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Autore Discussione: CURZIO MALTESE. La verità dell'ex  (Letto 43377 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Marzo 02, 2012, 11:44:01 pm »

L'INTERVISTA

Veltroni: "Basta tabù sull'articolo 18 Non lasciamo Monti alla destra"

Le proposte dell'ex leader democratico.

Nel Pd ricette vecchie, bisogna sciogliere tutte le correnti, far ripartire l'iniziativa politica del partito. E mettere a frutto il riformismo di Monti

di CURZIO MALTESE

ROMA - Sciogliere tutte le correnti del Pd, a cominciare dalla sua. Rilanciare l'iniziativa politica del partito sulle riforme, la lotta alla criminalità e alla corruzione politica, mettendo a frutto il riformismo di Monti per avvicinare la "rivoluzione democratica" che deve essere l'obiettivo del Pd. Cambiare subito la Rai ed escludere i partiti da tutte le nomine degli enti pubblici. Le proposte di Walter Veltroni sono sassi lanciati nello stagno della politica commissariata dal governo dei tecnici, destinate a far discutere anzitutto un Pd ancora imbambolato dalla batosta delle primarie genovesi.

Veltroni, non è un po' eccessivo definire riformismo la stagione di Mario Monti?
"No. Sono bastati tre mesi per capire che non si tornerà indietro. Circola nel Pd, ancor più nel Pdl, l'idea che questo sia solo un governo d'emergenza, una parentesi dopo la quale si tornerà ai riti e ai giochi della seconda repubblica o peggio della prima. Qualcuno dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centro destra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni. Ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell'opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l'ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato
da Berlusconi e deriso".

È d'accordo con il governo anche sull'articolo 18?
"Sono d'accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l'Italia per decenni. Il nostro è un paese rissoso e immobile e perciò a rischio. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi".

Non risponde sull'articolo 18.
"Totem e tabù si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra".

Quindi, figurarsi se non è d'accordo con la lotta all'evasione, la revisione delle spese militari, l'Ici alla Chiesa.
"Si diceva che questo era il governo delle lobbies e del Vaticano. Come se queste non pesassero nei governi politici. Fatto sta che Monti ha deciso bene sull'Ici per gli immobili della chiesa, sugli F 35, sta facendo bene nella lotta all'evasione, che potrà portare ad una riduzione di pressione fiscale. I blitz a Cortina, Portofino, Sanremo sono segnali forti e chiari. Come lo è stato far pagare per 16 miliardi i possessori di patrimonio. Devo ricordare che quando al Lingotto proposi la patrimoniale nel mio stesso partito ci fu chi si precipitò a dire che non era la posizione del Pd".

Che cos'altro si aspetta dal metodo Monti?
"La sua sfida è la crescita, uno sviluppo di qualità sociale, culturale e ambientale. E poi che consideri priorità la lotta alla mafia, che si sta mangiando mezzo paese, dalla Sicilia a Bordighera, da Reggio Calabria a Milano. Bisogna intervenire subito e stroncare le complicità con una nuova e durissima legge contro la corruzione. Il secondo campo è la Rai. Lo dico dal 2008: la Rai deve avere un amministratore delegato e un cda che si riunisce tre volte l'anno. Sento che ora si vuole limitare il numero dei consiglieri d'amministrazione a cinque, ma con alcuni sempre di nomina parlamentare. È sbagliato. I partiti devono smetterla di nominare persone agli enti pubblici, sia la Rai o l'ultima Asl. I partiti servono a fare proposte e programmi, non nomine. Via dai consigli d'amministrazione".

Chi dovrebbe nominare il prossimo consiglio Rai?
"I presidenti di Camera e Senato, scegliendo fra personalità dell'impresa e della cultura con requisiti adeguati. In questo momento c'è bisogno di un servizio pubblico vero, meno show di quart'ordine e più produzione dell'industria culturale nazionale. E più intelligenza, se la parola qualità spaventa".

Ma se Monti e i suoi professori sono tanto bravi, allora lei, voi, il Pd, i partiti in generale, che ci stanno a fare?
"Il Pd ha il merito di aver fatto nascere questo governo. Ora dovrebbe sfruttare questa immensa occasione per rilanciare un grande programma riformista. Dire agli italiani che non torna nulla del passato, compresi i governi rissosi dell'Unione. Ma il riformismo radicale, la modernità equa che devono affrontare una recessione pericolosa dal punto di vista sociale e democratico".

E invece il Pd che sta facendo?
"Si discute di liberismo e di ritorno al socialismo. Invece siamo fuori dal Novecento. Siamo in un passaggio storico inedito. E tornano vecchie ricette e coperte apparentemente rassicuranti. Si parla poco della disperazione sociale e troppo delle alleanze future. Sento dire che dopo Monti si potrà tornare finalmente al tempo dei partiti. Ma quel tempo gli italiani l'hanno conosciuto già. O la politica riforma se stessa e ritrova le sue grandi missioni e il respiro dei "pensieri lunghi" e la coscienza dei limiti ai quali si deve arrestare o prevarranno populismo e tecnocrazia. E poi ci si divide, come si è visto a Genova, col risultato di allontanare i cittadini e di perdere le primarie".

L'invito all'unità del partito non risulta un po' paradossale da parte di uno che litiga con D'Alema da trent'anni?
"Potrei risponderle che con D'Alema si discuteva di cose serie, se fondare un partito democratico o puntare sul modello della socialdemocrazia, se far vivere o morire il governo Prodi. Non litigavamo sulle nomine. Ma lasciamo perdere, quel tempo è passato. Oggi sono il primo a chiedere di sciogliere le correnti, tutte, compresa la mia. Che non si è mai formata per la mia conosciuta idiosincrasia al tema. I partiti devono essere luoghi aperti, non trincee di strutture che diventano pure macchine di potere. Ci vuole più pluralismo e meno correnti. La discussione politica è vitale e bella ma nel Pd le correnti, comprese le numerose componenti della maggioranza di Bersani, stanno allontanando persone che vogliono far vivere le loro idee senza sentirsi chiedere "con chi stai". Fu questa una delle ragioni delle mie dimissioni, proprio tre anni fa'".

Alle elezioni manca ancora un anno. Quali rischi corre il Pd da qui al voto?
"Io vedo le possibilità. La fine del Berlusconismo libera energie e apre spazi immensi. Il profilo di un partito riformista, innovatore, aperto, unito può raccogliere il lavoro di questi mesi e presentarsi come il soggetto di un tempo nuovo. La foto di Vasto fu scattata quando c'era Berlusconi. Ora pensiamo a noi. Non vorrei che Casini facesse, in un nuovo centro destra, l'operazione che noi avevamo immaginato per il centro sinistra e che noi si rifluisca, come nel 94. Perderemmo così un'altra occasione, forse l'ultima, di far conoscere all'Italia una vera e profonda stagione di riforme".

(19 febbraio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/19/news/veltroni_articolo_18-30134125/?ref=HREC1-3
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« Risposta #61 inserito:: Aprile 18, 2012, 04:01:04 pm »

REPORTAGE

Nel Veneto tradito da Bossi "Ora Maroni deve trattare con noi"

Sul muro dove c'erano scritte contro Roma oggi si legge "Lega ladrona" su uno striscione.

Il bossiano Gobbo non si nasconde: "Avanti così e il partito implode"

dal nostro inviato CURZIO MALTESE


TREVISO - Ogni maledetto venerdì in un'azienda del trevigiano o del vicentino o del bellunese, una delle aree più ricche d'Europa, un imprenditore aspetta che escano gli operai e la segretaria, chiude il libro contabile e apre il cassetto con la pistola o scende nel capannone e si impicca. Perché non ha più la forza di andare in piazza, al bar, a messa, di incrociare lo sguardo dell'operaio amico o del cognato impiegato senza stipendio da mesi.

Dall'inizio della crisi gli imprenditori e gli artigiani suicidi in Veneto sono cinquantadue, dodici dall'inizio dell'anno. Quasi sempre a fine settimana e fine mese, dopo l'estremo tentativo di rimettere in moto gli affari, l'ultimo sollecito di pagamento ricevuto o inviato, l'ultima inutile visita in banca. "Nelle assemblee ormai ci guardiamo intorno, chi sarà il prossimo?" dice uno dei presenti l'altro giorno a Vigonza, vicino a Padova, alla fondazione di "Speranzaallavoro", l'associazione dei familiari degli imprenditori suicidi, guidata da due giovani orfane, Laura Tamiozzo e Flavia Schiavon.

In questo clima si può immaginare come il laborioso Nord Est possa accogliere il bollettino quotidiano della padanopoli di via Bellerio, i lingotti d'oro di Francesco Belsito, i diamanti di Rosi Mauro, i rotoli di euro dei figli di Bossi, gli appartamenti di famiglia. Perfino il bossiano più ortodosso, Gian Paolo Gobbo, segretario regionale della Lega ("Il mio imam in Veneto" dice il Senatur) allarga le braccia e ammette: "Avanti così e la Lega implode, muore. Ci mandano a casa tutti".

Sul ponte di Caorle, una specie di dazebao dei malumori locali, dove negli anni Ottanta avevo letto il primo slogan proto leghista ("Roma ne ciucia el sangue"), oggi campeggia un definitivo: "LEGA LADRONA". Quella scritta l'ha vista anche Bepi Covre, leghista eretico ma della prima ora, ex sindaco di Oderzo e fondatore con Cacciari e l'indimenticato Giorgio Lago del movimento dei sindaci anni Novanta, silurato in tandem da Bossi e D'Alema. Vado a trovarlo nella sua fabbrica, mobili e ferramenta. "Come va? Resisto. Non ho fatto un'ora di cassa integrazione. L'export tira da matti, ma il mercato interno è roba triste. Ci facciamo uno spritz?". Al secondo spritz affiora tutta l'amarezza: "Noi leghisti di antica data alla diversità ci credevamo davvero. Siamo nati quando i vecchi partiti morivano di corruzione e ora vedere questi scenari squallidi, la corte, le badanti, i profittatori, ogni giorno è una coltellata. Certo, la puzza di bruciato si sentiva da un po', c'era insofferenza nella base per quel coprire in tutto e per tutto Berlusconi. Quando è scoppiato lo scandalo dei festini io che ho una figlia dell'età di Ruby ho scritto una lettera aperta su un giornale e parecchie chiuse ai dirigenti. Ma nessuno si aspettava di scoprire tanto marcio intorno a Bossi. La Lega è stata nobile con lui quando ha avuto il colpo, l'ha aspettato, sostenuto. In qualsiasi altro partito avrebbero affilato i coltelli per la successione. E lui li ripaga così. Come andrà a finire? Chissà. Un pezzo di Lega terrà nei territori, qui in Veneto gli amministratori sono a posto, le città ben condotte, il consenso è radicato. Ma a livello nazionale il fallimento del progetto è sotto gli occhi di tutti. Bisogna ricominciare, ma stavolta le decisioni non possono essere prese tutte fra Varese e Bergamo. La nuova Lega di Maroni dovrà trattare coi veneti, a cominciare da Zaia e Tosi, e mi pare lo stia già facendo".

Nelle pieghe dello scontento riemergono antiche ferite e l'eterna vocazione autonomista del Veneto, prima regione leghista nei voti e ultima a contare nelle decisioni. "Colonizzati due volte, anzi tre, da Roma, Milano e Varese" dicono i vecchi "lighisti". Quelli che ricordano la Liga Veneta, la "madre di tutte le leghe", fondata nel 1980 e la prima a portare eletti in Parlamento. L'annessione dei fratelli maggiori veneti è stato il primo machiavellico capolavoro dell'ascesa di Umberto Bossi ed è una storia che spiega bene il trionfo del virtuale nella seconda repubblica. Il vantaggio paradossale di Bossi è stato infatti il totale sradicamento della sua idea di patria immaginaria. La Padania è un falso mito senza storia e la Serenissima ne ha troppa. I padani non sono mai esistiti, mentre i veneti sono un popolo da tremila anni e da allora si lamentano dei vicini. I lombardi sono dialetti e il veneto è una lingua da prima dell'italiano. Il sole padano è paccottiglia pseudo celtica e il Leone alato è uno dei grandi simboli della civiltà europea. Ma proprio perché se l'era inventata lui, Bossi s'è messo in tasca la Padania e se l'è venduta e rivenduta a piacere sul mercato politico, mentre i fratelli veneti s'accoltellavano sull'eredità della Serenissima.

A Gianfranco Miglio che gli consigliava il "divide et impera" in Veneto alla vigilia del primo congresso federale, a Pieve Emanuele nel 1991, Bossi che conosceva i suoi rissosi polli rispose: "Non c'è bisogno, ci pensano da soli". Per avere un'idea del grado di conflittualità interna agli autonomisti veneti, vale la pena di ricordare la loro più famosa impresa, l'occupazione del campanile di San Marco da parte dei "Serenissimi" nella notte fra l'8 e il 9 maggio 1997. Un'immagine finita sulle prime pagine di tutto il mondo. Ma pochi conoscono i retroscena, narrati da Francesco Jori, allievo di Lago, nella bellissima inchiesta "Dalla Liga alla Lega". L'operazione San Marco parte come una spedizione militare in grande stile, con decine di militanti e diversi "tanki", mezzi di trasporto paramilitari. Soltanto che alla fine si presentano in otto, con un trattore mascherato da panzer. Il capo, l'"ambasciatore serenissimo" che avrebbe dovuto leggere la dichiarazione d'indipendenza dal campanile di San Marco, si dilegua la notte stessa, rincorso dalle chiamate disperate degli altri. All'alba vengono arrestati tutti. Durante i processi litigano fra di loro e con gli avvocati, un paio si pentono e in cinque patteggiano. All'uscita dal carcere smettono di frequentarsi.

Naturalmente Franco Rocchetta e Marilena Marin, la coppia leader per un decennio, papà e mamma della Liga veneta, buttati fuori da Bossi nel '94 ("ma ce n'eravamo andati noi da sei mesi") hanno un'altra versione e me la raccontano in una trattoria di Conegliano, davanti a prosecco e baccalà d'ordinanza. "Voi giornalisti avete spiegato la fine della Liga con le solite baruffe chiozzotte, ma sono balle" spiega Rocchetta "La verità è che Bossi, con alle spalle le teorie di Miglio, vate della Lombardia come Prussia del Nord, ha tramato fin dal principio per prendersi l'egemonia del movimento. E se l'è preso manovrando i soldi del partito, esattamente come aveva fatto prima Craxi nel Psi. La Lega Lombarda era appena nata e già intascava duecento milioni di tangenti Enimont. Poi hanno dato la colpa al "pirla" Patelli, come ora cercano di fare con Belsito. Ma uno che dà la cassa di partito a uno come Belsito, perché lo fa? Non mi stupisce neppure la debolezza di Bossi nei confronti dell'amica Rosi Mauro. E' lo stesso tipo di debolezza che lo portò a nominare la ragazzotta, in seguito show girl, Irene Pivetti alla terza carica dello Stato". Marilena Marin rincara la dose: "Nel '94 Berlusconi, che ha i suoi lati comici, ci chiese che cos'era questo famoso federalismo e di fargli avere una memoria sulla faccenda. Malafede? Non credo. A lui interessava scampare ai processi e salvare le tv, per il resto era disposto a tutto, al federalismo, alla riforma fiscale, perfino al ritorno della Serenissima. In ogni caso, noi gli portammo il dossier, Bossi mai". Conclusione di Rocchetta: "A Bossi del federalismo non è mai fregato niente. E' stato al governo dieci anni e le uniche riforme federaliste le ha fatte l'Ulivo con i decreti Bassanini e la riforma del titolo V della Costituzione, soltanto che sono troppo stupidi per rivendicarla e anzi se ne vergognano. Bossi ha replicato con la devolution, che è una solenne pagliacciata".

Papà e mamma Liga avranno i loro rancori da mettere in conto, ma nel grande Nord Est i tamburi della rivolta autonomista hanno ricominciato a battere da Verona a Belluno. Se le elezioni di primavera andranno come si prevede, un crollo della Lega romanizzata in Lombardia e la tenuta della Lega dei sindaci in Veneto, anche grazie alle liste civiche che Bossi aveva proibito, Roberto Maroni dovrà tornare nella culla del leghismo a firmare un nuovo patto fra lombardi e veneti.

(18 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/18/news/veneto_tradito_bossi-33495824/
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« Risposta #62 inserito:: Aprile 21, 2012, 03:58:42 pm »

REPORTAGE

Nel Veneto tradito da Bossi "Ora Maroni deve trattare con noi"

Sul muro dove c'erano scritte contro Roma oggi si legge "Lega ladrona" su uno striscione.

Il bossiano Gobbo non si nasconde: "Avanti così e il partito implode"

dal nostro inviato CURZIO MALTESE


TREVISO - Ogni maledetto venerdì in un'azienda del trevigiano o del vicentino o del bellunese, una delle aree più ricche d'Europa, un imprenditore aspetta che escano gli operai e la segretaria, chiude il libro contabile e apre il cassetto con la pistola o scende nel capannone e si impicca. Perché non ha più la forza di andare in piazza, al bar, a messa, di incrociare lo sguardo dell'operaio amico o del cognato impiegato senza stipendio da mesi.

Dall'inizio della crisi gli imprenditori e gli artigiani suicidi in Veneto sono cinquantadue, dodici dall'inizio dell'anno. Quasi sempre a fine settimana e fine mese, dopo l'estremo tentativo di rimettere in moto gli affari, l'ultimo sollecito di pagamento ricevuto o inviato, l'ultima inutile visita in banca. "Nelle assemblee ormai ci guardiamo intorno, chi sarà il prossimo?" dice uno dei presenti l'altro giorno a Vigonza, vicino a Padova, alla fondazione di "Speranzaallavoro", l'associazione dei familiari degli imprenditori suicidi, guidata da due giovani orfane, Laura Tamiozzo e Flavia Schiavon.

In questo clima si può immaginare come il laborioso Nord Est possa accogliere il bollettino quotidiano della padanopoli di via Bellerio, i lingotti d'oro di Francesco Belsito, i diamanti di Rosi Mauro, i rotoli di euro dei figli di Bossi, gli appartamenti di famiglia. Perfino il bossiano più ortodosso, Gian Paolo Gobbo, segretario regionale della Lega ("Il mio imam in Veneto" dice il Senatur) allarga le braccia e ammette: "Avanti così e la Lega implode, muore. Ci mandano a casa tutti".

Sul ponte di Caorle, una specie di dazebao dei malumori locali, dove negli anni Ottanta avevo letto il primo slogan proto leghista ("Roma ne ciucia el sangue"), oggi campeggia un definitivo: "LEGA LADRONA". Quella scritta l'ha vista anche Bepi Covre, leghista eretico ma della prima ora, ex sindaco di Oderzo e fondatore con Cacciari e l'indimenticato Giorgio Lago del movimento dei sindaci anni Novanta, silurato in tandem da Bossi e D'Alema. Vado a trovarlo nella sua fabbrica, mobili e ferramenta. "Come va? Resisto. Non ho fatto un'ora di cassa integrazione. L'export tira da matti, ma il mercato interno è roba triste. Ci facciamo uno spritz?". Al secondo spritz affiora tutta l'amarezza: "Noi leghisti di antica data alla diversità ci credevamo davvero. Siamo nati quando i vecchi partiti morivano di corruzione e ora vedere questi scenari squallidi, la corte, le badanti, i profittatori, ogni giorno è una coltellata. Certo, la puzza di bruciato si sentiva da un po', c'era insofferenza nella base per quel coprire in tutto e per tutto Berlusconi. Quando è scoppiato lo scandalo dei festini io che ho una figlia dell'età di Ruby ho scritto una lettera aperta su un giornale e parecchie chiuse ai dirigenti. Ma nessuno si aspettava di scoprire tanto marcio intorno a Bossi. La Lega è stata nobile con lui quando ha avuto il colpo, l'ha aspettato, sostenuto. In qualsiasi altro partito avrebbero affilato i coltelli per la successione. E lui li ripaga così. Come andrà a finire? Chissà. Un pezzo di Lega terrà nei territori, qui in Veneto gli amministratori sono a posto, le città ben condotte, il consenso è radicato. Ma a livello nazionale il fallimento del progetto è sotto gli occhi di tutti. Bisogna ricominciare, ma stavolta le decisioni non possono essere prese tutte fra Varese e Bergamo. La nuova Lega di Maroni dovrà trattare coi veneti, a cominciare da Zaia e Tosi, e mi pare lo stia già facendo".

Nelle pieghe dello scontento riemergono antiche ferite e l'eterna vocazione autonomista del Veneto, prima regione leghista nei voti e ultima a contare nelle decisioni. "Colonizzati due volte, anzi tre, da Roma, Milano e Varese" dicono i vecchi "lighisti". Quelli che ricordano la Liga Veneta, la "madre di tutte le leghe", fondata nel 1980 e la prima a portare eletti in Parlamento. L'annessione dei fratelli maggiori veneti è stato il primo machiavellico capolavoro dell'ascesa di Umberto Bossi ed è una storia che spiega bene il trionfo del virtuale nella seconda repubblica. Il vantaggio paradossale di Bossi è stato infatti il totale sradicamento della sua idea di patria immaginaria. La Padania è un falso mito senza storia e la Serenissima ne ha troppa. I padani non sono mai esistiti, mentre i veneti sono un popolo da tremila anni e da allora si lamentano dei vicini. I lombardi sono dialetti e il veneto è una lingua da prima dell'italiano. Il sole padano è paccottiglia pseudo celtica e il Leone alato è uno dei grandi simboli della civiltà europea. Ma proprio perché se l'era inventata lui, Bossi s'è messo in tasca la Padania e se l'è venduta e rivenduta a piacere sul mercato politico, mentre i fratelli veneti s'accoltellavano sull'eredità della Serenissima.

A Gianfranco Miglio che gli consigliava il "divide et impera" in Veneto alla vigilia del primo congresso federale, a Pieve Emanuele nel 1991, Bossi che conosceva i suoi rissosi polli rispose: "Non c'è bisogno, ci pensano da soli". Per avere un'idea del grado di conflittualità interna agli autonomisti veneti, vale la pena di ricordare la loro più famosa impresa, l'occupazione del campanile di San Marco da parte dei "Serenissimi" nella notte fra l'8 e il 9 maggio 1997. Un'immagine finita sulle prime pagine di tutto il mondo. Ma pochi conoscono i retroscena, narrati da Francesco Jori, allievo di Lago, nella bellissima inchiesta "Dalla Liga alla Lega". L'operazione San Marco parte come una spedizione militare in grande stile, con decine di militanti e diversi "tanki", mezzi di trasporto paramilitari. Soltanto che alla fine si presentano in otto, con un trattore mascherato da panzer. Il capo, l'"ambasciatore serenissimo" che avrebbe dovuto leggere la dichiarazione d'indipendenza dal campanile di San Marco, si dilegua la notte stessa, rincorso dalle chiamate disperate degli altri. All'alba vengono arrestati tutti. Durante i processi litigano fra di loro e con gli avvocati, un paio si pentono e in cinque patteggiano. All'uscita dal carcere smettono di frequentarsi.

Naturalmente Franco Rocchetta e Marilena Marin, la coppia leader per un decennio, papà e mamma della Liga veneta, buttati fuori da Bossi nel '94 ("ma ce n'eravamo andati noi da sei mesi") hanno un'altra versione e me la raccontano in una trattoria di Conegliano, davanti a prosecco e baccalà d'ordinanza. "Voi giornalisti avete spiegato la fine della Liga con le solite baruffe chiozzotte, ma sono balle" spiega Rocchetta "La verità è che Bossi, con alle spalle le teorie di Miglio, vate della Lombardia come Prussia del Nord, ha tramato fin dal principio per prendersi l'egemonia del movimento. E se l'è preso manovrando i soldi del partito, esattamente come aveva fatto prima Craxi nel Psi. La Lega Lombarda era appena nata e già intascava duecento milioni di tangenti Enimont. Poi hanno dato la colpa al "pirla" Patelli, come ora cercano di fare con Belsito. Ma uno che dà la cassa di partito a uno come Belsito, perché lo fa? Non mi stupisce neppure la debolezza di Bossi nei confronti dell'amica Rosi Mauro. E' lo stesso tipo di debolezza che lo portò a nominare la ragazzotta, in seguito show girl, Irene Pivetti alla terza carica dello Stato". Marilena Marin rincara la dose: "Nel '94 Berlusconi, che ha i suoi lati comici, ci chiese che cos'era questo famoso federalismo e di fargli avere una memoria sulla faccenda. Malafede? Non credo. A lui interessava scampare ai processi e salvare le tv, per il resto era disposto a tutto, al federalismo, alla riforma fiscale, perfino al ritorno della Serenissima. In ogni caso, noi gli portammo il dossier, Bossi mai". Conclusione di Rocchetta: "A Bossi del federalismo non è mai fregato niente. E' stato al governo dieci anni e le uniche riforme federaliste le ha fatte l'Ulivo con i decreti Bassanini e la riforma del titolo V della Costituzione, soltanto che sono troppo stupidi per rivendicarla e anzi se ne vergognano. Bossi ha replicato con la devolution, che è una solenne pagliacciata".

Papà e mamma Liga avranno i loro rancori da mettere in conto, ma nel grande Nord Est i tamburi della rivolta autonomista hanno ricominciato a battere da Verona a Belluno. Se le elezioni di primavera andranno come si prevede, un crollo della Lega romanizzata in Lombardia e la tenuta della Lega dei sindaci in Veneto, anche grazie alle liste civiche che Bossi aveva proibito, Roberto Maroni dovrà tornare nella culla del leghismo a firmare un nuovo patto fra lombardi e veneti.

(18 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/18/news/veneto_tradito_bossi-33495824/
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« Risposta #63 inserito:: Settembre 19, 2012, 04:57:07 pm »

IL COMMENTO

La foresta dei Gattopardi

di CURZIO MALTESE

Che cos'è davvero l'antipolitica? Da mesi le forze politiche in Parlamento non trovano l'accordo invocato da tutti, dal Quirinale alle associazioni, dal primo cittadino all'ultimo di noi, per cambiare una porcata di legge elettorale invisa al 99 per cento degli italiani.
In compenso ieri, in un attimo, i partiti sono riusciti a bloccare quasi all'unanimità una piccola norma di trasparenza, l'obbligo di affidare a una società esterna il controllo delle spese dei gruppi parlamentari. Poca roba, si capisce, rispetto a quello che i partiti avrebbero potuto e dovuto fare di corsa dopo l'ondata di scandali che rischia di travolgerli, dai casi di Lusi e Belsito giù fino alle spese trimalcionesche della Regione Lazio, e cioè una vera riforma dei rimborsi elettorali e un taglio netto agli sprechi, con un severo controllo da parte di organismi terzi.

Insomma una spending review applicata ai costi della politica. Nulla di questo è avvenuto e la montagna di promesse aveva finora partorito lo sparuto topolino di una singola regola di trasparenza, per giunta applicata a una modesta fetta della torta di danaro pubblico destinata ai partiti, quella gestita dai gruppi della Camera. Ma anche questo minimo sforzo d'intercettare le richieste del Paese reale è parso al ceto politico un sacrificio troppo grande e ieri la norma ha rischiato di essere cancellata, prima dell'intervento di Fini e di Pd, Udc e Idv.
Negare l'obbligo di un controllo esterno per lasciarlo alla vigilanza degli  organi interni significa non cambiare nulla. Andare avanti com'è andata finora, ovvero malissimo.

Questa è antipolitica. Autentica, volgare e pericolosa. Quando si disprezza in questo modo la richiesta da parte dei cittadini di maggior pulizia e controllo sul danaro pubblico dato ai partiti, quando si maschera con la bandiera ideale dell'autonomia una sostanziale impunità, quando si predicano i sacrifici ogni giorno agli altri per barricarsi alla prima occasione intorno ai propri privilegi, non si rende soltanto un pessimo servizio alla democrazia e al Paese. Si pongono le basi per far saltare l'intero sistema politico, le fondamenta stesse del patto di rappresentanza fra cittadini e partiti. Che razza di professionisti della politica sono questi, in grado di trovare l'unanimità su scelte oggettivamente odiose, ma incapaci di raggiungere un accordo sulle riforme chieste a gran voce dall'intera opinione pubblica?

Viene quasi da chiedersi se non vi sia una logica in questa follia. Se una classe dirigente di gattopardi allergici al cambiamento non abbia deciso di blindarsi a palazzo, nel calcolo che comunque il movimentismo di Grillo non esprimerà mai un'alternativa di governo per una grande nazione, ma al massimo uno sfogatoio ai rancori accumulati da pezzi di società. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia catastrofica.

Occorre sperare che non sia vero. Sperare di trovarci di fronte all'ennesimo richiamo della foresta di sorde burocrazie di partito e vecchi gruppi dirigenti che hanno perso il contatto con la realtà, la volontà e i sentimenti dei cittadini. Credere che il ripensamento di alcuni partiti, il Pd, l'Udc, l'Idv, sia la sincera ammissione di un errore e non una retromarcia da opportunisti. Ma al solito, perché non ci avevano pensato prima? Non si pretende che la politica arrivi sempre prima della società. Per quanto proprio in questo consista la buona politica.
Ma neppure si può rassegnarsi all'idea che arrivi ogni volta molto dopo, quasi sempre troppo tardi e per giunta con l'aria di chi è trascinata a forza verso soluzioni chiare e oneste, cui naturalmente sfuggirebbe come il diavolo davanti all'acquasantiera. Non bastassero ogni mese un nuovo scandalo e un altro rinvio delle leggi contro la corruzione per alimentare cattivi pensieri e pessimi populisti.

(19 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/19/news/foresta_gattopardi-42818012/?ref=HRER1-1
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« Risposta #64 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:45:54 pm »

IL COMMENTO

Cinque sfidanti, un vincitore

Per la prima volta il Pd ha dato l'impressione di aver identificato un campo di valori condivisi da tutti, il comune denominatore che sembrava mancare ai tempi dei duelli fra Veltroni e D'Alema

di CURZIO MALTESE


IL VERO vincitore del confronto televisivo è stato il Partito democratico che esce dalla campagna per le primarie con un'immagine nuova. Per il primo partito italiano, finalmente un'immagine moderna e perfino compatta. L'altra sera i cinque candidati erano o sembravano d'accordo su tutto o quasi, comunque molto di più di quanto immaginassero i cittadini abituati a considerare il Pd delle cento anime e altrettante correnti, in perenne rissa. Erano d'accordo contro, che è più facile. Contro Marchionne e il ministro Fornero, contro la rincorsa al centro di Casini, al quale soltanto Bersani ha lasciato aperto uno spiraglio. Ma erano d'accordo anche a favore, per esempio a favore delle unioni gay e di una riforma del mercato del lavoro per favorire l'inserimento di donne e giovani. Naturalmente rimangono le differenze e sono diverse le storie. Ma per la prima volta il Partito democratico ha dato l'impressione di aver finalmente identificato un common ground, un campo di valori condivisi da tutti, il comune denominatore che sembrava mancare ai tempi dei duelli rusticani fra Veltroni e D'Alema o degli scontri ideologici, soprattutto sul tema dei diritti civili, fra ex democristiani e post comunisti. Tanto che non si capisce perché Nichi Vendola ne rimanga ancora fuori. In fondo il radicalismo del governatore della Puglia è meno distante dalla linea di Bersani di quanto non lo siano le ali estreme del Labour o dei socialisti francesi e tedeschi dai rispettivi leader. Senza contare che dentro il Pd l'intelligenza politica e la passione di Vendola potrebbero avere effetti molto positivi.

Piaccia o meno, magari per demeriti altrui più che per meriti propri, il Pd è oggi l'unica realtà solida in un panorama di partiti devastato dalla crisi. È l'unica forza che assomiglia a un partito classico delle democrazie occidentali. Non è un partito padronale all'italiana, come tutti gli altri, i vecchi e incistati al potere e i nuovi presunti alternativi. Dall'Idv, dove Di Pietro è il padrone di casa, alla lettera, al Movimento 5 Stelle, dove ormai Grillo sguinzaglia contro i dissidenti torme di avvocati a tutelare il marchio depositato, manco fosse la Nestlè o la CocaCola. Ma finora l'assenza di una personalità carismatica di demiurgo era vissuta dagli elettori come una carenza, l'indizio di una mancanza di personalità del Pd, simbolo di un indistinto spirito democratico che non era né questo né quello, né socialista né liberal, imprigionato nelle pesanti e in qualche modo inconciliabili eredità del Pci e della sinistra democristiana. Ma se perfino Tabacci riconosce i diritti civili degli omosessuali, se Vendola si apre alle ragioni della libera impresa, allora significa che esiste un'anima del Pd capace di imporsi ai singoli candidati e delimitare un territorio comune.

Certo, il Pd è stato molto favorito dal format del dibattito di Sky. Il confronto all'americana dell'altra sera sta a quella che sarà, si spera, la nuova politica esattamente come il talk show padronale degli ultimi vent'anni è stato ai partiti azienda e ai loro leader carismatici. Lo stesso Grillo sfrutta benissimo la simpatia dei conduttori per le personalità autoritarie. Vieta i talk show ai militanti perché sa di potervi andare quando e soprattutto come vuole, senza contraddittorio. Ma se si affermasse il modello Sky, sarebbe complicato anche per l'ultimo padrone della politica italiana rifiutare il confronto.

L'unico lato oscuro dello spettacolo democratico dell'altra sera è la reale possibilità dei candidati premier del centrosinistra di governare alla fine il Paese. La storia degli ultimi decenni è andata da un'altra parte. Dal '92 a oggi abbiamo avuto soltanto due politici puri a palazzo Chigi, Massimo D'Alema e Giuliano Amato. Il primo non è stato rimpianto da nessuno e il secondo si era presentato con la maschera del governo tecnico. Per il resto, da Berlusconi a Prodi, da Ciampi a Monti, si è ormai affermata l'idea che la politica non sia più capace in proprio di esprimere uomini di governo come nelle altre democrazie. Fra tutte le anomalie del sistema politico italiano, questa è la più difficile da risolvere. Diciamo la verità, la più motivata.

(14 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/primarie-pd/edizione2012/2012/11/14/news/cinque_sfidanti_un_vincitore-46595787/?ref=HRER2-1
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« Risposta #65 inserito:: Gennaio 05, 2013, 11:38:04 am »

Destra e sinistra pari non sono

di CURZIO MALTESE

Si sperava che la salita in politica di Mario Monti fosse, a partire dalla scelta delle parole, l'esatto contrario della discesa in campo di vent'anni fa. Un'azione in grado di elevare il tasso di modernità, concretezza e stile europeo nella lotta politica italiana, avvinghiata a furori ideologici d'altri tempi. Spostare insomma il centro del dibattito dall'eterno "chi" all'attuale "che cosa".

La speranza per ora è vana. Il Monti leader ha riscoperto il politichese e parla con il linguaggio di un vecchio democristiano. Con in aggiunta un po' di sussiego professorale.

Monti non dice che cosa bisogna fare per uscire dalla crisi, ma chi lo deve fare, ovviamente lui, e chi deve stare fuori. L'elenco è piuttosto lungo, dall'esperto di economia del Pd, Stefano Fassina, alla Cgil di Susanna Camusso, passando per Sel di Nichi Vendola. Il compito assegnato a Bersani, in vista di un'alleanza del centro con il Pd, è di "tagliare le estreme". Dev'essere una versione aggiornata del preambolo di Donat Cattin, se non che i dorotei mai avrebbero usato il termine "silenziare".

Quanto alla concretezza, Mario Monti si richiama all'agenda omonima, si definisce riformista e tanto basta. Peccato che non basti affatto. Riforme e ora anche "agenda Monti" sono parole che non significano nulla. Ormai anche gli amministratori di condominio, all'atto dell'insediamento, si dichiarano riformisti. Da un ventennio il riformismo è sulla bocca di tutti i leader politici italiani, nessuno escluso, e di riforme non se n'è vista l'ombra. Non si può neppure più ascoltare la retorica del "sinistra e destra ormai non esistono più". La destra esiste eccome, nessuno lo sa meglio degli italiani che l'hanno sperimentata al governo per molti anni, con i risultati noti. Ed esiste perfino la sinistra, anche se non sembra, tanto che Monti la vuole "silenziare". Chi sostiene che destra e sinistra non esistono più di solito è di destra, ma non lo vuole ammettere.

Se la salita in campo di Monti doveva servire a riciclare tutti i luoghi comuni dell'ultimo ventennio politico, il professore poteva risparmiarsela. Soprattutto poteva risparmiarla a una nazione che di luoghi comuni sta morendo. Da due decenni l'Italia politica si accapiglia su nominalismi e personalismi ridicoli, mentre il resto del mondo marcia a una velocità pazzesca e le mappe del potere e della ricchezza sono cambiate più che nel secolo precedente.

Da un premier che ha saputo risollevare e modernizzare l'immagine dell'Italia all'estero non ci aspettiamo un'altra lista con nome e cognome e l'ennesima raffica di slogan senza senso, ma finalmente una visione chiara del futuro del Paese. Che cosa fare con tasse, salari, pensioni, rendite, banche, politica industriale, istruzione e ricerca. Roba vera, concreta.

È tempo di scelte che possono essere, quelle sì, di destra o di sinistra. Il professor Monti dovrebbe comunicare agli elettori quali sono le sue. Altrimenti poteva rimanere sereno nel suo seggio di senatore a vita a Palazzo Madama, aspettare un'investitura al Quirinale e lasciare il compito di guidare il centro a Casini, che è un democristiano doc e a non scegliere è bravissimo anche da solo. Come testimonia del resto una lista centrista che va politicamente da Fini agli ex comunisti, socialmente dal salotto di Montezemolo alla comunità di Sant'Egidio.

(04 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/04/news/destra_e_sinistra_pari_non_sono-49883032/?ref=HREA-1
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« Risposta #66 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:43:42 pm »

Gli errori del Pd nell’incubo di Lost
   
di Curzio Maltese, da Repubblica, 26 Febbraio 2013


«Le elezioni? È come il finale di Lost, la serie tv. Non si capisce niente, ma probabilmente sono tutti morti». Tutto è perduto fra i militanti milanesi del Pd.

Tra i militanti venuti sotto la sede del Pirellone a festeggiare la presa del palazzo d’inverno, e tornati a casa mesti e pesti, tutto è perduto ma non il senso dell’umorismo. L’abitudine alla sconfitta allevia la delusione, comunque bruciante. La Lombardia sembrava l’Ohio e invece rimane il Texas d’Italia, l’inattaccabile roccaforte della destra. Berlusconi ha vinto ancora, nonostante gli scandali, gli arresti, la catastrofe finale del sistema formigoniano, e quindi non poteva perdere nel resto d’Italia. Per il risultato del voto regionale, bisognerà aspettare questa sera. Ma l’esito delle politiche lascia poche speranze all’avvocato Ambrosoli.

Forse si tornerà a votare presto. Ma un’occasione come quella appena persa, in Lombardia e quindi in Italia, è difficile che torni per Bersani e compagni. Perfino la Borsa aveva festeggiato sull’onda dei sondaggi la vittoria della sinistra. E da oggi è pronta invece a speculare, come tutte le altre piazze del mondo, sull’ingovernabilità del Paese.

Naturalmente non è soltanto questione di Milano o di Lombardia. Ma è sul voto del Nord, dove ancora una volta si è schiantata l’ennesima gloriosa macchina da guerra, che si misura il ritardo della sinistra. L’incapacità di intercettare i mutamenti culturali, politici, sociali nelle aree più ricche e avanzate del Paese.

È facile ora elencare gli errori di una campagna sottotono, ma visto che ne abbiamo scritto mentre si svolgeva, forse si può ripetere qualche banale concetto. Primo, non s’è mai vista una forza politica vincere le elezioni senza riuscire a occupare il centro della scena elettorale. All’inizio la sinistra ha subito l’invasione mediatica di Berlusconi, alla fine quella di Grillo. In mezzo non ha saputo elaborare concetti forti, visioni chiare del Paese, parole d’ordine in grado di garantire visibilità. C’entra di sicuro l’antica diffidenza, mista a disprezzo, nei confronti del mezzo televisivo. Da decenni i dirigenti della sinistra cullano l’idea bizzarra che la «televisione non conta» e considerano di conseguenza il carisma un vizio dell’anima. E invece l’Italia continua a essere un paese ipnotizzato dalla televisione e succube delle star televisive. Se poi uno davvero crede che le piazze contino più della televisione, almeno non dovrebbe cedere a Grillo le più simboliche d’Italia.

Un secondo errore, fatale al Nord, è stata la drammatica sottovalutazione della questione fiscale. Gli italiani sono stanchi di essere massacrati da aliquote scandinave e il Pd non ha offerto chiare soluzioni al problema. Paradossalmente, Berlusconi e Grillo, con le polemiche su Equitalia e l’Imu e le giustificazioni all’evasione, hanno fatto il pieno di voti in due campi teoricamente nemici: i tartassati e gli evasori fiscali. Ai messaggi furbi, cialtroneschi fin che si vuole, ma terribilmente efficaci dei demagoghi in campo, la coalizione di sinistra ha risposto con vaghe promesse di piccoli aggiustamenti tecnici, non del tutto comprensibili neppure ai commercialisti.

Il terzo errore, sempre più visibile al Nord, è stata la rapida archiviazione del rinnovamento delle classi dirigenti. Dopo la vittoria delle primarie, il gruppo dirigente intorno a Bersani ha pensato che la rottamazione fosse una moda passeggera. Nella campagna elettorale del Pd hanno ripreso voce e visibilità vecchi leader, dalla Bindi a D’Alema, in predicato di diventare ministro. Le liste erano piene di facce troppo note. Il tutto è stato interpretato da un bel pezzo di elettorato come una presa in giro.

Il risultato finale di una strategia grigia è stato altrettanto mediocre. Una mezza vittoria o una mezza sconfitta, dipende dai punti di vista. In ogni caso la conferma che questa guida del centrosinistra non è in grado di sfondare nelle aree decisive del Paese e non è capace
d’intercettare un solo voto oltre i propri confini naturali, neppure quando tutto un sistema intorno sta crollando. Anzi, a fare bene i conti, non è più tanto in grado di mantenere integro il proprio zoccolo duro di elettori. Quelli che ieri erano andati a festeggiare e sono tornati a casa in silenzio, senza aver capito niente, ma con il sospetto che siano tutti morti.

(26 febbraio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-errori-del-pd-nell%E2%80%99incubo-di-lost/
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« Risposta #67 inserito:: Marzo 09, 2013, 12:11:45 am »

   
Grillo, permette una domanda?

di CURZIO MALTESE

A Berlusconi abbiamo fatto per anni tante domande, senza successo. A Grillo oggi se ne può rivolgere una sola. Questa: ma perché non consulta la sua base sull'eventuale alleanza col centrosinistra?

Beppe Grillo ha detto alla stampa tedesca che vuole far decidere la permanenza o l'uscita dall'euro dell'Italia attraverso un referendum on-line. Sarebbe una scelta storica, con conseguenze colossali e forse catastrofiche per la vita del Paese e l'economia europea, mondiale. Ma, spiega Grillo, queste sono le regole della nuova democrazia nell'era di Internet, dove non ci sono leader, uno vale uno e su tutte le decisioni, anche le più gravi, bisogna consultare direttamente la base attraverso il voto on-line. Benissimo. E allora perché non chiedere alla base degli elettori M5S, con un referendum, se vogliono o non vogliono allearsi per pochi mesi con il Pd allo scopo di approvare in Parlamento qualche urgente riforma, peraltro contenuta nei loro programmi?

Grillo, Casaleggio e tutti i cantori della democrazia on-line ammetteranno che si tratta di una scelta molto meno importante rispetto all'abbandono della moneta europea. Si tratta semplicemente di votare un accordo a termine, con pochi punti programmatici, dal quale si può recedere in qualsiasi momento, facendo mancare la maggioranza col voto di sfiducia, nel caso in cui gli impegni non vengano rispettati. Poca cosa davvero, al confronto di una drammatica uscita dall'euro, una strada dalla quale l'Italia non potrebbe mai più tornare indietro. E dunque, che cosa aspettano?

In questi giorni non si parla d'altro che di questo, fra italiani. Quelli che hanno votato Grillo e quelli che hanno votato centrosinistra o centrodestra. La domanda è una sola: che faranno adesso Grillo e Casaleggio? Ma perché Grillo? Perché Casaleggio? Non sono i leader, contano come qualsiasi altro, non si sono neppure fatti eleggere.

Il movimento 5 Stelle è nato per tornare a far contare i semplici cittadini, per restituire loro il potere decisionale usurpato dall'orrida partitocrazia. Quindi, di fronte alla prima importante scelta del movimento, dovrebbe essere naturale ricorrere alla consultazione on-line della base. Così come si è fatto per le parlamentarie. Se si è deciso in questo modo chi doveva andare in Parlamento, non si capisce perché non si debba sottoporre ai cittadini le prime scelte degli eletti. Grillo stesso se l'è appena presa con l'articolo 67 della Costituzione, sul libero mandato, sostenendo con qualche approssimazione democratica, che in questo modo i deputati e i senatori sono liberi di tradire il mandato degli elettori. Ha parlato di "circonvenzione di elettori". Ma qual è il mandato? Chi lo stabilisce, Grillo o gli elettori stessi? Come fa Grillo a sapere, senza consultare nessuno, che gli elettori non vogliono l'alleanza col centrosinistra?

Chi scrive ha naturalmente una risposta prevenuta su tutto questo. Grillo e Casaleggio non lanciano la proposta di consultare la base del movimento sull'alleanza col centrosinistra perché, semplicemente, perderebbero. Due elettori del M5S su tre, forse di più, sono favorevoli a un accordo a termine per portare a casa qualche risultato immediato. Ripeto: Grillo e Casaleggio perderebbero. Quindi la consultazione non si fa, non se ne parla nemmeno. La democrazia della rete, la regola uno vale uno, la volontà dei cittadini sono tutte balle, nuova retorica, in realtà vecchissima, per sdoganare un altro partito padronale all'italiana, dove conta quello che decidono Grillo e Casaleggio, nelle belle ville un po' troppo vicine alle spiagge per degli ecologisti convinti, emettendo di tanto in tanto il comunicato numero 56 o 57 ai fedeli. Come la pensano davvero i fedeli, e magari anche gli eletti, non conta un accidente.

Ma questa è la versione prevenuta di un giornalista mascalzone, servo dei partiti che stranamente ha passato la vita a criticare. Quindi non vale. Sarebbe più interessante conoscere a questo punto la verità, dai soli detentori di verità autorizzati, i leader, pardon: i portavoce del Movimento. Qualcuno vuole rispondere a questa banale domanda: perché non vogliono fare un referendum on-line sulla proposta di governo del Pd? La domanda è rivolta a Grillo e Casaleggio, in primis. Che non risponderanno, perché sono troppo furbi per farlo, come lo era Berlusconi. Ma il grande Dario Fo, padre culturale del movimento, magari potrebbe farlo. O Stefano Benni o uno dei tanti stimabili simpatizzanti del movimento. O la stessa base, gli elettori del Movimento 5 Stelle, che Grillo non consulta, ma dei quali a noi di Repubblica interesserebbe moltissimo conoscere l'opinione su questo tema. Qualcuno insomma in grado di chiarirci questo paradosso. Sì al referendum sull'euro, no al referendum sull'alleanza col centrosinistra. Qual è il problema? Le masse sono mature per scegliere se uscire dall'Europa, ma non abbastanza da decidere se accettare gli otto punti del Pd? In fiduciosa attesa, grazie.

(08 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/08/news/domanda_a_grillo-54089868/
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« Risposta #68 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:27:55 am »

Ast: manganelli e prese per i fondelli
Pubblicato: 06/11/2014 20:20 CET Aggiornato: 3 ore fa
AST

C'è qualcosa che può fare più male di una gragnuola di manganellate ed è la cinica presa in giro messa in atto l'altro giorno a Bruxelles dai 73 eurodeputati italiani, fra i quali chi scrive, ai danni dei lavoratori delle acciaierie di Terni. Dopo le cariche di Roma, era partita l'idea dalla presidenza della regione Umbria di far incontrare una delegazione di lavoratori Ast con gli europarlamentari italiani, in parte per emendare l'ignobile episodio e in parte per riportare all'attenzione del parlamento di Bruxelles le ripetute violazioni delle norme comunitarie da parte della Thyssen. Gli operai si sono sorbiti 40 ore di pullman, fra andata e ritorno, per il piacere di incontrare una foltissima rappresentanza guidata dai due vice presidenti del parlamento europeo, Antonio Tajani e David Sassoli, Forza Italia e Pd, e per sottoporre agli eurodeputati nazionali una letterina di una decina di righe, assai cauta nei toni, di sostegno alla vertenza dei lavoratori e per il mantenimento di produzione e posti di lavoro. Con la preghiera di far uscire la presa di posizione prima dell'incontro di ieri fra sindacati, esponenti della Thyssen e il ministro Guidi.

È seguita davanti alle telecamere e ai taccuini una sfilata commovente e unanime d'interventi solidali, dalla destra alla sinistra, da Forza Italia, in testa lo stesso Tajani (il quale pure da commissario dell'industria non ha mai mosso un dito per difendere l'acciaio italiano) e Sassoli, ma poi senza distinzione di parte politica: grillini e alfaniani, il leghista Mario Borghezio come il capo dei socialisti europei Pittella, fino naturalmente alla lista Tsipras. Tutti si sono detti disponibili a firmare fin da subito la lettera di solidarietà congiunta e anzi molti, soprattutto Pd e Forza Italia, si sono complimentati per l'uso di toni moderati e quasi tecnici che avrebbe favorito il massimo grado di consenso. Molti hanno poi abbrancato operai singoli o gruppi per i selfies da mettere sul sito. Nessuno ha chiesto di cambiare una virgola del testo. Chi ha provato a mettere in dubbio la sincerità del presepe ("Ma com'è che con il 100 per cento di consenso dei politici contro i licenziamenti siamo arrivati a questo punto?") è stato immediatamente zittito dalla presidenza congiunta.

Ripartiti i lavoratori alla volta di Terni, per altre venti ore di viaggio, sono successe le seguenti cose. 1) Le lettera di solidarietà ai lavoratori di Terni è sparita dai radar di Bruxelles per ventiquattr'ore, il tempo perché si svolgesse l'incontro del governo con sindacati e azienda senza disturbare i manovratori. 2) La nota ex presentatrice Elisabetta Gardini ha chiesto e ottenuto da Tajani e Sassoli di censurare il testo concordato nei passaggi in cui si nominava la Thyssen, il mancato pagamento degli stipendi di ottobre, le violazioni di norme comunitarie e l'espressione "no ai licenziamenti". La versione Gardini è stata volentieri accettata dai maggiori capigruppo, che hanno anche eliminato dal testo originale la brutta espressione "governo" e sostituito il "no ai licenziamenti" con un più carino e democristiano "auspichiamo il mancato licenziamento". La versione Gardini è stata insomma accolta in toto. Tu pensa chi ci dà la linea in Europa. 3) La nuova lettera epurata è stata firmata da tutti i parlamentari dei gruppi maggiori, con l'eccezione di Sergio Cofferati, il cui sintetico commento alla capogruppo Toja è stato: "È un'indegna presa per il culo dei lavoratori, non la firmo nemmeno morto". 4) Nessuno ha ovviamente avvisato delle modifiche al testo i sindacati e i lavoratori, i quali soltanto a destinazione hanno scoperto di essersi fatti due giorni di pullman per nulla. Poi si lamentano che la gente non ha fiducia nei politici. Davvero, le manganellate in fondo non sono più oneste?


Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/ast-manganelli-prese-fondelli_b_6115846.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #69 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:37:36 pm »

Il 40,8% è solo un'eccezione, Renzi non arriverà al 2018
Pubblicato: 02/06/2015 16:49 CEST Aggiornato: 02/06/2015 16:49 CEST

Curzio Maltese

Resisterà Matteo Renzi fino al 2018? Ognuno ha letto il voto regionale come ha voluto, ma su un punto tutti i commenti concordano: nelle urne è sparito il Partito della Nazione. In meno di un anno è fallito il principale progetto politico del renzismo.

Ed è fallito nelle migliori condizioni per cui si realizzasse, in assenza di una qualsiasi alternativa. Contro un centrodestra confuso e suonato come il Berlusconi che a Segrate chiede il voto per il sindaco avversario, un centrodestra che non può più contare sulla bussola di un berlusconismo morto e sepolto e non potrà mai essere guidato dal lepenismo in salsa padana di Salvini.

È fallito contro un Movimento 5 Stelle che, dietro l'alibi della purezza, ha dimostrato ancora una volta di non voler governare mai e da nessuna parte, dopo l'incubo e lo choc della Parma di Pizzarotti. Ed è quindi destinato, prima o dopo, a esaurirsi, come sarebbero spariti Syriza e Podemos se invece di governare le grandi città greche e spagnole grazie ad alleanze improntate alla real politik avessero sposato la linea purista e settaria del "noi contro tutti".

Ho sempre pensato che Renzi, preso il Pd al 25 per cento, l'avrebbe portato al 35 (in realtà il 41), ma l'avrebbe lasciato al 15, o forse meno. Le qualità personali del leader, sulle quali in Italia è fiorita in pochi mesi un'ampia e spesso ridicola letteratura, c'entrano poco. La crisi dei partiti socialisti è un processo che riguarda tutta Europa da molti anni. Il clamoroso successo del Pd di Renzi alle europee l'anno scorso, quel 41 per cento figlio di molte circostanze favorevoli, era soltanto l'eccezione.

Nel resto d'Europa le social democrazie sono tutte in rotta, alcune si sono quasi estinte, laddove l'austerità ha colpito più duro, come il Pasok in Grecia; altrove hanno dimezzato i consensi, come in Spagna; oppure sono diventati stabilmente alleati della destra al governo, come in Germania. In Gran Bretagna i laburisti non riescono a rimontare la china e in Francia i socialisti governano a dispetto di un'opinione pubblica che non vede l'ora di mandarli a casa.

La tanto celebrata Terza Via di Blair, Schroeder, Zapatero e altri, ovvero la conversione delle social democrazie ai dogmi liberisti, ha lasciato ai successori queste macerie. L'austerità voluta dalla Merkel si è dimostrata un pessimo piano economico, perché non ha ottenuto nessuno dei risultati dichiarati, dal rilancio dell'economia e dell'occupazione al contenimento del debito pubblico. Ma in compenso s'è rivelato un geniale strumento politico, perché attaccando la grandiosa costruzione del welfare ha tolto dai piedi dell'avversario politico, la social democrazia, la base sociale.

Quello che possiamo chiamare il suicidio socialista in Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Grecia si è realizzato nell'arco di un ventennio. In Italia è cominciato in ritardo, come tutto, ma rischia di compiersi in pochissimo tempo e non solo per colpa di Renzi. Tutto è infatti cominciato con le scelte suicide di Pierluigi Bersani. Se nel 2011, al crollo del ventennio berlusconiano, il Pd di Bersani avesse trovato il coraggio di andare al voto con un deciso programma anti austerità, avrebbe di sicuro vinto e governato. Al contrario ha preferito caricarsi sulle spalle due anni delle politiche sbagliate e recessive di Mario Monti, tele comandate dalla trojka, e sotto quel peso è stato alla fine schiacciato. L'elettorato del Pd, che da sempre è assai più a sinistra dei propri dirigenti, ha punito l'errore di Bersani con il plebiscito a Renzi, votando il nuovo senza neppure conoscerlo. E per la stessa ragione, l'amor di novità, milioni d'italiani hanno votato Renzi (lui, non il Pd) alle europee. Senza conoscerne davvero i programmi.

Dopo il trionfo delle europee il nuovo partito, il PdR (copyright Ilvo Diamanti) ha finalmente rivelato agli elettori la sua essenza, quindi non lo votano più. Il PdR è una strana creatura, un ircocervo della politica, come direbbe Eugenio Scalfari. Un partito sedicente di sinistra che coltiva come bersagli principali il sindacato, lo statuto dei lavoratori e gli stessi lavoratori dotati ancora di qualche garanzia, gli insegnanti, i pensionati, insomma lo storico blocco sociale della sinistra. A questo "vecchiume da rottamare" non contrappone nessun mito, sogno o visione dell'Italia, Soltanto l'urgenza ineluttabile di controriforme liberiste volute dalla signora Merkel e già sperimentate con risultati catastrofici in tutto il Sud Europa, in Grecia, Portogallo e Spagna.

Oltre a questo, il PdR si segnala per l'offerta di una classe dirigente mediocre perfino per i bassi parametri italiani, priva di fascino e di prestigio in Europa. Guardate l'immagine di Renzi e Orfini che giocano alla playstation in attesa della batosta elettorale. E' un'immagine che vorrebbe comunicare forza e serenità, e invece trasmette un'inquietante sensazione di fragilità e dilettantismo. Com'è successo che una grande nazione che avrebbe bisogno d'essere guidata da un genio di politiche industriali per uscire dal proprio declino, si sia invece consegnata a un adolescentone simpatico quanto superficiale che trascorre la gran parte della giornata a giocare con le più sciocche e inutili invenzioni del nostro tempo, da twitter al selfie?
Il PdR, il partito nuovo, ha perso domenica scorsa.

Il Pd della vecchia guardia da rottamare, Emiliano, Rossi, De Luca, che con Renzi, nel bene e nel male, non c'entra nulla, quello ha vinto. Ha perso il renzismo da rotocalco e talk show di Alessandra Moretti, umiliata dal voto veneto, e quello ossessionato dalla polemica a sinistra di Lella Paita, che fra un po' darà a Pastorino anche la colpa dell'alluvione, piuttosto che interrogarsi sul perché abbia perso oltre la metà dei voti di Burlando.

E veniamo alla risposta: Renzi non arriverà al 2018. Sarà fatto fuori prima, dall'alto o dal basso. Dall'alto quando avrà finito il lavoro per cui l'hanno messo lì i poteri nazionali e internazionali garantiti da Napolitano: abbattere i diritti del lavoro, licenziare centinaia di migliaia di statali, tagliare salari e pensioni e stravolgere la costituzione antifascista, ormai incompatibile con le politiche di austerità, come scrisse tempo fa JP Morgan. A quel punto il giovane aspirante principe fiorentino, ormai impopolare, farà la fine di Monti, Letta e di tanti fantocci descritti dal Machiavelli: immolato sulla pubblica piazza. Magari per spianare la strada a un vero e serio progetto conservatore, guidato da Mario Draghi.

Renzi potrebbe essere fatto fuori anche dal basso, nel caso in cui alla sua sinistra si facesse la cosa semplice che hanno fatto Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, ovvero lasciar perdere le velleità da rivoluzionari di salotto, copiare con la carta carbone i programmi della più classica social democrazia e offrire rappresentanza al blocco sociale abbandonato dal vecchio centrosinistra. Ma la sinistra della sinistra, con i suoi ego arroventati, la sua ridicola contrapposizione in sedicesimo fra politica e antipolitica, con una minuscola società civile fieramente contrapposta a dei minuscoli partitini, sembra per ora molto lontana da una simile prospettiva.

DA - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/matteo-renzi-elezioni_b_7492976.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #70 inserito:: Luglio 12, 2015, 05:29:11 pm »

Merkel e Renzi e il silenzio della socialdemocrazia

Pubblicato: 03/07/2015 15:22 CEST Aggiornato: 03/07/2015 15:22 CEST

Nel rapido processo di berlusconizzazione, Matteo Renzi ha trovato il suo Bush, per dire il protettore internazionale, in Angela Merkel. L'adozione a distanza del nostro premier da parte della cancelliera è ormai cosa fatta. I media celebrano l'idillio fra "Angela e Matteo" come un tempo l'amicizia fra Silvio e George W.

All'epoca, con quattro complimenti all'impettito comparuccio italiano, perfino quello comico sull'"ottimo inglese", Bush trascinò l'Italia nelle insensate guerre mediorientali. Ora, con un paio di pacche sulle spalle Angela Merkel ha convinto l'alunno Renzi a mettersi in fila nello spezzare le reni alla Grecia e si è garantita una subalternità dell'Italia alla Germania come non si era mai vista nella storia dell'Unione.

Arruolato all'ultimo momento, dopo essere sempre stato escluso dai vertici sul caso greco, il vassallo si è dimostrato più realista della regina. Merkel, e Draghi non direbbero mai una sciocchezza falsa come "i greci sono chiamati a votare fra euro e dracma", anche se è quanto vogliono far credere al popolo greco. Lo fanno dunque dire a Renzi, che non ha problemi di decenza istituzionale e in più rappresenta il secondo paese d'Europa più danneggiato dalle politiche di austerità, cioè in teoria quello che dovrebbe essere più solidale con la Grecia.

Ora, a parte che il premier italiano farebbe bene a toccare ferro - visto l'esito delle precedenti investiture della cancelliera a Monti e Letta - questo nuovo asse Roma-Berlino lascia ancora più perplessi del precedente Arcore-Texas.

Non soltanto per l'evidente tono coloniale dell'intesa. Siamo abituati da italiani a mettere da parte l'orgoglio e a considerarci una nazione di seconda fila che esprime a getto continuo classi dirigenti provinciali e servili, troppo gratificate dall'esser prese (per finta) sul serio dai leader mondiali per badare alla cura degli interessi nazionali.

Ma, mentre l'intesa Bush-Berlusconi corrispondeva almeno a un'affinità politica, qui siamo al trasformismo puro. Il capo del più grande partito social democratico d'Europa e la leader dei conservatori non dovrebbero almeno fingere di essere un po' alternativi? Perché dar ragione così platealmente agli odiati populisti, per i quali destra e sinistra non esistono, se non come unica casta al servizio della grande finanza e dei poteri forti?

Intendiamoci, nella lunga trattativa fra istituzioni e Grecia, così come in tutte le grandi questioni che agitano il continente, l'intera socialdemocrazia europea (non solo il Pd) è stata la grande assente. Soltanto tre o cinque anni fa i programmi di socialisti e popolari sull'Europa si potevano considerare ancora alternativi.

I socialisti tedeschi, francesi, italiani, spagnoli chiedevano a gran voce gli eurobond, l'unione fiscale e bancaria, il ritorno degli investimenti pubblici in economia, l'integrazione delle politiche sull'immigrazione, la difesa dei beni comuni, eccetera. Ora tutte queste vere riforme sono sparite dalle loro agende, sostituite dalle riforme liberiste che piacciono tanto alla signora Merkel e alla Bce.

A voler essere appena onesti e obiettivi, e non è più il caso dell'informazione dominante, si dovrebbe riconoscere che Syriza e Podemos si sono limitati a colmare questo vuoto, che i loro programmi somigliano molto meno ai vecchi programmi dell'estrema sinistra di quanto non ricordino le tradizionali ricette socialdemocratiche dell'Spd o del Psf o del Psoe di qualche anno fa, per non parlare dei socialisti scandinavi e perfino dell'Ulivo di Romano Prodi. Per contro, non stupisce che il governo Renzi sia oggi considerato troppo di destra finanche da una democristiana progressista come Rosi Bindi.

Ma in pochi anni, il laboratorio secolare della socialdemocrazia europea si è spento. Il silenzio dei socialisti europei, il disorientamento, l'irrilevanza, la subalternità di questa grande famiglia politica di fronte alle sfide del nuovo mondo ha qualcosa d'impressionante. Ricorda la crisi di senso che colse l'eurocomunismo dopo la caduta del muro di Berlino. Dopo il comunismo, sta scomparendo anche la socialdemocrazia? Sembra proprio di sì.

Così, al volo, quale elettore saprebbe dire qual è la differenza, se esiste, fra socialisti e conservatori sulle maggiori questioni che l'Europa ha di fronte? Dal caso greco all'immigrazione, dalla lotta alla povertà al ruolo della Bce, dal piano Juncker (che fine ha fatto?) al Ttip, dalle privatizzazioni alla riforma del sistema bancario, per non parlare della politica estera, dall'Ucraina alla minaccia dell'Isis, la verità è che i partiti di centrosinistra in Europa non hanno nulla di originale da dire e sono in definitiva grati alla signora Merkel che almeno fornisce loro una linea.

Il fatto poi che questa linea, anzi questa teologia dell'austerità, fallita in Grecia e ovunque, sia ormai considerata folle da uno stuolo di premi Nobel dell'economia e rischi di distruggere in un decennio mezzo secolo di faticosa costruzione dell'idea d'Unione, tutto questo è considerato del tutto marginale. Almeno la Merkel ha una visione e un progetto politico, per quanto nefasto, mentre i socialisti non sono più in grado di elaborare un pensiero critico e originale su quasi nulla. I più estremismi, per spiegare la loro idea di società, rimandano alle encicliche del papa.

L'estinzione del pensiero socialista si è manifestata nell'acefala presenza-assenza dei leader del centrosinistra europeo nella lunga trattativa fra istituzioni e Grecia, ridotta da subito, per usare una metafora renziana, a un derby fra Merkel e Tsipras.

Matteo Renzi, come detto, non è stato neppure convocato ai vertici. Hollande invece ai vertici ha partecipato, ma nessuno se n'è accorto. Se c'era, dormiva, e si svegliava soltanto per correre a Parigi a chiudere le frontiere in faccia ai rifugiati. I socialdemocratici tedeschi si sono addirittura lanciati in una specie di critica da destra alla linea Merkel, abbaiando in ogni occasione contro i poveri greci capitati per sbaglio al tavolo dei potenti.

Il segretario della Spd, Sigmar Gabriel, come l'ineffabile presidente dell'europarlamento Martin Schulz si sono pure dati da fare nelle interviste per alimentare i peggiori pregiudizi dell'opinione pubblica tedesca nei confronti dei greci lazzaroni e profittatori, come se non bastasse la stampa di destra. Pare proprio che gli eredi di Willy Brandt (santo cielo!) siano ormai contenti di fare la ruota di scorta permanente della cancelliera.
Va detto, a onor del vero, che fra Renzi e l'Spd c'è una differenza e non da poco. L'Spd a parole difende le politiche di austerità _ da applicare nei paesi del Sud Europa, naturalmente _ ma nei fatti in patria sostiene il welfare, il ruolo dei sindacati, i diritti dei lavoratori (tedeschi) e il massiccio intervento pubblico nell'economia, senza il quale la locomotiva tedesca non sarebbe mai ripartita.

Al contrario Renzi critica l'austerità a parole, ma nei fatti applica le ricette liberiste come mai nessun altro governo di centrosinistra aveva fatto. Per questo piace tanto ad Angela Merkel, per questo la cancelliera esibisce giustamente Renzi come l'incarnazione del proprio capolavoro politico, l'aver trasformato il socialismo europeo in una sottomarca dell'originale conservatore, ridotto gli avversari storici a vassalli della propria indiscutibile supremazia. E per giunta, vassalli felici di esserlo.

Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/merkel-e-renzi-e-il-silenzio-socialdemocrazia_b_7721370.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #71 inserito:: Maggio 21, 2016, 04:36:00 pm »

L'Unione Europea ha dimenticato di essere nata dall'antifascismo?

Pubblicato: 20/05/2016 09:37 CEST Aggiornato: 20/05/2016 09:37 CEST

L'Unione Europea ha dimenticato di essere nata dall'antifascismo? Può sembrare una domanda paradossale ma l'attualità politica di questi giorni la propone con forza. Basta confrontare la debole reazione dell'Europa di oggi di fronte all'avanzata dell'estrema destra del FPOE in Austria con quella di sedici anni fa. Nel 2000 l'ingresso al governo del partito xenofobo allora guidato da Jorg Haider, in alleanza con i popolari, provocò in tutta Europa una rivolta morale. Senza distinzioni fra destra e sinistra, quasi tutti i governi conservatori o socialisti continentali, in testa quello francese della coabitazione fra Chirac all'Eliseo e Jospin premier, votarono all'unanimità sanzioni contro il di Vienna. I toni dei conservatori furono spesso più duri di quelli dei socialisti e l'allora premier spagnolo Josè Maria Aznar si spinse fino a chiedere la cacciata dal partito popolare europeo del collega austriaco Wolfang Schuessel, colpevole di aver accettato l'appoggio dei del partito di Haider.

Il 24 aprile scorso il FPOE, nel frattempo per nulla moderato, ha ottenuto un successo ben più clamoroso di quello di sedici anni fa, vincendo al primo turno le presidenziali con oltre il 35 per cento dei voti conquistati dal candidato Norbert Hofer, gran favorito per il ballottaggio del 22 maggio contro il verde Alexander Van der Bellen. La reazione dell'Unione è stata quasi inesistente. Interrogati sul perché di tale reticenza, le autorità europee hanno fatto rispondere in via ufficiosa dagli addetti stampa di non voler interferire nella politica interna di uno stato membro alla vigilia del ballottaggio. Se ne riparlerà insomma dopo il 22 maggio, se gli xenofobi dovessero conquistare la presidenza austriaca. Una serie di scrupoli che i potenti d'Europa non avevano osservato l'anno scorso durante la crisi greca, quando tutti, ma proprio tutti, dai leader europei a quelli nazionali erano intervenuti pesantemente per condizionare il voto del popolo greco alle politiche, e in seguito prima del referendum, contro Syriza e il suo leader Alexis Tsipras, che pure, a differenza di Hofer, non gira con un revolver in tasca elogiando l'autodifesa personale e non ha mai proposto d'innalzare muri ai confini di altri stati dell'Unione. Due pesi, due misure. Come nei confronti dei governi di ultradestra d'Ungheria e Polonia, dove si continuano ad arrestare e intimidire i giornalisti d'opposizione, nella sostanziale noncuranza delle istituzioni europee.

Una certa disattenzione per i valori antifascisti dell'Unione è emersa anche dalla triste e scandalosa vicenda dei finanziamenti per complessivi 600 mila euro annui concessi dal Parlamento Europeo all'Alliance for Peace and Freedom, un partito che riunisce sigle neofasciste e neonaziste di vari paesi (Forza Nuova, i greci di Alba Dorata, i tedeschi della Npd e altri), presieduto dall'ex terrorista dei Nar Roberto Fiore, e alla fondazione collegata Europa Terra Nostra. Più di duecento europarlamentari di varia tendenza politica hanno chiesto di verificare l'attribuzione di questi fondi in linea con il regolamento che impedisce di finanziare con soldi pubblici partiti che non rispettino i valori fondanti dell'Unione, ovvero "i principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell'uomo, delle libertà fondamentali e dello stato di diritto".

L'aspetto più inquietante di questa storia è che diversi esponenti dei socialisti e dei popolari hanno cercato di spostare la questione dall'antifascismo sul piano della critica al modello europeo neoliberista. Insomma criticare la Trojka o l'austerità sarebbe più grave che negare l'Olocausto o proporre il ritorno ai parlamenti delle corporazioni, abolendo i partiti. Tutti i valori sui quali è stata ideata e fondata l'Unione europea sono figli della cultura e della lotta antifascista. Dal manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann durante il confino fascista, alla nascita del Consiglio d'Europa e poi della Comunità Europea nel dopoguerra, il profondo collante che ha unito gli europeisti, di sinistra, centro o destra, era la comune casa di valori dell'antifascismo. Aver smarrito questo glorioso ancoraggio al passato spiega la grigia miseria del presente.

Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/lunione-europea-ha-dimenticato-di-essere-nata-dallantifascismo-_b_10050374.html?utm_hp_ref=italy
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 22, 2016, 05:53:01 pm »

La stagione renziana è finita, fatevene una ragione

Pubblicato: 22/06/2016 13:17 CEST Aggiornato: 4 ore fa

Curzio Maltese
Giornalista e scrittore, eurodeputato Lista Tsipras

È incredibile come, anche di fronte all'evidenza, il coro dei media si rifiuti di considerare l'ipotesi che la portentosa stagione del "renzismo" sia già finita. Qui non si tratta neppure di politica, ma di matematica. Combinando gli ultimi risultati, referendum e comunali, è oggi impensabile che Renzi possa portare a ottobre 15 milioni d'italiani a votare Sì al referendum costituzionale, contro i 15 milioni che quasi certamente andranno a votare No. Naturalmente molte cose possono accadere da qui a ottobre, il governo può inventarsi bonus, sconti fiscali e mance elettorali.

Può cambiare anche l'atteggiamento e l'impegno degli avversari politici, il centrodestra e i 5 stelle, riguardo al referendum. In fondo, nell'essenza, questa riforma della Costituzione serve a ridimensionare il ruolo del parlamento e in particolare delle opposizioni, e ad accrescere in maniera consistente i poteri dell'esecutivo. Fino a quando il Pd di Renzi era percepito come il sicuro vincitore delle prossime elezioni, per le opposizioni il No era questione di vita o di morte. Ora che la possibilità di vittoria del Pd sono scemate di molto, soprattutto nel ballottaggio previsto dall'Italicum, la riforma può diventare un boomerang per chi l'ha proposta e una formidabile clava nelle mani di chi la osteggiava.

Il vibrante No di destra e 5 stelle potrebbe insomma diventare, strada facendo, un più cauto "Ni". Renzi è finito e non lo sa, avevo scritto dopo il primo turno delle comunali. Con il ballottaggio la situazione è cambiata. Renzi è finito, ma lo sa anche lui. E infatti ha già cambiato tono e stile, smettendo l'arroganza guascona di tutti questi mesi e riconoscendo con chiarezza la vittoria dei 5 stelle. In questo, al solito, Renzi si rivela più intelligente della mediocre corte di miracolati cui si è circondato, politici e giornalisti. I secondi ancora più patetici dei primi. Tanta era la felicità, dopo l'inusitato 41 per cento alle europee, d'essere saltati stavolta per tempo sul carro del sicuro vincitore, che ora fanno fatica più degli altri a tornare coi piedi per terra. Ricordano quel mezzobusto socialista Rai che tanti anni fa, alla vigilia del crollo della prima repubblica, cercava di convincere Bettino Craxi d'aver vinto le elezioni a sua insaputa.

Il "renzismo" era apparso a molti il nuovo sol dell'avvenire e si sta invece rivelando il breve crepuscolo del "berlusconismo" che l'ha preceduto. Rispetto al quale è assai meno solido. Berlusconi era un leader amato dal suo popolo, portatore di un mito che esaltava il tradizionale egoismo della destra fino a condurlo all'utopia scintillante di un arricchimento collettivo (il sole in tasca). Renzi è un leader non amato dal suo popolo, ma tollerato in virtù di un mito vincente, all'apparenza, che comporta l'umiliazione dei valori storici della sinistra in cambio di una promessa di potere, modernità e benessere generale. Si capisce allora perché il mito naturale (per la destra) berlusconiano abbia potuto resistere quasi un ventennio, contro l'evidenza del mancato "nuovo miracolo economico".

Erano anche tempi migliori in economia e più lenti. Prima che si materializzassero gli effetti della crisi del 2008, Berlusconi ha continuato a vedere ristoranti di lusso strapieni e il signor Tremonti ha potuto raccontare a lungo la favola di un paese estraneo alla crisi e di un sistema bancario "più solido che nel resto d'Europa". Grottesche menzogne che oggi si rivelano anche fonti di tragedie personali. Il mito "renziano", già politicamente contro natura, è invece già franato con la brutale smentita nei fatti di una narrazione irrealistica e infantile nei toni (la guerra ai "gufi"), incentrata sull'ottimismo e la crescita.

È un mito che resiste soltanto per un ceto mediatico ancora più separato dalla realtà di quanto non appaia il famigerato ceto politico e di conseguenza ancor meno popolare. Renzi confidava molto nell'appoggio dei media per la conquista del consenso al suo progetto di partito della nazione: un altro miraggio. Alla vigilia del ballottaggio tv e giornali hanno dedicato chilometrici retroscena dietrologici alle voci di presunti accordi sottobanco anti Renzi fra grillini, leghisti, sinistra e minoranze dem, ma in compenso hanno ignorato la notizia vera che a Napoli i candidati del Pd avevano apertamente invitato per lettera i propri elettori a votare il candidato del centrodestra, Lettieri, contro De Magistris.

Questa sfrontata propaganda mascherata da informazione politica produce ormai un rigetto istantaneo nell'opinione pubblica, come forse sono in grado di capire anche gli astutissimi strateghi di comunicazione al servizio del piccolo principe.

Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/la-stagione-renziana-finita_b_10608802.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001
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