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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 105195 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Febbraio 24, 2010, 05:32:05 pm »

IL COMMENTO

Ritorno al 1994

di GIUSEPPE D'AVANZO


"Una delle più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale". Se soltanto si prende in considerazione come, con quali parole e intensità, i pubblici ministeri di Roma definiscono l'affaire che travolge oggi Fastweb e Telecom, si può comprendere a che punto siamo. Per provare a dirlo, occorre mettere in fila quel che accade. Gli arresti in flagranza di amministratori con la "bustarella" in tasca. Lo scandalo che ha svelato la corruzione e il malcostume nascosto dal potere d'eccezione concesso alla Protezione civile di Guido Bertolaso in nome del "fare" e del miracolismo mediatico. I fondi neri e il riciclaggio per migliaia di milioni di euro prodotti dal business illegale delle due società telefoniche. I brogli elettorali e, addirittura, l'ingresso in Parlamento di un uomo selezionato da un clan mafioso. La cronaca racconta, a chi vuole sentire, che corruzione e malaffare segnano come una malattia la nostra vita pubblica. È vero (e meno male), che non la definisce nella sua interezza, ma appunto è una patologia grave e diffusa che minaccia l'esistenza e lo sviluppo del Paese.

Dovremmo finalmente prenderne atto senza ipocrisia. La buona politica ne dovrebbe prendere atto. La buona società dovrebbe imporre l'urgenza di affrontarla. Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca, recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese (anche questo è stato avventurosamente detto).

Per un decennio, si è voluto raccontare la corruzione italiana come una storia definitivamente chiusa con il crollo della Prima Repubblica. Per un lustro  -  e ancora con maggior pervasività e petulanza nello scorcio di questa ultima legislatura  -  le immagini venute fuori da un caleidoscopio di verità rovesciate hanno rappresentato la patologia italiana come l'invenzione di un pugno di magistrati ostinatamente tentati dal potere, come la trovata di una politica e di qualche querulo giornale a corto di argomenti, modernità, cultura e visione. Il coinvolgimento nel mondo illegale del gotha delle società telefoniche  -  giovani interpreti della contemporaneità, energie e intelligenze affacciate nello stretto sentiero che separa il non più dal non ancora  -  dimostra che dalla nostra malattia non siamo guariti nel 1994. Anche la nuova generazione di uomini d'affari è stata afferrata dal gorgo che non si è voluto eliminare. Per quindici anni politica e giustizia si sono dati battaglia e, nel rumore dello scontro, sono andate smarrite le ragioni che hanno reso e rendono fragile la politica e robusto, invasivo l'intervento giudiziario. Si è voluto far credere che il problema riguardasse soltanto gli uomini in toga, la loro volontà di potenza. Per anni, e ancora poche settimane fa, è parso che l'assoluta priorità non fosse prosciugare i pozzi neri, distruggere la rete di connivenze e omertà, dare luce all'invisibilità e alla segretezza, sempre necessarie alle dinamiche e all'espansione del malaffare. Urgente  -  ci hanno detto  -  era assicurare una protezione immunitaria al ceto politico. È la mitologia e il disegno politico che una realtà degradata e fatti ostinatissimi hanno sciolto nell'arco di poche settimane mutando il segno del clima politico e forse il destino della legislatura.

Oggi all'ordine del giorno non c'è più il ripristino dell'immunità dei parlamentari. Oggi appare intollerabile che la corruzione sia considerata da un disegno di legge criminofilo (il processo breve, già approvato in un ramo del Parlamento) un reato non grave, una pratica così penalmente lieve e socialmente risibile da rendere accettabile che i tempi processuali per aggredirla siano contingentati. La concretezza della patologia italiana, la lunga catena di scandali che inchiodano il Paese davanti a uno specchio, dovrebbe renderci consapevoli di quel che in Occidente tutti sanno: la corruzione crea una quantità di criticità che distruggono le istituzioni, la vitalità della democrazia, i valori etici, la giustizia. Minaccia la stabilità e la sicurezza della società.
Discutere di corruzione  -  ne sono consapevoli a Milano come a L'Aquila, in Piemonte come in Calabria  -  vuol dire interrogare i modi della convivenza civile, della nostra organizzazione sociale, della legittimità delle istituzioni, della trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese. Vuol dire discutere di quelle regole che il mito ideologico berlusconiano ha ritenuto inutili o irrilevanti, soltanto legacci capaci di imbrigliare le energie vitali. Significa ricordare che la corruzione (lo si vede nello scandalo della Protezione civile) tende a occupare gli spazi di discrezionalità lasciati a singoli individui, politici, amministratori o comunque pubblici ufficiali e in modo particolare affiora dove maggiormente si concentrano il potere politico e potere economico. Vuol dire ripristinare, al di là dell'intervento della magistratura che arriva sempre dopo, il canone della responsabilità, sistemi di controllo efficienti e credibili, garanti che sappiano proteggere le regole e prevenire i comportamenti e i "sistemi" patologici, gli abusi, i conflitti di interesse, le distorsioni del mercato.

A questo punto, dunque, siamo oggi, e dobbiamo soltanto chiederci se saremo in grado di venirne fuori prima che un'altra Repubblica cada sotto il peso della sua debolezza. Con un salto all'indietro, siamo ritornati alla casella di partenza. Al 1994, quando morì l'illusione di un risanamento del Paese.

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« Risposta #151 inserito:: Febbraio 26, 2010, 12:02:26 pm »

IL COMMENTO

La prova delle menzogne

di GIUSEPPE D'AVANZO


DAVID MILLS è stato corrotto.

È quel che conta anche se la manipolazione delle norme sulla prescrizione, che Berlusconi si è affatturato a partita in corso, lo salva dalla condanna e lo obbliga soltanto a risarcire il danno per il pregiudizio arrecato all'immagine dello Stato. Questa è la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Per comprenderla bisogna sapere che la corruzione è un reato "a concorso necessario": se Mills è corrotto, il presidente del Consiglio è il corruttore.

Per apprezzare la decisione, si deve ricordare che cosa ha detto, nel corso del tempo, Silvio Berlusconi di David Mills e di All Iberian, l'arcipelago di società off-shore creato dall'avvocato inglese. "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario" (Ansa, 23 novembre 1999). "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008). Bisogna cominciare dalle parole  -  e dagli impegni pubblici  -  del capo del governo per intendere il significato della sentenza della Cassazione.

Perché l'interesse pubblico della decisione non è soltanto nella forma giuridica che qualifica gli atti, ma nei fatti che convalida; nella responsabilità che svela; nell'obbligo che oggi incombe sul presidente del Consiglio, se fosse un uomo che tiene fede alle sue promesse.

Dunque, Berlusconi ha conosciuto Mills e, come il processo ha dimostrato e la Cassazione ha confermato (il fatto sussiste e il reato c'è stato), All Iberian è stata sempre nella sua disponibilità. Sono i due punti fermi e fattuali della sentenza (altro è l'aspetto formale, come si è detto). Da oggi, quindi, il capitolo più importante della storia del presidente del consiglio lo si può raccontare così. Con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, David Mills dà vita alle "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest". Le gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio "somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali" che lo ricompensano della testimonianza truccata.

Questa conclusione rivela fatti decisivi: chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi; che cosa è stato nascosto dalla testimonianza alterata dell'avvocato inglese. Si comprende definitivamente come è nato, e con quali pratiche, l'impero del Biscione; con quali menzogne Berlusconi ha avvelenato il Paese.

Torniamo agli eventi che oggi la Cassazione autentica. Le società offshore che per brevità chiamiamo All Iberian sono state uno strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo e della sua avventura imprenditoriale. Anche qui bisogna rianimare qualche ricordo. Lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi mentre, in parlamento, è in discussione la legge Mammì. In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche. Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente. Dunque, l'atto conclusivo del processo Mills documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c'è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la sua imprenditorialità, l'efficienza, la mitologia dell'homo faber, l'intero corpo mistico dell'ideologia berlusconiana ha il suo fondamento nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

E' la connessione con il peggiore passato della nostra storia recente che, durante gli interminabili dibattimenti del processo Mills, il capo del governo deve recidere. La radice del suo magnificato talento non può allungarsi in quel fondo fangoso perché, nell'ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese. Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell'infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della "società dell'incanto" che lo beatifica. Per scavare un solco tra sé e il suo passato e farsi alfiere credibile e antipolitico del nuovo, deve allontanare da sé l'ombra di quell'avvocato inglese, il peso di All Iberian. È la scommessa che Berlusconi decide di giocare in pubblico. Così intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, responsabile di fronte agli elettori, e il suo passato di imprenditore di successo. Se quel passato risulta opaco perché legato a All Iberian, di cui non conosce l'esistenza, o di David Mills, che non ha mai incontrato, egli è disposto a lasciare la politica e addirittura il Paese. Oggi dovrebbe farlo davvero perché la decisione della Cassazione conferma che ha corrotto Mills (lo conosceva) per nascondere il dominio diretto su quella macchina d'illegalità e abusi che è stata All Iberian (la governava). Il capo del governo non lo farà, naturalmente, aggrappandosi come un naufrago al legno della prescrizione che egli stesso si è approvato. Non lascerà l'Italia, ma l'affliggerà con nuove leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento), utili forse a metterlo al sicuro da una sentenza, ma non dal giudizio degli italiani che da oggi potranno giudicarlo corruttore, bugiardo, spergiuro anche quando fa voto della "testa dei suoi figli".

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« Risposta #152 inserito:: Giugno 19, 2010, 02:45:01 pm »

La legge-bavaglio dimostra che Berlusconi si può fermare

di GIUSEPPE D'AVANZO

Dunque, si può. Berlusconi può essere fermato, può essere costretto a precipitose ritirate. La sua ambizione cesaristica e il progetto post-costituzionale che l'accompagna si possono costringere nel solco dei principi costituzionali (del loro rispetto). È la buona notizia di questa storia della legge contro le intercettazioni (purtroppo ce n'è anche una cattiva) e vale la pena ragionarci su perché il congelamento (sine die?) di una legge liberticida e criminogena indica in modo scintillante un paio di cose non trascurabili o che molti hanno trascurato e trascurano ancora oggi. Berlusconi non è il nostro Destino. Non è il Fato cui dobbiamo inchinarci, rassegnati, disposti a sopportare tutto, silenziosi perché travolti dalla "rassicurante frustrazione" di chi è stato espropriato finanche della capacità espressiva per rappresentare il proprio disagio. In questa occasione, un'opinione pubblica critica, ampi settori del mondo dell'informazione  -  questo giornale e i suoi lettori in testa  -  , segmenti non irrilevanti della maggioranza, qualche presidio istituzionale e addirittura un'opposizione che ritrova le ragioni del suo esistere hanno trovato la forza di obbiettare il proprio dissenso sentendo come un sopruso quella legge.

Come una vergogna non opporvicisi; come un dovere civico impedire la distruzione del diritto dei cittadini alla sicurezza e all'informazione. Se Berlusconi non è una necessità ineluttabile, non è scritto allora nella pietra che la nostra democrazia debba essere fatalmente affidata a chi come il Cavaliere "vince di default e governa attraverso la demoralizzazione cinica" (Slavoj Zizek).

Sono due convincimenti che da oggi bisogna coltivare con cura e impegno perché la sconfitta che Berlusconi incassa non è soltanto lo stop a un disegno di legge. Il passo falso di oggi è anche il tracollo di un'idea politica che attribuisce il potere di una "decisione assoluta" a chi governa perché solo il comando diretto e indiscusso può assicurare la "governabilità" del Paese. Chi dissente da questo paradigma di governo o soltanto lo limita per dovere istituzionale o lo vaglia per impegno professionale e civile diventa - in questo quadro politico e, se si vuole, psicologico - il pericoloso agente del declino da affrontare. Ecco perché, nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto alla forza, Berlusconi avverte da sempre come un obbligo improrogabile intervenire contro la magistratura limitando l'uso delle intercettazioni o contro l'informazione promettendo il bavaglio a chi pubblica il testo di "un ascolto".

Magistratura e informazione - i due ordini che, in un'equilibrata architettura di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri - diventano "nemici" da ridurre a uno stato di costrizione perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l'urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi - va ricordato - avrebbe voluto fin dal quinto Consiglio dei ministri del suo governo con immediata forza di legge, costretto a una marcia indietro dal Capo dello Stato e dalla Lega, che avrebbe dovuto spiegare alla sua gente di aver negato le intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione.

Se la bocciatura del disegno di legge è anche la sconfitta di un'idea politica, si deve osservare che le nuove regole avrebbero voluto, sì, appesantire l'investigazione con intralci, intoppi, bizzarri obblighi soltanto per proteggere le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendendo più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy, ma quella legge avrebbe dovuto codificare una sorta di "diritto positivo della crisi" che impone ossequio alla funzionalità delle decisione politica e dunque il silenzio ai giornalisti, onerose penitenze economiche agli editori non conformi e un'innocua agenda di lavoro al pubblico ministero.
Questo "presepio" non è piaciuto perché ridisegna una nuova forma costituzionale con un governo abusivamente armato di più poteri e un cittadino abusivamente privato dei suoi diritti. Il progetto fallisce non per l'inettitudine politica di Berlusconi, come argomenta Giuliano Ferrara, ma al contrario per l'abbagliante riverbero della sua politicità. Il Cavaliere posa ad antipolitico, ma chi può credergli? Alla politica classica la dignità che egli non riconosce, che palesemente disprezza è di stare al di là e al di sopra degli interessi particolari che agitano la società civile.

Per il capo del governo, la politica non è altro che potere pubblico esercitato senza scrupoli a protezione, innanzitutto, dei propri interessi economici e, poi, dei gruppi, ceti, lobby che lo sostengono. È questa convinzione che rende necessaria la pretesa di immunizzarsi da ogni controllo; di rendere Legge la sua persona e le sue convenienze personali; indiscutibili le sue decisioni e scelte anche quando nomina un socius ministro soltanto per sottrarlo alla giustizia (è il caso di Aldo Brancher). I controlli della magistratura, dell'informazione hanno scovato e mostrato che cosa nasconde l'illusionismo pubblicitario del Cavaliere. Hanno ricomposto una realtà dissolta dal dominio mediatico del governo, illuminato il conflitto d'interessi che strangola il servizio pubblico della Rai, rivelato le miserie e il vuoto della sua affabulazione, la corruzione nascosta nel modello del trauma e del miracolo, dell'emergenza risolta con un prodigio. È infatti lo scandalo della Protezione civile che ha convinto Berlusconi a giurare il pubblico "mai più intercettazioni" perché quel sistema, affidato alla leadership amministrativa di Gianni Letta e alla guida tecnocratica di Bertolaso, è il prototipo del potere che egli pretende. È il dispositivo che anche pubblicamente egli invoca quando dice: "Per governare questo Paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile".

È la politicità di questo disegno dunque che è stata rifiutata: questa volta non tutti hanno creduto che i personali interessi di Silvio Berlusconi fossero gli interessi del Paese e del "popolo" e meno che mai una battaglia per il diritto alla privacy. Il Cavaliere ha dovuto prendere atto che forzare la mano avrebbe messo a serio rischio il suo governo, le alleanze, il suo prestigio. È una buona notizia. Il programma di andare oltre la democrazia parlamentare verso un governo legittimato dal carisma e dal potere del Sovrano è stato fermato. È un buon inizio anche per affrontare la cattiva notizia. Berlusconi ci riproverà. Non ha altra alternativa per conservare se stesso che dissolvere non solo nei fatti, ma anche formalmente, l'equilibrio costituzionale e il principio di legalità. Sarà la battaglia d'autunno e ci sarà modo di parlarne.

 

(19 giugno 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #153 inserito:: Giugno 25, 2010, 03:37:49 pm »

IL COMMENTO

Il predone

di GIUSEPPE D'AVANZO

PENSIAMO ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l'intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta.
Bisogna convincersene, quell'uomo sarà sempre in grado di mostrare un'intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l'opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l'affaire Brancher.

La storia la si conosce. C'è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l'addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.

Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una
frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l'una e l'altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l'incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.

Fin dall'annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti  -  se non agli ingenui  -  che Aldo Brancher diventa ministro per un'unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.

C'è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest'affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo  -  il Cesare di Arcore  -  che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.

Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo  -  chiamatelo come volete  -  di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli  -  nel suo potere e volontà  -  di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma  -  come per Brancher  -  in una casa dell'impunità per corifei e turiferari. Quel che l'affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l'abuso e l'istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.

Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l'uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l'esecutore muto degli ordini dell'esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull'oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l'annichilimento delle istituzioni.

Umiliante e illuminante, l'affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d'istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l'antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L'affaire Brancher conferma che non c'è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all'opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?

(25 giugno 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #154 inserito:: Giugno 26, 2010, 06:16:28 pm »

IL COMMENTO

La truffa del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO

Il capo dello Stato smaschera il gioco e lascia senza veli gli abusi di potere, la truffa politica, l'umiliazione delle istituzioni occultati nell'affaire Brancher. Il neo-ministro  -  cooptato da Berlusconi a capo di un dicastero al solo scopo di evitargli un processo per appropriazione indebita  -  si è aggrappato al "legittimo impedimento" per evitare il dibattimento. "Devo organizzare il ministero" si è giustificato con i giudici. Non c'è nulla da organizzare, spiega ora Giorgio Napolitano, perché il ministero di Brancher  -  quale che sia: per l'attuazione del federalismo o per il decentramento e la sussidiarietà  -  è un ministero senza portafoglio.

Quindi, conclude una nota del Quirinale, "non c'è nessun nuovo ministero da organizzare" e, di conseguenza, nessun legittimo impedimento da invocare. La logica conclusione dell'intervento del capo dello Stato sembra essere: c'è un solo, corretto gesto che oggi il neo-ministro può proporre: si faccia processare. Le poche parole di Napolitano, secche e fattuali, lasciano l'intera Operazione Impunità del governo Berlusconi senza alibi. Ne mostrano la violenza istituzionale.

Contiamo gli abusi, gli inganni, le truffe dell'affaire. È stato ingannato il capo dello Stato. Gli è stata presentata la nomina di Brancher come un riequilibrio indispensabile all'efficienza del governo, era soltanto un espediente per rendere quell'uomo immune alla giustizia. Si è lasciato credere - a un Paese in attesa di decisioni e politiche che lo proteggano dalla crisi - che fosse necessario un nuovo ministero. Falso. Di questo ministero - di cui peraltro si ignorano ragione, missione e anche la denominazione - non c'è alcun bisogno. Si è piegata l'oggettività di una funzione pubblica, la legittimità di un'istituzione (addirittura, il governo) alla soggettiva urgenza di un signore che, da sempre nell'inner circle di Arcore, è nel cuore di Silvio Berlusconi fin dai tempi in cui il Cesare di oggi era soltanto uno spregiudicato imprenditore. Si è mentito ai giudici. Un falso doppio. Ha mentito l'imputato-ministro, ma ha mentito anche il governo che, al contrario del capo dello Stato, ha taciuto per un'intera giornata una verità elementare: Brancher non ha alcun ministero da organizzare.

La sequenza di abusi, inganni e truffe del governo rende necessario soddisfare con qualche risposta pubblica una curiosità e indispensabile una mossa politica. La curiosità è sulla bocca di tutti: perché Silvio Berlusconi si è cacciato in questo pasticcio? Ne aveva proprio bisogno? Che cosa ce lo ha costretto? A ragionare su quel che si sa, è incomprensibile. Aldo Brancher è imputato, nel processo Antonveneta, di appropriazione indebita. Ha "grattato" qualche centinaia di migliaia di euro al banchiere Gianpiero Fiorani. Brancher avrebbe potuto affrontare il processo senza troppi patemi e approfittare agevolmente dei labirinti procedurali messi a punto in due legislature dal Cavaliere per annientare il processo penale e rendere arduo ogni accertamento dei fatti e delle responsabilità. L'ampio ventaglio di opportunità offerte da codici, che hanno ridotto il processo a ferro arrugginito, gli avrebbero ragionevolmente dato la possibilità di farla franca senza danno. Ma ammettiamo che, con una sentenza, il danno alla fine sarebbe arrivato. Quale danno? Una condanna neutralizzata dall'indulto che avrebbe fatto fatica a guadagnare, nei giornali, uno spaziuccio tra le brevi di cronache. Perché allora sollevare questo polverone? Perché accendere le luci su un processo che si trascina stancamente nella penombra e nel disinteresse? Quale minaccioso racconto o vergogna può farvi capolino se l'imputato Brancher entra in aula?
Perché Berlusconi si convince a mettere la sua faccia su un abuso politico e una truffa istituzionale che, senza alcuna speranza di occultamento, avrebbero provocato l'interesse dell'opinione pubblica, l'irritazione dell'alleato leghista, la contrarietà del cofondatore del Popolo della Libertà, il fragore dell'opposizione? Un gioco a saldo tutto, e decisamente, negativo. Bisogna allora chiedersi: qual è la ragione che obbliga Berlusconi ad affrontare questa tempesta? Quale ricatto si muove dietro le quinte? E quale fragilità il capo del governo deve coprire con la cooptazione nel governo di Aldo Brancher?

Nelle democrazie sane c'è un luogo dopo porre queste domande e ottenere risposte che possono essere vagliate e verificate: è il Parlamento. Berlusconi dovrebbe avere il coraggio di affrontarlo, per una volta. E l'opposizione e i settori della maggioranza coinvolti inconsapevolmente in quest'affaire molto imbarazzante dovrebbero pretenderlo. Come appare obbligatoria una mossa politica. Se la sintassi istituzionale e la grammatica politica avessero ancora un significato, Aldo Brancher dovrebbe dimettersi fin da oggi, prima di raggiungere il tribunale di Milano. Le parole di Napolitano sembrano pretenderlo. La nota del Quirinale si può leggere, al fondo, anche così: se credi di fare il ministro per evitare un processo, non hai diritto a essere ministro perché le ragioni che tu lo sia sono venute meno; hai il dovere di affrontare il processo senza alcuna immunità perché è scritto che tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge. 
 

(26 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/26/news/la_truffa_del_cavaliere-5166991/
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« Risposta #155 inserito:: Settembre 23, 2010, 10:01:54 am »

IL CASO

Cavaliere, ci dica se la legge è uguale per tutti

di GIUSEPPE D'AVANZO 

DUNQUE, martedì prossimo Silvio Berlusconi è atteso in Parlamento per un discorso che i suoi desiderano sia addirittura memorabile. Che cosa si intende per "memorabile"? Quando e come le parole di un uomo di Stato diventano storiche? Vediamo.

Si sa che il premier, nel suo intervento, illustrerà i cinque punti programmatici (giustizia, Mezzogiorno, fisco, federalismo e sicurezza) per rilanciare la corsa di un governo a corto di fiato. Berlusconi chiederà ai suoi alleati ostili (Fini) o delusi (Lega) di sottoscrivere intorno alle cinque questioni un "patto" per concludere la legislatura con un decoroso rispetto delle urgenze del Paese e degli impegni elettorali.
L'iniziativa può avere due esiti. Il primo, miserello. Berlusconi si accontenta di una risicata maggioranza che certifichi la sopravvivenza del suo governo e - insieme - la morte di ogni autarchia della sua leadership, costretta in una condizione di minorità politica a mendicare - di volta in volta - il consenso di Bossi, l'approvazione di Tremonti, la non belligeranza di Fini e il benestare finanche del governatore siciliano Raffaele Lombardo, di Storace, dei transfughi dell'Udc. Una pietosa baraonda senza futuro.

Il secondo approdo, imprevedibilissimo, è nello stile del signore di Arcore che, figlio viziato della politica della Prima Repubblica, si è inventato campione dell'antipolitica nella Seconda Repubblica (qualsiasi cosa questa formula significhi). Minorità? Autonomia limitata? Vaniloquio, cicaleccio di politici di professione - lo immaginiamo dire ai suoi - posso farne a meno di queste preoccupazioni ché sono capace di scrivere l'agenda dell'attenzione pubblica come voglio e quando voglio; ché la mia leadership non dipende dalle manovre romane - me ne fotto - ma dal rapporto diretto - che ho - con il popolo, con i suoi umori che sapientemente posso mescolare e maneggiare. Qualcuno pensa che non sia più in grado di farlo?

Le sabbie mobili
Si fa fatica a credere che Berlusconi, a un passo dal suo traguardo (la corsa al Quirinale), si accontenti di vivacchiare mediocremente fino a quando Fini sarà pronto con il suo nuovo partito o magari, per qualche seggiola in meno o finanziamento caduto, Lombardo o per dire un Cuffaro spengano le macchine che tengono in vita il governo. È più probabile che, come gli consigliano, Berlusconi provi la posa dello "statista" (è accaduto una sola volta il 25 aprile 2009 a Onna nel giorno del ricordo della Resistenza). È plausibile che egli tenti di tirarsi fuori dalle sabbie mobili che lo stanno inghiottendo con un'invenzione che "generi la politica dall'antipolitica, l'ordine dal caos".

Certo, può accadere anche questo, anche questa volta. Berlusconi ha dato in questi sedici anni prova di come possa governare il Barnum italiano con la frusta, con il sorriso, con una menzogna strepitosa, con la pura energia della sua teatralità, con lo sciagurato favore di un'opposizione inconcludente fino allo sconforto, ma il passaggio che il presidente del Consiglio affronterà tra una settimana appare finale perché questa volta - e in modo definitivo - pare in discussione lo stesso "contratto emotivo" che il popolo della destra ha sottoscritto identificandosi in lui, rappresentandosi in lui più che essere da lui rappresentato.

In questa curva dell'avventura berlusconiana, appare in gioco la "forza del sogno" che il Cavaliere ha indotto da tre lustri nel metabolismo sociale del Paese alimentando l'illusione, come è stato detto, di una potenza individuale e di gruppo, di una felicità e un benessere possibile, raggiungibile da chiunque, per chiunque a portata di mano se fossero stati gettati per aria - come egli prometteva - alcuni ostacoli: i "comunisti", i migranti, l'informazione, il sindacato, i magistrati, la Rai pubblica, la cultura "giustizialista", il fisco, la Costituzione... Bene, la maggioranza elettorale degli italiani ha creduto nell'Italia che aveva in mente ("Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme un nuovo miracolo italiano"). Gli hanno detto: fallo, facci felici. Gli hanno consegnato in tre occasioni (1994, 2001, 2008) le chiavi del Palazzo e che cosa gli hanno visto combinare? Pochissimo. Quasi nulla. Quasi niente.

L'uomo del fare
L'uomo del fare, oculatissimo a coltivare il suo particulare, si è dimostrato un incapace quando i beni sono collettivi e gli affari pubblici. Nessuna delle strettoie che, nello schema illusorio di Berlusconi, ci trattengono sulla soglia della prosperità è stato mai rimosso con le riforme promesse. Nessuno. Nonostante le magie manipolatorie, chiunque ha potuto rendersi conto - anche i mafiosi di lui dicono: Iddu pensa solu a iddu - che in questi anni Berlusconi ha avuto una sola bussola: la sua tutela personale, la protezione della sua roba e quindi, soprattutto, l'assoluta necessità di evitare i processi che lo coinvolgono. Una dopo l'altra, le legislature vengono e vanno, quale che sia la forza della maggioranza che lo sostiene, in estenuanti fatiche parlamentari che devono assicurargli l'impunità.

Una gigantesca macchina politico, giudiziaria, mediatica ferma nel tempo, che divora ogni cosa, ogni altro problema, argomento, intelligenza, dibattito, cancellando il presente e le priorità del Paese. Ce n'è una sola, nel mondo dell'Egoarca: il suo destino minacciato dall'opacità dei comportamenti che ne hanno fatto un tycoon. È dal passato che l'Egoarca si deve proteggere. È una coazione a ripetere che conferma le ragioni originarie della corsa politica di Berlusconi. Non ci sono state nascoste, in verità. Ce le ha spiegate per tempo Fedele Confalonieri quali fossero: "La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremo sotto un ponte o in galera. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento nel "lodo Mondadori"" (Repubblica, 25 giugno 2000). Ancora più recentemente, Confalonieri ripete: "Le leggi ad personam? Le fa per proteggersi. Se non fai le leggi ad personam vai dentro" (La Stampa, 2 novembre 2009).
Siamo esattamente - oggi - nello stesso punto dove la storia è cominciata sedici anni fa. Ieri come oggi, il primo e solo punto dell'agenda politica del Cavaliere è combinarsi un'impunità tombale. Lo svela, nella demoralizzazione cinica dei più, un altro turiferario delle cerimonie di Arcore: "Adesso và a spiegare alla gente che buona parte del gigantesco casino in cui si trova la politica italiana dipende dalle decisioni della Corte costituzionale". (Bruno Vespa, Panorama, 16 settembre 2010).

Rapido riepilogo per chi avesse perduto qualche battuta. Il 14 dicembre la Consulta decide se la legge del legittimo impedimento può vivere o è costituzionalmente nata morta. Quella legge che protegge l'Egoarca dai giudici per diciotto mesi dovrebbe dargli respiro e consentire di imporre al Parlamento una nuova legge immunitaria questa volta costituzionale, dopo gli scarabocchi ("lodi") di Schifani e Alfano. Naturalmente, Berlusconi non si fida né dei giudici costituzionali né dei parlamentari ed è già al lavoro con i suoi azzeccagarbugli per scavare trincee e alzare muri che possano fermare la mano del giudice. Un nuovo intervento sulla prescrizione. Il divieto di utilizzare sentenze passate in giudicato. Una nuova legge sul legittimo impedimento che possa indurre la Corte a rinviare, il 14 dicembre, ogni pronunciamento. Una nuova legge costituzionale che egli conta di far approvare in doppia lettura entro l'aprile del 2011 prima di contarsi con un referendum confermativo (sempre che l'opposizione, complice o intontita, scandalosamente non l'approvi). Una "road map" - come la chiamano allegramente - che impegnerà da oggi e per un anno il Parlamento, il confronto tra i partiti, l'opinione pubblica e i media, l'intero discorso pubblico.

Da questo punto di vista, il "gigantesco casino in cui si trova la politica italiana" è meno ingarbugliato di come pretendono di raccontarcelo. Se non ci si lascia ingabbiare da ipocrisie anestetiche e tartufismi, la sola questione che ha l'interesse di Berlusconi - tra le cinque che egli proporrà tra una settimana al Parlamento, chiedendo un voto di fiducia - è la giustizia. Non la giustizia di tutti, la giustizia per tutti, ma la giustizia che riguarda da vicino lui, che preoccupa personalmente lui, che minaccia la di lui preziosissima roba. Nessuna sorpresa. Berlusconi è esattamente questo: è potere statale che, senza scrupoli e apertamente, protegge se stesso e i suoi interessi economici. È una rotta sempre più problematica in un'Italia infelice con un prodotto interno congelato, una ripresa lentissima, il debito pubblico in aumento, l'occupazione ancora in ribasso, le entrate dello Stato in flessione a petto di un'evasione fiscale che tocca tetti mai sfiorati in un deserto di politiche pubbliche a favore del lavoro, delle imprese, delle famiglie, del Mezzogiorno disgraziatissimo. È questa contraddizione - l'intera vita parlamentare assorbita dalle urgenze del Capo e non dai bisogni del Paese - che può decidere il collasso della "forza del sogno", la rescissione di quel "contratto emotivo" che ha reso vincente il Cavaliere di Arcore. Anche perché quel che Berlusconi teme soprattutto è il cosiddetto "processo Mills" che è un processo assai rivelatore.

Il mito e la realtà
Breve memento per gli smemorati. Con il coinvolgimento "diretto e personale" del Cavaliere, l'avvocato inglese David Mills dà vita alle "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest". Le gestisce per conto e nell'interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l'avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio da Berlusconi "somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali" che lo ricompensano della testimonianza truccata. Questa storia non è più aperta soltanto al sospetto, come si dice. È un complesso di fatti coerente, dotato di senso che illumina chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi. Si comprende con quali pratiche fraudolente, sia nato l'impero del Biscione. All Iberian è stato lo strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo.

Anche qui bisogna rianimare, per l'ennesima volta, qualche ricordo. Lungo i sentieri del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi destinati non si sa a chi mentre, in Parlamento, è in discussione la legge Mammì. In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche. Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente. La sentenza della Cassazione (che cancella per prescrizione la condanna di Mills confermandone i trucchi della testimonianza e la corruzione) documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c'è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la mitologia dell'homo faber ha il suo fondamento nel malaffare, nell'illegalità, nella corruzione della Prima Repubblica. Consapevole di quanto questo ritratto di se stesso sospeso nella narrazione di David Mills contraddica la scintillante immagine del tycoon sempre vincente per genio fino ad umiliarne l'ideologia (è il mio trionfo personale che mi assegna il diritto di governare, sono le mie ricchezze la garanzia dell'infallibilità della mia politica), Berlusconi ha dovuto scavare tra sé e il suo passato un solco che lo allontanasse dall'ombra di quell'avvocato inglese. Questa necessità gli è stata sempre chiara negli ultimi dieci anni. Cosciente che se fosse prevalso il Berlusconi scorto nella trama svelata da David Mills, la sua avventura politica sarebbe apparsa il patetico sogno di grandezza di un briccone, in definitiva di un pover'uomo melodrammatico che vuole soltanto farla franca, il Cavaliere ha mentito a gola piena scommettendo però, in pubblico, la sua testa. "Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario" (Ansa, 23 novembre 1999). "Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008).

Bugiardo, corruttore, spergiuro anche quando fa voto della "testa dei suoi figli". Sono panni che non può indossare. Per non indossarli è disposto anche a farsi imbozzolare in una minorità politica, anche a tenere fermo il Paese - per un altro intero e lungo anno - nella palude del suo interesse personale ingaggiando, in nome della solita falsa rivoluzione, un nuovo scontro con la democrazia parlamentare, gli organi di garanzia costituzionale, con gli stessi principi della Carta, legge delle leggi.

La legge è uguale per tutti?
È per tirarlo fuori da questo labirinto che i consiglieri più accorti spingono il premier a fare del suo intervento del 28 settembre un discorso memorabile, "da statista". Hanno ragione, se non preparano le consuete fumisterie da fiera peronista. Noi crediamo - e lo diciamo anche con la convinzione del nostro disincanto - che ci sia un solo modo concreto e credibile, per Berlusconi, di dimostrarsi all'altezza della ambizione e responsabilità pubblica. Difenda il suo onore, la sua storia, la verità dei suoi giuramenti. Accetti di dimostrare nel solo luogo appropriato - il processo - l'irreprensibilità delle sue condotte e della sua fortuna. Eserciti in quel luogo - l'aula di un tribunale - i diritti della difesa. Le procedure proteggono quei diritti e a Berlusconi, sostiene, gli argomenti per farlo non mancano. Lo faccia. Martedì prossimo in Parlamento il presidente del Consiglio rivendichi di essere cittadino tra i cittadini con gli stessi diritti e gli stessi doveri di chiunque. Reclami - egli - l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e chieda di essere processato a Milano senza alcuno scudo, impedimento, immunità. Metta da parte le sue personali preoccupazioni per lasciare libera la politica - il governo, il Parlamento - di affrontare le inquietudini degli italiani e le difficoltà del Paese. L'Italia ha dato tanto a Berlusconi, è giunto il tempo che Berlusconi dia qualcosa all'Italia che non sia una legge ad personam. Presidente, vuole dire - e finalmente dimostrare - che la legge in Italia è davvero uguale per tutti?   

(21 settembre 2010) © Riproduzione riservata

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« Risposta #156 inserito:: Settembre 23, 2010, 10:12:33 am »

IL CASO

"Ecco come gli uomini del premier hanno manovrato la macchina del fango"

I finiani: mossi anche i Servizi. Hanno isolato otto questioni "decisive per capire" e il direttore del Secolo Perina le ha ordinate come se fossero domande.  Il presidente della Camera ha avuto la certezza che la casa di Montecarlo non è del cognato

di GIUSEPPE D'AVANZO


Ora, tra Berlusconi e Fini, tutto ritorna in alto mare. Come prima. Se è possibile, peggio di prima. Molto peggio. Va per aria la pace concordata per scrivere insieme una legge immunitaria costituzionale e quindi la road map che avrebbe consentito al governo di vivacchiare per lo meno fino ai primi mesi del 2012 quando il referendum confermativo avrebbe dovuto decidere il destino della legislatura. Che cosa è accaduto? Perché il presidente della Camera ha chiesto ai suoi "ambasciatori" Italo Bocchino e Giulia Bongiorno di chiudere ogni canale di comunicazione e trattativa con il ministro della Giustizia Alfano e l'avvocato del Cavaliere Ghedini? Quali evidenze hanno convinto Fini che quella trattativa politico-legislativa è una falsa trattativa, una trappola, soltanto un modo per temporeggiare in attesa che si concluda il character assassination; una parentesi tattica per dar modo agli "assassini politici" di concludere il lavoro sporco di demolizione di ogni affidabilità pubblica del co-fondatore del Popolo della Libertà? La risposta che si raccoglie negli ambienti vicini al presidente della Camera non è ambigua: "Fini ha qualche prova e la ragionevole certezza che le informazioni distruttive che ogni giorno vengono pubblicate da il Giornale e Libero, controllati dal presidente del Consiglio, sono fabbricate in un circuito che fa capo direttamente a Silvio Berlusconi".

Fini, nel pomeriggio di ieri, può dire ai suoi "ambasciatori" che quel che gli viene riferito, quel che gli viene mostrato, quel che ha accertato con indagini private non lascia spazio al dubbio. Gli uomini più esposti nell'aggressione riferiscono passo dopo passo del loro lavoro e delle loro mosse al Cavaliere. Che martedì, alla vigilia del titolo "Fini ha mentito, ecco le prove", ha incontrato Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti, i "sicari" del Giornale, e ieri Amedeo Laboccetta, il parlamentare del Pdl, vecchio esponente napoletano di An, capace di "muovere le cose" nei Caraibi grazie all'influenza di Francesco Corallo. Altro nome chiave - Francesco Corallo - di questa storia. Figlio di Gaetano, detto Tanino, latitante catanese legato al boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, Francesco Corallo è nei Caraibi "l'imperatore di Saint Maarten", dove gestisce con attività collegate a Santo Domingo alberghi, un giornale, quattro casinò con l'Atlantis World, multinazionale off-shore, partner dei nostri Monopoli di Stato nel business (complessivamente 4 miliardi di euro) delle slot machines ufficiali. Le mani che s'intravedono nella "macchina del fango" che muove contro Fini da mesi sono di Berlusconi, Feltri, Angelucci (editore di Libero), Laboccetta (Corallo), dicono senza cautela gli uomini del presidente della Camera.

"Non è più il tempo della prudenza. Abbiamo sufficienti informazioni per poter ricostruire che cosa è accaduto e per responsabilità di chi". Gli uomini di Fini hanno isolato otto questioni "decisive per capire" e Flavia Perina, direttora del Secolo d'Italia, le ha ordinate come se fossero domande. "È vero, come ha scritto Libero che c'è un rapporto personale tra l'ex primo ministro di Santa Lucia e Silvio Berlusconi che "deve far tremare Fini" (nell'isola di Santa Lucia è registrata la società proprietaria dell'appartamento di Montecarlo affittato dal cognato di Fini, ndr)? È vero, come ha scritto il Giornale il 17 settembre scorso che sono stati inviati a Santa Lucia agenti dei Servizi e della Guardia di finanza, e chi li ha mandati? È vero che a Santa Lucia ci sono, e da tempo, inviati della testata di Paolo Berlusconi, il Giornale e del mondadoriano Panorama? E' vero che la lettera di Rudolph Francis, con la dicitura "riservata e confidenziale" è stata fatta filtrare alla stampa estera attraverso un sito di Santo Domingo, località di residenza - guarda caso - di Luciano Gaucci? E' solo una coincidenza che Gaucci sia la "mina vagante" della stagione dei talk show, indicato negli scorsi giorni come possibile ospite eccellente di Matrix, l'Ultima Parola e persino Quelli che il calcio? Cosa significa l'ambigua nota in coda alla lettera di Francis "le nostre indagini restano in corso in una prospettiva di una determinazione finale"? E ancora, come è immaginabile che il ministro di un paradiso fiscale giudichi "pubblicità negativa" la segretezza delle società off-shore, posto che essa è il principale motivo per cui il suo Paese sta in piedi? Dice niente a nessuno il fatto che l'attuale editore di El National, Ramon Baez Figueroa, sia anche proprietario di diverse reti televisive come Telecanal e Supercanal?".

Gli otto dubbi retorici consentono di ricostruire il puzzle che, benché ancora monco, Gianfranco Fini ha sotto gli occhi. Indagini private gli hanno confermato che Giancarlo Tulliani non è il proprietario dell'appartamento di Montecarlo. Sospiro di sollievo: il giovane cognato avrebbe sempre potuto mentirgli ostinatamente, e fino ad oggi. Con la certezza dell'estraneità di Tulliani, Fini ha potuto sistemare meglio le altre tessere del mosaico. Si è chiesto: ma è ragionevole che un'isola (Santa Lucia) che vive con la leva della sua legislazione offshore si dia da fare per svelare i nomi dei proprietari di una società registrata in quel paradiso fiscale? Un non-sense. Epperò perché il ministro di Giustizia scrive che è Tulliani il proprietario delle sue società sospette? Ma è vero che questo ha scritto quel ministro? E' autentica quella lettera o su carta intestata (autentica) è stata sovrapposto un testo apocrifo?

La lettera se la sono rigirata a lungo tra le mani, ieri, Giulia Bongiorno e Italo Bocchino e hanno concluso che o la lettera è del tutto falsa o, anche se non lo è, non aggiunge nulla di nuovo a quel che si sa perché conferma che, secondo fonti monegasche, Giancarlo Tulliani è il "beneficiario dell'appartamento" che potrebbe voler dire soltanto che Tulliani è - bella scoperta, a questo punto - l'affittuario dell'immobile. Gianfranco Fini è apparso più interessato a ricostruire, con le informazioni che ha a disposizione, lungo quale canale e con quali protagonisti quella lettera manipolata si sia messa in movimento consapevole che il mandante dell'assassinio politico provochi la fuga di notizie rimanendo al di fuori della mischia. Dicono che sul tavolo intorno a cui Fini ha incontrato i suoi collaboratori sia rimasto a lungo un foglio, presto annotato con nomi, frecce, connessioni. Lo si può ricostruire così.

Uomini dei servizi segreti o della Guardia di finanza raggiungono Santa Lucia (la notizia è del Giornale). Devono soltanto sovrintendere che "le cose vadano nel verso giusto", che quel ministro di Giustizia dica quel che deve o fornisca le lettere con intestazione originale che necessitano. E' stato lo stesso Silvio Berlusconi a predisporre le cose potendo contare sul "rapporto personale tra l'ex ministro di Santa Lucia e il nostro presidente del Consiglio". Un legame (notizia di Libero) che "deve far tremare Fini". Bene, viene confezionato il falso. Ora deve arrivare in Italia senza l'impronta digitale del mandante. Bisogna seguire le frecce sul foglio dinanzi a Gianfranco Fini. Da Santa Lucia la lettera farlocca (o ambigua) arriva su un sito e poi nelle redazioni di due giornali di Santo Domingo. Da qui afferrata come per una pesca miracolosa dal sito Dagospia. Ora - gli uomini di Fini chiedono - chi ispira Dagospia? Credono di saperlo. Anzi, dicono di saperlo con certezza: "Dagospia, sostenuto dai finanziamenti di Eni ed Enel, è governato nelle informazioni più sensibili da Luigi Bisignani, il piduista, l'uomo delle nomine delicate, braccio destro operativo di Gianni Letta dal suo ufficio di piazza Mignanelli". Da Dagospia l'informazione manipolata slitterà sulle prime pagine di Giornale e Libero. Che potranno dire: abbiamo rilanciato soltanto una notizia pubblicata dalla stampa internazionale.

Una menzogna che tace e copre e manipola quanto ormai è chiaro a tutti dal character assassination di Veronica Lario, Dino Boffo, Raimondo Mesiano, Piero Marrazzo e ancora prima di Piero Fassino. Il giornalismo, diventato tecnica sovietica di disinformazione, alterato in calunnia, non ha nulla a che fare con queste pratiche che non sono altro che un sistema di dominio, un dispositivo di potere. Uno stesso soggetto, Silvio Berlusconi, ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi da più di un anno e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore ancora una volta, con l'"assassinio" di Gianfranco Fini, è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. Il presidente della Camera sembra determinato a spezzare il gioco e, saltato il tavolo della non belligeranza, la partita appare soltanto all'inizio e sarà la partita finale.

(23 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #157 inserito:: Settembre 24, 2010, 04:45:37 pm »

IL CASO

Quella verità che accusa il Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO


COMINCIANO a manifestarsi fatti solidi e addirittura qualche nome. La dinamica della "macchina del fango", ingolfata di documenti falsi, s'inceppa e rincula  -  come sempre: è già accaduto per l'assassinio mediatico del direttore dell'Avvenire, Dino Boffo. Conviene indicare subito i fatti. I "sicari" pubblicano un documento del ministro della Giustizia dell'isola caraibica off-shore Santa Lucia dove sono custodite le società proprietarie della casa monegasca affittata dal cognato di Fini, Giancarlo Tulliani.
Il documento attribuisce al "parente" la diretta proprietà dell'appartamento. Il foglio ministeriale, pubblicato da due quotidiani di Santo Domingo (El Nacional, Listin Diario), ripreso in Italia dal sito Dagospia, rilanciato con molto rumore e definitive, incaute certezze da il Giornale e Libero appare anche alla luce del solo buon senso una frottola abborracciata alla meglio.

Che interesse può avere un paradiso fiscale a svelare alla prima pressione il nome del proprietario di una società nata nei Caraibi proprio per proteggersi con l'anonimato? Chiunque comprende che sarebbe stata una irragionevole leggerezza perché è plausibile il rischio di perdere, in pochi giorni e per quella bocca larga, decine di migliaia di presenze incognite e senza nome che fanno prosperare quell'isola. È stata, mercoledì, la prima delle obiezioni del "cerchio stretto" del presidente della Camera. Oggi quell'intuito si è irrobustito con un'evidenza. La tipografia di Stato di Santa Lucia  -  la National printing corporation  -  nega che il documento che avrebbe dovuto affondare Giancarlo Tulliani, e con lui la terza carica della Stato, sia autentico. Il carattere originale della scritta Attorney  -  General's Chambers è differente da quello pubblicato dai quotidiani domenicani e italiani. Spiega un funzionario della National printing corporation al ilfattoquotidiano. it: "Non ho memoria che ci abbiamo mai chiesto di cambiare carattere. E noi non riforniamo carte intestate digitali, ma solo stampate". Si può farla breve. Quel documento è stato manipolato. E' del tutto artefatto. Nemmeno la carta intestata è autentica e, se non lo è l'intestazione, non può esserlo a maggior ragione il contenuto. A questo punto, è necessario chiedersi chi ha confezionato l'inganno. Da quarant'otto ore, il presidente della Camera e i suoi collaboratori si dicono convinti di aver rintracciato il mandante politico, gli "assassini", le mosse dell'agguato che avrebbe dovuto cancellare il futuro politico di Gianfranco Fini, distruggerne la rispettabilità personale, costringerlo alle dimissioni e all'oblio. Fini è così convinto di essere venuto a capo della "manovra", così persuaso che dietro il "falso" ci siano le "manine" organizzate da Silvio Berlusconi che dispone la fine immediata di ogni trattativa politica per individuare il percorso più rapido e protetto per consegnare al Cavaliere una legge immunitaria per via costituzionale. E' una decisione che apre una partita mortale che non prevede il pareggio. Uno dei due antagonisti dovrà soccombere. Non se lo nascondono i più stretti collaboratori di Fini se si decidono a dire, come fa Italo Bocchino, "il dossier è stato prodotto ad arte da una persona molto vicina a Berlusconi che ha girato per il Sudamerica, di cui al momento opportuno saprete il nome". "Comunicheremo nelle forme adeguate chi è la persona che si è premurata di costruire questa patacca", aggiunge Fabio Granata.

Ora è necessario ricostruire quel che il presidente della Camera e il suo staff hanno messo insieme per poter accusare il Cavaliere. Dicono i fedelissimi di Gianfranco Fini che bisogna riordinare passo dopo passo, notizia dopo notizia, come è stata montata e da chi la trappola. La prima mossa, 15 settembre, la si scorge nel notiziario dell'agenzia di stampa il Velino, di proprietà di Daniele Capezzone, portavoce del Popolo della Libertà. "Anche la casa di Montecarlo nelle maglie della nostra intelligence e delle Fiamme Gialle?", si chiede Vittorugo Mangiavillano. Questo Mangiavillano  -  ricordano i finiani  -  "è da sempre ritenuto pedina giornalistica dei servizi segreti e di manovre oscure e tossiche. Lo si vede tra le quinte della stagione dei veleni che colpì alla fine degli anni ottanta Falcone e il pool di Palermo. Ora scrive  -  e dà una notizia  -  'Gli 007 italiani e la Guardia di finanza da tempo hanno iniziato a controllare le società che, direttamente o indirettamente, hanno rapporti con la pubblica amministrazione. E la Printemps (proprietaria della casa di Montecarlo) sarebbe stata costruita da italiani o da prestanomi di italiani'". Passano due giorni e, il 17 settembre, la rivelazione di Mangiavillano si trasferisce nelle colonne del Giornale sotto il titolo "I servizi segreti seguono la pista che porta ai Caraibi". Quello stesso giorno i tre direttori del servizi segreti (Dis, Aise, Aisi) smentiscono che l'intelligence italiana si stia occupando di quell'affare. "Naturalmente, dicono gli uomini di Fini, nessuno ha mai pensato che i Servizi mettessero le mani in questo pozzo nero. Ma quelle notizie, la loro provenienza, la credibilità che ricevevano da redazioni molto prossime al governo sono suonate alle nostre orecchie come un campanello d'allarme. Ci siamo chiesti: ci sono agenti segreti che si sono messi al lavoro privatamente su input non istituzionali, anche se molto autorevoli? Per trovare una risposta accettabile a questa domanda abbiamo interrogato fonti nazionali e internazionali". Anche internazionali perché, come ha argomentato Italo Bocchino ad Annozero, "ciò che accade in Italia, in un'Italia schiacciata alquanto supinamente sugli interessi e l'amicizia di Putin e Gheddafi non lascia indifferenti i nostri alleati in Occidente". Da qui, da nostri alleati impensieriti per la nostra politica internazionale  -  lasciano capire gli uomini di Fini  -  è venuta la prima indicazione del nome di chi si è mosso nei Caraibi per confezionare e diffondere il falso documento del ministro di Santa Lucia. Lo stesso nome  -  aggiungono fonti di Futuro e Libertà  -  è saltato fuori da un autorevole fonte interna. E' ora di farlo, questo nome: Valter Lavitola. Difficile definire Lavitola. Imprenditore del pesce in Brasile (Empresa Pesqueira de barra de Sao Joao Lida, Rio de Janeiro). Editore e direttore dell'Avanti!. Politico ambizioso ma di piccolo cabotaggio che si muove frenetico da un partito ad un altro per approdare infine prima nell'Italia dei Valori e infine nel Popolo della Libertà, dove Berlusconi chiede di candidarlo "perché ci ha dato una mano ad acquisire qualche senatore utile a far cadere il governo Prodi". Lavitola deve aver fatto proprio un buon lavoro perché sarà candidato alle Europee 2004. Gli va male, ma  -  come oggi ricordano i finiani  -  "Berlusconi gli compra l'Avanti! e soprattutto ne fa il rappresentante del presidente del Consiglio per il Centro e Sud America". Un incarico ad personam che l'inner circle del Cavaliere digerisce male e che comunque gli consente di essere sull'aereo presidenziale quando Berlusconi visita in luglio Brasile e Panama. Lavitola avrà il suo momento di gloria quando si scopre che  -  per il piacere del Sultano  - organizza a San Paolo, nella suite presidenziale dell'hotel Tivoli, una festicciola notturna con cinque ragazze e una celebre ballerina di lap dance.

Questo è Valter Lavitola. Vediamo ora qual è  -  secondo i collaboratori del presidente della Camera  -  il suo ruolo nella trappola. "È Lavitola  -  ti raccontano  -  che briga ai Caraibi per confezionare il documento falso che accusa il cognato di Fini. Per quel che ci viene riferito è Lavitola che si procaccia la sua pubblicazione non nei giornali di Santa Lucia, che ancora oggi ignorano la storia, ma in quelli di Santo Domingo dove i due giornali concorrenti pubblicano lo stesso testo, parola per parola". "È Lavitola  -  continuano i finiani  -  che una volta rientrato in Italia consegna il falso direttamente nella mani di Berlusconi che lo gira, attraverso Daniela Santanché, alla direzione de il Giornale che, il giorno prima della pubblicazione del titolo "Ecco la prova" incontra il presidente del Consiglio per riceverne l'ultimo, definitivo placet".

Questa è la ricostruzione messa insieme da Gianfranco Fini e dai suoi collaboratori. Una prima approssimata conclusione si può trarre. Se hanno ragione gli amici di Fini  -  e certo hanno ragione se il documento pubblicato dai giornali controllati dal presidente del Consiglio è farlocco  - , il capo del governo muove una campagna ossessiva di calunnia e degradazione per condizionare la volontà e le decisioni della terza carica dello Stato. È la riproposizione dei sintomi di una democrazia malata. È, con i colpi che ancora lancerà il Cavaliere, il tema che terrà banco nei prossimi giorni.
 

(24 settembre 2010) © Riproduzione riserva
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« Risposta #158 inserito:: Settembre 25, 2010, 05:09:45 pm »

L'ANALISI

Due debolezze a confronto

di GIUSEPPE D'AVANZO

Immaginiamo che noi si abbia un nemico che ci vuole vedere morti. Immaginiamo che questo nemico nella sua vita non sia mai andato troppo per il sottile nella difesa dei suoi interessi o in oblique pratiche che gli consentono di accrescere la sua fortuna.

Immaginiamo addirittura che questo nostro nemico abbia dato nel tempo lampanti e documentatissime prove di saper corrompere capi di governo, ministri, giudici, parlamentari. Immaginiamo che anche in quest'occasione - la partita è mortale: o la vince o perde tutto - non rinunci ai suoi metodi spicci e convinca con buoni argomenti fruscianti o con qualche efficace minaccia un governo o un ministro di uno staterello off-shore a convocare una conferenza stampa per dire Tal dei Tali è il beneficiario di un trust nel nostro Paese. Immaginiamo che Tal dei Tali non sa niente di quel trust, come farà a difendersi? Quali leve potrà muovere per tirarsi fuori dai guai? La sua disarmata parola contro il ministro che magari ha firmato e autenticato un documento gonfio di menzogne. In questo caso, Tal dei Tali lo possiamo considerare colpevole e quindi fritto, morto, fottuto?

Immaginiamo ora la deliziosa gioia del Corruttore, chiamiamolo così, se questo schema dovesse prevalere lasciando tutti confusi, senza parole, incapaci di vederne la trama e la pericolosità. Per il Corruttore il gioco si fa molto facile. L'operazione si potrà ripetere per tutti i suoi nemici o semplicemente contro chi gli sta sul gozzo. Che so, l'avversario politico, l'alleato dubbioso, il direttore di giornali disobbediente, il banchiere insofferente, l'anchorman non conforme. Un'accusa: quello, Pinco, ha i soldi all'estero. Un frusciante argomento o un'intimidazione tosta convince un ministro dello staterello. Zac, il bersaglio è affondato.

Chi, oggi, si sbraccia gridando al "Verdetto", alla "Mazzata", al "Caso chiuso" invocando "Ora Fini si dimetta", "Ora chieda scusa" conferma che l'Italia è un Paese gobbo. Accade che un ministro di uno staterello dei Caraibi, Santa Lucia, dica: "Sì, quel documento l'ho scritto io" e manco fossero le tavole del Talmud quel che c'è scritto in quel foglio di carta diventa la Verità indiscutibile nel cerchio rumoroso e patetico dei sempre ostinatissimi "garantisti" di casa nostra e in una platea di osservatori e critici che si lascia confondere dallo strepito e dimentica di chiedersi che cosa accade? Che cosa ci è stato detto? Chi lo ha detto e come e perché?
Il perché è decisivo in questo caso: non si è mai visto il governo di un paradiso fiscale convocare una conferenza stampa per svelare il beneficiario di un trust. Che cosa lo convinto a questo passo?

Santa Lucia è un paradiso fiscale. Come tutti i centri off-shore, la riservatezza a tutela dei clienti è il vero valore aggiunto dei suoi servizi finanziari. Comunicare le generalità di un titolare di società è come se una banca svizzera pubblicasse spensieratamente i nomi dei titolari dei suoi conti correnti criptati. Potete crederlo? E allora perché dobbiamo credere senza un dubbio, senza un'esitazione, senza porre una domanda, che quest'allegro disvelamento possa avvenire in un paradiso fiscale del Caraibi? Per di più farlo - svelare i beneficiari di una società - è esplicitamente vietato dalla legge in quel Paese. "In Santa Lucia divulgare dati personali di un cliente senza la sua autorizzazione è un reato punibile con multa o prigione. Gli affari di una società off-shore possono essere rivelati solo quando il suo titolare è stato condannato nel suo Paese d'origine per un reato criminale valido anche per il sistema legislativo di St. Lucia". (www. stluciafinance. com/offshore-advantages. html, redatto dallo studio legale Glitzenhirn Augustin & Co. law practice).

Giancarlo Tulliani non è stato condannato in Italia. Per quel che se ne sa non è stato mai nemmeno indagato. Se avesse rispettato la legge del suo Stato, il ministro di Giustizia Francis non avrebbe potuto fare né la conferenza stampa né il nome di Tulliani. Se si è deciso al passo, deve averlo fatto in stato di costrizione. Qual era questo stato di necessità?

Lorenzo Rudolph Francis accenna alle improvvise difficoltà che il suo governo ha dovuto fronteggiare in questo lasso di tempo. Dice: "L'attenzione dei giornalisti italiani e - pare - la presenza dei servizi segreti stava danneggiando la reputazione della piccola isola che vive della sua riservatezza sulle vicende fiscali dei clienti".
Giornalisti e servizi segreti, dunque. I giornalisti italiani (tre o quattro) sono arrivati a Santa Lucia soltanto negli ultimi giorni. A chi potevano far paura, poi? Qualche timore autentico devono averlo provocato gli agenti dei servizi segreti indicati dal ministro. Di quali servizi segreti? Ce n'erano di italiani? O anche di altri Paesi? E in questo caso, di quali Paesi? Chi hanno contattato? Su chi e con quali argomenti hanno mosso la loro pressione?

Il ministro salva la faccia ripetendo che con quell'andirivieni di spioni aggressivi c'era "il rischio di danneggiare l'economia dell'isola". Si è così convinto a scrivere al primo ministro quella letterina riservata poi finita nelle redazioni di due giornali in un Paese, Santo Domingo, a mille miglia di distanza. Questo si comprende perché pubblicata a Santa Lucia quella nota avrebbe consegnato il cronista alla galera. "Non so come la lettera che ho scritto al primo ministro sia finita nelle mani dei giornalisti che l'hanno pubblicata", dice infine il ministro. E' illegittimo credere che l'affare possa anche essere andato in un altro modo? Così: il governo pressato non dagli agenti segreti - mero strumento operativo - ma con ogni evidenza dai governi di quei servizi segreti abbia deciso di uscire dall'angolo concordando con quei Paesi, con quei governi la redazione del "confidencial memo" (con contenuti falsi, ma non importa), la "fuga" del documento verso le redazioni, la conferenza stampa del ministro per confermarne l'autenticità. Questo circuito tossico può davvero farci credere che il caso sia chiuso, che si possa credere alla scena organizzata ai Caraibi?

Questo affare è ancora tutto da scrivere. Anche se le ugole ubbidienti del Sovrano, i Brighella che ne dirigono i giornali, gridano vittoria e pretendono o la genuflessione del vinto o, in alternativa, la sua decapitazione, il "caso" ci mostra soltanto due debolezze a confronto. Debole è stato finora Gianfranco Fini che, pur dichiarandosi assolutamente certo dell'estraneità di suo cognato alla proprietà dell'immobile di Montecarlo, non ha ancora mostrato in pubblico le ragioni di quella "certezza assoluta". Debole è anche Berlusconi che, come sempre quando è a mal partito (gli è capitato negli affari come in politica), si affida al lavoro sporco che non sempre gli addetti gli combinano a regola d'arte. Qualche volta gli incaricati si fanno beccare con le mani nel sacco e anche in questo caso hanno disseminato intorno più di una traccia. La partita mortale tra il capo del governo e il presidente della Camera non è ancora all'epilogo. Chi crede che poche parole di un ministro caraibico possano chiudere il match può sbagliarsi. E anche di grosso.
 

(25 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #159 inserito:: Settembre 26, 2010, 11:20:11 am »

L'ANALISI

I metodi dell'Innominato e la libertà del dissidente

di GIUSEPPE D'AVANZO


Il discorso di Gianfranco Fini è un confronto diretto con Silvio Berlusconi, il mandante del suo tentato e finora mancato "assassinio politico". Un raffronto tra la sua etica pubblica e la moralità dell'altro. Tra le proprie consuetudini private e politiche e i costumi politici dell'altro. Tra i suoi disarmati metodi di discussione pubblica e la violenza della macchina del fango che il Cavaliere può scatenare e  -  da un anno  -  scatena giorno dopo giorno.

Di volta in volta, il rivale può essere: la moglie, un giornalista dissenziente, un alleato riluttante. Il presidente della Camera non pronuncia mai il nome del suo antagonista. Mai, ma l'intero intervento del presidente della Camera va interpretato alla luce del paragone tra due storie umane e politiche, tra due metodi. Fini ripercorre l'affaire di Montecarlo e lascia bene in vista quel che ormai palesemente non funziona più nella nostra democrazia. Non aggiunge nessun elemento nuovo sulla proprietà di quell'appartamento di 50/55 metri quadrati di Montecarlo, se non la sua rabbia quando scopre che il cognato Giancarlo Tulliani è in affitto in quella casa di boulevard Princesse Charlotte 14. Si rimprovera "una certa ingenuità".

Si chiede: "È Giancarlo Tulliani il vero proprietario della casa di Montecarlo?". Il presidente della Camera non azzarda una risposta perché non sa rispondere. Non può rispondere, perché non sa. Non ne sa niente, ma non se ne lava le mani. Comprende che quel passaggio dell'affaire non è un dettaglio trascurabile, ma decisivo e non nasconde i suoi dubbi. Dice: "Gliel'ho chiesto con insistenza: egli (Tulliani) ha sempre negato con forza, pubblicamente e in privato. Restano i dubbi? Certamente, anche a me". Potrebbe chiuderla lì seguendo l'esempio di Berlusconi che, negli anni, ha lasciato che il suo braccio destro fosse condannato per associazione mafiosa (Dell'Utri) e il braccio sinistro per corruzione (Previti) e sempre per comportamenti e relazioni e reati che hanno favorito le sue fortune e avventure. E dunque di che cosa dovrebbe preoccuparsi, Fini, con quella compagnia? E tuttavia egli segue un'altra strada. Assume un impegno pubblico, anche se si dichiara estraneo, inconsapevole, ingenuo. "Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la presidenza della Camera. Non per personali responsabilità - che non ci sono - bensì perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe".

È tirando il filo della sua etica pubblica che Fini può tracciare la mappa dell'etica pubblica dell'altro, dell'Innominato, e marcare le eccentriche anomalie della scena italiana. C'è un signore - Silvio Berlusconi, l'Innominato - "ha usato e usa società off-shore per meglio tutelare il patrimonio familiare, aziendale e per pagare meno tasse" - che accusa chi "non ha né denaro né ville intestate a società off-shore" di frequentare i paradisi fiscali. Sempre quel signore - Berlusconi - che, facendo leva su leggi che si è apparecchiato come capo del governo, ha salvato la testa da processi che ne hanno accertato le gravissime responsabilità getta in faccia all'altro - Fini, "in 27 anni di Parlamento e 20 alla guida del mio partito, mai stato sfiorato da sospetti di illeciti" - una storia dove "non è stato commesso alcun tipo di reato, non è stato arrecato alcun danno a nessuno. E, sia ancor più chiaro, in questa vicenda non è coinvolta l'amministrazione della cosa pubblica o il denaro del contribuente. Non ci sono appalti o tangenti, non c'è corruzione né concussione".

Ecco dunque che cosa succede: "Un affare privato è diventato un affare di Stato per la ossessiva campagna politico-mediatica di delegittimazione della mia persona: la campagna si è avvalsa di illazioni, insinuazioni, calunnie propalate da giornali di centrodestra e alimentate da personaggi torbidi e squalificati".
È il preoccupato disegno che, della nostra democrazia, abbozza Fini. È l'ombra minacciosa che incupisce i giorni della nostra Repubblica. La si può scorgere nella lunga sequenza di "assassini mediatici" che sono diventati, in assenza di politiche pubbliche e di decisioni necessarie per il Paese, l'unica operosa attività cui si dedica il capo del governo. Dispone la raccolta del fango. A ogni avversario o nemico dichiarato o potenziale è riservato un dossier. Leggerezze ben manipolate possono diventare colpe e vergogna. Quando non ci sono né colpe né leggerezze, il fango lo si crea. Tornano utili i bugdet illimitati di cui dispongono i "raccoglitori di fango", faccendieri, funzionari prezzolati delle nostre burocrazie della sicurezza, ma anche spioni di altri Paesi. Creato il dossier, lo si può pubblicare cadenzando i tempi politici. L'Innominato se lo pubblica sui suoi media, il dossier infamante. Per questa strategia, nell'agosto dello scorso anno, l'Innominato rivolta i giornali del centro-destra (il Giornale, Libero) come calzini. Sceglie persone adatte al nuovo canone bellico. Fini, ricorda, fu tra i primi a essere "avvisato" di marciare diritto se non voleva guai. Fece lo stesso il passo storto che poi non è altro che l'esercizio del diritto a dissentire. Contro di lui è auspicato, dice, "il metodo Boffo. (C'era) chi mi consigliava dalle colonne del giornale della famiglia Berlusconi di rientrare nei ranghi se non volevo che spuntasse qualche dossier - testuale - anche su di me, "perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera". Profezia o minaccia? Puntualmente, dopo un po', è scoppiato l'affare Montecarlo".

Gianfranco Fini avverte, dunque, come spaventosa questa "meccanica", ne avverte la pericolosità, ne avverte un'anomalia che può manomettere i necessari equilibri di una democrazia. Il suo intervento denuncia un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che deforma l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. Constata che siamo ben oltre una fisiologica dialettica politica. Più semplicemente, avverte Fini, discutiamo della libertà di chi dissente o di chi si oppone.

Il presidente della Camera vede al lavoro una macchina, vede in azione un dispositivo che vuole "colpire a qualunque costo l'avversario politico", eliminarlo. Così, dice, "si distrugge la democrazia, si mette a repentaglio il futuro della libertà". È un giornalismo adulterato che si fa calunnia, "manganello", pestaggio e olio di ricino, il perno del meccanismo. Fa venire il freddo alle ossa. Pretende che "ci si metta in riga" se non si vuole assaggiare il "metodo Boffo" (liquidato con una campagna montata su un documento clamorosamente falso). C'è ancora l'Innominato a governare questa fabbrica di veleni che sono "i giornali del centro destra che non pubblicano notizie, che non ci sono, ma insinuazioni, calunnie e dossier" che possono essere costruiti in giro per il mondo con le risorse inesauribili dell'Innominato. Basta guardare quel che è accaduto a Santa Lucia dove "un ministro scrive al suo premier perché preoccupato del buon nome del paese per la presenza di società off-shore coinvolte non in traffici d'armi, di droga, di valuta, ma nella pericolosissima compravendita di un piccolo appartamento a Montecarlo". Si può crederlo? Non si può crederlo ed è giusto indicare il mandante politico. Soltanto chi non vuole sentire, vedere, giudicare può far finta oggi di non comprendere che Fini ha indicato in Berlusconi il tessitore della manovra che ha provato a schiacciarlo. Il presidente della Camera crede che possa ritornare la politica sulla scena pubblica nazionale. Si può essere scettici che ciò accada fino a quando, impaurito dal suo stesso fallimento, terrà banco un Innominato che ha abbandonato il sorriso ingannatore per mostrarci come il vero volto del suo potere sia la violenza.

(26 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #160 inserito:: Settembre 28, 2010, 11:55:00 am »

L'ANALISI

La trave dell'offshore nell'occhio del Cavaliere

Chi accusa Fini "dimentica" i segreti della Fininvest.

Una rete di 64 società per gli affari fuori bilancio.

In sette anni movimentati 3.500 miliardi di lire

di GIUSEPPE D'AVANZO


Quello che vale per ciascuno di noi, vale per Silvio Berlusconi? L'etica pubblica che vincola gli attori politici, obbliga anche il Cavaliere? E, soprattutto, la legge è uguale anche per il capo del governo? Sono le domande che attendono una risposta mercoledì quando Berlusconi terrà alla Camera un discorso che i suoi annunciano memorabile. Vedremo se lo sarà davvero.

Di certo, il capo del governo è atteso a una prova decisiva e ci si augura che, come al solito, non giochi la partita da parolaio fumigante trasformando la notte in giorno, il bianco in nero. Anche perché quegli interrogativi si sono irrobustiti dopo il pubblico chiarimento offerto dal presidente della Camera. Bene, c'è un bruscolo nell'occhio di Gianfranco Fini. È colpevole forse di aver dato fiducia a un "cognato" scavezzacollo. Ipotizziamo la scena peggiore (finora non dimostrata). Il "cognato" ha imbrogliato il presidente della Camera. Ha simulato la compravendita della casa di Montecarlo. In realtà, se l'è comprata nascondendo la proprietà diretta dietro il paravento di una società off-shore dell'isola caraibica di Santa Lucia. Se così fosse, Fini si dimette (è il suo impegno). È responsabile di "ingenuità". Ecco il peccato perché, come ricorda, "non è stato commesso alcun tipo di reato, non è stato arrecato alcun danno a nessuno; non è coinvolta l'amministrazione della cosa pubblica o il denaro del contribuente. Non ci sono appalti o tangenti, non c'è corruzione né concussione". A sollecitare questo atteggiamento c'è un archetipo del sentimento morale - la vergogna - e il tormento di una coscienza che avverte come propria anche la colpa altrui che non si è riuscito a intuire, prevedere, annullare. Le dimissioni mi sono imposte, dice Fini, dalla "mia etica pubblica", anche se "sia ben chiaro, che personalmente non ho né denaro, né barche né ville intestate a società off-shore, a differenza di altri che hanno usato, e usano, queste società per meglio tutelare i loro patrimoni familiari o aziendali e per pagare meno tasse".

È sotto gli occhi di tutti la disarmonia tra quel che viene rimproverato, urlato a Fini e quel che viene perdonato o addirittura colpevolmente dimenticato di Berlusconi. Come è stravagante non scorgere il disequilibrio tra i possibili esiti politici. Per i libellisti della "macchina del fango" organizzata dal Cavaliere - e anche per qualche corista che si dice neutrale - Fini deve scomparire. Un peccato di ingenuità in un affare privato dovrebbe determinare le sue dimissioni da presidente della Camera mentre, al contrario, una diretta, documentata, consapevole responsabilità in comportamenti criminali che hanno corrotto gli affari pubblici e provocato un danno alle casse dello Stato dovrebbe essere così trascurabile da consentire a Berlusconi di governare fino alla fine della legislatura prima di ascendere addirittura al Colle più alto come presidente della Repubblica. Le memorie deperiscono in casa nostra. Conviene rianimarle con quale fatto.

La KPMG, una delle più prestigiose società di revisione contabile del mondo, un colosso dell'accounting, l'arte della certificazione di bilancio, deposita - il 23 gennaio del 2001 - 800 pagine di un'analisi tecnico-contabile di sette anni di bilanci della galassia societaria Fininvest, dal 1989 al 1996, quella che per brevità è stata chiamata "All Iberian". Si sa quel che dice il Cavaliere di "All Iberian" ("Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l'esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario", Ansa, 23 novembre 1999).

Il documento di KPMG racconta come vanno le cose nella società di Berlusconi: Fininvest sommerge buona parte della sua contabilità. Nascosta da un doppio registro, movimenta, nei 7 anni analizzati dalla perizia, almeno 3 mila e 500 miliardi, 884 dei quali occultati su piazze off-shore. "Per alterare la rappresentazione della situazione economica, finanziaria e patrimoniale nel bilancio consolidato Fininvest", scrive KPMG. Si scopre che la Fininvest opera attraverso due comparti societari. Il "Gruppo A" - ufficiale - e il "Gruppo B", riservato. Lo spiega l'avvocato inglese David Mills, che ne costruisce l'architettura riferendone direttamente anche a Silvio Berlusconi: "Il Gruppo B è un'espressione utilizzata per differenziare le società ufficiali del gruppo A da quelle, pur controllate nello stesso modo dalla Fininvest, che non dovevano apparire come società del gruppo per essere tenute fuori dal bilancio consolidato. Un promemoria definiva le società del gruppo B "very discreet" (molto riservate), perché il collegamento con il gruppo Fininvest rimanesse segreto".
La KPMG individua 64 società off-shore su tre livelli. Al primo appartengono 29 sigle, distribuite geograficamente in quattro aree. "Ventuno società hanno sede nelle Isole Vergini inglesi, cinque nel Jersey, due alle Bahamas, una a Guernsey". "Altre tredici società - anch'esse off-shore - formano il secondo livello. Si tratta di "controllate" da società del primo livello da cui non si distinguono né per funzioni, né per organizzazione societaria". Caratteristica comune anche alle 22 sigle del terzo ed ultimo livello. Ancora KPMG: "La gestione (di queste società) è a cura di amministratori e personale del gruppo Fininvest". I reali beneficiari (beneficial owner) sono "amministratori, dirigenti, consulenti o società del gruppo Fininvest". Dalla Fininvest "dipende quasi esclusivamente il loro finanziamento che avviene attraverso le medesime banche e società fiduciarie".

Ricapitoliamo: c'è un comparto segreto, protetto all'estero, ne fanno parte 64 società direttamente controllate da Fininvest. In nome e per conto di Fininvest, concludono transazioni in settori ritenuti strategici per il Gruppo. I loro bilanci sono invisibili, ma solo alla contabilità ufficiale, perché i dirigenti di Fininvest ne hanno il pieno controllo. Come abbiamo già detto, tra il 1989 e il 1996 attraverso il comparto B sono stati stornati dai bilanci Fininvest 884 miliardi e 500 milioni. Cifre parziali, sostiene KPMG, perché "i conti cui è stato appoggiato per sette anni il comparto migrano verso le Bahamas. A Nassau, in Norfolk House, a Frederick Street, ha sede la Finter Bank & Trust. Qui, su nuovi conti sarebbe affluita la ricchezza del fu comparto B".
A meno che Silvio Berlusconi non l'abbia fatta rientrare in Italia protetta dallo "scudo" costruito dai suoi governi, si può ragionevolmente dire che ancora oggi egli custodisce in paradisi fiscali una parte del suo patrimonio. Può Berlusconi muovere l'arsenale politico, economico, mediatico che ha sottomano per liquidare un presidente della Camera dissidente chiedendogli conto di un indimostrato bruscolo (una fiducia mal riposta) che quello, Fini, ha negli occhi e restare al suo posto nonostante le prove dell'affarismo societario che fanno di lui, Berlusconi, un primatista indiscusso? Quale "regime personale" può giustificare questa difformità? Quale assuefazione dello storto sul diritto? Nessuna ragione potrebbe spiegarla, se non un abuso di potere o un potere che si fa violenza o la colpevole rassegnazione a un peggio che non trova mai un limite. A ben vedere, anche il conflitto con Gianfranco Fini chiama il presidente del Consiglio a un passo memorabile, alla necessaria decisione di rivelare di quale trama è fatta la sua etica pubblica, di dimostrarsi finalmente all'altezza della sua responsabilità e della sua ambizione. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo. Berlusconi rinunci alla tentazione di stringere intorno al collo del Paese la corda dei suoi affanni. Non sprofondi il Parlamento in una nuova stagione di leggi ad personam (immunità costituzionale, legittimo impedimento, processo breve, limiti agli ascolti telefonici). Difenda il suo onore, come ha fatto Gianfranco Fini. Pretenda di dimostrare nei processi che lo attendono a Milano la trasparenza della sua fortuna. Eserciti nell'aula di un tribunale e non nel Palazzo del Potere i diritti della difesa. Rivendichi con dignità di essere cittadino tra i cittadini con gli stessi diritti e gli stessi doveri di chiunque. Reclami - egli - l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e chieda di essere processato senza alcuno scudo, impedimento, immunità. Metta da parte i suoi affanni e ossessioni per lasciare libera la politica - il governo, il Parlamento - di affrontare le difficoltà del Paese. Si deve tornare a chiederglielo. Presidente, domani, con solennità vuole dire e finalmente dimostrare che la legge in Italia è davvero uguale per tutti?

(28 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #161 inserito:: Settembre 30, 2010, 05:16:13 pm »

IL COMMENTO

Il ricatto sulla giustizia

di GIUSEPPE D'AVANZO

BERLUSCONI posa da liberale nei quasi 60 minuti del suo intervento. Come se davvero credesse nel liberalismo, nella pretesa di risolvere il "politico" con la discussione o immaginasse la politica come amicizia e competizione.

Come se davvero egli desiderasse "istituzioni che risolvono la concretezza e conflittualità sociale e politica nella rappresentanza parlamentare, nella produzione di leggi universali e astratte, nella separazione e nell'equilibrio dei poteri, nella differenza tra Stato e società". Come se non ci avesse dato modo di comprendere che la politica che ha in mente è l'esatto contrario: è decisione che crea confini, differenze, esclusioni; è opposizione radicale tra un amico e un nemico; è convinzione che l'unità passa attraverso la divisione e l'ordine attraverso il disordine. Più che politica, dunque, guerra e come tutte le guerre può concludersi soltanto con l'annientamento dell'altro.
Per comprendere quanto sia fasulla la Grande Recita dello Statista Saggio e Paziente, cui si è costretto o è stato costretto, si deve attendere che Berlusconi affronti il capitolo giustizia. A quel tasto suona sempre sincero nei suoi desideri. Non li nasconde nemmeno questa volta. Vuole disarmare Carta costituzionale, leggi, codici, tribunali, magistratura per cancellare "l'uso politico della giustizia" che, dice, "è stato e continua a essere un elemento di squilibrio tra ordini e poteri dello Stato". Quella bestia nera in toga deve essere
resa innocua ed egli cambierà le regole "nell'interesse collettivo". Separazione delle carriere e Csm diviso in due, parità dell'accusa e della difesa che poi vuol dire pubblico ministero degradato ad avvocato dell'accusa e ridotto alla performance verbale con la polizia che - sotto il controllo del governo - investiga, raccoglie prove, decide quale indagine coltivare, con quali risorse e con quanta rapidità. Lo schema garantisce impunità pro se et suis e magari offre l'opportunità di colpire a morte l'avversario molesto o l'alleato dissidente, oggi aggrediti soltanto dal Barnum mediatico che possiede o influenza. Già potrebbe bastare per ripetere che Berlusconi è potere statale che, senza scrupoli e apertamente, protegge se stesso e i suoi interessi economici.

Ma non basta perché, come sempre, il Cavaliere propone un'alternativa del diavolo che, per molti, ha i caratteri dell'estorsione: o mi si garantisce l'immunità o distruggo la macchina giudiziaria. In nome della riduzione del danno, del "meno peggio", egli esige di incassare un utile privato: un'immunità che lo protegga dagli assalti possibili in futuro e un'impunità che imbavagli il giudice per gli affari oscuri del passato (la corruzione di un testimone che lo salva da condanne certe; l'appropriazione indebita, la frode fiscale nell'acquisto dei diritti televisivi) e impedisca ai tribunali di confermare accuse che renderebbero il Cavaliere moralmente incompatibile con l'ufficio governativo. Anzi, nell'occasione, Berlusconi annuncia come intende manipolare i quadri legali per fabbricarsi una legge che gli consenta di non risarcire chi (la Cir) si è visto scippare un'azienda (la Mondadori) grazie alla corruzione del giudice (Metta) che decise la controversia. Il risarcimento è stato fissato finora in 750 milioni di euro. Berlusconi imprenditore non ha alcuna voglia di pagarlo e il Berlusconi premier anticipa che "il governo presenterà a breve un piano straordinario per lo smaltimento dei processi delle cause civili pendenti". Che di straordinario in quel piano ci sia soltanto l'arroganza di chi trasforma il potere pubblico in affare privato sembra comprenderlo il capogruppo di Futuro e Libertà, Italo Bocchino. Che avverte: "Siamo favorevoli a smaltire le cause civili pendenti ma non saremo mai d'accordo con una legge che tolga la possibilità a un solo cittadino o a una sola azienda di questo Paese di avere la giustizia che aspetta dal suo giudice civile".

La Grande Recita dello Statista Saggio e Paziente, al capitolo giustizia, ci offre il piccolo Berlusconi di sempre, prigioniero del suo conflitto d'interesse, ossessionato dalla difesa di se stesso e della sua roba, incapace di declinare le ragioni e le priorità del Paese. È la conferma che il nodo che soffoca la politica italiana continuerà a essere nei prossimi mesi la giustizia. Non la giustizia di tutti, la giustizia per tutti, ma la giustizia che riguarda da vicino lui, che preoccupa personalmente lui, che minaccia il di lui preziosissimo patrimonio. Il presidente del Consiglio avrebbe potuto volare alto, come centinaia di migliaia di cittadini gli chiedevano. Avrebbe potuto semplicemente dire: mi farò processare perché, credo, che la legge sia uguale per tutti. Questa volontà è la migliore garanzia della mia affidabilità di capo di governo che non vuole schiacciare con le proprie personali pene la vita degli italiani e l'interesse nazionale. Semplici parole, discorso e impegno da "paese normale" che Berlusconi non può dire né immaginare. È una impossibilità che, mentre ci ripropone le mediocri ragioni del suo impegno pubblico, lo consegna e lo imprigiona con tutta evidenza in uno stato di minorità politica. Ora  -  anatra zoppa  -  dovrà chiedere il consenso e la comprensione dell'odiato alleato, Gianfranco Fini, per ottenere con una correzione provvisoria del legittimo impedimento, e poi con una riforma della Costituzione, l'immunità di cui ha bisogno come dell'aria che respira. Con due esiti paradossali. Berlusconi, che ha preparato la trappola che doveva liquidare per sempre il "traditore", ora deve tenerlo in vita se non vuole perire con lui. Per di più, la manovra non garantisce il buon risultato: Fini potrebbe dargli corda fino a quando non staccherà la spina del governo perché sarà pronto con il nuovo partito alle elezioni.

(30 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #162 inserito:: Ottobre 09, 2010, 09:17:59 am »

IL COMMENTO

La firma del Cavaliere

di GIUSEPPE D'AVANZO

BERLUSCONI se ne sta zitto. Non si cura della crepa che s'allarga tra il governo e gli industriali, dopo la violenza subita dalla Marcegaglia per mano del giornale di famiglia. Tace con arroganza e "firma" l'aggressione. Lo comprende anche il comitato di presidenza della Confindustria. Che va per le spicce e sceglie con parole essenziali di non arretrare dinanzi all'imboscata e alle minacce del foglio del Cavaliere. Non teme nemmeno di denunciare il degrado di un'azione di governo che, incapace di assolvere alle sue responsabilità, immiserisce nel rancore e nella vendetta liberando una violenza che pretende di umiliare la libertà morale di chi rappresenta migliaia di imprese. Confindustria esprime solidarietà a Emma Marcegaglia, e ci mancherebbe.

È quasi un atto dovuto. Né dovuti né scontati sono gli argomenti che gli industriali propongono. Scrivono: "La libertà d'informazione è un bene prezioso che va difeso e tutelato, ma chiunque, a maggior ragione se ricopre ruoli di rappresentanza, ha il diritto e il dovere di esprimere giudizi e valutazioni, senza timori di azioni che possano lederne l'immagine e la moralità". Dunque, Confindustria ha un'opinione su quanto è accaduto al suo presidente. La Marcegaglia ha espresso dei giudizi e delle valutazioni che hanno messo in movimento la macchina del fango politico-informativa che progettava contro di lei un rito di degradazione, una bastonatura che avrebbe voluto condizionare un suo diritto e un suo dovere, influenzare le sue parole, limitare la sua indipendenza. Scrive il comitato di presidenza: "L'indipendenza è da sempre la forza del sistema Confindustria. Emma Marcegaglia, nel suo ruolo di presidente degli imprenditori italiani, è simbolo di questa indipendenza, che non può in alcun modo essere attaccata o messa in discussione". C'è dunque chi, con un'intimidazione, ha provato a vincolare l'autonomia della Marcegaglia e l'autodeterminazione della Confindustria. Chi?

Scrive Confindustria: "Stiamo assistendo a un imbarbarimento del clima politico, che oltre a creare sentimenti di disaffezione e disistima nei cittadini, non incoraggia le imprese a continuare a lottare per difendere ed accrescere il benessere che abbiamo conquistato". È dunque la barbarie della politica  -  e non la ferocia di un giornalismo degradato a killeraggio  -  che ispira per Confindustria i sicari che avrebbero dovuto friggere la Marcegaglia. Sembra di vedere qui un dito puntato contro il presidente del Consiglio. È Berlusconi che la presidente di Confindustria critica in settembre. È Berlusconi che tace oggi. Non una parola. Non un rigo per esprimere sostegno e apprezzamento a una donna che, quale che sia l'esito dell'inchiesta giudiziaria, ha già avuto modo di dire di aver patito come "un avvertimento, come un rischio reale e concreto per la sua persona e per la sua immagine", come un manifesto tentativo di "coartare la sua volontà" l'annuncio che la direzione del Giornale aveva raccolto  -  e si preparava a pubblicare  -  un dossier contro di lei. Non un rigo. Non una parola di Berlusconi per spegnere l'incendio. Il silenzio è assordante. È molto eloquente. Autorizza a immaginare che il capo del governo non abbia nessuna voglia di smentire o contraddire i suoi sicari e nessuna intenzione di venire incontro a chi lo ha criticato in nome delle imprese. È questo silenzio, si può credere, la chiave che consente di interpretare, da un lato, le parole severe del comitato di presidenza di Confindustria contro "l'imbarbarimento della politica" e, dall'altro, la decisione del giornale del Cavaliere di pubblicare oggi quatto pagine di guai giudiziari e liti familiari dei Marcegaglia. Con un cambio di direzione sorprendente.

Ieri, Feltri (direttore editoriale), Sallusti (direttore responsabile), Porro (vicedirettore) banalizzavano l'affare dandosi di gomito dinanzi alle telecamere. Non c'è stato mai alcun dossier! Nelle telefonate si "cazzeggiava"! È vero, si diceva: faremo male a Emma per settimane; i segugi sono già a Mantova; il super dossier giudiziario è già pronto. Ma non era vero niente! Era quel Porro che aveva voglia di ridere e "per una volta" c'è chi lo ha preso sul serio. Ora, cambio di scena. Sallusti dice che il dossier c'era e "venti carabinieri" non l'hanno trovato e sequestrato così ora si può pubblicare. Feltri fa sapere che ne farà, addirittura, quattro pagine: "C'è di tutto". In questo bailamme, un solo fatto appare chiaro. Berlusconi non intende muovere un dito per evitare l'ennesimo conflitto scatenato in suo nome e per suo conto. È un distacco che conferma come dietro le aggressioni del suo giornale ci sia sempre la sua volontà, il suo risentimento contro chi immagina lo abbia tradito o lo voglia tradire. Contro chi non crede (o non crede più) alle sue performance di illusionista, al suo mondo di immagini, umori, riflessi mentali, paure, odio del tutto artefatti come le emozioni dinanzi alla visione di un film. Esaltato da un rancore cieco, gonfio di un'inimicizia assoluta e irreparabile, il Cavaliere non riesce a scorgere nessuna differenza ormai tra la critica legittima e l'aggressione violenta, tra il disaccordo ragionato e la destabilizzazione.

Ogni dissenso diventa per lui "disegno eversivo", sfida per il legittimo governo del Paese, assedio alla sua persona. Chi rompe l'equilibrio del regime che governa  -  sia la moglie, un giornalista, un alleato, il presidente della Camera, il presidente degli industriali  -  deve essere trascinato nel fango e distrutto. È questa la missione di un non-giornalismo trasformato in killeraggio politico. È improprio parlare di libertà di stampa dinanzi a questa anomalia del tutto nuova anche per il giornalismo italiano da sempre prigioniero delle divisioni ideologiche e dell'asprezza del conflitto politico che hanno ostacolato lo sviluppo di una cultura professionale separata dalle opzioni politiche. Questo non-giornalismo è soltanto la vetrina della collera di Berlusconi. Si nutre di calunnia e di menzogna. Diffama e pretende di distruggere ogni reputazione. Contamina ogni rispettabilità. Umilia e ferisce. È artefice di un linciaggio violento, permanente e senza vincoli che si alimenta degli odi del padrone. È soltanto lo strumento di una lotta politica declinata come guerra civile. Una guerra dichiarata unilateralmente da Berlusconi contro tutti. Oggi anche contro la Marcegaglia e Confindustria.

(09 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #163 inserito:: Ottobre 09, 2010, 09:24:40 am »

L'ANALISI

I signori dei dossier

di GIUSEPPE D'AVANZO

Bisogna ascoltare la vittima. Interrogata, Emma Marcegaglia dice: "Ho sicuramente percepito l'avvertimento come un rischio reale e concreto per la mia persona e per la mia immagine (...) Il Giornale era piccato sia per le mie dichiarazioni contro l'operato del governo sia, soprattutto, per il fatto che io stessa e Confindustria ci siamo sempre filati poco il Giornale (...) Non mi era mai capitato che un quotidiano tentasse di coartare la mia volontà con queste modalità". Le modalità ora sono note. La presidente di Confindustria in agosto critica in più occasioni il governo. La macchina del fango (l'abbiamo vista al lavoro e denunciata da un anno a questa parte) si prepara a travolgerla se non corregge il suo pensiero. La "sventurata" non si corregge.
Al Giornale della famiglia Berlusconi raccolgono dunque un dossier (così annuncia il vicedirettore) e si preparano all'abituale rito di degradazione a meno che non ci sia  -  ultima chance  -  un passo indietro della Marcegaglia, un pubblico ripensamento magari in un'intervista concessa al giornale che vuole umiliarla per "venti giorni di seguito".

Quel che conta è quella formula: "coartare la mia volontà", come dice la Marcegaglia. Sono parole che separano il diritto-dovere di informare e ogni possibile modello di giornalismo da un giornalismo degradato a minaccia e calunnia. Un pessimo, miserabile giornalismo che non informa, ma deforma; un alambicco venefico a uso politico che non si assegna l'incarico di rendere più consapevole la volontà dei propri lettori, ma di screditare i non conformi al potere, di condizionarne la volontà, le parole, le decisioni. Chi parla oggi di libertà di stampa, dinanzi agli "avvertimenti" contro la Marcegaglia, agli ascolti telefonici subiti dal direttore e vicedirettore del Giornale, alle perquisizioni in redazione, nasconde il nodo che va sciolto. In gioco non è la libertà dell'informazione, ma semplicemente e più drammaticamente la libertà dei cittadini spaventata, aggredita dall'informazione controllata direttamente dal potere politico e diventata il manganello che disfa chi dissente, la sua vita, la sua reputazione, il suo futuro. La questione trasferita nel terreno giuridico trova un'etichetta: violenza privata, una fattispecie che appare inadeguata ai comportamenti spietati e distruttivi che indica, alla violenza che designa. E comunque è di questo che discutiamo: di "un delitto contro la libertà morale, intesa come libertà dell'individuo di determinarsi spontaneamente e liberamente".

Ancora un volta, non tiene conto discutere dei sicari, di chi materialmente si è incaricato e s'incarica del lavoro sporco (sono pagati per farlo, lo fanno: che dio li perdoni). È più rilevante ricordare quanti delitti contro la libertà morale sono stati commessi in quest'ultimo anno; chi li ha commissionati e perché; quali sono le conseguenze per  la nostra libertà, per la nostra democrazia. Bisogna indicare, allora, il mandante perché un responsabile di questo metodo  -  che ha trasformato la politica in scandalo, il giornalismo in killeraggio, l'uso di informazioni distruttive  in strategia per prevalere nella contesa politica punendo i dissidenti  -  c'è. Ha un nome. È Silvio Berlusconi.

Le sue impronte digitali sono dovunque. A cominciare dall'inizio di questa storia. Luglio 2009. Berlusconi non è messo bene. Scombussolato dalla commistione tra boudoir e selezione della classe dirigente politica, travolto da una minorenne che confessa come e quando "Papi" le ha promesso o la ribalta dello spettacolo televisivo o un seggio in Parlamento come custode della volontà del popolo sovrano,  il Cavaliere programma una "campagna di autunno". Promette che replicherà "colpo su colpo". Decide di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti, tutte le articolazioni del multiforme potere che si è assicurato con un maestoso conflitto d'interesse. Stila una lista di nemici. Vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi dipendenti che gli appaiono mosci, deboli. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. Li sceglie. Li nomina. È il padrone di un'industria di notizie di carta e di immagini che muove come vuole. È anche il presidente del Consiglio e governa le burocrazie della sicurezza (già abbiamo visto in un'altra stagione i suoi servizi segreti pianificare la demolizione dei "nemici in toga"). La sovrapposizione dei tre poteri (politico, economico, mediatico) può essere letale. Deve esserlo. Chiede e raccoglie nelle sue mani le informazioni  -  vere, false, mezze vere, mezze false, sudice, fresche o ammuffite  -  che possano tornare utili per il programma di vendetta e punizione che ha preparato. Quelle informazioni, opportunamente manipolate, sono rilanciate dai giornali del premier nel silenzio dei telegiornali del servizio pubblico che controlla, nell'acquiescenza di gruppi editoriali docili o intimiditi. Questo è il metodo.

Gli avversari, autentici o immaginati, cominciano a cadere come birilli. La prima a farne le spese è Veronica Lario, moglie ribelle. La ritraggono a seno nudo. Le attribuiscono un amante. È un'adultera. Segue il direttore dell'Avvenire, Dino Boffo. È colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Il sicario del Giornale lo aggredisce con una falsa informativa giudiziaria. Gli grida contro: sei un omosessuale. Quel delitto avviene sotto gli occhi di tutti. Anime fioche e prudenti in cerca di un alibi per la loro arrendevolezza fingono di non vedere e tacciono. Il silenzio colpevole e complice consente a Berlusconi di abbandonare ogni scrupolo, di dispiegare contro i suoi avversari le pratiche e le tecniche di un potere che rinuncia ad ogni legittimità per mostrarsi come pura violenza. Il dispositivo liberato di ogni impaccio, di ogni decenza o scrupolo democratico, dopo Boffo il giornalista, investe Mesiano il giudice. Lo spiano e lo calunniano le telecamere di Canale5. Tocca poi al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un civile dissenso politico. Lo minacciano di "uno scandalo a luci rosse" se "non rientra nei ranghi". Il presidente della Camera non rientra nei ranghi. Al contrario, spiega in pubblico con più decisione le ragioni del suo dissenso. Gli assestano la lunga bastonatura dell'appartamento di Montecarlo in affitto al cognato. Contro questo avvilimento della politica e del governo alza la voce Emma Marcegaglia. Contro di lei si prepara la furia dei sicari...

Sempre dietro queste manovre ricattatorie appare Berlusconi. È lì in prima persona. Lo si scorge ancora  -  se ricordate  -   nell'affare Marrazzo. È al Cavaliere che viene consegnato il video del ricatto. Invita il governatore a comprarselo non a denunciare i ricattatori. Trattiene le immagini per sé: avrebbero potuto tornare utili in campagna elettorale. Si avvista la presenza del Cavaliere nel dossier che, dentro il Popolo della libertà, preparano per schiacciare Caldoro, governatore della Campania. Gli viene presentato quel documento. Il Cavaliere non se ne scandalizza. E d'altronde, per andare indietro di qualche anno, riceve nelle sue mani i nastri delle intercettazioni tra Fassino e Consorte. Li ascolta ad Arcore e a chi glieli consegna il premier dirà:  "Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo"? L'utilità politica di quell'intercettazione è così evidente che il Giornale di famiglia  -  chi altro?  -  la pubblicherà sette  giorni dopo.

Se, dunque, si rimettono in sesto i ricordi, la violenza inflitta a Emma Marcegaglia per "coartare la sua volontà" sorprende soltanto gli ipocriti che non vogliono vedere come una macchina del fango dove si concentrano potere politico, economico e mediatico mette in pericolo la nostra libertà. Quel che ci viene periodicamente rivelato (Lario, Boffo, Mesiano, Marrazzo, Fassino, Caldoro, Fini, Marcegaglia) è  -  come ci è parso chiaro da tempo  -  un sistema di dominio che spaventa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. È una tecnica di intimidazione che minaccia la libertà di chi dissente o di chi si oppone all'uomo che governa. È, più semplicemente, un attentato alla libertà.

(08 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #164 inserito:: Ottobre 11, 2010, 06:19:54 pm »

IL CASO

Così colpisce la fabbrica dei dossier al servizio del Cavaliere

Veleni e disinformazione diventano verità. Dal caso del giudice Vaudano, a Igor Marini e Telekom Serbia. Dagli avvertimenti a Marrazzo a Boffo, Fini e Marcegaglia. Il sistema usato è quello della "opposition research", lo stesso confessato dall'americano Stephen Marks in un libro dal titolo "Confessioni di un killer politico"


di GIUSEPPE D'AVANZO

Ci si può anche svagare e chiamare il direttore del giornale di Silvio Berlusconi Brighella. Brighella, come la maschera della commedia dell'arte che nasce nella Bergamo alta: un attaccabrighe, un briccone sempre disponibile "a dirigere gli imbrogli compiuti in scena, se il padrone lo ricompensa bene". Un bugiardo che di se stesso può scrivere senza arrossire: "Sono insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico. Mi manca la stoffa del cortigiano". La canzonatura finirebbe per nascondere un meccanismo, un paradigma che trova nell'uomo che dirige il giornale del Capo soltanto un protagonista di secondo ordine e nel lavoro sporco, che accetta di fare, solo uno dei segmenti di un dispositivo di potere. Tuttavia. Da qui è necessario muovere. Dal mestiere del direttore del giornale di Berlusconi in quanto la barbarie italiana, che trasforma in politica la compravendita del voto e quindi la corruzione di deputati e senatori, definisce informazione  -  e non violenza o abuso di potere  -  la torsione della volontà, la sopraffazione morale di chi dissente dal Capo attraverso un'aggressione spietata, distruttiva, brutale che macina come verità fattoidi, mezzi fatti, fatti storti, dicerie poliziesche, irrilevanti circostanze, falsi indiscutibili. Un'atrocità che pretende di restare impunita o quanto meno tollerata perché, appunto, giornalismo. Ma, quella roba lì, la si può dire informazione? È un giornalista, il direttore del giornale di Silvio Berlusconi? Il suo mestiere è il giornalismo?


Vediamolo al lavoro nel "caso Boffo", quindi nel momento inaugurale in cui egli mette a punto quel che, con prepotente mafiosità, gli uomini vicini al capo del governo definiscono ora "il metodo Boffo".
Sappiamo come sono andate le cose. Dino Boffo critica, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare il capo del governo. Deve avere una lezione che dovrà distruggerlo senza torcergli un capello. Il colpo di pistola che liquida il direttore dell'Avvenire è la prima pagina del giornale di Berlusconi. Sarà presentato così: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell'accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione". Le prove dell'omosessualità di Boffo? Non ci sono. L'unico riscontro proposto - un foglietto presentato come "la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore" - è uno strepitoso falso. In un Paese non barbarico il giornalista autore di quello "sconclusionato e sgrammaticato distillato di falsità e puro veleno costruito a tavolino per diffamare", come scrive Boffo, avrebbe avuto qualche rogna. Forse avrebbe visto irrimediabilmente distrutta la sua reputazione perché, caduto l'Impero sovietico, la calunnia consapevole non può essere definita giornalismo. Non accade nulla. Anche i petulanti "liberali" - intimoriti o complici - tacciono, ieri come oggi. Si rifiutano di prendere atto che in quel momento - agosto 2009 - si inaugura la metamorfosi di un minaccioso dispositivo politico che già si era esercitato - con un altro circuito, con altri uomini - tra il 2001 e il 2006.

Nella XIV legislatura, durante il II e il III governo Berlusconi s'era già visto all'opera un network di potere occulto e trasversale concentrato nel lavoro di disinformazione e specializzato in operazioni di discredito. Un "apparato" legale/clandestino scandaloso, ma del tutto "visibile". Era il frutto della connessione abusiva dello spionaggio militare (il Sismi di Nicolò Pollari) con diverse branche dell'investigazione, soprattutto l'intelligence business della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove è esistita una "control room" e una "struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: poteva entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato". Ricordiamo quel che accadde (ormai agli atti e documentato). Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, questa piattaforma spionistica pianifica operazioni - "anche cruente" - contro i presunti "nemici" del neopresidente del Consiglio. Ne viene stilato un elenco. Si raccolgono dossier. Quando è necessario si distribuiscono nelle redazioni amiche, controllate o influenzate dal potere del Capo e trasformate in officine dei veleni. Per dire, il giudice Mario Vaudano è un "nemico". Pochi lo conoscono, ma ha avuto un ruolo fondamentale nell'inchiesta Mani Pulite. Era in quegli anni al ministero di Giustizia e si occupava delle rogatorie estere richieste dal pool di Milano. Se ne occupava con grandi capacità e la sua efficienza lo trasforma in una "bestia nera" da annientare. Tanto più che il giudice - incauto - vince un concorso per l'Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF: protegge gli interessi finanziari dell'Unione europea, contrastando la frode, la corruzione, ogni altra forma di attività illegale). La nomina di Mauro Vaudano "viene bloccata personalmente da Berlusconi" (Corriere della sera, 11 aprile 2002) mentre si mette in moto il dispositivo. Un ufficio riservato del Sismi spia il bersaglio (anche la moglie francese del giudice, Anne Crenier, giudice anche lei, scoprirà e denuncerà di essere stata spiata dal Sismi con intrusioni nella sua posta elettronica). Il fango raccolto sarà depositato nella redazione del giornale di Berlusconi. Campagna stampa. Intervento del ministro di giustizia che alla fine avvierà contro il povero giudice un'inchiesta disciplinare.

Qui non importa capire se queste mosse sono configurabili come reato. È necessario comprenderne il movimento, isolare i protagonisti, afferrare i modi e l'azione di un potere micidiale - politico, economico, mediatico - capace di stritolare chiunque. È un potere che si dispiega in quegli anni, come oggi, contro l'opposizione politica, contro uomini e istituzioni dello Stato rispettose del proprio ufficio pubblico e non piegate al comando politico, contro il giornalismo non conforme. Una commissione d'inchiesta parlamentare - Telekom Serbia - diventa fabbrica di miasmi. Con lo stesso canone. Si scova un figuro disposto a non andare troppo per il sottile. Si chiama Igor Marini. Lo presentano come consulenze finanziario, come conte, è un facchino dell'ortomercato di Brescia. Lo si consegna ai commissari e quindi alla stampa amica. Quello diventa un fiume in piena. Rivelazioni clamorose accusano l'intero vertice dell'opposizione (Prodi, Fassino, Dini, Veltroni, Rutelli, Mastella). Il giornale del Capo dedicherà trentadue (32) prime pagine alle frottole di quel tipo oggi in galera per calunnia. Alla vigilia delle elezioni 2006 la consueta macchina denigratoria si muove ancora contro Romano Prodi, leader dell'opposizione. L'ufficio riservato del Sismi prepara un falso documento. Lo si accusa di aver sottoscritto accordi tra Unione europea e Stati Uniti che legittimano i sequestri illegali della Cia come il rapimento in Italia di Abu Omar. Il dossier farlocco sarà pubblicato su Libero, direttore Vittorio Feltri, dal suo vice Renato Farina, ingaggiato e pagato dal Sismi, reo confesso ("... ammetto i rapporti intrattenuti con uomini del Sismi in qualità di informatore, ammetto di avere accettato rimborsi dal Sismi, ammetto di aver intervistato i Pm Spataro e Pomarici per carpire informazioni da trasmettere al Sismi..."), condannato a sei mesi di reclusione per favoreggiamento, radiato dall'Ordine dei giornalisti, oggi parlamentare del Popolo della libertà.

In questi casi scorgiamo un antagonista che irrita o inquieta il Capo, l'attività storta di un istituzione, il ruolo decisivo dell'informazione controllata dal Capo. Quel che accade a Vaudano e Prodi sono soltanto due campioni di un catalogo che, nella XV legislatura - questa - ha trovato altri protagonisti e un nuovo schema di lavoro a partire da una solida convinzione: la politica è del tutto mediatizzata, ogni azione politica si svolge all'interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei media. È sufficiente allora fabbricare e diffondere messaggi che distorcono i fatti e inducono alla disinformazione, fare dello scandalo la più autentica lotta per il potere simbolico, giocare in quel perimetro la reputazione dei competitori, degli antagonisti, dei critici, soffocare la fiducia che riscuotono, e il gioco è fatto. Rien ne va plus. È un congegno che impone al giornalismo di essere più rigoroso, più lucido, più consapevole.

Altra storia se si parla del Brighella che dirige il giornale del capo del governo. Bisogna coglierne il ruolo, nel congegno, e definirne il lavoro. Vediamo il suo modus operandi. Individua il nemico del Capo da colpire, magari se lo lascia suggerire anche se non gli "manca la stoffa del cortigiano". Raccoglie tutte le informazioni lesive che si possono reperire, fabbricare e distorcere intorno a un fatto isolato dal suo contesto. È una pratica che ha un nome. Non è una pratica giornalistica. È, negli Stati Uniti, la componente chiave di ogni campagna politica. Si chiama opposition research. Per farla bisogna "scavare nel fango", come racconta uno dei maestri di questo triste mestiere, Stephen Marks. Colpito da una certa stanchezza morale e personale, Marks ha rivelato le sue tattiche e quelle della sua professione in un libro intitolato "Confessioni di un Killer Politico", Confessions of Political Hitman. È abbastanza semplice il lavoro, in fondo. I consulenti politici del Candidato indicano chi sono gli uomini più pericolosi per il suo successo. I sondaggisti individuano quali sono le notizie che possono maggiormente danneggiare il politico diventato target. Ha inizio la ricerca. Documenti d'archivio, dichiarazioni alla stampa, episodi biografici, investimenti finanziari, interessi finanziari, dichiarazioni di redditi, proprietà e donazioni elettorali. Insomma, una ricostruzione della vita privata e pubblica del politico preso di mira. A questo punto le informazioni raccolte selezionate tra le più controproducenti per l'avversario da distruggere vengono trasformate in messaggi ai media e in informazioni lasciate trapelare ai giornalisti. Questo è il lavoro del "killer politico" e bisognerà dire che, anche se nello stesso ramo dell'assassinio politico, l'impegno del direttore del giornale di Berlusconi è più comodo. Non ha bisogno di fare molte ricerche. Se gli occorrono documenti qualche signore, per ingraziarsi il Capo, glieli procura. In alcuni casi, è lo stesso Capo che si dà da fare (è accaduto con i nastri delle intercettazioni di Fassino, consegnati ad Arcore e da lui smistati al giornale di famiglia; è accaduto con il video di Marrazzo).

L'informazione è, in questo caso, politica senza alcuna mediazione e potere senza alcuna autonomia perché l'una e le altre sono nelle mani del Capo. Quindi, se non ci sono in giro carte autentiche, si possono sempre fabbricare come nel "caso Boffo". Se non si vuole correre questo rischio, si può sempre ripubblicare quel che è stato già pubblicato, metterci su un bel titolo disonorevole e ripeterlo per due settimane. Colpisci duro, qualcosa si romperà. Per sempre. Questa è la regola. Chi colpire? No problem. Sa da solo chi sono i "nemici" del suo Capo. Quel Fini, ad esempio. Subito lo definisce "il Signor Dissidente". È il dissenso che è stato chiamato a punire. Lo sa riconoscere nella sua fase aurorale. Scrive: "Il Signor Dissidente non è stato zitto. Anzi, ha parlato troppo (...) ha ribadito le critiche al governo e al suo capo, la sua contrarietà alla politica sull'immigrazione, alle posizioni della Lega in proposito, alle leggi sulle questioni etiche". Il Signor Dissidente parla? Deve essere punito. Come? Il direttore annuncia: "È sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme". (Il Giornale,14 settembre 2009).

Il "giornalismo" di Vittorio Feltri è questo: minaccia, violenza, abuso di potere. Non importa sapere qui se è anche un reato. Dopo il character assassination in serie di questi dodici mesi, ne sappiamo abbastanza per giudicare. Ora non è rilevante conoscere se a questo "assassino politico", dunque a un professionista di una "macchina politica" e non informativa, si deve riconoscere lo status di giornalista. Non glielo si può riconoscere. È un political hitman. È un altro mestiere. Non è un giornalista. Non è lui il problema. Il problema è il suo Capo. Come non è in discussione la libertà di informare o la libertà di fare un giornalismo d'inchiesta. Quel che si discute è la minaccia che precede il lavoro d'inchiesta; è un giornalismo, un finto giornalismo agitato, come nel caso di Emma Marcegaglia, quasi fosse un manganello per fare piegare il capo al malcapitato. Quel che è importante adesso sapere è quanti sono nella vita pubblica italiana coloro che, ricattati dal Capo con questi metodi, tacciono? O spaventati da questi metodi tacceranno? Con quale rassegnazione si potrà accettare un congegno che consegna al capo del governo la reputazione di chiunque, come una sovranità sulle nostre parole, pensieri, decisioni?
 

(11 ottobre 2010)
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/11/news/dossier_d_avanzo-7933677/?ref=HREC1-6
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