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Autore Discussione: CURZIO MALTESE. La verità dell'ex  (Letto 43343 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 04, 2009, 07:37:41 pm »

COMMENTI

Crolla il muro della finzione

di CURZIO MALTESE


C'ERA un solo Paese, fino a ieri, dove si potesse definire una "farsa" una manifestazione per la libertà di stampa in Italia. Indovinate un po', il nostro. Nel resto d'Europa e dell'universo democratico, l'anomalia italiana è ormai evidente a tutti. Bene, da oggi diventa più difficile per il potere negarla. La folla di cittadini che ha riempito all'inverosimile Piazza del Popolo e dintorni ha avuto l'effetto di far crollare un muro di finzione.

Ha portato un pezzo di realtà sulla scena pubblica, restituito un senso alle parole rubate dal marketing politico, come popolo e libertà, segnalato l'esistenza e la resistenza di un'Italia aperta al mondo, allegra e pronta a scendere in piazza per i propri diritti. Ed è un segnale del paradosso orwelliano in cui ci tocca vivere che proprio questa Italia si presenti in piazza al grido: "Siamo tutti farabutti".

È crollata in un pomeriggio una finzione costruita da mesi e anni di propaganda. Quella per cui la questione della libertà d'informazione in Italia è soltanto una lotta di élites nemiche, di qui Berlusconi e i suoi media, di là Repubblica e un pugno di giornalisti di tv e carta stampata, spalleggiati dalla fantomatica Spectre internazionale del giornalismo di sinistra. Se così fosse, aggiungiamo, avremmo già perso da un pezzo, visto i rapporti di forza.

Ma la questione è altra ed è quella che vede benissimo l'opinione pubblica internazionale. Da un lato c'è una concezione classica delle libertà democratiche, per cui il governo e l'informazione fanno ciascuno il proprio mestiere. Dall'altro, il fronte berlusconiano, dove è affermata ormai a chiare lettere una concezione di democrazia mutilata in cui i media debbono astenersi dal criticare il potere politico, perfino dal porre domande non previste dal protocollo. Altrimenti rischiano ritorsioni economiche, politiche, giudiziarie.

Sullo sfondo di un irrisolto e monumentale conflitto d'interessi, il progetto di Berlusconi è di costringere l'intero campo dell'informazione a due sole possibilità. Una metà militante a favore del padrone, cioè servile. E l'altra metà comunque deferente.

Nei quindici anni di carriera politica, Berlusconi non era mai giunto tanto vicino a raggiungere questo obiettivo come al principio del suo terzo mandato. Una televisione e una stampa prone ai voleri del governo, in molti casi liete di fare da semplici megafoni, hanno scortato il premier fra infinite passerelle nella luna di miele con l'elettorato. Poi qualcosa si è rotto. Le voci non servili o non deferenti rimangono poche, ma suonano forte e soprattutto sono sostenute da un crescente sostegno popolare.

Perfino il pubblico televisivo, il "popolo" di Berlusconi, ha cominciato a ribellarsi a una rassegnata deriva. Per il re delle antenne, abituato a riferire dell'azione di governo prima (o solo) in tv piuttosto che in Parlamento, far segnare record negativi di ascolti, quando il "nemico" Santoro polverizza un primato dopo l'altro, è davvero un brutto segno di declino. La risposta di massa in piazza all'appello del sindacato giornalisti è un altro pessimo segnale. Pessimo, s'intende, per l'egemone. Magnifico per chi continua a pensare all'Italia come a una grande democrazia occidentale.

Non sappiamo se l'opinione pubblica è davvero e ancora "una forza superiore a quella dei governi", come scriveva Saint Simon agli albori della democrazia. Nell'Italia di oggi è in ogni caso una forza superiore a quella di un'opposizione politica divisa, confusa e a giudicare dagli ultimi voti parlamentari anche distratta. Il potere ne è consapevole e infatti gli attacchi agli organi d'informazione in questi mesi hanno raggiunto toni mai toccati dalla polemica politica.

Per finire con una nota grottesca, parliamo del Tg1, ormai scaduto a bollettino governativo. Ieri sera il direttore Augusto Minzolini è intervenuto con un editoriale nel quale, dopo aver esordito definendo una manifestazione di cittadini in favore della libertà di stampa "incomprensibile per me" (nel suo caso, si capisce), ha ripetuto parola per parola gli slogan appena usati nel pastone politico dagli esponenti del Pdl.

Minzolini, che è quello senza occhiali - per distinguerlo da Capezzone - non è l'ennesimo portavoce del premier, ma un dipendente del servizio pubblico, pagato coi soldi del canone versato anche dai manifestanti. Anzi, forse più da loro che da altri. Dovrebbe tenerne conto e dare qualche notizia in più, invece di propinarci per la seconda volta il Berlusconi-pensiero mascherato da editoriale.

(4 ottobre 2009)
da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 12, 2009, 05:31:45 pm »

IL COMMENTO

Il partito e gli elettori

di CURZIO MALTESE


Voglio trovare un senso a tante cose, canta il Vasco Rossi imitato da Bersani. Ma un senso il congresso del Pd finora non l'ha avuto. Restano due settimane per recuperarne uno e convincere almeno due milioni d'italiani a partecipare col voto alle primarie. Sarebbe un duro colpo a Berlusconi, che ne ha ricevuti tanti in questi mesi, mai però dal Pd.

Con tutto quello che succede, chi si ricordava della corsa alla segreteria del Pd? Perfino ieri, nel giorno della convenzione, la scena è stata rubata dal Cavaliere.
Le aperture dei telegiornali fotografano una lotta impari. Da un lato, un Berlusconi alla spallata finale, in guerra aperta con la Costituzione, la Consulta e il Presidente della Repubblica, deciso a spianare la magistratura indipendente e la stampa libera, magari anche estera. Dall'altra tre gentili signori, Bersani, Franceschini, Marino, che dibattono di forme partito, alleanze e statuti interni. Oppure di quanto sarebbe stato meglio fare una legge sul conflitto d'interessi, dieci anni fa. O ancora se l'anti-berlusconismo e lo spirito anti-italiano siano due cose diverse, come ormai in molti cominciano a sospettare.

Questa è l'immagine che il principale partito d'opposizione ha dato al Paese, non da oggi. Una totale incapacità di cogliere la crisi nazionale e internazionale del berlusconismo. Restano due settimane, da qui alle primarie, per ripartire all'attacco. È quanto chiedono gli elettori. Ed era quanto chiedeva ieri l'assemblea democratica alle porte di Roma. Fra i candidati, l'unico a capirlo è stato Dario Franceschini. L'unico che ha scaldato la platea.

Il compito del segretario uscente era più facile. Pierluigi Bersani ha già vinto la corsa, con ampio margine di voti fra gli iscritti, ed è favorito nei sondaggi.
Il suo discorso è stato cauto, solido, di buon senso, appunto bersaniano. Il punto di forza sono le alleanze, la riapertura del "cantiere dell'Ulivo". Qui Bersani è assai più convincente di Franceschini. La vocazione maggioritaria del Pd, col 26 per cento dei voti, è andata a farsi benedire. La storia di quindici anni insegna che, alla fine, il centrosinistra ha vinto nelle due uniche occasioni in cui s'è presentato unito e perso sempre quand'era diviso. Per il resto, il vincitore designato non ha saputo trovare un argomento o un tono adatti a scatenare la sua assemblea, che non aspettava altro.

Il "comizio domenicale" di Franceschini, come l'hanno definito con disprezzo i dalemiani, è stato quindi una liberazione. Lo sconfitto designato ha potuto giocarsi le carte proibite all'avversario. L'appello al popolo delle primarie, perché rovesci il risultato degli iscritti. Il rinnovamento del partito e il cielo sa quanto ce ne sarebbe bisogno in un partito dove le facce sono le stesse da vent'anni. Infine, ma certo non ultimo, l'anti-berlusconismo. Per meglio dire, quello che perfino nel Pd si accetta di definire anti-berlusconismo e che consisterebbe in realtà nel fare il proprio mestiere di opposizione con più coraggio e grinta. Franceschini, rispetto a Bersani e anche a un Ignazio Marino in versione moderata, ha fatto nomi e cognomi. Soprattutto uno, Massimo D'Alema, il grande elettore di Bersani. Trattato come il vero vincitore del congresso e il vero padrone di casa. Non del tutto a torto, com'era dimostrato simbolicamente dall'assenza alla convenzione dei tre rivali storici di D'Alema: Romano Prodi, Walter Veltroni, Francesco Rutelli.

Con questi argomenti Franceschini spera di rovesciare in due settimane il responso degli iscritti. Impresa difficile, ma non impossibile. I venti punti di distacco in percentuale della sua mozione, in termini reali, si riducono a 84 mila voti di distacco da Bersani. Ma nella campagna elettorale "sul territorio", secondo la formula un po' bolsa, insomma in giro per l'Italia, Bersani sarà assai più efficace di quanto sia parso davanti all'assemblea democratica. Chiunque vinca, ha davanti un compito difficile. All'interno di un partito da ripulire a fondo. Un partito dove oggi la Calabria ha più iscritti della Lombardia, Napoli e provincia contano il doppio dell'intero Nord-Est.
Ma ancor di più all'esterno, nella tanto evocata Italia reale, dove la voce del maggior partito dell'opposizione suona flebile e confusa, sovrastata dal clamore berlusconiano e non solo.

© Riproduzione riservata (12 ottobre 2009)
DA repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:23:52 am »

IL COMMENTO

Tangentopoli è ancora qui

di CURZIO MALTESE


Soffia un vento da fine Repubblica, un clima da '92, nelle vicende di questi giorni. Si è tornati a parlare delle stragi di Falcone e Borsellino, delle trattative fra mafia e stato intorno al "papello", il mistero più oscuro all'origine della Seconda Repubblica.

Le cronache tornano a riempirsi di storiacce di appalti e tangenti, di sistemi politici criminali scoperchiati, di arresti eccellenti fra Napoli e Milano. È come se il muro di omertà, mascherato da ideologie, steso da un decennio sulla corruzione fosse in procinto di cadere in pezzi, rivelando l'eterna attualità della questione morale.

La corruzione in Italia è da sempre la vera emergenza, un fattore che condiziona la vita politica ed economica. Ma il circo di media e politica, passata la tempesta di Mani Pulite, ha finto che non esistesse più. Alimentando una fabbrica di chiacchiere generiche, appese alle nuvole e fondate sul nulla. La forza delle cose s'incarica poi di restituirci alla realtà. Alla luce delle notizie di queste ore, alcuni dei temi privilegiati dal dibattito pubblico assumono un significato grottesco. Il posto fisso è un valore o bisogna accettare la flessibilità? Nel reame di Ceppaloni il conflitto era risolto in una mirabile sintesi hegeliana. Posti fissi o mobili, progetti a termine e consulenze milionarie, erano assegnati senza distinzioni fra destra e sinistra, laureati e asini, da un unico e gigantesco ufficio di collocamento clientelare. La signora Lonardi, moglie dell'ex ministro del centrosinistra, ora europarlamentare del centrodestra, dice che le "è crollato il mondo addosso" quando ha ricevuto l'ordine dei magistrati di non rimettere piede in Campania. Si figuri, signora, com'è crollato il mondo ai giovani meridionali. A quelli ancora convinti che per trovare un lavoro occorrano studio, impegno, talento.

Da anni destra e sinistra discutono sulla forma del federalismo futuro. Quali funzioni potrà svolgere il meraviglioso stato federale, soluzione di ogni conflitto, quali (poche) dovranno rimanere all'orrido Stato centralista, con quali contrappesi solidali. Fingono tutti di non sapere e di non vedere che cos'è il federalismo nell'unico settore in cui è già stato realizzato: la sanità. La voce che da sola occupa i due terzi dei bilanci delle Regioni. Un'orgia di sprechi, mazzette, appalti truccati, affari sporchi fatti, non metaforicamente, sulla pelle dei cittadini. Dalla Puglia alla Lombardia, nelle regioni rosse come in quelle berlusconiane. Regni di trafficanti bipartisan come il Tarantini di Bari, che organizzava festini per il premier e dopocena per gli assessori della giunta di Vendola. In cambio di che cosa, lo diranno i magistrati. Potentati economici e politici, come la sanità lombarda, governata da quel Giancarlo Abelli sfiorato da decine di inchieste e in ultimo toccato da quella sulle bonifiche delle aree edificabili di Santa Giulia, dell'ex Falck di Sesto San Giovanni e di Pioltello, per cui è già in carcere la signora Abelli, Rosanna Gariboldi. Perché sia chiaro che i clan familisti non allignano soltanto nel Mezzogiorno.

Non è il "ritorno della corruzione", come titola qualche notiziario. Perché la corruzione non se n'era mai andata. Ha continuato a far parte della vita quotidiana di milioni d'italiani dopo Tangentopoli e ora forse più di prima. È forse il ritorno di un clima sociale. O ancora più probabilmente, si tratta dei morsi della crisi economica. "Quando circolano meno soldi nelle tasche, i cittadini s'indignano più facilmente" chiosava anni fa uno dei protagonisti del pool milanese, Pier Camillo Davigo. Oggi, come allora, la crisi rende insostenibile per molti imprenditori la tassa della corruzione, che si erano rassegnati a pagare. Sono loro a sollevare il coperchio, gli esclusi dagli appalti di partito, i bocciati al concorso truccato. Corrono a chiedere giustizia a una magistratura senza mezzi e sotto minaccia, forte soltanto della propria indipendenza dal potere politico, garantita dalla Costituzione. Ancora per quanto, non si sa.

© Riproduzione riservata (22 ottobre 2009)
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 26, 2009, 09:45:06 am »

IL COMMENTO

Una bella giornata per la democrazia


di CURZIO MALTESE


Tre milioni di votanti, cinquantamila volontari in diecimila seggi, decine di milioni di euro raccolti. Se qualcuno nel Pd ha ancora dubbi sulle primarie è un pazzo. Sono l'elemento più identitario del partito, dal giorno della nascita.

È stata una grande giornata per l'unico partito al mondo che coinvolga tanti cittadini nella scelta del segretario, ma soprattutto per la democrazia. Il voto degli elettori ha confermato nella sostanza quello degli iscritti. Bersani è il vincitore, ma Franceschini e Marino non escono sconfitti. Il segretario uscente ha avuto proprio ieri la conferma d'aver svolto bene la missione di salvare il Pd nella stagione peggiore e oggi può consegnarlo al successo in ottima salute. Ignazio Marino è stata la sorpresa del voto popolare, a riprova che i temi del rinnovamento e della laicità sono assai avvertiti dalla base.

La vera notizia è la partecipazione. Tre milioni non li aveva previsti nessuno. Tanto meno dopo l'ultimo desolante caso di Piero Marrazzo. Il popolo democratico ha invece reagito con un atto di generosità e responsabilità, qualità più rare ai vertici. La corsa alle primarie può segnare un punto di svolta nello stallo politico. È una scossa positiva per il Pd, in cerca d'identità da troppo tempo. Ed è una spallata al governo Berlusconi, già avvitato in un evidente declino. Una spallata vera e potente, che non arriva dalle élites e dai palazzi complottardi di cui favoleggiano i demagoghi, ma piuttosto da milioni d'italiani. Cittadini normali che si sono svegliati presto di domenica, messi in fila, versato un contributo, atteso i risultati fino a notte. Non perché Bersani, Franceschini o Marino siano leader di travolgente carisma, né sull'onda di un entusiasmante dibattito congressuale. Ma nella speranza d'infondere al principale partito d'opposizione la forza necessaria per mandare a casa il peggior governo della storia repubblicana.

Questo è il chiarissimo mandato che i tre milioni consegnano nelle mani del vincitore Bersani, ma anche a Franceschini e Marino, da oggi chiamati a collaborare come rappresentanti delle minoranze interne a un grande progetto. Si tratta di vedere se la nuova dirigenza saprà interpretarlo o, chiusi i gazebo, tornerà a rinchiudersi nelle stanze affumicate di strategie tanto sottili quanto perdenti. Come è sempre accaduto finora. Il nuovo leader democratico ha davanti compiti difficili e tempi strettissimi, da qui alle regionali. Il primo è rilanciare il Pd alla guida di un'opposizione seria nei toni, ma dura nella sostanza. Più dura di quanto non sia stata finora. Di "tregue" a Berlusconi, più o meno volontarie, il centrosinistra ne ha offerte già troppe in questi anni. Un'ulteriore resa a un Cavaliere a fine corsa, almeno nell'opinione mondiale, sarebbe interpretata come un tradimento degli elettori e si tradurrebbe in una catastrofe politica.

Il secondo compito è quello di affrontare il rinnovamento interno al partito, che non sia la solita mano di bianco sulla nomenklatura. Nei confronti dei casi inquietanti segnalati qua e là, la base si aspetta da Bersani che agisca con rapidità e chiarezza. Per fare l'esempio più recente, che convinca Marrazzo, dopo l'opportuno gesto dell'autosospensione, a tagliare la testa al toro e rassegnare subito le dimissioni da governatore.

Occorre certo un po' di coraggio, quello che è sempre mancato ai leader, davvero non al popolo di centrosinistra. Ma il coraggio, se uno non l'ha, milioni di voti glielo potrebbero pur dare. A Prodi e a Veltroni non erano bastati. Bersani ne ha presi molti meno, ma alla fine di primarie vere e combattute fino all'ultimo. Ora ha l'occasione di dimostrare nei fatti quanto aveva ragione a criticare i predecessori.

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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 12, 2010, 09:55:58 pm »

L'INCHIESTA / Lo scrittore Carofiglio: "Le elezioni saranno evento dadaista"

Boccia: "Con Nichi la sinistra da bere".

Vendola: "Io vado avanti"

Il tramonto del laboratorio Puglia la guerra balcanica che scuote il Pd

di CURZIO MALTESE


TUTTE le piste dell'inguacchio pugliese, come lo chiamano qui, per dire di un inciucio andato male, portano a lui, la volpe del Tavoliere, il leader Massimo. Magari capiva più di politica estera che non d'Italia e forse non ci libererà mai da Berlusconi. In compenso, nel far fuori chiunque gli possa fare ombra nel centrosinistra, D'Alema è sempre infallibile. Uno dopo l'altro, Prodi e Cofferati, Veltroni e Rutelli. Liquidata la pratica nazionale, è tornato nelle sue terre e in un mese ha schiantato i due miti locali, Michele Emiliano e Nichi Vendola. In cambio, s'intende, di un grande disegno. Il professor D'Alema aveva deciso che nel laboratorio pugliese dovesse nascere la nuova creatura del centrosinistra. Un mostro invincibile e un po' Frankenstein, con dieci partiti, una gamba di Casini qua, un braccio di Di Pietro là, un piede comunista e uno ex fascista, innestati sul corpaccione inerte del Pd. Ma il colpo di fulmine che doveva animarlo non è arrivato. Così l'inventore è ripartito sul destriero per Roma, lasciando il fido assistente Nicola Latorre a fronteggiare incendi e forconi.
E l'incendio avanza, dilaga. "Al posto del nuovo centrosinistra allargato, si rischia di avere la spaccatura nel Pd, a Bari come a Roma", commentano allarmati i militanti. Di ora in ora s'incarognisce la battaglia fra i candidati, che alla fine potrebbero essere quattro. Due nel centrosinistra, Nichi Vendola e Francesco Boccia, e due a destra, Antonio Distaso, candidato ufficiale del Pdl, e la finiana Adriana Poli Bortone. "Di questo passo" è la sintesi dello scrittore Gianrico Carofiglio "le elezioni di marzo si presentano come un evento dadaista".

Chi avrebbe mai potuto immaginare una simile triste fine per la primavera pugliese. I fatti non contano più nulla. Bari la stanno ammazzando il pettegolezzo e le televisioni. Da un anno la città sta sulle prime pagine per storie di malaffare e cocaina, escort e appalti, e parentopoli. Alla fine gli stessi pugliesi vi si specchiano. Eppure, al netto di scandali tutti ancora da dimostrare, di processi da celebrare chissà quando, Bari e la Puglia rimangono agli occhi di chi arriva l'unico pezzo d'Europa a sud di Roma, l'unica area meridionale non riducibile a una Gomorra di rifiuti, mafie, frane, rivolte, collasso sociale. Lo sanno tutti, a destra e a sinistra. Lo dicono le statistiche, gli indicatori di crescita per cui la Puglia è seconda alla sola Lombardia. Lo vedono gli inviati sull'eterno "caso Bari" come i trecento clandestini sbarcati l'altro giorno dall'inferno di Rosarno nel lindo aeroporto di Palese.

Non si capisce allora la ragione di questa guerra balcanica nel centrosinistra. Se non appunto per via della condanna a essere il "laboratorio della politica nazionale". "Un'antica iattura - commenta il sociologo Franco Cassano - Dai tempi di Aldo Moro, giù fino al pentapartito e ora a questa vicenda. È chiaro che la partita era nazionale. Era il segnale di un ritorno al primato dei partiti. Basta Vendola e basta pure Emiliano. Basta con le primarie, che qui in Puglia sono nate, almeno quelle vere. Basta con la cosiddetta società civile. La ricreazione è finita. Un progetto coloniale che qui ha sempre fallito e che considero sbagliato. Ma al quale si potrebbe riconoscere una dignità se almeno fosse stato chiaramente esposto. Invece si è andati avanti a colpi di vertici segreti, trovate tattiche. Il risultato è lo scoppio del laboratorio. Ora se il centrosinistra vuole salvare la faccia deve fare una veloce retromarcia e tornare alle primarie". Primarie, primarie ripetono gli intellettuali pugliesi, ma anche la gente al mercato. E ormai le primarie le vuole anche mezzo Pd romano. "Perché sono nello statuto del partito" ricorda la presidente Rosy Bindi. "Ma prima ancora sono iscritte nel senso comune" aggiunge un pugliese ormai romanizzato come il produttore di cinema Domenico Procacci. La pressione è forte e ieri i delegati dell'area Emiliano, entrati in assemblea per votare a favore di Boccia, sono usciti dicendo "primarie". Nell'imbarazzo dello stesso sindaco Emiliano, che di imbarazzi ne ha avuti e ne ha procurati molti in tutta la vicenda, compresa l'impronunciabile richiesta di una legge ad personam per candidarsi alla Regione.
A opporsi è rimasto quasi soltanto Francesco Boccia, che sui manifesti a favore delle primarie ironizza pesante: "La solita sinistra da bere che Vendola si è conquistato con le consulenze in regione. Fare le primarie oggi significa perdere subito l'Udc, quindi il progetto di nuova alleanza".

Ma intanto le centinaia di giovanissimi volontari che lavorano per Vendola non hanno l'aria da salotto, le migliaia di messaggi sui web non li paga la Regione. Gli strateghi hanno molto sottovalutato il fenomeno Vendola, che è mediatico prima che politico. Il compagno Nichi è un combattente. L'aveva annunciato fin dalla prima riunione con D'Alema: "Se credete di farmi fuori o che io mi faccia da parte, vi sbagliate. Io vado avanti, farò il martire. Che alla fine, paga sempre". E l'ha fatto benissimo, il martire dell'orrida casta politica, soprattutto in televisione da Santoro. Oggi paradossalmente sembra lui, il governatore uscente, il capo della rivolta contro il palazzo. Vendola ha dalla sua argomenti popolari e contro di lui veti incomprensibili. Perché alla fine non lo vogliono più? Perché Casini, che pure gli testimonia grande stima personale, non vuole Vendola? Perché è gay? Perché è comunista? Oppure perché non vuole privatizzare l'acquedotto pugliese, magari al gruppo Caltagirone? Perché i dipietristi non lo vogliono? Perché non ha cambiato la sanità pugliese? Ma in procura negano di avere nulla a carico del governatore. "Tranne un'intercettazione dove cercavo di "raccomandare" come primario un ex docente di Harvard, vedi che colpa" dice l'interessato. Non sarà allora perché non ha mai dato un assessore all'Idv in giunta? Sospetti, dietrologie. "Le solite fesserie dei giustizialisti" liquida Nicola Latorre.

E magari sarà vero. Ma vi sarebbero meno sospetti e dietrologie se il Pd avesse messo in campo un criterio chiaro. Le primarie vanno bene per eleggere il segretario regionale e quello nazionale, ma non per il candidato governatore. L'alleanza con l'Udc è irrinunciabile in Puglia, ma era facoltativa nel Lazio. Non si capisce neppure chi comandi oggi nel Pd, se D'Alema o Bersani, che nella vicenda pugliese, dove il partito si gioca la faccia, non s'è ancora mai visto. Oppure magari comanda Casini, tecnicamente segretario di un altro partito, o forse nessuno. L'unica cosa certa è che il laboratorio è fallito e qualcuno deve prenderne atto. Tira aria di ritirata strategica. Il primo a fiutarla è stato Antonio Di Pietro, che ora è pronto a tornare sul nome di Vendola: "Lui o un altro, ma in fretta. O 'sto candidato lo vogliamo scegliere dopo le elezioni?".


© Riproduzione riservata (12 gennaio 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 23, 2010, 06:01:29 pm »

Domani la sfida del "Berlusconi rosso" con Francesco Boccia

Quel misto di stordimento e rabbia con cui il partitone si avvia ad una sconfitta annunciata

Regionali, ciclone Vendola in Puglia

Opa ostile sul Pd alla ricerca di un leader


di CURZIO MALTESE


BARI - "Guagliò, calmi, che la capa gira!". È diventato lo slogan amaro nei quartier generali del Pd. La "capagira" significa il misto di stordimento, rabbia e impotenza col quale oggi il partitone s'avvia a una sconfitta annunciata contro il guerrigliero Nichi Vendola. "Uno che era finito sei mesi fa e noi siamo stati capaci di trasformare in Che Guevara" dicono i vecchi militanti. Soffiano mazzate di vento gelido sul lungomare di Bari e perfino quelle tirano per Vendola. Domenica la gente non andrà in gita e più gente va a votare le primarie, tanto più sale il vantaggio del governatore sullo sfidante. La domanda della gente pugliese non è se vincerà "Nichi o Boccia", dove già la scelta di nome o cognome segna una distanza. Piuttosto "di quanto vincerà Nichi". Se con il dieci, il venti o il trenta per cento. È raro in effetti assistere a una vigilia tanto univoca. Non solo nei sondaggi, per quel che valgono.

Ma nei discorsi, negli umori, nei segni sparsi per le strade. Almeno a Bari e dintorni, dove si gioca, cifre alla mano, la metà della partita. Basta confrontare la mestizia delle sedi del Pd con l'allegra sarabanda giovanile di Fabrica, il quartier generale di Vendola. Confrontare i muti e radi manifesti di Boccia con gli squillanti e felicemente populisti del Comandante Nichi, "Solo con(tro) tutti". Misurare con lo sguardo i luoghi della contesa. Mentre i dirigenti del partitone viaggiano per salette da convegno, sezioni desertiche e studi televisivi, Vendola attraversa bagni di folla e prenota per il gran finale di oggi Piazza Prefettura, roba da ventimila persone, che soltanto il Berlusconi dei tempi d'oro è riuscito a riempire con un comizio. L'altro giorno è arrivato finalmente a Bari il segretario Pier Luigi Bersani per sostenere la candidatura di Boccia e l'evento non è riuscito a colmare le trecento poltrone di una sala della Fiera.

"Uno spettacolo avvilente e preoccupante" ammette il senatore dalemiano Nicola Latorre. "Non c'era uno della minoranza del partito. Tutti a sostenere l'Opa ostile di Vendola sul Pd". Lo sfascio del partitone in questa guerra insensata è del resto facilissimo da misurare. Nelle due ore trascorse a Fabrica ho assistito al pellegrinaggio di una decina di consiglieri comunali del Pd e all'arrivo di una comitiva di giovani di Molfetta decisa a organizzare una serata "pro Vendola". "Siete di Sinistra e Libertà?" "Macché, siamo del Pd!".

"Per quale motivo, di preciso, avete deciso di suicidarvi?" ha risposto lo scrittore e senatore Pd Gianrico Carofiglio ai messi di Bersani e D'Alema che gli avevano chiesto se "almeno lui" se la sentisse di pronunciarsi per il candidato ufficiale. Dopo che decine di artisti, intellettuali, scienziati e premi Nobel, da Margherita Hack a Dario Fo, avevano aderito agli appelli di Vendola. Dalla parte di Boccia, a sorpresa, è arrivato un solo testimonial e piuttosto bizzarro: Franco Califano. Ma sì, il mitico. Sempre stato "nero". "Ma che te devo di'? Francesco è n' amico. E poi 'sto Vendola che fa la vittima m'ha veramente rotto li...". Così oggi Francesco Boccia, che sembra molto più solo contro tutti, si è consolato sfrecciando fra Foggia e Bisceglie su un'Alfa con al fianco "Er Califfo". "Alla faccia della sinistra da bere, meglio il Califfo" dice lo sfidante. "Prima o poi gli elettori capiranno che quella di Vendola è una truffa, retorica allo stato brado".

Prima di domani però pare difficile. Quanto all'altro califfo, Massimo D'Alema, ha deciso di rinviare la nomina romana al Copasir a martedì e di rimanere sulla barca del suo candidato fino all'ultima ora utile. Soltanto che la barca continua a prendere acqua e il ventennale califfato di D'Alema in Puglia rischia di chiudersi.
Chi l'ha fatto fare a D'Alema, a Bersani e al Pd tutto di ficcarsi nella trappolona pugliese? Alessandro Piva, regista barese che di "capagira" se ne intende, ha la sua teoria: "Vendola è un Berlusconi rosso e li ha fregati con lo stesso metodo che il Cavaliere usa da anni. E' bravo a far la vittima, quello contro il sistema, quello che si è fatto da solo. E' più moderno, è un comunicatore, si rivolge direttamente al popolo ed è capace di emozionare. Con lui gli avvisi di garanzia funzionano alla rovescia. È un combattente e ha dimostrato di avere nove vite come i gatti. È come Berlusconi".

Almeno un po' deve essere vero, se il "Berlusconi rosso" non s'offende al paragone, sembra anzi quasi compiaciuto. Ma sugli errori degli ex compagni del Pci, Nichi Vendola ha anche un'altra spiegazione: "Hanno un rapporto nevrotico con la modernità e non hanno mai davvero chiuso i conti col passato. Ma di tutta la grande narrazione politica comunista, quelli come D'Alema e Bersani hanno conservato un solo tratto, il fascino supremo del comando. L'illusione di poter imporre alla base qualsiasi scelta, per quanto impopolare, in nome del fine superiore del partito. Soltanto che questo fine superiore non esiste più. E alla lunga, senza un'utopia, una trascendenza, la gente prima o poi si stufa di obbedire".

L'impressione è che il "poi" sia arrivato di colpo, oggi, qui, in Puglia. Dove il Pd di Bersani rischia di correre incontro a una crisi dura, non soltanto locale, ma nazionale. Per la tigna dalemiana, per incapacità di fiutare il vento, per il "rapporto nevrotico con la modernità", và a sapere. In ogni caso, a quarantotto ore dal voto delle primarie, perfino nel fronte fedele al candidato ufficiale, si discuteva soltanto di come rimediare alla sconfitta. Come rimettere insieme, da lunedì, i cocci di un'alleanza devastata dal palio delle sinistre. Michele Emiliano, il sindaco di Bari che appoggia Boccia, ma non perde mezza occasione di fare l'elogio di "Nichi", si ritaglia fin da subito il ruolo di grande mediatore per il dopo disastro: "Comunque vada a finire, le primarie del Pd hanno cancellato dalla scena politica il centrodestra e segnalato la ricchezza del centrosinistra agli elettori pugliesi. Boccia e Vendola sono due facce di una bella politica, destinate a collaborare da lunedì se il centrosinistra vuole davvero vincere. Ed è già troppo tardi. Perché se Francesco Boccia fosse stato in questi anni il vice presidente della Puglia e l'assessore al bilancio, come in molti avevamo suggerito a Nichi, oggi la Regione non avrebbe buchi, ma risorse da destinare allo sviluppo". Su una linea pragmatica è Alessandro Laterza, editore e presidente degli industriali pugliesi, che finora si è tenuto lontano dalla rissa: "Aspetto che finisca la disfida per tornare a parlare dei fatti. Per esempio dei tre miliardi di fondi europei che finora non siamo stati in grado di ottenere per la Puglia e che potrebbero cambiare la faccia all'economia della regione.

La sconfitta del Pd è annunciata, ma la catastrofe si può ancora evitare. Soprattutto se la vittoria di Vendola non sarà schiacciante, come dicono i sondaggi e il popolo del blog. Perché altrimenti il vento si porta via tutti i personaggi. Magari al suono di una musica da circo, come nel finale di Otto e Mezzo di Fellini, che ieri mezza Bari bene è corsa ad applaudire al Petruzzelli, nella versione holliwodiana di "Nine". Per distrarsi col festival del cinema dal festival della politica, per sorridere alla fine di un'altra giornata amara. 
 

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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 26, 2010, 09:49:13 am »

Ma Il governatore della Puglia frena i suoi ultrà: "Basta infierire su Massimo.

"Veniamo da anni di realpolitik. Dobbiamo criticare il populismo dalla parte del popolo"

Vendola: con me torna a vivere una sinistra che sa emozionare


di CURZIO MALTESE

BARI - Il giorno dopo, il giorno del trionfo a reti quasi unificate, dai salotti di Bruno Vespa e Gad Lerner, la celebrazione più inattesa è arrivata al compagno Nichi da un vecchio nemico, l'ex fascistone Salvatore Tatarella, l'uomo più popolare della destra pugliese, fratello del mitico Pinuccio. All'aeroporto di Bari, dove Vendola è in partenza per Milano, Tatarella gli viene incontro: "Omaggi a sua eccellenza!". "Sua eccellenza sarà lei..." sorride Nichi. "Quant'è bravo 'sto ragazzo, che spinge i suoi avversari al suicidio" aggiunge Tatarella. E rivolto al cronista: "Ha vinto ieri e vincerà a marzo. Lo sa lui, lo so io, lo sapete pure voi". Poi s'accendono le telecamere e parte la dichiarazione ufficiale: "Rocco Palese è il miglior candidato possibile per smascherare i cinque anni d'inganno". Un vero Tatarella. Ma tutti sanno, Vendola, Tatarella che il vento ormai tira a favore del ciclone Nichi.

E' diventato di colpo un principe fortunato, Nichi Vendola. Una fortuna bipartisan. D'Alema l'ha trasformato in eroe, Berlusconi gli sceglie l'antagonista di minor carisma, Rocco Palese, ombra dell'oscuro Fitto. E perfino Casini gli regala la candidatura di Adriana Poli Bortone. E dire che Vendola ha sempre considerato un limite l'appartenenza a una generazione "sfigata" di neo cinquantenni, quelli che non avevano fatto il '68 e ora sono troppo vecchi per il famoso ricambio. E' del '58. Famiglia della piccola borghesia, classe destinata all'estinzione secondo il piccolo borghese Marx, "eterna" invece per Hans Magnus Enzensberger. "Padre partito fascista per la guerra e tornato comunista come tanti". L'hanno chiamato Nicola in onore al patrono di Bari e di tutte le Russie, ma Nichi per via di Nikita Kruscev, il profeta della destalinizzazione. "E tu hai dedalemizzato la Puglia!" gli hanno detto la notte della festa. Pronta replica: "Calmi, guagliò. Non è proprio il momento d'infierire".

Non ha infierito, infatti. Da quando è arrivato il pazzesco risultato del feudo di D'Alema, Gallipoli città (85 Vendola, 15 Boccia), lo sforzo del governatore è stato di ricucire. Con perle di diplomazia: "Ringrazio D'Alema d'aver indicato la soluzione democratica delle primarie". Roba da ridere per chi ha assistito alle telefonate furibonde ai delegati democratici per evitare le primarie "a tutti i costi", agli sms secchi a Michele Emiliano ("Ora è tutto nelle tue mani"), agli avvertimenti di Nicola Latorre agli aspiranti candidati.

Ma nel ciclone Vendola sarebbe sbagliato ridurre tutto al duello rusticano con D'Alema. La Puglia, con queste primarie, è diventato un vero laboratorio nazionale. "Non di nuove alleanze, ma di un modo nuovo di fare politica a sinistra". Non è una vanteria. Si sono viste cose davvero nuove attorno al fenomeno Vendola. Nessuno in Italia aveva mai usato così il web, l'invenzione fortunata della "videolettera". "Abbiamo pensato che la piazza virtuale di Internet e quella reale non fossero pianeti diversi, ma evocative l'una dell'altra. E ha funzionato nel riportare alla partecipazione soprattutto i giovani".

Scuola Obama, insomma. Ci si dava appuntamento in piazza via Internet. Lo chiamano il "Berlusconi rosso". "E io non mi offendo, perché sulla capacità di comunicare dal Cavaliere qualche lezione a sinistra la potremmo prendere. Ma certo sui contenuti, non c'è messaggio più lontano del nostro dal populismo della destra. Sull'immigrazione, l'ambiente, la conservazione dei beni comuni come l'acqua, la difesa dei lavoratori. La questione è che la sinistra deve riuscire a tradurre tutto questo in senso comune, attraverso anche le emozioni, perché no. E' rimasta a metà del guado fra la difesa d'ufficio, con toni vagamente sociologici, di un'identità sempre più genericamente progressista, oppure la suicida rincorsa alla destra sui temi della sicurezza".
Ecco un altro che vuole incarnare "la terza via", si dirà. "Ma una terza via fra la casta e il populismo bisognerà pur trovarla. Qui in Puglia nessuno ha identificato me con la nomenclatura di sinistra, anche dopo cinque anni di governo. Mentre, tanto più dopo lo spettacolo delle primarie, confrontato con i vertici romani per designare lo sfidante, è il centrodestra ad apparire come una banda di politicanti. Ci sarà un motivo".

"Dicono che io ho personalizzato la campagna fra me e D'Alema - continua il governatore - . Ma si tratterebbe sinceramente una misera vittoria. La questione è stata fra modi diversi di far politica a sinistra. Quello che ha prevalso in questi anni, incarnato non solo da Massimo, lo possiamo definire il fascino stringente della realpolitik. Che è stato la cifra dominante della nostra ultima esperienza di governo con Prodi, fallita non per Mastella o questo o quello, ma perché gli italiani si sono ribellati alla casta. E la destra è stata bravissima a far passare il messaggio che la casta era il centrosinistra. Io credo invece che si possa criticare il populismo dalla parte del popolo, riuscendo a evocare un senso comune alternativo a quello di Berlusconi. Ed è possibile su tutti gli argomenti dove oggi la sinistra perde".

L'immigrazione, per esempio, o la giustizia? "Ma si pensa che gli operai del Nord, negli anni '50 e '60, fossero contenti di veder arrivare milioni di meridionali? Eppure il sindacato, la sinistra hanno saputo lavorare al senso comune, comunicare l'importanza dell'accoglienza. Lo stesso vale per la giustizia. Io non sono giustizialista, ma neppure reclamo l'impunità se parte un avviso di garanzia. Mi rivolgo agli elettori, come ho fatto con la videolettera, con chiarezza e nulla da nascondere"

Alla fine la Puglia rimane laboratorio nazionale. Anche delle ambizioni di Vendola? "Questo si vedrà. Da oggi sono soltanto uno che deve vincere le elezioni di marzo, altrimenti, diciamo qui, sò mazzate. La vicenda pugliese è stata un'epifania, una storia che ne ha chiarite in maniera direi plastica tante altre precedenti. Spetta ai dirigenti del centrosinistra trarne le conseguenze".
 

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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 17, 2010, 09:11:07 am »

IL COMMENTO

Gli uomini del cavaliere

di CURZIO MALTESE

Passato l'effetto statuina, è ripreso il declino di Silvio Berlusconi. In un clima da fine della seconda repubblica, ogni giorno scoppia uno scandalo che tocca sempre più da vicino il cuore del potere di Palazzo Chigi. Ieri Guido Bertolaso, il potente capo della Protezione civile, forse l'unico successore che Berlusconi abbia mai avuto in mente. Oggi Denis Verdini, il coordinatore del partito, indagato per corruzione e protagonista di mille intercettazioni.

Inutile aggiungere che in un paese normale, come pure nell'Italia prima di Berlusconi, ci sarebbero già state raffiche di dimissioni. Qui il premier nega o minimizza. Continua a dipingere come un martire Bertolaso, la cui evidente intimità con l'imprenditore Anemone, escort o non escort, dovrebbe bastare per liquidarne la parabola. Riduce le storie di tangenti a ruberie di "piccole volpi nel pollaio", come faceva Bettino Craxi a proposito del "mariuolo" Chiesa. Sembra sicuro, il Cavaliere, che nessuno scandalo potrà bucare il muro di gomma, quel perenne stato di eccezione che circonda il potere berlusconiano, costruito in anni e anni di egemonia mediatica. Molte volte ha avuto ragione. Ma ora forse si sbaglia. Come fu per Mani Pulite, sul banco degli imputati non si trovano soltanto nomi eccellenti, pezzi di nomenclatura, ma un intero sistema.
Due italiani su tre, secondo un sondaggio di Sky, pensano che siamo di fronte a una nuova Tangentopoli. La suggestione del parallelo non può nascondere le profonde differenze. L'Italia e gli italiani, anzitutto, non sono più quelli. Ora sono assai più rassegnati e cinici, molto meno informati. I telegiornali dell'epoca esaltavano i magistrati inquirenti come eroi, questi li perseguitano come nemici del popolo.

Sono cambiati i protagonisti degli scandali, l'antropologia dei nuovi ladri. Quelli alla fine rubavano, o almeno cominciavano a rubare, per far politica. Questi fanno politica per poter rubare. Ha ragione Gianfranco Fini, non prendono per il partito, ma per se stessi. Al massimo per la combriccola, il quartierino, la banda. La corte dei miracoli di Berlusconi appare, alla luce delle intercettazioni, come un crogiuolo di cortili d'affari. Rubano in maniera sgangherata e ostentata, continuano a vantarsene al telefono da veri imbecilli, intascano mazzette in favore di videocamera. E rubano molto di più. Ai tempi di Tangentopoli la Corte dei Conti stimava la "tassa della corruzione" in cinque miliardi di euro attuali. Oggi siamo a sette, otto volte tanto.
Ma sono cose che tutti sappiamo, come si sapevano alla vigilia di Mani Pulite. Che cosa allora aveva fatto scoppiare la bolla? La stessa miscela che si sta riformando adesso. Da un lato la stanchezza e la sfiducia della maggioranza degli italiani in una classe dirigente non solo corrotta, ma decrepita. Non si riesce a immaginare un futuro per il Paese con Berlusconi, come non se ne immaginava più uno con Andreotti, Craxi e Forlani diciotto anni fa. Dall'altro i morsi di una crisi economica ancora più feroce di quella dei primi Novanta, che rende ormai insostenibile la sovrattassa della corruzione per milioni di cittadini e per migliaia di imprenditori. E' questa combinazione chimica di senso comune,  contingenza economica e voglia di futuro che può scatenare la tempesta finale sul sistema.

Naturalmente, il sistema e Berlusconi che lo incarna si batteranno come leoni. Ma già nella vicenda Bertolaso si leggono i segnali di un cedimento da parte di chi, troppo assuefatto a un potere senza controllo, non è più abbastanza vigile. Come si poteva pensare che uno scandalo così macroscopico, solare, come gli appalti del mancato G8 della Maddalena non attirassero l'attenzione dei giornali e delle procure?  Quanta presunzione d'impunità trasuda da quelle voci registrate. Ma con tutto il potere e i soldi e le minacce di Berlusconi e della corte, vi sarà sempre un cronista o un magistrato troppo curiosi per non indagare su storie tanto assurde. E' la libertà, bellezza. E loro non possono farci niente.

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« Risposta #38 inserito:: Febbraio 23, 2010, 03:00:13 pm »

IL COMMENTO

Capitan terremoto

di CURZIO MALTESE


Con il tempo tutti i protagonisti della vita pubblica italiana diventano maschere della commedia dell'arte. Vuoi per interesse, vuoi per naturale propensione, Guido Bertolaso ha bruciato le tappe. La centesima volta che lo vedi in tv con il maglioncino dell'uomo del fare, mentre ripete all'infinito il mantra, "la gente mi spinge a tener duro", "io vado avanti e mi occupo di problemi seri", ti vien voglia di denunciarlo per un crimine non iscritto nel codice penale, ma in Italia propedeutico a tutti gli altri: la retorica.

Retorica a palate, è il caso di dire. A valanga, a frana, a slavina, alluvionale. Con un vocabolario di cento parole al massimo, fra le quali spicca il verbo fare. Fare, fare, fare. Ogni tanto, anzi spesso, dire. Mai baciare, per carità. Figurarsi lettera (di dimissioni) o testamento (politico, s'intende). È il gioco di Bertolaso, il suo canovaccio. Da maschera della commedia dell'arte, appunto: il Capitano. Una delle più antiche, nipote del miles gloriosus, e con mille varianti, Capitan Fracassa, Spaventa, Matamoros, Corazza, Rinoceronte, Spezzaferro, Spaccamonti, Rodomonte e sì, Terremoto. Il Bertolaso le incarna tutte in un corpo solo, ormai tutt'uno con la divisa della Protezione Civile. Uomo d'azione, del fare e non del pensare, quindi vittima generosa e ingenua di astuti marpioni. "Non avevo il tempo di controllare, di fare il poliziotto, il commissario". Ma se non aveva mai tempo prima, dove lo trova ora tutto 'sto tempo per stare in televisione dalla mattina su Canale 5 fino alla sera su Ballarò, senza contare i telegiornali, le interviste sui quotidiani, gli speciali, le apparizioni ovunque? Proprio lui, che da Haiti aveva dichiarato con disprezzo: "Troppi show in televisione sono sempre un segnale pessimo, ci si esibisce per le telecamere e in concreto non si fa nulla per le vittime". Già. Poi uno si lamenta se i Clinton lo mandano a quel paese.

La strategia della difesa dai processi via etere gli è stata di sicuro suggerita dal suo grande sponsor, Silvio Berlusconi, che la usa con successo da vent'anni. La televisione è il gran lavacro nazionale. Ma per taluni aspetti l'allievo sta superando il maestro. Anzitutto, il volume di fuoco. Bertolaso è in questi giorni onnipresente, Rai, Mediaset, La7, Sky. Si porta dietro le telecamere nei sopralluoghi in Sicilia e Calabria, dove non parla delle frane reali ma del fango metaforico che è piovuto addosso a lui. Con involontaria ironia aggredisce la "barbarie di processi fatti sui media e non nelle aule dei tribunali". "Nei processi mediatici  -  enuncia  -  la verità è l'ultima cosa che interessa, si cercano le emozioni del pubblico". Vale anche per l'arringa della difesa? Il Capitano sorpassa il modello berlusconiano per vittimismo, che sembrava impossibile. Sul sito della Protezione Civile, altro strumento assai improprio di difesa personale, si definisce un "alluvionato" e si paragona alle "tante vittime di catastrofi che abbiamo soccorso in questi anni".

Ma dove Capitan Bertolaso non teme davvero confronti, né col maestro né con le maschere della commedia dell'arte, è nell'auto elogio. Da un lato delle proprie mirabolanti imprese, ai limiti del sovrumano. Dall'altro, di un'onestà proverbiale, implicita, ovvia, che non ha dunque alcun bisogno di essere dimostrata, quasi fosse un elemento della natura. Un'onestà fanciullesca, che sconfina nel candore e nell'idiozia, in senso dostoeskiano. Perfino Berlusconi avrebbe infatti qualche imbarazzo a dipingersi così, sia pure a fin di bene. Capitan Bertolaso, forza della natura, uomo del fare, esibisce invece una purezza assoluta. Lui era lì che vangava nel fango e non s'è accorto di nulla, delle ruberie, degli appalti truccati, degli sciacalli che ridevano alla notizia dei terremoti. Non s'è chiesto a che cosa servisse buttare 300 milioni per un centro congressi sull'isola della Maddalena e perché la maggior parte fossero appaltati a un'azienda con una ventina di dipendenti. Non s'è mai neppure domandato perché il titolare dell'azienda, l'Anemone, fosse tanto premuroso con lui da aprire e chiudere a comando il suo centro sportivo, organizzare feste e incontri. Devono avergli detto anche che per farsi un messaggio alla cervicale bisognava portare i preservativi e il Capitano li ha portati, senza pensare che poi magari la stampa ci avrebbe malignato sopra. Tangenti, mazzette, prostitute, ma scherziamo? Può essere corrotto un uomo che da anni indossa lo stesso golfino blu? Siamo al solito incubo kafkiano, all'incipit di ogni processo italiano. "Qualcuno doveva aver calunniato il povero Joseph K. perché una mattina, senza che avesse fatto nulla di male, fu arrestato...".

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« Risposta #39 inserito:: Marzo 11, 2010, 12:21:55 pm »

Il "Poeta" contro il "Ragioniere" con la Poli Bortone che potrebbe essere decisiva

Ma soprattutto sono stati sconfitti sia Berlusconi che D'Alema

Puglia, con la sfida Vendola-Palese qui è finita la seconda Repubblica

Il governatore uscente fa campagna con slogan in rima baciata: è l'unico comunista osannato ad ogni manifestazione.

Lo sfidante martella gli elettori con cifre e commi

di CURZIO MALTESE


BARI - Nel laboratorio Puglia si vede oggi quello che forse domani sarà la politica italiana. Qui la seconda repubblica è finita il 24 gennaio scorso. Era la notte delle primarie. Con la vittoria di Vendola e la nomina di Rocco Palese a sfidante, in poche ore è crollata a sinistra l'egemonia di D'Alema e a destra è cominciato il dopo Berlusconi. Fuori gioco il Padrone e lo Stratega, senza i quali in Puglia, ancor più che nel resto d'Italia, non si muoveva foglia da quindici anni, che cosa è rimasto sul campo? Una nuova sinistra di guerriglieri mediatici, una vecchia destra di notabili poco telegenici, un centro né nuovo né vecchio a fare da ago della bilancia. Sullo sfondo, un intreccio di affari, scandali e regolamenti di conti fra potentati economici. E il paradosso di una regione da sempre di destra che rischia di finire per la seconda volta nelle mani del più rosso dei governatori.

"In Puglia almeno abbiamo presentato le liste, peccato non il candidato" dicono che ripeta Berlusconi. Questo Rocco Palese, ombroso braccio destro del ministro Raffaele Fitto, questo candidato in grisaglia, noiosamente onesto e antitelevisivo, al premier non è mai andato giù. "Rocco chi?!" aveva urlato in faccia a Fitto, durante un consiglio dei ministri. "Palese, come l'aeroporto" aveva sussurrato l'altro. "Ah, così la gente se lo ricorda" s'era calmato il Cavaliere. Ma pochi giorni dopo, con i manifesti "Palese presidente" già stampati, il premier era tornato alla carica, aveva convocato Fitto e i maggiorenti del partito per dire che "con questo Rocco, come si chiama?, non andiamo da nessuna parte. Per vincere dobbiamo allearci con Casini e appoggiare la Poli Bortone". Ma Fitto si oppose al punto di minacciare una scissione e Berlusconi, per la prima volta, fece lui un passo indietro.

E' partita così la strana sfida fra il Ragioniere e il Poeta, secondo la reciproca definizione. Dove il Ragioniere sta per Palese e il Poeta allude naturalmente a Vendola, il "poeta di Terlizzi", e ad altro. Come si evince dalla greve traduzione del terzo incomodo, Adriana Poli Bortone: "Vuoi vedere che fra un ragioniere e un diverso, stavolta ai pugliesi può piacere una donna?". Tanto per dire del livello.

Il duello fra Vendola e Palese è lo spettacolare rovesciamento degli stilemi che hanno dominato la seconda repubblica. E' la sinistra che detta l'agenda e si diverte, sfrutta l'abilità mediatica, ricorre al populismo, inventa una trovata dopo l'altra, ribalta le accuse in punti di forza. La destra irride al Poeta di Terlizzi? E Vendola risponde con una campagna fatta di slogan, una ventina, tutti in rima baciata. "Si tratta di far mancare il terreno sotto i piedi alla propaganda avversaria" spiega Giovanni Sasso, capo dei trentenni creativi dell'agenzia ProForma, che cura la campagna di Vendola. Lo stesso che ha inventato gli slogan poetici, le videolettere e l'esilarante "mago pidiello" che spopola da settimane su Youtube. La destra è costretta a inseguire, a dire "anche noi siamo contrari al nucleare", "anche noi non vogliamo la privatizzazione dell'Acquedotto pugliese". "Ma l'avete detto a Berlusconi, a Fitto e al governo?" è la facile replica di Vendola.

Quando si va sul territorio, come si dice, sembra di assistere al confronto non fra candidati, ma fra epoche storiche. Incrocio la campagna di Vendola e Palese per la prima volta a Taranto, la più cinica e indolente piazza politica d'Italia. L'arrivo del ciclone Nichi è una scarica d'adrenalina, si bloccano le strade del centro nuovo e perfino della città antica, che è un deserto di palazzi disabitati, percorsi ormai soltanto da bande di spacciatori. Il governatore stringe centinaia di mani, più che un comunista sembra un senatore dell'Illinois. Nelle stesse ore la convention di Palese si svolge nel lussuosissimo Hotel Histò a Mare Piccolo, in un salone dove si raccoglie la vecchia nomenclatura cittadina, ampie nuche democristiane, età media sulla sessantina. Al tavolo di presidenza spicca la pittoresca figura di Giancarlo Cito, ex sindaco e senatore, condannato per mafia, il proto Berlusconi di Taranto che già negli Ottanta faceva politica con le tv e le squadre di proprietà. E a Palese fa pure la lezione: "Ricordati che la battaglia politica si vince sui media".

Scene simili a Foggia, a Barletta, a Brindisi. Nel Salento, dove la macchina del Pd è ancora nelle salde mani di Baffino, i dalemiani sfottono: "Stasera parla Vendola in piazza, portatevi i fazzoletti". Ma poi le piazze sono piene e la gente piange davvero. Ironizzano pure i berlusconiani sul loro candidato: "Stasera c'è Palese, portate le calcolatrici". E alla sera, al centro congressi, la gente sbadiglia di fronte all'alluvione di cifre da ordinanza regionale, "di cui al comma...".

Il maggior vanto e merito di Palese sta proprio nell'opposizione testarda, meticolosa, da ragioniere secchione ma galantuomo, che ha guidato per cinque anni in consiglio regionale. Non senza ragione, viste le inchieste della magistratura. Il guaio è che la vena moralizzatrice della destra si è fermata al nome del candidato presidente e all'epurazione delle escort, tornate a popolare le notti di corso Vittorio. Per il resto le liste pulite qui non sono pervenute. A destra spicca il nome di Tato Greco, genero dei Matarrese, socio e amicissimo di Giampaolo Tarantini, già sponsor di Patrizia D'Addario. Per proseguire con Francesco Pistilli, ex sindaco di Acquaviva, condannato l'anno scorso per corruzione. Anche la Poli Bortone vanta in lista nientemeno che il ripescaggio di Cosimo Mele, l'ex deputato Udc sorpreso il 27 luglio 2007, in un albergo di via Veneto, nel mezzo di un'orgia a base di cocaina con un paio di prostitute. Oggi è in giro per le parrocchie del brindisino a spiegare il valore della famiglia.

Nel centrosinistra ha fatto discutere, per opposti motivi, la candidatura a capolista dell'Idv di Lorenzo Nicastro, magistrato titolare per nove anni delle inchieste su Fitto e Angelucci. Attaccato dalla destra come "evidente caso di barbara commistione fra politica e giustizia". Difeso a spada tratta da Di Pietro, meno dal Pd e da Vendola, quasi per niente dall'Associazione nazionale dei magistrati. La civile idea che non si debbano candidare in lista delinquenti, corrotti e inquisiti, ma neppure i magistrati che li hanno indagati fino al giorno prima, pare minoritaria anche nei laboratori della Terza Repubblica. "Come sembrano minoritari i problemi concreti" obietta Alessandro Laterza, presidente degli industriali baresi. "In fondo si parla molto della personalità dei candidati, di chi c'è e di chi manca nelle liste. Ma che cosa vogliono fare nella sanità, che rappresenta l'80 per cento del bilancio regionale e il 90 per cento degli scandali, nessuno l'ha ancora ben chiarito. E alla prossima puntata Vendola non potrà più dire che alla sanità ha dovuto accettare l'assessore voluto da D'Alema. Stesso discorso per i miliardi dei fondi europei, gli ultimi, l'ultima occasione per rilanciare l'economia della regione".

Sono tutti d'accordo nel dire che la battaglia fra il rock Vendola e il lento Palese si deciderà nel Salento, dove Poli Bortone rischia di togliere molti voti al centrodestra, e soprattutto a Bari. Qui Vendola e il sindaco Michele Emiliano hanno siglato sabato scorso una spettacolare pace, dopo mesi di conflitti. Si vocifera di un accordo già trovato fra i due per fare in modo che sia Emiliano il successore di Vendola, in caso di vittoria. Fra cinque anni o forse molto prima. Dipende da quando finirà la seconda repubblica anche nel resto d'Italia.
 
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 15, 2010, 04:29:42 pm »

IL COMMENTO.

Mentre il Pil crolla e i conti peggiorano il premier trascorre le serate a trovare il modo di chiudere le trasmissioni

L'ossessione televisiva

di CURZIO MALTESE

La televisione conta poco o nulla nel consenso a Berlusconi? A parlare dei processi e degli scandali che riguardano il premier gli si fa soltanto un favore? Invece di rompere le tasche da anni a noi "antiberlusconiani", i professorini di liberalismo dovrebbero spiegare questi concetti al diretto interessato. Dalle intercettazioni pubblicate da Il Fatto e riprese da tutti, pare infatti che il Cavaliere non si occupi d'altro che di controllare la televisione e i suoi controllori.

Mentre il Pil crolla e i premi Nobel per l'economia pronosticano la bancarotta dello Stato italiano, il presidente del Consiglio trascorre le serate a "concertare" con il commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi e con altri sottoposti il modo di chiudere Annozero, si sbatte per impedire in futuro l'accesso agli studi Rai a Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro, ordina l'oscuramento perpetuo di Antonio Di Pietro, perde perfino tempo a spiegare a Minzolini che cosa deve dire nell'editoriale del giorno dopo. Tutto purché non passi nel servizio pubblico una mezza informazione sui processi e gli scandali che lo riguardano. Al resto, ci pensano i fidi direttori dei tiggì.

È un concentrato nauseabondo di regime quello che emerge dai dialoghi al telefono. Un padrone ossessivo e dittatoriale che impartisce ordini pazzeschi a un branco di servi contenti. Nel novembre scorso, alla vigilia di una puntata di Santoro dove figura fra gli invitati, Maurizio Belpietro, classico giornalista da riporto, telefona al padrone per informarlo che si parlerà del caso Mills. Berlusconi diventa una furia, chiama il suo uomo all'Autorità delle Comunicazioni, Innocenzi, e gli affida la missione di impedire la messa in onda del programma. Innocenzi chiama il direttore generale della Rai che un po' si lamenta ("nemmeno in Zimbabwe") ma poi illustra allo sprovveduto censore il sistema per bloccare Santoro. In futuro però, perché per impedire la messa in onda la sera stessa bisognerebbe fare un golpe. Ipotesi ancora prematura. Nel frattempo il premier del fare ha già sparso minacce e pressioni per mezza Italia e inviato in missione Letta da Calabrò, presidente dell'Autorità. Un copione simile si rivede ogni volta che Annozero affronta le questioni giudiziarie del premier, per esempio nei giorni della deposizione del pentito Spatuzza. In questo caso scatta anche la rappresaglia sotto forma di editoriale di Minzolini. Quello che teme chi vuole dimezzarne la professionalità. Ponendo un affascinante quesito matematico: si può dimezzare lo zero assoluto?

Ma qui nello Zimba, nemmeno Zimbabwe, si può tutto. Nessuno si scandalizza. Il direttore del Tg1 sostiene che sia normale per un giornalista prendere ordini dal presidente del Consiglio. "Altrimenti che giornalista sarei?". Quando si dice una domanda retorica. I professori di liberalismo invitano, come sempre quando si tratta di persone di rispetto, a non criticare (ovvero: "linciare") nessuno prima che siano provati i reati in maniera definitiva. Quindi, mai. In Italia infatti i processi a potenti da decenni non giungono a sentenza definitiva. In compenso la libera informazione italiana può sempre sfogarsi mettendo alla gogna mediatica qualsiasi anonimo poveraccio incappato in un'indagine su un delitto di periferia, senza suscitare le ire dei garantisti nostrani. Così com'è un costume diffuso in Europa, nel Nord America e finanche in molte democrazie africane e asiatiche, esprimere giudizi etici e politici sui comportamenti delle figure pubbliche addirittura - sebbene alcuni opinionisti indigeni non lo crederanno mai - in assenza di veri e propri reati.

Se dalle intercettazioni e dai comportamenti concreti del commissario Innocenzi e del direttore Minzolini, funzionario e dipendente pubblico, emerge una totale sottomissione a un capo politico, non c'è alcun bisogno di aspettare l'esito dell'inchiesta di Trani per dare un giudizio del loro operato. Almeno se si vuole continuare a fingere di essere un paese normale.

Peraltro, a volte queste cose accadono anche in paesi meno normali. Tanto per rimanere in tema, tre anni fa a Bulawayo l'arcivescovo Pius Ncube, anche in seguito alla protesta dei fedeli, rassegnò le dimissioni per potersi difendere "più liberamente e senza coinvolgere la Chiesa" in un processo per reati sessuali. Bulawayo è nello Zimbabwe.

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« Risposta #41 inserito:: Marzo 27, 2010, 11:04:45 pm »

IL COMMENTO

Gli esiliati della tv

di CURZIO MALTESE

Lo Zimbabwe televisivo nel quale ci ha precipitato l'ossessione del premier ha toccato nella settimana elettorale il massimo di squallore. Alla vigilia del voto, i principali tg pubblici e privati, ormai entrambi di Berlusconi, sembravano cinegiornali dell'Istituto Luce.

La ponderatissima Autorità si è vista costretta a multare per centomila euro il Tg1 e il Tg5 a causa dell'evidente sproporzione di spazi dedicati al partito del premier rispetto all'opposizione. In crisi nei sondaggi, incapace ormai di riempire le piazze reali, Berlusconi ha deciso di occupare per intero la piazza mediatica, con un vero e proprio golpe televisivo. Per arrivare a questo risultato, ha dovuto stravolgere le regole come mai in precedenza, con una complicità strisciante della corte. La par condicio è stata tirata come un elastico fino a esplodere nella censura totale dei programmi scomodi. La natura mollemente governativa del Tg1 è stata geneticamente mutata fino a trasformarlo in una specie di supplemento video dei pieghevoli elettorali. Una vergogna mai toccata in mezzo secolo di Rai. Il principale telegiornale pubblico usato come un manganello contro la metà del Paese che non vota Berlusconi e che pure paga il canone, gli stipendi dei giornalisti galoppini e ora anche le salate multe procurate dalla loro mancanza di dignità professionale. Per tutte queste vicende, del resto, Berlusconi è indagato dalle procure per concussione e minacce.

Il tocco finale di grottesco è arrivato ieri sera con la puntata di Annozero costretta all'esilio sul web e sul satellite. La serata del Paladozza è stata bella e gioiosa, a parte qualche caduta di stile, ma rischia di essere consolatoria. Non basta qualche ora d'aria per evadere da questo carcere televisivo. È meglio non farsi illusioni su un rapido ritorno alla normalità, dopo le elezioni. Sia pure alla strana, anomala normalità del panorama dell'informazione italiana. C'è un disegno disperato ma preciso dietro l'occupazione governativa della piazza mediatica. La solita voglia autoritaria di arrivare allo stato d'eccezione permanente. La tentazione di cambiare il patto fra i cittadini, la Costituzione stessa, a colpi di gazebo e di televisione. L'ultimo, ma minaccioso, colpo di coda di un populismo ormai al capolinea.

© Riproduzione riservata (26 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Aprile 01, 2010, 09:45:37 am »

L'ex segretario sostiene che è necessario "ammettere la sconfitta".

"Non cadere nella trappola di Berlusconi"

Rifiuto dei processi: "Vizio nefasto la tendenza Conte Ugolino di distruggere la leadership dopo ogni voto"

Veltroni: "Aggressivo e popolare Così il partito può rinascere"

I temi da cui ripartire all'attacco: fine delle Province, nuova legge elettorale
con collegi uninominali, riduzione dei deputati e dei costi della politica

di CURZIO MALTESE


ROMA - Non è andato poi in Africa, come aveva ventilato. Ma, con un po' di pazienza, l'Africa sta arrivando qui. Partiti tribali, corruzione invincibile, "una generale e pericolosa rassegnazione", dice Walter Veltroni. Anche un certo cannibalismo dentro l'opposizione, al quale l'ex segretario dice di non voler partecipare. "Io i processi non li faccio, perché li ho subiti a suo tempo. Questa tendenza conte Ugolino per cui ogni risultato elettorale serve a distruggere la leadership è un vizio nefasto".

Ma intanto la sua analisi del voto è opposta a quella di Bersani. Quindi una certa tendenza conte Ugolino...
"Io chiedo solo che si guardi in faccia la realtà e si dica la verità. Bersani deve dare atto alle minoranze, a Franceschini anzitutto, di grande lealtà. Quando ero segretario io, e anche Franceschini, uscivano sparate sui giornali alla vigilia di ogni voto. Stavolta c'è stato il massimo d'unità nel Pd, e il massimo di divisioni nel Pdl. Eppure non è bastato. Ora la verità bisogna dirla, bisogna corrispondere allo stato d'animo dei nostri elettori. E la verità è che è andata male".

Avete perso, il Pd ha perso le regionali.
"Siamo fermi al risultato delle europee, il 26 per cento. Ma nel 2009 Berlusconi era in piena luna di miele con l'elettorato, veniva da un anno di successi, aveva tolto i rifiuti da Napoli, inscenato il miracolo del dopo terremoto a L'Aquila. Nell'ultimo anno è successo di tutto, Berlusconi è stato travolto da scandali personali e non solo, la crisi ha massacrato l'economia delle famiglie, il Pdl era lacerato da contrasti terribili. I sondaggi lo davano in forte declino. Lo stesso risultato del Pdl, è deludente. Ma il Pd non ha saputo strappare un voto in più. Perché?"

Già, perché?
"Partiamo dall'astensionismo, che, diversamente dal normale, ha colpito anche l'opposizione. C'è certo una componente di rabbia ma per me prevale la sfiducia, la disillusione. Il Pd deve incarnare un'alternativa credibile nella società. E' ricominciata la litania delle alleanze, viste come la panacea dei tutti i mali. Ma è nella società che si vince o si perde. Bisogna far capire che si costituisce una alternativa di valori e di programmi, non una alleanza dei no. Il riformismo è la più dura delle sfide e contiene una visione, una narrazione della società che deve essere alternativa alla destra. Obama ha saputo imporre la più grande riforma sociale della storia recente americana, sfidando le lobby interne ed esterne, andando avanti anche contro i sondaggi".

Scusi, ma lei il coraggio l'ha avuto? Alla fine non si è arreso alle lobby?
"Io mi sono arreso quando mi sono accorto che era impossibile fare quel partito aperto e animato da una ambizione maggioritaria che avrebbe richiesto, come tutti i progetti innovativi, quel tempo che le correnti non consentivano. In Italia ha vinto l'idea che il riformismo sia una versione moderata del pensiero unico. Col Lingotto noi avevamo provato a dipingere un riformismo vero, radicale, rischioso. Da lì per me bisogna ripartire".

Insomma, una sfida aperta alla destra non c'è stata.
"La destra ha tenuto, anche se Berlusconi un po' meno, perché comunica in ogni caso una visione chiara della società. Una promessa di cambiamento che è soltanto tale, non si realizza mai, ma intanto è suggestiva. Un fastidio per le regole che identifica un pezzo d'Italia, quella che festeggia ogni condono edilizio e ogni scudo fiscale. Noi non possiamo contrapporre a questo la riedizione dell'Unione, magari con l'aggiunta di Grillo. Occorre il disegno di un nuovo ordine sociale che per ora non c'è".

E invece quale dovrebbero essere le parole d'ordine?
"Esistono praterie da percorrere. Dobbiamo dire parole chiare contro la precarizzazione della società e non solo dei giovani. Per la riconversione ecologica dell'economia. Contro l'evasione fiscale. Per la semplificazione della burocrazia e della politica, a cominciare dall'abolizione delle Province. Per la legalità, per la difesa dell'istruzione pubblica, per la liberazione della Rai dai partiti. Questo dobbiamo dire e soltanto dopo vedere se Casini o Di Pietro sono d'accordo o no. C'è una grande domanda di cambiamento, nonostante tutto. Sono d'accordo con Vendola, la società è assai più ricca ed energica di quanto siano oggi le strutture dei partiti".

A proposito, l'unica vittoria vera del centrosinistra, in Puglia, Vendola l'ha ottenuta nonostante il Pd, che gli aveva fatto una lunga guerra ed è ridotto nel voto ai minimi storici.
"Senza Vendola, saremmo sette a sei per la destra, confinati in una enclave. E' stato un grande successo personale. Spero che le strade di tutti noi si incrocino di nuovo. Sarebbe un modo di tornare alla concezione per cui questo partito è nato, quello di ospitare anime diverse dentro lo stesso progetto riformista".ù

La candidatura esterna della Bonino non ha avuto invece successo nel Lazio. Si sente responsabile del disastro fra Roma e Lazio di questi due anni?
"A Roma quando mi sono candidato come premier, il Pd ha raggiunto il 40 per cento dei voti. E venivamo da sette anni meravigliosi nei quali avevamo riconquistato Provincia, Regione e tutti i municipi meno uno. So che lo sport interno è stato in questo anno caricare tutto sulle mie spalle. Le spalle di uno che si è dimesso e dell'unico che non ha alcun incarico. Io prima che si candidasse Emma pensavo che Zingaretti fosse il candidato ideale. Poi si è scelto diversamente. Non sono mai stato neanche consultato. Ho difeso la candidatura della Bonino, ho fatto campagna per lei".

Ma Zingaretti non ha rifiutato lui?
"Bisogna vedere se e come gliel'hanno chiesto. Ma ripeto, lasciamo perdere le recriminazioni. Bisogna guardare avanti".

Avanti ci sono tre anni senza elezioni. E' un problema più per voi o per Berlusconi?
"Paradossalmente per Berlusconi, perché senza elezioni gli toccherebbe governare. E ciò che lo appassiona di più sono le campagne elettorali, nelle quali viviamo da quindici anni. Lo dice chi pensa che l'antiberlusconismo non basta, ma che una opposizione forte e onesta sia uno strumento dell'alternativa. Quindi s'inventerà qualcosa, anzi lo sta già facendo".

Tipo un bel referendum sul presidenzialismo?
"Condito con proposte ragionevoli, ma strumentali. Per esempio la riduzione del numero dei parlamentari e la Camera delle Regioni. Fingerà di volere un dialogo, e poi farà da solo, puntando sul plebiscito popolare. Un trappolone nel quale non bisogna cadere".

E quindi che cosa dovreste fare voi del Pd?
"Partire noi all'attacco, proporre noi le cose ragionevoli. E popolari. Fine delle Province, nuova legge elettorale con collegi uninominali, riduzione dei parlamentari e del costo della politica, comprese le retribuzioni di parlamentari e consiglieri regionali. Più forti poteri al premier per garantire una democrazia che governi. Ma più forti poteri al Parlamento per impedire derive monarchiche".

A dirlo non ci vuole nulla, lo dicono tutti da vent'anni
"Bene, allora impegniamoci a votarlo subito, da domani. Ma il presidenzialismo alla sudamericana, come lo concepisce Berlusconi, quello non si discute neppure".
 

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« Risposta #43 inserito:: Aprile 22, 2010, 09:15:19 am »

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Quella crepa nel potere assoluto

di CURZIO MALTESE

NEL PESTAGGIO mediatico organizzato contro Gianfranco Fini il principale argomento degli zelanti cortigiani del Cavaliere è costituito dai rapporti di forza. Berlusconi ha tutto il potere, il governo, i soldi, il consenso. Fini ha soltanto una cinquantina di fedelissimi. Quindi, nella logica servile, il premier ha ragione e lo sfidante torto, l'uno ha già vinto e l'altro è "disperato". Ma i rapporti di forza non sono tutto, nella vita e perfino in politica. La partita è appena cominciata. E Fini può vincerla. Perché ha dalla sua, oltre alla piccola truppa, qualcosa che nella politica italiana s'è ormai perso: un progetto. Un grande progetto. Quello di creare anche in Italia una destra normale, europea, repubblicana, chiamatela come vi pare, ma insomma più simile ai conservatori inglesi o francesi o tedeschi di quanto non sia il partito ad personam escogitato sul predellino da Berlusconi.

È un progetto che ha una sua forza intrinseca, storica, che va oltre i numeri da riunione carbonara. Già oggi Berlusconi sarà costretto ad accettare una prima normalizzazione del Pdl. La costituzione di una componente interna di dissenso. Qualcosa che nelle sue aziende e nei suoi partiti, equivalenti per lui, non pensava di dover mai sopportare. Una minoranza interna con la quale il governo dovrà fare i conti ogni giorno, per mille giorni, da qui alla fine della legislatura. Una faccenda seria sul piano pratico e uno sfregio tremendo, su quello simbolico, al monumento equestre che il Cavaliere pensava di essersi ormai costruito. Si spiega la reazione rabbiosa del premier, la terribile metafora della metastasi. Ma il cancro della seconda repubblica, per rimanere all'ossessione oncologica del premier, avanza per altri motivi. E l'iniziativa di Fini li illustra tutti.

Il Pdl è un partito invecchiato, come il suo leader, e privo di progetti. La politica è delegata alla Lega. Le strombazzate riforme sono una panzana. Berlusconi quasi lo ammette e, dopo la vittoria, è tornato come sempre a occuparsi di giustizia e televisioni. Non esiste nel partitone di maggioranza relativa, sempre più relativa, uno straccio d'idea, a parte Silvio for President. Su tasse, immigrazione, temi etici, tutto il Pdl, da Berlusconi in giù, si limita a far l'eco agli slogan di Bossi. Quasi non avesse più una visione della società e del Paese. Fini invece ne ha una ed è assai diversa da quella della Lega. Se si tratta di discutere a destra di pillola abortiva o di federalismo fiscale, conta per i media l'opinione di un leghista o di un finiano. Il berlusconismo è presente nel dibattito politico soltanto grazie ai famosi rapporti di forza, al dominio del capo sulle televisioni e ogni volta che il premier avanza una proposta di legge sugli affari suoi, in particolare giudiziari. Per il resto, l'afasia è totale.

Questa assenza di politica nel Pdl, cui per fortuna di Berlusconi corrisponde un vuoto parallelo nel Pd, ha prodotto in soli due anni una colossale emorragia di consensi. In parte e in poche regioni del Nord intercettati dalla Lega. Per il resto, si tratta di un enorme mercato di voti in libertà. Il primo partito italiano, con otto milioni di aderenti, è diventato quello dei delusi da Pdl e Pd. Ed è a questo che Fini guarda in prospettiva.

Oggi Fini può accontentarsi di far scendere Berlusconi dal cavallo e costringerlo a trattare come un leader normale, abbandonando per sempre l'idea di coronare la propria resistibile ascesa con il plebiscito presidenziale. Ma in futuro i rapporti di forza possono cambiare.
Il futuro in politica arriva all'improvviso, quando meno te l'aspetti. Fu così quando Berlusconi comparve all'orizzonte della politica e sarà così quando scomparirà.

Visto che almeno al futuro il Cavaliere non ha davvero più nulla da dire.

(22 aprile 2010) © Riproduzione riservata

da repubblica.it

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« Risposta #44 inserito:: Luglio 02, 2010, 09:41:49 pm »

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La battaglia al malaffare

di CURZIO MALTESE


L'arrivo a sorpresa di Roberto Saviano è stato il momento più forte della manifestazione di ieri a piazza Navona contro la legge bavaglio.

Parole semplici, quelle dell'autore di Gomorra, senza slogan, senza retorica, come la parole di tanti giovani della rete che si sono appassionati a questa battaglia civile, di cittadini, non dei giornalisti.

Parole giuste per togliere la maschera di tutela della privacy a una legge semplicemente e indecentemente liberticida. L'unica tutela che si vuole con questa legge è la privacy del malaffare. L'unica divisione che alimenta nel Paese non è fra destra e sinistra, ma fra "le persone perbene e i banditi". Stavolta l'appello populista, il referendum permanente che è lo stilema del berlusconismo, non funzionano, sono sospesi. Non è il popolo, alle prese con ben altri problemi, a volere una legge scudo per i corrotti contro il lavoro di magistrati e giornalisti. Non è il popolo, nemmeno di destra, a non voler più essere informato sulle case di Scajola, le mazzette di Brancher, sui favori di Dell'Utri agli amici degli amici di Dell'Utri, sulle mille altre ruberie di una classe dirigente corrotta che poi chiede sacrifici ai cittadini per uscire dalla crisi. Sono soltanto loro, i signori del malaffare, ad avere bisogno disperato di uno scudo contro la ricerca della verità, tanto da stravolgere l'agenda parlamentare per approvarlo in fretta e furia, meglio se quando i cittadini sono in vacanza.

Così agiscono appunto i ladri. Tanto più che diventa ogni giorno più difficile darla a bere alla famosa gente, nonostante tutte le loro televisioni e le legioni di giornalisti servi e contenti. È difficile convincere le istituzioni, dal Quirinale alla presidenza della Camera, perfino gli stessi parlamentari della maggioranza, dell'assoluta, quasi sacra urgenza di un'altra guerra di casta contro magistrati e giornalisti nell'Italia dilaniata da disoccupazione e sfiducia.

E' una legge anti-italiana. Sono loro gli anti-italiani, ha detto Saviano. Diffamano l'immagine del nostro Paese all'estero, riducendola a quella di una repubblica delle banane. Per due motivi. Entrambi evidenti dalle reazioni di queste settimane. Il primo è che la classe dirigente al potere non si riconosce nel valore comune della Costituzione. Non esiste d'altra parte una democrazia al mondo dove il governo, sia di destra o di sinistra, attacchi un giorno sì e l'altro pure il patto comune. Il berlusconismo si conferma sempre di più nella sua natura eversiva, ormai apertamente anti-costituzionale. Vengono da un'altra storia, parlano un'altra lingua, hanno altri valori. Hanno altri eroi. Un mafioso assassino e trafficante d'eroina, per esempio. Scambiano l'omertà mafiosa per coraggio, così come scambiano la censura per privacy.

L'altro motivo, strettamente collegato, è che abbiamo al potere la classe dirigente più corrotta dell'Occidente e della storia repubblicana. Non sono impressioni o valutazioni politiche. Sono dati. Ai tempi di Tangentopoli si calcolava che gli italiani versassero alla corruzione politica ogni anno il valore di "un'altra finanzaria". Oggi, secondo la Corte dei Conti, la tassa della corruzione è di sessanta miliardi all'anno, il triplo di una finanziaria.
Questi sono i fatti, che nessun bavaglio ci impedirà di continuare a raccontare. La giornata di piazza Navona è stato un passaggio di una battaglia che continuerà nelle piazze, nelle istituzioni, in Parlamento, sui giornali, sulla rete. Finché non saremo tutti rassegnati all'impunità dei banditi, oppure finché la casta non si arrenderà alle regole della democrazia.

(02 luglio 2010) © Riproduzione riservata
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