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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 103816 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Ottobre 30, 2009, 10:25:34 am »

L'INCHIESTA.

Nella Procura di Roma si valuterà pure la ricettazione

L'irruzione avviene il 3 luglio, e già l'11 il filmato viene messo in vendita

Per troppo tempo quel video di Marrazzo custodito nelle stanze di Berlusconi


di GIUSEPPE D'AVANZO


Ricatto a Marrazzo. La fonte vicina all'inchiesta non ci gira intorno: "Non c'è alcun altro politico di destra o di sinistra, ministro in carica, ministro uscente, professionista celebre o ignoto, "Chiappe d'oro" o d'argento nella nostra indagine". Forse salteranno fuori domani o forse mai. Per intanto, si deve dire che il vivamaria di indiscrezioni e nomi sussurrati che avvelenano o eccitano il Palazzo appare soltanto un efficace lavoro per confondere l'affaire. Che ha due capitoli. Il primo è noto. All'unisono tutti - una volta tanto - chiedono che sia chiuso con le dimissioni di Marrazzo. Riguarda le debolezze private del governatore, la leggerezza di un uomo pubblico che, ricattato, non denuncia il ricatto e, scoperto il ricatto, mente o dissimula nella scriteriata speranza di salvare il collo e la reputazione. Ma fu vero ricatto o Marrazzo può avere qualche ragione se ha creduto, per quasi quattro mesi, di essere stato vittima di una rapina e non di un'estorsione?

Bisogna allora leggere il secondo capitolo della storia dove la trama degli eventi è sconnessa, la successione contraddittoria, le volontà e le azioni senza senso. Tre carabinieri, tre tipi sinistri, con la complicità di un pusher tossicomane (Gianguarino Cafasso), penetrano con la forza in un appartamento dove il governatore è in compagnia di un viado. Lo sbattono contro un muro. Lo obbligano a sfilarsi i pantaloni (è l'ultima versione di Marrazzo). Sistemano un palcoscenico con trans scollacciato, denaro, cocaina, tessera dell'"Associazione nazionale esercenti cinema" con foto. Riprendono la scena con un cellulare. Gli svuotano il portafoglio (2.000 euro). Lo obbligano a firmare tre assegni per 20 mila euro (che non incassano). Se ne vanno. È il 3 luglio, venerdì. Già qualche giorno dopo, l'11 luglio, il pusher tossicomane contatta, attraverso il suo avvocato, la redazione di Libero (diretto da Vittorio Feltri). È bizzarro un ricatto con i ricattatori che non provano nemmeno a spillare denaro alla vittima, ma si preoccupano subito di rendere inutilizzabile l'arma minacciosa che si sono procurati. Perché? La ragione ce l'abbiamo sotto gli occhi: Piero Marrazzo non è stato mai ricattato dai carabinieri. Quelle canaglie non ci hanno mai pensato. Avrebbero dovuto comportarsi in un altro modo. Hanno il governatore nelle loro mani, troppo terrorizzato per denunciarli. Possono mettersi comodi e spremerlo per bene, e a lungo, ottenendo denaro e favori. Con tutta evidenza, non è questa la loro missione. Non chiedono niente, non vogliono niente, non si fanno mai vivi per batter cassa. Il lavoro sporco che devono sbrigare è un altro: incastrare il governatore e "sputtanarlo". Ecco perché cercano di vendere subito il video. L'iniziativa, a tutta prima, appare stupida, incomprensibile, se parliamo di estorsione. Si rivolgono all'agenzia PhotoMasi di Milano. Non ha torto Carmen Masi a chiedersi oggi: "Quale ricattatore cerca di rendere pubblico l'oggetto del ricatto? È assurdo". Infatti, lo è. Hai un bottino che può durare nel tempo e lo trasformi in un piatto di lenticchie mangiato una volta e per sempre?
Chi sono allora questi furfanti vestiti da carabinieri? Bisogna chiederlo alla fonte vicina all'inchiesta. Quello si gratta la testa e dice: "Ce ne occuperemo a tempo debito. Ora si possono fare solo tre ipotesi. 1. Sono tre pezzenti. 2. Sono "comandati". 3. Sono eterodiretti". La prima ipotesi è la più improbabile". Per dare un senso a una storia che non sta in piedi, si deve accantonare il ricatto che non c'è, che non c'è mai stato, ed esplorare la strada che imbocca il video. Chi lo vede? Chi lo possiede?

È, dunque, l'11 luglio. Un avvocato, per conto del pusher tossicomane, contatta la redazione di Libero. Due giornaliste, tre giorni dopo (il 15), incontrano Gianguarino Cafasso che mostra loro, in una stamberga della Cassia, il filmato con Marrazzo. È Cafasso a parlare di "politici e trans, di cui sa tutto" e di quello chiamato "Chiappe d'oro". Vuole 500mila euro (che nel tempo si riducono a 90 mila) per le immagini del governatore: "così chiudo con questa vita". Le giornaliste non sono convinte. I tre minuti del video sembrano taroccati. Chiedono di rivederlo. Niente da fare. Un paio di giorni per decidere o non se ne fa niente, dice Cafasso. Le giornaliste informano Vittorio Feltri che decide di lasciar perdere. Il video si muove ancora. Prima di ferragosto viene proposto ad Oggi (gruppo Rizzoli). Un inviato del settimanale lo visiona il 1 settembre a Roma. Gli appare taroccato. Vuole verificarne l'attendibilità. Gli viene impedito. La direzione di Oggi (Andrea Monti. Umberto Brindani), qualche giorno dopo, chiude la trattativa con la PhotoMasi, incaricata di commercializzare il video da un quarto carabiniere della banda. Il dischetto continua a girare per vie misteriose che vanno oltre i contatti dell'agenzia milanese. Non è più Cafasso a muoverlo. Stroncato dai suoi vizi e dal diabete, è morto in una stanza d'albergo. In settembre sente parlare del video Maurizio Belpietro, diventato direttore di Libero. Riesce a farselo mostrare, anche se non ne entra in possesso, il 12 ottobre. Anche lui s'impiomba dinanzi a quelle immagini troppo confuse che ipotizza false, ma ormai negli ambienti del governo e del centro-destra molti sanno che quel video esiste e che, prima o poi, si troverà il modo per mostrarlo a tutti. C'è chi storce la bocca per il disgusto e lascia filtrare da fine settembre la notizia del "filmatino", rifiutato da Feltri e Belpietro. Sono i primi giorni di ottobre, ormai, e il lavoro sporco dei carabinieri, forse "comandati", forse eterodiretti, mostra la corda. Nessuno vuole il video nelle testate che avrebbero avuto l'interesse politico - Cafasso è esplicito con le croniste di Libero - a pubblicarlo. Feltri l'ha rifiutato. Belpietro non l'ha voluto. A Mario Giordano, direttore del Giornale fino a luglio, non è stato nemmeno proposto.

Bisogna ricominciare daccapo, cambiando qualcosa nella procedura. Quando Carmen Masi contatta Alfonso Signorini, direttore di Chi (Mondadori), ottiene materialmente il video (l'agenzia non l'ha mai posseduto) e viene autorizzata finalmente dai quattro furfanti a lasciarlo in visione al possibile acquirente. È il cinque ottobre, Signorini riceve il dischetto, firma una ricevuta. Copia le immagini. Ora è decisivo sapere che cosa accade tra la Mondadori, Palazzo Grazioli, Villa San Martino, tra il 5 e il 19 ottobre, quando Berlusconi chiama Marrazzo per dirgli che c'è un video compromettente e che farebbe meglio a ricomprarselo dall'agenzia mentre gli detta il numero di telefono di Carmen Masi e di un possibile mediatore. Nella nebbia, c'è qualche punto fermo. Signorini decide di non pubblicare. È certo che non restituisce il dischetto. È certo che informa il presidente della Mondadori (Marina Berlusconi) e l'amministratore delegato (Maurizio Costa). È certo che Silvio Berlusconi ha modo di vedere il video che Signorini ha consegnato a Marina. I tempi diventano determinanti. Quando il direttore di Chi consegna le immagini a Marina? Quando Marina le mostra al padre? Quanto tempo Silvio Berlusconi si rigira tra le mani il dischetto prima di telefonare a Marrazzo?

I tempi sono determinanti perché, in quelle ore, il diavolo ci metta la coda. Le cose vanno così. Un pubblico ministero di una procura italiana sta dietro a una banda di trafficanti di droga che sta combinando "un affare molto, molto grosso". Telefoni sotto controllo. "Cimici" ambientali. Pedinamenti. Insomma, l'ambaradam di questi casi. Nella "rete" resta impigliato uno dei carabinieri canaglia che ha aggredito Marrazzo. L'"ascolto" si allarga ai suoi telefoni. Quello parla con uno della combriccola in divisa e si sente dire: "... il video del presidente...".
Il video del presidente. Il pubblico ministero a chi può pensare? Non è romano, non è laziale. L'ultima persona che gli può venire in mente è Marrazzo. Pensa a quel presidente, a Berlusconi. Si dispera. È di fronte a un'alternativa del diavolo. Sa di dover intervenire subito per proteggere il capo del governo da chissà che cosa ed è consapevole che, se lo fa, gli va per aria l'inchiesta. Decide di liberarsi della patata bollente. Intorno al 9 ottobre chiama il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Cataldo, e gli spiega l'impiccio: occupatevene voi, vi mando le carte, voi mettete le mani sul video, ammesso che esista, io salvo la mia inchiesta, voi salvate Berlusconi. Così sarà. Il 14 ottobre un'informativa del Ros mette in moto la procura di Roma.

A questo punto, si deve immaginare Berlusconi. Da un lato, come presidente del consiglio, il 19 viene informato che magistrati e carabinieri sono sulle tracce di "un video del presidente" che potrebbe coinvolgerlo. Dall'altro, come proprietario della Mondadori, quel mattino ha sul tavolo il video che magistrati e carabinieri stanno cercando. Non devono essere state ore serene. Se non si muove, se non fa qualcosa, chi toglie dalla testa dell'opinione pubblica che il presidente del consiglio - protetto da uno straordinario conflitto di interessi - governi una "macchina del fango", nel tempo sbattuta contro la reputazione di Dino Boffo (direttore dell'Avvenire), Gianfranco Fini (presidente della Camera), Raimondo Mesiano (giudice responsabile di avergli dato torto in una causa civile)? Chi azzittirà le grida della "solita sinistra" e dei "comunisti" persi dietro al cattivo pensiero che quel video - né pubblicato né restituito né consegnato alla magistratura - sia custodito in attesa di tempi migliori, magari elettorali? Berlusconi decide d'impulso, come sempre. Vuole uscire dall'angolo, ribaltare la scena. Chiama il governatore: "Non mi potranno dire che non sono stato un gentiluomo". Gli dice di muoversi. Spera che Marrazzo faccia in fretta. Compri il video, lo distrugga cancellando un lavoro malfatto che può essere molto pericoloso. Come si sa, il governatore si muove lento, i carabinieri veloci. Quel che rimane è storia di questi giorni e annuncia un terzo capitolo ancora non scritto.

Ora le rogne sono tutte della procura di Roma perché quel che è avvenuto è chiaro alla luce del codice penale. Articolo 640, ricettazione. "Chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve o occulta cose provenienti da un qualsiasi delitto o comunque s'intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due a otto anni". È indubbio che Signorini, Marina Berlusconi e Maurizio Costa, per procurarsi un profitto, hanno ricevuto quel video palesemente ottenuto con un delitto (con la violenza e la violazione del domicilio). È indubbio che Silvio Berlusconi si sia intromesso per far acquistare, prima, e occultare, poi, quella "cosa proveniente da un delitto". Se la legge è uguale per tutti, è ragionevole pensare che la procura di Roma cercherà di capire chi ha "pilotato" i falsi ricattatori mentre invierà a Milano, per competenza, le carte di una ipotetica ricettazione.

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« Risposta #121 inserito:: Ottobre 31, 2009, 12:33:35 pm »

L'analisi. Da Berlusconi a Signorini, tutti i burattinai del caso Marrazzo

Combinato anche un incontro tra l'editore di "Libero" e la titolare dell'agenzia Masi

La macchina del fango partita da Milano come un manuale di killeraggio politico

di GIUSEPPE D'AVANZO


Le cose stanno così. Quei carabinieri che aggrediscono Piero Marrazzo in un appartamento privato, in compagnia di un viado, non sono canaglie a caccia di un bottino.

Non stanno preparando un'estorsione contro il governatore. Stanno raccogliendo il "materiale" per un ricatto che sarà utilizzato da altri, in altro modo, in un'altra città, con un altro obiettivo da quello del denaro (si è mai visto un estorsore che rinuncia al prezzo dell'estorsione?). Sono canaglie che forse bisognerà cominciare a definire rat-fuckers, come si chiamavano tra loro, orgogliosi, gli operativi dell'affare Watergate. Schiacciano con violenza Marrazzo contro un muro. Lo obbligano a calarsi i pantaloni. Lo fotografano. Trasferiscono il video a Milano.

E' Milano, con la sua industria editoriale, la scena del delitto. Perché è solo lì che quelle immagini possono trovare la mano che le pubblica. È da questo momento che l'affaire mostra un significato pubblico e un senso politico che rende oziosa, peggio incoerente con i fatti, la tiritera "chi di sesso ferisce, di sesso perisce". Che cosa succede? Qualcosa che - niente di più, niente di meno - si può leggere nei manuali di un "assassino politico". Il political hitman deve uccidere ma non lasciare la sua impronta. Così si deve "provocare una fuga di notizie verso i media rimanendo al di fuori della mischia mentre l'avversario viene tempestato da rispettabili giornalisti". Accade nel nostro caso. Le immagini vengono proposte a Oggi. La direzione (Andrea Monti, Umberto Brindani) le rifiuta. Bisogna venire allo scoperto, allora. Accettare il rischio di compromettersi. È questo il momento in cui la scena s'illumina e appaiono al proscenio i protagonisti, le comparse, il mattatore. Nel primo atto, il protagonista assoluto è Alfonso Signorini. Che soltanto una irresponsabile ingenuità potrebbe far definire semplicemente "il direttore di Chi". A leggere le testimonianze di un carabiniere canaglia, di un fotografo, della titolare della Photo Masi che ha l'incarico di commercializzare il video del ricatto, Signorini è il padrone del gioco. Riceve in Mediaset e tratta in Mondadori. Dispone per l'intera gamma dei periodici del gruppo editoriale. Lo dice con chiarezza, nei giorni successivi, informando costantemente Silvio Berlusconi.

E' esplicito uno dei carabinieri canaglia, Antonio Tamburrino: "A me fu detto che Signorini ne avrebbe dovuto parlare con Silvio Berlusconi". E' un fatto che Signorini è il playmaker in quella compagnia e nell'affaire. Consiglia, indica, sollecita. Combina non soltanto le scelte dei direttori dei media berlusconiani, sovraordinato a Vittorio Feltri, capataz del giornale di famiglia, ma anche delle testate del gruppo Angelucci (Libero, il Riformista). Organizza un incontro di Photo Masi con il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, il 12 ottobre. Due giorni dopo, Signorini combina un breafing tra Carmen Masi e Angelucci. Dice la Masi: "Angelucci visiona il filmato, si dimostra interessato, promette una risposta entro le ore 19 della stessa sera. Ho informato Signorini. Verso le 17, mi ha contattato telefonicamente. Mi ha detto di fermare tutto perché Panorama era molto interessato al tutto e dovevano decidere chi doveva pubblicare il tutto".

Mente dunque Signorini quando, con voce rotta di falso sdegno, protesta (è storia di qualche giorno fa) che "lui e soltanto lui ha deciso di non pubblicare le immagini di Marrazzo". Sua è la guida della "macchina". Chi ne decide direzione, percorso e velocità non è Signorini. E', come appare chiaro nel secondo atto di questa vicenda, Silvio Berlusconi, il mattatore. Sa del video, lo vede, lo valuta. Misura le convenienze per due settimane (5/19 ottobre). E' più utile pubblicarlo subito o conservarlo per tempi politicamente più opportuni? Il 19 ottobre, l'imprevisto. Lo informano che i carabinieri sono a caccia di un "video del presidente". Berlusconi comprende che non può starsene con quelle immagini sul tavolo: il "presidente" non è lui, ma quel disgraziato di Marrazzo. Lo chiama, gli dice che deve comprarselo in fretta, il video. Signorini lo aiuterà, ma - se è vero quel che riferisce lo staff del governatore a Esterino Montino (oggi governatore vicario) - aggiunge: "Rivolgiti a Giampaolo Angelucci, ti libererà dai guai". Il capo del governo non rinuncia agli utili. Con quella mossa, sa di poter avere in futuro la piena disponibilità del destino di Marrazzo. Per intanto, consegna il governatore, commissario straordinario alla sanità, al maggiore imprenditore regionale della sanità privata. Sempre ci sono anche gli affari, propri e degli amici, nelle manovre del capo del governo. Non è il solo contatto del premier con Marrazzo. Il 21 ottobre, il Cavaliere comunica al governatore che è tutto finito, i carabinieri sono ormai in azione, hanno arrestato i furfanti e stanno perquisendo la redazione di Chi. Esterino Montino, che è lì accanto a lui, vede Marrazzo sbiancare come per un malore. Bisogna ora dire quel che vediamo. Furfanti delle burocrazie della sicurezza incastrano un politico. Le immagini, estorte con la violenza in un appartamento privato, vengono consegnate a un alto funzionario (Signorini) di un sistema editoriale (Mondadori, Mediaset e indirettamente Tosinvest di Angelucci) governato direttamente da un proprietario che è anche presidente del consiglio. E' una macchina organizzata per seppellire nel fango chiunque osi dissentire.

Quel che accade in via Gradoli, ha dunque la stessa rilevanza di un prologo, in questa storia. Con buona pace di chi, come Giuliano Ferrara, parla di "deriva sessuofobica". L'affaire Marrazzo non è una storia di sesso e il sesso non è il focus della storia. L'affaire ci espone, nei suoi ingranaggi, una "macchina del fango" di cui già avevamo avvertito la pericolosità. E' la "macchina del fango", il cuore di questa storia. Il sesso l'alimenta. Le abitudini private di un ceto politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale sono o possono diventare il propellente di un dispositivo di dominio capace di modificare equilibri, risolvere conflitti, guadagnarsi un silenzio servile, azzittire e punire chi non si conforma, mettere in fuori gioco o espellere dalla competizione politica gli avversari.

L'affaire Marrazzo svela, come meglio non si potrebbe, le pratiche e le tecniche di un potere che, per volontà e per metodo, abusa di se stesso mostrandosi come pura violenza. Nessuno può meravigliarsene. Berlusconi, come gli autentici bugiardi, lascia sempre capire che cosa ha in mente perché - sempre - dice quel che fa e fa quel che dice. Scombussolato dalla "crisi di primavera" quando salta fuori la "commistione tra boudoir e selezione della classe dirigente politica", arruffato da una minorenne che confessa come e quando "Papi" gli ha promesso o la ribalta dello spettacolo televisivo o un seggio in Parlamento come custode della volontà di quel popolo sovrano evocato in ogni occasione, Berlusconi in luglio riordina le idee e lancia la "campagna di autunno". Cambia squadra. Vittorio Feltri al Giornale. Belpietro a Libero. Signorini su tutti. Gli avversari, veri o presunti, sono colpiti come birilli. Accade al giudice Mesiano, spiato e calunniato dalle telecamere di Canale5. Accade al direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, minacciato di "uno scandalo a luci rosse" perché responsabile di un civile dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle dipinta come un'adultera. È accaduto ora a Marrazzo, ma quanti ora temono che possa accadere anche a loro? Altro che le puzzette al naso di chi ancora ci annoia con lo sproloquio sul gossip. Non parliamo di letto, di pubblico/privato e ormai nemmeno più di trasparenza e fragilità della responsabilità pubblica. Discutiamo di libertà.

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« Risposta #122 inserito:: Novembre 03, 2009, 09:53:33 am »

IL COMMENTO

La verità a rate


di GIUSEPPE D'AVANZO

Piero Marrazzo, governatore dimissionario del Lazio, è un cocainomane. Lo ammette, nel suo secondo interrogatorio, correggendo quel che ha detto nel primo. La cocaina sul tavolo, ripresa in segreto dal cellulare di carabinieri furfanti, era sua.

L'aveva comprata e non è vero che quella polvere bianca era stata sistemata dai militari che si erano introdotti nell'appartamento con la forza. Un altro frammento di verità. Un'altra ammissione. Viene da chiedersi: ci sono altre confessioni? Marrazzo ha davvero e finalmente detto tutto? Perché a tornare indietro con la memoria, del governatore si ricordano soltanto omissioni, mezze verità, frottole. Più o meno dieci giorni fa - è già nota la notizia dei carabinieri ricattatori, dell'esistenza di un video compromettente - Marrazzo si presenta davanti alle telecamere per dire che è tutta "una bufala", che "il video non esiste" e, se esiste, "è manipolato".

Una "verità" che regge per poche ore. Il video c'è, lo ritrae con un viado, dinanzi al tavolo con cocaina e denaro. Nuova versione. È vero, ero in quell'appartamento con Natalì (il viado), ma non c'era droga. La droga ce l'hanno messa quelle canaglie dei carabinieri per rovinarlo, per estorcergli del denaro. È il 22 novembre. In quelle ore appare chiaro, come osserva Repubblica, che sono necessarie e improrogabili le dimissioni del governatore e non per le sue debolezze private, ma per quel suo comportamento di chi non dice e sembra non voler dire quel che è accaduto.

Riprendiamo qualche argomento di allora. "Il governatore del Lazio non ha detto di essere stato ricattato né tantomeno ha denunciato l'estorsione, come avrebbe dovuto fare. Non ha detto di aver firmato assegni - ai carabinieri che lo minacciavano - per evitare che scoppiasse uno scandalo. Ora che lo scandalo è esploso, non dice che cosa è accaduto e non sembra disposto ad ammettere le sue responsabilità. Marrazzo sembra non comprendere che gli scandali sono lotte per il potere proprio perché mettono in gioco la reputazione personale di chi governa e la fiducia di chi è governato. Quanto è affidabile oggi il governatore? Si può avere fiducia in lui? Marrazzo si protegge da ogni interrogativo agitando le ragioni della privacy. Come se questa formula magica - la mia privacy - potesse evitargli quella che, altrove, chiamano "valutazione di vulnerabilità": quanto le sue decisioni possono essere libere dalle pressioni o dai ricatti ai quali lo espone la sua scapestrata vita privata? Nel pasticcio in cui si è cacciato, il governatore ha solo una strada davanti a sé. Obbligata ed esclusiva: assumersi la responsabilità della verità. Non c'è e non può essercene un'altra, meno che mai il farfuglio di mezze verità e menzogne intere che Marrazzo ha sfoggiato".

Siamo, più o meno, ancora a questo punto. Purtroppo. Il governatore sostiene di non aver nemmeno compreso di essere vittima di un ricatto. Giovedì scorso, ha raccontato - in via privata - qualcosa in più: quei due carabinieri mi hanno sbattuto contro un muro; mi hanno costretto a calare i pantaloni; poi mi hanno portato via il denaro, ho pensato a una rapina; sì, ho firmato gli assegni, ma poi li ho fatti bloccare dalla banca, quelli non si sono fatti più vivi, così non ho più pensato alla "cosa".

Se quel che si sa a quest'ora è corretto, è una ricostruzione che ha molte, troppe smagliature. Nel video, anche se confusamente, si ascolta Marrazzo implorare i carabinieri di "non rovinarlo", promette loro denaro e favori. Ora che accade, secondo il governatore? Quelli arraffano 5.000 euro in contati dal tavolo (denaro per la cocaina e per il sesso) e tre assegni per 20 mila euro (che non incasseranno mai) e vanno via senza farsi più vedere e sentire. Seguiamo ora i carabinieri. Sono convinti di fare un po' di grana vendendo il video girato segretamente. Quanto? 40/50 mila euro da spillare nell'industria editoriale degli scandali. E perché non chiederli a Marrazzo, senza complicarsi tanto la vita o affidare il proprio destino professionale a gente che non conoscono?
Questo per i carabinieri: più che canaglie appaiono degli idioti degni di un film di Joel ed Ethan Coen.

Marrazzo non è da meno. Subisce un'aggressione, lo sorprendono con il naso incipriato in casa di un viado e pensa di essersela cavata con 5.000 euro e la furbata degli assegni firmati e poi bloccati. E tuttavia, ammettiamo per un attimo che le cose stiano così, che cosa pensa, dice e fa Marrazzo quando il 19 ottobre gli telefona Berlusconi? Che cosa gli dice il capo del governo? È vero, che gli consiglia di rivolgersi ad Alfonso Signorini e - come riferisce lo staff del governatore a Esterino Montino (oggi governatore vicario) - aggiunge: "Rivolgiti a Giampaolo Angelucci, ti libererà dai guai". In quel momento, chiunque, al posto di Marrazzo, avrebbe capito che la sua carriera politica era al capolinea. Come può pensare un governatore di continuare il suo lavoro correttamente dopo che deve la salvezza al maggior imprenditore della sanità? Come è evidente, ci sono ancora angoli di questo affaire da chiarire. Marrazzo deve fare la sua parte. Oggi, come ieri, gli si chiede di assumersi la responsabilità della verità. Al di là dell'inchiesta giudiziaria, al di là delle sue avventatezze private, lo deve a se stesso e a chi ha avuto fiducia in lui.

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« Risposta #123 inserito:: Novembre 10, 2009, 09:35:20 am »

IL COMMENTO

Processi veloci, ultimo trucco

di GIUSEPPE D'AVANZO


PERBACCO, ecco finalmente i "problemi reali del Paese". O meglio, l'unico problema del Paese che, come in un'ossessione paranoica, a Berlusconi e alla sua gente appare reale: i processi di Berlusconi. Come evitare che il presidente del consiglio affronti il tribunale e un giudizio? La narrazione di questa necessità, che dovremmo sentire come un obbligo dovuto al sovrano, si nutre di finzioni, inganni, autoinganni, rovesciamento di senso.

Nel corso del tempo, ha mutato i suoi pretesti. Prima è stata accompagnata dal giocoso ritornello "così fan tutti" e ci è stato lasciato intendere che dovunque, nel mondo, chi governa è immune dal processo. È una balla, ma è stata all'origine di una legge (la "Schifani") incostituzionale e presto silurata dalla Consulta. All'inizio di questa legislatura, nuova legge immunitaria ("Alfano") e nuovo argomento: se deve difendersi nelle aule di un tribunale, il capo del governo non può governare. Quindi, si sospenda il processo. Gli si consenta di svolgere il suo incarico. In aula ci andrà dopo. La Corte costituzionale boccia il nuovo sgorbio: processo e governo possono coesistere se giudici e imputato (che governa) concordano un calendario di udienze che non pregiudica le responsabilità del presidente del consiglio e consenta al tribunale di accertare che cosa è accaduto e per colpa di chi. La coerente soluzione costituzionale non può essere accettata perché un processo, in ogni caso, ci sarà e, per Berlusconi, è giusto l'intralcio che va aggirato. Dunque, si ricomincia. Questa volta, con una sprezzante limpidezza della ragione che impone "una soluzione definitiva".

Il perché ha una sua formula sfrontata e una declinazione più ideologica. Della prima s'incarica Fedele Confalonieri: "Le leggi ad personam? [Silvio] Le fa per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro". Della seconda, se ne cura Giuliano Ferrara: "C'è un solo vero dilemma: della guida di questo Paese decide il popolo o decide l'ordine giudiziario?". Al fondo dell'argomento, c'è una tesi insidiosa e controversa: Berlusconi ha il diritto di prevalere su tutti gli altri poteri dello Stato (anche il potere giudiziario, anche il parlamento, anche la corte costituzionale), perché soltanto lui è "eletto direttamente dal popolo". Quindi, nessuno lo può giudicare a meno di non volere azzerare la volontà popolare, con un colpo eversivo della democrazia. Ilvo Diamanti e Giovanni Sartori hanno dimostrato con qualche numero che "l'asserzione è falsa" perché Berlusconi non è insediato "direttamente" dalla volontà popolare e lo vota, sì e no, un terzo degli italiani. Troppo poco per concludere che Berlusconi è il popolo e il popolo è Berlusconi. Ma tant'è, questo è l'argomento che ci viene oggi proposto. Irrobustito, si fa per dire, da due "quadri" diventati ormai "classici", nonostante la loro inconsistenza: la magistratura ha liquidato abusivamente, quindici anni fa, un sistema politico (per credere alla favola, bisogna dimenticare che diecimila miliardi di tangenti l'anno avevano già distrutto il Paese); Berlusconi, una volta in politica nel 1994, è stato perseguitato dalle "toghe rosse" con ostinazione (in questo caso, si dimentica che Mediaset e Publitalia erano sotto inchiesta già nel 1992 e Berlusconi era già stato al centro negli anni ottanta di indagini e condanne penali).

Questa figurazione truccata, che ieri ha ottenuto anche un sorprendente editoriale del direttore del Tg1 a favore del ripristino dell'immunità parlamentare, sostiene il nuovo schema con cui faremo i conti nei prossimi mesi. L'ultimo paradigma, escogitato dai "tecnici" di Berlusconi, si poggia ancora una volta su una narrazione alterata. È interessante scorgere quale prezzo Berlusconi intende far pagare alla sua maggioranza, al suo governo, alla macchina della giustizia, ai cittadini pur di guadagnare l'impunità.
Si dice: la giustizia è lenta, va riformata nell'interesse dei cittadini. È un'assoluta priorità correggere la prescrizione (il tempo che lo Stato si concede per accertare i fatti e la responsabilità). Quindi - ecco l'ultimo scarabocchio - tagliamo subito di un quarto i tempi di prescrizione dei procedimenti in corso per i reati commessi prima del 2 maggio 2006 con pena massima fino a dieci anni e stabiliamo che i processi devono essere celebrati in sei anni (tre per il tribunale, due per l'appello, uno per la cassazione).

Bisogna ora chiedersi: è vero che, riformata così la prescrizione, i processi saranno più rapidi? La risposta è che non è vero. La riforma (condivisibile) è soltanto un imbroglio se non si provvede a mettere il sistema in condizione di celebrare i processi in tempi compatibili con la nuova prescrizione. Ma di questo obiettivo Berlusconi e i suoi non vogliono discutere perché, con tutta evidenza, i procedimenti da cancellare con quelle norme sono i tre processi che, dopo la bocciatura della "legge Alfano", attendono il capo del governo (Mills, diritti Mediaset, Mediatrade).

Vediamo ora quali sono gli effetti di questa mossa per la giustizia e per la politica. I quattro quinti dei reati previsti dal codice penale sono puniti con una pena massima inferiore ai dieci anni. Se si considera che, in media, i processi durano sette anni e mezzo, anche i non addetti comprendono che i quattro quinti dei processi italiani sarà azzerato, le vittime dei reati umiliate, i rei liberi come farfalle. Ecco perché si parla di amnistia mascherata e di massa. Qui, il prezzo maggiore lo paga la sicurezza dei cittadini, che pure è uno dei cardini del programma di governo. L'esito disastroso ha come pendant rovinoso l'effetto sul quadro politico e istituzionale. Il presidente della Repubblica non vuole "riforme né occasionali né di corto respiro". Il presidente della Camera concorda che il processo sia breve, ma ritiene che ridurre unicamente i tempi della prescrizione non trasforma un sistema arrugginito in una macchina efficiente. Dal loro canto, i magistrati hanno fatto sapere che, per dare più rapidità al processo, sono necessarie più risorse e, da subito, qualche accorgimento tecnico. Per esempio, la posta elettronica per le migliaia di notifiche e avvisi inviati agli avvocati; la sospensione dei processi penali per gli imputati irreperibili, che impegnano i tribunali senza alcuna utilità; la depenalizzazione dei reati minori, per riservare il costoso processo penale, alle questioni di reale allarme sociale.

Sappiamo anche un'ultima cosa. Che il Pd di Bersani è disposto a un dialogo con il governo per sostenere una nuova stagione di "riforme strutturali", ma esclude che la giustizia ad personam sia una priorità. È questa allora la mappa dei conflitti autunnali che Berlusconi accenderà se dovesse ostinarsi nella sua pretesa di rendersi immune, costi quel che costi. Contro il capo dello Stato; contro il presidente della Camera e parte della maggioranza (quella che fa riferimento a Fini); contro la magistratura; contro lo spirito riformista dell'opposizione; contro la sicurezza dei cittadini; contro le vittime dei reati. Uno scontro senza quartiere che Berlusconi è disposto a provocare in nome dei "problemi reali del Paese". Anzi, dell'unico problema reale che conta per lui, il suo.

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« Risposta #124 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:20:06 am »

L'inchiesta/1.

Sbalorditivo il silenzio di chi si batte per il Sistema Italia: dagli imprenditori ai sindacati, alle associazioni di risparmiatori e consumatori

La corruzione costa 25mila euro a testa ma in Italia non è un reato grave

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
Paese meraviglioso l'Italia. Quando non si acceca da solo, chiude gli occhi. Il frastuono politico assorda e il rumore mediatico lascia nascosta qualche verità e - in un canto - fatti che, al contrario, meritano molta luce e l'attenzione dell'opinione pubblica. La disciplina del "processo breve" ce l'abbiamo sotto gli occhi e vale la pena di farci i conti, senza lasciarci distrarre da ingenui e imbonitori. Qualche punto fermo. Il disegno di legge pro divo Berluscone non rende i processi rapidi (è una cristallina scemenza). Quel provvedimento fabbrica una prescrizione svelta e improvvisa come un fulmine che uccide. Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato responsabile - e leale con i suoi cittadini - si concede un tempo adeguato per accertare il reato e punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più problematico e laborioso il suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il delitto. Le regole della prescrizione svelta e assassina (dei processi) capovolgono questo criterio di efficienza e buon senso.

Più grave è il reato, minore è il tempo per giudicarlo. I magistrati avranno tutto il tempo per processare uno scippatore e tempi contingentati per venire a capo, per dire, di abuso d'ufficio, frodi comunitarie, frodi fiscali, bancarotta preferenziale, truffa semplice o aggravata: quel mascalzone di Bernard Madoff, che ha trafugato 50 miliardi di dollari ai suoi investitori, ne gioirebbe maledicendo di non essere nato italiano.

Ora il disegno di legge potrà essere corretto e limato ma - statene certi - non potrà mai lasciare per strada la corruzione propria e impropria perché Silvio Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari e con il corrotto già condannato in appello (David Mills), ha bisogno di quel "salvacondotto" per levarsi dai guai. Un primo risultato si può allora scolpire nella pietra: l'Italia è il solo Paese dell'Occidente che considera la corruzione un reato non grave e dunque, se le parole e le intenzioni hanno un senso, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile, economicamente tranquilla. Nessuno pare chiedersi se ce lo possiamo permettere; quali ne saranno i frutti; quali i costi economici e immateriali; quale il futuro di un Paese dove "corrotto" e "corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore", "immigrato clandestino", "automobilista distratto", e la corruzione così inoffensiva da meritare una definitiva depenalizzazione o una permanente amnistia.

Il silenzio su questo aspetto decisivo della "prescrizione svelta", inaugurata dalla "legge Berlusconi", è sorprendente. È sbalorditivo che il dibattito pubblico sul minaccioso pasticcio, cucinato dagli avvocati del premier nel suo interesse, non veda protagonisti anche la Confindustria, chi ha cara la piccola e media impresa, i sindacati, gli economisti, le autorità di controllo del mercato e della concorrenza, le associazioni dei risparmiatori e dei consumatori, i ministri del governo che ancora oggi si dannano l'anima per dare competitività al "sistema Italia". Come se il circuito mediatico e "pubblicitario" del presidente del consiglio fosse riuscito a gabellare per autentica la storia di un ennesimo conflitto tra politica e giustizia, e dunque soltanto affare per giuristi, toghe e giornalisti. Come se questo progetto criminofilo non parlasse di sviluppo e arretratezza; di passato e di futuro; di convivenza civile, organizzazione sociale, legittimità delle istituzioni, trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese.

È stupefacente questo silenzio perché ognuno di noi paga ancora oggi e pagherà domani, con l'ipoteca sul futuro di figli e nipoti, il prezzo della corruzione del passato, quasi sette punti di prodotto interno lordo ogni anno, 25mila euro di debito per ciascun cittadino della Repubblica, neonati inclusi. Settanta miliardi di euro di interessi passivi, sottratti ogni anno alle infrastrutture, al welfare, alla formazione, alla ricerca. È una condizione che corifei e turiferari, vespi e minzolini, occultano all'opinione pubblica. È necessario qualche ricordo allora per chi crede al "colpo di Stato giudiziario", alla finalità tutta politica dell'azione delle procure, favola ancora in voga in queste ore nel talk-show influenzati dal Cavaliere. Quando Mani Pulite muove i suoi primi passi, il giro di affari della corruzione italiana è di diecimila miliardi di lire l'anno, con un indebitamento pubblico tra i 150 e il 250 mila miliardi più 15/25 miliardi di interessi passivi. L'abitudine alla corruzione cancella ogni sensibilità del ceto politico per i conti pubblici. Inesistente negli anni sessanta, il debito cresce fino al 60 per cento del prodotto interno lordo negli anni ottanta. Sale al 70 per cento nel 1983. Tocca il 92 per cento nei quattro anni (1983/1987) di governo Craxi, per chiudere alla vigilia di Mani Pulite, nel 1992, al 118 per cento. Non c'è dubbio che, in quegli anni, una maggiore attenzione della magistratura alla corruzione, e la consapevolezza sociale del danno che produce, favorisce il parziale rientro dal debito, utile per adeguarsi ai parametri di Maastricht. Di quegli anni - 1993/1994 - è infatti il picco di denunce dei delitti di corruzione. Con il tempo, la tensione si allenta. Lentamente la curva dei delitti denunciati decresce e nel 2000 torna ai livelli del 1991, quelli antecedenti all'emersione di Tangentopoli. Negli anni successivi la legislazione ad personam (taglio dei tempi di prescrizione per i reati economici, dalla corruzione al falso in bilancio), i condoni fiscali, le difficoltà della legge sul "risparmio" (in realtà sulla governance) chiudono il cerchio e una stagione.

Da qui, allora, occorre muovere per comprendere e giudicare un progetto che può spingere l'Italia, nell'interesse di uno, in prossimità di una condizione da "paese emergente". Perché la difficoltà della nostra storia recente nasce nel fondo oscuro della corruzione. Tirarsene fuori è una necessità in quanto c'è - non è un segreto, anche se è trascurato dal discorso pubblico e dai cantori dell'Egoarca - una simmetria perfetta tra la corruzione e le criticità per la società e il Paese. Mercati dominati da distorsioni e "tasse immorali" (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti) garantiscono benefici soltanto agli insiders della combriccola corruttiva. Oltre a perdere competitività, i mercati corrotti non attraggono investimenti di capitale straniero e sono segnati da una bassa crescita (troppe barriere all'entrata, troppi rischi di investimento). Non c'è studio o analisi che non confermi la relazione tra il grado di corruzione e la crescita economica, soprattutto per quanto riguarda le medie e piccole imprese che sono il nocciolo duro della nostra economia reale. Infatti, le piccole e medie imprese - si legge nella relazione parlamentare che ha accompagnato la ratifica della convenzione dell'Onu contro la corruzione diventata legge il 14 agosto del 2009 - , "oltre a non avere i mezzi strutturali e finanziari delle grandi imprese (che consentono loro interventi diretti e distorsivi) risultano avere meno peso politico e minori disponibilità economiche per far fronte alla richiesta di tangenti". La corruzione diventa un costo fisso per le imprese e un onere che incide pesantemente nelle decisioni di investimento. Sono costi, per le piccole e medie imprese, che possono essere determinanti per l'entrata nel mercato, così come possono causarne l'uscita dal mercato. E in ogni caso sono costi che hanno rilevanti ricadute su altri fronti: ricerca, innovazioni tecnologiche, manutenzione, sicurezza personale, tutela ambientale.

Per queste ragioni, la corruzione dovrebbe trovare una sua assoluta priorità nell'agenda politica e gli italiani se ne rendono conto anche se magari non sanno, come ha scritto il ministro Renato Brunetta, che il balzello occulto della corruzione "equivale a una tassa di mille euro l'anno per ogni italiano, neonati inclusi". Secondo Trasparency International, un organismo "no profit" che studia il fenomeno della corruzione a livello globale, il 44 per cento degli italiani crede che la corruzione "incide in modo significativo" sulla sua vita personale e familiare; per il 92 per cento nel sistema economico; per il 95 nella vita politica; per il 85 sulla cultura e i valori della società. Più del 70 per cento della società ritiene che nei prossimi anni la corruzione sia destinata a non diminuire.

Il disastroso quadro nazionale è noto agli organismi internazionali. È di questi giorni il rapporto del Consiglio d'Europa sulla corruzione in Italia. Il Consiglio rileva che in Italia i casi di malversazione sono in aumento; che le condanne sono diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una discrezionalità che confina con l'arbitrarietà. Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d'Europa (Greco) ha inviato all'Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l'interruzione dei processi) normative (nuove figure di reato).

La risposta alle preoccupazioni della comunità internazionale - che appena al G8 dell'Aquila ha sottoscritto il dodecalogo dell'Ocse per un global legal standard (peraltro fortemente voluto da Tremonti) - è ora nel disegno di legge della "prescrizione svelta". La corruzione è trascurabile. Non è il piombo sulle ali dell'economia italiana. Non è la tossina che avvelena il metabolismo della società italiana. Non è il muro che ci impedisce di scorgere il futuro. È un grattacapo del capo del governo. Bisogna eliminarlo anche al prezzo di non avere più un futuro per l'Italia intera. Dove sono in questo piano inclinato "gli uomini del fare" che credono nella loro impresa, nel merito, nel mercato, nella concorrenza? E perché tacciono?

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« Risposta #125 inserito:: Novembre 20, 2009, 03:27:51 pm »

L'INCHIESTA/2

Il Cavaliere e la favola dei 106 processi

di GIUSEPPE D'AVANZO


SI dice: il processo sia "breve" e se questa rapidità cancella i processi di Silvio Berlusconi sia benvenuta perché contro quel poveruomo, dopo che ha scelto la politica (1994), si è scatenato un "accanimento giudiziario" con centinaia di processi.

Al fondo della diciottesima legge ad personam, favorevole al capo del governo c'è soltanto uno schema comunicativo, fantasioso, perché privo di ogni connessione con la realtà. È indiscutibile che un giudizio debba avere una ragionevole durata per non diventare giustizia negata (per l'imputato innocente, per la vittima del reato). "Processo breve", però, è soltanto un'efficace formula di marketing politico-commerciale. Nulla di più. Per credere che dia davvero dinamismo ai dibattimenti, bisogna dimenticare che le nuove regole (durata di sei anni o morte del processo) sono un imbroglio, se non si migliorano prima codice, procedura, organizzazione giudiziaria. Sono una rovina per la credibilità del "sistema Italia", se definiscono "non gravi" i reati economici come la corruzione. Con il tempo, la ragione privatissima del disegno di legge è diventata limpida anche per i creduloni, e i corifei del sovrano ora ammettono in pubblico che la catastrofica riforma è stata pensata unicamente per liberare Berlusconi dai suoi personali grattacapi giudiziari. L'effrazione di ogni condizione generale e astratta della legge deve essere sostenuta - per conformare la mente del "pubblico" - da un secondo soundbite, quella formuletta breve e convincente che, come una filastrocca, deve essere recitata in tv, secondo gli esperti, al ritmo di 6,5 sillabe al secondo, in non più di 12/15 secondi. Diffusa, ripetuta e disseminata dai guardiani vespi e minzolini dei flussi di comunicazione, suona così: Silvio Berlusconi ha il diritto di proteggersi - sì, anche con una legge ad personam - perché ha dovuto subire centinaia di processi dopo la sua "discesa in campo", spia di un protagonismo abusivo e tutto politico della magistratura che indebolisce la democrazia italiana.

Bene, ma è vero che Berlusconi è stato "aggredito" dalle toghe soltanto dopo aver scelto la politica? E quanto è stato "aggredito"? Davvero lo è stato con "centinaia di processi" tutti conclusi con un nulla di fatto? Domande che meritano parole factual, se si vuole avere un'opinione corretta anche di questo argomento sbandierato da tempo e accettato senza riserve anche dalle menti più ammobiliate.

Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso se si ascolta il presidente del consiglio. Dice il Cavaliere: "In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni" (10 ottobre 2009). Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l'iperbole paterna: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?" (Corriere, 10 ottobre). Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l'alto: "I processi contro Berlusconi sono 109" (Porta a porta, 15 ottobre). Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: "Non esageriamo, i processi sono 26".

Ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni? In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici. Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l'affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori (la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione); fondi neri per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell'affare Mediatrade (il pm si prepara a chiudere le indagini).

Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un'occasione con formula piena per l'affare "Sme-Ariosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell'art. 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria". Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l'imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (l'avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, "compra" il giudice Metta, entrambi sono condannati).

È vero, l'inventario annoia ma qualcosa ci racconta. Ci spiega che senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) affatturate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato un "delinquente abituale". Anche perché, se non avesse corrotto un testimone (David Mills, già condannato in appello, lo protegge dalla condanna in due processi), non avrebbe potuto godere delle "attenuanti generiche" che lo hanno reso "meritevole" della prescrizione che egli stesso, da presidente del consiglio, s'è riscritto e accorciato.

L'imbarazzante bilancio giudiziario non liquida un lamento che nella "narrativa" di Berlusconi è vitale: fino a quando nel 1994 non mi sono candidato al governo del Paese, la magistratura non mi ha indagato. Se non si lasciano deperire i fatti, anche questo ossessivo soundbite non è altro che l'alchimia di un mago, pubblicità. Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l'accusa è archiviata). È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa. Nel 1993 - un anno prima della sua prima candidatura al governo - la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia. Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo "politico" dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano. Ammette che le "fiamme gialle" hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992), tutti controlli che precedono l'avventura politica dell'Egoarca. Accidentale è anche la scoperta dei fondi esteri della Fininvest. Vale la pena di ricordarlo. Uno dei prestanomi di Bettino Craxi, Giorgio Tradati, consegna a Di Pietro i tabulati del conto "Northern Holding". Li gestisce per conto di Craxi. Sul conto affluisce, senza alcun precauzione, il denaro che il gotha dell'imprenditoria nazionale versa al leader socialista.

C'è una sola eccezione. Un triplice versamento non ha nome e firma. Sono tre tranche da cinque miliardi di lire che un mittente, generoso e sconosciuto, invia nell'ottobre 1991 a Craxi. "Fu Bettino a annunciarmi l'arrivo di quel versamento", ricorda Tradati. Le rogatorie permettono di accertare che i miliardi, "appoggiati" su "Northern Holding", vengono dal conto "All Iberian" della Sbs di Lugano. Di chi è "All Iberian"? Per mesi, i pubblici ministeri pestano acqua nel mortaio fino a quando un giovane praticante dello studio Carnelutti, un prestigioso studio legale milanese, confessa al pool di avere fatto per anni da prestanome per conto della Fininvest in società create dall'avvocato londinese David Mackenzie Mills.
Così hanno inizio le rogne che ancora oggi Berlusconi deve grattarsi. Il caso, la fortuna, la sfortuna, fate voi. Tirando quell'esile filo, saltano fuori 64 società off-shore del "gruppo B di Fininvest very secret", create venti anni fa e alimentate prevalentemente con fondi provenienti dalla "Silvio Berlusconi Finanziaria". È in quell'arcipelago che si muovono le transazioni strategiche della Fininvest che, come documenterà la Kpmg, consentono a Berlusconi e al suo gruppo di "alterare le rappresentazioni di bilancio"; "esercitare un controllo con fiduciari in emittenti tv che le normative italiane estere non avrebbero permesso"; "detenere quote di partecipazione in società quotate senza informare la Consob e in società non quotate per interposta persona"; "erogare finanziamenti"; "effettuare pagamenti"; "intermediare tra società del gruppo l'acquisizione dei diritti televisivi"; "ricevere fondi da terzi per finanziare operazioni di Fininvest effettuate per conto di terzi". È il disvelamento non di un episodio illegale, ma di un metodo illegale di lavoro, dello schema imprenditoriale illecito che è a fondamento delle fortune di Silvio Berlusconi. Per dirla tutta, e con il senno di poi, sedici processi per venire a capo di quel grumo di illegalità oggi appaiono addirittura un numero modesto. Nel "group B very discreet della Fininvest" infatti si costituiscono fondi neri (quasi mille miliardi di lire). Transitano i 21 miliardi che rimunerano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. E c'è altro che ancora non sappiamo e non sapremo?

Tutti i processi che Berlusconi ha affrontato e deve ancora affrontare nascono per caso non per un deliberato proposito. Un finanziere che confessa, un giovane avvocato che si libera del peso che incupisce i suoi giorni consentono di mettere insieme indagine dopo indagine, ineluttabili per l'obbligatorietà dell'azione penale, una verità che il capo del governo non potrà mai ammettere: il suo successo è stato costruito con l'evasione fiscale, i bilanci truccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Per Berlusconi, la banalizzazione della sua storia giudiziaria, che egli traduce e confonde in guerra alla (o della) magistratura, non è il conflitto della politica contro l'esercizio abusivo del potere giudiziario, ma il disperato e personale tentativo di cancellare per sempre le tracce del passato e di un metodo inconfessabile. Con quali tecniche Berlusconi ha combattuto, e ancora affronterà, questa contesa è un'altra storia.

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« Risposta #126 inserito:: Novembre 21, 2009, 10:01:27 pm »

LE INDAGINI/

Dopo il pestaggio la trans aveva paura, ma è stata lasciata sola

Se l'assassino ha le chiavi aveva tutto il tempo di portar via il pc e distruggerlo

Quei misteri e quei segreti del computer di Brenda

di GIUSEPPE D'AVANZO


C'È di certo che Brenda è morta distesa nel soppalco, asfissiata (forse) dai fumi di un incendio che si è sviluppato nei venti metri quadrati del suo minuscolo appartamento della Cassia. Si può escludere il suicidio. Troppo macchinoso per chi, come Brenda, era facile a gesti autolesionistici: si è tagliata braccia e vene appena qualche settimana fa. Due le ipotesi che sono in piedi. Omicidio o incidente domestico.

Brenda, come sempre, ha bevuto troppo whisky e ha buttato giù troppi psicofarmaci (ne ha comprati mercoledì sera e ne ha chiesto in giro, alle sue amiche, giovedì).
Si addormenta. Nel "tugurio", come viene definito l'alloggio da chi l'ha visto, nasce un incendio lento. Il fumo la uccide nel sonno. L'ipotesi è sostenuta da qualche circostanza. La porta è chiusa a doppia mandata. Nessun segno di colluttazione. Nessuna traccia di violenza sul corpo del viado.

Le stesse circostanze, a sentire qualche voce di dentro in Procura, possono convincere, al contrario, per l'omicidio. L'assassino, gli assassini hanno le chiavi di casa e non hanno bisogno di manomettere la serratura. Attendono che Brenda si addormenti con calma e appiccano il fuoco. Si allontanano dopo aver infilato il computer sotto l'acqua del lavabo per cancellarne le immagini e i testi memorizzati. Proprio il computer potrebbe essere il grimaldello per scombinare l'ipotesi.

Se l'assassino, gli assassini avevano le chiavi - e Brenda già si è assopita - hanno tutto il tempo per frugare nell'appartamento, trovato in ordine, e portar via il computer per poi distruggerlo con calma altrove, senza lasciarlo in quella casa presumendo che l'acqua ne rovini la memoria (e non è così, i tecnici delle polizie sono in grado di recuperarne i contenuti).

Perché lo abbandonano allora, in bella mostra, sulla scena del "delitto"? Giusto per farlo ritrovare - un po' a mollo, è vero - ma ancora in grado di liberare tutti i veleni che potrebbe contenere o contiene?

Comunque, queste sono tutte storie perché la pasticciona procura di Roma (due procuratori aggiunti e due sostituti sul luogo del delitto, ognuno con le sue opinioni e suggestioni, ognuno con i suoi orientamenti e indicazioni, tanto per fare maggiore confusione in un caso già ambiguissimo) apre un'inchiesta per "omicidio volontario". Una mossa tattica e consueta, va detto. Consente a chi indaga un'invasività investigativa che altre imputazioni non permetterebbero. E tuttavia un'accusa che oggi farà parlare, a buon diritto, di un omicidio nell'affaire Marrazzo - forse il secondo, dopo la "misteriosa morte" di Giangavino Cafasso, pusher, ruffiano, primo spacciatore alla stampa del video del governatore in compagnia del viado Natalie, "scoppiato" forse per overdose, forse per diabete, forse per mano assassina, in un albergo di Roma il 12 settembre.

Quale sarà l'esito dell'inchiesta, omicidio o incidente domestico, cambia poco - e si scuserà il cinismo - perché non è la morte di Brenda l'essenziale di questo nuovo capitolo dell'affaire Marrazzo.

Brenda era una vita alla deriva, una persona che nessuno ha saputo e voluto sostenere nel più difficile passaggio della sua vita già difficile. In queste settimane, nell'indifferenza di tutti, è stata minacciata, brutalmente picchiata, derubata del suo cellulare. Forse, il vero obiettivo del pestaggio. Brenda aveva paura. Lo diceva, lo gridava. Nessuno l'ha ascoltata o aiutata e chi oggi la piange ha lacrime di coccodrillo.

Quel che, alla fine, conterà in questa storia è quel che Brenda si lascia dietro: il computer. È, appunto, la memoria di quel computer, ora umido d'acqua, il nuovo centro della storia. Se assassini ci sono, forse, hanno ucciso non per cancellare tracce e prove, ma per far sì che tracce e prove siano trovate. Quel computer custodisce immagini e video che possono compromettere la congrega di nomi illustri o eccellenti che frequentavano il viado? Un fatto è certo. Brenda, approfittando della debolezza dei suoi ospiti o l'istupidimento provocato dalla cocaina che sniffavano con lei, "rubava" immagini di quegli incontri.

Nel caso di Piero Marrazzo, lo ha ammesso. Protagonisti del video: Brenda; un altro viado, Michelle; il governatore. Dice Brenda ai carabinieri nei primi giorni di novembre: "Certo, avevo quel video, lo custodivo nel mio pc ma l'ho distrutto perché avevo paura". È il video - "Marrazzo, con due viado, che sniffa cocaina" - di cui molto si parla nei circoli politici e giornalistici della Capitale, nell'ultima settimana di settembre. È una circostanza che, seppure confusamente, conferma anche Piero Marrazzo, il 2 novembre: "Ho avuto incontri con un'altra persona, un certo Blenda. Nell'occasione di un incontro con Blenda, ricordo che è passato anche un altro trans di cui non rammento il nome. Mi sembra che ho avuto solo due incontri con Blenda. Né Blenda o Natalie mi hanno mai chiesto del denaro o ricattato in relazione a foto o video che mi ritraevano. Non sono a conoscenza di video o foto scattate da Blenda in occasione di questi incontri, ma il mio stato confusionale, dovuto all'assunzione occasionale di cocaina, non mi mette in condizione di saperlo".

Si può distruggere una persona, anche senza torcerle un capello. La si può "assassinare" con un'immagine che può essere più minacciosa e mortale di un cappio o di un colpo di pistola. Il computer di Brenda, sia morta per omicidio o incidente domestico, potrà rivelarsi nei prossimi giorni e settimane un devastante arsenale di sopraffazione morale, alimentato dal sesso e dalle immagini catalogate in un computer.

Ogni delitto è sempre una catastrofe e ogni catastrofe ci svela sempre che è accaduto qualcosa che non capiamo perché quel che conta sapere - per capire davvero - non ci viene detto e non lo conosciamo. Ma, in questa storia di Piero Marrazzo e ora di Brenda, qualcosa si è già compreso o intuito: le abitudini private di un ceto politico, amministrativo, professionale, imprenditoriale sono state, sono e possono diventare gli strumenti di ricatti spietati e distruttivi, utili a modificare equilibri, risolvere conflitti; in qualche caso, adatti a "muovere le cose", concludere affari o farli saltare. Brenda, quale che sia la ragione della sua morte, si è trovata al centro di questo gorgo fangoso, attrice consapevole di una tragedia scritta e diretta da altri.

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« Risposta #127 inserito:: Novembre 23, 2009, 10:36:00 am »

L'INCHIESTA

Per Silvio Berlusconi 18 salvacondotti in 15 anni

di GIUSEPPE D'AVANZO


ANCHE William Shakespeare può essere utile per comprendere come Berlusconi si difende da quell'umana, precaria "verità" che la magistratura ha il dovere di ordinare.
In Misura per misura - "commedia oscura" che racconta di giustizia, potere, autorità, morale, dignità umana - il Lord vicario Angelo incontra Isabella che lo implora di salvare suo fratello dalla pena di morte (scena IV, II atto). Il Lord: "Egli non morrà, Isabella, se voi mi darete amore". Isabella: "Io ti denunzierò Angelo, bada! Firma subito il perdono di mio fratello, o ch'io proclamerò a voce spiegata, davanti a tutti, che specie di uomo sei". Il Lord: "E chi vuoi che ti creda, Isabella? Il mio nome (...) e il posto che occupo nello Stato avranno un peso maggiore di quello della tua accusa. Tutto quello che dirai avrà il sapore di calunnia (...) Dì pure in giro tutto quello che credi. La mia menzogna avrà più peso della tua verità".

Il modo con cui Silvio Berlusconi si difende dalla magistratura è in quelle poche parole: "La mia menzogna avrà più peso". Per dirla con una formula di Massimo Nobili (L'immoralità necessaria, il Mulino), è "la forza del potere contro la verità". Questo è il paradigma che da sempre il capo del governo oppone alla giustizia. Se si vuole averne un'idea concreta, è interessante riportare alla luce il frammento di una storia del 1994.

In quell'estate, le cose vanno così: Berlusconi ha vinto le sue prime elezioni, è sistemato a Palazzo Chigi. In un altro angolo d'Italia, a Sciacca (Agrigento), i carabinieri friggono nel caldo d'agosto dietro le tracce lasciate da Salvatore Di Ganci, mafioso di alto grado. Il mafioso se l'è svignata sotto il loro naso. In meno di un'ora, ha abbandonato la sua scrivania di direttore della Cassa Centrale di Risparmio per farsi latitante ed evitare l'arresto. Adesso i carabinieri lo cercano e confidano che i suoi amici al telefono, prima o poi, possano dare una mano con una parola imprudente. Hanno linee telefoniche sotto controllo. Tra gli altri, anche il numero di Massimo Maria Berruti. Bel tipo, questo Berruti, ormai da tre legislature parlamentare della Repubblica (Forza Italia, PdL).
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Nel 1978, da capitano della Guardia di Finanza, controlla la Edilnord (azienda del Gruppo Fininvest, all'epoca Edilnord S. a. s. di Umberto Previti & C.). Interroga Silvio Berlusconi. Che, con faccia di cuoio, gli dice di ignorare chi fossero i soci della società: "Io sono un semplice consulente". Berruti beve la frottola. Chiude il controllo. Poco dopo, lascia il Corpo e, come avvocato, prende a curare gli interessi di alcune società della Fininvest.

In quell'estate del 1994, Berruti è attivissimo come il suo telefono. L'uomo ha un problema: sa che i pubblici ministeri di Milano ronzano intorno ai militari del Nucleo tributario della Guardia di Finanza che, nel 1991, si sono messi in tasca 130 milioni di lire per chiudere gli occhi in una verifica fiscale alla Mondadori. L'8 giugno Berruti incontra, a Palazzo Chigi, Berlusconi e, nelle settimane successive, cerca un "contatto" con l'ufficiale corrotto per dirgli di tenere la bocca chiusa sulla Mondadori, se dovesse essere interrogato dai pubblici ministeri. La manovra non sfugge alla procura. Arresta il mediatore (un sottufficiale della Guardia di Finanza). Che racconta delle pressioni. Berruti sente che per lui le ore sono contate. Sarà interrogato, forse arrestato.

Ora è il 10 agosto 1994, sono le 10,29, e i carabinieri di Sciacca intercettano la conversazione di Berruti con Berlusconi. Il documento fonico, raccolto nell'indagine del mafioso Di Ganci, non potrà per legge essere utilizzato in un altro procedimento. Tuttavia, ancora oggi, quel colloquio tra Berruti e il suo Capo rivela e custodisce l'intero catalogo degli argomenti che, in quindici anni, Berlusconi utilizzerà per difendersi dal suo passato, convinto che la menzogna del potere abbia, debba avere più peso della "verità". Per lui, convincere non è altro che ingannare, null'altro.
Dunque, esordisce Berruti (chiama da casa, sa o presume di essere ascoltato): "Sono Massimo, presidente... [I pubblici ministeri] Mi vogliono parlare. Sembra che qualcuno abbia detto che io sono andato a chiedere a qualcuno di non parlare delle cose Fininvest".

Tocca a Berlusconi spiegare che cosa l'uomo deve fare e dire ai pubblici ministeri: "Vabbé, lei dice, ma voi siete pazzi... Dice, io non ho niente da nascondere. Voi fate una cosa di questo genere su un cittadino della Repubblica, voi pigliate... e lei si mette a urlare: voi siete dei pazzi, delle belve feroci, lei non può mettermi in galera, questo è sequestro di persona, eccetera... [Dell'uomo che l'accusa, dirà]: pezzo di rincoglionito che capisce lucciole per lanterne... Poi faccia dichiarazioni ai giornalisti: non se ne può più di questi matti. Faccia dichiarazioni prima di entrare dentro. [Dica] Con tutto questo non si fa altro che andare contro l'interesse del Paese, perché il Paese ha bisogno di lavorare in fiducia, in tranquillità, bisogna ricostruirlo!.. Questi [magistrati] ... sono dei nemici pubblici".

Se si sbrogliano queste frasi - le più sinceramente bugiarde che Berlusconi abbia mai detto - si ritrova, denudato, il nucleo più autentico delle ragioni che l'Egoarca oppone a una magistratura che si ritrova tra le mani le concrete evidenze di un sistema economico costruito grazie alla corruzione e la frode. Berlusconi non accetta di discutere le abitudini della sua bottega né di dimostrare che il dubbio dei pubblici ministeri sia infondato, un indizio senza certezza, un documento - in apparenza, opaco - a doppia lettura. Rifiuta alla radice la legittimità di chiedergli conto del suo comportamento. Non riconosce alcuna fondatezza e costituzionalità al lavoro della magistratura (accertare che cosa è accaduto, per responsabilità di chi). E' l'unica via di fuga che può liberarlo da contestazioni che non può affrontare. Quegli uomini in toga sono dei "pazzi".

Prima di sapere che cosa sanno o hanno raccolto o vogliono chiedere, bisogna subito urlargli contro; gridare allo scandalo, alla violenza; denunciarli come eversori che distruggono la "fiducia del Paese". Sono "nemici pubblici" che bisogna allontanare e annichilire. Pur di non rispondere di ciò che è stato, il capo del governo è disposto anche a sopportare il peggiore dei sospetti.

Ancora oggi, nella ricerca di impunità, Berlusconi si muove lungo la via che, quindici anni fa, indica a Massimo Maria Berruti. Si tiene lontano dalle aule. Arringa al "pubblico" la sua innocenza e le cattive intenzioni di quei "matti" in toga nera. Invoca il maglio dell'informazione (che controlla) per intimidirli, umiliarli, screditarli e la manipolazione dei media (che influenza) per distruggere il passato, oscurare con la menzogna i fatti, lasciar deperire - nell'opinione pubblica - la memoria. E' "la forza del potere contro la verità", come dirlo meglio? Berlusconi rivendica il suo potere per eliminare ogni accusa, ogni prova, ogni testimonianza e, insieme, degradare a funzione sottordinata ogni altro potere dello Stato che possa obbligarlo a fare i conti con la "verità". La manovra è addirittura trasparente. "Se [Silvio] non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi [di Mediaset] oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l'accusa di mafia", confessa Fedele Confalonieri (Repubblica, 25 giugno 2000). Berlusconi, quell'arma impropria del potere politico, l'ha agitata senza risparmio.

Delle diciotto leggi ad personam che si è scritto, otto proteggono e rafforzano i suoi affari, dieci lo tutelano dalla legge. Si è riscritto le regole del processo (i tempi della prescrizione), dei codici, della procedura (il divieto di appello del pubblico ministero per le sentenze di proscioglimento). Ha legiferato per abolire reati (il falso in bilancio), rimuovere i giudici (legittimo sospetto), annullare fonti di prova (le rogatorie). Infine, per rendersi immune (le leggi "Schifani" e "Alfano"). All'inizio, ha travestito il suo conflitto di interessi con pose umili: "Il presidente del Consiglio, che è un primus inter pares e coordina l'attività degli altri ministri, ha l'obbligo morale di astenersi quando sono sul tappeto decisioni che potrebbero riguardare anche i suoi interessi" (Corriere, 20 settembre 2000).

Oggi, dopo la bocciatura della "legge Alfano", anche questa maschera è caduta e il capo del governo rivendica di essere "primus super pares". Se ne deve dedurre che "la legge è uguale per tutti, ma non sempre lo è la sua applicazione", in particolar modo per il capo del governo, "investito del suo ruolo dalla sovranità popolare" (Nicolò Ghedini alla Corte Costituzionale, 6 ottobre 2009). E' la pretesa di un'indivisibilità della sovranità che eclissa ogni divisione dei poteri istituzionali. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole perché è "un'esperienza eterna" che chi ha il potere, se non trova un limite, ne abuserà. Come il Lord vicario di Shakespeare, 1604.

Stupefacente è che questo avvenga nel 2009, nell'Occidente liberale, in Italia. Dove con la leggenda di un "accanimento giudiziario" (16 processi non 106, come dice il capo del governo), anche soi disantes liberali possono sostenere che il rispetto delle regole sia più nefasto della loro violazione o, in alternativa, che per salvare la Repubblica bisogna immunizzare un solo cittadino del Paese. Con l'esito - è questo che ci attende, se Berlusconi la spunterà - di depenalizzare addirittura il reato di corruzione in una scena pubblica dove è abolita ogni distinzione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario con la creazione di uno "stato d'eccezione" che annulla e contraddice ogni aspetto normativo del diritto, anche quello fondamentale di essere eguali davanti alla legge. E' un paradigma di governo che invoca, in nome della sovranità, "pieni poteri" (plein pouvoirs). Come se potessimo trascurare, anche soltanto per un attimo, che l'esercizio sistematico dell'eccezione conduce necessariamente alla liquidazione della democrazia.
(Le prime due puntate sono state pubblicate il 18 e il 20 novembre)

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« Risposta #128 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:44:33 am »

Ad una svolta l'indagine di Firenze sulle stragi del 1993.

Il nome del presidente del Consiglio nei verbali degli uomini della cosca di Brancaccio

Mafia, perché i pentiti accusano Berlusconi

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO


NELL'INCHIESTA sui mandanti delle stragi del 1993 estranei a Cosa Nostra entrano Autore 1 e Autore 2. Gli ultimi interrogatori della procura di Firenze hanno una particolarità. Tecnica, ma comprensibilissima. I primi testimoni sono stati ascoltati in un'inchiesta a "modello 44", "notizie di reato relative a ignoti". Gli ultimi, a "modello 21", dunque "a carico di noti". I pubblici ministeri, nei documenti, non svelano i nomi dei nuovi indagati. Chi sono Autore 1 e 2? Secondo le indiscrezioni pubblicate già nei giorni scorsi dai quotidiani vicini al governo, sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, la cui posizione era stata già archiviata il 3 maggio del 2002. Se così fosse, l'atto è dovuto. Non è un mistero (un migliaio di pagine sono state depositate, tre giorni fa, al processo di appello a Dell'Utri che si celebra a Palermo) che un nuovo testimone dell'accusa - Gaspare Spatuzza - indica nel presidente del consiglio e nel suo braccio destro i suggeritori della campagna stragista di sedici anni fa. Queste sono le "nuove" dai palazzi di giustizia, ma quel che si scorge è molto altro. L'intero fronte mafioso è minacciosamente in movimento. "La Cosa Nostra siciliana" si prepara a chiedere il conto a un Berlusconi che appare, a ragione, in tensione e sicuro che il peggio debba ancora venire.

Accade che, nella convinzione di "essere stata venduta" dopo "le trattative" degli anni Novanta, la famiglia di Brancaccio ha deciso di aggredire - in pubblico e servendosi di un processo - chi "non ha mantenuto gli impegni". Ci sono anche i messaggi di morte. Al presidente del Senato, Renato Schifani, siciliano di Palermo. O, come raccontano le "voci di dentro" di Cosa Nostra, avvertimenti che sarebbero piovuti su Marcello Dell'Utri. Un'intimidazione che ha - pare - molto impaurito il senatore e patron di Publitalia. Sono sintomi che devono essere considerati oggi un corollario della resa dei conti tra Cosa Nostra e il capo del governo. È il modo più semplice per dirlo. Perché di questo si tratta, del rendiconto finale e traumatico tra chi (Berlusconi) ha avuto troppo e chi (Cosa Nostra) ritiene di avere nelle mani soltanto polvere dopo molte promesse e infinita pazienza. Questo scorcio di 2009 finisce così per avere molti punti di contatto con il 1993 quando la Penisola è stata insanguinata dalle stragi: Roma, via Fauro (14 maggio); Firenze, via Georgofili (27 maggio); Milano, via Palestro (27 luglio); Roma, S. Giorgio al Velabro e S. Giovanni in Laterano (28 luglio); Roma, stadio Olimpico (23 gennaio 1994), attentato per fortuna fallito. Nel nostro tempo, non c'è tritolo e devastazione, ma l'annuncio di una "verità" che può essere più distruttiva di una bomba. Per lo Stato, per chi governa il Paese.

Per capire quel che accade, bisogna sapere un paio di cose. La famiglia mafiosa dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano di Brancaccio a Palermo è il nocciolo irriducibile - con i Corleonesi di Riina e Bagarella, con i Trapanesi di Matteo Messina Denaro (latitante) - di una Cosa nostra siciliana che oggi ha il suo "stato maggiore" in carcere e in libertà soltanto mischini senza risorse, senza influenza, senza affari, incapace anche di concludere uno sbarco di cocaina perché priva del denaro per acquistare un gommone. La seconda cosa che occorre ricordare è che gli "uomini d'onore" non hanno mai ammesso di essere un'"associazione" (Giovanni Bontate che, in un'aula di tribunale, usò con leggerezza il noi fu fatto secco appena libero).

I mafiosi non hanno mai accettato di discutere i fatti loro, anche soltanto di prendere in considerazione l'ipotesi di lasciar entrare uno sguardo estraneo negli affari della casa, figurarsi poi se gli occhi erano di magistrato. Apprezzati questi due requisiti "storici", si può comprendere meglio l'originalità di quanto accade, ora in questo momento, dentro Cosa Nostra. Tra Cosa Nostra e lo Stato (i pubblici ministeri). Tra Cosa Nostra e gli uomini (Berlusconi, Dell'Utri) che - a diritto o a torto, è tutto da dimostrare - i mafiosi hanno considerato, dal 1992/1993 e per quindici anni, gli interlocutori di un progetto che, dopo le stragi, avrebbe rimesso le cose a posto: i piccioli, il denaro, al sicuro; i "carcerati" o fuori o dentro, ma in condizioni di tenere il filo del loro business; mediocri e distratte politiche della sicurezza; lavoro giudiziario indebolito per legge; ceto politico disponibile, come nel passato, al dialogo e al compromesso con gli interessi mafiosi.

Sono novità che preparano una stagione nuova, incubano conflitti dolorosi e pericolosi. La campana suona per Silvio Berlusconi perché, nelle tortuosità che sempre accompagnano le cose di mafia, è evidente che il 4 dicembre - quando Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, testimonierà nel processo di appello contro Marcello Dell'Utri - avrà inizio la resa dei conti della famiglia dei fratelli Graviano contro il capo del governo che, in agosto, ha detto di voler "passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia".

È un fatto sorprendente che i mafiosi abbiano deciso di parlare con i pubblici ministeri di quattro procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano). Vogliono contribuire "alla verità". Lo dice, con le opportune prudenze, anche Giuseppe Graviano, "muto" da quindici anni. Quattro uomini della famiglia offrono una collaborazione piena. Sono Gaspare Spatuzza, Pietro Romeo, Giuseppe Ciaramitaro, Salvatore Grigoli. Spiegano, ricordano. Chiariscono come nacque, e da chi, l'idea delle stragi che non "avevano il dna di Cosa Nostra" e che "si portarono dietro quei morti innocenti". Indicano l'"accordo politico" che le giustificò e le rese necessarie "per il bene della Cosa Nostra". I nomi di Berlusconi e Dell'Utri saltano fuori in questo snodo.

Gaspare Spatuzza, 18 giugno 2009, ricostruisce la vigilia dell'attentato all'Olimpico: "Giuseppe Graviano mi ha detto "che tutto si è chiuso bene, abbiamo ottenuto quello che cercavamo; le persone che hanno portato avanti la cosa non sono come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci hanno chiesto i voti e poi ci hanno venduti. Si tratta di persone affidabili". A quel punto mi fa il nome di Berlusconi e mi conferma, a mia domanda, che si tratta di quello di Canale 5; poi mi dice che c'è anche un paesano nostro e mi fa il nome di Dell'Utri (...) Giuseppe Graviano mi dice [ancora] che comunque bisogna fare l'attentato all'Olimpico perché serve a dare il "colpo di grazia" e afferma: ormai "abbiamo il Paese nelle mani"".
Pietro Romeo, 30 settembre 2009: "... In quel momento stavamo parlando di armi e di altri argomenti seri. [Fu chiesto a Spatuzza] se il politico dietro le stragi fosse Andreotti o Berlusconi. Spatuzza rispose: Berlusconi. La motivazione stragista di Cosa Nostra era quella di far togliere il 41 bis. Non ho mai saputo quali motivazioni ci fossero nella parte politica. Noi eravamo [soltanto degli] esecutori".

Salvatore Grigoli, interrogatorio 5 novembre 2009: "Dalle informazioni datemi (...), le stragi erano fatte per costringere lo Stato a scendere a patti (...) Dell'Utri è il nome da me conosciuto (...), quale contatto politico dei Graviano (...) Quello di Dell'Utri, per me, in quel momento era un nome conosciuto ma neppure particolarmente importante. Quel che è certo è [che me ne parlarono] come [del nostro] contatto politico". E' una scena che trova conferme anche in parole già dette, nel tempo. I ricordi di Giuseppe Ciaramitaro li si può scovare in un verbale d'interrogatorio del 23 luglio 1996: "Mi [fu] detto che bisognava portare questo attacco allo Stato e che c'era un politico che indicava gli obiettivi, quando questo politico avrebbe vinto le elezioni, si sarebbe quindi interessato a far abolire il 41 bis (...). Quando Berlusconi [è] stato presidente del Consiglio per la prima volta, nell'organizzazione erano tutti contenti, perché si stava muovendo nel senso desiderato e [si disse] che la proroga del 41 bis era stata solo per 'fintà in modo da eliminarlo del tutto alla scadenza".

Ci sarà, certo, chi dirà che non c'è nulla di nuovo. "Pentiti di mafia" che confermano testimonianza di altri "pentiti di mafia" ci sono stati ieri, ci sono oggi. La differenza, in questo caso, è come questi uomini che hanno saltato il fosso sono trattati dagli altri, da chi - in apparenza - resta ben saldo nelle sue convinzioni di mafioso, nel suo giuramento d'omertà. Li rispettano, sorprendentemente. Non era mai capitato. Non li considerano degli "infami". Accettano il dialogo con loro. Anche i più ostinati come Cosimo Lo Nigro e Vittorio Tutino.

Cosimo Lo Nigro, il 10 settembre del 2009, è seduto di fronte a Gaspare Spatuzza. Spatuzza gli dice che "ha gioito - oggi me ne vergogno - , ma ho gioito per Capaci perché quello [Falcone] rappresentava un nemico per Cosa Nostra... ma il nostro malessere inizia nel momento in cui ci spingiamo oltre (...) su Firenze, Roma, Milano...". Lo Nigro lo ascolta, senza contraddirlo. Spatuzza ricostruisce come andarono le cose durante la preparazione della strage all'Olimpico. Lo Nigro lo lascia concludere e gli dice: "Rispetto le tue scelte, ma ancora ti chiedo: sei sicuro di ciò che dici e delle tue scelte?". Vittorio Tutino accetta di essere interrogato dai Pm di Caltanissetta. Non fa scena muta. Parla. Il suo verbale d'interrogatorio deve essere interessante perché viene secretato.

Già queste mosse annunciano la nuova stagione, ma la dirompente novità è nei cauti passi dei due boss di Brancaccio, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Sono i più vicini a Salvatore Riina. Hanno guidato con mano ferma la loro "batteria" fino a progettare la strage - per fortuna evitata per un inghippo nell'innesco dell'esplosivo - di un centinaio di carabinieri all'Olimpico il 23 gennaio del 1994. Sono in galera da quindici anni. Hanno studiato (economia, matematica) in carcere. Dal carcere si sono curati dell'educazione dei loro figli affidati ai migliori collegi di Roma e di Palermo e ora sembrano stufi, stanchi di attendere quel che per troppo tempo hanno atteso. Spatuzza racconta che, alla fine del 2004, Filippo Graviano, 48 anni, sbottò: "Bisogna far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati". La frase è eloquente. C'è un accordo. Chi lo ha sottoscritto, non ha rispettato l'impegno. Per cavarsi dall'angolo, c'è un solo modo: dissociarsi, collaborare con la giustizia, svelare le responsabilità di chi - estraneo all'organizzazione - si è tirato indietro. Accusarlo può essere considerato "un'infamia"?

Filippo Graviano, il 20 agosto 2009, accetta il confronto con Gaspare Spatuzza. C'è una sola questione da discutere. Quella frase. Ha detto che "se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati"? La smentita di Filippo Graviano è ambigua. In Sicilia dicono: a entri ed esci. Dice Filippo a Gaspare: "Io non ho mai parlato con ostilità nei tuoi riguardi. I discorsi che facevamo erano per migliorare noi stessi. Già noi avevamo allora un atteggiamento diverso, già volevamo agire nella legalità. Noi parlavamo di un nostro futuro in un'altra parte d'Italia". La premessa è utile al boss per negare ma con garbo: "Mi dispiace contraddire Spatuzza, ma devo dire che non mi aspetto niente adesso e nemmeno nel passato, nel 2004. Mi sembra molto remoto che possa avere detto una frase simile perché, come ho detto, non mi aspetto niente da nessuno. Avrei cercato un magistrato in tutti questi anni, se qualcuno non avesse onorato un presunto impegno".

Filippo non ha timore di pronunciare per un boss parole tradizionalmente vietate, "legalità", "cercare magistrati". Si spinge anche a pronunciarne una, indicibile: "dissociazione". Dice, il 28 luglio 2009: "Da parte mia è una dissociazione verso le scelte del passato (...). Oggi sono una persona diversa. Faccio un esempio. Nel mio passato, al primo posto, c'era il denaro. Oggi c'è la cultura, la conoscenza. (...) Io non rifarei le scelte che ho fatto".

Anche Giuseppe Graviano, 46 anni, il più duro, il più autorevole (i suoi lo chiamano "Madre natura" o "Mio padre"), incontra i magistrati, il 28 luglio 2008. E' la prima volta che risponde a una domanda dal tempo del suo arresto, il 27 gennaio 1993. Dice: "Io sono disposto a fare i confronti, con coloro che indico io e che ritengo sappiano la verità. Sono disposto a un confronto con Spatuzza ma cosa volete che sappia Spatuzza che non sa niente, faceva l'imbianchino, sarà ricattato da qualcuno". Sembra che alzi un muro e che il muro sia insuperabile, ma non è così. Quando gli tocca parlare delle stragi del 1993, ragiona: "Perché non mi avete fatto fare il confronto con i pentiti in aula, quando l'ho chiesto? Così una versione io, una versione loro e poi c'è il magistrato [che giudica]: voi ascoltavate e potevate decidere chi stava dicendo la verità. La verità, [soltanto] la verità di come sono andati i fatti.. . io vi volevo portare alla verità. E speriamo che esca la verità veramente. Ve ne accorgerete del danno che avete fatto. Se noi dobbiamo scoprire [la verità], io posso dare una mano d'aiuto. Io dico che uscirà fuori la verità delle cose. Trovate i veri colpevoli, i veri colpevoli. Si parla sempre di colletti bianchi, colletti grigi, colletti e sono sempre innocenti [questi, mentre] i poveri disgraziati...".

Gli chiedono i magistrati: "Lei sa che ci sono colletti bianchi implicati in queste storie?". Risponde: "Io non lo so. Poi stiamo a vedere se... qualcuno ha il desiderio di dirlo che lo sa benissimo... Ma io non posso dire la mia verità così. Perché non serve a niente. Invece, ve la faccio dire, io, [da] chi sa la verità".

Ora bisogna mettere in ordine quel che si intuisce nelle mosse di Cosa Nostra. I "pentiti" non sono maledetti da chi, in teoria, stanno tradendo. Al contrario, ricevono attestati di solidarietà, segnali di rispetto, addirittura cenni di condivisione per una scelta che alcuni non hanno ancora la forza di decidere. E' più che un'impressione: è come se chi offre piena collaborazione alla magistratura (Spatuzza, Romeo, Grigoli) abbia l'approvazione di chi governa la famiglia (Giuseppe e Filippo Graviano) e ancora oggi può essere considerato al vertice di un'organizzazione che, in carcere, custodisce l'intera memoria della sua storia, delle sue connessioni, degli intrecci indicibili e finora non detti, degli interessi segreti e protetti. In una formula, il peso di un ricatto che viene offerto con le parole e i ricordi delle "seconde file" in attesa che le "prime" possano valutare quel che accade, chi e come si muove.

Ecco perché ha paura Berlusconi. Quegli uomini della mafia non conoscono soltanto "la verità" delle stragi (che sarà molto arduo rappresentare in un racconto processuale ben motivato), ma soprattutto le origini oscure della sua avventura imprenditoriale, già emerse e documentate dal processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri (condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Di denaro, di piccioli minacciano allora di parlare i Graviano e gli uomini della famiglia di Brancaccio. Dice Spatuzza: "I Graviano sono ricchissimi e il loro patrimonio non è stato intaccato di un centesimo. Hanno investito al Nord e in Sardegna e solo così mi spiego perché durante la latitanza sono stati a Milano e non a Brancaccio. È anomalo, anomalissimo". Se a Milano - dice il testimone - Filippo e Giuseppe si sentivano più protetti che nella loro borgata di Palermo vuol dire che chi li proteggeva a Milano era più potente e affidabile della famiglia.

© Riproduzione riservata (27 novembre 2009)
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« Risposta #129 inserito:: Novembre 28, 2009, 12:44:16 pm »

L'INCHIESTA -

Il peso del ricatto al premier della famiglia di Brancaccio sembra legato all'inizio della sua storia di imprenditore

Sono i soldi degli inizi del Cavaliere l'asso nella manica dei fratelli Graviano

Più che un eventuale avviso di garanzia per le stragi del '93, il premier dovrebbe temere il coinvolgimento da parte delle cosche sulle storie di denaro affari e politica

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO



Soldi. Soldi "loro" che non sono rimasti in Sicilia, ma "portati su", lontano da Palermo. "Filippo Graviano mi parlava come se fosse un suo investimento, come se la Fininvest fossero soldi messi da tasca sua". Per Gaspare Spatuzza, da qualche parte, la famiglia di Brancaccio ha "un asso nella manica". Quale può essere questo "jolly" non è più un mistero. Per i mafiosi, che riferiscono quel che sanno ai procuratori di Firenze, è una realtà il ricatto per Berlusconi che Cosa Nostra nasconde sotto la controversa storia delle stragi del 1993. Nell'interrogatorio del 16 marzo 2009, Spatuzza non parla più di morte, di bombe, di assassini, ma del denaro dei Graviano. E ha pochi dubbi che Giuseppe Graviano (che chiama "Madre Natura" o "Mio padre") "si giocherà l'asso" contro chi a Milano è stato il mediatore degli affari di famiglia, Marcello Dell'Utri, e l'utilizzatore di quelle risorse, Silvio Berlusconi.

Il mafioso ricostruisce la storia imprenditoriale della cosca di Brancaccio, con i Corleonesi di Riina e Bagarella e i Trapanesi di Matteo Messina Denaro, il nocciolo duro e irriducibile di Cosa nostra siciliana.
È il 16 marzo 2009, il mafioso di Brancaccio racconta ai pubblici ministeri del "tesoro" dei Graviano. "Cento lire non gliele hanno levate a tutt'oggi. Non gli hanno sequestrato niente e sono ricchissimi".

"Non si fidano di nessuno, hanno costruito in questi vent'anni un patrimonio immenso". Per Gaspare Spatuzza, due più due fa sempre quattro. Dopo il 1989 e fino al 27 gennaio 1994 (li arrestano ai tavoli di "Gigi il cacciatore" di via Procaccini), Filippo e Giuseppe decidono di starsene latitanti a Milano e non a Palermo. Hanno le loro buone ragioni. A Milano possono contare su protezioni eccellenti e insospettabili che li garantiscono meglio delle strade strette di Brancaccio dove non passa inosservato nemmeno uno spillo. E dunque perché? "E' anomalissimo", dice il mafioso, ma la chiave è nel denaro. A Milano non ci sono uomini della famiglia, ma non importa perché ci sono i loro soldi e gli uomini che li custodiscono. I loro nomi forse non sono un mistero. Di più, Gaspare Spatuzza li suggerisce. Interrogatorio del 16 giugno: "Filippo ha nutrito sempre simpatia nei riguardi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, (...) Filippo è tutto patito dell'abilità manageriale di Berlusconi. Potrei riempire pagine e pagine di verbale [per raccontare] della simpatia e del... possiamo dire ... dell'amore che lo lega a Berlusconi e Dell'Utri".

"L'asso nella manica" di Giuseppe Graviano, "il jolly" evocato dal mafioso come una minaccia - sostengono fonti vicine all'inchiesta - non è nella fitta rete di contatti, reciproche e ancora misteriose influenze che hanno preceduto le cinque stragi del 1993 - lo conferma anche Spatuzza - , ma nelle connessioni di affari che, "negli ultimi vent'anni", la famiglia di Brancaccio ha coltivato a Milano. E' la rassicurante condizione che rende arrogante anche Filippo, solitamente equilibrato. Dice Gaspare: "[Filippo mi disse]: facceli fare i processi a loro, perché un giorno glieli faremo noi, i processi".

Nella lettura delle migliaia di pagine di interrogatorio, ora agli atti del processo di appello di Marcello Dell'Utri, pare necessario allora non farsi imprigionare da quel doloroso 1993, ma tenere lo sguardo più lungo verso il passato perché le stragi di quell'anno sono soltanto la fine (provvisoria e sfuggente) di una storia, mentre i mafiosi che hanno saltato il fosso - e i boss che hanno autorizzato la manovra - parlano di un inizio e su quell'epifania sembrano fare affidamento per la resa dei conti con il capo del governo.

Le cose stanno così. Berlusconi non deve temere il suo coinvolgimento - come mandante - nelle stragi non esclusivamente mafiose del 1993. Può mettere fin da ora nel conto che sarà indagato, se già non lo è a Firenze. Molti saranno gli strepiti quando la notizia diventerà ufficiale, ma va ricordato che l'iscrizione al registro degli indagati mette in chiaro la situazione, tutela i diritti della difesa, garantisce all'indagato tempi certi dell'istruttoria (limitati nel tempo). Quando l'incolpazione diventerà pubblica, l'immagine internazionale del premier ne subirà un danno, è vero, ma il Cavaliere ha dimostrato di saper reggere anche alle pressioni più moleste. E comunque quel che deve intimorire e intimorisce oggi il premier non è la personale credibilità presso le cancellerie dell'Occidente, ma fin dove si può spingere e si spingerà l'aggressione della famiglia mafiosa di Brancaccio, determinata a regolare i conti con l'uomo - l'imprenditore, il politico - da cui si è sentita "venduta" e tradita, dopo "le trattative" del 1993 (nascita di Forza Italia), gli impegni del 1994 (primo governo Berlusconi), le attese del 2001 (il Cavaliere torna a Palazzo Chigi dopo la sconfitta del '96), le più recenti parole del premier: "Voglio passare alla storia come il presidente del consiglio che ha distrutto la mafia" (agosto 2009).

Mandate in avanscoperta, non contraddette o isolate dai boss, le "seconde file" della cosca - manovali del delitto e della strage al tritolo - hanno finora tirato dentro il Cavaliere e Marcello Dell'Utri come ispiratori della campagna di bombe, inedita per una mafia che in Continente non ha mai messo piede - nel passato - per uccidere innocenti. Fonti vicine alle inchieste (quattro, Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano) non nascondono però che raccogliere le fonti di prove necessarie per un processo sarà un'impresa ardua dall'esito oggi dubbio e soltanto ipotetico. Non bastano i ricordi di mafiosi che "disertano". Non sono sufficienti le parole che si sono detti tra loro, dentro l'organizzazione. Non possono essere definitive le prudenti parole di dissociazione di Filippo Graviano o il trasversale messaggio di Giuseppe che promette ai magistrati "una mano d'aiuto per trovare la verità". Occorrono, come li definisce la Cassazione, "riscontri intrinseci ed estrinseci", corrispondenze delle parole con fatti accertabili. Detto con chiarezza, sarà molto difficile portare in un'aula di tribunale l'impronta digitale di Silvio Berlusconi nelle stragi del 1993.

Questo affondo della famiglia di Brancaccio sembra - vagliato allo stato delle cose di oggi - soltanto un avvertimento che Cosa Nostra vuole dare alla letale quiete che sta distruggendo il potere dell'organizzazione e, soprattutto, uno scrollone a uno stallo senza futuro, che l'allontana dal recupero di risorse essenziali per ritrovare l'appannato prestigio.

Il denaro, i piccioli, in queste storie di mafia, sono sempre curiosamente trascurati anche se i mafiosi, al di là della retorica dell'onore e della famiglia, altro non hanno in testa. I Graviano, dice Gaspare Spatuzza, non sono un'eccezione. Nel loro caso, addirittura sono più lungimiranti. Nei primi anni novanta, Filippo e Giuseppe preparano l'addio alla Sicilia, "la dismissione del loro patrimonio" nell'isola. Spatuzza (16 giugno 2009): "Nel 1991, vendono, svendono il patrimonio. Cercano i soldi, [vogliono] liquidità e io non so come sono stati impiegati [poi] questi capitali, e per quali acquisizioni. Certo, non sono restati in Sicilia". I Graviano, a Gaspare, non appaiono più interessati "alle attività illecite". "Quando Filippo esce [dal carcere] nell'88 o nel 1989, esce con questa mania, questa grandezza imprenditoriale. I Graviano hanno già, per esempio, le tre Standa di Palermo affidate a un prestanome, in corso Calatafimi a Porta Nuova, in via Duca Della Verdura, in via Hazon a Brancaccio". Filippo - sempre lui - si sforza di far capire anche a uno come Spatuzza, imbianchino, le opportunità e anche i rischi di un impegno nella finanza. Le sue parole svelano che ha già a disposizione uomini, canali, punti di riferimento, competenze. "[Filippo] mi parla di Borsa, di Tizio, di Caio, di investimenti, di titoli. (...). Mi dice: [vedi Gaspare], io so quanto posso guadagnare nel settore dell'edilizia, ma se investo [i miei soldi] in Borsa, nel mercato finanziario, posso perdere e guadagnare, non c'è certezza. Addirittura si dice che a volte, se si benda una scimmia e le si fa toccare un tasto, può riuscire meglio di un esperto. Filippo è attentissimo nel seguire gli scambi, legge ogni giorno il Sole 24ore. Tiene in considerazione la questione Fininvest, d'occhio [il volume degli] investimenti pubblicitari. Mi dice [meraviglie] di una trasmissione come Striscia la notizia. Minimo investimento, massima raccolta [di spot], introiti da paura. "Il programma più redditizio della Fininvest", dice. Abbiamo parlato anche di Telecom, Fiat, Piaggio, Colaninno, Tronchetti Provera, ma la Fininvest era, posso dire, un terreno di sua pertinenza, come [se fosse] un [suo] investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua, la Fininvest".

E' l'interrogatorio del 29 giugno 2009. Gaspare conclude: "Le [mie] dichiarazioni non possono bruciare l'asso [conservato nella manica] di Giuseppe" perché "il jolly" non ha nulla a che spartire con la Sicilia, con le stragi, con quell'orizzonte mafioso che è il solo paesaggio sotto gli occhi di Spatuzza. Un mese dopo (28 luglio 2009), i pubblici ministeri chiedono a Filippo in modo tranchant dove siano le sue ricchezze. Quello risponde: "Non ne parlo e mi dispiace non poterne parlare".

Ora, per raccapezzarci meglio in questo labirinto, si deve ricordare che i legami tra Marcello Dell'Utri e i paesani di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri - nella metà degli anni settanta - tra Silvio Berlusconi e la créme de la créme di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova (il mafioso, "che poteva chiedere qualsiasi cosa a Dell'Utri", siede alla tavola di Berlusconi anche nelle cene ufficiali, altro che "stalliere"). Nella scena che prepara la confessione di Gaspare Spatuzza, quel che è originale è l'esistenza di "un asso" che, giocato da Giuseppe Graviano, potrebbe compromettere il racconto mitologico dell'avventura imprenditoriale del presidente del consiglio.

Con quali capitali, Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero glorioso e ben protetto. Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari. Probabilmente capitali sottratti al fisco, espatriati, rientrati in condizioni più favorevoli, questo era il mestiere del conte Carlo Rasini. Ma è ancora nell'aria la convinzione che non tutta la Fininvest sia sotto il controllo del capo del governo.

Molte testimonianze di "personaggi o consulenti che hanno lavorato come interni al gruppo", rilasciate a Paolo Madron (autore, nel 1994, di una documentata biografia molto friendly, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer), riferiscono che "sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle [22] holding [che controllano Fininvest]. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire". Sembra di poter dire che il peso del ricatto della famiglia di Brancaccio contro Berlusconi può esercitarsi proprio tra le nebbie di quel venti per cento. In un contesto che tutti dovrebbe indurre all'inquietudine. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall'altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c'è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia, per sottrarsi a quel ricatto rovinoso, anche Berlusconi è chiamato a fare finalmente luce sull'inizio della sua storia d'imprenditore.

Il Cavaliere dice che si è fatto da sé correndo in salita senza capitali alle spalle. Sostiene di essere il proprietario unico delle holding che controllano Mediaset (ma quante sono, una buona volta, ventidue o trentotto?). E allora l'altro venti per cento di Mediaset di chi è? Davvero, come raccontano ora gli uomini di Brancaccio, è della mafia? È stata la Cosa Nostra siciliana allora a finanziarlo nei suoi primi, incerti passi di imprenditore? Già glielo avrebbero voluto chiedere i pubblici ministeri di Palermo che pure qualche indizio in mano ce l'avevano.

Quel dubbio non può essere trascurabile per un uomo orgoglioso di avercela fatta senza un gran nome, senza ricchezze familiari, un outsider nell'Italia ingessata delle consorterie e prepotente delle lobbies.

Berlusconi, in occasione del processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri, avrebbe potuto liberarsi di quel sospetto con poche parole. Avrebbe potuto dire il suo segreto; raccontare le fatiche che ha affrontato; ricordare le curve che ha dovuto superare, anche le minacce che gli sono piovute sul capo. Poche parole con lingua secca e chiara. E lui, invece, niente. Non dice niente. L'uomo che parla ossessivamente di se stesso, compulsivamente delle sue imprese, tace e dimentica di dirci l'essenziale. Quando i giudici lo interrogano a Palazzo Chigi (è il 26 novembre 2002, guida il governo), "si avvale della facoltà di non rispondere". Glielo consente la legge (è stato indagato in quell'inchiesta), ma quale legge non scritta lo obbliga a tollerare sulle spalle quell'ombra così sgradevole e anche dolorosa, un'ombra che ipoteca irrimediabilmente la sua rispettabilità nel mondo - nel mondo perché noi, in Italia, siamo più distratti? Qual è il rospo che deve sputare? Che c'è di peggio di essere accusato di aver tenuto il filo - o, peggio, di essere stato finanziariamente sostenuto - da un potere criminale che in Sicilia ha fatto più morti che la guerra civile nell'Irlanda del Nord? Che c'è di peggio dell'accusa di essere un paramafioso, il riciclatore di denaro che puzza di paura e di morte? Un'evasione fiscale? Un trucco di bilancio? Chi può mai crederlo nell'Italia che ammira le canaglie. Per quella ragione, gli italiani lo avrebbero apprezzato di più, non di meno. Avrebbero detto: ma guarda quel bauscia, è furbissimo, ha truccato i conti, gabbato lo Stato e vedi un po' dove è arrivato e con quale ricchezza!

D'altronde anche per questo scellerato fascino, gli italiani lo votano e gli regalano la loro fiducia. E dunque che c'è di indicibile nei finanziamenti oscuri, senza padre e domicilio, che gli consentono di affatturarsi i primi affari?

E' giunto il tempo, per Berlusconi, di fare i conti con il suo passato. Non in un'aula di giustizia, ma en plein air dinanzi all'opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese.

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« Risposta #130 inserito:: Novembre 29, 2009, 03:14:25 pm »

Dalla Banca Rasini a Spatuzza, i misteri mai chiariti

Il "giallo" sul 20% del capitale è anche in un libro pubblicato nel '95 dalla Mondadori

Quelle nebbie misteriose sulle origini della Fininvest

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO


IL RACCONTO di Repubblica di come i mafiosi di Brancaccio ritengano di avere "un asso nella manica" da giocare contro la Fininvest ha provocato le proteste di Marina Berlusconi, presidente della holding, e l'annuncio di azioni penali e civili di Mediaset. La protesta di Mediaset è temeraria.

Forse per un equivoco o soltanto per offrire ai giornali della Casa un titolo aggressivo, sostiene che, nell'inchiesta, ci sia scritto: "il 20 per cento di Mediaset appartiene alla mafia". È falso. Nessuno ha scritto una frase di questo genere. Nessuno poteva scriverla. Mediaset nasce come società quotata in Borsa soltanto nel 1996 mentre la cronaca dà conto, per la prima volta, degli interrogatori dei mafiosi di Brancaccio che raccontano vicende degli anni ottanta e primi anni novanta, comunque precedenti al 27 gennaio 1994, quando Filippo e Giuseppe Graviano sono stati arrestati a Milano. L'inchiesta si occupa di Fininvest, non di Mediaset. Di quel che i mafiosi riferiscono della Fininvest (detiene il 38,618 per cento di Mediaset).

Gaspare Spatuzza rivela ai pubblici ministeri di Firenze che "Filippo Graviano mi parlava come se Fininvest fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua". È una dichiarazione che ripropone la questione mai accantonata della provenienza dei capitali che hanno favorito l'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi che di suo - è noto - risorse non ne aveva a disposizione. Per sintetizzare i dubbi che ancora ci sono su quell'inizio, Repubblica ha ritenuto di citare una breve frase dal libro di Paolo Madron, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer: "Sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle holding che controllano Fininvest. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire" (pag.137).

Contro questa frase muove oggi con indignazione e qualche sovrattono Marina Berlusconi. Lasciamo in un canto i suoi insulti. La presidente della Fininvest dichiara: "Il 100 per cento della Fininvest, come emerge incontrovertibilmente da tutti i documenti, appartiene alla nostra famiglia, a Silvio Berlusconi e ai suoi figli. Così è oggi e così è da sempre, non c'è mai stata una sola azione della Fininvest che non facesse capo alla famiglia Berlusconi". Se così è, perché la Fininvest non ha mai considerato calunnioso e diffamatorio il libro di Madron, diventato nel tempo anche autorevole direttore di Panorama Economy, periodico della Casa? Perché se ne duole soltanto oggi? Possibile che le sia sfuggito un libro pubblicato da una casa editrice dal 1995 di proprietà della Mondadori?

Di quel lavoro, qualcosa si sa. Paolo Madron è forse il solo giornalista che abbia avuto modo di incontrare e intervistare a lungo il conte Carlo Rasini, patron della Banca Rasini che mise a disposizione del giovane Berlusconi fidejussioni, prima, finanziamenti, poi. Madron riesce a incontrare Rasini nella sua casa ai Bastioni di Porta Venezia, a Milano. La conversazione è lunga, piacevole e assai intrigante.

Il conte banchiere racconta come "in realtà, le città giardino di Berlusconi sono servite a qualche famiglia milanese per far rientrare le valigie di soldi depositate a suo tempo in Svizzera". Ricorda di come, un giorno, Berlusconi "va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno portato fuori tanti soldi e che, se lui ci metterà una buona parola, potrebbero dargli fiducia". Rasini ne parla con il padre di Berlusconi, Luigi, che non vorrebbe. Ha paura che il figlio "resti schiacciato dalla sua ambizione". Ma Rasini, come ha fatto altre volte, non gli fa mancare il suo aiuto. "In fondo, quale migliore occasione per far tornare il denaro dal paese degli gnomi e farlo fruttare bello e pulito nelle mani di quel giovanotto che dove tocca guadagna?".

Ora Madron è a colazione da Carlo Rasini. Gli chiede conto di quei finanziamenti e il conte banchiere gli rivela che Berlusconi ha restituito, di quelle somme, soltanto l'ottanta per cento. "E l'altro venti?", chiede Madron. Rasini sorride e gli dice: "L'altro venti per cento non è stato restituito; so come sono andate le cose e a chi appartiene quel venti per cento, ma non glielo dirò". Marina Berlusconi, nel suo sdegno, sostiene ancora: "Anni e anni di indagini e perizie ordinate proprio dalla procura di Palermo si sono concluse con l'unico possibile risultato: (...) nell'azionariato Fininvest (...) non esistono zone d'ombra".

L'affermazione è imprudente, se si legge la sentenza della II sezione del Tribunale di Palermo che ha condannato Marcello Dell'Utri, braccio destro di Berlusconi. La consulenza dell'accusa, scrivono i giudici, nonostante la "parziale documentazione" messa a disposizione, "evidenzia la scarsa trasparenza o l'anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984. [Questa conclusione] non ha trovato smentita dal consulente della difesa Dell'Utri", il professor Paolo Maurizio Iovenitti, docente alla Bocconi di Finanza mobiliare e Analisi strategiche e valutazioni finanziarie.

Iovenitti ha ammesso in aula che alcune operazioni erano "potenzialmente non trasparenti". Scrivono allora i giudici: "Non è stato possibile, da parte dei consulenti [del pubblico ministero e della difesa], risalire in termini di assoluta certezza e chiarezza all'origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. (...). La consulenza Iovenitti non ha fatto chiarezza sulla vicenda in esame [e], pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest, non ha contribuito a chiarire la natura di alcune operazioni finanziarie "anomale" e a evidenziare la correttezza delle risultanze societarie, contabili e bancarie del gruppo Fininvest".

Naturalmente sull'intera questione, avrebbe potuto far luce con autorevolezza Silvio Berlusconi. Si sa come andarono le cose. Interrogato il 26 novembre del 2002 a Palazzo Chigi, il presidente del consiglio si è "avvalso della facoltà di non rispondere". Così le perplessità sulle origini della fortuna di Berlusconi restano ancora vive. Ora che Cosa Nostra sembra ricattare il premier, sarebbe necessario illuminare quel che ancora oggi è oscuro, più che gridare a un "disegno politico di annientamento".

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« Risposta #131 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:21:04 am »

Successi e contraddizioni nella lotta alla mafia

di GIUSEPPE D'AVANZO


LA DEBOLEZZA di Cosa Nostra è scritta nelle cose. La leadership "corleonese" è in galera, se si esclude Matteo Messina Denaro. Le seconde file devono scontare decenni di carcere. In libertà, terze file e qualche "vecchia gloria" degli anni Settanta/Ottanta, ammesso che la nomenclatura di ieri corrisponda a quella di oggi e non ci siano uomini che non conosciamo, potenti con gran pedigree criminale, ma senza volto. La pressione degli apparati repressivi dello Stato non si allenta. È costante, invasiva e i risultati sono molto soddisfacenti. Come è accaduto ieri, ancora una volta dopo l'arresto di Domenico Raccuglia (15 novembre).

Cade nelle rete a Palermo Gianni Nicchi, 28 anni, mafioso sperto nonostante la giovane età, un "uomo di pistola" che l'arresto di Antonino Rotolo (giugno 2006) - il suo capo a Pagliarelli - ha lanciato ai vertici dell'organizzazione. A Milano, è stato preso Gaetano Fidanzati, 75 anni, un nero passato alle spalle di trafficante di droga (tra i più attivi), un presente di guida della famiglia dell'Acquasanta, lasciata vacante dai fratelli Galatolo. Un doppio, eccellente colpo. Un frutto succoso della collaborazione e dello spirito di sacrificio degli organi dello Stato. L'entusiasmo interessato di Silvio Berlusconi tende a dimenticarlo.

Questi ricchi raccolti, che possono ricondurre - anche presto - la patologia criminale siciliana a livelli fisiologici, sono possibili per il lavoro ostinato delle polizie e l'impegno tenace dei pubblici ministeri di Palermo e Milano. Dunque, di quelle burocrazie della sicurezza cui il governo non è in grado di assicurare adeguate retribuzioni e migliori risorse; di due procure da anni diventate bersaglio fisso degli assalti polemici del presidente del Consiglio; di quell'ordine giudiziario che appare l'obiettivo mai dimenticato dei punitivi progetti legislativi della maggioranza.

Berlusconi, anche con buone ragioni, è soddisfatto e dice: "A Palermo siamo riusciti a catturare Gianni Nicchi, che è il numero due di Cosa Nostra. E a Milano abbiamo catturato Danilo Fidanzati, che è il numero tre di Cosa Nostra". Al di là della classifica che, con mafia e mafiosi, lascia sempre il tempo che trova, è quel "siamo" che interessa di più. Berlusconi intende con quel "siamo", noi del governo e quindi io che lo guido? O, dietro quel noi, c'è la consapevolezza che Cosa Nostra può essere distrutta soltanto dall'impegno plurale, coordinato e ininterrotto di tutte le articolazioni dello Stato e della società, governo, Parlamento, amministrazioni, magistratura?

Diciamo che si può pensare che il presidente del Consiglio abbia la tentazione di cancellare con gli eccellenti risultati dell'azione repressiva delle polizie e della magistratura tutti i grattacapi che i ricordi di Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, hanno riproposto. Ora non c'è dubbio che le parole del nuovo testimone dell'accusa nel processo Dell'Utri e nelle inchieste (riaperte) per le stragi del 1992 e 1993 non abbiano ancora adeguati riscontri. Come è fuori discussione che la discovery delle sue rivelazioni sia stata prematura e probabilmente l'anticipazione ne pregiudicherà l'esito, comunque problematico.

Tuttavia quell'accusa - "Berlusconi e Dell'Utri sono i responsabili delle stragi del 1992 e 1993" - è così tragica che impone di essere verificata con rigore per giudicarla o una menzogna o una spaventosa verità. Lasciarla galleggiare è il peggio che può accadere. Anche Berlusconi dovrebbe comprenderlo e sapere che non sarà l'arresto di Nicchi e Fidanzati - e si spera presto la cattura di Matteo Messina Denaro - a eliminare la necessità, il dovere di accertare quanto è accaduto nella transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, stagione scandita dalle cariche di tritolo.

Anche perché le difficoltà in cui vivono le forze dell'ordine e l'ostilità manifesta riservata alla magistratura non sono le sole contraddizioni della politica della sicurezza del governo. Se ne possono rintracciare altre. La vendita dei patrimoni confiscati alla mafia appare a molti addetti un "segnale positivo" lanciato a Cosa Nostra perché le nuove procedure consentono alle famiglie di rientrarne in possesso attraverso prestanomi. Il dibattito sull'abolizione del "concorso esterno in associazione mafiosa" appare ad altri un modo per evitare al premier una futura imputazione e una garanzia per Marcello Dell'Utri, magari da incassare in Cassazione. E anche un espediente per rassicurare la "borghesia mafiosa": è vero, il gioco contro le famiglie di Cosa Nostra è molto duro, ma contro chi ha protetto gli interessi criminali, ricavandone degli utili, può dormire tra due guanciali, il governo non lascerà indietro nessuno.

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« Risposta #132 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:33:43 pm »

IL COMMENTO

Le anomalie di un processo

di GIUSEPPE D'AVANZO


Nell'aula risuonano i tre "no" tondi e secchi di Filippo Graviano. "Conosce Marcello Dell'Utri?", chiede la Corte. "No!", risponde. "Ha mai incontrato Marcello Dell'Utri?". "Assolutamente no!". "Ha mai avuto rapporti anche indiretti con Marcello Dell'Utri?". "No!". I tre "no" rendono molto soddisfatta la difesa del senatore. Fanno dire a Berlusconi che "siamo alle comiche". Susciteranno gli animati strepiti dei turiferari del Cavaliere.

Con buone ragioni, se l'affare lo si semplifica fino a non tener conto delle anomalie di questo processo e dell'abitudine tutta siciliana all'omissione, all'ambiguità, al non detto che allude, al detto che nasconde: la migliore parola è quella che non si dice, dicono nell'Isola. Anche ieri, la parola più determinante non è stata detta. Avrebbe potuto dirla Giuseppe Graviano. È lui che organizza le stragi del 1993, non Filippo. È lui, non Filippo, che - secondo Gaspare Spatuzza - si gloria di "essersi messo il Paese nelle mani" forte delle promesse di Berlusconi ("quello di Canale 5") e di Dell'Utri ("il paesano"). Con una sola parola, il mafioso di Brancaccio avrebbe potuto o distruggere la credibilità di Spatuzza o dannare all'inferno il senatore. Quella parola l'ha rifiutata per il momento almeno fino a quando non gli saranno attenuante le severe condizioni carcerarie che lo affliggono.

Ora ci si può sbizzarrire con l'ermeneutica. Giuseppe Graviano a chi sta parlando obliquamente? Chi minaccia? Chi ricatta? I magistrati, che ritiene responsabili del suo regime di detenzione? O il governo che incrudelisce le regole? Ogni risposta può essere buona e in ogni caso, in assenza della testimonianza del mafioso, inservibile per un processo che ormai mostra le sue anomalie, in modo fin troppo palese.

La Corte d'appello deve decidere se Marcello Dell'Utri sia stato "punto di riferimento" costante nel tempo, per gli affari e gli interessi di Cosa Nostra. Ogni processo, spiegano i giuristi, è racconto. I protagonisti (l'accusa, l'imputato, i testimoni, gli avvocati, i giudici) offrono una loro "narrazione" che consente di comporre e dotare di senso eventi frammentari e informazioni sparse o, come scrive Michele Taruffo, di fare un mosaico con un mucchio di pezzi di vetro colorati. Negli anni, l'apertura del dibattimento nel processo d'appello ha incluso tutte le possibili "narrazioni" e punti di vista. Si conosce la narrazione mafiosa, interna a Cosa Nostra, giudicata veritiera dall'accusa. Per stare all'essenziale. Marcello Dell'Utri è stato l'uomo della mafia siciliana a Milano, dove sono state impiegate le ricchezze accumulate dall'organizzazione negli anni da vacche grasse del traffico degli stupefacenti. Si conosce la "verità" processuale che oppone Marcello Dell'Utri. È vero, ho conosciuto Vittorio Mangano, mafioso. È vero, ho proposto e ottenuto per lui un lavoro nella villa di Berlusconi ad Arcore, ma non ho nulla a che fare con Cosa Nostra e i suoi affari anche se, qualche volta, mi sono trovato seduto a tavola con uomini che non sapevo fossero mafiosi. Si conosce la "storia" ricostruita dai giudici di primo grado che hanno condannato il senatore a nove anni di carcere. È in questo quadro già definito che un procuratore generale, inadeguato al suo compito, decide di riversare il "racconto" di Gaspare Spatuzza. A processo di fatto concluso, è un'anomalia per tre buone ragioni.

La prima è la qualità della testimonianza del mafioso diventato testimone dell'accusa. È un "quadro" di Cosa Nostra, esperto di assassinii e bombe, non un capo. Non si muove sulla linea di confine dove la mafia incontra lo Stato e la politica. Non può riferire quel che direttamente sa o ha saputo o organizzato e controllato, ma soltanto quel che altri (Giuseppe Graviano) gli hanno riferito. Sono parole che non sono sostenute né da altre testimonianze né da verifiche esterne (seconda anomalia). Quindi, come qui è stato già scritto, sono parole non convalidate per ora né da riscontri "intrinseci" né "estrinsechi", come richiede la Cassazione. Gettarle nell'agone di un processo così improvvidamente ha un doppio esito, del tutto anomalo (e siamo a tre). Come è chiaro oggi, i ricordi di Spatuzza raccolti in tempi diversi, da procure diverse, prive di alcun coordinamento, anzi spesso in sospetto l'una per il lavoro dell'altra, sono apparsi vaghi e variabili. La testimonianza di Spatuzza (ma non ci voleva un mago per prevederlo) è stata inutile nel processo contro Dell'Utri. E, così prematuramente disvelata, sarà (non ci vuole un mago per prevederlo) presto inutilizzabile per avviare una seria indagine sui mandanti delle stragi del 1992/1993 "esterni a Cosa Nostra".

Silvio Berlusconi, sempre così critico nei confronti della magistratura, dovrebbe compiacersi della dilettantesca disinvoltura togata che gli ha offerto l'opportunità di essere accusato di comportamenti spaventosi nello stesso momento in cui quelle accuse si rivelavano mediocri, prive di vita, e si sgonfiavano come un soufflé mal cucinato. Gli è stato agitato contro - e in pubblico - uno spauracchio che, alla resa dei conti, si è dimostrato di pezza evitando così di farne, nella segretezza del lavoro istruttorio, uno minaccioso strumento di scavo. Se non fosse troppo provocatorio notarlo, si potrebbe dire che la magistratura con la sua disorganizzazione, con le ossessioni autoreferenziali di troppi uffici del pubblico ministero, con la fragilità di chi teme di essere sconfitto dalla sentenza prossima, ha lavorato come un Ghedini qualsiasi per l'immagine del Cavaliere e le sue fortune consentendogli di cavarsi da un angolo che avrebbe potuto diventare pericoloso, con il tempo e una buona indagine. Anche la posizione di Marcello Dell'Utri ne ricava degli utili. L'arrivo di Spatuzza, per la comunicazione e quindi per la politica, trasforma il processo contro il senatore nel "processo Spatuzza" come se il mafioso di Brancaccio diventato testimone fosse la sola e unica fonte di prova dell'accusa liquidando così l'insieme di fatti, prove, testimonianze che il giudice di primo grado ha definito non soltanto plausibili, ma una veridica dimostrazione probatoria.

Polemiche a parte, la testimonianza di Spatuzza ha avuto finora soltanto l'esito di stiracchiare un dibattimento che non ha più nulla da raccogliere o raccontare, di trasformarlo in un processo infinito diventato spettacolo noioso a interpretazioni fisse: la Corte appare sempre più ostile alle ragioni dell'accusa (le smorfie, i gesti, i sorrisi quasi di censura di un sapientissimo giudice a latere ne sono l'indizio più lucido); il procuratore chiamato a rappresentare l'accusa appare sempre più impreparato, inadeguato, in affanno, quasi rassegnato; la difesa gioca di rimessa nella consapevolezza che i tempi lunghi lavorano a favore dell'imputato. Forse è giunto il tempo - come chiede Dell'Utri - di chiudere, in un modo o in altro, questo processo che può soltanto avvelenare un clima politico, già consapevolmente attossicato dalle iniziative del capo del governo, senza aumentare di un palmo né la qualità delle prove dell'accusa né la coerenza delle ragioni della difesa. Anche perché - lo si può dire con ragionevole certezza - alla "storia" del processo mancheranno le decisive "narrazioni" di Berlusconi e di Giuseppe Graviano. L'uno e l'altro sempre si avvarranno della facoltà di non rispondere. Berlusconi, che già lo ha fatto in primo grado, anche a costo di affossare l'amico per occultare i suoi primi passi d'imprenditore. L'altro - il mafioso - per continuare il suo ricattatorio "dialogo" con interlocutori senza volto.

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« Risposta #133 inserito:: Dicembre 17, 2009, 09:22:35 am »

COMMENTO

L'assalto ai giornalisti

di GIUSEPPE D'AVANZO


NEMMENO il più ostinato pessimismo poteva attendersi che sarebbe durato un sol giorno lo sbigottimento e il dolore per il volto insanguinato di Silvio Berlusconi. Poche ore per sbarazzarsi, come di un ostacolo ingombrante, di ogni solidarietà umana, pensiero autocritico, reciproco invito a evitare il dissolversi di ogni legame comunitario, ad accettare una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune.

Il volto di Berlusconi, contorto dalla sofferenza inflittagli dalla violenza di un matto, avrebbe potuto (e dovuto) sollecitare ciascuno di noi a sentirsi communis, "colui che condivide un carico", e tutti noi communitas allegata da un dovere, da un debito, dalla promessa di un reciproco dono (munus) che nessuno può tenere per sé. Quando è durato quest'incanto? Dieci ore, quindici? Appena i luoghi pubblici (il Parlamento, i talk-show televisivi) si sono riaperti, è ritornata la notte abitata dallo spirito di intolleranza, esclusione, violenza che appaiono il segno distintivo di questa cultura di governo. Chi ha armato la mano del matto? Chi è il mandante? Di chi è la colpa? E quindi chi deve essere sorvegliato, punito, imbavagliato, espulso? Quali sono i giornali, i giornalisti, i social network che devono ammutolirsi? Quali regole e controlli dare alle manifestazioni pubbliche? Quali sono i "padri" di quella "cultura responsabile del clima d'odio" da mettere all'indice (e c'è chi già elenca, incauto: Gobetti, Bobbio, Gramsci, Dossetti)?

Sono domande che ripropongono con un'eco funesta "una lotta politica recitata come una parodia dell'eterna guerra civile". Esaltato da un rancore cieco, da un'inimicizia assoluta e irreparabile, il coro berlusconiano - animato in Parlamento da Fabrizio Cicchitto e, in Rai, da Bruno Vespa - elimina ogni differenza tra la critica legittima e l'aggressione violenta, tra il disaccordo ragionato e la destabilizzazione. Trasforma l'avversario politico in un criminale, il dissenziente in un terrorista. Il mestiere d'informare di Repubblica diventa "disegno eversivo", minaccia per il legittimo governo del Paese, un intero gruppo editoriale - il nostro - agenzia ostile all'interesse nazionale, più o meno un'association politico-criminelle.

I toni, gli argomenti che si ascoltano hanno molto in comune a una caccia alle streghe. Chiunque in questi mesi si è sottratto alla nobilitazione dell'esistente, al racconto unidimensionale e autocelebrativo del soggetto centrale unico, detentore della verità e del potere, viene iscritto in una black list. Accade al Gruppo Espresso, al Fatto, a Santoro e ad Annozero, ai pubblici ministeri che hanno avuto la sventura di incontrare sulla loro strada il capo del governo o qualche suo amico. Per tutti si annunciano adeguati castighi.

Si distingue in questo lavoro prepotente Bruno Vespa, dimentico di quanta solidarietà e comprensione abbia circondato il premier. Estrapola, da un lungo ragionamento, una frase di Marco Travaglio e lo indica all'opinione pubblica come il mandante morale della violenza subita da Berlusconi. Con un'ipocrita sfrontatezza lo chiama al telefono, durante la trasmissione, per chiedergli se ha qualcosa da dire in quel processo ingiusto, improvvisato alle spalle di un imputato ignaro e assente, non sostenuto da alcuno dei presenti. È la mossa più barbarica cui si è assistito in queste ore. Il metodo e il giornalismo di Marco Travaglio sono discutibili come quelli di chiunque altro - e qui sono stati discussi con severità - , ma egli è soltanto un giornalista. Non ha alle spalle un partito o un'organizzazione qualsiasi. Non è protetto da una scorta. Può contare soltanto sulla credibilità del suo lavoro, sul consenso che ne ricava tra chi lo legge e lo ascolta. Abbandonarlo così indifeso e solitario al conflitto che divide il Paese, è un'irresponsabilità tanto più grave perché matura da una tribuna che dovrebbe mostrare equilibrio e moderazione, essere l'interprete migliore del monito pacificatorio del presidente della Repubblica.

La violenza e l'intolleranza di queste ore smascherano l'insincerità dei falsi pacificatori e ripropongono il paradigma di una politica che si alimenta non di unità, ma di divisione; non di ordine, ma di disordine. È un dispositivo di governo che giustifica e potenzia se stesso nell'eccitare i conflitti più aggressivi che circolano nella società, tra la società e lo Stato, nello Stato. Lungo queste continue "linee di frattura" che di volta in volta individuano un "nemico" (quanti ne possiamo contare dall'inizio della legislatura, dai "negri", ai "froci", ai "fannulloni"?), si potenzia un progetto politico che pretende di esercitare la sovranità senza limiti, in nome del "potere costituente del popolo", con una "decisione" che lascia indistinto il diritto e l'arbitrio, l'eccezione e la regola. Il pazzo gesto di Massimo Tartaglia, rafforzato dalle emozioni che hanno smosso, appare al coro berlusconiano un'eccellente occasione per rilanciare l'obiettivo di ridurre i poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella figura di un premier che può fare a meno di ogni contrappeso, di ogni controllo di garanzia, di ogni soggezione alla legge. La follia di un uomo diventa addirittura l'opportunità per riscrivere il pactum societatis che definisce le condizioni del nostro stare insieme. Non si comprende che cosa c'entri il gesto di un matto con la necessità di una riforma costituzionale. Si comprende benissimo come, in questa metamorfosi della nostra democrazia, l'informazione possa essere un inciampo da rimuovere, un attore da minacciare, un "nemico" da indicare con nome, cognome e società di appartenenza alla vendetta del "popolo sovrano". Già lo si è letto, purtroppo: "In una democrazia non spetta ai giornali giudicare chi governa". Al contrario, noi crediamo che, quale che sia l'idea di democrazia che si ha in testa, tutti i modelli prevedono l'esistenza di uno spazio al quale i cittadini accedono attraverso lo scambio di informazioni e il confronto degli argomenti, per farsi un'opinione delle questioni di interesse generale.
Alimentare di informazioni la sfera pubblica, arricchirla di notizie, ragioni e argomenti è il nostro lavoro. Piaccia o non piaccia al piduista Cicchitto, al servizievole Vespa, al coro che si dice "della libertà", continueremo a farlo.

© Riproduzione riservata (17 dicembre 2009)
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« Risposta #134 inserito:: Dicembre 23, 2009, 03:05:27 pm »

L'INTERVISTA

L'udienza preliminare dura da sei mesi in tribunale a Milano

Cipriani, l'uomo del dossier Telecom "Tronchetti sapeva quel che facevo"

di GIUSEPPE D'AVANZO


ROMA - "Spiavo per il Sismi e per Telecom, e l'allora presidente Marco Tronchetti Provera sapeva tutto delle mie attività". Lo dice Emanuele Cipriani, l'uomo dei dossier Telecom, in una intervista a Repubblica. Cipriani: "Spiavo per Telecom e Sismi
Tronchetti Provera sapeva tutto". Emanuele Cipriani, 49 anni, è "l'uomo dei dossier Telecom" o, come più gli piace definirsi, "un imprenditore della sicurezza privata".

Oggi è il solo imputato "eccellente" di quella oscura storia (lo scandalo dello spionaggio Telecom nell'èra Tronchetti Provera) ad avere ancora interesse a non far cadere il velo su una scena dove, nonostante le omissioni del lavoro istruttorio, affiorano dossier illegali; figure che decidono della cosa pubblica senza alcuna responsabilità istituzionale; comportamenti obliqui di governanti; ricatti; corruzione piccola e grande; debolezze della magistratura, dell'informazione, delle amministrazioni dello Stato e, al centro, una sorda lotta per il potere che non si fa mai trasparente.

Il processo Telecom è diventato, come ampiamente previsto da Repubblica (non ci voleva un mago), un niente che non fa onore alla magistratura milanese. Anche senza l'incombente "processo breve" che lo soffocherebbe, l'udienza preliminare in corso da sei mesi vede il fuggi fuggi degli imputati. Il cinquanta per cento ha patteggiato. Quelli che restano si affidano al colpo di spugna della prescrizione.

Emanuele Cipriani, al contrario, ha un diavolo per capello. Non per la minaccia di una condanna penale, che forse non ci sarà, ma per il blocco dei suoi beni, per di più minacciati dalla rivalsa di Telecom e Pirelli, costituite parte civile contro di lui. Ai suoi occhi, la beffa dopo il danno. Dice Cipriani: "Non voglio essere e non sarò il capro espiatorio di questa storia. Quei soldi sono il frutto del mio lavoro".

Un frutto avvelenato, ottenuto con procedure illegali.
"Questo è vero soltanto in parte. Ammetto - l'ho fatto con la procura di Milano - che alcuni dossier si sono avvantaggiati di manovre non corrette, ma l'illegalità non è stata la regola, tutt'altro, l'attività verteva spesso in consulenze e servizi ad alto valore aggiunto, sempre strettamente legate al business aziendale. Nell'estate di due anni fa, in oltre duecento ore di interrogatorio, ho raccontato ai pubblici ministeri, pratica per pratica...".

Cioè, dossier per dossier...
"Preferisco chiamarle pratiche. Ho raccontato, dicevo, chi me le ha commissionate e l'obiettivo legale o illegale dell'operazione e, infine, la fattura di riferimento e da chi mi è stata pagata".

Che cosa vuole dire questo?
"Vuol dire che, sempre, in ogni circostanza, per ogni pratica, il mio lavoro è stato svolto nella consapevolezza del committente Pirelli-Telecom e nell'interesse delle società e, in alcuni casi, del presidente Marco Tronchetti Provera, nonché di suoi conoscenti e addirittura di alcuni suoi legali che erano miei clienti".

Ma, signor Cipriani, è proprio questa "dipendenza" diretta che l'inchiesta ha escluso. L'acquerello dipinto dai pubblici ministeri è un altro. Tre amici d'infanzia (Tavaroli, Mancini, Cipriani) fanno carriera partendo dal fondo della scala. Conquistano la potente e ricca security della Telecom (Giuliano Tavaroli), il controspionaggio militare (Marco Mancini), un'importante posizione nell'intelligence privata (Emanuele Cipriani). Incrociano le informazioni in loro possesso. Formano dossier spionistici in libertà con le risorse della tlc e dello Stato. Lucrano profitti e potere personali. Fine dell'affaire.
"E' un quadro falso. Non è vero che Tronchetti non sapesse chi fossi io. Ne era consapevole. Egli ha chiesto e ottenuto informazioni sul suo personale di servizio, dai domestici alla guardarobiera della signora Afef. Molte di queste pratiche non erano illegali, non erano aggressive e sono state pagate da Telecom e da Pirelli. Mi sono occupato personalmente della tutela della signora Afef; delle vacanze in barca del dottore in giro per il mondo; della sicurezza della sua barca a Saint Tropez; del matrimonio della figlia Giada a Portofino dove c'era tutta l'Italia che conta. E sono sorpreso che Tronchetti oggi dica di non saperne nulla. Ai magistrati ho raccontato di svariate pratiche aperte a suo esclusivo beneficio. E questo, naturalmente, è soltanto l'aspetto diciamo privato, svolto nell'interesse del Dottore. Per la maggior parte, il mio lavoro si è sviluppato nell'interesse delle società a verifica delle condizioni dei business a rischio".

Se capisco bene, lei è infuriato per il blocco dei suoi beni, incattivito dalla possibilità che Telecom si dichiari parte lesa minacciando di mettere le mani nel suo "tesoretto", arrabbiato perché la procura di Milano si è fermata, intimidita, sulla soglia della camera oscura dell'affaire. Il suo rancore e interesse le consigliano di far saltare il banco. E' così, è questo che sta dicendo?
"Mi ascolti bene. In oltre 200 ore di interrogatorio, io ho fatto ai pubblici ministeri nomi, cognomi, circostanze, indicato i dossier legali e quelli illegali, le notizie di reato che vi erano contenute. Ho invocato inutilmente per mesi che cercassero riscontri e testimonianze alle mie dichiarazioni. Non è accaduto nulla. Ho detto con chiarezza che Tronchetti Provera era a conoscenza dei contenuti di quei dossier o direttamente o indirettamente. Si è preferito credere alla favola che il Dottore quasi non avesse rapporti con Giuliano Tavaroli che era il mio referente diretto...".

Non è così?
"Per niente. Oggi si dice che, negli anni, Tronchetti ha ricevuto Tavaroli soltanto in qualche occasione e per non più di qualche minuto. Non è vero. Giuliano aveva accesso diretto e costante a Tronchetti, in qualsiasi momento. Io posso testimoniarlo. E' capitato che raggiungessi Tavaroli con un dossier che mi aveva commissionato. Lo ragguagliavo su quel che avevo scoperto. Non avevo ancora finito che Giuliano afferrava il telefono, chiedeva alla segreteria di Tronchetti di poter raggiungere il presidente e subito dopo, con il dossier sotto il braccio, lo raggiungeva. E questo è soltanto un aspetto del lavoro svolto per Pirelli/Telecom".

Perché ci sono altri aspetti?
"Certo, quelli istituzionali".

Che intende dire?
"Intendo dire che sono a conoscenza di questioni molto delicate che hanno visto sovrapporsi l'attività svolta per Telecom con il lavoro trattato per soggetti istituzionali e nell'interesse nazionale".

Senza tanti giri di parole, signor Cipriani, lei ha lavorato per Telecom e Pirelli e anche per il governo e i servizi segreti?
"E' bene precisare che le attività per le aziende erano regolate dalle aziende, come è stato riscontrato. Per le collaborazioni con il Sismi, non posso risponderle perché sono vincolato al segreto di Stato. Posso dirle che è acclarato che io ho avuto rapporti con il Sismi, in taluni casi insieme ad altre istituzioni dello Stato. Con l'assenso del pubblico ministero, al tempo, ho riferito di due operazioni, di cui una internazionale, molto importanti per la sicurezza del Paese. Non sono state le uniche. Non sono sicuro di poterle dire di più senza violare il segreto di Stato. Finora ho taciuto per più alti interessi nazionali, ma non ci sto a farmi fare terra bruciata intorno, a passare per un avido truffatore, lo spione che ha tradito la fiducia che gli era stata ingenuamente concessa da Tronchetti Provera e dal Sismi. Non ci sto a distruggere il mio lavoro, la mia onorabilità per proteggere qualche furbastro che oggi finge di non sapere o di non aver mai saputo. Per di più, dopo essere stato messo nella condizione di non potermi difendere perché quei dossier cui ho lavorato saranno distrutti e, con loro, le tracce e le ragioni dei committenti che me li hanno richiesti".

Nell'udienza del 13 novembre, la sua difesa (gli avvocati Francesco Caroleo Grimaldi e Vinicio Nardo) ha chiesto a Marco Mancini, già capo del controspionaggio del Sismi, "se avesse mai incontrato Marco Tronchetti Provera". Mancini ha opposto il segreto di Stato. Tronchetti ha subito fatto sapere "di non aver mai avuto rapporti con il signor Mancini". E' in questo criptico batti e ribatti che si nasconde la chiave della sua difesa cui non intende rinunciare?
"Senta, anch'io mi sento vincolato al segreto di Stato e vedremo il Governo cosa dirà, ma intanto credo di poterle dire che Tronchetti è fin troppo ingenuo a dire di non avere avuto mai rapporti con il generale Pollari e Mancini. E' certo che Mancini e Pollari, suo direttore dell'epoca, hanno incontrato l'allora presidente di Telecom in varie occasioni tra il 2002 e il 2004".

E questo che vuol dire?
"Glielo dirò in modo brutale. Di fronte alla mia tentata distruzione morale, ho soltanto due strade da percorrere: o parlo o non parlo. Glielo ripeto: non farò capro espiatorio, non sarò il solo a pagare il prezzo di una storia scritta da altri".

Signor Cipriani, questo è un ricatto. Chi sta minacciando?
"Io non ho mai ricattato nessuno e sfido chiunque a dire se è mai stato ricattato da me: le pratiche non erano per il sottoscritto, ma per chi me le commissionava. Giri la domanda a costoro. Credo che - la mia - sia una difesa legittima dopo avere servito fedelmente, in molti anni di attività, un portafoglio clienti di tutto rispetto; le società Pirelli e Telecom; un uomo d'impresa (Tronchetti Provera) e, quando mi è stato richiesto, lo Stato".

Le parole di Emanuele Cipriani dimostrano che l'affaire Telecom, miniaturizzato fino alla caricatura dall'inchiesta della procura di Milano, distilla ancora liquido velenoso "dietro le quinte dell'ufficialità economica e politica e di un lavorio sordo fatto di favori, di ricatti, di relazioni più o meno sporche e più o meno segrete" (Galli della Loggia, 27 settembre 2006). La sottile speranza (allo stato dell'arte, ingiustificata) è che l'udienza preliminare in corso a Milano sappia fare luce su quel groviglio che i pubblici ministeri non hanno voluto o potuto illuminare. Le dichiarazioni di Emanuele Cipriani lo rendono doveroso. Soprattutto ora che ritornano in auge protagonisti di quel recente, buio passato come Niccolò Pollari, candidato a diventare presto Consigliere per la Sicurezza del capo del governo.

© Riproduzione riservata (23 dicembre 2009)
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