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« Risposta #15 inserito:: Maggio 25, 2009, 11:22:08 am » |
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25/5/2009 Presidente del popolo RICCARDO BARENGHI Bastava guardare la sua faccia ieri allo stadio per capire che Silvio Berlusconi è preoccupato, preoccupatissimo: l’espressione cupa, i lineamenti tesi, mai un sorriso.
E non certo perché il suo Milan ha perso. È preoccupato, il premier, per almeno tre o quattro ragioni.
La crisi economica che comincia a far sentire i suoi effetti e non gli permette più di ostentare il suo proverbiale ottimismo; la sentenza Mills che se non ci fosse il Lodo Alfano lo avrebbe condannato per corruzione; il caso Noemi che ogni giorno si arricchisce di nuovi particolari che dimostrano come Berlusconi non abbia detto finora la verità su questa strana amicizia. Infine i sondaggi, suo oracolo, che certamente lo premiano, però, forse, non esattamente come si aspettava.
Dunque ha tutte le ragioni per essere preoccupato, tanto più ora che anche l’opposizione politica sembra essersi svegliata e gli chiede conto delle sue contraddizioni sul caso Noemi. E allora che fa, che si inventa per uscire da una situazione di difficoltà? Una delle sue mosse «geniali», politicamente azzeccate, spiazzanti, popolari e populiste. Magari si tratta dell’ennesimo annuncio al quale poi non seguirà nulla di fatto, ma intanto è un annuncio che rischia di tornargli molto utile, nell’immagine e soprattutto nelle urne delle elezioni europee. L’idea di raccogliere «milioni di firme» per portare in Parlamento una legge che riduca drasticamente il numero di deputati e senatori non è una qualsiasi proposta di riforma costituzionale come ce ne sono state tante negli ultimi dodici anni, che tra l’altro prevedevano più o meno lo stesso risultato. Si tratta, nelle sua sostanza e nelle intenzioni di Berlusconi, di ben altro: ossia di mettere il «popolo» contro la Casta, di mobilitare i cittadini contro i loro rappresentanti visti - anzi malvisti - come politicanti, burocrati, funzionari che non fanno nulla dalla mattina alla sera ma guadagnano migliaia di euro al mese pagati dai cittadini stessi.
Ed è lui che li mobilita, è lui che dà loro il potere di cambiare le regole del gioco, di mandare a casa questa gente che perde tempo a discutere e non (gli) consente di «fare», che alla fine dei conti «ruba» i loro soldi. Un modo furbo - diciamo anche intelligente, seppur molto pericoloso per la democrazia che è stata costruita in Italia - per diventare nei fatti il Presidente del popolo senza però averne mai avuto l’investitura diretta.
Già un mese fa, in occasione del 25 aprile, si era capito come il suo disegno (e lo avevamo notato su questo giornale) fosse quello di cambiare nei fatti la Costituzione, a colpi di risultati elettorali sempre più plebiscitari, diventando così il vero e unico rappresentante del popolo. E non importa se c’è ancora un Capo dello Stato eletto dal Parlamento con le «vecchie» regole costituzionali. Importa il rapporto diretto tra lui e quella che una volta chiamava la gente, importa che lui sia riconosciuto come colui che a questa gente dà voce e risposte, che porta - o fa finta di portare - le sue esigenze nel Palazzo della politica, anche a costo di cambiarne i connotati e minarne le fondamenta. E cosa c’è di più efficace, di più funzionale a questo disegno, se non far firmare ai cittadini una legge che permetta loro di punire la tanto odiata Casta? Cosa c’è di più ostico, per l’opposizione, di una iniziativa popolare che la mette nell’angolo, costringendola a schierarsi senza via di mezzo: o sta con il popolo o difende la Casta, diventando vieppiù impopolare. Non c’è niente di meglio, non un buon risultato elettorale, che comunque troverà ossigeno da questa iniziativa, né un discorso televisivo o parlamentare che sia. È l’apice del populismo berlusconiano. E che sarà sempre più difficile da combattere, tanto che ormai molti sperano solo che scivoli sulla buccia di banana che si chiama Noemi Letizia. Ma anche se - ipotesi peraltro molto improbabile - Berlusconi dovesse subire un colpo durissimo a causa dei suoi vizi privati, per quanto orrendi questi vizi possano essere, l’opposizione potrà anche segnare un punto a suo favore. Ma non sarà certo una vittoria delle sue idee, del suo programma, insomma della sua politica. La maggioranza della gente, ed è questa la fotografia del nostro paese, si schiererebbe comunque con lui: il proprio leader. da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:36:29 pm » |
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12/7/2009 (7:47) - INTERVISTA
"Il Pd con Bersani rischia di cadere nell’effetto nostalgia" Fassino: solo Franceschini è capace di unire le due culture
RICCARDO BARENGHI ROMA
Tra dieci giorni si chiudono i giochi delle candidature e si apre la vera e propria fase congressuale del Pd, che culminerà in ottobre con l’elezione del segretario. Piero Fassino fin da ragazzo è stato un militante e poi un dirigente del Pci, del Pds, infine segretario dei Ds per sette anni. E da quella postazione ha contribuito con parecchie energie a fondare il Partito democratico. Oggi, sorprendendo parecchi suoi ex compagni della Quercia, si è schierato con Dario Franceschini che invece proviene dalla Dc e dalla Margherita. Mentre dall’altra parte c’è Bersani, sostenuto da D’Alema e da molti ex comunisti o diessini.
Fassino lei è addirittura coordinatore della mozione Franceschini: questa sua scelta non è incoerente con la sua storia politica? «Se continuiamo a guardare al passato non faremo mai un passo in avanti. La mia scelta è coerente con il progetto del Partito democratico, ossia un Partito che vuole e deve mescolare le culture, le storie, le provenienze, le biografie. Altrimenti tanto valeva non farlo e rimanere con Ds e Margherita separati».
E perché secondo lei Franceschini sarebbe più adatto di Bersani a guidare questo progetto? «L’ha dimostrato in questi quattro mesi di segreteria, tenendo la barra del timone dritta su temi fondamentali come la laicità, la nuova alleanza progressista con i socialisti in Europa, e imponendo in campagna elettorale i temi giusti che interessano gli italiani, a cominciare dalle risposte che si dovrebbero dare alla crisi economica e che il governo fa solo finta di dare».
E perché Bersani invece non andrebbe bene? «Proprio perché abbiamo scelto in Europa un rapporto privilegiato con socialisti e socialdemocratici, se in questa fase il leader del Pd diventasse un dirigente proveniente dai Ds, come è Pierluigi, si correrebbe il rischio di omologare il Partito a una sola delle due culture e storie che l’hanno fatto nascere. Mentre con Dario, che ha con coraggio compiuto la scelta europea, possiamo mantenere il profilo plurale e largo del Pd».
Tuttavia Franceschini ha perso due elezioni di seguito: oggi il Pd è al 26 per cento... «E’ francamente ingeneroso addossare a Dario la responsabilità di queste sconfitte, le elezioni le abbiamo perse tutti noi. Le ha perse il Partito intero».
Però D’Alema e Bersani dicono che il Partito non c’è e che l’idea di Veltroni, il Partito liquido tutto basato sulle primarie che eleggono le leadership, è stata disastrosa. «Figuriamoci se io voglio un Partito liquido. Non lo voglio io e non lo vuole neanche Franceschini. Mi pare di aver dimostrato negli anni in cui ho fatto il leader dei Ds quale sia la mia idea: un Partito forte, radicato, nel territorio, ben strutturato. Con un profilo largo e che soprattutto sia proiettato in avanti e non rivolto al passato».
In questa proiezione verso il futuro non le sembra che Franceschini abbia esagerato quando si è candidato «per evitare che tornino quelli di prima»? In fondo prima c’era anche lei... «Quella è stata una frase infelice, ma se mettessimo insieme tutte le nostre frasi infelici riempiremmo un’intera biblioteca».
D’Alema non ha gradito e lei lo ha attaccato... «Ho replicato alle sue dichiarazioni, punto e finito. Né io né lui abbiamo interesse a tenere aperta questa polemica, considerata anche la nostra storia comune».
Passiamo allora alle differenze programmatiche tra Franceschini e Bersani, al momento è francamente difficile capire quali siano. «Lo capiremo quando presenteranno le loro piattaforme. Per ora quello che noto è la percezione diversa che suscitano i due. Franceschini viene considerato come colui capace di tenere insieme culture diverse, mentre Bersani rischia di essere il candidato di chi rimpiange quello che c’era prima. Insomma i Ds con un altro nome».
Ma il tenere insieme culture diverse non rischia di degenerare nel «ma anche» veltroniano? «Non credo proprio, perché sia io che Dario vogliamo un partito che decida. La democrazia ha le sue regole. Si discute e poi si decide: se siamo tutti d’accordo meglio, sennò si decide a maggioranza».
A proposito di Veltroni, è finita la stagione del partito a vocazione maggioritaria? «Non facciamo caricature, nessuno è così cretino da pensare che si possa ottenere da soli il 51 per cento dei consensi degli elettori. Il problema è come costruire alleanze che non siano più una sommatoria di partiti fatte a prescindere dal programma. Noi siamo la forza principale del centrosinistra e dunque spetta a noi presentare un programma su cui definire alleanze possibili e coerenti».
Cosa pensa della candidatura del terzo uomo, ossia Ignazio Marino? E già che ci siamo: come è riuscito a convincere Chiamparino a non candidarsi? «Marino è un bravissimo medico ma francamente non mi pare abbia la storia, l’esperienza e il background per fare il segretario di un partito. Chiamparino non aveva certo bisogno che io lo convincessi, ha giustamente valutato che era prioritario onorare l’impegno assunto con i torinesi che lo hanno eletto».
Senta Fassino, mentre voi vi dividete e scontrate, ci sarebbe bisogno di un’opposizione che al momento non è si vede gran che... «Non è vero, noi abbiamo sempre fatto il nostro mestiere e continueremo a farlo. Ancor di più in questa fase, accompagnando il nostro dibattito con proposte in grado di rispondere alle domande e ai bisogni degli italiani».
Il G8 dell’Aquila è stato un successo per Berlusconi? «L’evento è riuscito, non c’è dubbio. Poi vedremo se e quando gli impegni che sono stati presi saranno mantenuti».
Come mai sullo scandalo delle escort la vostra voce non si è sentita forte e chiara... «Le priorità sono la crisi che si farà sentire pesantemente in autunno, l’occupazione della Rai, il conflitto permanente con la magistratura... E poi certo, sono venute alla luce vicende scabrose che non possono essere eluse. E’ ora che il premier dica una parola chiara su tutto questo, è lui che deve dare una spiegazione al Paese. Anche per evitare che l’Italia diventi un gigantesco Bagaglino».
Per concludere una domanda sul suo futuro: è vero che vorrebbe fare il sindaco di Torino? «Prima mi occupo di vincere il congresso e comunque fino al 2011 c’è Chiamparino che fa benissimo il suo mestiere. Quindi abbiamo tempo per riflettere».
da lastampa.it
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« Ultima modifica: Luglio 13, 2009, 11:16:03 am da Admin »
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 13, 2009, 11:16:31 am » |
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13/7/2009 La storia si ripete in farsa RICCARDO BARENGHI Prima che, come diceva Marx, la storia da tragedia si ripeta in farsa, qualcuno faccia qualcosa. Anzi, mettiamola così: prima che il congresso del Partito democratico diventi la sceneggiatura per il prossimo film dei fratelli Vanzina, bisogna che i massimi dirigenti di questo partito intervengano, mettano un freno alle fesserie che vengono dette addirittura da chi si è candidato a leader (vedi Ignazio Marino sul presunto stupratore militante), organizzino la discussione evitando le polemiche più stupide o volgari tra loro e soprattutto stabiliscano regole limpide perché questa discussione e il suo esito abbiano un senso comunicabile al Paese.
Altrimenti si rischia di passare l’estate a inseguire Beppe Grillo, un comico, che si candida a segretario di un partito che disprezza e che non sa nemmeno bene cosa sia, magari imitato da altri suoi colleghi: i due fratelli Guzzanti per esempio sarebbero un ottimo ticket, Vauro un fantastico segretario organizzativo e Maurizio Crozza un perfetto portavoce.
Oppure, e qui la farsa diventa tragica, a controllare se per caso il prossimo stupratore, rapinatore, scippatore, truffatore o delinquente generico abbia in tasca la tessera del partito, o se prima era stato comunista, diessino, democristiano di sinistra o della Margherita. E metti caso lo fosse stato, vai con i giornali che sparano titoli e vai, ovviamente, con dirigenti più o meno importanti che se ne escono su questioni morali inventate su due piedi (mentre non si affrontano quelle vere, che ci sono eccome), su quanto e come si debba controllare chi si iscrive, magari - perché no? - proponendo seriamente che prima di accettare un nuovo adepto gli si faccia un check-up sanitario completo di test psichiatrico... Ovviamente esteso a parenti e affini.
Esageriamo? Non tanto vista la situazione in cui si dibatte quello che dovrebbe essere il principale partito di opposizione, che in teoria (solo in teoria) sarebbe l’alternativa a Berlusconi. Un Berlusconi che finora è stato messo in difficoltà solo da se stesso e da inchieste giornalistiche sulle sue avventure sessuali, mentre chi è stato votato ed eletto per contrastarlo non c’era o se c’era dormiva. Allora, bisogna che questi leader politici si sveglino dal loro torpore politico e prendano qualche iniziativa degna di questo nome.
Innanzitutto spiegando al Paese chi sono e cosa vogliono fare, ovvero se ha ancora un senso questa avventura politica che finora non ha prodotto i frutti sperati. E poi mettendo in chiaro, parlando in italiano e non in politichese, quali sono le differenze tra Franceschini e Bersani, tanto per sapere per quale motivo un qualsiasi elettore di centrosinistra dovrebbe votare l’uno o l’altro. E infine, ma soprattutto, spiegando urbi et orbi in cosa consista il programma di questa forza politica, in cosa si differenzia da quello dell’attuale governo: sull’economia, sul lavoro, sulla società, sull’informazione, sull’etica pubblica. Forse è colpa loro, ma diversi milioni di italiani non l’hanno ancora capito.
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 14, 2009, 12:04:21 pm » |
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14/9/2009
Quella rete che spaventa il premier RICCARDO BARENGHI
Il problema a questo punto è piuttosto chiaro: non è Ballarò, non è Vespa o Floris, non è un giornale «sovversivo» che fa domande, non sono le inchieste o le interviste o i commenti della stampa e della televisione che danno fastidio al nostro premier, e che lui spesso e volentieri taccia di calunnia. Il problema è molto più profondo: Berlusconi appare allergico a qualsiasi mezzo e messaggio di comunicazione che non sia allineato con la sua realtà. Che poi sarebbe il suo governo, la sua «politica del fare», le cose che sostiene lui presentandole come verità assolute. Il caso esploso ieri, ossia lo spostamento del programma di Giovanni Floris (non certo un programma estremista) per lasciare spazio a un’edizione speciale di Porta a Porta che documenti la consegna delle prime case ai terremotati d’Abruzzo, ovviamente da parte del premier, è solo l’ultimo di una serie infinita di pressioni, querele, avvertimenti che in queste ultime settimane si sono talmente moltiplicati da far sorgere in una parte dell’opinione pubblica il timore che in Italia sia a rischio addirittura la libertà di stampa. Fesserie, hanno risposto in coro tutti gli esponenti del governo e della maggioranza, in Italia non c’è alcun rischio per l’informazione.
Se così fosse, e noi saremmo felici di crederci, qualcuno ci dovrebbe spiegare perché il capo del governo decide di querelare Repubblica e l’Unità (una mossa che suona come un avvertimento anche per tutti gli altri. Perché i programmi non allineati non riescono a cominciare, chi non viene garantito nella tutela legale (Report di Milena Gabanelli), chi non ottiene la squadra di tecnici storicamente dedicata (AnnoZero di Michele Santoro), chi non sa che fine farà (Parla con me di Serena Dandini e Che tempo che fa di Fabio Fazio). E infine perché viene improvvisamente cancellata la prima puntata di Ballarò per lasciare spazio a una sorta di celebrazione agiografica del premier che ricorda i cinegiornali di un’epoca remota.
Attenzione, qui nessuno pensa (almeno non noi) che alle porte ci sia un nuovo fascismo, tuttavia la sensazione che l’informazione sia sotto pressione è netta. Una sensazione, anzi ormai un’evidenza, che preoccupa eccome. Tanto più quando è ormai chiaro che la maggioranza politica che ha stravinto le elezioni non è più una falange macedone, unita e coesa, forte e determinata, che quindi non ha nulla da temere. L’impressione invece è che ci troviamo di fronte un governo forte sulla carta ma con una coalizione che va avanti in uno stato di permanente fibrillazione. Con un premier sempre più nervoso e preoccupato, che non tollera critiche e distinguo. E allora viene quasi da rimpiangere quel Berlusconi sicuro di sé, che non aveva paura di niente: tantomeno di qualche programma televisivo.
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 26, 2009, 10:58:03 am » |
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26/11/2009
Le nomine nel Pd simulacro della Dc RICCARDO BARENGHI
Dorotei, morotei, fanfaniani, andreottiani, forlaniani, gavianei, demitiani, pomiciniani... Era la Democrazia cristiana, con le sue correnti e sub correnti, i suoi capi bastone (oggi si chiamano leader), i loro fedelissimi, ex segretari o portaborse, che poi facevano carriera all’ombra del capo fino a diventare sottosegretari e magari anche ministri. E che poi a un certo punto tradivano, cambiavano cavallo (di razza ovviamente), si alleavano con l’avversario del loro padrino, spostavano le loro truppe, guadagnavano posti di potere e così via fino al successivo ribaltone interno, ed esterno, cioè il governo del Paese che comunque restava saldamente nelle loro mani.
Ritorna in mente la Dc, purtroppo, se guardiamo a come il nuovo leader del Pd ha nominato il «suo» gruppo dirigente. Una piccola squadra di giovani, denominata segreteria, alcuni provenienti dalle cosiddette esperienze sul territorio, altri che invece si sono fatti le ossa all’ombra del loro leader di riferimento (capo bastone si chiamava una volta). Ovviamente tutti spartiti per correnti o sub correnti. E accanto a loro, anzi sopra di loro, i politici più navigati, ognuno con un Forum (a volte va bene l’inglese, altre è più chic il latino) a disposizione.
E così il nuovo Pd, quello che nelle intenzioni del segretario e del suo grande sponsor D’Alema avrebbe dovuto farla finita con il «ma anche» veltroniano, che tradotto significa più banalmente tutto e il contrario di tutto, in realtà lo ripropone all’ennesima potenza. Strutturandolo, dandogli nomi, facce e storie politiche, aree di appartenenza e aree di intervento, percentuali studiate fino all’ultimo zero virgola. Tanto che Bersani e D’Alema possono contare sul 34,5 dei dirigenti nazionali, Franceschini sul 10,5, così come la coppia Fioroni-Marini, Rosy Bindi si deve accontentare dell’8 per cento come Enrico Letta, Veltroni del 5, i Popolari non meglio identificati del 2,5, gli altrettanto non identificati eco-dem dell’1,5, Fassino invece si porta a casa un tondo 6 per cento, quasi raddoppiato da Ignazio Marino con l’11 al quale si affianca l’1,5 del suo sponsor Goffredo Bettini. Fino a raggiungere il grottesco 1 per cento attribuito agli «ex Rutelli», che fatti i conti non si traduce neanche in una persona intera: ci saranno le gambe ex rutelliane o forse il tronco, fate voi.
Obiezione: siamo un partito pluralista che cerca di amalgamare diverse culture politiche, ispirazioni ideali, storie e idee... Obiezione all’obiezione: qui non si tratta di un amalgama, peraltro finora non riuscito (come disse D’Alema qualche mese fa), bensì di una sommatoria. In cui, nei mesi a seguire, ognuno farà pesare la sua forza o debolezza, i suoi veti e controveti, i suoi padrini o padroni col probabile risultato di paralizzare l’azione di un partito che dovrebbe invece essere il più agile possibile, il più svelto nel prendere decisioni che possano prima o poi portarlo fuori dalle secche di un’opposizione totalmente sterile. Tanto che i problemi del governo e della maggioranza sono nati tutti all’interno del centrodestra e non certo per iniziativa del Pd.
Ritorna in mente la Dc dunque, con la differenza che quel partito gestiva il potere e poteva permettersi di spartirlo tra le sue correnti. Qui invece non c’è da gestire nulla che non sia un simulacro del potere, tutto interno, diciamo pure intestino, al Partito democratico. Un simulacro che non serve a nessuno, tantomeno al Paese. Anzi, a qualcosa serve: a paralizzare l’iniziativa del segretario, peraltro eletto «a furor di popolo» e che dunque avrebbe potuto far leva su una forza esterna ai giochetti politicanti (oltre un milione e mezzo di consensi popolari ricevuti).
Ma il nuovo leader rischia invece (anche per colpa sua) di spendere tutte le sue energie per mettere d’accordo su ogni singola questione l’8 per cento di tizio con il 12 di caio e il 5 di sempronio. E semmai dovesse riuscire nel miracolo, dovrà sempre sperare che all’ultimo momento le dispettose gambe ex rutelliane non gli facciano lo sgambetto.
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:25:53 am » |
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6/12/2009 (7:26) - REPORTAGE
Il web si fa piazza
Roma attraversata dal corteo anomalo
La manifestazione è stata organizzata prevalentemente con il passaparola su internet da blogger e iscritti a Facebook Una nuova generazione di giovani si affaccia alla politica
RICCARDO BARENGHI ROMA
La prima impressione è quella che conta e che infatti verrà confermata dalla seconda, la terza, la quarta... Ed è che la manifestazione di ieri è stata una prima assoluta, non certo per quantità, che pure era notevole, ma perché si è trattato - almeno a memoria di chi ne ha viste centinaia – di un corteo anomalo, originale, diverso insomma da tutti quelli che nel corso dei decenni lo hanno preceduto.
Diciamo che in piazza si è tradotta perfettamente la modalità attraverso la quale la manifestazione è nata ed è cresciuta. Quelli che hanno sfilato ieri pomeriggio a Roma erano giovani, tanti giovani, anche giovanissimi, che apparivano liberi da qualsiasi condizionamento del passato. Non erano inquadrati dietro striscioni e bandiere di partito, anzi di più: non erano proprio inquadrati. Manifestavano liberamente, cantavano, ballavano con un’allegria che qualcuno poteva pure giudicare senza senso visto che il loro avversario, cioè Berlusconi, è sempre a palazzo Chigi e non si dimetterà certo grazie a loro. Tuttavia questi ragazzi non erano cupi, non gridavano slogan truculenti, e anche quelli giustizialisti, o se volete forcaioli, avevano un sapore diverso proprio grazie al contesto allegro e spesso ironico che li circondava.
Gli stessi striscioni e cartelli erano diversi dal solito, più spiritosi. E’ come se il modo di comunicare in Internet, i blog, Facebook, gli sms, i gruppi di discussione telematici, si fosse improvvisamente materializzato per le strade della capitale, assumendo contorni umani. Lo vedevi, lo capivi dalle facce, dal modo di vestire, da come questi ragazzi stavano nel loro corteo tutt’affatto diverso dal modo in cui marciavano i loro padri, zii e fratelli maggiori. Oppure dal fatto che non c’erano servizi d’ordine, e quei pochi che c’erano erano i più gentili della storia: «Per favore, potrebbe spostarsi leggermente sulla destra...». Ma la politica c’era. Eccome. Erano tutti antiberlusconiani, il premier è stato indubbiamente il protagonista assoluto della giornata, in negativo ovviamente, le accuse di essere un mafioso si sprecavano.
E tutti di sinistra, ma una sinistra viola e non più rossa. Quindi non più quella conosciuta nella prima e neanche nella seconda repubblica, quella che si è sempre riferita a qualche partito. E che ancora oggi si sente di appartenere a qualche partito o a qualche sindacato. Per non tornare troppo indietro nel tempo, quelli di ieri non erano gli stessi che avevano dato vita ai girotondi sette anni fa, e nemmeno quelli che avevano riempito il Circo Massimo nel marzo del 2002 con Cofferati, oppure i pacifisti che sempre in quel periodo protestavano a decine di migliaia contro la guerra in Iraq. O meglio, ci saranno stati anche loro all’epoca, o almeno una parte di loro, ma ieri era come se fossero altre persone. Nuove, neonate.
Anche perché i partiti che c’erano (Italia dei Valori, Rifondazione, Sinistra e libertà, qualche verde, sparute bandiere del Pd), con tutto il loro apparato arrivavano dopo, in coda al corteo, ed anche loro sembravano contaminati dal clima nonostante gli sforzi dei loro sbandieratori. Per una volta erano secondari, non certo protagonisti. Così come non c’era la sfilata dei leader, in testa al serpentone, circondati da telecamere e taccuini. Non c’erano e se c’erano camminavano in ordine sparso, quasi sommersi dall’onda. Un collega chiedeva se questa manifestazione potrà segnare l’inizio di una nuova storia della sinistra italiana, se si tratta insomma della premessa per quel ricambio generazionale e culturale da anni evocato e mai avvenuto.
La domanda per ora resta senza risposta, anche perché sappiamo che i frutti delle manifestazioni, quando arrivano, arrivano tempo dopo, con molta calma. Oltretutto chissà se questi ragazzi hanno in testa la politica come missione nella vita o se ci pensano solo come a uno strumento utile quando serve a qualcosa ma non pervasivo di tutto il resto. A vederli sfilare ieri, la seconda ipotesi sembra la più probabile. Dunque, difficile immaginare la nascita di un nuovo partito di sinistra, il partito dei blogger, degli internauti. Semmai, dovrebbero essere i partiti esistenti a capire che qualcosa sta accadendo nel mondo che a loro interessa, tra i loro reali o potenziali elettori. I quali intanto sono giovani, quindi quelli di domani, e chiedono soprattutto di cambiare modo, linguaggio, strumenti e magari anche qualche tema della politica, sia essa di opposizione (come oggi) o di governo (hai visto mai nel futuro). Per farla diventare quantomeno un po’ più moderna e dunque utile.
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 12, 2010, 08:17:12 am » |
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12/3/2010 L'Unione fa la forza RICCARDO BARENGHI
L’immagine che domani pomeriggio ci restituirà il palco di piazza del Popolo sarà una fotografia che parla di politica. Della politica di tutto il centrosinistra italiano, dalle sue correnti più moderate a quelle più radicali. Lo potete chiamare Ulivo, la potete definire Unione, potete ironizzare sulla grande ammucchiata o sul mucchio selvaggio, ma il messaggio che quell’immagine contiene è molto chiaro e in un certo senso anche disperato.
Dopo sedici anni dall’avvento di Berlusconi, al quale si contrappose «la gioiosa macchina da guerra» di Occhetto, la scena si ripete sempre uguale a se stessa, il copione viene rispettato e recitato a memoria dai protagonisti che si alternano sul palcoscenico, più o meno sempre gli stessi, a destra e a sinistra. Così come sempre gli stessi sono coloro che parteciperanno alla manifestazione - qualche anziano in meno, qualche giovane in più - che poi sono i «delegati» degli stessi elettori che dal 1994 votano per la sinistra. Anzi, votano contro Berlusconi.
Se la prima Repubblica è stata definita una democrazia bloccata, vista l’impossibilità per l’opposizione di allora (il Pci) di arrivare al governo, anche la seconda non scherza in quanto a paralisi. E non perché non si siano verificate alternanze di governo, in fondo Berlusconi è stato a Palazzo Chigi otto anni e il centrosinistra sette, ma perché è proprio la dinamica della politica a non essere in grado di muovere il suo stagno, di sparigliare il gioco, di proporre uno spettacolo diverso, magari con qualche idea nuova. Invece niente. La commedia, o se volete la tragedia, si replica all’infinito. E’ colpa di Berlusconi? E’ colpa dei suoi avversari? E’ colpa di entrambi?
Forse non è colpa di nessuno. Nel senso che finché sarà Berlusconi il protagonista del centrodestra italiano, gli altri non potranno che cercare di batterlo nell’unico modo possibile. Nonostante, infatti, abbiano provato diverse volte a esplorare nuove strade per sconfiggerlo, ribaltoni parlamentari, nuove alleanze, idee originali e suggestive tipo la veltroniana «vocazione maggioritaria», alla fine il gioco si riduce sempre allo stesso schema. Solo se si mette tutto insieme, da Rifondazione a Di Pietro, dai Verdi al Pd, da Vendola al popolo viola, dai pacifisti alle associazioni, dai no-global (se ancora esistono), dalla Cgil fino a chiunque si organizza in qualche maniera, in qualsiasi città o paese, circolo culturale, sindacato di base, Cobas, disoccupati organizzati... il centrosinistra può sperare (sperare) di vincere.
Prima obiezione: ma se pure dovessero riuscirci, poi non sarebbero in grado di governare, come hanno già ampiamente dimostrato. Seconda obiezione: ma qui si tratta di puro e semplice antiberlusconismo, uno stato d’animo più che un progetto politico.
La prima obiezione è ovviamente accolta, anche se, chissà, mai dire mai. La seconda invece è respinta per la semplice ragione che se esiste il berlusconismo, che è molto di più di uno stato d’animo, è una filosofia, un’ideologia, una pratica politica e di governo, un modo di pensare e di agire, allora ha diritto di esistere anche il suo opposto. Ossia un’altra filosofia, un’altra ideologia, un’altra pratica politica, un altro modo di pensare e di agire. Dunque, mettiamoci d’accordo: o si aboliscono entrambi, persino dal vocabolario, oppure si lascia a entrambi la loro dignità.
Il problema semmai è che in sedici anni il centrosinistra - al contrario del suo avversario - non è stato capace di tradurre in un progetto coerente e unificante questo suo antiberlusconismo, neanche quando ha vinto le elezioni, tanto meno quando ha governato. Sarebbe inutile ricordare le divisioni, le spaccature, i conflitti anche aspri che hanno reso impossibile la vita dei governi di Prodi, sarebbe invece molto utile se i sei o sette leader che domani pomeriggio saliranno sul palco di piazza del Popolo ci spiegassero cosa intendono fare per evitare che quella fotografia sia solo l’ennesimo scatto di una grande ma sterile ammucchiata.
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Luglio 27, 2010, 09:40:53 am » |
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27/7/2010 Tempeste imperfette RICCARDO BARENGHI C’è quella scritta da Shakespeare ma c’è anche quella in un bicchier d’acqua, poi ci sono quelle vere, che causano danni, morti e feriti, altrimenti dette cicloni, uragani, tornado. Infine esiste quella mediatica, usata e abusata dai nostri politici. In particolare, va detto, da quelli del centrodestra, forse perché hanno la fantasia più fervida o forse perché si trovano più spesso degli altri a fronteggiare guai giudiziari. La tempesta mediatica è così diventata un’espressione di moda. Se un politico, un manager, un amministratore pubblico legge sui giornali che è stato indagato, se si ritrova le sue telefonate (politicamente imbarazzanti per non dire di peggio) nero su bianco, ecco che la sua prima reazione è buttare la palla in corner, la colpa è dei giornali. L’ha fatto Scajola pochi secondi prima di dimettersi da ministro, l’ha fatto Cosentino, prima e dopo aver lasciato l’incarico di sottosegretario, lo ha fatto ieri Verdini contestualmente alle sue dimissioni dalla sua banca e subito prima di presentarsi dai magistrati, l’aveva fatto il governatore Marrazzo: «E’ una bufala». Ma tanti altri, in questi anni di seconda repubblica, hanno dato l’esempio, a destra e a sinistra. A destra il campione delle tempeste, che spesso diventano complotti e che non sono solo mediatiche ma anche giudiziarie e quasi sempre comuniste, è ovviamente Berlusconi. Gli altri l’hanno seguito, imitato, a volte scimmiottato. A sinistra un’accusa così esplicita non si è mai sentita ma non sono mancate le polemiche contro i giornali, le querele, le telefonate furiose dei vari D’Alema (il quale ha ripetutamente ostentato il suo disprezzo per l’informazione scritta), Fassino, Prodi, Di Pietro, Veltroni, nel caso qualcosa sul loro conto (o conti) fosse stato pubblicato. Ora, nessuno qui pensa che noi giornalisti non abbiamo commesso errori, esagerazioni, a volte prendendo anche topiche colossali, sbattendo qualche mostro in prima pagina per poi scoprire che mostro non era. E questo vale anche per i politici ma soprattutto per i poveri disgraziati, magari accusati di reati comuni e poi risultati innocenti. Quelli insomma che non hanno le barche o almeno le scialuppe adatte per salvarsi dalle tempeste. Gli altri invece, gli uomini o le donne che esercitano in qualche forma il potere, hanno tutte le armi in mano per reagire, possono scrivere ai giornali, concedere interviste, dichiarare pubblicamente la loro innocenza. E infatti usano queste armi con una certa frequenza. Ma soprattutto possono, anzi dovrebbero, dimostrare la loro estraneità nelle sedi proprie, ossia quelle giudiziarie. Basti pensare a come si è difeso Andreotti dalle accuse di mafia. La cosiddetta tempesta mediatica è insomma l’effetto di un problema, non la causa, altrimenti detta questione morale. Un effetto spettacolare, non c’è dubbio, che spesso amplifica la causa ma che non potrà mai sostituirsi ad essa. Dunque c’è poco da evocare tempeste, complotti, polveroni e montature, che così facendo si rischia solo di alimentare il sospetto. Altrimenti perché un ministro, un sottosegretario, un coordinatore-banchiere, un governatore (vedi Marrazzo), o un presidente degli Stati uniti (vedi Nixon) avrebbero dovuto dimettersi se si fosse trattato solo di tempeste mediatiche? Già, perché? http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7643&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 25, 2010, 09:11:25 am » |
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22/10/2010 Bersani, assenza strategica al congresso di Vendola RICCARDO BARENGHI L’assenza del segretario del Pd al congresso di fondazione del partito di Vendola, che si apre oggi a Firenze, parla più di qualsiasi discorso su tutto quello che si muove e soprattutto non si muove nel centrosinistra italiano. Dice, quest’assenza, che Pierluigi Bersani, nella sua veste di leader del maggior partito di opposizione, vive una situazione di semiparalisi politica. Non appena fa una mossa, c’è qualcuno che lo critica, lo attacca, gli spara addosso. Così come è avvenuto pochi giorni fa quando è andato a pranzo con lo stesso Vendola. Moderati e cattolici del Pd gli hanno subito fatto notare che con il leader di Sel non si va da nessuna parte, tanto meno si vincono le elezioni e comunque si rischierebbe di una riesumare quell’Unione che non resse più venti mesi: «Dobbiamo guardare al centro e non a sinistra». Dunque Bersani è costretto a fare un passo indietro, a non prendere iniziative politiche che gli creano problemi interni, tanto che non manda neanche la presidente del partito, proprio perché anche la presenza di Rosi Bindi avrebbe avuto un valore troppo impegnativo per il Pd. Meglio ripiegare su Anna Finocchiaro, il cui valore politico non è ovviamente in discussione, ma che non ha incarichi di direzione nel Pd e dunque non fa venire i mal di pancia a nessuno, da Fioroni a Franceschini, da Letta a Follini. Ma c’è anche un’altra ragione, forse ancora più importante, che ha suggerito a Bersani di non farsi vedere a Firenze. Le primarie. Vendola si è candidato ormai da tempo e la sua popolarità, che ha travalicato di parecchio il suo ruolo di governatore pugliese e il suo piccolo partito, incute un certo timore. E’ un avversario di un peso, che magari non vincerebbe la competizione con il leader del Pd qualora le primarie si tenessero sul serio, ma che comunque potrebbe ottenere parecchie centinaia di migliaia di voti, forse anche superare il milione. Voti quasi tutti di elettori dello stesso Partito democratico. Non a caso si parla di un’Opa lanciata da Vendola sul Pd. Meglio allora evitare di dargli quel riconoscimento politico di alleato-competitore, meglio far passare il tempo e sperare che succeda qualcosa in grado di disinnescare la bomba Nichi. Anche perché il Pd non ha ancora scelto con chi allearsi alle prossime elezioni. Forse con Di Pietro, che non a caso diserterà anche lui il congresso di Vendola: tra lui e il governatore non è mai corso buon sangue politico e ideale. O forse con Casini, che sta in finestra a godersi la corte serrata che molti dirigenti democratici gli stanno facendo, a cominciare da D’Alema. Ossia il principale sponsor di Bersani. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7983&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 20, 2011, 04:29:49 pm » |
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20/4/2011
La staffetta tra satrapi
RICCARDO BARENGHI
Esce completamente di scena l’ultimo grande vecchio del comunismo mondiale.
Ottantacinque anni, malato ormai da tempo, al potere da oltre mezzo secolo: Fidel Castro.
Il leader della rivoluzione cubana che insieme all’uomo che ha fatto sognare diverse generazioni di giovani, il guerrigliero più famoso della storia, ossia Enesto Che Guevara, ha prima liberato Cuba dal dittatore Batista, che l’aveva trasformata in una sorta di bordello degli Stati Uniti, per poi, via via, instaurarci un regime comunista sui generis. Dittatoriale come tutti i regimi suoi simili ma anche sostenuto e addirittura amato dai cubani e da milioni di persone che vivono in America latina e che hanno sempre considerato quell’isola nella corrente il simbolo della resistenza agli odiati yankees.
Ma da anni gli stessi cubani non vedevano l’ora di liberarsi del dittatore e del regime e godere di quelle libertà e di quei diritti civili elementari di cui sono stati privati per oltre cinquant’anni, votare, leggere giornali che non siano solo il Granma, la Pravda locale, riunirsi, manifestare liberamente il pensiero, essere omosessuali senza finire in galera.
Ma non è ancora giunto quel momento, malgrado l’addio del vecchio Fidel. Perché adesso il testimone passa a un altro vecchio, il fratello Raul, solo cinque anni di meno e forse, ma proprio forse, qualche apertura mentale in più (l’ultima, l’altro giorno, quella sui capitali stranieri). Ma la foto che pubblichiamo, dimostra come la strada ancora molto lunga: solo nelle satrapie orientali, che col socialismo non hanno nulla a che fare, lo scettro del potere passa da un parente all’altro.
da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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