LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 28, 2007, 09:45:06 am



Titolo: RICCARDO BARENGHI.
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 09:45:06 am
28/10/2007
 
Ma Walter pensa già al dopo
 
RICCARDO BARENGHI

 
L’era Veltroni comincia da Prodi, anzi dalla fine di Prodi. Dalla fine del suo discorso - uno dei discorsi più impegnati del premier - e dalla fine del suo governo, che tutti danno per imminente anche se nessuno sa quando l’evento accadrà. Qui alla Fiera di Milano, il presidente del Consiglio si è infatti giocato le sue ultime (o penultime) cartucce, chiamando a raccolta il Partito democratico che tanto ha voluto, invitandolo, anzi quasi obbligandolo, a sostenere il suo governo «fino a che morte non li separi». Elencando con una certa fermezza tutto quello che il suo esecutivo ha fatto e riducendo i problemi che ha, il fatto che sia sull’orlo del tracollo un giorno sì e l’altro pure, a semplici problemi di ordinaria amministrazione. Insomma, il mio governo esiste grazie a voi e voi esistete grazie al mio governo. Un destino comune.

Non la pensa così il leader del Pd, e alla sua maniera l’ha fatto capire chiaramente. Lui già guarda oltre Prodi e oltre l’attuale governo, al quale ha ovviamente assicurato tutto il sostegno possibile. In molti passaggi dei suoi due discorsi si capiva benissimo che Veltroni ha un progetto ambizioso, a lungo termine. Che non è solo quello di costruire un partito totalmente nuovo (nella sua organizzazione, nei suoi metodi, nella scelta dei dirigenti), ma anche quello di non inchiodarsi alla vita dell’attuale governo. In altre e poche parole, se Prodi cade Veltroni e il Pd non muoiono con lui. Tutt’altro. Se Prodi cade, Veltroni e il suo Pd non solo continueranno a vivere ma probabilmente tenteranno anche di evitare le elezioni anticipate. Tenteranno cioè - e questo il segretario l’ha detto esplicitamente - di riformare la Costituzione, abolire il bicameralismo, ridurre il numero dei parlamentari, cambiare la legge elettorale. Insieme alle forze dell’attuale opposizione. Il che significa, anche se lui non l’ha detto chiaramente - e non poteva farlo con Prodi seduto lì a pochi metri - che se l’esecutivo dovesse non farcela, Veltroni dirà sì a un altro governo, magari istituzionale, magari tecnico, non si sa. Comunque un qualcosa che non porti il Paese alle urne in queste condizioni ma riesca a risistemare il quadro, e poi si vede.

Un discorso analogo a quelli che in queste settimane si sentono fare da diversi leader politici, da Rutelli a Bertinotti, da D’Alema a Casini. E anche da chi in politica non è impegnato direttamente, come il presidente di Confindustria, Luca di Montezemolo. Il quale ieri è entrato con una certa forza - magari anche al di là delle sue intenzioni - in quello che stava accadendo alla Costituente del partito democratico. La bordata che ha riservato «ai governi che non riescono a governare da dodici anni», è suonata più come una polemica contro Prodi che non contro Berlusconi, essendo il primo in carica e l’altro no (e infatti il premier gli ha risposto molto seccato). Ma soprattutto è apparsa come una sorta di investitura per Veltroni: Walter pensaci tu.

E lui ci pensa, eccome se ci pensa. È qui per questo, è qui perché è stato eletto da tre milioni di italiani e intende usare fino in fondo il consenso che ha ottenuto. Vuole sbaraccare la forma partito novecentesca, pensa che sia anacronistica un’organizzazione basata sugli iscritti, vuole un rapporto diretto tra leader e popolo, immagina elezioni primarie su locali e nazionali. Non vuole inchiodarsi alle attuali alleanze ma gli piacerebbe scomporre e ricomporre il quadro politico, vorrebbe una legge elettorale maggioritaria ma capisce che deve mediare su una sorta di modello tedesco all’italiana, spinto in questa direzione dai suoi compagni di partito (D’Alema e Rutelli ma non Prodi), dai suoi attuali alleati della sinistra (Bertinotti) e anche dalle forze più piccole del centrodestra (Casini e Bossi).

Che abbia ragione o torto, non importa. Si potrà discutere se queste sue idee siano giuste o sbagliate, e soprattutto se avranno mai la possibilità di concretizzarsi. Per dirne una sola, un Pd a vocazione maggioritaria, ossia vicino al 40% di elettori, dove andrebbe a prendere i voti: alla sua sinistra è improbabile, alla sua destra è difficile. Dunque, dove? Ma adesso la questione è un’altra, ossia che con Veltroni è cominciato sul serio il dopo-Prodi. Nonostante Prodi.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI.
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2008, 03:16:04 pm
17/1/2008
 
Gli applausi affrettati della casta
 
RICCARDO BARENGHI

 
La notizia che fa più impressione - politicamente parlando - non è l’arresto di Sandra Mastella e di altre 23 persone. E neanche l’indagine a carico del ministro della Giustizia, di cui si è saputo solo nel pomeriggio. È invece la reazione che tutto questo ha suscitato nel mondo politico, a destra, al centro e a sinistra.

L’applauso bipartisan che ha salutato il furioso e anche commosso discorso di Mastella contro la magistratura, gli interventi che si sono succeduti in aula, la preghiera che tutti - a cominciare da Prodi e a finire con Rifondazione, che ha corretto il tiro solo dopo l’intervento di Bertinotti dal Venezuela - hanno rivolto al ministro affinché restasse al suo posto, dimostrano una cosa sola: guai a chi tocca la casta della politica.

La quale si difende senza neanche aspettare qualche ora per capire meglio che cosa stia succedendo, si ribella e spara a zero contro i giudici senza aver letto le carte (dalle quali si spera che arrivino ipotesi di reato più solide della concussione nei confronti di Bassolino).

Senza informarsi. A prescindere. Fa quadrato, si schiera a difesa del suo esponente sotto accusa (peraltro ieri mattina era sotto accusa solo sua moglie), arriva fino al punto di respingere dimissioni indispensabili, anzi doverose, da parte del responsabile della Giustizia.

Eppure chiunque con un minimo di buon senso sa che Mastella non poteva restare al suo posto mentre il suo partito, la sua famiglia e lui direttamente venivano colpiti dalla giustizia stessa, fosse stato ministro dei Beni culturali ancora ancora...

Ma questo semplice buon senso politico non ha minimamente sfiorato i nostri uomini di governo e di maggioranza: un coro di dichiarazioni, un pellegrinaggio di solidarietà, una sequela di telefonate sono arrivate a Mastella. Non stiamo parlando di solidarietà umana, ché quella non si nega a nessuno: bensì di quella politica (e di governo). E se l’opposizione non sorprende, visto che al centrodestra le toghe non sono mai piaciute (mentre dall’altra parte sì), e visto pure che un’occasione del genere per acchiapparsi Mastella e chiudere così l’era Prodi non si presenta tutti giorni, la domanda va rivolta al premier. Perché ha respinto le dimissioni di un suo ministro che evidentemente non può più svolgere serenamente le sue funzioni, se non diventando ostaggio dei magistrati che lo indagano (e viceversa)? E perché tutto il centrosinistra, escluso Di Pietro, ha seguito il suo premier su una strada che rischia di trasformarsi in un vicolo cieco?

La risposta non è solo quella più evidente, appunto la casta che difende se stessa. Qui entra in gioco un altro fattore, ossia la vita del governo. La paura, diciamo pure il terrore, che Mastella approfittasse della contingenza per chiudere la sua avventura con il centrosinistra, ha scatenato una reazione istintiva, primordiale: primum sopravvivere. E allora non importa la morale, l’etica, l’immagine peraltro già logora che si trasmette al Paese e alla propria opinione pubblica. Non importa nemmeno il rispetto della regola elementare che il centrosinistra sbandiera contro Berlusconi solo quando gli fa comodo: il conflitto di interessi. Che in questo caso, al di là di quelle che siano le sue colpe (se ci sono), Mastella incarna in un sol uomo. Importa solo restare dove si sta, ad ogni costo, nonostante tutto e tutti. Sempre meno credibili, sempre più deboli e sempre più esposti al rischio di crollare da un minuto all’altro.

Sarebbe facile dire che se un comportamento del genere l’avesse tenuto il governo Berlusconi, l’opposizione di allora avrebbe occupato il Parlamento, sarebbe scesa in piazza, si sarebbe appellata al Presidente della Repubblica, avrebbe gridato al colpo di Stato. Ma si sa che l’abito fa il monaco, in politica purtroppo non conta la coerenza bensì il ruolo che in quel dato momento si ricopre e il potere che si gestisce. Anche se questo modo di fare può provocare - e probabilmente provocherà - una reazione di disgusto in gran parte degli elettori del centrosinistra. Che oggi hanno tutto il diritto di chiedersi dove si trovi sul serio l’antipolitica: nel Paese o nel Palazzo?

 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. Legge e ordine anche per l'ultrà
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 09:13:55 am
16/5/2008
 
Un punto per Tremonti
 
 
 
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Bisognava aspettare Giulio Tremonti per riuscire ad ascoltare qualcosa di sinistra, o quantomeno di buonsenso progressista da un ministro dell’Economia.

Eppure il centrosinistra ha governato questo Paese per sette anni, e di ministri intelligenti, capaci e anche progressisti ne ha avuti addirittura quattro (Ciampi, Amato, Visco e Padoa-Schioppa). Ma non è mai successo che uno di loro dicesse quel che Tremonti ha avuto il coraggio di dire ancor prima di essere entrato nel pieno delle sue funzioni. Ossia il coraggio di dire che i sacrifici stavolta toccano alle banche, ai petrolieri e ai supermanager che guadagnano cifre da capogiro.

Demagogia, facile populismo, parole al vento alle quali non seguiranno i fatti? Può darsi, magari il neo responsabile dei conti pubblici non riuscirà a fare quel che ha detto, probabilmente le lobby si muoveranno (si stanno già muovendo) con tutte le loro armate per impedire questo «esproprio proletario» ai loro danni. Ma intanto Tremonti l’ha detto, e non è un caso che nel suo mirino siano finiti due settori (banche e petrolieri) tra i più discussi del capitalismo. Quelli che fanno soldi con i soldi (degli altri) o con il bisogno primario di tutti gli italiani di muoversi, produrre e far muovere le merci. E insieme con loro, quei grandi gestori delle imprese che, pur non essendo affatto parassitari, guadagnano cifre poco sostenibili per l’opinione pubblica.

Ci voleva molto per i ministri dell’altro campo dire una cosa analoga, dodici anni fa (entrata nell’euro pagata a caro prezzo da tutti gli italiani), dieci anni fa quando si trattava di consolidare il rientro dal deficit, otto anni fa quando bisognava prepararsi alle elezioni del 2001 (perdute). O due anni fa quando le tasse sono invece state aumentate per tutti (tranne che per le banche e i petrolieri)? Purtroppo sì, ci voleva molto. Ci voleva uno sforzo titanico per vincere la paura della propria ombra.

Pensate a quale putiferio si sarebbe scatenato, alle reazioni violente di tutta l’opposizione (magari anche dello stesso Tremonti), quelle di molti opinion makers che su giornali e televisioni si sarebbero indignati contro il «dirigismo comunista che vuole tarpare le ali al capitalismo dinamico», che non ha il coraggio di tagliare la spesa pubblica, di licenziare i fannulloni, che vuole colpire i ricchi per ragioni ideologiche, e così facendo provoca recessione e deprime i consumi...

Ma oggi nessuno osa prendersela con Tremonti per queste stesse ragioni, certo non lo si può accusare di essere un bolscevico, al massimo un colbertista no global. E allora applausi e apprezzamenti, finalmente qualcuno che ha il coraggio di colpire chi non è mai stato colpito. Ce l’avessero avuto i suoi predecessori di centrosinistra questo stesso coraggio forse oggi, chissà, Berlusconi non avrebbe vinto le elezioni. Perché magari alcuni milioni di elettori che avevano votato per quella parte politica si sarebbero sentiti rappresentati dai loro eletti e forse, chissà, anche una parte di quelli del centrodestra, ché pure loro fanno mutui, pure loro pagano benzina e gasolio sempre più cari, pure molti di loro non amano chi si arricchisce senza sforzo.

Invece niente, poche parole, pochissimi fatti (la lotta all’evasione fiscale ne è forse l’unico esempio), nessuna suggestione ideale, programmatica, alla fine politica. Potevano quantomeno provarci e pure se non ci fossero riusciti sarebbe stato quantomeno apprezzato il tentativo. Macché, troppo attenti a non farsi sparare addosso, spasmodicamente sensibili a qualsiasi refolo provenisse da quei settori del capitalismo che li guardavano con sospetto, tragicamente tremebondi di fronte a ogni articolo di fondo uscisse sui giornali, troppo legati psicologicamente al loro passato per non avere paura che qualcuno glielo ributtasse addosso. Basti ripensare a cosa è accaduto dopo quell’infelice e goliardico manifesto di Rifondazione - «Anche i ricchi piangano» - dentro l’Unione: prese di distanza, critiche impietose, condanne morali: noi non vogliamo far piangere nessuno, per carità, ma far ridere tutti. Invece piansero tutti (tranne le banche e i petrolieri) e tra una lacrima e l’altra votarono per Berlusconi (e per Tremonti).
 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI I politici e l'ebbrezza del volo
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 06:21:50 pm
24/8/2008
 
Il silenzio dei politici
 

 
RICCARDO BARENGHI
 
Quando la politica si assenta, per distrazione o per opportunismo, per interesse o perché è troppo concentrata su se stessa, qualcun altro fa il suo mestiere. Nella storia è successo molte volte. Spesso sono stati i militari a prendere il suo posto.

L’hanno fatto occupando il potere e dando vita a dittature più o meno sanguinose. Altre volte, per esempio quindici anni fa in Italia, sono stati i magistrati a colmare quel vuoto che la politica aveva creato. Altre volte è successo che invece fossero le persone, organizzate in movimenti sociali, a fare il mestiere che avrebbero dovuto fare i loro rappresentanti eletti in parlamento o al governo.

Ma non era mai successo quel che è accaduto ieri. E cioè che i politici, gli uomini di governo venissero sostituiti da tre atleti. Una schermitrice e due canoisti che hanno avuto il coraggio di dire quel che avrebbe dovuto dire il nostro governo. Parole e gesti semplici di solidarietà al Dalai Lama e al popolo tibetano. Semplici ma importanti, pesanti, politicamente rilevanti proprio perché pronunciate in Cina, il Paese che quel popolo perseguita da anni. E infatti i cinesi non hanno per niente gradito l’«ingerenza».

Non ci voleva un grande sforzo da parte di Berlusconi per dire quel che ieri hanno detto i nostri tre atleti, in fondo la questione dei diritti umani, anzi della libertà tout court, dovrebbe essere il patrimonio culturale del nostro premier, tanto che così ha chiamato il suo partito. E allora perché è rimasto in silenzio, perché non ha fatto come i suoi colleghi (anche di fede politica) Bush e Sarkozy che hanno accusato la Cina di violare i diritti umani direttamente da Pechino? La risposta è stata tanto banale quanto disarmante: la politica non deve sovrapporsi allo sport. Peccato che invece lo sport si sia sovrapposto alla politica, lasciando il re nudo di fronte al suo specchio.
 
 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. Legge e ordine anche per l'ultrà
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2008, 03:36:53 pm
2/9/2008
 
Legge e ordine anche per l'ultrà
 
 
 
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Si chiama calcio, o meglio tifo violento, il primo incidente politico e di immagine del governo Berlusconi. Ci aveva abituato male, il nuovo premier, l’emergenza rifiuti risolta in poche settimane, la legge finanziaria approvata in un batter d’occhio, l’Alitalia risolta (risolta?) in tre mesi, il lodo Alfano approvato nonostante le proteste dell’opposizione (proteste peraltro più che timide) e inserito nel decreto sicurezza che manda i soldati per le strade, aggrava lo status dei clandestini e concede più poteri a prefetti e sindaci per «ripulire» le città. Tutti provvedimenti discutibili e che infatti sono stati e sono discussi, ma che senza dubbio hanno dato ai primi cento giorni del nuovo esecutivo quello sprint inusuale nella storia della nostra politica.

Peccato che l’altro ieri questo stesso governo sia scivolato proprio sul tema a lui più caro, quello che è stato il suo atout in campagna elettorale, che gli ha consentito di sconfiggere un centrosinistra accusato di condiscendenza se non di lassismo nei confronti dei criminali o presunti tali. La sicurezza dei cittadini, da difendere contro chiunque la metta in pericolo, siano essi criminali incalliti o immigrati clandestini la cui colpa principale è spesso e volentieri solo quella di essere appunto clandestini.

O nomadi che chiedono l’elemosina e magari rubacchiano pure, bambini rom a cui vanno prese le impronte digitali, spacciatori di droga ma anche ragazzi che fumano spinelli, stupratori ma anche chi commette atti osceni in luogo pubblico. E così ci siamo trovati sindaci più realisti del re che per compiacere il ministro Maroni hanno previsto multe salatissime anche per chi si scambia un bacio in pubblico, cammina per strada in bikini o dà del cibo ai piccioni...

Insomma legge e ordine, pugno di ferro, tolleranza zero. E’ una linea politica molto chiara, si può condividere o no ma comunque è una scelta che può anche dare i suoi risultati. Certamente popolare, nonostante i prezzi molto elevati che implica dal punto di vista del diritto, delle garanzie per gli accusati e della vita sociale. Nella nostra epoca, la paura - o il fantasma della paura agitato ad hoc - paga, produce consenso, rafforza chi garantisce o quantomeno promette sicurezza. Ma allora va applicata a tutti, tifosi compresi. Invece abbiamo assistito a uno spettacolo che nessuno avrebbe voluto vedere e che il governo - qualsiasi governo ma soprattutto questo - avrebbe dovuto impedire che andasse in scena. Millecinquecento ultras scatenati che occupano un treno, costringono i passeggeri a scendere, saccheggiano, devastano, minacciano. E alla fine vengono pure scortati allo stadio per assistere al secondo tempo della partita.

Il giorno dopo, cioè ieri, è stato ovviamente il giorno della condanna e dello sdegno, delle promesse che «mai più accadrà», del «basta con le trasferte delle tifoserie violente» e così via. Già viste, già sentite, ripetute come un disco rotto da qualsiasi governo si sia succeduto negli ultimi vent’anni. Poi però non cambia nulla, le violenze da stadio o da treno o da autogrill si susseguono campionato dopo campionato, domenica dopo domenica. Chissà perché? Forse perché i tifosi, anche quelli violenti, soprattutto quelli violenti, sono organizzati, sono protetti dalle società di calcio, sono quelli che seguono e sostengono la squadra ovunque giochi, quelli che se si mettono di traverso possono costringere un presidente a licenziare un allenatore, a vendere un giocatore, a cambiare i suoi piani aziendali, possono obbligare un arbitro a sospendere una partita (il derby Roma-Lazio del 2004). Sono insomma un pezzo di quel potere forte denominato calcio.

Scusate la demagogia, ma è troppo facile fare i forti con i deboli, appunto i clandestini, i nomadi, i ragazzini che fumano hashish. E i deboli con i forti: che in Italia non sono solo gli ultras e quel grande business parasportivo che li protegge, ma anche i grandi evasori fiscali, i finanzieri che detengono enormi patrimoni sui quali pagano tasse bassissime, i costruttori e gli industriali che non rispettano le norme di sicurezza (sicurezza appunto) provocando la morte di tre o quattro operai al giorno. E che all’estero si chiamano Usa, Cina e Russia: qualcuno ha mai sentito Berlusconi protestare con Washington per la pena di morte, con Pechino per i diritti umani calpestati, con Mosca per il suo smisurato espansionismo militare?
 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI I politici e l'ebbrezza del volo
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2008, 12:04:31 pm
4/9/2008
 
I politici e l'ebbrezza del volo
 
 
 
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Esiste la destra, esiste la sinistra? Esistono gli imprenditori di sinistra, i governatori di sinistra, i sindaci di destra? Esisterebbero, sono esistiti o forse hanno fatto finta di esistere. Ma da quando Berlusconi è riuscito a mettere in pista la sua nuova Alitalia, non esistono più. Il nuovo presidente della compagnia l’ha spiegato con chiarezza nei giorni scorsi: gli affari non sono né di destra né di sinistra, e io faccio affari, faccio l’imprenditore, dunque o cambio mestiere oppure entro in gioco.

Dopo di che, Colaninno continuerà pure a votare per il Pd, forse, chissà, ma questo non significa nulla. Così come non significa nulla che il governatore del Lazio, Piero Marrazzo, sia un uomo del Partito democratico: lui comunque annuncia che vuole entrare nell’affare, metterci dei soldi, acquistare delle azioni (nonostante la sua Regione abbia un deficit enorme e debba chiudere tre ospedali). E se Veltroni giudica molto negativamente tutta questa storia, definendola una compagnia di bandierina, poco importa: Marrazzo vuole metterci anche la sua, di bandierina.

Dalla parte opposta, invece, il sindaco di Milano, Letizia Moratti, considera la sua bandierina troppo piccola. E in un’intervista al nostro giornale spiega perché. Non le interessa se l’operazione sia stata decisa dal suo governo, dal suo partito, dal suo premier: le interessa salvaguardare i suoi aeroporti, Malpensa in particolare, che subirebbero una penalizzazione a beneficio del concorrente Fiumicino (vedi Marrazzo). E se Berlusconi considera invece un grande colpo politico, economico e di immagine tutta l’operazione, la resurrezione dell’Alitalia come metafora della resurrezione del Paese, poco importa: gli interessi di Milano vengono prima di tutto il resto.

Qui non siamo nella sfera dei collaborazionisti politici, quelli che per ragioni appunto politiche, quando ci sono, oppure, più spesso, per motivi che riguardano il loro ruolo, la loro visibilità, il bisogno impellente di non uscire di scena (Giuliano Amato è l’ultimo caso) passano da una parte all’altra senza soluzione di continuità. Il discorso Alitalia è diverso, e più interessante. Perché illumina quella che si chiama crisi della politica, incapace non solo di rispondere alle domande di chi le chiede risposte – i normali cittadini - ma anche di tenere assieme la sua opinione pubblica. La sua classe dirigente.

Se Colaninno pensasse a se stesso non solo come a un imprenditore ma anche come un pezzo di classe dirigente del centrosinistra, non avrebbe accettato l’offerta di Berlusconi: a costo di perdere un’occasione d’affari. E lo stesso discorso vale per Marrazzo e per Moratti. Ma la colpa in fondo non è loro, e non è neanche dei soldi che fanno girare il mondo. Non importa più a nessuno ormai che quell’affare, quella operazione economica, quel business abbia l’impronta di Berlusconi o di Veltroni, importa che sia efficace, che generi profitti, produca potere e, nel migliore dei casi, posti di lavoro, cioè un consenso per essere rieletti, cioè ancora potere, ancora affari, ancora profitti...

Non stiamo parlando di etica del capitalismo, Dio ce ne guardi, ma di quello che una volta era la politica e che adesso non è più. E se c’è dorme. Perché se basta l’Alitalia a scompaginare gli schieramenti, significa che questi schieramenti non hanno più nulla che li tenga insieme. Idee comuni, valori, una volta si sarebbe detto ideologie, chiamiamole visioni del mondo. Niente, tutto finito, scomparso. Anzi meglio: volato via.
 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. La sinistra dissidente s’inventa le primarie delle idee...
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2008, 11:04:49 pm
12/12/2008 (21:0) - UN'INIZIATIVA PER RILANCIARE L'OPPOSIZIONE

La sinistra dissidente adesso s’inventa le primarie delle idee
 
«Così gli elettori possono esprimere i loro desideri»


RICCARDO BARENGHI
ROMA


Compagni si vota. Ma non su un leader, un candidato, un sindaco, un partito, un governo. Si vota su cosa debba essere la sinistra. «Per me la sinistra è...». Questa la domanda che apre l’inedita stagione delle primarie delle idee, che verrà lanciata domani dall’Associazione per la sinistra al teatro Ambra Jovinelli di Roma. I militanti, gli iscritti, gli elettori, chiunque potrà decidere se per lui la sinistra è «speranza di trasformazione» oppure «lacità» oppure deve «mettere al centro lavoratrici e lavoratori» oppure «prendersi cura dell’abitare» oppure «praticare il principio di uguaglianza» oppure «essere amica delle famiglie come luogo di relazione e affetti» (e qui voterebbe sì anche Casini). Fino alla lettera Z del questionario che viene lasciata in bianco per un pensierino libero: «Scrivi tu qui l’idea che non hai trovato nella scheda».

Naturalmente una risposta non esclude l’altra, si tratta di metterle in ordine di importanza. E magari anche di aggiungerne qualcuna leggermente meno banale, che qui sembra di tornare al Catalano dei tempi di Renzo Arbore: «E’ meglio un giornata di sole che una di pioggia...». L’idea comunque è originale, nessuno infatti l’aveva mai avuta. Invece stavolta la minoranza di Rifondazione che fa capo a Nichi Vendola (e a Bertinotti, Giordano, Migliore), insieme alla Sinistra democratica di Fava e Mussi, a una parte dei Verdi (spaccati anche loro), ha deciso di buttarsi in questa nuova avventura. Si voterà fino a febbraio, nelle speranze dei promotori dovrebbe uscirne fuori l’identikit di una nuova sinistra, un nuovo partito insomma, senza l’aggettivo comunista, la falce e il martello (ma una domanda su questo non c’è...). E che loro stessi vorrebbero far nascere.

Ma non subito, non domani, anche se l’appuntamento è di quelli che segnano un punto di non ritorno soprattutto per coloro che sono ancora dentro il Prc. I quali ormai da mesi stanno giocando una partita su due tavoli: restano nel Partito di Paolo Ferrero e contemporaneamente si muovono come se ne fossero fuori, con l’esplicita intenzione di fondarne un altro insieme appunto agli altri pezzi sparsi della sinistra radicale uscita frantumata dalle elezioni. E questa idea delle primarie tematiche non è altro che un’accelerazione verso quella scissione che prima o poi dovrebbe avverarsi. Difficile però che avvenga prima delle elezioni europee, visto che lo stesso Bertinotti ha avvertito i suoi: «E se poi noi prendiamo la metà dei voti di Rifondazione, che facciamo, moriamo prima di nascere? Meglio - ha aggiunto ieri – un cartello elettorale di tutte le sinistre».

Il nuovo soggetto, come lo chiamano, può attendere. Dunque le due anime del Prc saranno ancora condannate a convivere, seppur odiandosi a viso aperto. Tanto che i dirigenti della minoranza non hanno neanche più una stanza dove lavorare, l’ex leader Franco Giordano è costretto a bivaccare nei corridoi. A meno che non succeda che al Comitato politico di domani e domenica non venga approvato un ordine del giorno in cui si intima al quotidiano «Liberazione» di adeguare la sua linea a quella del Partito. La cosa è molto probabile, lo stesso Ferrero l’ha annunciata. E ha anche dichiarato che non è più tollerabile che il suo giornale si occupi di Luxuria all’Isola dei famosi e non dei suoi incontri con il leader della sinistra tedesca Oskar Lafontaine.

Ma un tale ordine del giorno preluderebbe al siluramento del direttore Piero Sansonetti, il quale non ci pensa neanche lontanamente a ubbidire al segretario: «La linea del giornale la fa il direttore, dunque se la volete cambiare, cambiate il direttore». E a quel punto la minoranza di Vendola farebbe una battaglia all’ultimo sangue per difenderlo, anche minacciando di andarsene seduta stante. Ma Ferrero non si preoccupa più di tanto e sta già cercando il sostituto di Sansonetti, la sua idea è di trasformare «Liberazione» in una sorta di «Libero» di sinistra: «Un giornale popolare che si occupi dei problemi sociali della gente, il carovita, la crisi, i salari, la sanità...». Il nuovo direttore dovrebbe essere un esterno al partito, un giornalista di sinistra ma un outsider. Qualche contatto l’ha già avuto in giro, anche con persone del «manifesto», ma finora il nome non c’è (e se c’è non lo rivelano). Nel frattempo, mentre quel che resta di Rifondazione si agita e si dilania, l’ultimo sondaggio gli attribuisce il 2,2 per cento.
 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI Elogio di Fini
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2008, 11:55:29 am
21/12/2008
 
Elogio di Fini
 
RICCARDO BARENGHI
 

C’è un leader di sinistra nel centrodestra e si chiama Gianfranco Fini. Può apparire un paradosso ma non lo è se diamo al concetto di sinistra un senso più ampio di quello storicamente determinato. Non è di sinistra, Fini, se pensiamo a Carlo Marx e a tutte le evoluzioni e le applicazioni che il suo pensiero ha avuto nel corso del secolo scorso. Non lo è se pensiamo al modello di produzione, al superamento del capitalismo (che lui non ha alcuna intenzione di superare). Non lo è se ragioniamo sulla rivoluzione proletaria e lo scontro di classe. E non lo è, né potrebbe esserlo, per altre mille ragioni.

Ma lo è invece quando discutiamo di alcune delle questioni che sono oggi all’ordine del giorno del nostro dibattito: politico, storico e culturale. Valori e idee che servono (o servirebbero) a modernizzare il nostro Paese. Quando il Presidente della Camera sottolinea le responsabilità del Vaticano nel non essersi opposto adeguatamente alle leggi razziali, varate dal regime che fu idealmente suo, fa un doppio strappo: con la sua storia e con l’ideologia del suo schieramento per cui guai a chi tocca la Chiesa cattolica (la quale non a caso si è inviperita). Quando propone e ripropone il voto agli immigrati, l’ultima volta ieri per gli studenti stranieri, fa un altro doppio strappo: con la sua cultura d’origine e con quella dominante (soprattutto a destra ma non solo) che giudica queste persone come un utile usa-e-getta. E quando interviene sul caso di Eluana Englaro, auspicando una legge sul testamento biologico, compie un terzo doppio strappo: con i dirigenti e gli elettori del suo ex Partito (non tutti, si spera) e con quelli della maggioranza e del governo (anche qui non tutti), insomma con il senso o luogo comune che governa il centrodestra. E, ovviamente, scontentando di nuovo il Vaticano.

Altri esempi si potrebbero aggiungere, come il suo intervento sulla riforma della giustizia che deve essere bipartisan, quello sul caso Villari che deve essere risolto con le buone o con le cattive, quello sulla questione morale che attanaglia il Pd: «Sbaglia chi pensa di salvarsi mentre altri naufragano». Sono gesti importanti anche questi ma in fondo riconducibili al suo ruolo istituzionale. Gli altri invece danno l’idea di un personaggio che nel corso degli anni ha seriamente riflettuto sul suo passato, prendendone vieppiù le distanze. Con qualche uscita politico-mediatica che ha fatto notizia, il fascismo male assoluto, le visite al Museo della Shoah di Gerusalemme e ad Auschwitz, ma soprattutto dando l’impressione di un uomo che si preoccupa dei problemi futuri cercando di affrontarli liberandosi dal peso della sua storia, della cultura, dell’ideologia, dei valori, insomma di tutto quello che rappresenta la formazione di un uomo politico. Con laicità insomma, nel metodo e nel merito.

Certo, uno può chiedersi quanta buona fede ci sia in questa sua evoluzione, se lo faccia perché ci crede sul serio o solo per ritagliarsi un ruolo politico, oggi nel dialogo con l’opposizione e domani quando si porrà il problema di sostituire Berlusconi. Si può anche ricordare che spesso e volentieri, quando poi il premier lo ha richiamato all’ordine, Fini si è adeguato. Ma in politica le cose marciano e cambiano anche attraverso stop and go. Un passo indietro per farne due avanti: non lo disse proprio Lenin?

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI Hamas, dilemma italiano
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2008, 12:15:24 pm
31/12/2008
 
Hamas, dilemma italiano
 
RICCARDO BARENGHI
 

Se fossi un ebreo che vive a Gerusalemme non so se tratterei con Hamas, e se fossi un palestinese che vive a Gaza non so se tratterei con Israele. Forse, se fossi l’uno farei la guerra all’altro, e viceversa. Anche sapendo che quella guerra non porterebbe a nulla, anzi peggio: porterebbe, come ha portato finora e continuerà a portare nel futuro, ad altre guerre, morti, feriti, distruzioni, odio su odio. E però, neanche i periodi di pace, o meglio di tregua che si sono succeduti in questi decenni hanno mai portato a una soluzione definitiva, decente, concordata, accettabile per tutti. C’è sempre stato qualcuno, da una parte o dall’altra, che ha ricominciato a sparare, ad ammazzare ammazzandosi, a bombardare postazioni militari e case di civili. E così via, in un circolo infernale dal quale non s’è mai usciti nonostante i tentativi di alcuni leader (Rabin e Arafat) di farla finita con la guerra infinita. E allora, che fare?

Facile parlare da lontano, schierarsi, criticare quello o quell’altro, invocare il cessate il fuoco. Facile, e sacrosanto, sostenere che Israele ha diritto a vivere in pace senza subire una minaccia perenne che gli pende sulla testa dall’interno dei Territori palestinesi e dai Paesi arabi che lo circondano. Facile, e sacrosanto, battersi perché i palestinesi abbiano la loro terra dove possano circolare liberamente, lavorare, insomma vivere senza oppressioni militari. Facile ma inutile finché non saranno i protagonisti dello scontro a decidere se vogliono continuare all’infinito a scannarsi oppure tentare un’altra strada.

E qui nasce la questione che in queste ore fa discutere il mondo: trattare o non trattare con Hamas. In altre parole: Israele deve accettare che Hamas sia anche un interlocutore politico oppure è solo un nemico da abbattere con la forza, costi quel che costi? Il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, propende per la seconda ipotesi, seppur invocando la cessazione dei raid. Secondo lui, Hamas è un’organizzazione terroristica, quindi nessuna trattativa. Diversa l’opinione del suo predecessore, Massimo D’Alema, il quale ricorda che Hamas ha vinto le elezioni, che gode di consenso tra i palestinesi, che è un’organizzazione non solo militare ma anche sociale. Di conseguenza, «non ci si può illudere di arrivare a una pace senza negoziare con Hamas». (Analogo discorso fece in Libano, e la sua foto a braccetto col ministro Hezbollah in mezzo alle macerie provocò parecchie polemiche).

Si tratta di un problema che il mondo politico ha dovuto affrontare decine, centinaia di volte dall’antichità ai giorni nostri. Dando naturalmente risposte diverse caso per caso, perché è ovvio che se uno dei due contendenti ha la certezza di sconfiggere militarmente il nemico, procede su quella strada. E alla fine, dopo averlo battuto, lo costringe ad arrendersi. Giulio Cesare lo fece con i Galli, gli alleati lo fecero con Hitler e Mussolini, gli algerini con i francesi, i vietnamiti con gli americani. Può essere una soluzione, lo è stata nel passato.

Ma non può esserlo oggi. Per la semplice ragione che nessuno può cacciare via il nemico, perché il nemico non è questo o quel governo, questo o quel dittatore, non è un esercito invasore che si può costringere al ritiro. Ma è un popolo, anzi due, che vivono uno accanto all’altro, sullo stesso territorio, nel medesimo Paese. E nessun cittadino ebreo accetterà mai di vivere una vita nel terrore, come nessun palestinese accetterà mai di vivere sotto un’umiliazione perenne. E più sono umiliati, bombardati, uccisi, più i palestinesi diventano integralisti, terroristi, cattivi. Hamas non è uno scherzo del destino, una coincidenza, un fungo spuntato per caso. È il prodotto di una storia provocata da entrambi i nemici. Nessuno è così stupido da sostenere che la colpa sia solo di Israele, degli americani o di tutto l’Occidente. La colpa è anche di quei palestinesi che si sono arresi all’odio, quindi all’integralismo e infine al terrorismo. E che si sono via via moltiplicati, per dieci, cento, mille. Ma oramai è evidente che per ogni miliziano, dirigente, capo militare o semplice simpatizzante di Hamas ucciso (per non parlare dei civili) ce n’è un altro o due o tre pronti a prendere il suo posto. Questo è il circolo mostruoso che si può spezzare forse - forse - solo trattando col nemico: vent’anni fa si chiamava Arafat, oggi si chiama Hamas.
 
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Titolo: RICCARDO BARENGHI La strategia del Dalemone
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 10:56:59 am
18/2/2009 (7:15) - ANALISI

Il partito riformista mai stato riformista

Gli errori del capo, ma anche troppe idee inconciliabili

RICCARDO BARENGHI
ROMA


Il fallimento di Walter Veltroni come leader del Partito democratico non può essere spiegato solo con i suoi limiti personali e politici, che pure non sono mancati. Sarebbe miope se i dirigenti del Pd pensassero che morto un Papa se ne fa un altro e così la nave va a gonfie vele. Non è così perché il fallimento non si chiama Veltroni ma appunto Partito democratico. Quel Partito di cui il leader dimissionario è stato l’interprete più fedele, e che non poteva essere molto diverso da quello che è stato e che, infatti, Veltroni ha perfettamente incarnato. Un Partito sarebbe una associazione di persone che hanno più o meno le stesse idee sul mondo, e questo il Pd non lo è mai diventato. Perché quelli che lo dirigono, quelli che lo sostengono e quelli che lo votano hanno opinioni molto diverse, spesso anche opposte, su ogni singola questione. Dall’economia al lavoro, dalla giustizia alla bioetica, dalle alleanze fino al tipo di opposizione da fare. Negli scorsi anni, e ancora oggi, ci hanno spiegato che il Pd è nato per unire i riformisti, quindi che si tratta del più grande Partito riformista presente in Europa, un esperimento unico nel suo genere che mette insieme le due grandi culture uscite dal Novecento. Peccato però che queste due grandi culture (insieme alle mille culturine che si sono manifestate via via) abbiano dimostrato la loro incapacità di stare insieme. Un tempo i riformisti si contrapponevano ai rivoluzionari, loro sostenevano un cambiamento graduale e progressivo della società, gli altri la presa del Palazzo d’Inverno, un atto violento che rovesciasse il regime. Ma i rivoluzionari si sono estinti da tempo, mentre i riformisti continuano a chiamarsi così rivendicando un concetto che però suona vuoto, tanto vuoto che ognuno è libero di interpretarlo a modo suo.

E’ più riformista stare con la Cgil che sciopera o con la Cisl che firma il contratto di Berlusconi? E’ più riformista una legge sul testamento biologico come la vuole Ignazio Marino o come la vogliono Rutelli e la Binetti? Chi è il vero riformista, quello che sta con Di Pietro, quello che sta con Casini o quello che riscopre Bertinotti? E in Europa, con quali riformisti finiranno i riformisti del Pd, con i socialisti, con qualcun altro o da soli? La storia del Pd, per quanto breve, è stracolma di esempi che dimostrano come la scelta (che della politica è l’essenza) sia diventata una non scelta. Il famoso «ma anche» di Veltroni non è un suo vezzo ma esattamente una linea: stiamo con gli operai ma anche con i padroni, vogliamo il dialogo con Berlusconi ma anche salvare l’Italia da Berlusconi, siamo alleati di Di Pietro ma anche contro di lui, stiamo con i magistrati ma anche contro di loro, vogliamo costruire il partito del nord ma anche quello del sud... La colpa di tutto questo non è solo dell’ex segretario. Certo, lui ci ha messo la sua natura, il suo essere buonista, diciamo anche troppo ecumenico, amplificando a dismisura questa tendenza a tenere insieme tutto e il contrario di tutto. Ma oggi che lui lascia, sarebbe forse il caso di riflettere su quello che resta.

E, soprattutto, se conviene farlo restare. In poche e brutali parole: non sarebbe meglio che le due grandi culture presenti nel Pd, quella laica e socialista da un lato e quella cattolico-democratica dall’altro, si separassero per poi allearsi quando serve, le elezioni politiche e l’eventuale governo del Paese? Dicono di no, dicono che non si può tornare a Ds e Margherita, che sarebbe un fallimento epocale, D’Alema e Veltroni hanno definito quest’ipotesi una «fesseria». Una fesseria di cui però si parla ormai da molti mesi e che quindi tanto fessa non deve essere.

E infatti non lo è. Soprattutto guardando il bilancio di questo Partito che doveva essere la grande novità politica del nostro Paese e che invece si è rivelato molto al di sotto della sua scommessa. E non perché l’idea non fosse suggestiva ma proprio perché la pratica non ha funzionato, le idee non si sono accordate, le ambizioni personali hanno prevalso, le incapacità di direzione sono risultate evidenti e l’impossibilità di scegliere è stata la bussola che ha «guidato» il Pd. Forse, chissà, due barche più piccole invece di una grande ma sgangherata, due equipaggi coesi invece di una ciurma ingovernabile, due timonieri che sanno navigare e che magari riescono anche a raccogliere qualche naufrago alla deriva, potrebbero anche riportare il centrosinistra italiano in porto. Ovviamente dopo una lunga e burrascosa traversata.

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Titolo: Veltroni e il Pd: 16 mesi di leadership
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 10:57:47 am
17/2/2009 (17:51) - DEMOCRATICI NEL CAOS

Veltroni e il Pd: 16 mesi di leadership

Il segretario lascia dopo 5 sconfitte

ROMA

Alla fine Walter Veltroni ha lasciato la guida del Pd, dopo sedici mesi al timone della formazione politica erede dell’esperienza ulivista, che poco meno di due anni fa era stata battezzata come la novità più rilevante nel panorama politico italiano.

Un addio ai vertici del Pd che ha avuto come causa scatenante la secca sconfitta patita dal candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Sardegna Renato Soru che pure con le sue dimissioni nel novembre dello scorso anno aveva creato non pochi problemi allo stesso centrosinistra, poi ricompattatosi per necessità sul nome dell’ex Governatore sardo.

Walter Veltroni, 54 anni, era stato eletto segretario del Partito democratico il 14 ottobre 2007, raccogliendo il 76 per cento dei consensi nelle primarie del partito. Dopo la caduta del secondo governo Prodi è diventato il candidato premier della coalizione Pd-Italia dei valori alle politiche dell’aprile 2008, dove è stato sconfitto da Silvio Berlusconi. In precedenza era stato eletto per due volte sindaco di Roma, la prima volta nel 2001 e poi nel 2006. Nel febbraio del 2008 si era dimesso dal Campidoglio per candidarsi alle elezioni politiche. Veltroni era stato anche segretario dei Democratici di sinistra dall’ottobre 1998 all’aprile 2001, vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali del primo governo Prodi.

Dopo la sconfitta elettorale alle ultime politiche Veltroni aveva varato il governo ombra del Pd, sul modello anglosassone dello "shadow cabinet". Giornalista, nel 1992 venne nominato direttore de L’Unità, incarico che tiene fino al 1996. Figlio del giornalista e dirigente Rai Vittorio, Walter Veltroni comincia la sua carriera politica nella Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI). Nel 1976 è eletto consigliere comunale di Roma nelle liste del PCI, incarico che mantiene per cinque anni. Nel 1987 viene eletto deputato ed entra in Parlamento. Dal 1988 fa parte del comitato centrale del PCI. Il cinema ha sempre avuto un ruolo importante per Walter Veltroni, che ha voluto la Festa Internazionale del Cinema di Roma, la cui prima edizione si è svolta nell’ottobre del 2006.

La leadership di Veltroni non ha portato fortuna nè al Pd nè al centrosinistra. L’annus horribilis ha fatto registrare per il Pd di Veltroni 5 sconfitte su 5 tornate elettorali. Ad aprile 2008 la sconfitta alle politiche: Pdl e Lega ottengono la maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera sia al Senato. Sempre nell’aprile 2008 le elezioni regionali e amministrative danno la vittoria al centrodestra che strappa al centrosinistra la regione Friuli Venezia Giulia, la provincia di Foggia ed i comuni di Roma e Brescia (il centrosinistra strappa al centrodestra solo i comuni di Vicenza e Sondrio). Nel giugno 2008 il centrodestra fa cappotto (8 a 0) alle provinciali siciliane (le province di Enna, Siracusa e Caltanissetta passano dal centrosinistra al centrodestra). Nel dicembre 2008 la regione Abruzzo cambia colore politico: dalla Presidenza del Turco si passa ad una Presidenza Pdl. Infine ieri il risultato della Sardegna: Soru perde la Presidenza della regione a favore di Cappellacci.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI La strategia del Dalemone
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2009, 10:46:04 am
28/2/2009
 
La strategia del Dalemone

 
RICCARDO BARENGHI
 

Il progetto ce l’hanno ben chiaro in testa. I protagonisti sono gli ex diessini del Partito democratico, in particolare D’Alema e quelli a lui più vicini. E il Piano che hanno studiato a tavolino, una volta si sarebbe chiamato un «dalemone», si svilupperà nei prossimi sette-otto mesi. Che poi vada in porto, è tutt’altro discorso: i dalemoni, come si è visto nel passato, erano tanto perfetti in teoria quanto fallimentari in pratica.

In ogni caso il Piano prevede che al momento si stia tutti intorno a Franceschini, lasciandogli anche una certa autonomia di iniziativa, non mettendogli i bastoni tra le ruote, non comportandosi come si è fatto con Veltroni che qualsiasi cosa dicesse o facesse non andava bene. Non a caso ieri D’Alema ha dichiarato che il Pd «sta facendo ottimamente il suo lavoro», una frase che con Veltroni non si era neanche sognato di dire. Ma ora il discorso è diverso, e anche quando Franceschini dice cose non condivisibili o si lascia trascinare dal «ma anche» come ha fatto recentemente sul testamento biologico e sulla legge antisciopero, nessun problema. Si fa finta di essere d’accordo ché adesso non è il momento di riaprire battaglie interne. Il segretario deve arrivare con una certa tranquillità alle prossime sfide elettorali, e tutti cercheranno di collaborare, di fare il possibile perché il risultato non sia troppo negativo, insomma siamo sulla stessa barca e cerchiamo di non farla affondare.

Ma tutti sanno che le elezioni andranno male, lo stesso Piero Fassino, durante l’Assemblea costituente di sabato scorso, ci spiegava che «a me le europee preoccupano meno delle amministrative, dove noi partiamo altissimi, su 5000 comuni ne governiamo 3800... è evidente che ne perderemo moltissimi e dunque la sconfitta sarà sotto gli occhi di tutti. Basterà confrontare le tabelle». È una delle ragioni per cui non era questo il momento adatto per prendersi la guida del Pd. L’altra, spiega sempre Fassino, «perché era giusto che adesso toccasse a un leader con un’altra cultura e un’altra storia politica. Poi in autunno, al congresso, il discorso può cambiare...».

Tradotto in poche e ciniche parole, significa che Franceschini ballerà una sola estate, caricandosi sulle spalle il probabile tracollo elettorale, per poi passare la mano. Ovviamente lui non è un ingenuo, conosce la politica e pure i suoi polli, dunque è perfettamente consapevole del gioco che si sta facendo. E ne è anche partecipe, preparando un suo futuro da ex segretario ma con un ruolo importante nel Partito.

Succederà allora, o almeno dovrebbe succedere secondo il dalemone, che dopo il risultato elettorale il Pd entrerà in una fortissima fibrillazione, magari qualcuno (Rutelli, la Binetti, altri) se ne andrà fondando con Casini una nuova forza di centro che guarda a sinistra (per ora), liberando così il campo del Pd da zavorre troppo moderate. Ci sarà la festa del partito, le interviste sui giornali, il lavorio nelle periferie - peraltro già cominciato - per preparare la riscossa degli ex comunisti. I quali, com’è noto, rappresentano almeno i due terzi del Partito democratico, dunque hanno tutti i numeri in regola per poterne rivendicare la leadership, la linea politica, la gestione. E così faranno, o almeno vorrebbero fare, vincendo il congresso, candidando uno di loro alle primarie, forse Bersani, forse Anna Finocchiaro, forse Cuperlo, e risolvendo in questo modo quell’«amalgama mal riuscito» che è stato finora il Pd secondo la definizione dello stesso D’Alema. Ne uscirebbe fuori un partito più spostato a sinistra, che rimette al centro i suoi 150 anni di storia (come ripete Bersani), che insomma diventerebbe nei fatti una forza socialdemocratica europea. Ma senza chiamarsi così, e senza neanche esserlo fino in fondo, ché altrimenti quegli ex dc che non andrebbero mai con Casini (Rosi Bindi, Marini, lo stesso Franceschini) non potrebbero neanche rimanere nel Pd.

Dunque un nuovo-vecchio partito che metterebbe nel conto la perdita di una sua parte, anche elettorale, quella appunto più moderata, scommettendo però sul recupero di quel popolo di sinistra che si aggira sbandato per il paese e cerca una casa abitabile. È insomma il classico passo indietro oggi per farne due avanti domani, come scrisse Lenin che infatti poi fece la rivoluzione. Resta da vedere se sia D’Alema il nostro Lenin.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI Sebben che sian romeni
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2009, 05:15:21 pm
3/3/2009
 
Sebben che sian romeni
 
RICCARDO BARENGHI
 
Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli - e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro - la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario.

Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante.

Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più «segnalati» dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista.

E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase «quello ha la faccia da romeno» (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, «Faccia da turco»?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti - noi che facciamo informazione - a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. Tre giorni un processo
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 03:06:03 pm
20/3/2009
 
Tre giorni un processo
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Abituati ai processi italiani, interminabili, farraginosi, ai loro riti, alle udienze che si susseguono per anni, ai rinvii da un mese all’altro per qualsiasi ragione o pretesto o futile eccezione della difesa, o magari perché il giudice di turno non ha molta voglia di lavorare, si resta colpiti da quello che è successo in Austria. In tre giorni di dibattimento (preceduti però da un anno di istruttoria) si è arrivati alla sentenza di ergastolo per l’imputato, padre carnefice e infanticida.

Non solo, si resta colpiti anche dalla civiltà con cui i mass media hanno seguito il processo. Nessun giornale, nessuna televisione, nessun sito Internet, nessun mezzo di comunicazione si è insomma lasciato prendere dal gusto del particolare macabro, neanche un piccolo brano del video di accusa della vittima è uscito dalle aule giudiziarie per essere sbattuto su qualche schermo e magari sezionato e «commentato» dagli invitati d’occasione, psicologi, politici, giornalisti. E questo non solo grazie alla deontologia professionale dimostrata dai nostri colleghi austriaci, ma anche grazie al fatto che nessun giudice o avvocato o cancelliere abbia «passato» alla stampa le informazioni che dovevano restare riservate e che tali sono rimaste. E questo è indubbiamente un esempio di civiltà dell’informazione.

Ma è un giusto processo quello che si conclude in tre giorni? Anche se l’imputato ha confessato, malgrado la schiacciante testimonianza della figlia, nonostante insomma l’evidenza dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio, è questo l’esempio che si dovrebbe seguire? In altre parole, hanno fatto bene gli avvocati difensori a rinunciare al loro mestiere, visto che il loro assistito era inchiodato da prove schiaccianti e dalla sua stessa confessione? Oppure avrebbero comunque dovuto difenderlo sollevando eccezioni, chiedendo perizie su perizie, insomma allungando i tempi e fornendo quanto più materiale possibile nella speranza di ottenere almeno uno sconto di pena?

È una domanda che chiama in causa il rispetto delle garanzie e dei diritti degli imputati, anche rei confessi. Anzi, di più: chiama in causa la stessa concezione del processo e del ruolo della difesa.

È evidente che un processo troppo lungo, come la stragrande maggioranza di quelli che si svolgono in Italia, rischia spesso di essere un processo ingiusto perché alla fine la stessa condanna può essere superata dalla prescrizione o comunque annacquata dal tempo che è passato. Non a caso si discute da anni di certezza della pena senza che però questa certezza diventi mai certa. Di contro, un processo troppo breve rischia di essere sommario, hai visto mai che un domani si scoprisse qualcosa di nuovo (l’altro ieri in Inghilterra un uomo è risultato innocente dopo 27 anni di carcere grazie alla prova del Dna).

Se dunque l’eccessiva brevità dei processi resta una questione controversa, così come controversa è la loro eccessiva lungaggine (e su questo noi dovremmo fare non uno ma dieci passi in avanti), quello che ci sembra indiscutibile è la civiltà mediatica che ha accompagnato la vicenda austriaca. Pensate se fosse successo qui da noi, cosa saremmo stati capaci di mettere in piazza, cioè sui giornali e soprattutto in televisione. Da Erika e Omar (Novi Ligure), a Annamaria Franzoni (Cogne), da Andrea Stasi (Garlasco) a Amanda Knox (Perugia), non ci siamo persi neanche un particolare, una macchia di sangue, una lacrima, un urlo di dolore, un pigiama, un pezzo di cervello sul soffitto... Nulla è stato risparmiato alle vittime e ai carnefici di quei delitti, tutto è stato dato in pasto a un’opinione pubblica (chiamiamola così) affamata di mostruosità. Dicono che si trattava del diritto di cronaca. Fesserie: i mass media austriaci hanno dimostrato che quel diritto si può esercitare egregiamente senza sconfinare nella morbosità.
 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI Il Cavaliere senza avversari
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2009, 09:12:49 am
26/4/2009
 
Il Cavaliere senza avversari
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Anche, persino, financo, addirittura, infine... pure il 25 Aprile è diventato suo. La Festa della liberazione ieri si è trasformata nella festa di Berlusconi, nel suo ennesimo trionfo mediatico e politico. Dopo la vittoria elettorale dell’anno sorso, la pulizia di Napoli dai rifiuti, la gestione del terremoto con la sua presenza costante, gli applausi ricevuti dalle vittime del sisma (di solito i governanti venivano fischiati), dopo l’idea del G8 all’Aquila (riuscirà a portare Obama e gli altri leader del mondo tra i sinistrati), adesso anche una ricorrenza storicamente di sinistra, un appuntamento che nel ’94 segnò l’inizio della fine del suo breve governo, il primo con dentro ministri ex fascisti, adesso anche questa è diventata berlusconiana. Grazie a lui, ovviamente, che è stato finalmente - dopo 14 anni di colpevole assenza - presente sulla scena, e grazie anche al discorso che ha fatto. Intelligente, bisogna ammetterlo, capace di riconoscere addirittura (addirittura per lui) i meriti dei comunisti che tanto odia, in grado di distinguere tra chi combatteva dalla parte giusta e chi da quella sbagliata.

Evitando insomma di mettere tutti sullo stesso piano perché in quel caso - anche lui se n’è reso conto - non esistevano due ragioni e due torti. Ma anche grazie al suo antagonista politico: Franceschini gli ha lanciato un invito che assomigliava a una sfida e gli è tornato indietro un boomerang.

Ora, quanta strumentalità ci sia in questa mossa di Berlusconi lo vedremo nel futuro, intanto dovrebbe dar retta proprio a Franceschini che gli chiede di mettere il veto al progetto di legge che equipara partigiani e repubblichini. Vedremo se lo farà. Decisamente strumentale appare invece la sua proposta di cambiare nome alla festa, e non certo perché il concetto di libertà non sia adeguato, anzi semmai comprende in se stesso quello della liberazione. Ma perché si tratta con tutta evidenza di voler segnare, anche semanticamente, uno strappo col significato che finora ha avuto quest’appuntamento, un significato troppo di sinistra (per lui). E poi perché, diciamolo francamente, la libertà è diventata, almeno in teoria, la sua bandiera, il suo partito così si chiama, dunque suonerebbe male, diciamo che sarebbe insomma troppo smaccato rinominare il 25 Aprile a sua immagine e somiglianza.

Ma si tratta di particolari, la sostanza è che l’epoca in cui viviamo è ormai scandita da lui, dalle sue iniziative, dalle sue vittorie, dalle sue trovate.
Dicono che il suo prossimo obiettivo sia il Quirinale, tanto che il discorso di ieri a molti è suonato «presidenziale». Può darsi, ma può anche essere che invece lui non abbia alcuna intenzione di farsi rinchiudere al Colle senza poteri, quantomeno dovrebbe prima riuscire a cambiare la Costituzione per instaurare anche in Italia una sorta di presidenzialismo. Oppure, più facilmente, potrebbe puntare a cambiare la Costituzione nei fatti, a cominciare dalle elezioni europee: se ottenesse, come è probabile che accada, una sorta di plebiscito popolare (si presenta in tutte le circoscrizioni, saranno milioni e milioni le preferenze per lui), a quel punto diventerebbe più di un presidente del Consiglio, più di un capo di Stato, sarebbe in poche parole l’uomo solo al comando.

E tutto questo anche a causa dell’assenza o dell’incapacità dell’opposizione che c’è. La quale è costretta o a seguire l’antiberlusconismo di Di Pietro, che però ha una sua efficacia anche a sinistra (e lo si vedrà dai risultati elettorali), oppure ad affidarsi alle improvvisate e improvvide iniziative del segretario del Pd. Che per alcune settimane ha ripetuto come un disco rotto che Berlusconi non doveva candidarsi senza rendersi conto che agli italiani non gliene frega assolutamente nulla, poi è passato a battere sul tasto della data del referendum e suoi relativi costi, anche qui senza capire il disinteresse dell’opinione pubblica nonché il disastroso esito che avrebbe per il suo partito un’eventuale vittoria dei sì. Infine ha tirato fuori il coniglio del 25 Aprile, sfidando Berlusconi a partecipare alle celebrazioni.

Geniale.

Il premier ha colto la palla al balzo, ci è andato, anzi è andato tra le macerie di Onna, ha fatto un discorso equilibrato ed egemone, appunto presidenziale, si è assicurato i titoli dei telegiornali di ieri e dei giornali di oggi, oltre ovviamente all’apprezzamento degli italiani, anche di molti tra quelli che non lo amano.

A questo punto, o Franceschini ripensa e cambia radicalmente la sua strategia, oppure va fino in fondo sulla strada imboccata: invita Berlusconi al Primo Maggio, convince gli elettori di centrosinistra a votare per lui e infine lo fa eleggere per acclamazione leader del Pd.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. Presidente del popolo
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:22:08 am
25/5/2009
 
Presidente del popolo
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Bastava guardare la sua faccia ieri allo stadio per capire che Silvio Berlusconi è preoccupato, preoccupatissimo: l’espressione cupa, i lineamenti tesi, mai un sorriso.

E non certo perché il suo Milan ha perso. È preoccupato, il premier, per almeno tre o quattro ragioni.

La crisi economica che comincia a far sentire i suoi effetti e non gli permette più di ostentare il suo proverbiale ottimismo; la sentenza Mills che se non ci fosse il Lodo Alfano lo avrebbe condannato per corruzione; il caso Noemi che ogni giorno si arricchisce di nuovi particolari che dimostrano come Berlusconi non abbia detto finora la verità su questa strana amicizia. Infine i sondaggi, suo oracolo, che certamente lo premiano, però, forse, non esattamente come si aspettava.

Dunque ha tutte le ragioni per essere preoccupato, tanto più ora che anche l’opposizione politica sembra essersi svegliata e gli chiede conto delle sue contraddizioni sul caso Noemi. E allora che fa, che si inventa per uscire da una situazione di difficoltà? Una delle sue mosse «geniali», politicamente azzeccate, spiazzanti, popolari e populiste. Magari si tratta dell’ennesimo annuncio al quale poi non seguirà nulla di fatto, ma intanto è un annuncio che rischia di tornargli molto utile, nell’immagine e soprattutto nelle urne delle elezioni europee. L’idea di raccogliere «milioni di firme» per portare in Parlamento una legge che riduca drasticamente il numero di deputati e senatori non è una qualsiasi proposta di riforma costituzionale come ce ne sono state tante negli ultimi dodici anni, che tra l’altro prevedevano più o meno lo stesso risultato. Si tratta, nelle sua sostanza e nelle intenzioni di Berlusconi, di ben altro: ossia di mettere il «popolo» contro la Casta, di mobilitare i cittadini contro i loro rappresentanti visti - anzi malvisti - come politicanti, burocrati, funzionari che non fanno nulla dalla mattina alla sera ma guadagnano migliaia di euro al mese pagati dai cittadini stessi.

Ed è lui che li mobilita, è lui che dà loro il potere di cambiare le regole del gioco, di mandare a casa questa gente che perde tempo a discutere e non (gli) consente di «fare», che alla fine dei conti «ruba» i loro soldi. Un modo furbo - diciamo anche intelligente, seppur molto pericoloso per la democrazia che è stata costruita in Italia - per diventare nei fatti il Presidente del popolo senza però averne mai avuto l’investitura diretta.

Già un mese fa, in occasione del 25 aprile, si era capito come il suo disegno (e lo avevamo notato su questo giornale) fosse quello di cambiare nei fatti la Costituzione, a colpi di risultati elettorali sempre più plebiscitari, diventando così il vero e unico rappresentante del popolo. E non importa se c’è ancora un Capo dello Stato eletto dal Parlamento con le «vecchie» regole costituzionali. Importa il rapporto diretto tra lui e quella che una volta chiamava la gente, importa che lui sia riconosciuto come colui che a questa gente dà voce e risposte, che porta - o fa finta di portare - le sue esigenze nel Palazzo della politica, anche a costo di cambiarne i connotati e minarne le fondamenta. E cosa c’è di più efficace, di più funzionale a questo disegno, se non far firmare ai cittadini una legge che permetta loro di punire la tanto odiata Casta? Cosa c’è di più ostico, per l’opposizione, di una iniziativa popolare che la mette nell’angolo, costringendola a schierarsi senza via di mezzo: o sta con il popolo o difende la Casta, diventando vieppiù impopolare. Non c’è niente di meglio, non un buon risultato elettorale, che comunque troverà ossigeno da questa iniziativa, né un discorso televisivo o parlamentare che sia. È l’apice del populismo berlusconiano. E che sarà sempre più difficile da combattere, tanto che ormai molti sperano solo che scivoli sulla buccia di banana che si chiama Noemi Letizia. Ma anche se - ipotesi peraltro molto improbabile - Berlusconi dovesse subire un colpo durissimo a causa dei suoi vizi privati, per quanto orrendi questi vizi possano essere, l’opposizione potrà anche segnare un punto a suo favore. Ma non sarà certo una vittoria delle sue idee, del suo programma, insomma della sua politica. La maggioranza della gente, ed è questa la fotografia del nostro paese, si schiererebbe comunque con lui: il proprio leader.
 
da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI.
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2009, 04:36:29 pm
12/7/2009 (7:47) - INTERVISTA

"Il Pd con Bersani rischia di cadere nell’effetto nostalgia"
 
Fassino: solo Franceschini è capace di unire le due culture

RICCARDO BARENGHI
ROMA

Tra dieci giorni si chiudono i giochi delle candidature e si apre la vera e propria fase congressuale del Pd, che culminerà in ottobre con l’elezione del segretario. Piero Fassino fin da ragazzo è stato un militante e poi un dirigente del Pci, del Pds, infine segretario dei Ds per sette anni. E da quella postazione ha contribuito con parecchie energie a fondare il Partito democratico. Oggi, sorprendendo parecchi suoi ex compagni della Quercia, si è schierato con Dario Franceschini che invece proviene dalla Dc e dalla Margherita. Mentre dall’altra parte c’è Bersani, sostenuto da D’Alema e da molti ex comunisti o diessini.

Fassino lei è addirittura coordinatore della mozione Franceschini: questa sua scelta non è incoerente con la sua storia politica?
«Se continuiamo a guardare al passato non faremo mai un passo in avanti. La mia scelta è coerente con il progetto del Partito democratico, ossia un Partito che vuole e deve mescolare le culture, le storie, le provenienze, le biografie. Altrimenti tanto valeva non farlo e rimanere con Ds e Margherita separati».

E perché secondo lei Franceschini sarebbe più adatto di Bersani a guidare questo progetto?
«L’ha dimostrato in questi quattro mesi di segreteria, tenendo la barra del timone dritta su temi fondamentali come la laicità, la nuova alleanza progressista con i socialisti in Europa, e imponendo in campagna elettorale i temi giusti che interessano gli italiani, a cominciare dalle risposte che si dovrebbero dare alla crisi economica e che il governo fa solo finta di dare».

E perché Bersani invece non andrebbe bene?
«Proprio perché abbiamo scelto in Europa un rapporto privilegiato con socialisti e socialdemocratici, se in questa fase il leader del Pd diventasse un dirigente proveniente dai Ds, come è Pierluigi, si correrebbe il rischio di omologare il Partito a una sola delle due culture e storie che l’hanno fatto nascere. Mentre con Dario, che ha con coraggio compiuto la scelta europea, possiamo mantenere il profilo plurale e largo del Pd».

Tuttavia Franceschini ha perso due elezioni di seguito: oggi il Pd è al 26 per cento...
«E’ francamente ingeneroso addossare a Dario la responsabilità di queste sconfitte, le elezioni le abbiamo perse tutti noi. Le ha perse il Partito intero».

Però D’Alema e Bersani dicono che il Partito non c’è e che l’idea di Veltroni, il Partito liquido tutto basato sulle primarie che eleggono le leadership, è stata disastrosa.
«Figuriamoci se io voglio un Partito liquido. Non lo voglio io e non lo vuole neanche Franceschini. Mi pare di aver dimostrato negli anni in cui ho fatto il leader dei Ds quale sia la mia idea: un Partito forte, radicato, nel territorio, ben strutturato. Con un profilo largo e che soprattutto sia proiettato in avanti e non rivolto al passato».

In questa proiezione verso il futuro non le sembra che Franceschini abbia esagerato quando si è candidato «per evitare che tornino quelli di prima»? In fondo prima c’era anche lei...
«Quella è stata una frase infelice, ma se mettessimo insieme tutte le nostre frasi infelici riempiremmo un’intera biblioteca».

D’Alema non ha gradito e lei lo ha attaccato...
«Ho replicato alle sue dichiarazioni, punto e finito. Né io né lui abbiamo interesse a tenere aperta questa polemica, considerata anche la nostra storia comune».

Passiamo allora alle differenze programmatiche tra Franceschini e Bersani, al momento è francamente difficile capire quali siano.
«Lo capiremo quando presenteranno le loro piattaforme. Per ora quello che noto è la percezione diversa che suscitano i due. Franceschini viene considerato come colui capace di tenere insieme culture diverse, mentre Bersani rischia di essere il candidato di chi rimpiange quello che c’era prima. Insomma i Ds con un altro nome».

Ma il tenere insieme culture diverse non rischia di degenerare nel «ma anche» veltroniano?
«Non credo proprio, perché sia io che Dario vogliamo un partito che decida. La democrazia ha le sue regole. Si discute e poi si decide: se siamo tutti d’accordo meglio, sennò si decide a maggioranza».

A proposito di Veltroni, è finita la stagione del partito a vocazione maggioritaria?
«Non facciamo caricature, nessuno è così cretino da pensare che si possa ottenere da soli il 51 per cento dei consensi degli elettori. Il problema è come costruire alleanze che non siano più una sommatoria di partiti fatte a prescindere dal programma. Noi siamo la forza principale del centrosinistra e dunque spetta a noi presentare un programma su cui definire alleanze possibili e coerenti».

Cosa pensa della candidatura del terzo uomo, ossia Ignazio Marino? E già che ci siamo: come è riuscito a convincere Chiamparino a non candidarsi?
«Marino è un bravissimo medico ma francamente non mi pare abbia la storia, l’esperienza e il background per fare il segretario di un partito. Chiamparino non aveva certo bisogno che io lo convincessi, ha giustamente valutato che era prioritario onorare l’impegno assunto con i torinesi che lo hanno eletto».

Senta Fassino, mentre voi vi dividete e scontrate, ci sarebbe bisogno di un’opposizione che al momento non è si vede gran che...
«Non è vero, noi abbiamo sempre fatto il nostro mestiere e continueremo a farlo. Ancor di più in questa fase, accompagnando il nostro dibattito con proposte in grado di rispondere alle domande e ai bisogni degli italiani».

Il G8 dell’Aquila è stato un successo per Berlusconi?
«L’evento è riuscito, non c’è dubbio. Poi vedremo se e quando gli impegni che sono stati presi saranno mantenuti».

Come mai sullo scandalo delle escort la vostra voce non si è sentita forte e chiara...
«Le priorità sono la crisi che si farà sentire pesantemente in autunno, l’occupazione della Rai, il conflitto permanente con la magistratura... E poi certo, sono venute alla luce vicende scabrose che non possono essere eluse. E’ ora che il premier dica una parola chiara su tutto questo, è lui che deve dare una spiegazione al Paese. Anche per evitare che l’Italia diventi un gigantesco Bagaglino».

Per concludere una domanda sul suo futuro: è vero che vorrebbe fare il sindaco di Torino?
«Prima mi occupo di vincere il congresso e comunque fino al 2011 c’è Chiamparino che fa benissimo il suo mestiere. Quindi abbiamo tempo per riflettere».

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. La storia si ripete in farsa
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 11:16:31 am
13/7/2009
 
La storia si ripete in farsa
 
 
RICCARDO BARENGHI
 
Prima che, come diceva Marx, la storia da tragedia si ripeta in farsa, qualcuno faccia qualcosa. Anzi, mettiamola così: prima che il congresso del Partito democratico diventi la sceneggiatura per il prossimo film dei fratelli Vanzina, bisogna che i massimi dirigenti di questo partito intervengano, mettano un freno alle fesserie che vengono dette addirittura da chi si è candidato a leader (vedi Ignazio Marino sul presunto stupratore militante), organizzino la discussione evitando le polemiche più stupide o volgari tra loro e soprattutto stabiliscano regole limpide perché questa discussione e il suo esito abbiano un senso comunicabile al Paese.

Altrimenti si rischia di passare l’estate a inseguire Beppe Grillo, un comico, che si candida a segretario di un partito che disprezza e che non sa nemmeno bene cosa sia, magari imitato da altri suoi colleghi: i due fratelli Guzzanti per esempio sarebbero un ottimo ticket, Vauro un fantastico segretario organizzativo e Maurizio Crozza un perfetto portavoce.

Oppure, e qui la farsa diventa tragica, a controllare se per caso il prossimo stupratore, rapinatore, scippatore, truffatore o delinquente generico abbia in tasca la tessera del partito, o se prima era stato comunista, diessino, democristiano di sinistra o della Margherita. E metti caso lo fosse stato, vai con i giornali che sparano titoli e vai, ovviamente, con dirigenti più o meno importanti che se ne escono su questioni morali inventate su due piedi (mentre non si affrontano quelle vere, che ci sono eccome), su quanto e come si debba controllare chi si iscrive, magari - perché no? - proponendo seriamente che prima di accettare un nuovo adepto gli si faccia un check-up sanitario completo di test psichiatrico... Ovviamente esteso a parenti e affini.

Esageriamo? Non tanto vista la situazione in cui si dibatte quello che dovrebbe essere il principale partito di opposizione, che in teoria (solo in teoria) sarebbe l’alternativa a Berlusconi. Un Berlusconi che finora è stato messo in difficoltà solo da se stesso e da inchieste giornalistiche sulle sue avventure sessuali, mentre chi è stato votato ed eletto per contrastarlo non c’era o se c’era dormiva. Allora, bisogna che questi leader politici si sveglino dal loro torpore politico e prendano qualche iniziativa degna di questo nome.

Innanzitutto spiegando al Paese chi sono e cosa vogliono fare, ovvero se ha ancora un senso questa avventura politica che finora non ha prodotto i frutti sperati. E poi mettendo in chiaro, parlando in italiano e non in politichese, quali sono le differenze tra Franceschini e Bersani, tanto per sapere per quale motivo un qualsiasi elettore di centrosinistra dovrebbe votare l’uno o l’altro. E infine, ma soprattutto, spiegando urbi et orbi in cosa consista il programma di questa forza politica, in cosa si differenzia da quello dell’attuale governo: sull’economia, sul lavoro, sulla società, sull’informazione, sull’etica pubblica. Forse è colpa loro, ma diversi milioni di italiani non l’hanno ancora capito.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI Le nomine nel Pd simulacro della Dc
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 12:04:21 pm
14/9/2009

Quella rete che spaventa il premier
   
RICCARDO BARENGHI


Il problema a questo punto è piuttosto chiaro: non è Ballarò, non è Vespa o Floris, non è un giornale «sovversivo» che fa domande, non sono le inchieste o le interviste o i commenti della stampa e della televisione che danno fastidio al nostro premier, e che lui spesso e volentieri taccia di calunnia. Il problema è molto più profondo: Berlusconi appare allergico a qualsiasi mezzo e messaggio di comunicazione che non sia allineato con la sua realtà. Che poi sarebbe il suo governo, la sua «politica del fare», le cose che sostiene lui presentandole come verità assolute. Il caso esploso ieri, ossia lo spostamento del programma di Giovanni Floris (non certo un programma estremista) per lasciare spazio a un’edizione speciale di Porta a Porta che documenti la consegna delle prime case ai terremotati d’Abruzzo, ovviamente da parte del premier, è solo l’ultimo di una serie infinita di pressioni, querele, avvertimenti che in queste ultime settimane si sono talmente moltiplicati da far sorgere in una parte dell’opinione pubblica il timore che in Italia sia a rischio addirittura la libertà di stampa. Fesserie, hanno risposto in coro tutti gli esponenti del governo e della maggioranza, in Italia non c’è alcun rischio per l’informazione.

Se così fosse, e noi saremmo felici di crederci, qualcuno ci dovrebbe spiegare perché il capo del governo decide di querelare Repubblica e l’Unità (una mossa che suona come un avvertimento anche per tutti gli altri. Perché i programmi non allineati non riescono a cominciare, chi non viene garantito nella tutela legale (Report di Milena Gabanelli), chi non ottiene la squadra di tecnici storicamente dedicata (AnnoZero di Michele Santoro), chi non sa che fine farà (Parla con me di Serena Dandini e Che tempo che fa di Fabio Fazio). E infine perché viene improvvisamente cancellata la prima puntata di Ballarò per lasciare spazio a una sorta di celebrazione agiografica del premier che ricorda i cinegiornali di un’epoca remota.

Attenzione, qui nessuno pensa (almeno non noi) che alle porte ci sia un nuovo fascismo, tuttavia la sensazione che l’informazione sia sotto pressione è netta. Una sensazione, anzi ormai un’evidenza, che preoccupa eccome. Tanto più quando è ormai chiaro che la maggioranza politica che ha stravinto le elezioni non è più una falange macedone, unita e coesa, forte e determinata, che quindi non ha nulla da temere. L’impressione invece è che ci troviamo di fronte un governo forte sulla carta ma con una coalizione che va avanti in uno stato di permanente fibrillazione. Con un premier sempre più nervoso e preoccupato, che non tollera critiche e distinguo. E allora viene quasi da rimpiangere quel Berlusconi sicuro di sé, che non aveva paura di niente: tantomeno di qualche programma televisivo.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI Le nomine nel Pd simulacro della Dc
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 10:58:03 am
26/11/2009

Le nomine nel Pd simulacro della Dc
   
RICCARDO BARENGHI


Dorotei, morotei, fanfaniani, andreottiani, forlaniani, gavianei, demitiani, pomiciniani... Era la Democrazia cristiana, con le sue correnti e sub correnti, i suoi capi bastone (oggi si chiamano leader), i loro fedelissimi, ex segretari o portaborse, che poi facevano carriera all’ombra del capo fino a diventare sottosegretari e magari anche ministri. E che poi a un certo punto tradivano, cambiavano cavallo (di razza ovviamente), si alleavano con l’avversario del loro padrino, spostavano le loro truppe, guadagnavano posti di potere e così via fino al successivo ribaltone interno, ed esterno, cioè il governo del Paese che comunque restava saldamente nelle loro mani.

Ritorna in mente la Dc, purtroppo, se guardiamo a come il nuovo leader del Pd ha nominato il «suo» gruppo dirigente. Una piccola squadra di giovani, denominata segreteria, alcuni provenienti dalle cosiddette esperienze sul territorio, altri che invece si sono fatti le ossa all’ombra del loro leader di riferimento (capo bastone si chiamava una volta). Ovviamente tutti spartiti per correnti o sub correnti. E accanto a loro, anzi sopra di loro, i politici più navigati, ognuno con un Forum (a volte va bene l’inglese, altre è più chic il latino) a disposizione.

E così il nuovo Pd, quello che nelle intenzioni del segretario e del suo grande sponsor D’Alema avrebbe dovuto farla finita con il «ma anche» veltroniano, che tradotto significa più banalmente tutto e il contrario di tutto, in realtà lo ripropone all’ennesima potenza. Strutturandolo, dandogli nomi, facce e storie politiche, aree di appartenenza e aree di intervento, percentuali studiate fino all’ultimo zero virgola. Tanto che Bersani e D’Alema possono contare sul 34,5 dei dirigenti nazionali, Franceschini sul 10,5, così come la coppia Fioroni-Marini, Rosy Bindi si deve accontentare dell’8 per cento come Enrico Letta, Veltroni del 5, i Popolari non meglio identificati del 2,5, gli altrettanto non identificati eco-dem dell’1,5, Fassino invece si porta a casa un tondo 6 per cento, quasi raddoppiato da Ignazio Marino con l’11 al quale si affianca l’1,5 del suo sponsor Goffredo Bettini. Fino a raggiungere il grottesco 1 per cento attribuito agli «ex Rutelli», che fatti i conti non si traduce neanche in una persona intera: ci saranno le gambe ex rutelliane o forse il tronco, fate voi.

Obiezione: siamo un partito pluralista che cerca di amalgamare diverse culture politiche, ispirazioni ideali, storie e idee... Obiezione all’obiezione: qui non si tratta di un amalgama, peraltro finora non riuscito (come disse D’Alema qualche mese fa), bensì di una sommatoria. In cui, nei mesi a seguire, ognuno farà pesare la sua forza o debolezza, i suoi veti e controveti, i suoi padrini o padroni col probabile risultato di paralizzare l’azione di un partito che dovrebbe invece essere il più agile possibile, il più svelto nel prendere decisioni che possano prima o poi portarlo fuori dalle secche di un’opposizione totalmente sterile. Tanto che i problemi del governo e della maggioranza sono nati tutti all’interno del centrodestra e non certo per iniziativa del Pd.

Ritorna in mente la Dc dunque, con la differenza che quel partito gestiva il potere e poteva permettersi di spartirlo tra le sue correnti. Qui invece non c’è da gestire nulla che non sia un simulacro del potere, tutto interno, diciamo pure intestino, al Partito democratico. Un simulacro che non serve a nessuno, tantomeno al Paese. Anzi, a qualcosa serve: a paralizzare l’iniziativa del segretario, peraltro eletto «a furor di popolo» e che dunque avrebbe potuto far leva su una forza esterna ai giochetti politicanti (oltre un milione e mezzo di consensi popolari ricevuti).

Ma il nuovo leader rischia invece (anche per colpa sua) di spendere tutte le sue energie per mettere d’accordo su ogni singola questione l’8 per cento di tizio con il 12 di caio e il 5 di sempronio. E semmai dovesse riuscire nel miracolo, dovrà sempre sperare che all’ultimo momento le dispettose gambe ex rutelliane non gli facciano lo sgambetto.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. Roma attraversata dal corteo anomalo
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:25:53 am
6/12/2009 (7:26)  - REPORTAGE

Il web si fa piazza

Roma attraversata dal corteo anomalo

La manifestazione è stata organizzata prevalentemente con il passaparola su internet da blogger e iscritti a Facebook
   
Una nuova generazione di giovani si affaccia alla politica

RICCARDO BARENGHI
ROMA

La prima impressione è quella che conta e che infatti verrà confermata dalla seconda, la terza, la quarta... Ed è che la manifestazione di ieri è stata una prima assoluta, non certo per quantità, che pure era notevole, ma perché si è trattato - almeno a memoria di chi ne ha viste centinaia – di un corteo anomalo, originale, diverso insomma da tutti quelli che nel corso dei decenni lo hanno preceduto.

Diciamo che in piazza si è tradotta perfettamente la modalità attraverso la quale la manifestazione è nata ed è cresciuta. Quelli che hanno sfilato ieri pomeriggio a Roma erano giovani, tanti giovani, anche giovanissimi, che apparivano liberi da qualsiasi condizionamento del passato. Non erano inquadrati dietro striscioni e bandiere di partito, anzi di più: non erano proprio inquadrati. Manifestavano liberamente, cantavano, ballavano con un’allegria che qualcuno poteva pure giudicare senza senso visto che il loro avversario, cioè Berlusconi, è sempre a palazzo Chigi e non si dimetterà certo grazie a loro. Tuttavia questi ragazzi non erano cupi, non gridavano slogan truculenti, e anche quelli giustizialisti, o se volete forcaioli, avevano un sapore diverso proprio grazie al contesto allegro e spesso ironico che li circondava.

Gli stessi striscioni e cartelli erano diversi dal solito, più spiritosi. E’ come se il modo di comunicare in Internet, i blog, Facebook, gli sms, i gruppi di discussione telematici, si fosse improvvisamente materializzato per le strade della capitale, assumendo contorni umani. Lo vedevi, lo capivi dalle facce, dal modo di vestire, da come questi ragazzi stavano nel loro corteo tutt’affatto diverso dal modo in cui marciavano i loro padri, zii e fratelli maggiori. Oppure dal fatto che non c’erano servizi d’ordine, e quei pochi che c’erano erano i più gentili della storia: «Per favore, potrebbe spostarsi leggermente sulla destra...». Ma la politica c’era. Eccome. Erano tutti antiberlusconiani, il premier è stato indubbiamente il protagonista assoluto della giornata, in negativo ovviamente, le accuse di essere un mafioso si sprecavano.

E tutti di sinistra, ma una sinistra viola e non più rossa. Quindi non più quella conosciuta nella prima e neanche nella seconda repubblica, quella che si è sempre riferita a qualche partito. E che ancora oggi si sente di appartenere a qualche partito o a qualche sindacato. Per non tornare troppo indietro nel tempo, quelli di ieri non erano gli stessi che avevano dato vita ai girotondi sette anni fa, e nemmeno quelli che avevano riempito il Circo Massimo nel marzo del 2002 con Cofferati, oppure i pacifisti che sempre in quel periodo protestavano a decine di migliaia contro la guerra in Iraq. O meglio, ci saranno stati anche loro all’epoca, o almeno una parte di loro, ma ieri era come se fossero altre persone. Nuove, neonate.

Anche perché i partiti che c’erano (Italia dei Valori, Rifondazione, Sinistra e libertà, qualche verde, sparute bandiere del Pd), con tutto il loro apparato arrivavano dopo, in coda al corteo, ed anche loro sembravano contaminati dal clima nonostante gli sforzi dei loro sbandieratori. Per una volta erano secondari, non certo protagonisti. Così come non c’era la sfilata dei leader, in testa al serpentone, circondati da telecamere e taccuini. Non c’erano e se c’erano camminavano in ordine sparso, quasi sommersi dall’onda. Un collega chiedeva se questa manifestazione potrà segnare l’inizio di una nuova storia della sinistra italiana, se si tratta insomma della premessa per quel ricambio generazionale e culturale da anni evocato e mai avvenuto.

La domanda per ora resta senza risposta, anche perché sappiamo che i frutti delle manifestazioni, quando arrivano, arrivano tempo dopo, con molta calma. Oltretutto chissà se questi ragazzi hanno in testa la politica come missione nella vita o se ci pensano solo come a uno strumento utile quando serve a qualcosa ma non pervasivo di tutto il resto. A vederli sfilare ieri, la seconda ipotesi sembra la più probabile. Dunque, difficile immaginare la nascita di un nuovo partito di sinistra, il partito dei blogger, degli internauti. Semmai, dovrebbero essere i partiti esistenti a capire che qualcosa sta accadendo nel mondo che a loro interessa, tra i loro reali o potenziali elettori. I quali intanto sono giovani, quindi quelli di domani, e chiedono soprattutto di cambiare modo, linguaggio, strumenti e magari anche qualche tema della politica, sia essa di opposizione (come oggi) o di governo (hai visto mai nel futuro). Per farla diventare quantomeno un po’ più moderna e dunque utile.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI L'Unione fa la forza
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2010, 08:17:12 am
12/3/2010
L'Unione fa la forza
   
RICCARDO BARENGHI


L’immagine che domani pomeriggio ci restituirà il palco di piazza del Popolo sarà una fotografia che parla di politica. Della politica di tutto il centrosinistra italiano, dalle sue correnti più moderate a quelle più radicali. Lo potete chiamare Ulivo, la potete definire Unione, potete ironizzare sulla grande ammucchiata o sul mucchio selvaggio, ma il messaggio che quell’immagine contiene è molto chiaro e in un certo senso anche disperato.

Dopo sedici anni dall’avvento di Berlusconi, al quale si contrappose «la gioiosa macchina da guerra» di Occhetto, la scena si ripete sempre uguale a se stessa, il copione viene rispettato e recitato a memoria dai protagonisti che si alternano sul palcoscenico, più o meno sempre gli stessi, a destra e a sinistra. Così come sempre gli stessi sono coloro che parteciperanno alla manifestazione - qualche anziano in meno, qualche giovane in più - che poi sono i «delegati» degli stessi elettori che dal 1994 votano per la sinistra. Anzi, votano contro Berlusconi.

Se la prima Repubblica è stata definita una democrazia bloccata, vista l’impossibilità per l’opposizione di allora (il Pci) di arrivare al governo, anche la seconda non scherza in quanto a paralisi. E non perché non si siano verificate alternanze di governo, in fondo Berlusconi è stato a Palazzo Chigi otto anni e il centrosinistra sette, ma perché è proprio la dinamica della politica a non essere in grado di muovere il suo stagno, di sparigliare il gioco, di proporre uno spettacolo diverso, magari con qualche idea nuova. Invece niente. La commedia, o se volete la tragedia, si replica all’infinito. E’ colpa di Berlusconi? E’ colpa dei suoi avversari? E’ colpa di entrambi?

Forse non è colpa di nessuno. Nel senso che finché sarà Berlusconi il protagonista del centrodestra italiano, gli altri non potranno che cercare di batterlo nell’unico modo possibile. Nonostante, infatti, abbiano provato diverse volte a esplorare nuove strade per sconfiggerlo, ribaltoni parlamentari, nuove alleanze, idee originali e suggestive tipo la veltroniana «vocazione maggioritaria», alla fine il gioco si riduce sempre allo stesso schema. Solo se si mette tutto insieme, da Rifondazione a Di Pietro, dai Verdi al Pd, da Vendola al popolo viola, dai pacifisti alle associazioni, dai no-global (se ancora esistono), dalla Cgil fino a chiunque si organizza in qualche maniera, in qualsiasi città o paese, circolo culturale, sindacato di base, Cobas, disoccupati organizzati... il centrosinistra può sperare (sperare) di vincere.

Prima obiezione: ma se pure dovessero riuscirci, poi non sarebbero in grado di governare, come hanno già ampiamente dimostrato. Seconda obiezione: ma qui si tratta di puro e semplice antiberlusconismo, uno stato d’animo più che un progetto politico.

La prima obiezione è ovviamente accolta, anche se, chissà, mai dire mai. La seconda invece è respinta per la semplice ragione che se esiste il berlusconismo, che è molto di più di uno stato d’animo, è una filosofia, un’ideologia, una pratica politica e di governo, un modo di pensare e di agire, allora ha diritto di esistere anche il suo opposto. Ossia un’altra filosofia, un’altra ideologia, un’altra pratica politica, un altro modo di pensare e di agire. Dunque, mettiamoci d’accordo: o si aboliscono entrambi, persino dal vocabolario, oppure si lascia a entrambi la loro dignità.

Il problema semmai è che in sedici anni il centrosinistra - al contrario del suo avversario - non è stato capace di tradurre in un progetto coerente e unificante questo suo antiberlusconismo, neanche quando ha vinto le elezioni, tanto meno quando ha governato. Sarebbe inutile ricordare le divisioni, le spaccature, i conflitti anche aspri che hanno reso impossibile la vita dei governi di Prodi, sarebbe invece molto utile se i sei o sette leader che domani pomeriggio saliranno sul palco di piazza del Popolo ci spiegassero cosa intendono fare per evitare che quella fotografia sia solo l’ennesimo scatto di una grande ma sterile ammucchiata.

da lastampa.it


Titolo: RICCARDO BARENGHI. Tempeste imperfette
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2010, 09:40:53 am
27/7/2010

Tempeste imperfette
   
RICCARDO BARENGHI

C’è quella scritta da Shakespeare ma c’è anche quella in un bicchier d’acqua, poi ci sono quelle vere, che causano danni, morti e feriti, altrimenti dette cicloni, uragani, tornado.

Infine esiste quella mediatica, usata e abusata dai nostri politici. In particolare, va detto, da quelli del centrodestra, forse perché hanno la fantasia più fervida o forse perché si trovano più spesso degli altri a fronteggiare guai giudiziari.

La tempesta mediatica è così diventata un’espressione di moda. Se un politico, un manager, un amministratore pubblico legge sui giornali che è stato indagato, se si ritrova le sue telefonate (politicamente imbarazzanti per non dire di peggio) nero su bianco, ecco che la sua prima reazione è buttare la palla in corner, la colpa è dei giornali. L’ha fatto Scajola pochi secondi prima di dimettersi da ministro, l’ha fatto Cosentino, prima e dopo aver lasciato l’incarico di sottosegretario, lo ha fatto ieri Verdini contestualmente alle sue dimissioni dalla sua banca e subito prima di presentarsi dai magistrati, l’aveva fatto il governatore Marrazzo: «E’ una bufala». Ma tanti altri, in questi anni di seconda repubblica, hanno dato l’esempio, a destra e a sinistra. A destra il campione delle tempeste, che spesso diventano complotti e che non sono solo mediatiche ma anche giudiziarie e quasi sempre comuniste, è ovviamente Berlusconi. Gli altri l’hanno seguito, imitato, a volte scimmiottato. A sinistra un’accusa così esplicita non si è mai sentita ma non sono mancate le polemiche contro i giornali, le querele, le telefonate furiose dei vari D’Alema (il quale ha ripetutamente ostentato il suo disprezzo per l’informazione scritta), Fassino, Prodi, Di Pietro, Veltroni, nel caso qualcosa sul loro conto (o conti) fosse stato pubblicato.

Ora, nessuno qui pensa che noi giornalisti non abbiamo commesso errori, esagerazioni, a volte prendendo anche topiche colossali, sbattendo qualche mostro in prima pagina per poi scoprire che mostro non era. E questo vale anche per i politici ma soprattutto per i poveri disgraziati, magari accusati di reati comuni e poi risultati innocenti. Quelli insomma che non hanno le barche o almeno le scialuppe adatte per salvarsi dalle tempeste.

Gli altri invece, gli uomini o le donne che esercitano in qualche forma il potere, hanno tutte le armi in mano per reagire, possono scrivere ai giornali, concedere interviste, dichiarare pubblicamente la loro innocenza. E infatti usano queste armi con una certa frequenza. Ma soprattutto possono, anzi dovrebbero, dimostrare la loro estraneità nelle sedi proprie, ossia quelle giudiziarie. Basti pensare a come si è difeso Andreotti dalle accuse di mafia.

La cosiddetta tempesta mediatica è insomma l’effetto di un problema, non la causa, altrimenti detta questione morale. Un effetto spettacolare, non c’è dubbio, che spesso amplifica la causa ma che non potrà mai sostituirsi ad essa. Dunque c’è poco da evocare tempeste, complotti, polveroni e montature, che così facendo si rischia solo di alimentare il sospetto. Altrimenti perché un ministro, un sottosegretario, un coordinatore-banchiere, un governatore (vedi Marrazzo), o un presidente degli Stati uniti (vedi Nixon) avrebbero dovuto dimettersi se si fosse trattato solo di tempeste mediatiche? Già, perché?

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7643&ID_sezione=&sezione=


Titolo: RICCARDO BARENGHI Bersani, assenza strategica al congresso di Vendola
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2010, 09:11:25 am
22/10/2010

Bersani, assenza strategica al congresso di Vendola
   
RICCARDO BARENGHI

L’assenza del segretario del Pd al congresso di fondazione del partito di Vendola, che si apre oggi a Firenze, parla più di qualsiasi discorso su tutto quello che si muove e soprattutto non si muove nel centrosinistra italiano. Dice, quest’assenza, che Pierluigi Bersani, nella sua veste di leader del maggior partito di opposizione, vive una situazione di semiparalisi politica. Non appena fa una mossa, c’è qualcuno che lo critica, lo attacca, gli spara addosso. Così come è avvenuto pochi giorni fa quando è andato a pranzo con lo stesso Vendola. Moderati e cattolici del Pd gli hanno subito fatto notare che con il leader di Sel non si va da nessuna parte, tanto meno si vincono le elezioni e comunque si rischierebbe di una riesumare quell’Unione che non resse più venti mesi: «Dobbiamo guardare al centro e non a sinistra». Dunque Bersani è costretto a fare un passo indietro, a non prendere iniziative politiche che gli creano problemi interni, tanto che non manda neanche la presidente del partito, proprio perché anche la presenza di Rosi Bindi avrebbe avuto un valore troppo impegnativo per il Pd. Meglio ripiegare su Anna Finocchiaro, il cui valore politico non è ovviamente in discussione, ma che non ha incarichi di direzione nel Pd e dunque non fa venire i mal di pancia a nessuno, da Fioroni a Franceschini, da Letta a Follini.

Ma c’è anche un’altra ragione, forse ancora più importante, che ha suggerito a Bersani di non farsi vedere a Firenze. Le primarie.
Vendola si è candidato ormai da tempo e la sua popolarità, che ha travalicato di parecchio il suo ruolo di governatore pugliese e il suo piccolo partito, incute un certo timore. E’ un avversario di un peso, che magari non vincerebbe la competizione con il leader del Pd qualora le primarie si tenessero sul serio, ma che comunque potrebbe ottenere parecchie centinaia di migliaia di voti, forse anche superare il milione. Voti quasi tutti di elettori dello stesso Partito democratico. Non a caso si parla di un’Opa lanciata da Vendola sul Pd. Meglio allora evitare di dargli quel riconoscimento politico di alleato-competitore, meglio far passare il tempo e sperare che succeda qualcosa in grado di disinnescare la bomba Nichi. Anche perché il Pd non ha ancora scelto con chi allearsi alle prossime elezioni. Forse con Di Pietro, che non a caso diserterà anche lui il congresso di Vendola: tra lui e il governatore non è mai corso buon sangue politico e ideale.

O forse con Casini, che sta in finestra a godersi la corte serrata che molti dirigenti democratici gli stanno facendo, a cominciare da D’Alema. Ossia il principale sponsor di Bersani.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7983&ID_sezione=&sezione=


Titolo: RICCARDO BARENGHI. La staffetta tra satrapi
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2011, 04:29:49 pm
20/4/2011

La staffetta tra satrapi


RICCARDO BARENGHI

Esce completamente di scena l’ultimo grande vecchio del comunismo mondiale.

Ottantacinque anni, malato ormai da tempo, al potere da oltre mezzo secolo: Fidel Castro.

Il leader della rivoluzione cubana che insieme all’uomo che ha fatto sognare diverse generazioni di giovani, il guerrigliero più famoso della storia, ossia Enesto Che Guevara, ha prima liberato Cuba dal dittatore Batista, che l’aveva trasformata in una sorta di bordello degli Stati Uniti, per poi, via via, instaurarci un regime comunista sui generis. Dittatoriale come tutti i regimi suoi simili ma anche sostenuto e addirittura amato dai cubani e da milioni di persone che vivono in America latina e che hanno sempre considerato quell’isola nella corrente il simbolo della resistenza agli odiati yankees.

Ma da anni gli stessi cubani non vedevano l’ora di liberarsi del dittatore e del regime e godere di quelle libertà e di quei diritti civili elementari di cui sono stati privati per oltre cinquant’anni, votare, leggere giornali che non siano solo il Granma, la Pravda locale, riunirsi, manifestare liberamente il pensiero, essere omosessuali senza finire in galera.

Ma non è ancora giunto quel momento, malgrado l’addio del vecchio Fidel. Perché adesso il testimone passa a un altro vecchio, il fratello Raul, solo cinque anni di meno e forse, ma proprio forse, qualche apertura mentale in più (l’ultima, l’altro giorno, quella sui capitali stranieri). Ma la foto che pubblichiamo, dimostra come la strada ancora molto lunga: solo nelle satrapie orientali, che col socialismo non hanno nulla a che fare, lo scettro del potere passa da un parente all’altro.

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