamata a risponderne in tribunale. Impenetrabile è il segreto che protegge gli incontri di Berlusconi e Putin lungo il lago tra le colline di Valdai in Novgorod Oblast o a Punta Lada a Porto Rotondo, in Sardegna.

Se si vuole quindi verificare quanto "le scelte economiche e politiche dei due premier siano il frutto di comuni investimenti personali", come chiede il segretario di Stato americano ai suoi ambasciatori, bisogna esaminare se le decisioni politiche siano state deformate da privatissimi interessi economici. C'è troppa gente in giro - nelle cancellerie, nei quartieri generali della finanza, nella comunità economica - che avverte nelle scelte di politica energetica dell'Italia un'alterazione equivoca. Eni era autonoma dal governo nazionale quasi fino all'arroganza. Oggi appare sottomessa al presidente del Consiglio. Agiva con aggressività e libertà sui mercati internazionali. Oggi mostra di subire vincoli a favore di Putin. E' la prima deformazione. Ce n'è una seconda: Berlusconi trascura le relazioni europee e la tradizionale alleanza con Washington per rinchiudersi nell'eccentrica associazione con la Mosca di Vladimir Putin e la Tripoli di Mu'ammar Gheddafi. I "cable" del dipartimento di Stato sostengono che questo riposizionamento non abbia nulla di politico, ma sia soltanto business. "L'ambasciatore della Georgia a Roma - scrive Spogli - ci ha riferito che il suo governo ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale su ogni pipeline sviluppata da Gazprom in coordinamento con l'Eni". E ancora: "In Italia i partiti di opposizione e alcuni esponenti dello stesso Pdl credono che Berlusconi e i suoi intimi stiano approfittando personalmente e a mani basse dei molti accordi sull'energia con la Russia".

Dunque Washington non crede a un'alternativa trasparente che innova la tradizionale politica estera del nostro paese. Dubita che, al fondo della storia, ci siano soltanto gli affari personali di Silvio Berlusconi. L'accusa è gravissima e non è stata provata. E' un fatto che lo stato delle cose è custodito in un labirinto di segreti. Con l'aiuto di qualche persona informata dei fatti e alcuni testimoni diretti degli eventi, si può documentare però qualche coincidenza e più di un'incoerenza che dovrebbero convincere Berlusconi ed Eni a rompere il silenzio e a dare luce alle zone d'ombra. Ci sono perlomeno tre "casi" in cui si intravede, tra le opacità, una metamorfosi degli interessi nazionali.

1. Il biglietto del Cavaliere, dove si capisce a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin.

2. La "spartizione della refurtiva", dove questa volta è Putin a chiedere un "aiutino" a Berlusconi che non rimarrà a mani vuote.

3. I misteri di Karachaganakh, dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa a vantaggio di chi.

Sono "casi" che anticipano, come vedremo, un sorprendente finale e non riescono a nascondere una contraddizione: tutti gli affari che rendono sospettosa l'amministrazione di Washington sono stati approvati dal secondo governo Prodi. Tra il maggio 2006 e il maggio 2008, il governo di centrosinistra sottoscrive l'accordo che disciplina la fornitura di gas e le future collaborazioni nei giacimenti in Russia (14 novembre 2006); l'impegno per il gasdotto South Stream (23 giugno 2007); la disponibilità a "spogliare" la Yukos dei suoi asset (4 aprile 2007); i contratti per lo sfruttamento del giacimento di Karachaganakh (1 giugno 2007). Una stupefacente inabilità che oggi, col senno del poi, solleva qualche mugugno tra gli uomini del centrosinistra e la sensazione che alcuni risvolti si sarebbero dovuti curare in modo diverso. Meglio. Dice Pier Luigi Bersani, segretario del Pd e allora ministro dello Sviluppo Economico: "Premesso che dall'approvvigionamento del gas russo l'Italia non può prescindere, il governo Prodi adottò la strategia di spostare il quadro degli accordi energetici con la Russia in una dimensione europea. La differenza fondamentale tra il nostro approccio e quello di Berlusconi nei rapporti con Mosca è che noi operavamo sulla base di meccanismi trasparenti, non dei personalismi, delle relazioni particolari o della filosofia tipo ghe pensi mi".

Il biglietto del Cavaliere
(dove si apprende come e a vantaggio di chi Berlusconi chiede un favore a Putin)

Prima che questo signore, Bruno Mentasti Granelli, settantenne finanziere lombardo, apparisse in scena soltanto uomini vicini a Silvio Berlusconi si erano messi in testa di lucrare larghi utili dalla commercializzazione in Italia del metano russo. Se si esclude il tentativo del figlio di un mafioso (Ciancimino), un primo progetto era stato preparato da Ubaldo Livolsi, consulente del premier, nel 1991 direttore finanziario e nel 1996 amministratore delegato di Fininvest Spa, consigliere d'amministrazione di Mediaset, Mondadori, Medusa.... Per farla corta, un berlusconiano di stretta osservanza. Inutile dire quanto berlusconiano sia Marcello Dell'Utri l'uomo che gli commissiona il piano e trova il tempo per scaldare l'attesa presentando, alla Casa dell'Amicizia di Mosca, Effetto Berlusconi, un libro confezionato in esclusiva per il mercato russo.

Con l'Eni di Mincato ancora autonoma dal governo, l'iniziativa di Livolsi e Dell'Utri va per aria. Dopo il fallimento del primo approccio berlusconiano al problema, compare dal nulla Bruno Mentasti già socio di Berlusconi nella pay-tv Telepiù e in quell'anno, 2003, un rentier dopo aver venduto alla Nestlé la San Pellegrino per trecento miliardi di vecchie lire.

Il nome di Mentasti salta fuori nella sera del 30 ottobre del 2003. Al Westin Palace di Milano c'è una cena di lavoro. E' quasi un appuntamento di routine. Quattro persone intorno al tavolo: tre uomini di Eni e un alto dirigente di Gazprom. Si confrontano due ambizioni: Eni vuole prolungare di 25/30 anni i suoi contratti gas che scadono nel 2012; Gazprom aspira a fare utili non solo "a monte" producendo metano, ma anche "a valle" vendendolo e chiede di avere l'opportunità di commercializzarne in Italia attraverso una propria joint venture. L'Eni dovrebbe cedere 2-3 miliardi di metri cubi di metano all'anno dalle sue importazioni. "Abbiamo già un socio italiano, ecco il suo nome...", dice il russo. Dalla tasca, l'alto dirigente di Gazprom estrae un fogliettino come se fosse una santa icona che da sola avrebbe spazzato via ogni dubbio profano. Sopra c'è scritto: "Mentasti". Gli italiani cadono dalle nuvole. Quel nome non l'hanno mai sentito. Chi è? Il russo spiega: "Ma come non conoscete il patron della San Pellegrino?". Gli italiani sorridono: "Anche se gassata, l'acqua ha poco a che fare con il gas, bisogna che qualcuno glielo spieghi a questo Mentasti...". Il russo non ride, agita ancora il foglietto e dice: "Druzia, amici, ma davvero non riconoscete la grafia del vostro capo di governo?". Quelli di Eni fingono di non capire e chiedono: "... ma questo biglietto con questa grafia chi te l'ha dato?". Risposta: "Da dove volete che venga, dal Cremlino!". A conferma che la faccenda è molto seria perché molto voluta da Putin, gli uomini di Eni vengono invitati a stringere le sedie intorno al tavolo per far posto a un altro convitato che attende un cenno nell'albergo dall'altra parte di piazza della Repubblica, il Principe di Savoia. L'uomo si chiama Alexander Ivanovic Medvedev, è un amico d'affari del professor Fallico, è stato come Vladimir Putin un colonnello del Kgb, oggi è il numero due di Gazprom. Che bisogno c'è di un intermediario se non per creare comode rendite finanziarie a oscuri fortunati? Dietro questa volontà di lucrare gli utili di un'intermediazione superflua e molto favorevole (la Centrex di Mentasti e soci misteriosi avrebbe guadagnato una somma stimata in 280-320 milioni di dollari l'anno per 15-20 anni) si scorgono nell'ordine: un comando di Putin; la volontà di Berlusconi; l'obbedienza "militare" dei gasisti russi; gli amici di Berlusconi in sospetto di essere soltanto prestanomi come Bruno Mentasti o addirittura di essere la testa d'ariete di Berlusconi, se è vero che quel foglietto (che potrebbe essere attualmente nelle mani di un uomo dell'Eni) è stato scritto di suo pugno dal Cavaliere.

Questo caso sollecita qualche domanda: Berlusconi ha discusso con Putin - e concesso a Mosca - l'ingresso di Gazprom nel mercato italiano? In cambio di che cosa? Perché Berlusconi individua Mentasti come uomo adatto per la nascente partnership? Qual era l'interesse nazionale che, in questo caso, il capo del governo ha rappresentato al Cremlino?
(1. continua)

(08 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/08/news/wikileaks_berlusconi_putin-9950307/


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L'INCHIESTA

Berlusconi-Putin, condanna Usa "Si esporta corruzione in Europa"

Ecco l'analisi del Dipartimento di Stato sull'affare gas: la relazione personale del premier russo con quello italiano è funzionale a inoculare corruzione negli altri paesi e rendere il continente vulnerabile al ricatto energetico russo

da Roma GIUSEPPE D'AVANZO, da Milano ANDREA GRECO, da New York FEDERICO RAMPINI


"LE risorse energetiche sono il piedistallo del potere da cui Vladimir Putin punta a condizionare la politica europea. La relazione personale con Silvio Berlusconi è funzionale a questo: inoculare corruzione negli altri paesi, dividere l'Europa, renderla vulnerabile al ricatto energetico della Russia. Il semi-monopolista del gas russo Gazprom fa tutt'uno con Putin, nulla è trasparente in quella sfera, la corruzione è endemica". L'accusa dell'alto funzionario e massimo esperto del Dipartimento di Stato per "Eurasia e questioni energetiche", Jeffrey Mankoff, rende manifesta la gravità del rapporto tra i due premier italiano e russo.

"Rapporto personale". Così lo definisce il dispaccio da Roma dell'ex ambasciatore repubblicano Ronald Spogli, il 12 agosto 2008, reso pubblico da WikiLeaks. In un crescendo di allarme, Spogli segnala alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato l'ipotesi che fra i due vi siano "rapporti di guadagno personale" (novembre 2008). Infine in una lunga relazione del 26 gennaio 2009, l'ambasciatore evoca "una torbida connection"; chiama in causa l'intermediario d'affari Valentino Valentini; descrive il presidente del Consiglio come "il portavoce di Putin".
Sostiene Mankoff: "Poiché i libri contabili di Gazprom non sono di dominio pubblico, la società è in grado di fare affluire pagamenti ai politici nei paesi "a valle", perché assecondino i piani della Russia. I progetti dei gasdotti, con miliardi di dollari di investimenti, sono il meccanismo privilegiato per una corruzione su vasta scala". E' la chiave delle ripetute pressioni di Hillary Clinton sulle due ambasciate americane a Roma e Mosca (l'ultima il 28 gennaio 2010). Il segretario di Stato chiede di indagare su "quali investimenti personali" uniscano Berlusconi a Putin.

Sono quattro le ragioni che lo impongono: 1. Il ruolo dell'Eni ridotto a strumento. 2. I dubbi sull'investimento anti-economico nel gasdotto South Stream. 3. La vicenda del "portage finanziario" italiano sulla Yukos. 4. Lo sconcertante allineamento filo-russo di Berlusconi sulla guerra in Georgia. Ecco gli elementi che accrescono l'inquietudine americana. La Clinton è convinta che "sia in gioco un interesse strategico e vitale degli Stati Uniti, la sicurezza dell'Europa occidentale". Washington avverte il rischio che un alleato storico della Nato come l'Italia sia scivolato su una china pericolosa. Non siamo più alla fisiologica divergenza di stagioni passate della politica estera italiana. E' una distinzione fondamentale e il Dipartimento di Stato vuole che sia percepita e compresa. Dall'Eni di Enrico Mattei alla Fiat di Valletta (Togliattigrad), per finire con Giulio Andreotti alla Farnesina, gli americani ricordano che l'Italia ha sempre avuto spazi di autonomia nelle sue iniziative verso la Russia o il mondo arabo. Tutto comprensibile alla luce della nostra posizione geografica, e per i condizionamenti politici interni come l'esistenza del più forte partito comunista dell'Europa occidentale (lo ricorda anche l'ambasciatore Spogli nei suoi rapporti). Era un gioco che non spaventava l'America perché si poteva interpretare - e quindi governare - con i criteri della geopolitica e della geoeconomia. Oggi il quadro è diverso.

I sospetti che la relazione speciale Berlusconi-Putin abbia una dimensione extrapolitica, guidata dal "guadagno personale che fa premio", affiorano due anni fa. L'ambasciata di Via Veneto vi accende un faro. Il fatto che il presidente del Consiglio di un paese della Nato possa essersi fatto strumento del premier russo s'inserisce nello scenario disegnato da Mankoff di un "rischioso ritorno di Putin alla presidenza nel 2012", alla testa di un blocco di potere dominato da "esercito e servizi segreti anti-occidentali", sullo sfondo di una Russia che le informative dall'ambasciata Usa di Mosca descrivono come una "nazione mafiosa".

"Eurasian Energy Security", è il rapporto cruciale dove il Dipartimento di Stato suggerisce di cercare tutte le ragioni dell'allarme attorno al caso Berlusconi-Putin. Considerato come la Bibbia della strategia americana sui rapporti energetici tra la Russia e l'Europa, quel dossier è firmato da Jeffrey Mankoff per il Council of Foreign Relations, il think tank bipartisan che ha spesso ispirato la politica estera di amministrazioni repubblicane e democratiche. Mankoff lo mette a punto nel 2009 come Associate Director of International Security Studies all'università di Yale. In seguito torna a lavorare per il Dipartimento di Stato, con Hillary Clinton. Oggi si occupa proprio delle relazioni Europa-Russia.

L'analisi di Mankoff muove dal ruolo di Gazprom, "un'impresa che a tratti s'identifica con lo stesso governo russo, funzionale al disegno di Putin di gestire i rapporti con l'Europa giocando un paese contro l'altro". E' la strategia che Putin ha costruito pazientemente negli otto anni della sua presidenza, dal 2000 al 2008: "Il gas è diventato centrale come strumento di potere". Una strategia di cui l'Italia è un tassello decisivo perché "con la Germania rappresenta quasi la metà di tutte le importazioni di gas russo nell'Europa occidentale". Insieme, questi due paesi generano "il 40% dei profitti totali di Gazprom". Un colosso che, per la sua natura, si sottrae a "sistemi di regole trasparenti, controllo giudiziario e delle authority di vigilanza" dell'Unione europea.

Visto dall'America il pericolo è questo: "Per l'Europa la crescente dipendenza energetica da un singolo gruppo che coincide con un governo straniero solleva dei problemi di sicurezza, trasparenza, potenziale manipolazione politica". Chi, come l'Italia, finisce in una "intima relazione politica con Mosca rischia di assecondare i disegni di questa, a scapito dell'unità fra europei". Il sospetto che l'Eni sia stato trasformato in uno strumento nel rapporto tra Berlusconi e Putin, è legato ad alcuni passaggi decisivi nella "blindatura" del potere energetico in Russia. Mankoff ricorda come "durante il suo secondo mandato presidenziale, Putin ha accelerato in modo drammatico la concentrazione del business di petrolio e gas dentro i campioni nazionali Gazprom e Rosneft. Le imprese che appartenevano agli oligarchi privati, come la Yukos di Mikhail Khodorkovsky, sono state fagocitate". La stessa Yukos che fu oggetto di un portage finanziario da parte dell'Eni e dell'Enel. Pochi gruppi occidentali sono ammessi in questo gioco, osservano al Dipartimento di Stato, dove ricordano l'espulsione di Bp e Shell costrette a uscire dai loro maggiori investimenti energetici in Russia durante la presidenza Putin. Vedremo presto il ruolo che Berlusconi decide di assumere in questa spoliazione.

Una volta concentrato il suo impero energetico, dove politica e affari coincidono e solo gli stranieri docili sono ammessi, Putin passa alla seconda fase della strategia. "Si tratta - spiega Mankoff - di impedire l'accesso diretto dell'Europa alle risorse energetiche del Caspio, suddivise perlopiù tra Azerbaijan, Kazakistan, Turkmenistan. Riservare alla Russia il controllo sui corridoi di transito verso il Caspio, accentua una dipendenza dell'Europa. Questo ha conseguenze strategiche sulle relazioni atlantiche, espone i nostri alleati europei all'influenza di Mosca".

Ancora una volta questa strategia è affidata a "un piccolo gruppo di colossi di Stato come Gazprom, sprovvisti di ogni trasparenza". Ecco il nodo che interessa la Casa Bianca e la Clinton. Ecco la ragione per cui si vuole veder chiaro nei rapporti Eni-Gazprom, come sono andati evolvendosi sotto i governi Berlusconi. Ecco la leva degli interrogativi sulla proliferazione di società di intermediazione, senza una vera razionalità economica, possibili paraventi per l'erogazione di tangenti. E' il passaggio che inquieta nell'analisi di Mankoff capace di alzare il livello di diffidenza del Dipartimento di Stato: "La corruzione sistemica nel settore energetico russo inocula corruzione nella politica europea".

Legittima la domanda: chi ha ceduto a queste lusinghe, in quali modi? A Washington ricordano il caso dell'ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, cooptato come presidente del consiglio d'amministrazione del consorzio Nord Stream: il sistema di gasdotti voluto da Mosca, gemello settentrionale del progetto South Stream. Per quest'ultimo, Romano Prodi ha di recente rifiutato un'offerta analoga che gli era stata rivolta dai russi. Il Dipartimento di Stato ribadisce l'accusa principale rivolta dagli Stati Uniti: "Nord Stream e South Stream sono funzionali a rafforzare l'influenza della Russia in Europa. La nostra paura è rafforzata dagli indizi di corruzione che partono dal Cremlino". South Stream è in diretta concorrenza con il progetto Nabucco: solo quest'ultimo consentirebbe di aggirare la Russia. Se la scelta fosse affidata a criteri puramente economici, sarebbe semplice: "South Stream costa fino al doppio, rispetto a Nabucco", osserva Mankoff. E allora perché il coinvolgimento dell'Eni in un progetto anti-economico, si chiedono gli americani? Visti da Washington, i conti non tornano. E non tornano, come vedremo, anche per Eni.

Un colpo duro all'affidabilità del Nabucco viene dato nell'estate del 2008 dalla guerra tra Russia e Georgia: quel gasdotto per operare ha bisogno di stabilità in Georgia ed altre repubbliche ex-sovietiche. Perciò un punto di svolta nell'attenzione del Dipartimento di Stato verso Berlusconi coincide proprio con la guerra del 2008, e la posizione filo-russa presa dal premier italiano in divergenza con gli altri governi della Nato. E' il 15 novembre 2008. L'ambasciata di Via Veneto segnala a Washington una nuova soglia nel livello di agitazione degli americani. Bisogna dire di un antefatto: tre giorni prima il premier italiano ha dato spettacolo a una conferenza stampa in Turchia. "Ha accusato gli Stati Uniti di avere provocato la Russia con il riconoscimento del Kosovo, lo scudo anti-missili, l'invito a Ucraina e Georgia ad avvicinarsi alla Nato". Il dispaccio al Dipartimento di Stato indica che siamo "al culmine di un'escalation di commenti incendiari e dannosi a favore della Russia da quando Berlusconi è tornato al governo". L'ambasciata descrive Gianni Letta e Franco Frattini "sgomenti", i fedelissimi del premier confidano alla diplomazia americana: "Non ci ascolta, sulla Russia fa da solo".

Il rapporto segreto raccoglie per la prima volta il sospetto che "Berlusconi e i suoi accoliti abbiano rapporti di guadagno personale con l'interlocutore russo". E' a questo punto che i sospetti sulla "torbida relazione" diventano un problema strategico di primaria importanza per Washington. La criticità della guerra in Georgia dovrebbe aumentare la compattezza degli europei e rendere evidenti i rischi connessi a un'eccessiva dipendenza energetica da Mosca. Al contrario, l'Italia si smarca. Rompe la solidarietà atlantica. Si avvicina alla Russia. Siamo a una svolta. Il primo effetto è l'imperativo di saperne di più su quei sospetti di "investimenti personali tra Berlusconi e Putin", che possono diventare il motore delle scelte della politica estera italiana. Il pericolo lo abbiamo sotto gli occhi: l'Italia può trasformarsi in una pedina del grande gioco di Putin; il grimaldello per dividere o tenere divisa l'Unione europea, per avvantaggiarsi della debolezza dei singoli partner nei rapporti bilaterali. Osserva Mankoff: "La dipendenza dal semi-monopolio russo nel gas può mettere i singoli governi europei in una posizione in cui diventa impossibile resistere alle richieste politiche di Mosca". "La Russia - è la linea del Dipartimento di Stato - va integrata in un quadro trasparente di sicurezza energetica. Con regole certe, che limitino la possibilità di estrarre vantaggi politici unilaterali". E' l'opzione a cui fanno ostacolo le reti di interessi invisibili, oscuri intermediari, società-ombra, e gli "investimenti personali" su cui la Clinton si ostina a volere fa luce. E' quello di cui ora ci si deve occupare.

(2, continua)

http://www.repubblica.it/esteri/2010/12/09/news/berlusconi-putin_condanna_usa_si_esporta_corruzione_in_europa-9986509/?ref=HRER1-1


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L'INCHIESTA

Gas, da Yukos al Kazakistan gli affari tra Putin e Berlusconi

Gas connection, i segreti della spartizione. Quali i vantaggi per il Paese della relazione tra i due? Chi sono i reali beneficiari dell'intreccio?

Un esponente del board di Gazprom riferisce di un investimento del premier italiano in un giacimento kazako

da Roma GIUSEPPE D'AVANZO,
da Milano ANDREA GRECO,
da New York FEDERICO RAMPINI


Si deve ricordarlo, parliamo della corruzione negli affari energetici. Di come, per usare le parole del Dipartimento di Stato, "la relazione tra Putin e Berlusconi sia funzionale a inoculare corruzione negli altri Paesi, dividere l'Europa, renderla vulnerabile al ricatto energetico della Russia". Questo lo sfondo. Ora un dettaglio: c'è un biglietto autografo di Berlusconi. Il Cavaliere lo consegna nelle mani di Putin per indicare un "signor Nessuno" (Bruno Mentasti) come la testa di legno  -  di chi? di Berlusconi stesso? di una consorteria amica e quale?  -  che dovrà favorire l'ingresso dei russi nel mercato italiano. Quel biglietto autografo è un'impronta digitale. È il sigillo di un metodo che consiglia a Hillary Clinton di chiedere notizie della "torbida connection" tra Putin e Berlusconi segnalata dall'ambasciatore a Roma, Ronald Spogli. Mostra abitudini costanti.

Gazprom "che fa tutt'uno con Putin" dirotta - denuncia il Dipartimento di Stato - "pagamenti ai politici nei paesi "a valle" perché assecondino i piani della Russia". Queste parole descrivono con cura l'"affare Mentasti". Fallito il colpo gobbo, condotto con troppa rozzezza, le grandi manovre non s'interrompono. Tracce di corruzione si avvistano, per lo meno, in altre due storie che vale la pena raccontare.


"La spartizione della refurtiva"
(dove, questa volta, è Putin a chiedere un "aiutino" a Berlusconi)

Se parliamo di politica energetica, si confrontano due argomenti tra Europa e Russia. Gli europei in coro chiedono ai russi di giocare con le stesse regole. I russi dicono a ciascuno degli europei: ti do il gas, se mi fai entrare nel tuo mercato. Berlusconi accetta le pretese di Putin. Se necessario, corre a dargli una mano. Sostiene, per esempio, il premier russo quando, nel novembre del 2003, Vladimir Vladimirovic caccia in galera Mikhail Khodorkovskij, l'uomo più ricco di Russia, proprietario della quinta compagnia petrolifera del mondo, la Yukos. Le accuse parlano di frode fiscale e appropriazione indebita - in pochi giorni gli sequestrano il suo 40 per cento di azioni Yukos - ma in realtà, come tutto il mondo sa, Khodorkovskij paga la decisione di finanziare la campagna dei partiti di opposizione a Putin. Berlusconi è l'unico leader occidentale a trovare legittimo l'agguato "sovietico" dell'amico del Cremlino. Un giudizio che ribadisce il 20 maggio 2004. Un paio di mesi ancora - è ormai novembre - e il Cavaliere accompagnato da tre ministri ritorna a Mosca per occuparsi ancora di energia. Come scrive Lorenzo Gianotti in una biografia di Putin di prossima pubblicazione, un quotidiano moscovita (Izvestija) svela (9 novembre 2004) che il possibile acquirente di Menatep (la società finanziaria cui fanno capo gli attivi di Yukos) è "il primo ministro e confidente di Putin, Silvio Berlusconi". È un fatto che il Cavaliere si dà molto da fare per convincere Vittorio Mincato (allora amministratore delegato di Eni) a partecipare all'affare. Mincato non ne vuole sapere, resiste, e oggi c'è chi può raccontare come tra Mincato e Stefano Cao (allora direttore generale di Eni) il motto in quei giorni fosse "non partecipiamo alla spartizione della refurtiva". Via Mincato e nel cono d'ombra Cao, il quadro cambia. Eni e Enel saranno le uniche società occidentali che acquisiranno asset della Yukos di Khodorkovskij e la fetta più grossa: il 20 per cento delle azioni di Gazpromneft' per 4,2 miliardi di dollari. Un caso da manuale di portage finanziario (Eni acquista asset a proprio nome, in realtà si impegna a cederli successivamente a Gazprom). Per dirla nel modo schietto dei testimoni di quell'affare, un classico di "spartizione della refurtiva" sottratta a Khodorkovskij. Con la grottesca appendice - emersa dai dispacci diplomatici pubblicati da WikiLeaks - di un appello in extremis di Berlusconi a Putin per garantire il riacquisto a prezzi adeguati da parte di Gazprom: nel 2009 il prezzo del gas è talmente basso che il braccio energetico del Cremlino è in difficoltà nell'esercizio di quell'opzione call.

Questi i fatti. Ora una domanda: che interesse ha l'Italia a prestarsi al saccheggio dell'impero Yukos, uno dei tanti, troppi episodi opachi dell'attività del Cane a sei zampe in Russia? Le malignità a Mosca nella comunità dei tecnici degli affari energetici si sciupano. Uno "scambio" ci sarebbe stato. Diverse fonti ritengono che proprio qui potrebbe risiedere, protetto dal segreto di Stato, l'interesse personale di Berlusconi. Un membro del board di Gazprom e un suo assistente hanno confessato a un interlocutore che Repubblica ritiene attendibile che, in cambio dell'appoggio all'espansione in Europa occidentale di Gazprom, Putin abbia aperto a Berlusconi la strada ai giacimenti di gas pre-caspici in Kazakistan; metano poi depurato nella vicina centrale russa di Orenburg e lì immesso nei tubi verso Occidente. E' una ricostruzione meticolosa che è impossibile verificare con fonti indipendenti e facilmente sarà smentita. Qui se ne dà conto per comprendere meglio il discredito che circonda - anche in Russia - l'"amicizia" tra Berlusconi e Putin. Dunque, a metà del decennio Duemila, il Cavaliere avrebbe investito, in uno dei giacimenti contigui al grande bacino di Karachaganakh oltre mezzo miliardo di dollari, per un rendimento annuo che, alle attuali (e calanti) valutazioni di mercato, potrebbe fruttargli tra i 100 e i 130 milioni di dollari l'anno di profitto. Il flusso di denaro finirebbe sul conto corrente di una banca russa, intestato a una fiduciaria locale appartenente a una società straniera. Se fosse davvero così, se davvero al Cavaliere fosse stato permesso di partecipare all'estrazione e alla vendita in Europa di quel gas, per Eni oltre al danno si aggiungerebbe la beffa, visto che in quell'area il gruppo italiano è padrone di miliardi di metri cubi di gas, ma non è mai riuscito a esportarlo nei ricchi mercati occidentali. Eni si è sempre dovuta accontentare di cederlo.


I misteri di Karachaganakh
(dove si scopre che Eni rinuncia a una parte dei suoi profitti, non si sa perché)

La storia è più o meno questa. A sfruttare quest'immenso campo di gas condensato (petrolio leggero) e metano è un consorzio controllato per il 32,5 per cento a testa da Eni e British Gas; 20 per cento Chevron Texaco; 15 per cento Lukoil. In attesa del completamento del gasdotto Blue Stream (gioiello della maestria ingegneristica dell'italiana Saipem, che dalla Russia meridionale raggiunge Ankara sotto il Mar Nero), si pattuisce di cedere la materia prima semilavorata ai russi. Ma nel 2003 il "Blue Dream" - come lo chiamano, superbi, gli americani - diventa realtà, senza ospitare il gas "italiano" di Karachaganakh. Gli accordi sono riscritti nel giugno 2007: in base al nuovo dettato, Eni e il consorzio venderanno dal 2012 a una compartecipata russo-kazaka 16 miliardi di metri cubi l'anno di raw gas a un valore stimabile in 50 dollari per unità di mille metri cubi, mentre in Europa il prezzo del prodotto finale è sui 300 dollari. Ai 50 dollari vanno aggiunti i costi di depurazione e trasporto. Più o meno, altri 150 dollari. Dunque, mille metri cubi di gas costano 200 dollari circa. A conti fatti il minore introito è di 19 miliardi di dollari per il consorzio; e un terzo per l'Eni. Perché gli italiani rinunciano a questa montagna di quattrini? A vantaggio di chi? Mario Reali, per un paio di decenni l'uomo a Mosca dell'Eni, insieme al vice direttore generale Pietro Cavanna propone nel 2003 di costruire apposta una raffineria Eni in Kazakistan. Per due anni i manager italiani si scontrano con la feroce contrarietà dei russi, e anche l'ipotesi di cercare sbocchi nel futuro gasdotto Nabucco naufraga per il niet del Cremlino. Paolo Scaroni. amministratore delegato di Eni, forse dovrebbe spiegare ai suoi investitori perché ha ceduto su quegli accordi al ribasso. Reali già nel 2007 a Report dichiarava: "Quel gas che l'Eni svende potrebbe essere inviato in Italia tramite il gasdotto russo-ucraino-slovacco che arriva a Baumngarten (Tag). Perché si regalano ad altri quei soldi?".

Riepiloghiamo. Abbiamo appreso come ci siano molti modi per "inoculare corruzione" nell'Europa occidentale a vantaggio degli interessi russi. Sappiamo che qualche risvolto riguarda l'Italia, Berlusconi, Eni. Concessione di giacimenti metaniferi da sfruttare in proprio. Svendita del gas venduto a basso costo per concedere agli intermediari di tagliarsi una fetta di torta. E' ora di avviarsi a una conclusione.


Epilogo con sorpresa e qualche domanda
(dove si apprende che al Cremlino la parabola di Berlusconi è in declino)

Sono indizi, in fondo. I soli che è possibile, al momento, estrarre dal calderone di segreti che proteggono il business energetico. Ricordiamo i segnali e che cosa ci dicono. Un foglio scritto a mano da Berlusconi. Un suo amico, senza arte né parte, candidato ad arricchirsi senza muovere paglia, non si sa a nome di chi, ma si conosce grazie a chi. Ancora. Le chiacchiere intorno alle quote personali del Cavaliere in un giacimento in Kazakistan, i margini intascati dalla sua vendita in Occidente, curata dai russi. Infine, i cento dollari per ogni mille tonnellate di metri cubi di gas intascati lasciati misteriosamente ai russi e ai kazaki. Si potrebbero ricordare altre questioni: il progetto South Stream ad esempio perché, come ha spiegato a Repubblica un alto funzionario del Dipartimento di Stato, Jeffrey Mankoff, "i gasdotti, con miliardi di dollari di investimenti, sono il meccanismo privilegiato per una corruzione su vasta scala". South Stream, il gasdotto sotto il Mar Nero fortemente voluto dai russi, è talmente faraonico, costoso e - dopo i recenti ribassi del prezzo del gas - diseconomico che Eni s'è affrettata a cedere quote del consorzio costruttore (dove affiancava Gazprom con il 50%). Mercoledì sera, a cena con la stampa italiana a New York, il presidente dell'Eni Roberto Poli ha accennato alla possibilità di un dietrofront nel progetto, valutata la sua effettiva convenienza.

L'affare Mentasti, la spoliazione di Yukos, il progetto South Stream portano alla luce qualche filo: Berlusconi si muove a Mosca più come imprenditore di se stesso che come capo del governo anche se, come capo del governo, abusa della sua autorità politica per condizionare gli affari di Eni in Eurasia e coccolarsi così Putin, un alleato che per molti ragioni può essergli utile. Silvio e Vladimir Vladimirovic hanno in comune, con Winston Churchill, la convinzione politica che "la democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato" e la certezza economica che "non esiste amicizia, esistono soltanto interessi comuni". È quest'ultimo convincimento che ha cominciato a erodere, al di là degli abbracci di convenienza, il loro sodalizio politico-economico.

Il premier russo comincia a credere che con Berlusconi nei dintorni i suoi interessi possano soffrirne. Putin - dice chi ha modo di frequentarlo - è infastidito dal clamore che accompagna Berlusconi nel mondo, contrariato dalle sue dichiarazioni pubbliche spesso maldestre, irritato dalla presunzione e dalla vanagloria dell'italiano che vanta un potere che non ha e successi che non sono i suoi. Come quando, scandalizzando il Cremlino e i media russi, Berlusconi promise in un'intervista in Olanda che "se Putin avesse lasciato la politica", lo avrebbe "preso a lavorare" con lui. O, appena ieri, quando il Cavaliere si è gloriato di aver ottenuto lui, per conto dei russi, i Mondiali di calcio del 2018 a Mosca. È il ruolo del mattatore che ormai i russi beffeggiano. Chiamano Berlusconi, dyadya, zio, che detto da un bambino a un estraneo è un segno di rispetto, detto dagli adulti a un uomo di settantaquattro anni e soprattutto primo ministro è quasi un dileggio. Il fastidio del Cremlino per Berlusconi è "destinato ad avere anche una consistenza pubblica - sostiene una qualificata fonte italiana che vive a Mosca - se il governo di Berlusconi dovesse avere difficoltà o addirittura cadere". Per comprendere come le azioni in Russia del Cavaliere siano in ribasso, bisogna ritornare da dove siamo partiti, a Valentino Valentini. Per anni "intermediario segreto" tra il Cavaliere e Putin, oggi il segretario particolare di Berlusconi appare agli osservatori italiani a Mosca "in disgrazia". Rivela un'autorevole fonte bancaria che "l'ultima volta che, tre settimane fa, Valentini è venuto al Cremlino per preparare il summit di Sochi non è stato ricevuto dall'omologo assistente di Putin anche se si è intrattenuto nella capitale per due-tre giorni". Non aiutano la fortuna dell'Italia da quelle parti i mediocri affarucci che, lungo le rive del Mar Nero, Valentini ha messo su con un personaggio italiano, Pier Paolo Lodigiani, come lui emiliano, già fallito in Italia e malvisto a Mosca ma, con il ritorno a Palazzo Chigi di Berlusconi, nominato nell'agosto del 2008 "console generale onorario della Repubblica italiana delle regioni di Krasnodar e Stavropol, della repubblica di Daghestan, Inguscezia, Cecenia". Sono circostanze che nuocciono a Berlusconi che ci mette del suo. Due esempi. Il Cavaliere pare che abbia "ossessivamente chiesto a Vladimir Vladimirovic di trovare un oligarca che gli compri il Milan allo strabiliante prezzo di un miliardo di euro e Villa Certosa per 50 milioni". Quando è diventato pubblico il cable che definisce il presidente Dmitri Medvedev "un apprendista di Putin", nessuno a Mosca si è meravigliato che la moglie Svetlana Vladimirovna Medvedeva non si sia curata della smentita del nostro capo di governo e abbia confessato ai suoi amici: "Usciranno presto dispacci molto più compromettenti sulle dichiarazioni di Berlusconi".

Il nostro capo di governo è riuscito a screditarsi agli occhi dell'alleato americano per gli affari, anche personali, intrecciati con Putin e, nello stesso tempo, a irritare Vladimir Vladimirovic per lo stesso motivo: una smania ossessiva di business che pare non trovare mai un limite. Impresa stupefacente.

Berlusconi, anche nella veste di maggior azionista di Eni attraverso il Tesoro, può chiudere questo caso in fretta rispondendo alle domande più elementari. Qual è la missione degli intermediari che rappresentano al Cremlino le sue volontà? Chi erano i veri beneficiari del "progetto Mentasti" e dov'era qui l'interesse nazionale? Quali sono gli interessi nazionali che ha curato e cura con Putin? Quali utili ne ha ricavato Eni? Quali benefici ne hanno ricevuto consumatori e imprese? Quali vantaggi, le nostre alleanze in Europa e in Occidente?
(3. fine)


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La fuga del sovrano
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2011, 11:54:17 am
IL COMMENTO

La fuga del sovrano

di GIUSEPPE D'AVANZO


Quale che sia oggi la decisione della Consulta sulla costituzionalità del "legittimo impedimento", Berlusconi può starsene tranquillo ché l'uso privatistico del Parlamento ha raggiunto il suo scopo. La prescrizione che si è acconciata da solo, azzopperà i tre processi che lo vedono imputato di corruzione (Mills), frode fiscale (diritti tv Mediaset), appropriazione indebita (Mediatrade). Intendiamoci, se fosse un imputato qualunque  -  "un imputato in scadenza termini", come dicono gli addetti  -  il tribunale stringerebbe i tempi e (per esempio) il "processo Mills", che ha davanti un anno di tempo prima di "morire", forse riuscirebbe a chiudersi anche in Cassazione. Così non sarà perché le intimidazioni del Sovrano, le aggressioni del sistema politico, governativo e mediatico che controlla lasciano il segno e provocano nelle toghe indecisioni e timidezze che attardano il cammino del processo più delle gimkane organizzate dagli avvocati. Dunque, il premier si salverà ancora, anche se i cinque giudici su sette che si occupano di lui, trasferiti ora ad altri incarichi, dovessero essere "applicati" (come probabilmente accadrà) fino alla fine dei processi. Da questo punto di vista, Berlusconi ha ragione ad essere, come dice, "indifferente" alla pronuncia della Corte Costituzionale.

Non gliene può venire un immediato danno giudiziario (quel che più temeva), ma gli si deve chiedere: davvero il premier può essere disinteressato a quel che accadrà alla sua immagine di padre, di tycoon di talento, di uomo di governo che ambisce a concludere il ventennio della sua éra politica al Quirinale, presidente della Repubblica, capo dello Stato? Se si guarda alla questione da questo punto di vista, i processi soffocati prima della sentenza lasciano il Cavaliere assai malconcio. Guardiamone soltanto uno, quello per la corruzione dell'avvocato David Mills che raccoglie interessanti tranches de vie e definisce quasi scandendoli gli eventi dell'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi.

Come si sa la Cassazione, condannandolo a risarcire il danno, ha già concluso che David Mills è stato corrotto. La corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è stato corrotto, il presidente del consiglio (coimputato) è il corruttore. Vediamo che cosa significa questo risultato ormai scolpito nella pietra e come l'esito ferisca irrimediabilmente la reputazione di Berlusconi, la narrazione di se stesso, il suo "mito".

La conclusione del "processo Mills" fa del Cavaliere innanzitutto uno spergiuro spietato perché fa voto - mentendo - sulla "testa dei suoi figli". Disse (lo ha ricordato anche ieri): "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia", (Ansa, 20 giugno 2008). Il processo ha dimostrato che egli ha conosciuto l'avvocato. La sentenza documenta quanto Berlusconi sia un bugiardo conclamato. Disse: "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza", (Ansa, 23 novembre 1999). I processi hanno dimostrato che Mills creò All Iberian con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere. La gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle Fiamme Gialle corrotte), mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità. Ancora. L'esito del processo Mills mostra quanto per Berlusconi siano vincolanti le pubbliche promesse. Si impegna a ritirarsi dalla politica, addirittura a lasciare l'Italia se si fosse dimostrato la sua conoscenza di Mills. L'avvocato ammette di averlo incontrato ad Arcore, Berlusconi non prepara le valigie. Quel che più conta, la sentenza Mills dimostra come la fortuna di Berlusconi, più che nel talento, ha le sue radici nel malaffare, nell'illegalità, nella corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo. Altro che homo novus e leader outsider.

Ora, può non uno statista o un tycoon di strepitoso successo, ma semplicemente un uomo che abbia rispetto di se stesso, del suo buon nome e del suo onore accettare che la sua storia sia avvilita a questi infimi livelli se non lo ritiene corretto? E che cosa intende fare quell'uomo per ripristinare quel che egli sostiene essere "la verità"? Questa responsabilità trova Berlusconi estremamente debole, quale che sia oggi la sentenza della Consulta. Il premier preferisce confondere l'opinione pubblica più che convincerla. Minaccia, come dice a Berlino, di "spiegare agli italiani". Repertorio abituale. Lo ha già promesso in agosto: "Andrò in tv a spiegare la mia odissea giudiziaria". E due anni e mezzo prima, mentre si riposava ai Caraibi, ad Antigua, meditava di fare un discorso in Parlamento sulla giustizia italiana. Anche in quest'occasione ha alla fine taciuto e ancora lo farà oggi (a meno che non si vada a votare).

Meglio così, perché c'è un solo posto dove Berlusconi può mettere in sesto la sua storia e documentare la sua "verità", se è in grado di farlo. È l'aula di un tribunale cui può chiedere di non curarsi dei tempi della prescrizione tanto più se ritiene le accuse "ridicole". Per un uomo che governa il Paese e vuole diventare capo dello Stato è un obbligo perché è una Repubblica senza futuro e in pericolo quella in cui il Presidente può essere apostrofato legittimamente da chiunque come un bugiardo, uno spergiuro, un corruttore.

(13 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/13/news/d_avanzo_fuga_berlusconi-11162090/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Caduto il privilegio, il premier va alla guerra
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2011, 11:25:24 am
L'ANALISI

Caduto il privilegio, il premier va alla guerra

di GIUSEPPE D'AVANZO

C'E' UNA confortante novità e un paio di pessime notizie. La buona nuova è questa: la Consulta demolisce la legge sul "legittimo impedimento". Berlusconi se l'era affatturata per il presente e per il futuro; per i processi in corso a Milano e per le tegole che (non si mai e chi meglio di lui può saperlo) gli potrebbero piovere sul capo. Il premier ha pensato, e non è un mistero per nessuno: quei processi mi spaventano, posso obiettare che devo governare, posso dire che è il compito che mi ha assegnato il popolo sovrano e quindi che non ho tempo per i processi  -  ma nemmeno un pomeriggio, neanche due ore, nemmeno il sabato o la domenica: la mia agenda non ha buchi  -  e quelli i giudici che possono fare?

Devono rinviare l'udienza. Può bastarmi? Posso fidarmi? No che non posso. Una legge deve obbligarli, vincolarli - sì, costringerli - altrimenti corro dei rischi.

Nasce così la legge sul "legittimo impedimento" che, in attesa della sospirata immunità costituzionale, assicura al Cavaliere di non essere processato. L'arnese scelto è il più prepotente. Si può definire autocertificazione: è lo stesso capo del governo che dirà, senza alcun possibilità di essere contraddetto, di avere molto da fare. Magari per i sei mesi che vengono perché non conta soltanto l'impegno pubblico che rende legittimo l'"impedimento", ma anche tutto il lavoro di prima e di dopo o comunque essenziale a far fronte a quell'appuntamento
istituzionale. Chi può sindacare quanto tempo sia necessario? Quindi, il giudice - comanda la legge - deve prenderne atto e rinviare l'udienza perché l'arresto del processo è automatico.

Ecco, è su questo punto decisivo (chi decide se l'impedimento è legittimo?) che la Corte costituzionale cancella oggi l'abusiva "prerogativa" che il Sovrano s'era cucinato nel suo esclusivo interesse e illegittimamente perché con legge ordinaria e non costituzionale. Come ha già scritto qui Franco Cordero: eliminato l'automatismo, la legge si squaglia. La Consulta, con la sua sentenza, annulla l'autocertificazione all'impedimento del Cavaliere (l'automatismo) e restituisce al giudice il dovere di accertare, caso per caso, di volta in volta, se le ragioni che ostacolano la presenza in aula dell'imputato siano concrete o fasulle, come accade a ogni cittadino della Repubblica. Si ripristina così ciò che la legge sul legittimo impedimento ha manomesso: l'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 della Costituzione).

Fin qui la notizia che rincuora, ma ce ne sono anche di pessime. Per lo meno un paio. La prima è che Berlusconi non ha alcuna intenzione di difendere la sua onorabilità nel solo luogo appropriato, l'aula del tribunale. In quel luogo - e in modo definitivo con la "sentenza Mills" - è stato documentato che egli è un corruttore, un bugiardo e uno spergiuro anche quando fa voto della "testa di figli e nipoti". Un uomo, con un'altra idea della dignità personale e della responsabilità pubblica, filerebbe in quell'aula per dimostrare la sua correttezza e onestà. Non Berlusconi che si è fatto politico per scampare - e non è un mistero - da un passato di malaffare e come corruttore, bugiardo e spergiuro pretende di essere accettato dal Paese.

Il Cavaliere avrà buon gioco - altra pessima notizia - perché i processi che lo attendono a Milano presto diventeranno cenere. Tra le leggi che il Sovrano si è acconciato per farla franca (2001, rogatorie internazionali; 2002, legittimo sospetto; 2003, legge immunitaria Schifani; 2006, inappellabilità delle sentenze di proscioglimento; 2008, legge immunitaria Alfano), tutte sterili o cancellate dalla Corte Costituzionale, la più efficace per farla franca si è rivelata la riforma dei tempi della prescrizione (2005). È questa che soffocherà i processi di Milano. Cinque dei sette giudici che lo stavano giudicando a Milano per corruzione (Mills), frode fiscale (diritti tv Mediaset), appropriazione indebita (Mediatrade) sono stati trasferiti ad altro incarico. I dibattimenti dovranno dunque ricominciare di nuovo e daccapo e la possibilità che possano arrivare al verdetto definitivo della Cassazione è concreta come l'eventualità che Berlusconi accetti di farsi processare. Nelle prossime settimane e mesi assisteremo a uno spettacolo estenuante. Gli avvocati del Sovrano andranno in aula per sfruttare tutte le possibilità che la bocciatura parziale della legge sul legittimo impedimento lascia sul tavolo. La Consulta chiede ai giudici una leale collaborazione istituzionale e di accordare le necessità della giurisdizione con il dovere di governare. Il punto di equilibrio è difficile da trovare quando i diritti della difesa sono l'occasione non per fare luce nel processo, ma per tenersi lontano dal giudizio. Anche perché - facile previsione - Berlusconi non si farà mancare gli impegni soprattutto all'estero e i suoi legali useranno quell'agenda posticcia per scardinare i tempi del processo. È molto improbabile che i giudici del tribunale di Milano se la sentano di smascherare il gioco. Lo si è già detto. Se Berlusconi fosse un imputato qualunque, il tribunale stringerebbe i tempi e il "processo Mills", che ha davanti un anno di tempo prima di "morire", forse riuscirebbe a chiudersi anche in Cassazione. È il processo più sensibile e, in fondo, quello più limpido perché nei fatti si è già concluso quando anche dinanzi alla Cassazione - e quindi definitivamente - è stata accertato che l'avvocato inglese David Mills, architetto della galassia di società off-shore di Fininvest organizzata con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, è stato pagato per non dire la verità nei processi contro Craxi e gli ufficiali della Guardi di Finanza, corrotti dal tycoon di Arcore. La corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è stato corrotto, il presidente del consiglio (coimputato) è il corruttore. Per chiunque altro che non sia il capo del governo il processo, che ora ricomincerà a Milano, sarebbe una pura formalità. Tre e quattro udienze in primo grado. Un'udienza in appello. Un'udienza in Cassazione. Sentenza che passa in giudicato. Dodici mesi sono più che sufficienti perché nel caso degli "imputati in scadenza termini", come si dice, i tribunali hanno l'obbligo di fare presto e bene non fosse altro per garantire i diritti di chi è stato offeso dal reato. Potrebbe avvenire anche per il processo Mills? Difficile. Meglio, impossibile. Il clima di perenne aggressione all'ordine giudiziario un segno lo ha lasciato. Gli abusi del sistema politico, governativo e mediatico (un caso per tutti, l'agguato denigratorio al giudice Mesiano "colpevole" di aver indossato calzini viola) provocano nelle toghe qualche impaccio superfluo che rallenta il processo. Da questo punto di vista, la sentenza della Consulta non aiuta perché prepara ai giudici di Milano un percorso ricco di trappole e complicazioni. Per dirne una, con il costituzionalista Alessandro Pace: come si potrà "coniugare l'indifferibilità dell'impedimento con l'esistenza di un'attività preparatoria e consequenziale"? È quanto questo lavoro che predispone e segue l'impegno pubblico del capo del governo potrà essere legittimamente lungo?

A pensarci, l'annichilimento per prescrizione dei processi di Milano non è nemmeno la notizia peggiore. La nuova davvero pessima la si scorge nelle manifeste intenzioni del premier. Lo si vede già muovere i fili con attenzione. Clamorosamente fallito come uomo che governa e modernizza finalmente il Paese, il Cavaliere affida il suo destino al solo congegno che conosce e controlla: le elezioni. In queste ore, con queste mosse - ieri la sortita a Berlino contro "l'ordine giudiziario fuoriuscito dall'alveo costituzionale", oggi la catilinaria televisiva dalla tv di casa in compagnia di un dipendente - le sta preparando con cura mentre dice in pubblico - spudorato - di non volerle. Come sempre, ha bisogno di creare un "contratto emotivo" con gli elettori ricordando che la sua proposta politica è egli stesso. Che il suo destino è il destino di tutti. Che la sua persona e i suoi interessi privati sono gli interessi del Paese. È una strategia che funziona (in passato ha funzionato tre volte su cinque) quando ogni questione nazionale o espressione politica precipita in una conflittualità concreta che consente di dividere il Paese in amico e nemico. È un metodo che trasforma in una vuota astrazione ogni altro problema: il debito pubblico, il declino dell'Italia, il dramma delle giovani generazioni, il fallimento delle liberalizzazioni, lo Stato di diritto, i precetti della Carta costituzionale, la sovranità, il discredito dell'Italia nel mondo. Quel che conta è il Corpo mistico del Capo, al tempo stesso sovrano e popolo. Quel che conta è sapere qual è il nemico che minaccia il Capo e che quindi deve essere - dal popolo, dai membri del corpo mistico - contrastato e colpito.

Ecco la notizia pessima: Berlusconi si prepara al voto ed è intenzionato a far rotolare il Paese in un conflitto senza confini e il nemico da distruggere sarà la magistratura. Una magistratura che il Cavaliere vorrà rappresentare come nemica del popolo, della democrazia, dell'Italia, come appunto pare si chiamerà il suo nuovo partito. Se sei contro l'Italia (partito), sei contro l'Italia (nazione). "Quando si avoca a sé la piena rappresentatività della comunità nazionale e si disconosce la legittima cittadinanza dell'altro in quanto anti-nazionale è guerra civile", sostiene Marco Rovelli. Si può anche non sapere se ci attende davvero una moderna "guerra civile", è certo che Berlusconi sta preparando, a partire dai suoi contrasti con la giustizia, qualcosa di molto simile. 
 

(14 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO L'affanno del sovrano e la fiaba del complotto
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 12:15:41 pm
L'ANALISI

L'affanno del sovrano e la fiaba del complotto

di GIUSEPPE D'AVANZO

Claqueurs ripetono le solite mosse. Modificano il segno dei fatti accertati. Abitano lo stesso Palazzo lontano dal cuore del Paese. Appartengono alla stessa famiglia e sono feroci nella difesa dello status quo, ordinato intorno al Sovrano istupidito da una sexual compulsivity e dall'amore di sé, Nerone, Eliogabalo, maiestas indegna nel suo modo di essere, ridicola nelle sue fantasticherie, nei suoi gesti, nel suo corpo, grottesca nella sua sessualità.

Indifferenti alla meccanica del potere del Sovrano, maschere salmodianti organizzano quadri dove "vero/falso", "giusto/ingiusto", "corretto/improprio" sono qualifiche fluide e manipolabili. Vogliono che ogni figura logica svanisca nella nebbia e usano formule confusamente sonore, "accanimento", "deriva giustizialista", "attacco politico", addirittura "golpe". Ugole ubbidienti agitano addirittura il fantasma mentale del Complotto, fiaba degli impotenti, inganno degli irresponsabili che temono la realtà.

È comodo da ribaltare il vaniloquio. Non c'è alcuna "trappola". Nella gabbia Berlusconi s'infila da solo. Una puttana brasiliana lo avverte mentre è a Parigi in una cerimonia ufficiale: la sua Ruby è in Questura. Ruby è del Sovrano. Ha cominciato a vedersela intorno nel 2009: la fanciulla ha sedici anni. Balla la danza del ventre. Il Sovrano si diverte. Se ne incapriccia con l'anno nuovo, il 2010. Logico che si agiti quando lo allertano da Milano. Ruby è minorenne, è nelle mani dei poliziotti, ha la lingua lunga, può rovinarlo. Solo in apparenza è irragionevole che sia egli stesso - presidente del Consiglio - a metterci riparo. Deve farlo per evitare che altri conoscano il segreto della sua relazione. Chiama il capo di gabinetto della Questura di Milano intorno alle 23.45 del 27 maggio. Già quest'intromissione avrebbe dovuto segnare la fine politica di un homme d'Etat. È un dettaglio che le ugole del Sovrano ignorano nel frastuono che organizzano. È un particolare decisivo, al contrario. Questa telefonata è l'incipit della storia e l'iniziativa che configura il reato di concussione. Lo si rintraccia quando un pubblico ufficiale (Berlusconi lo è) abusa della sua qualità o dei suoi poteri per indurre altri a un comportamento indebito. In questura da quell'ora della notte si scatena un inferno sul capo della funzionaria di servizio (Giorgia Iafrate). Riceve in 134 minuti (dalle 23.59.27 alle 02.14.12) quindici telefonate dai suoi superiori (12 dal capo di gabinetto, 3 dal dirigente dell'ufficio prevenzione, il suo capo): una telefonata ogni nove minuti. Quest'esorbitante pressione produce un frutto avvelenato. Un soggetto debole, una minorenne senza famiglia, senza fissa dimora, senza reddito che abitualmente si prostituisce, è sottratta alla tutela dello Stato con l'intervento abusivo del capo del governo che impone un comportamento scorretto ai funzionari della Questura. Alle 2.00 Ruby viene affidata a Nicole Minetti, incaricata del capo del governo, e da questa di nuovo consegnata a una prostituta brasiliana nonostante le indicazioni vincolanti del pubblico ministero. Soltanto dopo, alle 2.20.43, Giorgia Iafrate chiede di accertare la volontà della famiglia di Ruby e soltanto alle 04.00 i poliziotti incontrano i genitori della ragazza, che quindi non saranno mai interpellati, contrariamente a quanto viene riferito al pubblico ministero (è un obbligo ineludibile, hanno la patria potestà).

Nel mondo di cartapesta dell'Italia berlusconiana, maschere salmodianti ripetono "dove sono le prove?"; qualche sempliciotto ne è influenzato mentre le anime fioche dell'informazione afferrano quella domanda come un naufrago il legno (non sia mai che debbano prendere posizione e contraddire il potere). La prova della concussione di Berlusconi è evidente, salda, indistruttibile. Chiunque può vederlo. Accorti, non lo contestano gli avvocati del premier. Si tengono lontano dai fatti. Discutono di forme: era competente la procura di Milano? Rispondono di no, l'inchiesta è quindi illegittima. Istigano alla rivolta le teste di turco che straripano nei talk-show dove sfogano l'angoscia (è davvero al capolinea il Sovrano?) menando fendenti forsennati. Ignorano una regoletta: la giurisprudenza sostiene che il pubblico ufficiale (membro del governo) colpevole di concussione deve essere giudicato dal Tribunale dei ministri se la concussione è funzionale (lo sarebbe stata se in Questura avesse telefonato il ministro dell'Interno). Al contrario, se il pubblico ufficiale abusa non dei suoi poteri, ma della qualità del suo incarico (come nel nostro caso, Berlusconi) niente tribunale dei ministri.

La concussione è un delitto molto grave (12 anni il massimo della pena). Lo è soprattutto se, come in quest'affaire, si mostra aggravato da alcune circostanze. Berlusconi manipola la volontà e le condotte dei funzionari della questura per occultare un altro reato, il favoreggiamento della prostituzione minorile, e nascondere il "puttanaio" sotto il tetto di Arcore, "suscettibile di arrecare nocumento alla sua immagine di uomo pubblico".

Anche qui per affogare nell'oblio quel che è accaduto, gli avvocati si avventurano in un'acrobazia. Dicono: ammesso e naturalmente non concesso, che il favoreggiamento alla prostituzione minorile ci sia stato, è stato commesso ad Arcore, Monza. Quindi, competente non è Milano. È una mastodontica grinza, tanto più sorprendente perché i due avvocati del premier sono parlamentari. Stupisce che non ricordino come sia stato proprio questo governo, la loro maggioranza, a reintrodurre la competenza dei reati di violenza sessuale per le procure distrettuali. Quindi, nel nostro caso, a Milano.

Prima che la memoria deperisca e i fatti siano travolti dal rumore, conviene ordinare quali sono "le prove evidenti" dello sfruttamento della prostituzione minorile. Per venirne a capo, è necessario dimostrare: (1) che Ruby si prostituisse; (2) che Berlusconi, consapevole della minore età di Ruby, ha compiuto con la ragazza "atti sessuali" (3) ricompensandola. Dicono: dove sono le prove? La domanda è una corvée d'ossequio. Se si sanno leggere le 389 dell'invito a comparire, le prove si scovano. Un rosario di testimonianze dirette e documenti acustici confermano il "mestiere" di Ruby. La ragazza vende il suo corpo occasionalmente, quando ha bisogno di denaro o quando qualche agiato semplicione le capita a tiro. Succede anche con Berlusconi. Ruby è introdotta alla corte del Sovrano lungo i canali predisposti per accontentarne la sexual compulsivity. Emilio Fede (mente a gola piena e, in prima battuta, dice di non conoscerla, poi di non ricordarla) la scopre tredicenne a Messina. La indirizza al suo braccio destro nella "fabbrica del bunga bunga", Lele Mora. Il prosseneta la istruisce, la prepara e l'avvia al suo lavoro autentico mascherato in modo maldestro dall'impegno di cubista buono per pagare appena le spese di un paio di giorni al mese. Quando finalmente è pronta viene offerta al Drago. Ruby ha sedici anni. Un carabiniere che l'ha conosciuta in quel periodo riferisce che, è vero, prima del gennaio 2010 - dunque nel 2009 - Ruby era già stata a Villa San Martino due volte. Con il nuovo anno, la relazione con il presidente si fa più intensa. Dal 14 febbraio al 2 maggio 2010 Silvio Berlusconi e la teenager si vedono tredici volte. 14 (domenica), 20 (sabato), 21 (domenica), 27 (sabato), 28 (domenica) febbraio 2010; 09 (martedì) marzo 2010; 04 (domenica, Pasqua), 05 (lunedì dell'Angelo), 24 (sabato), 25 (domenica Festa della Liberazione), 26 (lunedì) aprile 2010; 01 (sabato, Festa del lavoro), 02 (domenica) maggio 2010. In settantasette giorni (dopo il fermo in questura del 27 maggio, sarà impossibile) il presidente pretende che la minorenne dorma sotto il tetto di Villa San Martino con una frequenza di una volta ogni sei giorni. È una prova solida della loro frequentazione. Bisogna ora dimostrare che ci siano stati "atti sessuali" tra il presidente e la ragazza. I caudatari chiedono come prova una fotografia, un video. Non è necessario.

È colpevole di favoreggiamento della prostituzione minorile "chiunque compie atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica". Gli atti sessuali possono anche non essere, nel caso dei minori, sesso tout court. Per giurisprudenza costante della Cassazione, è configurabile come "atto sessuale" anche una "palpazione concupiscente". Ecco allora perché in una sequenza logica ci si deve occupare delle malinconiche serate del Sovrano, di quei "bunga bunga" dove, secondo decine di testimonianze, "le ragazze si spogliano, si avvicinano al presidente disteso sul divanetto e a turno, o anche in gruppi di due o tre, si strusciano e si fanno toccare, assumendo un atteggiamento anche provocante e volgare con baci e strusciamenti". Le maledizioni dei corifei del Sovrano non riusciranno a cancellare quel che si vede. Ruby partecipa al sollazzo del premier. Quanto meno - e per la legge non occorre pretendere altro - subisce gli "strusciamenti" di quel signore di 76 anni, le sue "palpazioni concupiscenti". Sono "atti sessuali", Ruby è minorenne. Si comprende perché la procura di Milano creda di aver raccolto fonti di prova sufficienti per chiedere il giudizio immediato e chiudere presto questa triste vicenda. Appare addirittura un sovrappiù documentare il tentativo corruttivo di Berlusconi. Vuole chiudere la bocca alla ragazza. È in affanno e le promette di rivestirla d'oro. Ancora una volta è costretto a muoversi in prima persona e al telefono della ragazza arrivano nei mesi scorsi più o meno un centinaio di telefonate del presidente.

In qualsiasi altro Paese che abbia rispetto di se stesso e delle sue istituzioni, Berlusconi si sarebbe già dimesso. Se questo non avviene, non lo si deve alla tignosa "invincibilità" del grottesco Sovrano che ci governa, ma a una classe dirigente incapace di assumersi responsabilità civili, indifferente a un senso comune dell'appartenenza e all'onore. Lo si deve a una Nazione senza amor proprio. Le tracce di questa triste condizione, si scorgono nei co-protagonisti di quest'affare o nell'assenza di alcune corpi collettivi. È un bestiario dalle mille figure. Un ministro della Repubblica, Ignazio La Russa, apprende che Berlusconi si è inventato "una fidanzata" per uscire dall'angolo. Si precipita dinanzi alle telecamere di un telegiornale per giurare, senza arrossire, che "lui, lo sapeva da tempo". Un avvocato di grande reputazione a Milano, Massimo Di Noia, difende Ruby. Ruby è la parte lesa di un reato sessuale e appare assolutamente irrituale e anomalo (anche se non esplicitamente vietato) che egli si sia prestato a interrogare la sua assistita per conto dell'indagato. E bisogna escludere - perché vietato - che egli abbia richiesto per le investigazioni difensive dell'avvocato di Berlusconi "notizie sulle domande formulate o sulle risposte date" da Ruby ai pubblici ministeri che l'hanno interrogata.

Mostra l'esprit de société la quiete stagnante delle redazioni del Tg1 e del Tg4. Sono governate non da giornalisti, ma da reggicoda del Sovrano. Augusto Minzolini riscrive ogni sera la realtà del Paese governato dal Drago lisciandola da ogni increspatura, conflitto, notizia e accecando l'opinione pubblica. L'altro addirittura spande il denaro del suo giornale per far rientrare in tutta fretta dal Brasile due prostitute da accompagnare dal premier. Che cosa deve accadere perché le redazioni dei due giornali facciano sentire la loro voce, alzino la protesta per difendere il loro onore. Dove sono i sindacati di polizia? Perché non difendono quei funzionari di Milano, umiliati e vinti dall'arroganza del capo di governo. Perché tace la Chiesa? Perché è senza voce il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Mariano Crociata. Che già ebbe modo di dire (menava scandalo l'amicizia del Sovrano con la minorenne Noemi): "Assistiamo ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio". Esiste ancora un'Italia che abbia amor proprio?

(19 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/19/news/inchiesta_prove-11384747/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il volto spietato del potere
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:19:35 pm
L'ANALISI

Il volto spietato del potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL berlusconismo arriva al suo compimento. Ci dovevamo arrivare prima o poi e ora - ecco - ci siamo. Quel che si scorge è l'inizio di un lungo tormento. Sapevamo di vivere in un Paese dove al governo c'è un uomo solo - un grottesco Egoarca - che altrove sarebbe già stato allontanato per la sua evidente inadeguatezza politica e insufficienza etica. Sapevamo che quell'uomo solo, che stringe nelle sue mani il filo del potere economico, politico e mediatico, non può permettersi di allontanarsi dal governo perché è il governare, è il potere, sono i dispositivi di dominio che proteggono l'opacità della sua storia, l'irresponsabilità dei suoi comportamenti, il suo futuro. Buona parte dei disordini istituzionali che hanno accompagnato la vita pubblica degli ultimi quindici anni - lo sappiamo - è figlia di questa anomala e umiliante condizione in cui viviamo; una condizione che sollecita in tanti o la rassegnazione o una depressione cinica. Ci aspettavamo giorni difficili, ci attendono lacrime e sangue. Non bisogna nasconderselo perché, dopo il videomessaggio di Berlusconi, c'è una circostanza che è diventata chiara come acqua di fonte: quell'uomo non vorrà mai lasciare il Palazzo, qualsiasi cosa accada, qualsiasi siano le sue responsabilità accertate, qualsiasi siano le urgenze del Paese.

Il Sovrano, accusato di concussione e di aver fatto sesso con una minorenne, non accetta di farsi processare. Esige di essere immune. Comunica che se l'impunità gli sarà
negata, spingerà la sua avventura autocratica fino alle estreme conseguenze, incurante di condurre l'Italia nel gorgo di un tragico conflitto e le istituzioni dello Stato al collasso con risultati oggi del tutto imprevedibili per il futuro del Paese.

La risolutezza annunciata dal capo del governo non è la caparbietà di un "combattente nato", come pure qualche anima fioca dirà. È la nascita di un potere postpolitico e neoautoritario. È postpolitico perché il processo del governare - che cosa è necessario al Paese? qual è l'agenda delle priorità? come affrontarla? - è ormai del tutto separato e scisso dallo spettacolo mediatico che diventa la più autentica rappresentazione del nostro destino pubblico. Questa scena di cartapesta, che impasta e mescola la realtà trasfigurandola, liquida del tutto i meccanismi democratici che diventano irrilevanti al punto che esprimono soltanto un vuoto. Il capo dello Stato, che ha chiesto appena 24 ore fa trasparenza, è sconfessato. Il Parlamento dei nominati mostra tutta la sua ininfluenza. L'opposizione non trova nemmeno il luogo per esercitare le sue prerogative.

È un potere neoautoritario perché Berlusconi è stato esplicito: "la magistratura sarà punita". Chi gli ha scritto il discorso aveva consigliato "adeguata reazione". Il capo del governo ha corretto "punizione". Perché gli è chiara la strada che intende esplorare: l'unificazione nella sua persona di tutti i poteri. C'è un ostacolo lungo questa via: l'indipendenza del potere giudiziario. Deve essere liquidata. È quel che reclama. Con animo da mercante, potrebbe ripensarci soltanto se gli sarà concessa l'impunità (già si ode il lavorio di chi crede alla possibilità di "ridurre il danno").

In ogni caso il capo del governo annuncia nuove misure graduali da stato di emergenza perché è un'emergenza l'autonomia della magistratura anche se il solo a sentirsi minacciato è lui. "State sereni", dice Berlusconi. È una frase chiave. Ci rassicura: la vita andrà avanti normalmente con le sue permissività, i suoi piaceri, i suoi sogni ma - purtroppo - per colpa di una magistratura che lavora con fini politici occorre qualche misura eccezionale necessaria per proteggere la cosiddetta "libertà" che nel lessico del Sovrano equivale a "piacere". Si avvera la profezia di Slavoj Zizek. Nel futuro dell'Italia appare una sorta di autoritarismo permissivo che ha per formula più divertimento e più misure straordinarie. Più "piacere" e meno libertà. Sapremo comprendere i principi eversivi di questo discorso? C'è ancora da qualche parte nella nazione un amor proprio che avverte come degradante, disonorevole, vergognoso per tutti la presenza di quest'uomo al vertice dello Stato? Ammesso che davvero esista nella nostra democrazia ipermediatizzata, si riuscirà a rendere consapevole l'opinione pubblica di che cosa è accaduto, di perché accaduto e per responsabilità di chi.

Nel suo monologo - mai che l'arrogante accetti un contraddittorio, una domanda, la contestazione di "un fatto" - Berlusconi ha truccato le carte come gli accade sempre. Come è possibile dimostrare, ha corrotto Ruby, l'ha costretta a tacere di aver fatto sesso con lui, minorenne. Si è fatto firmare una dichiarazione che lo scagiona. Berlusconi l'ha letta ieri in tv condendo la sua difesa con bubbole e fiabe: mi difenderei volentieri nel processo (questo è un falso indiscutibile), ma la procura di Milano è incompetente (altro falso); non ho mai toccato quella ragazza (ancora un falso). È un altro aspetto della nostra nascente democrazia neoautoritaria. Il Sultano pretende che il potere delle sue parole sulla realtà e sui nostri stessi ricordi sia, per noi, illimitato e indiscusso. È il paradigma che sempre il capo del governo oppone ai fatti nella convinzione che, in ogni occasione, la forza del suo triplice potere possa piegare la verità, ogni verità, tutte le evidenze. Corrompe i testimoni (già gli è capitato con David Mills, ora c'è ricascato con Ruby che dice: mi vestirà d'oro). Impone all'informazione che possiede e controlla di far deflagrare quelle "verità capovolte" nella mente e nei cuori degli italiani che, otto su dieci, s'informano dalla tv e dunque da fonti quasi esclusivamente sue. Trasforma un suo affare privato in un affare pubblico mobilitando le istituzioni (governo, parlamento) che considera cosa sua. Questo spettacolo nero ha un significato politico. Berlusconi ci dice che, al di fuori della sua "verità", non ce ne può essere un'altra. Vuole ricordarci che la memoria individuale e collettiva è a suo appannaggio, una sua proprietà, manipolabile a piacere. Si scorge oggi nell'affaire Ruby, come nella "crisi di Casoria" del 2009, un uso della menzogna come funzione distruttiva del potere che scongiura l'irruzione del reale e oscura i fatti. Si misura l'impiego dei media sotto controllo diretto o indiretto del premier come fabbrica di menzogne che finora ha preparato il castigo per chi dissente e da oggi annuncia la "punizione" delle istituzioni dello Stato che non si conformano. Quel che è abbiamo visto ieri in televisione è il nuovo volto di un potere che diventerà spietato, se politica e società non si uniranno per fermarlo. È il paradigma di una macchina politica che deve convincerci della pericolosità di Berlusconi. C'è ancora qualcuno che può pensare che questa sia la trama di un gossip o l'ennesimo episodio del conflitto tra politica e magistratura? Diffidate di chi vi racconterà queste favole. Berlusconi sta mettendo le mani sulla nostra democrazia e bisogna decidere soltanto che la misura è colma.

(20 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/20/news/il_volto_spietato_del_potere-11430387/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Dalla questura al sesso con Ruby le 10 menzogne di Berlusconi
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2011, 05:33:20 pm
Dalla questura al sesso con Ruby le dieci menzogne di Berlusconi

Ecco le prove che smentiscono l'autodifesa del Cavaliere sullo scandalo che lo ha investito

di GIUSEPPE D'AVANZO

CASO RUBY

Si contano dieci menzogne nell'intervento televisivo di Silvio Berlusconi. Qui di seguito dimostriamo come le parole del premier siano variazioni falsarie. Costruiscono per l'opinione pubblica una fiction che appare in gran parte fasulla anche alla luce di quel che è già emerso dai documenti dell'inchiesta di Milano. Le bugie nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio devono negare come e perché sia riuscito ad esfiltrare dalla questura, sottraendola alla tutela dello Stato, una minorenne accusata di furto. Una minorenne con la quale il capo del governo ha intrattenuto, per lo meno per tre mesi, una relazione molto intensa, al punto che ci sono tra i due 67 contatti telefonici in 77 giorni. Impossibilitato a raccontare la verità su quella relazione, il premier è costretto a mentire ancora: parla di persecuzione giudiziaria; inventa una violazione della sua privacy; accusa la polizia di aver maltrattato le sue amiche: è un'autodifesa che non accetta di essere verificata. "Non mi devo vergognare", dice Berlusconi. Le sue dieci bugie lo dovrebbero convincere non solo a vergognarsi, ma anche ad assumersi la responsabilità di fare chiarezza davanti ai giudici e dinanzi al Paese. Ecco dunque le dieci bugie che, se necessario, integreremo nel corso del tempo.

1. "Non ho minacciato nessuno"
Dice il premier: "Vi leggo le risposte del funzionario al pubblico ministero dove descrive la mia telefonata: "L'addetto alla sicurezza mi disse: dottore, le passo il presidente del Consiglio perché c'è un problema. Subito dopo il presidente del Consiglio mi ha detto che vi era in questura una ragazza di origine nord africana che gli era stata segnalata come nipote di Mubarak e che un consigliere regionale, la signora Minetti, si sarebbe fatta carico di questa ragazza. La telefonata finì così". Ma vi pare che questa possa essere considerata una telefonata di minaccia?".
Berlusconi sa di mentire perché non ci fu una sola telefonata con il capo di gabinetto. Come si legge nell'invito a comparire il funzionario riceve ripetute e "ulteriori chiamate dalla presidenza del Consiglio" (la procura ha escluso tutti i contatti telefonici di Berlusconi e non è ancora pubblico il numero esatto). Devono essere state così urgenti e incombenti da consigliare al capo di gabinetto di telefonare 24 volte al funzionario di servizio, al suo diretto superiore, al questore. La prima telefonata è delle 00.02.21, l'ultima addirittura delle 6.47.14. Non importa se il capo di gabinetto abbia o meno avvertito "una minaccia" nelle parole del presidente. E' indiscutibile che il funzionario si dà molto da fare. L'esito è l'affidamento di Ruby, di fatto, a una prostituta, Michele Coincecao, eventualità che il pubblico ministero per i minori, Anna Maria Fiorillo, aveva escluso. Questo è il risultato della pressione di Berlusconi: la polizia non rispetta le disposizioni del magistrato.

2. "Non ho fatto sesso con Ruby"
Dice il premier: "Mi si contestano rapporti sessuali con una ragazza minore di 18 anni, Ruby. Questa ragazza ha dichiarato agli avvocati e mille volte a tutti i giornali italiani e stranieri che mai e poi mai ha avuto rapporti sessuali con me".
E' utile ricordare come Ruby sia stata "avvicinata" dagli avvocati, da quali avvocati, in quale occasione. E' il 6 ottobre 2010, Ruby deve incontrare il suo avvocato non quello di oggi (Massimo Di Noja) che sarà nominato soltanto il 29 ottobre, ma Luca Giuliante, difensore anche di Lele Mora. Ruby raggiunge lo studio del legale accompagnata da un amico Luca Risso. Risso, via sms, fa a una sua amica il resoconto di quel che accade. Sono utili cinque messaggi. 1. "Sono nel mezzo di un interrogatorio allucinante... Ti racconterò, ma è pazzesco!". 2. "E' sempre peggio quando ti racconterò (se potrò...). 3. L'amica scrive: "Perché stanno interrogando Ruby?". 4. Scrive Risso: "C'è Lele (Mora), l'avv., Ruby, un emissario di Lui. Una che verbalizza. Sono qui perché pensano che io sappia tutto". 5. "Sono ancora qua. Ora sono sceso a fare due passi. Lei è su, che si sono fermati un attimino perché siamo alla scene hard con il pr... con la persona". Da queste informazioni si deducono un paio di scene. Ruby è stata protagonista di "scene hard" con il presidente. Lele Mora, un inviato di Berlusconi e l'avvocato Giuliante la "interrogano" per conoscere che cosa ha raccontato ai pubblici ministeri. E' un vero e proprio debriefing che può consentire di conoscere le accuse, prevedere le mosse dei pubblici ministeri, ribaltare i ricordi della ragazza con la dichiarazione giurata che oggi Berlusconi sventola. Inutilmente perché appare più il frutto o di una violenza morale o di una corruzione, se si prende per buono quel che Ruby dice al padre: "Sono con l'avvocato, Silvio gli ha detto: dille che la pagherò il prezzo che lei vuole. L'importante è che chiuda la bocca". E' il 26 ottobre 2010.

3. "Anche Ruby mi scagiona"
Dice il premier: "Vi leggo quello che ha detto la stessa Ruby in una dichiarazione firmata e autenticata dai suoi avvocati: "Non ho mai avuto alcun tipo di rapporto sessuale con l'onorevole Silvio Berlusconi. Nessuno, né l'onorevole Berlusconi né altre persone, mi ha mai prospettato la possibilità di ottenere denari o altre utilità in cambio di una disponibilità ad avere rapporti di carattere sessuale con l'on. Silvio Berlusconi. Posso aggiungere che, invece, ho ricevuto da lui, come forma di aiuto, vista la mia particolare situazione di difficoltà, una somma di denaro. Quando ho conosciuto l'on. Berlusconi, gli ho illustrato la mia condizione personale e famigliare nei seguenti termini: gli ho detto di avere 24 anni, di essere di nazionalità egiziana (non marocchina), di essere originaria di una famiglia di alto livello sociale, in particolare di essere figlia di una nota cantante egiziana. Gli ho detto anche di trovarmi in difficoltà per essere stata ripudiata dalla mia famiglia di origine dopo che mi ero convertita al cattolicesimo". Ecco perché vorrei fare il processo subito, con queste prove inconfutabili, ma con giudici super partes.
Più che inconfutabili, queste fonti di prova appaiono insincere. Abbiamo visto in quale clima e dinanzi a quali attori nasca lalettera di Ruby che assolve Berlusconi. La favola poteva essere congegnata meglio. Anche a dimenticare quelle "scene hard", ci sono almeno alcune rilevanti condizioni che la scompaginano e dicono quanto Berlusconi non racconti la verità. Il premier sapeva della minore età di Ruby e non ha mai creduto che fosse di "una famiglia di alto livello sociale" perché è Emilio Fede che la scrutina in un concorso di bellezza in Sicilia nel 2009. Il giornalista sa che è una "sbandata". C'è un video che lo mostra quando, in quell'occasione, dice: "C'è una ragazza di 13 anni, se non sbaglio egiziana, mi sono commosso, ho solidarizzato (perché) la ragazza non ha più i suoi genitori... ". Per "solidarietà", Fede indirizza la teenager da Lele Mora che la "svezza" e in quello stesso anno la destina alle serate di Berlusconi. Alcuni testimoni riferiscono che nel 2009 Ruby frequenta in due occasioni Villa San Martino. Lei lo conferma: "Frequento Berlusconi da quando avevo sedici anni". L'incontro con il Sovrano non sarà occasionale. Il Drago ne incapriccia. Dal 14 febbraio al 2 maggio 2010 si contano 67 contatti telefonici tra Ruby e il presidente. Una telefonata al giorno, quasi.

4. "E' la 28esima persecuzione"
Dice il premier: "Ho avuto finalmente modo di leggere le 389 pagine dell'ultima vera e propria persecuzione giudiziaria, la ventottesima in 17 anni". Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso che cambia a seconda delle ragioni. Dice il Cavaliere: "In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni" (10 ottobre 2009). Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l'iperbole paterna: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?" (Corriere, 10 ottobre 2009). Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l'alto: "I processi contro Berlusconi sono 109" (Porta a porta, 15 ottobre 2009). Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: "Non esageriamo, i processi sono 26". Ventotto, ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni? In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici. Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; frode fiscale per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell'affare Mediatrade; e quest'ultimo per concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile. Nei processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria". Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati). Più che persecuzione giudiziaria, siamo dinanzi a un'avventura fortemente segnata dall'illegalità.

5. "Mi spiano dal gennaio 2010"
Dice il premier: "Pensate che la mia casa di Arcore è stata sottoposta a un continuo monitoraggio che dura dal gennaio del 2010 per controllare tutte le persone che entravano e uscivano e per quanto tempo vi rimanevano. Hanno utilizzato tecniche sofisticate come se dovessero fare una retata contro la mafia o contro la camorra". "Sappiate che la Procura di Milano mi ha iscritto come indagato soltanto il 21 dicembre scorso, guarda caso appena sette giorni dopo il voto di fiducia del Parlamento, e quindi tutte le indagini precedenti erano formalmente rivolte verso altri ma sostanzialmente tenevano sotto controllo proprio la mia abitazione e la mia persona".
Dio solo sa che cosa c'entra il voto di fiducia. Che cosa avrebbe detto se quel voto fosse stato per lui negativo? Avrebbe detto che, caduto il governo, la magistratura avvia la sua vendetta. Berlusconi deve lasciarlo credere per politicizzare una malinconica storia di prostitute minorenni e abusi di potere che con la politica non c'entra nulla. E' falso sostenere che la sua casa di Arcore sia stata tenuta sotto controllo da un anno. Dopo le dichiarazioni di Ruby (3 agosto 2010), le indagini si muovono con molta cautela. Inizialmente contro Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti. Soltanto in autunno emergono le possibili responsabilità dirette del premier. Prima di iscrivere al registro degli indagati Berlusconi, i pubblici ministeri come sempre vagliano una prima e approssimata attendibilità delle accuse. Chiedono i tabulati delle telefonate di Ruby dal gennaio 2010: davvero conosce il capo del governo? Quindi gli accertamenti sono fatti a ritroso e non in tempo reale come maligna, mentendo, il capo del governo.

6. "Hanno violato la mia casa"
Dice il premier: "Nella mia casa da sempre svolgo funzioni di governo e di parlamentare, avendolo addirittura comunicato alla Camera dei deputati sin dal 2004, e la violazione che è stata compiuta è particolarmente grave perché va contro i più elementari principi costituzionali".
Da nessun atto dell'inchiesta si deduce che la dimora del presidente sia stata "violata". Si indaga su un prosseneta. Lo si tiene d'occhio. L'uomo si muove con prostitute al seguito. Lo si segue. Si scopre che il corteo di auto, spesso scortato da auto di Stato, varca il cancello di Villa San Martino. Il domicilio non viene oltraggiato. Piuttosto ci si deve chiedere se non lo oltraggia Berlusconi. C'è qualche buona ragione per sostenerlo. Pretende che la sua casa privata sia considerata residenza di Stato. Bene. Per questa ragione e per un elementare principio costituzionale (art. 54 della Carta: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore) Berlusconi non dovrebbe affollarla di prostitute (in forza del necessario "onore" che dovrebbe accompagnare la sua responsabilità pubblica). Dovrebbe con "disciplina" proteggere se stesso e non trascurare la sua personale sicurezza, come gli accade aprendo la porta di casa a qualsiasi ragazza italiana e straniera disponibile a trascorrere la notte con lui. La sua vita disordinata lo ha reso vulnerabile e ricattabile. Berlusconi era continuamente taglieggiato dalle sue ospiti, come si apprende dalle indagini. Viene da chiedere: questi sono piccoli ricatti, ma in quante e quali occasioni, magari internazionali, Berlusconi ha reso possibile anche grandi ricatti e chissà possono essere ancora "vivi"?

7. "Milano è incompetente"
Dice il premier: "Come prescrivono la legge e la Costituzione, entro 15 giorni dall'inizio delle indagini la Procura avrebbe dovuto trasmettere tutti gli atti al Tribunale dei ministri, l'unico competente per tutte queste vicende. È gravissimo, ancora, che la Procura voglia continuare a indagare pur non essendo legittimata a farlo. Tra l'altro la Procura di Milano non era neppure competente per territorio. Infatti il reato di concussione mi viene contestato come se fosse stato commesso a Milano. Questo è palesemente infondato poiché il funzionario della questura che ha ricevuto la mia telefonata in quel momento era, come risulta dalle stesse indagini, a Sesto San Giovanni. Quindi la competenza territoriale era ed è del Tribunale di Monza". E' bizzarro che Berlusconi si travesta da azzeccagarbugli e disputi sulla competenza della procura di Milano in un video televisivo e non in aula. Qui avrebbe più difficoltà ad avere ragione perché la giurisprudenza è costante. La concussione è un abuso. E' di "potere" se chi lo pratica fa leva sulle "potestà funzionali per uno scopo diverso da quello per il quale sia stato investito" (Cassazione). Per capire, sarebbe stata una concussione di potere se a telefonare in questura a Milano "consigliando" la liberazione di Ruby fosse stato il ministro dell'Interno. L'abuso può essere anche di "qualità". In questo caso "postula una condotta che, indipendentemente dalla competenze del soggetto (il concussore), si manifesta come una strumentalizzazione della posizione di preminenza ricoperta". E' il caso di Berlusconi. Abuso di potere o abuso di qualità presuppongono due competenze diverse. L'abuso di potere di un ministro impone la competenza del tribunale dei ministri. L'abuso di qualità prescrive la competenza territoriale: dove è stato commesso il reato? Il capo di governo lo sa che questa è la domanda che decide e prova a truccare le carte. Dice: è competente Monza perché qui abita il capo di gabinetto della questura che riceve la mia telefonata. Errore. La concussione è un reato d'"evento" e non di "condotta" e dunque la competenza si radica dove si materializza "il vantaggio". E' fuor di dubbio che il vantaggio (Ruby affidata alla Minetti e sottratta alla tutela dello Stato) diventa concreto a Milano.

8. "150 poliziotti contro 10 ragazze, le mie amiche sono state maltrattate"
Dice il premier: "Gli stessi Pm. che hanno ordinato con uno spiegamento di forze di almeno 150 uomini una imponente operazione di perquisizione contro ragazze colpevoli soltanto di essere state mie ospiti in alcune cene (...) Queste perquisizioni nei confronti di persone che non erano neppure indagate ma soltanto testimoni sono state compiute con il più totale disprezzo della dignità della loro persona e della loro intimità. Sono state maltrattate".
E' una bubbola. All'inchiesta hanno collaborato i dieci uomini della polizia giudiziaria presso la Procura, disponibili non solo per quest'inchiesta, ma per il lavoro di tutti i 90 pubblici ministeri di Milano. La squadra mobile di Milano, venerdì scorso, ha mandato 30 poliziotti (molte donne) a perquisire gli appartamentini delle dieci amiche del premier, abituali frequentatrici di Arcore. Maltrattamenti? Berlusconi viene smentito anche da Giuseppe Spinelli, il ragioniere di Arcore, ufficiale pagatore delle amiche del presidente: "Alle 7,30 ci siamo trovati in casa cinque poliziotti della Criminalpol. Non sono stati mica sgarbati... ".

9. "Non ho pagato mai una donna"
Dice il premier. "E' assurdo soltanto pensare che io abbia pagato per avere rapporti con una donna. E' una cosa che non mi è mai successa neanche una sola volta nella vita. E' una cosa che considererei degradante per la mia dignità".
Già Patrizia D'Addario fu pagata, anche se da Giampaolo Tarantini, per tener compagnia al capo del governo nel lettone di Putin a Palazzo Grazioli. L'inchiesta milanese invece ci racconta come nessuna delle ragazze invitate ad Arcore lasciasse la villa senza la busta con i biglietti da 500 euro preparata dal ragioniere di casa. Anche chi, come M. T., di soldi non ne voleva, si vede offrire una busta con 500 euro. Un cip. Nulla a che fare con i "7mila euro" ricevuti da Ruby. E da Iris. E da Imma. E da Barbara... Si fa prima a dire quale ragazza non è stata pagata che elencare i nomi di chi si è intrattenuto nella sala del bunga bunga o tra le braccia del Drago in cambio di un compenso. Nessuna delle ragazze che dopo cena raggiunge il sotterraneo di villa San Martino va via a mani vuote. Inutile dire quanto appaia degradata la dignità del premier.

10. "Non mi devo vergognare"
Dice il premier: "Non c'è stata nessuna concussione, non c'è stata nessuna induzione alla prostituzione, meno che meno di minorenni. Non c'è stato nulla di cui mi debba vergognare. C'è solo un attacco gravissimo di alcuni pubblici ministeri che hanno calpestato le leggi a fini politici con grande risonanza mediatica".
Berlusconi non deve vergognarsi soltanto del disonore con cui ha travolto il Paese e del discredito che oggi insudicia la presidenza del Consiglio. Il 28 maggio del 2009, a un mese dall'inizio dell'affaire Noemi, disse: "Giuro sulla testa dei miei figli di non aver mai avuto relazioni "piccanti" con minorenni. Se mentissi, mi dimetterei immediatamente". Berlusconi deve vergognarsi per le relazioni intrattenute dal 2009 al 2010 con due minorenni (Noemi e Ruby). Deve vergognarsi per aver mentito al Paese. Deve vergognarsi per non essersi ancora dimesso.

(21 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/21/news/dieci_bugie-11473290/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO E ad Arcore spunta un'altra minorenne
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 05:18:30 pm
L'INCHIESTA

Così Berlusconi pagava le donne

E ad Arcore spunta un'altra minorenne

Sesso, soldi e ricatti. Il secondo atto del Rubygate che demolisce il Cavaliere. Nelle nuove carte dei pm spunta anche la droga. Una teste dice di un'altra ragazza: "La costringeva a rapporti plurimi che lei non gradiva"


di GIUSEPPE D'AVANZO


LO SCIAME investigativo che sempre segue la discovery di un'inchiesta demolisce alla lettera il fondale di cartapesta che Silvio Berlusconi ha fabbricato, in fretta e molto confusamente, per salvarsi dall'accusa di concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile. La lettura delle 227 pagine di "integrazioni" istruttorie inviate dalla procura di Milano alla Camera per ottenere la perquisizione di Giuseppe Spinelli (il "ragioniere" retribuisce le falene che allietano le notti al Sultano) sono un'arma decisiva nelle mani dell'accusa.

Pagine definitive per comprendere le condotte del Cavaliere; funeste per le menzogne che ha cucinato per gli italiani. L'"integrazione" conferma alcune questioni decisive. Elenchiamole. (1) Salta fuori un'altra minorenne (la terza, dopo Noemi e Ruby) che frequenta abitualmente la corte del Drago. È una prostituta brasiliana. (2) Ci sono due nuove testimonianze che ricordano che cosa accade a Villa San Martino quando la cena è finita e le ospiti - tutte giovani e giovanissime donne - raggiungono nel sotterraneo la "sala del bunga bunga" (le parole sono del premier). (3) Tutte le falene che si esibiscono per lui o che gli tengono compagnia la notte sono retribuite. (4) Ruby annota con cura il prezzo del suo silenzio, il denaro che già ha intascato dal capo del governo e accantonato, quel che gli consegna - e sono 4 milioni - il "ragioniere" del Cavaliere. (5) Il giorno successivo allo scoppio dello scandalo (15 gennaio) Berlusconi convoca tutte le ragazze del
"bunga bunga" ad Arcore per depurare, con la collaborazione dei suoi avvocati, dai loro ricordi e parole i fatti più scomodi e sensibili.

Questo nuovo capitolo di una storia che umilia il Paese, prima di esporre alla luce del sole l'inadeguatezza e l'irresponsabilità del presidente del Consiglio (altra cosa il giudizio penale), si può raccontare dal centro della scena.
Il teatro è il sotterraneo di Villa san Martino. Che cosa accade? Lo ricordano nelle nuove carte due giovanissime donne, una poco più che ventenne. Non ne diciamo il nome. Chiamiamola N.

N. conosce e frequenta le ragazze della Dimora Olgettina di MilanoDue dove il Sultano ospita il suo harem. N. ne raccoglie le confidenze e può raccontare ai pubblici ministeri: "... ha fatto sesso con il presidente. Ha avuto con lui una relazione molto stressante. Stressante, sì. Lo diceva lei perché il presidente la costringeva a rapporti plurimi che ... non gradiva".

Il secondo racconto è di Maria Makdoum. È una danzatrice del ventre, è araba. Ecco che cosa ricorda della sua vista ad Arcore: "Nel giugno del 2010 Lele Mora mi chiede se sono interessata a partecipare a una serata ad Arcore (...) e se voglio far parte del suo harem. Mi trasferisco a casa sua da giugno ad agosto. Vado ad Arcore in luglio. Prima di entrare nella villa, da una stradina laterale si affiancano alla nostra auto un'autovettura con il lampeggiante delle auto di Stato. Ognuna di noi si è seduta per la cena dove voleva. Finita la cena, il presidente disse: "E ora facciamo il bunga bunga" e spiegò che cosa era, cioè era una cosa sessuale". Il gruppo si trasferisce "di sotto" e qui "le gemelle De Vivo si spogliano, sono in mutande e reggiseno. Il presidente le tocca e loro lo toccano nelle parti intime. Si avvicinano anche a Emilio Fede che le tocca il seno e altre parti intime. Poi una ragazza brasiliana con perizoma balla il samba in modo molto hard. Anche le altre ragazze a quel punto ballano scuotendo il seno, mostrando il fondo schiena. Tutte si avvicinano al presidente che le tocca nelle loro parti intime. Sono rimasta inorridita. Se avessi saputo prima quello che si faceva alla villa non sarei andata, lo confesso".

Questi racconti sono l'incubo del presidente del Consiglio da mesi. Da quando ha saputo che Ruby - quella "matta" che non tiene mai a freno la lingua, avida, una creatura che, minorenne, è stata sua ospite fin dal 2009 e poi dissennatamente il capriccio di una stagione (febbraio/maggio 2010) - è stata interrogata dal pubblici ministeri, Berlusconi non ha pace. Sa che Ruby ha detto tutto, raccontato tutto a quei maledetti in toga che non lo lasciano in pace. Ora è Ruby che lo tiene sotto pressione più dei magistrati, più dell'opposizione politica. Lo ricatta. Gli scuce milioni. Come dice la Minetti sfogandosi con la sua assistente: "Berlusconi si caga sotto (per quel che può combinare la Ruby)". Il Sultano deve reagire. Sa che il quadro che i pubblici ministeri possono mettere insieme può comprometterlo per sempre.

Non c'è solo Ruby, prostituta minorenne, tra le falene di Villa San Martino. Ce n'è un'altra di minorenne (come anticipato dal Secolo XIX). Il suo nome è nelle carte. È Iris Berardi, origini brasiliane, residenza a Forlì. Iris inizia quindicenne a frequentare le passerelle. A 17 anni si trasferisce a Milano in cerca di fortuna ed entra nel giro delle hostess per le Fiere. Presto diventerà una prostituta. Compie i diciotto anni il 28 dicembre 2009. Lo screening dei suoi tabulati telefonici la segnala una trentina di volte ad Arcore nel 2010. In quell'anno è, da gennaio, già maggiorenne. Due contatti segnalano, la prostituta brasiliana, nelle ville del presidente anche prima del suo compleanno. Per dire, il 21 novembre del 2009 a Villa Certosa (Berlusconi è in Arabia Saudita, pare) e il 13 dicembre 2010 è ad Arcore. Quella sera viene colpito al volto da quel matto di Massimo Tartaglia. Iris dorme in Villa, quella tragica notte. Con questo peso sul groppo, Berlusconi deve fare qualcosa. Deve cancellare ogni traccia, testimonianza. Inventarsi un'altra realtà. Per farlo, deve comprare - per cominciare - il silenzio di Ruby.

Nelle carte, si dà conto di quel che è stato trovato nella perquisizione dell'appartamento genovese della prostituta marocchina. In un'agenda sono annotate alcun cifre: "50 mila per il libro; 12.000 campagna intimo; 200.000 da Luca Risso; 70 mila conservati da Dinoia (è il suo avvocato di Milano, ndr); 170 mila conservati da Spinelli (è l'ufficiale pagatore di Berlusconi, ndr)". Su un altro fogliettino si legge: "4 milioni che ricevo da Spinelli". Non mentiva dunque la ragazza quando rassicurava il padre che Silvio l'avrebbe "rivestita d'oro" o confidava alle sue amiche che la storia con il presidente l'avrebbe fatta milionaria perché per tener chiusa la bocca, per lasciare il Cavaliere fuori dai guai - guai molto seri - , gli aveva chiesto "cinque milioni di euro". Ora Berlusconi può anche pensare di aver salvato ancora una volta la ghirba, ma per esserne sicuro deve indottrinare anche tutte le altre, tutte, giovani, giovanissime, soubrette o senza arte né parte. Per dirla, con la Minetti, tutte "le zoccole, brasiliane delle favelas che non parlano italiano, mezze serie" che hanno frequentato Arcore, il "bunga bunga" e Mora e Fede e Carlo Rossella e nel giorno della perquisizione si sono fatte trovare in casa buste e buste di migliaia di euro con su scritto B. e chi non ce l'ha scritto, lo ha detto ai poliziotti da dove veniva quel denaro. È il 15 gennaio del 2011. Da quarantott'ore si sa che il capo del governo è nei guai. Il Sultano convoca l'intero harem ad Arcore. Le carte disegnano la "geografia" della convocazione. Intercettazione da Faggioli a Aris:

"Mi ha chiamato il presidente Berlusconi... scandisco le parole, visto che mi stanno ascoltando. Mi ha chiesto la cortesia di farti avvicinare ad Arcore alle 19. Ci sono gli avvocati". Aris avverte Maristella: "Ha chiamato il presidente B. ha detto che alle 19 devi essere ad Arcore".

Maristella (Polanco) chiama subito Barbara (Faggioli): "Sono stata chiamata". Barbara: "Alle 19, amo', da quanto ho capito dalle intercettazioni emergono cose molto brutte che noi ragazze diciamo su di lui". La Faggioli chiama anche la Minetti e in queste conversazioni emerge un nuovo grattacapo per Berlusconi. Nicole è furibonda. Si sente abbandonata. È preoccupata. Lei non ha ottanta anni come Fede o settantacinque come il Sultano. Lei ha solo venticinque anni è la vita davanti. Non vuole finire in galera. Non vuole distruggersi la vita. A Natale se ne andava con il padre per lo shopping e finiscono in libreria. Il padre vede sullo scaffale "Mignottocrazia" di Paolo Guzzanti e scopre che un intero capitolo è dedicato alla figlia. Nicole si vergogna e l'otto gennaio dice a Barbara: "Io do le dimissioni, cioè sta roba è una roba che ti rovina la vita, ti rovina i rapporti, ti logora. Devi avere un pelo sullo stomaco, ma a me non me ne frega niente. Io voglio sposarmi, fidanzarmi, avere dei bambini, una casa. (Non voglio) litigare tutti i giorni con tutti, metterla nel culo a quello che ha fiducia in te. La politica è un casino. Cioè cade lui... cadiamo noi. A lui fa comodo mettere te e me in Parlamento, perché dice "Bene, me le sono levate dai coglioni" e lo stipendio lo paga lo Stato".

Ora ancora Barbara Faggioli l'avverte: "Mi ha chiamato la segreteria del presidente e mi hanno passato il presidente e mi ha detto di convocare tutte le ragazze per parlare con l'avvocato alle 19. Che dici? Che è ok?".

No, per Nicole Minetti, incredibilmente non è affatto ok. Dice Nicole: "No perché... devo parlare al mio avvocato. Io sono indagata, per me la cosa è diversa.. Lui sarà anche il mio capo, ma io sono indagata e lui altrettanto... È un pezzo di merda. Se vuole vedermi, mi chiama lui, ma se vado ci vado con gli avvocati". E più tardi, con maggiore violenza, spiega a Clotilde Strada, la sua assistente: "Non me ne fotte un cazzo. Se lui è il presidente del Consiglio o, cioè, è un vecchio e basta. A me non me ne frega niente, non mi faccio prendere per il culo. Si sta comportando da pezzo di merda pur di salvare il suo culo flaccido. Giusto che si faccia sentire lui se non lo farà mi comporterò di conseguenza... quel briciolo di dignità che mi rimane la voglio tenere... visto che lui non mi ha chiamato... gli faccio prendere paura. Quando si cagherà addosso per Ruby chiamerà e si ricorderà di noi.. adesso fa finta di non ricevere chiamate".

È dunque in queste condizioni l'uomo che guida il Paese. Lo avevamo intuito, ora non si possono più chiudere gli occhi dinanzi a quel vediamo: una dissennata vita privata ha consegnato Silvio Berlusconi a gravissime responsabilità penali, di cui risponderà a breve in un problematico giudizio immediato, ma soprattutto al ricatto plurimo di decine di giovani donne. Berlusconi è in una via senza uscita.

(27 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/27/news/ruby_carte_pm-11706426/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Quattro bugie per sottrarsi ai giudici
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2011, 06:13:39 pm
L'ANALISI

Parola di Gran Bugiardo

Quattro bugie per sottrarsi ai giudici
Le nuove menzogne del Cavaliere nello show in tv. Il premier s'inventa che ha parlato di Ruby con Mubarak: "Hosni non ricordava di avere una nipote in Italia". Il testimone è uno: l'interprete italo-arabo a contratto alla Farnesina. Berlusconi dovrebbe avvertire l'imbarazzo di aver ospitato e pagato minorenni e prostitute per allietare le sue serate


di GIUSEPPE D'AVANZO

Parola di Gran Bugiardo Quattro bugie per sottrarsi ai giudici
Al Gran Bugiardo, che ieri ha afflitto il Paese con un terzo videomessaggio, si deve ricordare che la verità è una condizione necessaria in una democrazia. Nutre la fiducia del cittadino nello Stato e ha un presupposto nella convinzione che lo Stato  -  e chi momentaneamente lo rappresenta  -  non ingannerà il cittadino. La verità è anche il presupposto indispensabile per il cittadino di esercitare la sua libertà perché se falsifichi la realtà, manipoli gli eventi, allevi imbrogli e confusione, alteri il bianco nel nero, pregiudichi il possibile esercizio della libertà.

È un forte argomento anti-tiranny - ricorda Michele Taruffo (La semplice verità) - che le azioni illegittime compiute da chi esercita il potere debbano poter essere rivelate e afferrate, ma "ciò implica che informazioni veritiere siano disponibili per le potenziali vittime del tiranno". Solo in questo modo, il cittadino potrà controllare le modalità con cui il potere viene esercitato. Con il tempo abbiamo compreso che la politica di Silvio Berlusconi è soprattutto arma psicologica e l'unico antidoto all'illusionismo del Gran Bugiardo è un'adeguata sintassi. Consente quanto meno di distinguere i discorsi verificabili dal nonsense. Permette di proteggersi dai media che ci addestrano a non pensare. Le parole, i falsi argomenti, i finti discorsi, le finte idee, i gerghi sgrammaticati dell'uomo che ci governa vanno mostrati nella loro inattendibilità per ripristinare quella verità che è premessa della nostra libertà.

Se si lasciano in un canto le favole sui successi di un governo, al contrario, paralizzato dagli interessi personali del premier, si contano altre quattro bugie in questo nuovo videomessaggio.

1. Berlusconi dice: "È stato violato il mio domicilio".
È falso. Nessuna residenza del capo del governo è stata oltraggiata. Vediamo come stanno le cose. Si indaga per prostituzione perché in un giorno di luglio Ruby, una minorenne protetta da Lele Mora e "scoperta" sedicenne da Emilio Fede a Messina, è stata condotta nella villa del presidente del Consiglio. Dove, dice, ha assistito a spettacoli e "scene hard" - anche se non vi ha partecipato, giura - alla presenza del "presidente" che tutte le ospiti (venticinque) chiamano "papi". Lo sfruttamento della prostituzione minorile è un reato gravissimo. A Milano si mettono al lavoro. Prioritario accertare l'attendibilità della testimone e parte lesa: è stata davvero ad Arcore, come dice. C'è stata con Mora, Fede, Nicole Minetti? È vero che, in quelle occasioni, c'erano A. B. C.? C'è un metodo per venirne a capo. Si verifica a quale "cella" fosse connesso, in quel giorno, il telefono cellulare dei protagonisti. Si scopre che Ruby ha detto il vero. Il 14 febbraio 2010 era ad Arcore e c'erano anche A. B. C. e Fede. Quest'operazione viola il domicilio del capo del governo? No. Accerta la validità delle dichiarazioni di Ruby e non c'è altro modo per farlo. Quando salta fuori che tra molte inesattezze la minorenne ha raccontato anche il vero, sono stati chiesti i tabulati delle sue telefonate dal gennaio 2010 e delle ragazze - alcune prostitute - che l'hanno accompagnata e periodicamente vengono condotte da Mora, Fede e Minetti nella dimora del Sultano. Berlusconi dovrebbe avvertire l'imbarazzo di aver ospitato e pagato minorenni e prostitute per allietare le sue serate (è documentato e ci sono le prove di quei pagamenti). Dovrebbe provare vergogna per avere indecorosamente condotto la sua responsabilità pubblica condividendo addirittura una donna (Marysthell Polanco) con un narcotrafficante dominicano.

2. Berlusconi dice: "Non è un Paese libero quello in cui quando si alza il telefono non si è sicuri della inviolabilità delle proprie conversazioni. Non è un Paese libero quello in cui il cittadino può trovare sui giornali delle proprie conversazioni che fanno parte del proprio privato e che non hanno nessun  contenuto penalmente rilevante".
Berlusconi inocula fobie nel proprio esclusivo interesse. L'indagine che lo vede indagato per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile non fa leva, come strepitano gli sgherri libellisti del suo serraglio, sulle intercettazioni telefoniche. È un'inchiesta condotta con testimonianze dirette e documenti. La concussione è dimostrata per tabulas senza alcun documento acustico. I funzionari della questura ammettono di aver ricevuto la sua telefonata. Confermano che il premier ha parlato di Ruby come della "nipote di Hosni Mubarak". I materiali del pubblico ministero dei minori e le relazioni di servizio dei poliziotti confermano le procedure abusive che hanno portato all'affidamento di Ruby a Nicole Minetti che subito abbandona la minorenne a una putain brasiliana, amica del presidente. Dove sono qui le intercettazioni? È il reato più grave e non se ne vede l'ombra. Berlusconi mente. Qualche numero delle intercettazioni di quest'inchiesta, allora. Dal 29 luglio a questo gennaio e non per tutto il periodo, ma quando le indagini lo rendono necessario, quindi anche a volta due soli giorni, sono state intercettate cinquanta persone per una spesa di quasi 27mila euro. Con il bestiario che circonda il presidente (si valuta che nelle ville e palazzi dell'uomo che ci governa circolino in un anno dalle 300 alle 500 falene) non sono grandi numeri. Le intercettazioni sono servite a dimostrare quale fosse il mestiere delle signore. Si indaga per prostituzione e alcune sono effettivamente delle prostitute che il premier ha retribuito e gli amici del presidente sono coloro che inducono alla prostituzione. È falso che siano state diffuse conversazioni private di nessun interesse giudiziario o pubblico. È di assoluto interesse pubblico (la verità è presupposto essenziale della democrazia e della libertà del cittadino) sapere che una decina di ragazze ricattano il premier o pretendono dal premier incarichi e responsabilità pubbliche. Possono dirsi "privati" questi dialoghi?

3. Berlusconi dice: "Non ho alcun timore di farmi giudicare. Davanti ai magistrati non sono mai fuggito: i mille magistrati che si sono occupati ossessivamente di me e della mia vita non hanno trovato uno straccio di prova che abbia retto all'esame dei tribunali".
È una menzogna stupefacente che non sia mai fuggito dai magistrati. Il Gran Bugiardo non ha fatto altro che scappare dalle responsabilità di un'avventura umana e imprenditoriale che ha avuto nell'illegalità il suo canone. Nonostante le leggi che si è affatturato per eliminare i reati, cancellare le prove, ridurre i tempi dei processi, allontanare i giudici che non gli piacevano, è stato assolto nei sedici processi che lo hanno visto imputato soltanto in tre occasioni. Altro che nessuno straccio di prova.

4. Berlusconi dice: "Io ho diritto di presentarmi di fronte al mio giudice naturale, che non è la procura di Milano, ma il giudice assegnatomi dalla Costituzione cioè il Tribunale dei ministri. Mi presenterò appena sarà stata ristabilita una situazione di correttezza giudiziaria".
Il Gran Bugiardo sa di mentire anche in questo caso. Sostiene che sempre, in ogni caso, un uomo come lui "unto dal Signore" e al governo del Paese debba essere giudicato dal tribunale dei ministri, qualsiasi cosa faccia. Non è così. L'art. 96 della Costituzione comprende nella categoria dei "reati ministeriali quelli commessi "nell'esercizio delle funzioni". La Carta non prevede singole fattispecie. Individua una circostanza: la connessione tra il reato e le funzioni esercitate dal ministro. Ora la concussione è un abuso. È di "potere" se chi lo pratica fa leva sulle "potestà funzionali per uno scopo diverso da quello per il quale sia stato investito". Per capire, sarebbe stata una concussione di potere se a telefonare in questura a Milano "consigliando" la liberazione di Ruby fosse stato il ministro dell'Interno. Ma l'abuso può essere anche di "qualità". In questo caso "postula una condotta che, indipendentemente dalla competenze del soggetto (il concussore), si manifesta come una strumentalizzazione della posizione di preminenza ricoperta". È il caso di Berlusconi. Abuso di potere o abuso di qualità presuppongono due competenze diverse. L'abuso di potere di un ministro impone la competenza del tribunale dei ministri. L'abuso di qualità prescrive la competenza del territorio dove è stato commesso il reato.
Finalmente, dopo molti passi falsi, questa differenza l'ha compresa anche Berlusconi. Che per evitare il suo giudice naturale, è in queste ore alle prese con un'altra manipolazione delle prove dopo aver già condizionato le testimonianze delle sue ospiti raccolte durante le indagini difensive, dopo aver (per quanto dice Ruby) promesso cinque milioni di euro per farle tenere la bocca chiusa ed evitargli guai assai seri.

Per sostenere che è intervenuto sul capo di gabinetto della questura di Milano non nella sua "qualità" di capo del governo, ma nelle sue "funzioni" di presidente del Consiglio, deve suggerire che quella notte del 27 maggio non aveva altra preoccupazione che evitare una crisi diplomatica con Hosni Mubarak convinto che Ruby ne fosse la nipote. Per la bisogna, il Gran Bugiardo s'inventa allora che qualche giorno prima ne aveva addirittura parlato con Mubarak (peccato, che lo ricordi soltanto ora). "Per 15 minuti, gli ho chiesto di Ruby, ma Hosni non ricordava di avere una nipote in Italia" dice Pinocchio e annuncia che ci sono anche i testimoni. Il testimone è uno. È R. A, l'interprete italo-arabo a contratto alla Farnesina. Sul capo di quel poverino chi lo sa che cosa si sarà scatenato in queste ore.
 

(29 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/29/news/parola_di_gran_bugiardo-11795808/?ref=HRER3-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il vestito nuovo del mentitore
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:08:05 pm
Il vestito nuovo del mentitore

di GIUSEPPE D'AVANZO

SE si possono chiamare le cose col loro nome, si deve dire che il mondo del Cavaliere lo si rintraccia in un paio di righe di Una sporca storia di Eric Ambler. In quel libro c'è un personaggio - Arthur Abdel Simpson - che ricorda i consigli che da bambino ha ricevuto dal padre: "Uno dei suoi primi insegnamenti fu: mai dire una bugia se puoi cavartela a forza di stronzate".

Le cose devono essere andate più o meno così tra Berlusconi e Giuliano Ferrara, il consigliere più ascoltato (oggi e prima che gli impulsi aggressivi del capo del governo riattizzino il suo permanente conflitto con la democrazia). Dunque, denudato da una scena che lo scopre, frastornato, in preda a una disperatissima compulsività sessuale nelle mani di un ingordo serraglio di zambraccole e ruffiani, ricattabile, incapace di assolvere a suoi doveri pubblici, indifferente a ogni responsabilità e decoro istituzionali, il Sultano si avvoltola nelle bugie fino a strozzarsi, sgomento per quel che si può sapere della sua malinconica vita o addirittura mostrare per immagini. Per giorni mente a gola piena. Ruby? So chi è, l'ho vista soltanto un paio di volte. No, non mi disse che era minorenne. No, non ho mai pagato per una donna. Perché avrei dovuto, ho una relazione stabile, ho una fidanzata, io. Sì, è vero, aiuto molte giovani donne perché sono generoso e non chiedo mai nulla in cambio. Non sono mai fuggito dai magistrati, mai, mai, mai, mai.

Il direttore de Il Foglio non fa altro che ricordare al Re tragicamente nudo il precetto di Simpson. Per quale diavolo di motivo menti, presidente? Non lo vedi che ti incastrano e affondi. Sparala grossa, più grossa che puoi. Sarai salvo perché le menzogne hanno il difetto di essere false, le stronzate hanno il vantaggio di essere finte: non sono altro che una copia, una copia esatta, più o meno riuscita, di una cosa vera. La tua "rivoluzione liberale" nel 1994 forse era una cosa vera ed è fallita, spara grosso e dì che tu, il Monopolista, ricominci daccapo perché è ora la vera "rivoluzione liberale". Inventati qualcosa. Una cosa qualsiasi. Bullshit? Vanno benissimo. Per esempio, maggiore crescita "alla tedesca" del 4 per cento grazie alle riforma dell'articolo 41 della Costituzione (libertà d'impresa) anche se la riforma costituzionale non si farà mai e quel tasso di sviluppo non lo vediamo da decenni e tra le due cose dio solo sa quale relazione ci sia. Fiscalità di vantaggio per il Sud, va bene anche se non c'è un euro e Tremonti non aprirà mai i cordoni della borsa. Anche il "Piano casa" va bene. Chi ricorderà che è la terza o quarta volta che lo annunci e finora tra i pochi a usufruirne sei stato solo tu con i bungalow di Villa Certosa.

Dì queste "stronzate" con il tono maestoso dello Statista. Evoca il ritorno della Politica con la p maiuscola. Celebra il protagonismo del governo, e il gioco è fatto. Queste massime solenni ti proteggeranno dai magistrati di Milano che diventeranno, nella propaganda, gli aggressori che ti disturbano mentre ti sei dato carico del destino dell'Italia. Il "rilancio programmatico" restituirà il Paese a quel torpore mentale dal quale le notizie scioccanti di Villa San Martino rischiavano di scuoterlo. Attiva tutte le complicità omertose che proteggono la tua bancarotta politica. Rimetti in moto l'industria del falso (I Minzolini, per tutti). Manda in televisione le solite maschere salmodianti perché decidere di che cosa si discute offre la risolutiva opportunità di definire di che cosa non si discute e tu, presidente, non sei in grado affrontare le tue responsabilità. Della tua irresponsabilità, della tua incapacità assoluta ad affrontare la verità non si deve discutere.

Nell'infelice Paese che è l'Italia questa degradazione della realtà è chiamata politica come se la politica non fosse altro che manipolazione persuasiva, sacco vuoto, discorso privo di contenuti. "Stronzata" insomma, utile non a governare i destini, le relazioni e gli interessi degli uomini, ma a scrivere le priorità dei telegiornali della sera.
Va detto che c'è in giro una soddisfazione per il "costruttivo clima politico" che fa cadere le braccia. Soddisfatti di che cosa? Di questa goffa e comica stangata? Si dovrebbe, al contrario, essere inquietati quando un pensiero ideologico si emancipa così clamorosamente dall'esperienza reale fino a rendersi impermeabile nei confronti di ciò che davvero accade. In questa separazione del pensiero dalla realtà c'è un punto critico che è tutto politico. Chi ha in custodia le istituzioni dovrebbe tenerne conto perché la credibilità delle istituzioni si difende anche tutelando quella verità che è la condizione necessaria della fiducia del cittadino per lo Stato. E' la verità  -  e la responsabilità di affrontarla in pubblico  -  che rende adeguato il processo deliberativo che sta alla base di una democrazia. A chi ha a cuore la democrazia non può sfuggire che menzogne e "bullshit" sottraggono a gran parte degli individui la capacità di giudicare liberamente gli affari pubblici; demoliscono ogni spirito critico; confondono, distraggono, rendono indifferenti il cittadino, lo trasformano in "spettatore di ogni cosa e testimoni di nulla".

In questo vuoto di verità precipitano anche le istituzioni. Menzogna e "bullshit" ne divorano la credibilità, l'affidabilità, la reputazione. E non parlo degli uomini. Ministri come Franco Frattini e Angelino Alfano l'hanno persa da tempo: da quando il primo, ministro degli Esteri, va ai Caraibi per trovare documenti che screditano un avversario politico o quando il secondo, Guardasigilli, si riunisce con gli avvocati di un imputato (Berlusconi), elabora tattiche per annichilire un processo, organizza il voto del Parlamento per impedire che la magistratura faccia il suo lavoro. Parlo delle istituzioni e dello spettacolo avvilente offerto dalla Camera dei deputati.
Montecitorio deve decidere se autorizzare o meno la perquisizione dell'ufficio dove lavora il ragiunatt che dispensa, per conto del Sultano, migliaia di euro alle falene notturne di Arcore. Indagato per aver fatto pressioni su funzionari della questura e liberato indebitamente una prostituta minorenne accusata di furto (è concussione), Berlusconi dice: in quelle stanze c'è la mia segreteria politica. L'ingresso degli investigatori va allora autorizzato dalla Camera. L'accesso può essere negato soltanto se il Parlamento scorge un fumus persecutionis. Non lo avvista. Vede altro. Vede addirittura, nell'illegittima pressione, l'esercizio di una funzione del capo di governo. E' umiliante anche discuterne. Berlusconi, sostengono i caudatari nominati in parlamento, è intervenuto per evitare una crisi internazionale con l'Egitto, la notte del 27 maggio. Davvero credeva che quella prostituta minorenne, con cui si era intrattenuto fino al 2 maggio, fosse "la nipote di Mubarak". Il suo intervento è stato dunque funzionale e la competenza non è della Procura di Milano, ma del Tribunale dei ministri, dicono azzeccagarbugli e reggicoda. La Camera approva. Lasciamo cadere i dettagli tecnici e l'illegalismo (la funzione di governo non può essere soggettivamente interpretata e spetta a un giudice - non al Parlamento - decidere della competenza). Lasciamo perdere le parole, gli eventi e i documenti che smascherano il racconto del Gran Bugiardo.

Andiamo alle macerie. Con una menzogna che fa piangere l'Italia e ridere il mondo, un Parlamento servile, senza libertà e onore, si sottomette alla necessità del Sultano e ci chiede di credere a una menzogna manifesta, a un falso indiscutibile (Berlusconi pensava che Ruby fosse nipote di Mubarak). In questo atto di violenza, c'è molta politica, altro che le "stronzate" del "ritorno alla Politica". L'offensiva affannosa di Berlusconi vuole cancellare ogni distinzione tra la verità e la menzogna, tra la realtà e la "giustezza" politica. Pretende di abituarci a questa confusione inducendoci a credere che nulla sia vero se non certificato dal Potere (anche quando lo si sa palesemente falso).

Dopo la campagna di "bullshit" e il voto della Camera, quel che si vede in gioco è la pretesa di una sterilizzazione mentale, morale e politica dell'Italia e non solo un processo per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile. Alla prima bisogna reagire chiedendo il rispetto di quel processo, reclamando che Berlusconi  -  come gli ha chiesto anche il capo dello Stato  -  si presenti dinanzi ai suoi giudici e si lasci giudicare. 

(04 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/04/news


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Così il Cavaliere vuole sfuggire alle sue responsabilità.
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2011, 05:07:29 pm
L'ANALISI

Berlusconi e la fuga dal processo per illudere l'opinione pubblica

Così il Cavaliere vuole sfuggire alle sue responsabilità.

Il premier non propone narrazioni plausibili, all'attendibilità documentata preferisce il non-sense

di GIUSEPPE D'AVANZO


CI SONO i fatti e gli aspetti giuridici della controversia e poi, se in stato d'accusa è il capo del governo, è normale che ci siano la contesa politica, il discorso pubblico e il conflitto istituzionale. Ora per mettere un po' di ordine all'affaire e capirci qualcosa, senza essere inghiottiti dal maelstrom di fili che si ingarbugliano nel "caso Ruby", è utile separare i fatti dal diritto, il diritto dalla politica e la politica da un immaginato e molto presunto Zeitgeist, lo "spirito del tempo". I fatti si fa presto a riordinarli. La notte del 27 maggio 2010, Karima El Mahroug (Ruby), una minorenne marocchina, fuggita da una comunità di accoglienza, senza famiglia, senza fissa dimora, senza una fonte di reddito, è accusata di furto e accompagnata in questura. In quegli uffici a notte fonda giunge la voce del presidente del Consiglio che chiede al capo di gabinetto di lasciarla andare - e presto - perché la fanciulla è la "nipote di Mubarak". Si presenterà lì da voi, dice Silvio Berlusconi, una mia "incaricata" (Nicole Minetti) cui potrà essere affidata. Così avviene. Qualche ora dopo, indebitamente e contro le indicazioni del pubblico ministero dei minori, Ruby sarà consegnata alla Minetti che l'abbandonerà sul marciapiede di via Fatebenefratelli in compagnia di una prostituta brasiliana (Michelle). Di quel che accade la notte del 27 maggio non si sarebbe saputo nulla se, più o meno una settimana dopo (5 giugno), Ruby e Michelle non se le dessero di santa ragione tra strepiti e minacce. Arriva la polizia. Tutte ancora dinanzi ai poliziotti, dopo l'intervento dei medici.

È a quel punto che Ruby comincia a raccontare momenti e condizioni che configurano una notizia di reato. È stupefacente come ancora oggi ci siano uomini assennati, come Ernesto Galli della Loggia, che si chiedano, sospettosi, "qual era la notitia criminis che prima della famosa notte in questura ha indotto a mettere sotto controllo la villa di Arcore" (Corriere della sera). "Prima della famosa notte in questura" non c'è stato alcun controllo né ad Arcore né altrove. I controlli sono cominciati soltanto dopo che il racconto della minorenne ha ottenuto qualche riscontro accettabile. Ruby parla della "squadra" di Lele Mora (il suo agente); delle iniziative di Emilio Fede (il talent scout che la scopre a un concorso di bellezza, sedicenne); del "lavoro" della Minetti (maitresse); delle sue visite a Villa San Martino dove ha assistito unica vestita  -  "solo io lo ero", dice  -  alle cerimonie orgiastiche organizzate da e per Silvio Berlusconi.

Sono notizie di reato. C'è un'organizzazione (Mora, Fede, Minetti) che ingaggia prostitute e le offre al capo del governo e fin qui per l'"Utilizzatore" non c'è reato (anche se molto c'è da osservare sul decoro, la disciplina, l'affidabilità, la sicurezza dell'uomo che ci governa). Se però tra le prostitute c'è anche una minorenne, il reato c'è ed è anche molto grave soprattutto quando, per occultarlo, il presidente del Consiglio abusa del suo potere e induce i funzionari della Questura a lasciar andare libera quella ragazza che avrebbe potuto demolirlo con i suoi ricordi. Il pubblico ministero di Milano ritiene di aver raccolto prove così "evidenti" da rendere superflua l'udienza preliminare e necessario un giudizio immediato (lo chiede ora al giudice). L'accusa deve dimostrare che Silvio Berlusconi abusa della sua qualità di presidente del Consiglio per ottenere la liberazione di Ruby (è concussione). Ci riesce in modo documentale. L'intervento del capo del governo produce un'agitazione indiavolata nei funzionari di polizia (ecco il numero ossessivo di telefonate, 24); decisioni oblique (ecco che cosa ha ordinato il pubblico ministero dei minori, inascoltato e contraddetto); comportamenti indebiti (ecco comprovato come i genitori di Ruby  -  hanno la patria potestà  -  furono ascoltati soltanto due ore dopo l'affidamento della minore alla Minetti). Dimostrata la concussione (il reato più grave), il pubblico ministero deve documentare che Berlusconi è stato costretto a intervenire per nascondere alla magistratura e all'attenzione pubblica "il puttanaio" (è la formula scelta da una testimone) che s'organizza in casa a volte anche con Ruby, la minorenne.

Quindi, è vero che Ruby conosce Berlusconi? Sì, dal 14 febbraio al 2 maggio 2010, si contano 67 contatti telefonici tra Ruby e il presidente. Una telefonata al giorno, quasi. È vero che Ruby è stata ad Arcore? Sì, dal 14 febbraio al 2 maggio 2010 Silvio Berlusconi e la teenager si vedono tredici volte. La minorenne dorme sotto il tetto di Villa San Martino con una frequenza di una volta ogni sei giorni in quel periodo È una prova più che solida della loro frequentazione. Ora bisogna chiedersi che cosa faceva la ragazza per vivere, che cosa ha fatto ad Arcore e dimostrare che le serate dal presidente sono licenziose. Quattro testimoni confermano il primo racconto di Ruby: vedono le stesse scene nel sotterraneo del "bunga bunga": è una routine. Decine di documenti acustici (le telefonate) lo convalidano. Per configurare il reato (sfruttamento della prostituzione minorile) bisogna però dare la prova che tra il capo del governo e Ruby ci sia stato o del sesso o qualcosa che gli somigli (anche un "palpeggiamento", per i minori, è "atto sessuale").

Le fonti di prova non mancano. Ruby è vissuta di prostituzione prima di conoscere Berlusconi e di prostituzione è vissuta dopo, come molte giovani donne  -  qualcun'altra ancora minorenne  -  regolarmente invitate alle "serate del presidente". È una prova logica che Ruby ad Arcore si sia prostituita o sia stata "palpeggiata" (tutte lo sono) e per questo sia stata prima ricompensata con ricchezza, poi ancora premiata con la promessa di cinque milioni di euro per tenere la bocca chiusa sui rapporti con il presidente. Un processo non è altro che una storia. O meglio una comparazione di storie. Si combinano notizie sparse, fatti frammentati, segmenti di eventi. Se ne fa una narrazione. In competizione con un'altra raccontata in modo diverso, da un diverso punto di vista, con scopi diversi (dall'accusa, dalla difesa, dai testimoni), chiede di essere privilegiata da un giudice nel processo rispetto alle altre perché più coerente, più documentata, più dotata di senso.

Ora è stravagante (in apparenza) che Silvio Berlusconi non proponga alcuna narrazione plausibile. Preferisce all'attendibilità documentata, il nonsense. Naturalmente parla dell'affaire. Anzi ne straparla con asfissiante logorrea in quei suoi flussi verbali d'impudenza monstre. È vero che la "storia" narrata dalla difesa può legittimamente essere parziale, partigiana, addirittura manipolata e fuorviante, ma anche per la difesa vale la regola che chi afferma che un fatto è vero ha l'onere di dimostrare la verità della sua affermazione. Appena l'altro giorno (4 febbraio), ricevendo a cena i deputati del Gruppo dei Responsabili, Berlusconi ha detto di non aver "mai avuto colloqui diretti con questa Ruby, è solo una ragazza che mi è stata segnalata, nulla di più". Cancellate le prove evidenti del contrario (i contatti telefonici, i soggiorni in villa, le sue stesse ammissioni). Il premier ripete di non aver mai saputo che Ruby fosse minorenne. Ora lasciando cadere le testimonianze che lo contraddicono, perché allora il capo del governo chiede al capo di gabinetto di "affidare" Ruby alla Minetti (si "affidano" i minori, non i maggiorenni)? Perché ostinarsi a ripetere "non ho mai pagato una donna", quando i documenti bancari, le agende delle ragazze, le loro conversazioni dimostrano il contrario: sempre egli paga le donne che ospita e con cui fa sesso? Perché continuare a ripetere che davvero credeva Ruby "nipote di Mubarak"?

Appare chiaro che Berlusconi non ha alcuna intenzione di dimostrare in un processo al giudice la sua innocenza. Il premier sa bene che le testimonianze raccolte per le indagini difensive tra le ragazze che mantiene, i dipendenti che retribuisce e ministri che accoglie nel governo (Frattini, Galan, Bonaiuti)  -  tutti testimoni party-oriented  -  pesano sulla bilancia della giustizia come un fiocco di polvere. Non può ignorare che alcune iniziative possono essere smascherate in un batter di ciglia (dice d'essere in grado di dimostrare che Ruby era maggiorenne quando l'ha incontrata e a Milano corre voce che presto apparirà un passaporto taroccato). Racconta questa storia: sono ricco e generoso, per rilassarmi organizzo di tanto in tanto qualche festa con ragazze che hanno bisogno di aiuti che io non nego e senza chiedere nulla in cambio come è accaduto anche con la "nipote di Mubarak" che non ho toccato neanche con un dito anche perché non l'ho mai incontrata. È fumo negli occhi. È illusionismo. È imbroglio. Berlusconi ha rinunciato già al processo (aveva promesso che lo avrebbe affrontato a viso aperto). I fatti sono per lui inaffrontabili e vuole giocare la partita fuori del processo.

Vediamo come. Egli confida di persuadere l'opinione pubblica con omissioni, favole e qualche trucco sublunare. È la manovra che gli consente di creare un ambiente favorevole a un colpo di mano "politico" che sottragga il processo ai giudici di Milano. E, se non il processo, almeno le fonti di prova: pensa a un decreto d'urgenza per correggere l'uso delle intercettazioni, anche degli "ascolti" che lo mettono nei guai. Non si può dire che sia un tableau à sensation. Lo si è già visto. Berlusconi chiede che sia il potere politico che ha  -  e quindi il governo che presiede; la maggioranza parlamentare che ha nominato o comprato  -  a togliergli le castagne dal fuoco. Pretende che il pubblico ministero di Milano sia dichiarato incompetente (dottrina e giurisprudenza lo negano) per volontà e decisione politica. Invoca il giudizio del Tribunale dei ministri ("sono anche loro togati, no?", dice). Non spiega che, per giudicare, quel Tribunale deve essere autorizzato dal Parlamento: un consenso che sarà sempre negato. La storia, la narrazione dietro cui nascondere le sue responsabilità deve tenersi lontana dai fatti. Lontano dai fatti, il premier può lasciarsi proteggere da un bislacco "avvocato" e da un inatteso "testimone". Il difensore che Silvio Berlusconi si è scelto è il Parlamento che controlla e corrompe.

Lo ha già mosso contro la procura di Milano (nei giorni dell'autorizzazione negata alla perquisizione dell'ufficio del ragiunatt che paga le zambraccole). Ancora lo muoverà facendogli presto sollevare un conflitto di attribuzione e uno scontro totale contro la magistratura e forse contro il capo dello Stato (che già chiede: dov'è l'urgenza per il decreto intercettazioni?). Il testimone chiamato a scagionarlo non è tra gli attori dell'affare penale. È un'opinione pubblica affidata ai tecnici della contraffazione. La litania che salmodiano, questa volta, non ripete troppo la favola della "persecuzione giudiziaria". È una tiritera quasi privata, intimista, intimidatoria. Fa leva sulla mancanza di fiducia in se stessi degli italiani, in una mancanza di orgoglio e di amor proprio del Paese. L'argomento, ripetuto come una filastrocca, è questo: "Chi sono io, chi sei tu per giudicare? Siamo tutti uguali, siamo tutti inclini a fare il male e quanti cercano o fanno finta di essere onesti sono solo dei santi o degli ipocriti, ma in entrambi i casi che ci lascino in pace". Queste domande dovrebbero custodire lo spirito del tempo. È nota la fallacia del concetto di colpa collettiva, di chi sostiene che, se giudicati, tutti risulteremmo colpevoli: fai prevalere il concetto di colpa collettiva e non resterà più nessuno da chiamare per nome. È quel che pretende il Re denudato.

Per fortuna - ci ha spiegato Hannah Arendt (Responsabilità e giudizio) - esiste ancora nella nostra società un'istituzione dove è impossibile sfuggire alle proprie responsabilità, dove ogni giustificazione di carattere astratto e generico - dallo Zeitgeist, alla sessualità, al narcisismo  - crolla. In un'aula di tribunale non vengono giudicati tendenze, culture, antropologie, ma persone in carne e ossa che hanno commesso atti perfettamente umani, ma violando le leggi che riteniamo essenziali per l'integrità del nostro vivere comune (c'è qualcosa di più sacro del corpo dei minori?). I problemi giuridici e morali, è vero, non sono la stessa cosa, ma possiedono comunque una certa affinità, perché "entrambi presuppongono la facoltà del giudizio".

È giustappunto un giudizio, il giudizio che Berlusconi non può permettersi né accordare ad alcuno. È un possibile giudizio che gli italiani dovrebbero consentirsi perché non è vero che nessuno può essere responsabile o possa rispondere degli atti che ha commesso, dei comportamenti che ha tenuto. La possibilità di giudicare appare, nel tempo che ci separa dall'inizio di questo processo, lo "scandalo" che deciderà dei nostri giorni futuri.

(10 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il falso teorema del golpe morale
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:52:47 pm
Il falso teorema del golpe morale

di GIUSEPPE D'AVANZO

Il presidente del Consiglio, settantacinque anni, si tiene accanto in villa - a pagamento - una prostituta minorenne per un paio di mesi, nel 2010. Questo è il fatto, assai ostinato nonostante la nebbia e le censure. Nasce una domanda processuale (Berlusconi ha commesso un reato?) e sortisce qualche effetto politico. Lasciamo in un canto la questione giudiziaria, per il momento.


Elenchiamo qualcuno degli esiti politici sotto forma di domanda.| Quell'uomo, già sorpreso in altri anni in compagnia di minorenni, ha il pieno controllo della sua vita?

Le sue condotte lo hanno reso vulnerabile ai ricatti o minacce della sua ospite, delle sue ospiti?

Quanto la vita caotica di quell'uomo danneggia il Paese che governa?

A quel discredito, domestico e internazionale, può egli stesso porre rimedio?
I suoi comportamenti possono essere, una buona volta, appropriati ai doveri pubblici che liberamente ha voluto assumere?

Come si vede, ognuno di questi interrogativi è concreto, factual perché rinvia all'interesse nazionale e al nostro destino collettivo. Per questa ragione pretende un'assunzione pubblica di responsabilità e reclama con urgenza un giudizio politico, prima che morale e giudiziario.

Se fossimo in un Paese dove il discorso pubblico si nutre di buonafede, disinteresse, civismo, si ritroverebbero (e si affronterebbero) nel perimetro di quelle domande le ragioni della crisi istituzionale che minaccia di precipitare il Paese in una guerra civile o in un ineluttabile declino.

Purtroppo il discorso pubblico nazionale è alimentato soltanto dalla manipolazione, dal falso indiscutibile organizzato a tavolino, da uno spettacolo che conserva la comunità nell'incoscienza dissolvendone ogni senso critico. "Confondere e non convincere" è la regola. Non è altra l'intenzione della manovra chiamata "in mutande ma vivi" lanciata da Giuliano Ferrara, oggi unico canovaccio politico-informativo a disposizione del premier. È il tentativo manifesto di accantonare la questione politica per trasformarla in questione morale. Il trucco offre l'opportunità di mettere su un'artefatta baruffa contro l'"ipocrisia moralistica" che liquida ogni responsabilità e rifiuta ogni giudizio.

Lontano dalle sue responsabilità e protetto da ogni giudizio, il Re Nudo può salvarsi ancora una volta. E il Paese? Che si fotta, il Paese!

Viene in mente Molière, Tartuffe ou l'Imposteur. Il sermone di Giuliano Ferrara contro la "Repubblica delle virtù (il grand guignol va in scena oggi in un teatro di Milano) e dovrebbe, vuole essere - mutande a parte - terribilmente serio ma vi spira soltanto un'aria burlesca tanto lo spettacolo è un'impostura. Se si sfiora la questione da un'angolazione qualsiasi, o se ne vaglia un qualunque argomento o ragione, la ciarlataneria affiora ovunque, con qualche sprazzo comico. Induce al riso Berlusconi disegnato da Andrea Fortina con le fattezze di Giustiniano. È farsesco leggere, nell'intervista pubblicata dal "Foglio", Berlusconi che parla come Ferrara, che è Ferrara, pasticheur in pose da cardinal Mazarino, e mai Berlusconi, animale da preda con un Io ipertrofico. È buffonesca l'autorappresentazione di Berlusconi, degradato a ventriloquo di Ferrara (ma fino a quando?), come campione di "un sistema fondato sulla libertà, sulla tolleranza, su una vera coscienza morale pubblica e privata".

In Italia la memoria ha strepitose paralisi e tuttavia sentire quelle parole e formule - libertà, tolleranza, coscienza pubblica, coscienza privata - arrotarsi tra i denti da lupo del capo del governo fa venire il freddo alle ossa. Quale tolleranza, se ancora oggi ricordiamo gli ordini ai prefetti di prendere le impronte ai bambini nei campi Rom o di ricacciare in mare donne incinte, neonati e migranti in cerca di asilo politico. Quale libertà se nelle biblioteche del Nordest ha libero corso una lista di proscrizione dei libri non graditi e quindi vietati.

Dov'erano i liberali che oggi in pose servili difendono il diritto delle donne a prostituirsi quando il governo chiedeva per i clienti delle prostitute la galera. Dove s'erano appisolati questi quaresimalisti, quando ministri proponevano la tortura per scacciare il fantasma del terrorismo o uomini di governo sollecitavano l'omofobia o la discriminazione per una pelle diversa, una diversa fede, un altro luogo di nascita, fosse anche dentro i confini nazionali, ma troppo a sud. Come quelle bocche possano dire "libertà, tolleranza" quando hanno in animo di decidere per legge dello Stato delle nostra vita e della nostra morte, delle nostre cure mediche e di quanto dolore possiamo sopportare. E, a proposito di vita, di quale dionisiaca vita parlano gli "immutandati" - nicciani d'occasione - se ad ogni piè sospinto, ci ricordano che la vita non è il bene più alto per i mortali perché c'è sempre qualcosa di diverso in gioco nella vita, oltre la procreazione, oltre il sostentamento dell'organismo vivente, magari la salvezza dell'anima in questa vita o nell'aldilà.

Sotto l'aspetto sintattico, direbbe Franco Cordero, la prosa degli "immutandati" "è pastone o brodaglia".
Nel lessico della Crusca, "pappolata"; in piemontese, "supa"". È una schifezza indigeribile che ha il solo pregio di mostrarci in trasparenza come il consenso che chiede Berlusconi sia soltanto obbedienza.

I bambini obbediscono, gli adulti acconsentono, ma a che cosa dovrebbero acconsentire gli adulti "in mutande ma vivi"? Berlusconi non propone loro un'idea, un programma, neppure un sogno.

Offre soltanto se stesso, la sua inadeguatezza, la propria sopravvivenza, la sua impunità. Ci si può sentire davvero "vivi" nell'obbedienza a un capo privo di un pensiero diverso dal suo personale tornaconto?
 

(12 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/12/news/falso_teorema-12358338/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO "Io e il Cavaliere: quella sera gli dissi che ero minorenne"
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 04:42:25 pm
LE CARTE 

"Io e il Cavaliere: quella sera gli dissi che ero minorenne"

Ruby è stata ad Arcore quindici notti in settantasette giorni: la prima volta il 14 febbraio, l'ultima il 2 maggio 2010. Il presidente del consiglio le ha offerto un appartamento nella Dimora Olgettina. In quell'occasione ha rivelato la sua minore età. La preoccupazione del premier di cancellare ogni traccia del suo legame con la minorenne è stata la ragione dell'intervento in questura


di PIERO COLAPRICO E GIUSEPPE D'AVANZO


C'E' un segreto in quest'indagine. È stato ben conservato per sette mesi, custodito come una pepita d'oro. Il segreto è in tre frasi del doppio verbale d'interrogatorio di Ruby, 3 agosto 2010. Sono poche parole, pochi ricordi e risolvono con una determinante testimonianza diretta le tre questioni decisive dell'affaire: Silvio Berlusconi ha mai chiesto a Ruby di fare sesso? Due. Berlusconi sapeva che la ragazza, nella primavera del 2010, non ha ancora compiuto diciotto anni? Tre. Come nasce  -  e da chi  -  la bubbola della "nipote di Mubarak".

Ascoltiamo Ruby. Si deve tornare alla sera del 14 febbraio, giusto un anno fa. È la prima volta, dice Ruby, che incontra il capo del governo. "... Berlusconi mi prese da parte e mi condusse in una stanza dove restammo soli. Mi disse che la mia vita sarebbe cambiata e, anche se non ha mai parlato esplicitamente di rapporti sessuali, non è stato difficile per me capire che mi proponeva di fare sesso con lui". L'uomo ha 74 anni. È solo nella stanza con la ragazza. Ruby non dice di essere stata toccata. Ruby ricorda soltanto le promesse di quell'uomo immensamente ricco: "La mia vita sarebbe cambiata...". Perché non avrebbe dovuto crederci? Finalmente, pensa la ragazza.

È scappata di casa per inseguire il sogno di un'altra vita e la pazza, disperata convinzione di sconfiggere il destino già scritto in Italia per una marocchina figlia di un venditore ambulante. È fuggita da una, due comunità. Ha ballato
la danza del ventre, qui e là. È diventata cubista in disco pub lungo i viali che portano in periferia. Si è prostituita. Ha rubato. Ha creduto nelle parole di Emilio Fede che l'ha ammirata in un concorso di bellezza e convinta al viaggio verso Milano. Non ha alcun dubbio che "Emilio" l'aiuterà. Non è stato già un aiuto averla indicata a Lele Mora che l'ha accettata nella sua squadra? Non gli deve un grazie ora che, nel giorno di San Valentino, l'ha condotta ad Arcore?

Quando, la notte del 14 febbraio, Ruby entra in quella stanza da sola con il presidente del Consiglio ("un ufficio", ricorda lei), il cielo è a portata di mano, ogni pena è finita, il passato sta per essere cancellato. L'uomo di 74 anni, quella notte, non promette soltanto. Dimostra di voler fare sul serio, davvero avrebbe fatto la fortuna di quella ragazza. Ascoltiamo Ruby: "Berlusconi mi consegnò una busta con 50mila euro..." e la ragazza non aveva mai visto tanti soldi e tutti insieme.

I ricordi di Ruby sono decisivi per il processo (e anche per un giudizio extraprocessuale, politico). Fin dalla prima volta che l'incontra dunque, Berlusconi chiede a Ruby sesso, parla di sesso e nient'altro che di sesso. Si dice disponibile a pagare. Molto, tantissimo.

Quante volte l'uomo di 74 anni e la minorenne s'incontrano? Il 3 agosto 2010, la ragazza racconta ai pubblici ministeri la sua versione dei fatti: in larga parte sincera, ma con qualche omissione, qualche fanfaronata, qualche parola di troppo o di troppo poco. I pubblici ministeri "tracciano" il suo telefono e scoprono che Ruby non è stata ad Arcore tre volte, come dice, "per una cena", o "per una notte". È stata a Villa San Martino ininterrottamente dal 24 al 26 aprile 2010, per dire. Silvio Berlusconi, quel giorno, è stato alla Scala con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e si è detto "radioso". Poi raggiunge Vladimir Putin e l'accompagna ad Arcore. Il giorno dopo, conferenza stampa a Villa Gernetto, ma ritorno a Villa San Martino. Ad Arcore chi c'era? Ancora la giovane ed entusiasta Ruby, la quale "notte e giorno era presente", come hanno stabilito i tecnici che analizzano il traffico telefonico per conto della Procura. C'era anche a Pasqua e Pasquetta, c'era il Primo Maggio, quattro settimane prima di quella notte in cui, accusata di furto da un'amica ballerina, finisce in questura, in via Fatebenefratelli: è la notte in cui Silvio Berlusconi telefona, spiegando che avevano a che fare non con una "scappata di casa", ma con la "nipote di Mubarak".

Tra il 14 febbraio e il due di maggio, Ruby è ad Arcore il 14 (domenica), il 20 (sabato), il 21 (domenica), il 27 (sabato), il 28 (domenica) febbraio 2010. E ancora, il 9 (martedì) marzo 2010 ; il 4 (domenica), il 5 (lunedì), il 24 (sabato), 25 (domenica - Festa della Liberazione), 26 (lunedì) aprile 2010. A maggio, il 1 maggio (sabato - Festa del lavoro) e il due (domenica). Quindici notti. In settantasette giorni, si contano sessantasette contatti telefonici. Quasi uno al giorno.

La costante frequentazione nella primavera non scioglie l'altro decisivo quesito processuale: Berlusconi sapeva degli anni di Ruby? Era consapevole della sua minore età?

Ancora una volta ascoltiamo la novità di Ruby: "Fino a quel momento, la sera del 14 febbraio, Berlusconi sa che ho 24 anni. La volta successiva, mi ricordo era in marzo, l'autista di Emilio Fede viene a prendermi in via Settala, dove abitavo allora. Torno ad Arcore e là, parlando con le altre ragazze invitate, vengo a sapere che chi stava con lui, con Silvio, poteva avere la casa gratis. Alcune ragazze mi dissero di avere avuto a Milano 2 un appartamento con cinque anni di affitto pagati". Parliamo della Dimora Olgettina, dove vivono Marysthell, Barbara, Iris, Imma e le altre. Ruby conosce quelle vite. Sa come possono essere comode e lussuose.

Fermiamoci un attimo: una casa, a Milano 2, gratis, per cinque anni. Per Ruby è più di un sogno, è una vittoria contro il destino di una "scappata da casa", da Letojanni provincia di Messina. La proposta non è il primo passo verso il successo. È il successo, il primo di un rosario di successi. Ruby pende dalle labbra di Berlusconi, che fa la sua mossa. Quella sera le parla della possibilità di una sistemazione. Di un appartamento lì all'Olgettina. Finalmente da sola, finalmente autonoma, in un appartamento tutto suo. Ruby è incredula davanti a tanta fortuna. Sa che la casa dimostra che è entrata nel "cerchio stretto" delle favorite del Sultano. C'è un solo pensiero che disturba quella felicità. Ora lo ricorda ai pubblici ministeri che la interrogano: "A Berlusconi avevo detto falsamente di avere ventiquattro anni e di essere egiziana. Quando mi propone di intestarmi quella casa, dovevo dirgli come stavano le cose. Non potevo più mentire. Gli dissi la verità: ero minorenne ed ero senza documenti". Berlusconi non fa una piega, a quanto pare. Non si stupisce. E lancia l'idea che ora lo danna come imputato di concussione. Le suggerisce: "Dirai a tutti che sei la nipote di Mubarak così potrai giustificare le risorse che ti metterò a disposizione". È allora il Cavaliere a inventarsi la fanfaluca che, con impudenza, evoca oggi in Parlamento per salvarsi dal processo milanese.

Siamo ad agosto e pubblici ministeri più avventurosi avrebbero cominciato ad indagare il presidente del Consiglio. Alla Procura di Milano, al contrario, appare urgente rintracciare conferme al racconto della minorenne prima di muovere verso Silvio Berlusconi. Ruby mente? E in che cosa mente?

Le indagini in via preliminare hanno da accertare se davvero Ruby conosce il Cavaliere; se davvero è stata ad Arcore con lui; se davvero le ragazze che dice di aver incontrato a Villa San Martino frequentano abitualmente le feste e le cene del premier; se davvero esiste un "qualcosa" chiamato bunga bunga, sino a quel momento, un assoluto inedito. Ognuno di questi passaggi trova più di un riscontro nei documenti acustici raccolti e anche in testimonianze dirette: tre ragazze - M. T., amica di Nicole Minetti, Maria Magdoum e la giovane Natascia, amica di Aris Espinoza, una delle più assidue frequentatrici a pagamento del premier - descrivono alla stessa maniera la cerimonia erotica, la sala sotterranea, le scene, i balletti, il premier che tocca, le ragazze che ballano sempre più scollacciate davanti a lui. È quello che Ruby chiama nell'interrogatorio "il rito dell'harem".

Il quadro indiziario s'è fatto a questo punto più preciso, addirittura nel dettaglio. Il 6 ottobre, i pubblici ministeri afferrano la prova evidente che li convincerà di essere sulla buona strada: Ruby viene interrogata da un emissario di Berlusconi, alla presenza di Lele Mora e di un avvocato, che le chiedono di ripetere quel che ha raccontato un paio di mesi prima in procura. Vogliono sapere tutto, anche quello che Ruby preferirebbe tacere. "Le scene hard con il pr...", come riferisce al telefono, Luca Risso, l'attuale fidanzato di Ruby. Si può qui lasciar perdere quel che appare chiaro ai pubblici ministeri. Berlusconi sa delle indagini, sta tentando di mettere riparo alla catastrofe che lo minaccia e i detective devono affrettarsi per evitare l'inquinamento di prove e testimonianze. Qui interessa dire altro. La preoccupazione del premier di cancellare ogni traccia del suo legame con la minorenne è stata anche la ragione del suo malaccorto intervento, la notte del 27 maggio, alle 23.45, sul capo di gabinetto della questura milanese. È l'episodio chiave della partita giuridica.

Lo affronta il giudice delle indagini preliminari Cristina Di Censo. Deve decidere se Milano è competente e se la procura ha raccolto prove così evidenti da rendere inutile l'udienza preliminare e legittimo un processo con rito immediato. La telefonata in questura risolve il caso. Berlusconi non chiama nelle sue funzioni di presidente del Consiglio, perché il capo del governo non è funzionalmente sovra-ordinato al capo di gabinetto di una questura, come lo sarebbe il ministro dell'Interno. Il Cavaliere mette sul tavolo, quella notte, la sua qualità di pubblico ufficiale; la sua influenza e non la sua funzione; il suo peso e la sua forza e non i suoi compiti istituzionali.

Questa differenza "radica", come si dice, la competenza nella procura territoriale e non presso il tribunale dei ministri, come sarebbe avvenuto se avesse speso la sua funzione. La "balla della nipote di Mubarak", come dice il questore dell'epoca, non cambia di una virgola la prospettiva. Come nulla cambia che gli atti sessuali con una prostituta minorenne siano stati compiuti ad Arcore, perché il reato più grave  -  la concussione  -  "attrae" come una calamita il reato minore, in questo caso la frequentazione con la diciassettenne Ruby in "un contesto" sessualmente molto equivoco, che però ha dei punti fermi. Il giudice li elenca in quindici pagine di "fatti storici" e accertati, o detto in altro modo, di prove evidenti. Da quei verbali di Ruby se n'è fatta di strada e solo a dicembre (21) Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati. Quel che sa, quel che ha fatto, prima e dopo il 27 maggio è sufficientemente dimostrato. Intorno a lui Lele Mora, Emilio Fede e la consigliere regionale Minetti organizzano a Milano un vivamaria di ragazze, e per dirla con Nicole ci sono "zoccole" e "ragazze venute dalle favelas" e "zingare". Qui interessano le "zoccole" perché sono loro ad annunciare il reato. Per Lele, Emilio e Nicole, perché il capo del governo è soltanto l'"utilizzatore finale", e sin qui estraneo a ogni contestazione penale. È la "zoccola" minorenne che mette nei guai il presidente del Consiglio. O meglio, se ha ragione Ruby, il capo del governo si mette nei guai da solo. È vero, il 14 febbraio pensa che Ruby abbia 24 anni e le promette mari e monti.

Sconveniente forse per chi ha liberamente scelto di assumere responsabilità pubbliche e dovrebbe per precetto costituzionale svolgere i suoi doveri con dignità e onore, ma in ogni caso non un reato. Il pasticciaccio che rovina Berlusconi si consuma a marzo, quando vuole consegnare un appartamento alla ragazza. In quell'occasione, la ragazza gli racconta la verità e dunque Berlusconi conosce la realtà dell'anagrafe, ma non si arresta. Vuole Ruby accanto a sé e la consapevolezza della minore età della ragazza non ferma il suo desiderio. Ruby ne è così consapevole che si vanta del capriccio che sollecita in quell'uomo di 74 anni: "Quell'altra, Noemi, è la pupilla, io sono il culo". Il Cavaliere sembra trovare le ragioni della prudenza soltanto dopo l'agitata notte del 27 maggio.
Non vedrà mai più, per quel che se ne sa oggi, Ruby. Si sentiranno soltanto al telefono. E Ruby mette a verbale l'ultima frase di Silvio Berlusconi: "Ci potremo rivedere una volta che hai compiuto la maggiore età". 

(16 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da repubblica.it/politica


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il fuorilegge istituzionale
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2011, 12:35:46 pm
IL COMMENTO

Il fuorilegge istituzionale

di GIUSEPPE D'AVANZO


QUEL che conta per Silvio Berlusconi è scegliersi i giudici per levarsi di torno la disgrazia di Milano. Lo reclama.
Se si vuole, la notizia è questa: nella civile Europa  -  e non nel Maghreb  -  c'è un capo di governo che pretende di poter decidere da solo l'identità del pubblico ministero e del giudice, il luogo del suo processo e infine scrutinare anche la sentenza. Ritiene di poterlo fare abusando del suo potere politico e agitando tre formule magiche e definitive: "competenza del giudice", "procedibilità del processo", "sospensione del giudizio". Il Sovrano, chiuso nella sua Villa, circondato dai suoi avvocati, decide d'imperio contro la legge e la Costituzione che quelle decisioni siano appannaggio del Parlamento, e quindi della maggioranza che controlla o paga.

Era scritto che Berlusconi si muovesse lungo la strada di un illegalismo istituzionale.
"Sarà l'intervento del Parlamento che toglierà il caso alla procura di Milano". Il presidente del Consiglio lo dice il 18 gennaio, martedì. A Villa San Martino riunisce il "tavolo di crisi", avvocati, consiglieri, consigliori, qualche ministro, a quanto pare. Lettura collettiva delle 389 pagine dell'invito a comparire della procura di Milano. Sconforto anche per i chierici dallo stomaco forte: è vero, concludono, in quelle carte ci sono "prove evidenti" dei due reati (concussione, prostituzione minorile) che vengono contestati al capo del governo. Appare subito chiaro (Repubblica, 26 gennaio) che la difesa di Berlusconi non sarà "tecnica" e soprattutto non avverrà in tribunale. Quel processo può essere vinto a Roma e la "linea del Piave" sarà il Parlamento. Sarà il potere politico a dover fermare i passi della magistratura e a scongiurare ogni accertamento di responsabilità. Abituato a usare le Camere come bottega sua, Berlusconi ordina agli avvocati che vi ha nominato di "togliere alla procura di Milano il caso". Il giorno dopo, 19 gennaio mercoledì, si fa beffe dell'appello di Napolitano a "fare chiarezza perché il Paese è turbato" e squaderna il canovaccio: "I fatti che mi sono contestati sono stati commessi nella qualità di presidente del Consiglio, la procura avrebbe dovuto trasmettere tutti gli atti al Tribunale dei ministri. È gravissimo che la procura voglia continuare ad indagare pur non essendo legittimata a farlo". Subito dopo gli azzeccagarbugli del Sovrano confondono e intricano le questioni per nascondere la violenza istituzionale delle mosse del Cavaliere.

Ciò di cui si discute è più semplice di quanto si possa immaginare. La domanda è sempre una, in ogni passaggio di questa storia: chi deve decidere? Berlusconi sostiene che non può indagare il pubblico ministero di Milano, ma il Tribunale dei Ministri perché il reato, se reato c'è stato, è ministeriale. Senza entrare nel merito se quel reato (concussione) è stato svolto nella funzione di presidente del Consiglio (reato ministeriale) o con la qualità della sua responsabilità pubblica (reato comune), chi decide se a indagare deve essere la procura o il Tribunale dei Ministri? In un rito ordinario, con un imputato ordinario, le questioni della competenza si sollevano nel processo con la possibilità di impugnarle in appello e in Cassazione. Berlusconi non ci sta. Vuole confiscare ai giudici naturali quella decisione e assegnarla illecitamente al Parlamento che è come dire attribuirla a se stesso. Ordina che l'aula voti a favore del Tribunale dei Ministri, come se questo dovesse chiudere l'affaire.

In Parlamento, il capo del governo ha due carte da giocare: il conflitto di attribuzione e l'improcedibilità. Anche qui non bisogna farsi spaventare dalle formule. Il conflitto di attribuzione è stato appena sollevato dalla maggioranza. La filastrocca è sempre quella: la procura di Milano si è attribuito un potere che non ha perché il reato ministeriale non gli compete. Ora deciderà la Corte Costituzionale. Almeno su questo non ci sono obiezioni. Anche se affiora qualche tentativo di condizionamento. C'è qualche analfabeta che auspica una moral suasion del Capo dello Stato sui giudici costituzionali mentre, per farsi forza in quest'avventura, gli azzeccagarbugli citano a capocchia una pronuncia della Corte (sentenza n. 241 del 2009) che ha accolto la denuncia di conflitto proposta dal ministro Altero Matteoli. Questa sentenza non c'entra nulla con l'affaire Berlusconi. Al contrario, dà una mano a chi giustamente sostiene che non spetta alla Camera stabilire se il reato abbia carattere ministeriale e la competenza a svolgere le indagini sia quindi del Tribunale dei Ministri. In quell'occasione, come scrive la Corte per il caso Matteoli, la Camera non ha rivendicato "il potere di apprezzare in via esclusiva il carattere ministeriale del reato". Chiedeva soltanto di "poter esprimere, secondo le apposite cadenze procedurali, una autonoma valutazione al riguardo". Nel caso Berlusconi, la Camera ha già espresso "la sua autonoma valutazione" sul "carattere ministeriale del reato" di concussione (boccia la perquisizione dell'ufficio del ragioniere pagatore delle ragazza di Arcore). Anche se con procedure stravaganti, potrebbe ancora ribadirla con una delibera di "improcedibilità". La valutazione del Parlamento, per quanto qualificata, non può sequestrare le prerogative del tribunale di Milano perché la Camera non ha  -  appunto  -  "il potere di apprezzare in via esclusiva il carattere ministeriale del reato".

La seconda carta che Berlusconi intende giocare è l'improcedibilità. Anche questa è un papocchio se ci si chiede: chi decide? Il Parlamento non può dichiarare improcedibile un processo. Non gli spetta. Non è tra i suoi poteri. Le cose stanno così. Il Tribunale dei Ministri non è un giudice. Lavora come un pubblico ministero nei procedimenti comuni. A conclusione delle indagini, il Tribunale dei Ministri, se ritiene che l'indagato meriti il rinvio a giudizio, chiede al Parlamento l'autorizzazione a procedere. Se l'autorizzazione viene negata, il Tribunale dei Ministri prende atto che non ci sono le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge e dispone l'archiviazione del procedimento. Non può far altro. L'"improcedibilità", dunque, può e deve essere dichiarata soltanto dal Tribunale dei Ministri e unicamente come l'esito insuperabile del rifiuto dell'autorizzazione a procedere. Una dichiarazione di improcedibilità non è tra le competenze del Parlamento, che non ha il potere di negare preventivamente un'autorizzazione non richiesta. Se lo fa, è un abuso, un atto di violenza istituzionale. Resta l'ultima questione, la sospensione del giudizio. Chi la decide? Anche in questo caso, non c'è alcun dubbio. Né il conflitto di attribuzione né una fantasistica delibera parlamentare di "improcedibilità" possono paralizzare il processo di Milano. È il terzo abuso di potere che Berlusconi pretende. Esige che in ogni caso il processo si blocchi. Anche questa pretesa è illegittima. Vediamo che cosa accade per il conflitto di attribuzione. Bisogna leggere delle "norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale" (legge 11 marzo 1953, n. 87). Anche un non addetto ai lavori comprende, leggendo l'art. 37 e le disposizioni del 23, che l'autorità giurisdizionale, sospende il giudizio in corso soltanto quando la questione non gli appaia manifestamente infondata e finora è apparsa manifestamente infondata al giudice di Milano. Chi decide? È la questione che impegnerà Parlamento, magistratura ordinaria, Corte Costituzionale. Fin da ora si deve dire che, a due secoli dall'Ancien Régime, né l'imputato né il suo governo né una maggioranza di nominati e comprati può decidere del processo come esige il nostro dispotico capo del governo.


(03 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Abuso di Parlamento
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2011, 03:55:40 pm
L'ANALISI

Abuso di Parlamento

di GIUSEPPE D'AVANZO


IL PARLAMENTO, senza arrossire di vergogna per il degradante disonore che gli viene inflitto, sostiene che Berlusconi davvero crede che Karima El Mahroug ("Ruby") sia la nipotina minorenne del rais egiziano Hosni Mubarak. Così, nella notte tra il 27 e 28 maggio 2010, il buon uomo si muove per evitare al Paese un conflitto internazionale nella sua funzione di premier, primo responsabile della politica estera della Repubblica. È la grottesca frottola che nemmeno un sempliciotto butterebbe giù senza riderne.

Nominati o comprati, i rappresentanti del popolo devono bere l'intruglio per sostenere che il Cavaliere quella notte e nelle conversazioni con il funzionario della questura (il capo del governo chiede l'immediata liberazione della sua giovanissima concubina, accusata di furto) esercita addirittura l'autorità ministeriale. Quindi, se reato c'è stato, è ministeriale e di competenza del Tribunale dei Ministri, conclude l'aula di Montecitorio. Accettato di trangugiare senza turbamento la favoletta buffonesca di un premier sprovveduto e credulone - insomma, uno sciocco di 75 anni che crede alla prima balla che gli racconta una ragazzina di diciassette - il Parlamento deve muovere un passo abusivo: sostenere che è potere esclusivo delle Camere decidere se un reato sia ministeriale o meno. In questo caso lo è - sragiona Montecitorio - e solleva il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale cui la Camera chiede di sottrarre al tribunale di Milano il processo per concussione e sfruttamento
della prostituzione contro il Cavaliere.

I giuristi ridono degli sgorbi che vedono raccolti nella decisione di un Parlamento ubbidiente alla volontà e agli interessi del presidente del Consiglio. Lo ha già scritto qui Franco Cordero: "Finché esiste l'attuale Carta, la giurisdizione non ammette interventi esterni". Naturalmente è legittimo porre la questione della competenza del giudice, ma non spetta a un corpo politico sbrogliare la matassa, ma ai giudici e nel processo. Come ha deciso anche recentemente la Cassazione (3 marzo), "rientra nelle attribuzioni dell'autorità giudiziaria verificare i presupposti della propria competenza" e sarà il giudice ordinario a decidere se un reato ha natura ministeriale.

Questi pochi segni liquidano la questione giuridica (la Camera rivendica un potere che non ha) e rivelano la qualità politica della questione o, detto in altro modo, le potenzialità eversive di questa stagione italiana. Berlusconi non può affrontare il processo, non può argomentare e soprattutto provare l'"eleganza" dei convegni di Arcore, la correttezza dei suoi comportamenti, l'invulnerabilità o la non ricattabilità della sua persona. Davvero qualcuno ha creduto che l'uomo che ci governa avrebbe accettato di farsi processare? Come ci è già apparso chiaro a gennaio, Berlusconi deve rinserrarsi nel ridotto di Montecitorio e, protetto dalla sua maggioranza, rifiutare il processo, ricattare le più alte istituzioni dello Stato, scatenare la politica contro la magistratura, gridare al coup d'Etat - addirittura ieri al "brigatismo" delle toghe - perché ogni controllo che lo sfiora è già un colpo di Stato giudiziario che impone, dice, la punizione dei giudici, il castigo per magistratura, la sacralizzazione della sua persona con un'impunità definitiva (sono l'eletto del popolo). Anche a costo di demolire le istituzioni e trascinare il Paese in un conflitto senza vie di uscita, Berlusconi pretende di essere legibus solutus. Il Cavaliere è già al lavoro. Fin d'ora avvelena i pozzi dell'opinione pubblica con cadenza quotidiana e, come sempre, rifiuta ogni domanda e ogni contraddittorio, senza coraggio. Organizza piazze. Ordina figuranti. Sistema il suo esercito mediatico per la manipolazione che, cancellati i fatti e soprattutto la violenza su una minore, dovrà trasformare il "caso Ruby" in uno spettacolino plausibile come il Grande Fratello e il responsabile delle torsioni di un corretto gioco democratico nella vittima di un complotto politico.

È il pericoloso incrocio in cui ci ha portato un premier incapace di controllare la sua vita, determinatissimo a non accettare alcuna responsabilità e giudizio. Ma se ieri, per evitare ogni responsabilità e giudizio, il presidente del Consiglio comprava i giudici (Mondadori) e corrompeva i testimoni (All Iberian), oggi queste manovre non sono più necessarie per allontanarsi dall'incomodo giudiziario. Non ha più bisogno giocare con baratti sotto il banco perché, per cancellare oneri e obblighi, egli può agitare pubblicamente contro l'accertamento dei fatti una politica corrotta, Camere diventate bottega sua, parlamentari diventati servitù. È la partita finale che stringe in un solo nodo tutte le questioni che ha posto al Paese il potere di Silvio Berlusconi. È la stagione che ci dirà se nel nostro futuro ci sarà ancora uno Stato con una pluralità di poteri divisi o ai quattro poteri accumulati oggi dal Cavaliere (esecutivo, legislativo, economico, mediatico) si aggiungerà presto il dominio incontrollato del quinto (giudiziario).
 

(06 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/06/news/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La Costituzione virtuale
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:00:31 pm
IL COMMENTO

La Costituzione virtuale

di GIUSEPPE D'AVANZO

LE PAROLE ingannano soltanto quando  -  e se  -  glielo consentiamo.
Le parole che si odono in queste ore in un Parlamento imbarbarito, ingaglioffito, in qualche caso analfabeta, disegnano un mondo che non c'è e che soltanto Berlusconi e i suoi dignitari pretendono che sia reale. Ad ascoltare i campioni della libertà che discutono di giustizia, di leggi, di diritti si può credere che sia già in vigore una nuova disciplina costituzionale, non si sa quando discussa e da chi approvata.

È un regime che immagina di aver già cancellato l'autonomia e l'indipendenza dei magistrati e incluso il potere giudiziario nel bouquet dei quattro poteri nelle mani di Berlusconi (esecutivo, legislativo, economico, mediatico). È un sistema politico virtuale che ha insediato procureurs impériaux che stanno al ministro di Giustizia come i prefetti al ministro dell'Interno. Avevamo inteso che Berlusconi avesse l'ancien régime nel sangue, ma non ci eravamo accorti che fossero già legittime le lettere grazie a cui alcune teste possono liberarsi delle giurisdizioni usuali per ricorrere a una corte sovrana (si chiamavano "Committimus") o che fossero già conformi alla legge le lettres de cachet, gli ordini reali che recludono o liberano in via diretta. Ascoltiamo le parole di un dignitario del Sultano. Denis Verdini è il coordinatore del partito delle libertà: "I magistrati devono fermarsi ora, rispettare il Parlamento e aspettare il verdetto della Consulta. (Nel "processo Ruby") non possono assumersi la responsabilità di andare avanti comunque. Se lo facessero sarebbe un atto di sfida politica alla Camere". Nel mondo, ordinato da una Costituzione che non c'è, nella "iustitia secundum Berlusconem", è il Parlamento che decide della giurisdizione, non più i giudici.

Le platee bevono. Sono litanie che scavano nelle teste più docili e purtroppo anche nelle meno accomodanti. In queste fantasie deformi si scopre che la procura di Milano è abitata da avventurosi picchiatelli (o consapevoli farabutti) perché  -  si legge e si ascolta in televisione  -  i pubblici ministeri non distruggono le intercettazioni di Silvio Berlusconi, come dovrebbero. Perché conservano le memorie acustiche; peggio, in qualche caso trascrivono addirittura le parole dell'Augusto. Si conclude (e ci sia un'anima buona che controargomenti da qualche parte): quei pubblici ministeri ignorano che le parole del presidente del Consiglio, come di ogni altro parlamentare, non possono essere utilizzate e vanno considerate come mai dette, mai raccolte, mai ascoltate, mai esistite e quindi distrutte. È davvero così? Davvero quando incappano nella voce di un parlamentare  -  e ancora di più nel presidente del Consiglio  -  i pubblici ministeri devono diventare sordi? È questo l'obbligo che la legge prescrive ai procuratori?

Accade che si scateni un putiferio perché l'Espresso e il Corriere della sera pubblicano alcune intercettazioni di Berlusconi. I più servili parlano di "reato": sono pagati dal Sultano, è il loro mestiere chiedere l'arresto di chi infastidisce il Padrone con un'indagine penale. Non sorprende che al coro si unisca qualche anima fioca sempre in cerca di alibi per non prendere posizione. Stupisce che qualche addetto di lungo corso, che pure la legge conosce, soffi contro la procura di Milano parole come "errore", "negligenza" insinuando  -  lieve  -  anche la colpa senza dolo o magari il dolo tout court, l'intenzione di sputtanare in pubblico il premier. Troppo tardi il procuratore di Milano decide di fare chiarezza.

L'affare, nel suo racconto, è più semplice di come si può immaginare. Si indaga su una congrega che favorisce la prostituzione di giovanissime donne. Si ascoltano le parole di tre indagati e delle falene che organizzano. Con gli uni e con le altre, nell'agosto 2010, chiacchiera Silvio Berlusconi (non è ancora indagato). Le sue conversazioni  -  un paio  -  sono allegate a una richiesta di proroga delle intercettazioni (autorizzate di 15 giorni in 15 giorni). Quando le indagini si concludono, la trascrizione di quei colloqui è consegnata, come tutti i documenti dell'inchiesta, agli avvocati del Sultano affinché possano verificare il rispetto anche formale delle procedure d'intercettazione. Potevano farlo? Dovevano farlo? Chi crede nella Nuova Costituzione Virtuale, che ha già reso immune tutti i parlamentari, pensa che non potevano farlo. Lo ripetono i caudatari alla Camera pretendendo penitenze esemplari.

Per capire come stanno le cose, è necessario leggere quel che ha scritto il "giudice delle leggi", la Consulta che garantisce la Costituzione, quella vera e ancora in corso. Nella sentenza n. 390 del 2007, che dichiara l'illegittimità costituzionale dei commi 2, 5 e 6 dell'art. 6 della legge Boato (regola la materia), la Consulta stabilisce che non è necessario richiedere il placet della Camera per poter far uso dei dialoghi intercettati cui abbia preso parte un parlamentare (nel nostro caso, Berlusconi), qualora l'autorità giudiziaria voglia utilizzare le intercettazioni (processualmente rilevanti) contro un indagato non parlamentare (per noi, Minetti, Fede, Mora). La Corte aggiunge: se pubblici ministeri o giudici ritengono necessario utilizzare quelle memorie foniche contro un parlamentare è necessario chiedere il nulla osta preventivo alla Camera di appartenenza. La procura di Milano non ha chiesto l'autorizzazione della Camera perché nessuna intercettazione di Berlusconi è stata utilizzata come fonte di prova nel processo che lo ha imputato. E comunque  -  dispone la Consulta  -  anche quando l'autorizzazione non è concessa, il contenuto delle intercettazioni non deve essere distrutto, ma conservato perché le intercettazioni sono utilizzabili "limitatamente ai terzi non parlamentari".

Chiaro, no? Le parole intercettate di un parlamentare possono essere utilizzate senza autorizzazione contro chi parlamentare non è. Soltanto con il consenso della Camera, se l'imputato è un parlamentare. E allora, perché la procura di Milano avrebbe dovuto distruggere le intercettazioni di Berlusconi? Perché non dovrebbe utilizzarle "contro terzi" che non siano Berlusconi? Non si sa, a meno di non volere bere la storia che siano in vigore i codici virtuali e la Costituzione Virtuale approntata nella cucina verbale del Sultano.

(07 aprile 2011) © Riproduzione riservata
DA - repubblica.it/politica/2011/04/07/news/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il grande imbroglione
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2011, 08:39:20 pm
IL COMMENTO

Il grande imbroglione

di GIUSEPPE D'AVANZO


BERLUSCONI mente con costante insolenza. È una consuetudine che da sempre sollecita molte attenzioni per afferrarne le ragioni, per così dire, costitutive. Per dirne una. C'è chi vede, in quella coazione a mentire, l'archetipo del Bambino come se alloggiasse nell'inconscio del Cavaliere una personalità che "ragiona" in base al principio di piacere e non al principio di realtà. Lungo questa via è suggestiva l'interpretazione di chi avvista Berlusconi afflitto da "pseudologia phantastica".

«Una forma di isteria caratterizzata dalla particolare capacità di prestar fede alle proprie bugie. Di solito succede - scrive Carl G. Jung - che simili individui abbiano per qualche tempo uno strepitoso successo e che siano perciò socialmente pericolosi». Sono accostamenti utili e intriganti, ma rischiano di annebbiare quel che è semplice e chiaro da tempo: se l'imbroglione è, come si legge nei dizionari, «una persona che ricorre al raggiro come espediente abituale», Berlusconi è innanzitutto un imbroglione.

È un imbroglio, un abituale inganno l'ultimo flusso verbale del capo del governo - che come sempre parla soltanto di se stesso, soltanto del suo prezioso portafoglio, soltanto dei complotti che gli impedirebbero di governare e arricchirsi. Berlusconi manipola fatti, eventi e contingenze della sua storia di imprenditore e di politico per mostrarsi vittima di un'aggressione, nell'una come nell'altra avventura. Deve farlo, il Cavaliere, poverino.
Non solo per una fantasia di potenza adolescenziale (anche per quello), ma (soprattutto) per la consapevole accortezza di dover nascondere il catastrofico fallimento della sua leadership e i sistemi che ne hanno fatto un uomo di successo.

Dice il Cavaliere: «Mi trattano come se fossi Al Capone». Il fatto è che Berlusconi, con Al Capone, condivide il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l'avidità, una capacità di immaginazione delirante. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta - ne è il simbolo - l'Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. Berlusconi è tutt'uno con quella storia e senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato un "delinquente abituale".

Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. La fortuna del premier è il risultato di evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il dominio nell'informazione e il controllo pieno dei "dispositivi della risonanza", sarebbe chiaro a tutti come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

Deve farlo dimenticare e deve mentire per tenere in vita la mitologia dell'homo faber e il teorema vittimistico. È quel che fa per nascondere il passato e salvare il suo futuro. Confondendo come sempre privato e pubblico, Berlusconi ora denuncia anche un assalto al suo patrimonio, la sola cosa che ha davvero a cuore. Si lamenta: «Contro di me tentano anche un attacco patrimoniale: a Milano c'è un giudice, di cui potrei dire molto, che ha formulato un risarcimento di 750 milioni per la tessera numero 1 del Pd, De Benedetti, per un lodo a cui la Mondadori fu costretta. È una rapina a mano armata».

Si sa come sono andate le cose. La Cassazione dice colpevoli il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora (assistono la Fininvest nella guerra di Segrate): hanno barattato la sentenza del 1991 sul cosiddetto "Lodo Mondadori" che, a vantaggio di Berlusconi, ha sottratto illegalmente la proprietà della casa editrice a De Benedetti (editore di questo giornale). Sono i soldi della Fininvest che corrompono il giudice, ma Silvio Berlusconi si salva per una miracolosa prescrizione.

Per il suo alto incarico (nel 2001 è capo del governo) gli vanno riconosciute - sostengono i giudici - le attenuanti generiche e quindi la prescrizione e non come sarebbe stato più coerente, proprio per le sue pubbliche responsabilità, le aggravanti e quindi la condanna insieme agli uomini che, nel suo interesse, truccarono il gioco. «Corresponsabile della vicenda corruttiva», il Cavaliere con Fininvest deve ora risarcire - come ha deciso la Cassazione - i danni morali e patrimoniali quantificati in primo grado in 750 milioni di euro. Troppo o troppo poco, lo dirà il giudice dell'appello che deciderà degli interessi di due privati e non, come vuole far credere l'Imbroglione, di due fazioni politiche.

È altro quel che qui conta ripetere, una volta di più semmai ce ne fosse bisogno. Come dimostra il tentativo di gettare nel calderone delle polemiche anche un suo affare privato, dietro la guerra scatenata dal capo del governo contro la magistratura ci sono soltanto gli interessi personali del premier. Null'altro. Riforma costituzionale, riforma della giustizia, asservimento del pubblico ministero al potere politico, che oggi paralizzano la vita pubblica del Paese, sono soltanto gli espedienti ricattatori di Berlusconi per ottenere un salvacondotto che lo liberi dal suo passato illegale, da una storia fabbricata, oggi come ieri, con l'imbroglio.

(10 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/10


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO La finzione di Berlusconi in aula "I pm lavorano contro ...
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2011, 06:34:39 pm
IL PROCESSO

La finzione di Berlusconi in aula "I pm lavorano contro il Paese"

Lo show del presidente del Consiglio in aula e poi fuori dal Tribunale.

"I magistrati sono ormai un'arma di lotta politica".

E sul caso Ruby: "L'ho sottratta alla prostituzione"

di GIUSEPPE D'AVANZO


L'homme d'Etat entra in aula dalla porticina laterale. Ha gli occhi bui, la faccia contratta. Seminascosto, si trattiene sulla soglia quasi in apnea, prima di affrontare l'emiciclo della grande aula. Silvio Berlusconi s'acconcia la cravatta; sistema la giacca sul ventre; distende il viso raggrinzato in un sorriso stereotipato.

Dicono che sia il massetere a fare quel repentino prodigio. Chiedo che cosa è il massetere. Mi rispondono che è un muscolo della faccia, corto e solido, a ridosso della mandibola. Chiedo: bene, ma che cosa c'entra il massetere con il sorrisone che il premier esibisce ora che attraversa trasversalmente l'aula da sinistra verso destra? Mi rispondono che il segreto del suo sorriso inalterabile, di pronto impiego è in quel muscolo, il massetere. Lo controlla come il dito di una mano. Lo irrigidisce a comando, dicono, sollevando appena e senza sforzo il lato destro della bocca e il gioco è fatto perché il volto e gli occhi "si dinamizzano", coinvolgendo tutto il viso. Sarà il massetere allora a mostrare del Cavaliere la finzione di una fisionomia spensierata, quasi di buonumore. Messa su quella, si può far vedere finalmente dal pubblico scarso; dai giornalisti numerosi; dalla corte degli avvocati in toga; dai pubblici ministeri con il capo chino sulle carte che hanno sul banco, per non dargli soddisfazione.

Berlusconi simula serenità, quasi una indifferente euforia. Stringe mani come se tutti gli avvocati fossero convenuti lì per salutarlo e proteggerlo; tutto il pubblico per incoraggiarlo; tutti i giornalisti per celebrarlo. Si fa incontro ai procuratori che lo accolgono freddamente. Come un primo attore che non vuole perdere il proscenio, ripiega verso i banchi, le seconde, terze, quarte file degli avvocati. Già guarda sottocchio il suo vero obiettivo, i giornalisti laggiù in fondo. Saranno loro il megafono che documenterà, come ha promesso, la volontà del presidente del Consiglio di farsi processare: "Non ho nulla da temere che le accuse contro di me sono inventate". Con un paio di passi rapidi è già davanti allo scranno che separa i cronisti dagli avvocati. Berlusconi ha pronto il consueto flusso verbale da incantatore da fiera. Sa di poter cavare il massimo del profitto da quelle operazioni vocali sulla psiche degli italiani. Domina l'arena mediatica e la stregoneria gli riesce sempre. Finora la platea l'ha bevuta. La ripete. Da sciocchi attendersi self-restraint. Ha in mano il controllo pieno di buona parte dell'informazione, è naturale che voglia adoperarla pro se e senza risparmio, soprattutto quando i tempi per lui si fanno difficili. "Invece di governare, sono qui..." dice e, con autocompianto posticcio, fa spallucce da uomo rassegnato, dimentico che imprese e sindacati, docenti e studenti, Comuni e Regioni, Nord e Sud, Europa e Africa, hanno in mano la misura dell'inettitudine della sua leadership e, chiara, la sincope del suo governo. Parla, parla, parla senza una pausa. "Sappiamo che questi sono processi mediatici. Non riesco a capire come un presidente del Consiglio si possa trovare davanti a una situazione come questa con accuse che sono infondate e demenziali. Solo invenzioni dei pubblici ministeri staccate completamente dalla realtà".

Implacabilmente, ogni frase è un luogo comune. Mai un fatto, mai un evento, mai un argomento. Soltanto ideologia. Se ne avesse - di argomenti - discuterebbe nel processo perché il processo nasce per quello: macchina retrospettiva, stabilisce se qualcosa è avvenuto e chi l'abbia causato; accusa e difesa formulano delle ipotesi; il giudice accoglie la più probabile, secondo i canoni. Quale migliore opportunità di mostrare i suoi motivi, di illustrare finalmente le ragioni insuperabili che dice di avere in tasca. Niente, non ci pensa. Lui non ci casca: i fatti gli sono sempre scomodi.

Il massetere ora sembra allentato. Il volto mostra ira, quasi un tenace furore quando la logorrea farfallina cede all'umore, alle viscere. Sembra che si afferri il vero volto del Cavaliere, sempre accortamente nascosto nella perfomance mediatica. Condanna e ghigna perché il canovaccio che gli hanno preparato (o che si è preparato) ora affronta non più il suo processo, ma chi lo ha promosso. "La magistratura oggi è come un'arma di lotta politica e per questo bisogna riformare la giustizia". Gli chiedono: riforma della giustizia o riforma del pubblico ministero, presidente? Niente. Finge di non sentire e tira innanzi con il sermone. Non ammette interlocutori né domande né intoppi al monologo. Ribadisce la lezione imparata (a memoria): "La riforma che il governo intende approvare non sarà una riforma punitiva, ma servirà per riportare la magistratura a quelle che deve essere, non quello che è oggi: ripeto, è un'arma di lotta politica e questo non funziona".

Prende fiato per un attimo. Si riesce a mettergli lì tra i piedi il "caso Ruby". Il comizio ha ingrassato il suo Io e il sentimento narcisistico d'onnipotenza si divora ogni prudenza confermando una regola: quando gli capita di affrontare la realtà e di parlare di fatti si confonde, si contraddice, reinventa senza cautela, si autoaffonda. Offre un'altra versione (l'ennesima bugia, prima o poi bisognerà dare conto dell'intero repertorio) di come andarono le cose in questura nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010. "Io ho chiesto un'informazione con la mia solita cortesia, preoccupato che la situazione potesse dar luogo a un incidente diplomatico. Mi hanno detto che non era egiziana ed è caduto tutto". È spudorato. Sa (e ora lo sanno tutti) che quella notte non ci fu soltanto una telefonata, ma ripetute telefonate. Voleva che liberassero la sua concubina; la disse "nipote di Murabak"; pretese che la consegnassero a una sua incaricata (Nicole Minetti). Il capo del governo lo ha ribadito alla Camera reclamando il conflitto di attribuzione per sottrarre il processo a Milano: "Ho evitato una crisi internazionale, credevo che fosse la nipote di Mubarak". Parlamentari servili gli hanno creduto e ora il malaccorto lascia tutti di princisbecco: quella notte ho saputo che non poteva essere la nipote di Mubarak perché mi dissero che era marocchina!

L'Imbroglione cucina un'altra frittata quando racconta l'aiuto offerto a Ruby. "L'ho aiutata e le ho dato perfino la chance di entrare con una sua amica in un centro estetico. Doveva fornire un laser antidepilatorio. Costava, se ricordo bene, 45 mila euro anche se Ruby dice che gli euro erano 60 mila. Così ho dato l'incarico di darle questi soldi per sottrarla a qualunque necessità, per non costringerla alla prostituzione, ma per portarla nelle direzione contraria". Berlusconi non si rende conto che le sue parole confermano quale fosse l'esclusiva fonte di reddito di Ruby, prima e dopo gli incontri di Arcore.

Lo portano via prima che faccia altri danni a se stesso e alle troppe frottole che ha distribuito negli ultimi tre mesi. Conclusa l'udienza, si rimette al lavoro. No, al processo non pensa. Pensa di nuovo ai giornalisti. Affida loro un'altra omelia. "Questa mattina ho sentito dei testi e ne vengo via con l'impressione abbastanza drammatica del tempo che si perde su delle accuse che sono frutto soltanto della fantasia di certi pubblici ministeri. Incredibili questi processi, che sono soltanto processi mediatici fatti per buttare fango sull'avversario politico, che si considera un nemico da eliminare perché è l'unico ostacolo alla sinistra per tornare al potere". Liquida l'accusa con un farfuglio che non ha né capo né coda. "L'accusa è che io sarei stato socio occulto di un'azienda che vendeva diritti a Mediaset. Questa azienda si è appurato che ha pagato al capoufficio acquisti di Mediaset 21 milioni di cresta per farseli comperare. I diritti venduti in un anno sono stati 30 milioni di dollari. L'accusa è che io sarei stato al 50% di questa azienda. Allora, io sarei stato così stupido da pagare la metà di 21 milioni al capoufficio acquisti della mia azienda a cui avrei potuto fare una telefonata dicendogli: "Entro stasera alle 6 devi firmare questo contratto di acquisto". Ma questa è solo la prima delle cose paradossali. La seconda è che questo capoufficio acquisti era lì in una struttura che comperava diritti per mille milioni di dollari all'anno, quindi quei ventuno milioni li pigliava per trenta milioni di acquisti all'anno per diversi anni. Qual è quell'imprenditore che è così folle che può tenere per più anni a capo dell'ufficio acquisti della sua azienda un corrotto che acquista dei diritti per la sua azienda e si fa pagare una cresta a danno dell'azienda? Non c'è imprenditore al mondo che possa fare una cosa del genere. Un signore che conosco aveva saputo che un suo parente faceva la cresta dell'acquisto delle carote e lo ha licenziato".

Alzi la mano chi ci ha capito qualcosa. In ogni caso, le sue ragioni avrebbe potuto spiegarle ai giudici nel processo. Erano lì. Lui era lì. La cosa si poteva combinare con il comodo di tutti. No, il Cavaliere ostinatamente muto (e assopito) durante le udienze, diventa un incontenibile parolaio fuori del processo, a udienza chiusa. Quel che conta per lui è lo show. Il modello è la fiera. A Berlusconi bisogna dare soltanto il palco e un pubblico adorante. Se il pubblico non lo è, Berlusconi tracolla, ondeggia. Il potere dell'adulazione è incalcolabile e rende cieca anche la persona più intelligente. Abituato alla riverenza e alla corvée servile offerta dai coatti che attendono un premio, un onore, una poltrona, lo scuote anche soltanto un'interruzione. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori né - naturalmente - una domanda. Porgliela rivela il suo stile (le style c'est l'homme). Le parole che butta come una fontana si fanno viscerali fino all'invettiva e al ringhio. Una domanda (lo portano via di nuovo e di peso) lo fa ancora scappare verso luoghi più protetti: in strada, davanti a un paio di centinaia figuranti. Ora tra gli applausi, può celebrare, in un delirio narcisistico, se stesso, le sue virtù, la sua vita e aizzare i campioni della libertà contro la magistratura "nemica dell'Italia".

L'ultimo atto della giornata sarebbe triste e grottesco se non facesse paura. Quest'uomo, prigioniero delle sue ossessioni, inabile a dire la verità, sempre più chiaramente vuole spingere il Paese in un conflitto fatale soltanto per salvare se stesso.

(12 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/12/news/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO Il Quirinale in campo
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2011, 12:21:07 pm

L'ANALISI

Il Quirinale in campo

di GIUSEPPE D'AVANZO


DINANZI alle parole violente e alle iniziative aggressive di un uomo che ha preso dimora stabile nell'inimicizia, si attendeva una parola saggia del presidente della Repubblica. Una parola che potesse indicare a tutti  -  e soprattutto a Silvio Berlusconi  -  un limite. Il confine insuperabile per una democrazia e per le istituzioni che la governano prima che quell'inimicizia privatissima e ostinata e ossessiva le distrugga. Prima che la stessa identità del sistema diventi rovina, macerie.

Quella parola saggia ora è arrivata dal Quirinale. Con una lettera al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giorgio Napolitano ha deciso di dedicare "il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi" (il 9 maggio) ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. "Tra loro  -  scrive il capo dello Stato  -  si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democratica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche".
Ricordiamone i nomi: Emilio Alessandrini, Mario Amato, Fedele Calvosa, Francesco Coco, Guido Galli, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione.

Non c'è alcun convenzionalismo nella mossa del Capo dello Stato. Napolitano non tace le ragioni più autentiche della sua scelta. Che è esplicita e suona come un atto di accusa contro chi, come il capo del
governo, da settimane aggredisce, insinua, minaccia, ingiuria, calunnia cianciando di "brigatismo giudiziario", premessa politica  -  e mandato morale  -  per un figurante, candidato a Milano nella lista del Pdl, che ha fatto affiggere manifesti che diffondono, con gran dispendio di mezzi, la stessa convinzione del premier: "Via le Br dalle procure".

"La scelta che oggi annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria  -  scrive Giorgio Napolitano  -  costituisce una risposta all'ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta "Associazione dalla parte della democrazia". Quel manifesto rappresenta una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle Br, magistrati e non. Essa indica come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull'amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti".

Napolitano indica un confine, abbiamo detto. Si può dire, un primo limite, un primo confine alla "strategia del ricatto" che Berlusconi ha inaugurato per rendersi immune dai processi che possono svelare quanto corrotta sia stata la sua avventura imprenditoriale (Mills) e quanto disonorevole e ricattabile e irresponsabile sia la sua vita di capo del governo (Ruby).

Il dispotico egomane pretende di essere "tutelato", come dice. Strepita, gesticola, urla, aizza rumorose pattuglie di comparse a pagamento. Esige che il Parlamento diventato cosa sua, proprietà personale, approvi leggi che lo liberino dalle accuse, dai processi, dai giudici di Milano: le manifestazioni che organizza dinanzi al palazzo di giustizia palesemente vogliono costruire le condizioni di un trasferimento dei dibattimenti in un'altra sede "per gravi motivi d'ordine pubblico", un espediente per allontanarlo dal giudice naturale. La prescrizione ancora più breve (approvata alla Camera, ora al Senato) non gli può bastare. Reclama che anche il processo per concussione e prostituzione minorile sia sospeso in attesa che la Corte costituzionale decida se il Parlamento può stabilire contro i giudici la "ministerialità" dei reati contestati al Cavaliere. In caso contrario, una nuova legge è già pronta. Per condizionare le volontà della magistratura, influenzare le scelte della Consulta, ottenere (come dicono spudoratamente gli araldi del potere berlusconiano) un impegno di Giorgio Napolitano "in una sorta di moral suasion sulla Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi", il premier spinge la riforma costituzionale della magistratura; la responsabilità civile delle toghe; la legge bavaglio sulle intercettazioni; l'introduzione del quorum dei 2/3 per le decisioni della Consulta che abrogano una legge per incostituzionalità. Berlusconi le chiama "riforme". Sono soltanto le poste del ricatto che egli lancia contro le istituzioni della Repubblica. Il programma, dimentico delle vere necessità di un Paese in crisi abbandonato al suo destino da un governo fantasma, ha un solo obiettivo: mostrare come il premier sia disposto  -  se non ottiene la "tutela" immunitaria  -  a "decostituzionalizzare" la nostra democrazia, come dice Stefano Rodotà, ribaltandone i principi, le regole, gli equilibri, i poteri.

Napolitano è il primo e più autorevole ostacolo a questo disegno ricattatorio. Dovrà decidere della ragionevolezza della prescrizione breve. Giudicare l'esistenza di una palese incostituzionalità di un riforma del pubblico ministero che affida a leggi ordinarie  -  e quindi a chi governa momentaneamente in Parlamento  -  materie oggi protette dalle garanzie della Carta fondamentale. Difendere l'indipendenza della Corte costituzionale dalla longa manus del potere politico. Vigilare sui diritti dell'informazione. Le sagge parole di oggi, ricordano a chi vuole screditare le istituzioni e ribaltare l'equilibrio democratico che c'è un limite oltre il quale si manifestano "degenerazioni" che egli non tollererà. A Napolitano è toccato in sorte il più ingrato dei ruoli politici. È il custode della Costituzione. È chiamato a difenderla e proteggerla da partiti e uomini che, in quella Costituzione, non credono; che quella Costituzione disprezzano e umiliano. È la condizione estrema in cui si trova il nostro presidente della Repubblica. Avrà bisogno del sostegno di tutto il Paese per affrontare i conflitti che lo attendono.
 

(19 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/19/news/


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO È la ventesima legge ad personam del premier
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2011, 04:31:41 pm
L'ANALISI

L'ultimo trucco "ad aziendam" di Berlusconi il 'padrone' del paese corrompe la democrazia

Nelle pieghe della manovra una norma per proteggere la Fininvest del Cavaliere e sospendere il pagamento del risarcimento da 750 milioni di euro per il Lodo Mondadori.

È la ventesima legge ad personam del premier

di GIUSEPPE D'AVANZO


CHI SI ERA illuso che Berlusconi, avvilito dagli scandali e depresso per le bocciature elettorali, fosse ormai al capolinea, è servito. L'uomo sarà anche all'ultimo atto - arriva sempre e per tutti un ultimo atto - ma non ha alcuna voglia o possibilità di abbandonare la scena, come lascia intendere con mosse teatrali incoronando capo del suo partito una comparsa, un attor giovane, Angelino Alfano.
 ...
La cruda verità è che Berlusconi non può abbandonare. Deve restare lì, al governo e al potere, al riparo di un macroscopico conflitto d'interessi per proteggere la sua roba e il suo destino.

L'Egoarca non ha altra preoccupazione che se stesso e non è una novità, ma ormai la consapevolezza di ventisette milioni di italiani che hanno cancellato nel voto referendario il "legittimo impedimento", di fatto dicendogli che non avrebbero più tollerato leggi personali. L'Egoarca non se ne dà per inteso. Si fece leader politico per venir fuori dai suoi guai finanziari. Era più o meno alla rovina nel 1994. Aveva debiti a medio-lungo termine per 2927 miliardi di lire e a breve per 1528 miliardi a fronte di un capitale netto di 1053 miliardi. Per non farla lunga, un fallito. Dopo diciassette anni e dopo il suo ennesimo fallimento - questa volta, politico  - stiamo ancora qui a parlare dei suoi soldi, delle sue utilità, di che cosa gli conviene, di che cosa non gli conviene.

Così mentre il governo chiede agli italiani - e agli italiani più deboli, i pensionati, i precari, i giovani - di versare lacrime e sangue per riequilibrare i conti dello Stato, Berlusconi si apparecchia il solito codicillo "ad personam" o "ad aziendam" che permetterà a lui - il Tycoon miliardario della Fininvest - di fare festa in tempi di stenti risparmiando di pagare un risarcimento di 750 milioni di euro.

I fatti sono noti e non può far velo a Repubblica prendere posizione anche se il beneficiario di quel risarcimento è l'editore di Repubblica. La ragione di questa serenità è che all'inizio di questa storia c'è un fatto provato, accertato, indiscutibile: la corruzione di un giudice. Quindi, un delitto, un reato. È un "dettaglio" che - per nulla misteriosamente - scompare sempre nelle ipocriti o servili ricostruzioni del caso.

Dunque, due imprenditori, due privati cittadini, Berlusconi e De Benedetti, hanno una contesa d'affari. In gioco è la proprietà della Mondadori. Finiscono in tribunale. Berlusconi si compra chi deve decidere della controversia, il giudice Metta. La corruzione della toga viene accertata al di là di ogni ragionevole dubbio in tre gradi di giudizio. La sentenza è definitiva e ha uno strascico: come risarcire chi si è visto privato di un bene con un crimine? Un altro giudice - un giudice civile, poi aggredito e degradato per vendetta dalla "macchina del fango" - decide che il prezzo giusto per il danno subito da De Benedetti è di 750 milioni di euro.

Berlusconi si appella. La decisione è attesa di qui a qualche giorno, ma l'Egoarca la teme. Se ne lagna, con pose da vittima, appena può. Al funerale del suo miglior amico. Al matrimonio della sua ministra. Tace di aver corrotto il giudice. "Vogliono colpirmi nel patrimonio" dice trascurando di aver colpito il patrimonio altrui. Lavora in silenzio. Non lascia trapelare un sospiro. Anche se qualche traccia rimane nel terreno.

Nei giorni scorsi, quando i manager della Fininvest presentano il bilancio della holding, svelano di non aver messo in conto nessun accantonamento, a copertura dell'eventuale risarcimento alla Cir. Sanno che "il Dottore" si sta muovendo per salvare se stesso e i conti del gioiello di famiglia. Nella bozza di manovra presentata nel pre-consiglio dei ministri il codicillo non c'è. Non c'è nella bozza consegnata ai ministri, giovedì scorso. Appare tra sabato e domenica - dunque quando materialmente il documento è ancora a Palazzo Chigi. Devono averla affatturata gli avvocati del premier. È proprio il tira e molla tra presidenza del Consiglio con i suoi legulei e il ministero del Tesoro con i suoi tecnici deve aver ritardato la trasmissione del documento al Quirinale.

A scrutinare oggi il decreto legge si scorge un metodo rituale: cambio un comma di una legge, neutralizzo la giustizia, incasso il vantaggio privato. In questo caso, si manipolano due commi del codice di procedura civile. Finora il giudice poteva sospendere le pronunce di condanna in attesa della sentenza di Appello o di Cassazione. Ora riformati il primo comma dell'articolo 283 e dell'articolo 373, il giudice deve obbligatoriamente in forza delle legge "ad personam", pensata per proteggere la Fininvest del Cavaliere, sospendere il pagamento del risarcimento.

Così l'Egoarca che nei prossimi giorni - la sentenza era prevista in settimana - avrebbe dovuto sborsare alla Cir di Carlo De Benedetti tra i 750 e i 500 milioni di euro può tenere la borsa chiusa e attendere tempi migliori per cancellare tutto, magari con un'altra legge, con un altro codicillo, con un colpo di mano che - altro che ultimo atto! - lo porti al Quirinale che poi magari dal Colle più alto è più facile ottenere obbedienza dei giudici e sentenze accomodate.

Ora a occhio nudo possiamo vedere quel che accade ancora una volta, per la ventesima volta (tante - venti - sono le leggi ad personam). Berlusconi pretende che il suo destino sia il destino dell'Italia. Con questa convinzione, si è impadronito della "cosa comune" e ne fa una "cosa propria". Impone leggi personali corrompendo la nostra democrazia. Per proteggere la democrazia dalla corruzione esiste la Costituzione. Per dirlo con le parole di Gustavo Zagrebelskj, la funzione della Costituzione "è precisamente di evitare che qualcuno, una parte soltanto, s'impadronisca della "cosa di tutti"". Come si è impadronito Berlusconi deformando a proprio vantaggio addirittura la manovra finanziaria per la quale saremo giudicati dai nostri creditori, dai Paesi con cui condividiamo l'euro, dai mercati.

Declinato così questo nuovo caso di corruzione della democrazia italiana, bisogna allora guardare al Quirinale. Giorgio Napolitano firmerà il decreto legge? Quali sono gli eventi che rendono quel codicillo (il giudice deve sospendere l'esecutività di una condanna di ammontare superiore a venti milioni di euro) "necessario e urgente" come prevede l'articolo 77 della Costituzione? È sufficiente il buon senso per rispondere. Non si avvista alcun fatto nuovo, se non la prossima soluzione di un singolo caso - la contesa Fininvest-Cir, Berlusconi-De Benedetti. Sarà per questo che la firma del decreto, come conferma la presidenza della Repubblica, non c'è stata ieri e non ci sarà oggi perché è ancora in corso un'"attenta e scrupolosa valutazione", formula che lascia trasparire tutte le perplessità di Napolitano.

Il Colle ferma così l'orologio per chiedere al governo, a Berlusconi, a Tremonti, un ripensamento. Questo più o meno il ragionamento: il governo ha inviato soltanto una bozza. Come ogni lavoro provvisorio e non definitivo, è ancora possibile emendarla e correggerla e il testo della manovra va corretto nella forzature privatistiche imposte dagli interessi di un Egoarca attento alla sua roba.

La finestra che ha aperto il capo dello Stato consentirà a molti di mostrare di quale pasta sono fatti e al Paese di apprezzarne responsabilità e senso dello Stato. Potrà Tremonti conservare intatta la credibilità di moralizzatore della finanza pubblica se non si spenderà a favore dei dubbi del Quirinale? E quali parole di sostegno alla "leale collaborazione" di Napolitano sentiremo invece da Angelino Alfano, indicato come il "cuoco della frittata" e l'ambizioso capo di un partito che si vuole "degli onesti"? Ancora poche ore e sapremo.

(05 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/05/news/padrone_paese-18672269/?ref=HREA-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO "Berlusconi è il corruttore"
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 05:12:57 pm
LA STORIA

"Berlusconi è il corruttore"

Illegalità per creare un impero

Le motivazioni della sentenza del processo Mondadori: decisioni cambiate a suo favore.

Il premier ha voluto, organizzato, finanziato la corruzione di Vittorio Metta che gli consegna la più grande casa editrice del Paese

di GIUSEPPE D'AVANZO

"Berlusconi è il corruttore" Illegalità per creare un impero Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti in una foto degli anni 80
Se non si ricorda come sono andate le cose venti anni fa, ci si può lasciare confondere dal frastuono sollevato dai commessi ubbidienti dell'Egoarca. Dunque. Due privati cittadini, capi d'impresa, si trovano in conflitto per la proprietà della Mondadori. Accade che gli eredi del fondatore (Arnoldo Mondadori) pattuiscano con Carlo De Benedetti (editore di questo giornale) la cessione della loro quota entro un termine, 30 gennaio 1991. Tra i soci c'è anche Silvio Berlusconi. Mai schietto, lavora nell'ombra. Traffica. Intriga. Ottiene che gli eredi passino nel suo campo. Nasce una lite. La decidono tre arbitri a favore di De Benedetti.

Berlusconi impugna il lodo dinanzi alla Corte d'appello di Roma. E' qui si consuma il coup de théatre, il crimine, il robo. All'indomani della camera di consiglio, il giudice relatore Vittorio Metta deposita centosessantasette pagine d'una sentenza che dà partita vinta a Berlusconi. Era stata già scritta e non l'ha scritta il giudice e non è stata scritta nemmeno nello studio privato o nell'ufficio del giudice in tribunale. Preesisteva, scritta altrove. Il giudice ha venduto la sentenza per quattrocento milioni di lire  -  il giudizio è definitivo, è res iudicata (Corte d'appello di Milano, 23 febbraio 2007, respinto il ricorso dalla Cassazione il 13 luglio 2007) .

Il corruttore è Silvio Berlusconi. Ascoltate, perché questo è un brano della storia che solitamente viene trascurato. L'Egoarca porta a casa la ghirba per un lapsus del legislatore. Il parlamento vuole inasprire la pena della corruzione quando il corrotto vende favori processuali. Ma i redattori della legge dimenticano, compilandola, il "privato corruttore". Così per Berlusconi  -  è il "privato" che corrompe il giudice  -  non vale la nuova legge più severa (corruzione in atti giudiziari), ma la norma preesistente più blanda (corruzione semplice). Questa, con le attenuanti generiche, decide della prescrizione del delitto. Un colpo fortunato sovrapposto a un "aiutino" togato. Nel 2001, l'Egoarca è a capo del governo. Per il suo alto incarico gli vanno riconosciute  -  sostengono i giudici (e poi, irriconoscente, il Cavaliere si lamenta delle toghe)  -  le attenuanti generiche e quindi la prescrizione e non come sarebbe stato più coerente, proprio in ragione delle pubbliche responsabilità, le aggravanti e quindi la condanna insieme agli uomini (gli avvocati Previti, Acampora e Pacifico) che, nel suo interesse, truccarono il gioco.

Allora, per chi vuole ricordare, le cose stanno così: Berlusconi ha voluto, organizzato, finanziato la corruzione di Vittorio Metta che gli consegna  -  come il bottino di una rapina  -  la più grande casa editrice del Paese, ma non può essere punito.
Con buona pace di Marina Berlusconi e dei suoi argomenti ("un esproprio") e arroganza ("neppure un euro è dovuto da parte nostra"), dov'è la politica in questa storia? C'è soltanto la contesa di mercato tra due imprenditori. Uno dei due, Berlusconi, si muove come un pirata della Tortuga. Non gli va bene. Lascia troppe tracce in giro. Lo beccano. La sentenza della Corte d'appello civile è molto chiara in due punti decisivi.

1. Berlusconi è il corruttore. Scrivono i giudici: "Ai soli fini civilistici del giudizio, Silvio Berlusconi è corresponsabile della vicenda corruttiva".
2. Con la corruzione del giudice, Berlusconi non ha soltanto sottratto a De Benedetti la chance di prevalere nella causa sul controllo del gruppo Mondadori-Espresso (come ha sostenuto la sentenza di primo grado), ma gli ha impedito di vincere perché De Benedetti senza la corruzione giudiziaria avrebbe di certo conquistato un verdetto favorevole alle sue ragioni.

Oggi a distanza di venti anni, che non sono pochi soprattutto per chi ha patito l'inganno, Berlusconi  -  evitato il castigo penale  -  paga il prezzo della rapina, risarcendone il danno. Tutto qui?
Andiamoci piano. E' un "tutto qui" che ci racconta molte cose di Berlusconi e qualcuna sul berlusconismo.
Si sa, il Cavaliere si lamenta: "Mi trattano come se fossi Al Capone". Lo disse accompagnando la sentenza di primo grado, in questo processo civile. La sentenza di appello ci consente di comprendere meglio che cosa l'Egoarca condivida con Al Capone: il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l'avidità. Lo abbiamo già scritto in qualche altra occasione. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta  -  ne è il simbolo  -  l'Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. E' infatti irrealistico immaginare Berlusconi fuori dal corso di quegli eventi: capitali oscuri, costanti prassi corruttive, liaisons piduistiche, un'ininterrotta presenza nel sottosuolo pubblico dove non esiste un angolo pulito. Berlusconi è quella storia e senza amnistie, senza un incessante e rinnovato abuso di potere, senza riforme del codice e della procedura preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato oggi un "delinquente abituale".

Accostiamo, per capire meglio, la sentenza di ieri della Corte d'appello civile di Milano con gli esiti processuali di un altro processo per corruzione. Questa volta non di un giudice, ma di un testimone, David Mills.
Lo si ricorderà. David Mills, per conto e nell'interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento "diretto e personale", crea e gestisce "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest", dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come "i politici costano molto ed è in discussione la legge Mammì"). E ancora, il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma tra i quali (appunto) Vittorio Metta; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. In due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), David Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere dai guai, da quella galassia societaria di cui l'avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio "enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali", come si legge nella sentenza che lo ha condannato.

Sono sufficienti questi due approdi processuali (Mondadori e Mills) per guardare dentro la "scatola degli attrezzi" di Silvio Berlusconi e lasciare senza mistero la sua avventura imprenditoriale. Da quelle ricostruzioni, che non hanno mai incontrato un'alternativa accettabile, ragionevole, credibile nelle parole o nei documenti del Cavaliere, si può comprendere come è nato il Biscione e di quali deformità pubbliche e fragilità private ha goduto per diventare un impero. Se solo la memoria non avesse delle sincopi, spesso determinate dal controllo pieno dell'informazione, che cosa ne sarebbe allora del "corpo mistico" dell'ideologia berlusconiana, della sua agiografia epica? Chi potrebbe credere alla favola del genio, dell'uomo che si fatto da sé con un "fare" instancabile, ottimistico e sempre vincente, ispirato all'amore e lontano dal risentimento?

La verità è che finalmente, dopo un ventennio, comincia a far capolino e  -  quel che più conta  -  a diventare consapevolezza anche tra chi gli ha creduto come, al fondo della fortuna del premier, ci sia il delitto e quindi la violenza. Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. Salta fuori il resoconto degli "attrezzi" del Mago: evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il controllo dei "dispositivi della risonanza"  -  ripeto  -  sarebbe chiaro da molto tempo come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.
Oggi come ieri per far dimenticare la sua storia, per nascondere il passato, salvare il suo futuro, tenere in vita la mitologia dell'homo faber, Berlusconi non inventerà fantasmagoremi. L'Egoarca muove sempre gli stessi passi, ripete sempre le stesse mosse. Come per un riflesso automatico, si esibirà nell'esercizio che gli riesce meglio: posare da vittima "politica", bersaglio di un complotto politico-giudiziario. Confondendo come sempre privato e pubblico, con qualche metamorfismo mediatico  -  ha degli ordigni e sa usarli  -  trasformerà la sua personale e privatissima catastrofe di imprenditore, abituato all'imbroglio e al crimine, in affaire politico che decide del destino della Nazione. Ha cominciato la figlia Marina, accompagnata dalla volgarità ingaglioffita e aggressiva dei corifei. Domani  -  comoda la prognosi  -  sarà il Cavaliere a menare la danza in prima fila. Con un mantra prevedibile e in attesa di escogitare un qualche sopruso vincente, dirà: "Contro di me tentano un attacco patrimoniale".

Vedremo così allo scoperto il più autentico statuto del berlusconismo: l'affermazione di un potere statale esercitato direttamente da un tycoon che sfrutta apertamente, e senza scrupoli, la funzione pubblica come un modo per proteggere i suoi interessi economici. Ieri, ne abbiamo già avuto un saggio nella tempesta declamatoria dell'intero gruppo dirigente del "partito della libertà" dove si è distinto Maurizio Lupi, che nella settimana che si apre sarà addirittura ministro di Giustizia. Le sue parole sono quasi il paradigma della devastazione della legalità che il berlusconismo ha codificato. L'uomo spesso posa a riformista dialogante, ma nell'ora decisiva mostra il suo volto più reale. Dice: "In qualsiasi Paese una sentenza che intima al leader di maggioranza di risarcire il vero leader dell'opposizione (De Benedetti ha la tessera n. 1 del Pd) avrebbe suscitato unanime condanna". Davvero in qualsiasi Paese, con l'eccezione di un'Italia gobba afflitta da malattie organiche, un imbroglione avrebbe potuto nascondere agli elettori le sue tecniche fino a diventare capo del governo? In quale altro Paese, scoperto l'imbroglio, il neoministro di Giustizia quasi come atto programmatico ne invoca l'impunità pretendendo la severa punizione dell'eretico che, truffato, ha chiesto il rispetto dei suoi diritti? In quale altro Paese un delitto commesso da un privato può essere cancellato in nome della sua funzione pubblica? Nelle poche parole del neoministro si può rintracciare il compendio delle "qualità" del ceto politico berlusconiano, i suoi strumenti, il suo metro: ignoranza, immoralismo cinico, illegalismo istituzionale, chiassosi stereotipi, menzogna sistematica e la totale eclissi dei due archetipi del sentimento morale: la vergogna e la colpa. Con tutta evidenza, siamo soltanto all'inizio del triste spettacolo che andrà in scena nelle prossime settimane perché  -  è chiaro  -  Berlusconi può abbozzare sulla manovra fiscale che riguarda gli altri, ma qui parliamo di lui, della sua "roba". E' per la "roba" che si è fatto politico e con la politica che vorrà salvare la sua "roba". Costi quel che costi.

(10 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/10/news/mondadori_d_avanzo-18919338/?ref=HRER1-1


Titolo: LA MORTE DI D'AVANZO.
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:17:48 am
LA MORTE DI D'AVANZO

Dalla lotta alla mafia all'ultima pedalata i miei venticinque anni accanto a Peppe

Falcone non parlava molto con i giornalisti, ma quando lo conobbe rimase affascinato dal suo modo di lavorare.

Giorgio Bocca, seduto con lui nell'aula bunker al processo Andreotti gli chiedeva: "Ma tu come le sai tutte queste cose?"

di ATTILIO BOLZONI


ROMA - L'ultimo pezzo di strada che abbiamo fatto insieme è stato lungo venticinque anni. L'amico di una vita. Al giornale e fuori dal giornale. È cominciato tutto a Palermo tanto tempo fa e sarebbe ricominciato tutto un'altra volta a Palermo fra qualche settimana. A Peppe piaceva la mia Sicilia, Palermo lo rapiva. C'eravamo conosciuti prima ma amici siamo diventati dopo. Quando lui era già venuto in cronaca a Roma - da Napoli, dove prima era alla redazione di Paese Sera e poi corrispondente di Repubblica - e io stavo ancora laggiù a farmi mangiare dalla paura. Scrivevo di mafia. Solo Peppe aveva capito sino in fondo la mia solitudine e con la sua generosità aveva fatto capire a tutti gli altri cosa significava fare quel mestiere a Palermo. Era l'inizio del 1987, forse primavera. Sulla sua pelle c'erano ancora i segni di chi era sopravvissuto in terra di camorra. Lui il Natale di due anni prima l'aveva passato nel carcere di Carinola, arrestato per avere pubblicato un articolo su capi crimine e neri coinvolti nella strage del rapido 904. Uno scoop. Il primo di tantissimi altri scoop che hanno fatto la storia di Repubblica.

Viveva per quello Peppe. Era giornalista. Un vero giornalista. Con il carattere che aveva, la sua lealtà, il suo metodo - non a caso si era laureato in filosofia - era il migliore di tutti noi. Cronisti che viaggiavano nel profondo Sud per descrivere le facce sconce di coloro che se n'erano impossessati, denunciare i maneggi di quei politicanti amici dei boss. Ma Peppe andava sempre oltre, scavava di più, "vedeva" sempre più lontano. Arrivava su una strada per un omicidio eccellente o entrava in una stanza per intervistare qualcuno, con cura maniacale prendeva appunti, non perdeva mai tempo in cerimonie: "La palla: dobbiamo seguire sempre la palla", mi diceva scherzando quando io o altri colleghi ci concedevamo una piccola distrazione.

Di questo suo stile - asciutto, rigoroso - se ne accorse un giorno Giovanni Falcone, uno che con i giornalisti non parlava molto. Diffidente com'era, fu una sorpresa per tutti scoprire che il giudice istruttore più famoso e più guardingo d'Italia era rimasto affascinato da Peppe. "Proprio tu che sei napoletano?", lo prendevamo in giro noi amici siciliani, sempre superbi nei confronti degli altri meridionali. Sarà stato anche napoletano ma Falcone intuì che lui aveva capito tanto della Sicilia. E sapeva quanto era svelto di cervello, intransigente, determinato. Così Peppe cominciò a scendere sempre più spesso a Palermo. Per la Tangentopoli siciliana che scoppiò prima di quella milanese, per gli intrighi dei reparti speciali contro la procura di Caselli, per rintracciare i grandi pentiti di Cosa Nostra. Memorabile la sua intervista a Tommaso Buscetta appena tornato dagli Usa, firmata a quattro mani con Eugenio Scalfari.

Le incursioni a Corleone per ricostruire la vita di Totò Riina, le sue denunce sul sistema giudiziario corrotto, i commenti incisivi sui pentiti manovrati. E poi le cronache delle udienze al processo Andreotti, con Giorgio Bocca seduto nell'aula bunker che lo guardava stupefatto e gli chiedeva: "Ma tu, come le sai tutte queste cose?". Peppe si lisciava il baffo folto e cominciava a raccontare i retroscena dell'ultimo mistero palermitano, il vecchio Bocca ogni tanto scriveva qualcosa su un quaderno e poi a cena lo tormentava con le domande. Aveva fonti di primissima mano. Ed era autorevole con le sue fonti. Da Palermo si spostava a Milano, scendeva nella sua Napoli, tornava in Sicilia. Quando uccisero Giovanni Falcone è come se avesse perso un fratello.

In quei mesi c'era Palermo ma c'era anche Milano. Il pool di Mani Pulite, le inchieste sulla corruzione, i ritratti dei grandi protagonisti. Tutti pezzi in prima pagina con la sua firma. Un passo sempre avanti agli altri. Un giorno mi chiama e dice: "Devi venire subito a Roma". Era il 19 marzo del 1994. Anche quella volta Peppe aveva la notizia. Il giorno dopo Repubblica titolò in prima pagina: "Quell'affare di mafia e mattoni". Aveva ricevuto la notizia giusta: qualcuno faceva il nome di Silvio Berlusconi alla vigilia della sua "discesa in campo". E raccontava di latitanti "in una tenuta fra Milano e Monza" amministrata dal boss di Publitalia Marcello Dell'Utri, degli "interessi" palermitani del Cavaliere, delle sue frequentazioni sospette. Era l'inizio di quell'indagine infinita su Berlusconi e la mafia che è ancora sospesa. È stato Giuseppe D'Avanzo a cominciarla. E a continuarla poi sul fronte di Milano, le dieci domande a Berlusconi su Noemi Letizia, gli altri scoop su Ruby. E poi sempre a fare da cane da guardia al potere. Su Gladio e Telekom Serbia, sul Nigergate e il rapimento di Abu Omar.

Con Carlo Bonini aveva scritto un libro sul mercato della paura e la guerra al terrorismo islamico, con lui avevo pubblicato tre libri negli anni '90 su mafia e dintorni. L'ultima nostra passione erano le bici da corsa. Dove avremmo mai potuto passare le vacanze pedalando?
In Sicilia, naturalmente. Ma Peppe ieri mattina se n'è andato, sulla strada che ancora una volta facevamo insieme per raggiungere una montagna dove non eravamo stati mai.

(31 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/07/31/news/bolzoni_d_avanzo-19830429/?ref=HRER1-1


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO amava il rugby duro con regole leali
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:20:59 am
31/7/2011

Giuseppe D'Avanzo amava il rugby duro con regole leali

MARIO CALABRESI

Peppe D’Avanzo era un giornalista che viveva e si identificava completamente con i suoi articoli, che erano specchio fedele del suo modo di intendere l’esistenza e il lavoro: nessun compromesso, una cura ossessiva per i particolari, una vis polemica difficilmente mediabile e in ogni cosa una scelta di campo che non ammetteva ragioni.

Se n’è andato all’improvviso, in un giorno d’estate, e sembra impossibile che quella vitalità prorompente possa essersi spenta. Il suo giornalismo ha sempre fatto rumore, in Italia e all’estero, e gli ha procurato polemiche e scontri, ai quali non si è mai sottratto.

A me piace ricordarlo però come un grande cronista, dotato di quel metodo che è l’unica ricetta per andare a scoprire il fondo ultimo di ogni storia: leggeva tutto, sottolineava, appuntava, riempiva taccuini con la sua penna stilografica e si metteva a scrivere solo quando era convinto di aver esplorato ogni angolo. E poi aveva una tenacia non comune con le fonti, le coltivava ogni giorno, non solo quando ne aveva bisogno, e al dunque le cercava senza sosta. Stava ore davanti al telefono a provare e riprovare un numero che suonava a vuoto.
Amava il rugby, gioco duro ma con regole leali.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9042


Titolo: GIUSEPPE D'AVANZO, le grandi inchieste (le leggi su repubblica).
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:24:38 am
L'ARCHIVIO

Giuseppe D'Avanzo, le grandi inchieste

Da Cosa Nostra allo scandalo Ruby, alcuni dei più importanti articoli della firma di Repubblica
 


Quando la Cia non credette ai nostri 007 1 (8 gennaio 2001)
 
Quelle e-mail rubate dal computer di Biagi 2 (29 giugno 2002)

Cosa Nostra, rapporti segreti: "Previti e Dell'Utri nel mirino" 3 (7 settembre 2002)

Telekom, il ruolo degli 007 così inquinarono l'inchiesta 4 (9 ottobre 2003)

Quattro destini incrociati tra armi, segreti e misteri 5 (17 aprile 2004)
 
L'imam rapito dalla Cia, silenzi e complicità con Washington 6 (28 giugno 2005)

Doppiogiochisti e dilettanti, tutti gli italiani del Nigergate 7 (24 ottobre 2005)

Le responsabilità italiane nella guerra sporca Usa 8 (11 maggio 2006)

Quella patacca del Sismi per infangare Prodi 9 (7 luglio 2006)

La riscoperta dell'America, nuovo fronte di Cosa Nostra 10 (12 luglio 2007)

E Tronchetti mi disse: "Le abbiamo chiesto troppo" 11(21 luglio 2008)

Le dieci domande a Berlusconi 12 (15 maggio 2009)

Su Boffo una velina che non viene dal tribunale 13 (30 agosto 2009)

Ruby: "La mia verità sulle notti di Arcore" 14 (28 ottobre 2010)

Berlusconi corruttore: illegalità per comprare un impero 15 (10 luglio 2011)


(30 luglio 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cronaca/2011/07/30/news/giuseppe_d_avanzo_le_grandi_inchieste-19817255/?ref=HREA-1