LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Settembre 28, 2007, 10:59:27 pm



Titolo: CURZIO MALTESE. La verità dell'ex
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2007, 10:59:27 pm
CRONACA

L'otto per mille, le scuole, gli ospedali, gli insegnanti di religione e i grandi eventi

Ogni anno, dallo Stato, arrivano alle strutture ecclesiastiche circa 4 miliardi di euro

I conti della Chiesa ecco quanto ci costa

 di CURZIO MALTESE


"Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati". Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l'arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall'arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate.

Nel "ventennio Ruini", segretario dall'86 e presidente dal '91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all'interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.

Le ragioni dell'ascesa di Ruini sono legate all'intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un'altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull'Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all'anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l'ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.

Dall'otto per mille, la voce più nota, parte l'inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno".

Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.

Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.

Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all'anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell'otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell'ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un'inchiesta dell'Unione Europea per "aiuti di Stato". L'elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato" dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all'anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all'anno, più qualche decina di milioni.

La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.

Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all'epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell'84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.

Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l'impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?

Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all'interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al "voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.

Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell'Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L'altra faccia dell'otto per mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?". "E infatti - conclude l'autore - i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere...".

A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso "ideologico" dell'otto per mille non è affatto nell'universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato". Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono".

La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta.
Dopo vent'anni di "cura Ruini" la Chiesa all'apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l'agenda dei media e influisce sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent'anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.

Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d'inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo progressista: "La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo". Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.

(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(28 settembre 2007)
da repubblica.it


Titolo: Papa: La Chiesa non mira a vantaggi economici e potere (bastano quelli che ha)
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2007, 11:27:59 pm
ESTERI

Il messaggio di Ratzinger al nuovo ambasciatore d'Italia presso il Vaticano

"La Chiesa non è un agente politico, ma ha interesse al bene della comunità politica"

Il Papa: "La Chiesa non mira a vantaggi economici e potere"

Nessun accenno diretto alle polemiche delle ultime settimane

"Il vincolo di collaborazione fra Santa Sede e Italia è stretto"

 
CITTA' DEL VATICANO - "La Chiesa non si propone mire di potere, né pretende privilegi o vantaggi economici e sociali". Così Benedetto XVI nel messaggio al nuovo ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, Antonio Zanardi Landi, che questa mattina ha presentato le sue credenziali al Papa. Parole, quelle del Papa, pronunciate a un mese dalla querelle innescata dalla decisione della Commissione Ue, di chiedere al governo italiano chiarimenti sul regime fiscale della Chiesa. Da Ratzinger anche un richiamo al Concordato, quando afferma che "la Chiesa cattolica chiede di essere considerata per la sua specifica natura e di poter svolgere liberamente la sua peculiare missione per il bene non solo dei propri fedeli, ma di tutti gli italiani". E alle "grandi sfide" che "caratterizzano l'età postmoderna", fra cui "la difesa della vita umana in ogni sua fase".

"La Chiesa non è un agente politico". Benedetto XVI cita il suo intervento al Convegno ecclesiale, che si è svolto a Verona nell'ottobre del 2006, e usa le identiche parole di allora per ribadire che "la Chiesa non è, e non intende essere un agente politico", ma "nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre a un duplice livello il suo contributo specifico".

"Riaffermare indipendenza di Stato e Chiesa". Il Pontefice sottolinea il principio secondo cui "la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti", principio "autorevolmente presentato anche dalla Costituzione della Repubblica italiana", e nel quale "vengono riaffermate sia l'indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa, sia la reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e del bene dell'intera comunità nazionale". Nel perseguire tale obiettivo, aggiunge il Papa, "la Chiesa non si propone mire di potere, né pretende privilegi o aspira a posizioni di vantaggio economico o sociale. Suo solo scopo è servire l'uomo, ispirandosi alle parole e all'esempio di Gesù".

"L'Italia difenda la vita". Il Papa non fa alcun cenno diretto agli attacchi subìti nelle ultime settimane dal fronte politico e da quello giornalistico, e anzi definisce "stretti" i "vincoli di cooperazione" che "caratterizzano i rapporti" tra la Santa Sede e l'Italia. Infine, formula l'auspicio che il Paese sappia "custodire gelosamente l'eredità culturale e spirituale che lo contraddistingue, e che fa parte integrante della sua storia". La fedeltà alle proprie radici, aggiunge, "sia ancor più stimolo a affrontare in modo adeguato le grandi sfide che contarassegnano l'età post-moderna: tra queste mi limito a citare la difesa della vita umana in ogni sua fase, la tutela dei diritti della persona e della famiglia, la costruzione di un mondo solidale, il rispetto del creato, il dialogo interculturale e interreligioso".

"Sì al progresso, ma con valori umani e cristiani". L'Italia deve continuare "sulla via dell'autentico progresso", ma sempre "promuovendo i valori umani e cristiani", che costituiscono "un irrinunciabile patrimonio ideale e che hanno dato vita alla sua cultura e alla sua storia civile e religiosa".

(4 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE - Turisti nel nome di Dio un affare da 5 miliardi
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2007, 05:09:59 pm
CRONACA

L'ultimo dato ufficiale (2001): 650 milioni di stipendi agli insegnanti che nel frattempo sono diventati più di 25mila: di questi 14mila di ruolo

Religione, il dogma in aula un'ora che vale un miliardo

La Spagna studia la revisione degli accordi con la Chiesa

In Italia invece non se ne parla neppure

di CURZIO MALTESE



L'ultima ondata di bullismo nelle scuole ha convinto il governo a istituire dal prossimo anno due ore di educazione civica obbligatoria, chiamata Cittadinanza e Diritti Umani, in ogni ordine d' insegnamento, dalle materne ai licei. Durissima la protesta dei vescovi, che hanno parlato di "catechismo socialista" e invitato le associazioni di insegnanti e genitori cattolici a scendere in piazza e avvalersi dell'obiezione di coscienza. Il presidente del consiglio ha risposto in televisione che, nel rispetto totale della maggioranza cattolica del paese, la laicità dello Stato resta un valore fondante della democrazia e l'educazione civica non è né può essere in competizione con l'ora facoltativa di religioni (cattolica come ebraica, islamica o luterana) già prevista nei programmi. Il premier ha aggiunto di voler confermare i tagli ai finanziamenti delle scuole private cattoliche e non, definiti "un ritorno alla legalità costituzionale" rispetto alla politica del precedente governo di destra. A questo punto forse il lettore si sarà domandato: ma dov' ero quando è successo tutto questo? In Italia. Mentre la vicenda naturalmente si è svolta altrove, nella Spagna del governo Zapatero, otto mesi fa. Il braccio di ferro fra stato laico e vescovi è andato avanti e oggi il governo spagnolo studia addirittura una revisione del Concordato del 1979. Una realtà lontana da noi.

Nelle scuole italiane, più devastate dal bullismo di quelle spagnole, l'ora di educazione civica è abolita nelle primarie e quasi inesistente nelle superiori. Lo Stato in compenso si preoccupa di tutelare il più possibile l'ora di religione, al singolare: cattolica. Quanto ai finanziamenti alle scuole private cattoliche, in teoria vietati dall'articolo 33 della Costituzione ("Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato"), l'attuale governo di centrosinistra, con il ministro Fioroni all'Istruzione, è impegnato al momento a battere i record di generosità stabiliti ai tempi di Berlusconi e Letizia Moratti.

L'ora facoltativa di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro all'anno. E' la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica, di pochi milioni inferiore all'otto per mille. Ma rischia di diventare in breve la prima. L'ultimo dato ufficiale del ministero parla di 650 milioni di spesa per gli stipendi agli insegnanti di religione, ma risale al 2001 quando erano 22 mila e tutti precari. Ora sono diventati 25.679, dei quali 14.670 passati di ruolo, grazie a una rapida e un po' farsesca serie di concorsi di massa inaugurati dal governo Berlusconi nel 2004 e proseguita dall'attuale.

Il regalo del posto fisso agli insegnanti di religione è al centro d' infinite diatribe legali. Per almeno due ordini di ragioni. La prima obiezione è di principio. L'ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per giunta, gli insegnanti di religione sono scelti dai vescovi e non dallo Stato. Ma se la diocesi ritira l'idoneità, come può accadere per mille motivi (per esempio, una separazione), lo Stato deve comunque accollarsi l'ex insegnante di religione fino alla pensione.

L'altra fonte di polemiche è la disparità di trattamento economico fra insegnanti "normali" e di religione. A parità di prestazioni, gli insegnanti di religione guadagnano infatti più dei colleghi delle materie obbligatorie. Erano già i precari della scuola più pagati d' Italia. Nel 1996 e nel 2000, con due circolari, i governi ulivisti avevano infatti deciso di applicare soltanto agli insegnanti di religione gli scatti biennali di stipendio (2,5 per cento) e di anzianità previsti per tutti i precari della scuola da due leggi, una del 1961 e l'altra del 1980. Il vantaggio è stato confermato e anzi consolidato con il passaggio di ruolo, a differenza ancora una volta di tutti gli altri colleghi.

L'inspiegabile privilegio ha spinto prima decine di precari e ora centinaia di insegnanti di ruolo di altre materie a promuovere cause legali di risarcimento. Nel caso, per nulla remoto, in cui le richieste fossero accolte dai tribunali del lavoro, lo Stato dovrebbe sborsare una cifra valutabile fra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di euro. A parte le questioni economiche e legali, chiunque ricordi che cos' era l'ora di religione ai suoi tempi e oggi chiunque trascorra una mattinata nella scuola dei figli non può evitare di porsi una domanda. Vale la pena di spendere un miliardo di euro all'anno, in tempi di tagli feroci all'istruzione, per mantenere questa ora di religione? Uno strano ibrido di animazione sociale e vaghi concetti etici destinati a rimanere nella testa degli studenti forse lo spazio d' un mattino. Pochi cenni sulla Bibbia, quasi mai letta, brevi e reticenti riassunti di storia della religione.

In Europa il tema dell'insegnamento religioso nelle scuole pubbliche è al centro di un vivace e colto dibattito, ben al di sopra delle vecchie risse fra clericali e anticlericali. Nello stato più laico del mondo, la Francia, il regista Regis Debray, amico del Che Guevara e consigliere di Mitterrand, a suo tempo ha rotto il monolitico fronte laicista sostenendo l'utilità d' inserire nei programmi scolastici lo studio della storia delle religioni. In Gran Bretagna la teoria del celebre biologo Roger Dawkins ("L'illusione di Dio"), ripresa dallo scienziato Nicholas Humprey, secondo il quale "l'insegnamento scolastico di fatti non oggettivi e non provabili, come per esempio che Dio ha creato il mondo in sei giorni, rappresenta una violazione dei diritti dell'infanzia, un vero abuso", ha suscitato un ricco dibattito pedagogico. Ma è un fatto, sostiene Dawkins, che "noi non esitiamo a definire un bambino cristiano o musulmano, quando è troppo piccolo per comprendere questi argomenti, mentre non diremmo mai di un bambino che è marxista o keynesiano, Con la religione si fa un'eccezione".

In Germania, Spagna, perfino nella cattolicissima Polonia di Karol Woytjla, il dibattito non si è limitato alle pagine dei giornali ma ha prodotto cambiamenti nelle leggi e nei programmi scolastici, come l'inserimento di altre religioni (Islam e ebraismo, per esempio) fra le scelte possibili o la trasformazione dell'ora di religione in storia delle religioni comparate, tendenze ormai generali nei sistemi continentali. In Italia ogni timido tentativo di discussione è stroncato sul nascere da una ferrea censura. L'ora di religione cattolica è un dogma. La sola ipotesi di affiancare all'ora di cattolicesimo altre religioni, come avviene in tutta Europa con le sole eccezioni di Irlanda e dell'ortodossa Cipro, procura un immediata patente di estremismo, anticlericalismo viscerale, lobbismo ebraico o addirittura simpatie per Al Quaeda. Quanto ad abolirla, come in Francia, è un'ipotesi che non sfiora neppure le menti laiche.

Gli unici ad avere il coraggio di proporlo sono stati, come spesso accade, alcuni intellettuali cattolici. Lo scrittore Vittorio Messori, per esempio: "Fosse per me cancellerei un vecchio relitto concordatario come l'attuale ora di religione. In una prospettiva cattolica la formazione religiosa può essere solo una catechesi e nelle scuole statali, che sono pagate da tutti, non si può e non si deve insegnare il catechismo. Lo facciano le parrocchie a spese dei fedeli~ Perciò ritiriamo i professori di religione dalle scuole pubbliche e assumiamoli nelle parrocchie tassandoci noi credenti".

Messori non manca di liquidare anche gli aiuti di Stato alle scuole cattoliche, negati per mezzo secolo dalla Democrazia Cristiana, inaugurati con la legge 62 del 10 marzo 2000 dal governo D' Alema con Berlinguer all'Istruzione, dilagati nel periodo Berlusconi-Moratti (con il trucco dei "bonus" agli studenti per aggirare la Costituzione) e mantenuti dall'attuale ministro Fioroni, con giuramento solenne davanti alla platea ciellina del meeting di Rimini. "Lo Stato si limiti a riconoscere che ogni scuola non statale in più consente risparmio di danaro pubblico e di conseguenza conceda sgravi fiscali. Niente di più".

Il cardinale Carlo Maria Martini, da arcivescovo di Milano, aveva dichiarato che l'ora di religione delle scuole italiane doveva ritenersi inutile o anche "offensiva", raccomandando di raddoppiarla e farne una materia seria di studio oppure lasciar perdere. La Cei ha sempre risposto che l'ora di religione è un successo, raccoglie il 92 per cento di adesioni, a riprova delle profonde radici del cattolicesimo in Italia. Ma se la Cei ha tanta fiducia nei fedeli non si capisce perché chieda (e ottenga dallo Stato) che l'ora di religione sia sempre inserita a metà mattinata e mai all'inizio o alla fine delle lezioni, come sarebbe ovvio per un insegnamento facoltativo. Perché chieda (e sempre ottenga) il non svolgimento nei fatti dell'ora alternativa. In molte materne ed elementari romane ai genitori è stato comunicato che i bambini di 5 o 6 anni non iscritti all'ora di religione "potevano rimanere nei corridoi". Prospettiva terrorizzante per qualsiasi madre o padre.

D' altra parte la sicurezza ostentata dai vescovi si scontra con l'allarme lanciato nella relazione della Cei dell'aprile scorso sul progressivo abbandono dell'ora di religione, con un tasso di rinuncia che parte dal 5,4 delle elementari e arriva al 15,4 per cento delle superiori (con punte del 50 non solo nelle regioni "rosse" come la Toscana o l'Emilia-Romagna ma anche in Lombardia e nelle grandi città), man mano che gli studenti crescono e possono decidere da soli. Alla fine nessun argomento ufficiale cancella il dubbio. L'ora di religione, così com' è, costituisce davvero un insegnamento del catechismo ("che in ogni caso ciascuno si può portare a casa con poche lire" ricordava don Milani) o non piuttosto un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro?
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(25 ottobre 2007)
da repubblica.it


Titolo: Navarro-Valls si impappina al Tg1. E paga la penitenza ad “Avvenire”
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2007, 06:47:25 pm
Oggi 29 ottobre 2007, 6 ore fa

Navarro-Valls si impappina al Tg1. E paga la penitenza ad “Avvenire”

Ieri 28 ottobre 2007, 16.14.48 | Sandro Magister


Domenica 28 ottobre Joaquín Navarro-Valls ha ricevuto a Potenza il “Premio Basilicata” per non meglio precisati meriti di “letteratura spirituale e poesia religiosa”.

Ma prima di ritirare il premio, l’ex portavoce di Giovanni Paolo II ha dovuto pagare penitenza col giornale della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”.

A far infuriare il direttore di “Avvenire”, Dino Boffo, era stata, giovedì 25 ottobre, un’intervista rilasciata da Navarro negli studi del Tg1 delle 20. L’intervista riguardava le inchieste pubblicate da “la Repubblica” sui “privilegi” finanziari della Chiesa italiana. Polemica rincarata, la mattina di quello stesso giovedì, da un editoriale del direttore di “la Repubblica”, Ezio Mauro, contro uno spicciativo “Finiamola!” pronunciato il giorno prima dal segretario di stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone.

Ebbene, intervistato dal Tg1, il sorridente Navarro – che da quando ha cambiato mestiere è anche columnist di “la Repubblica” – non proferì una sola parola a difesa delle ragioni della Chiesa.

Apriti cielo. La mattina dopo il direttore di “Avvenire”, in un editoriale di risposta a “la Repubblica”, infilò una riga al veleno contro Navarro:

“L’elenco di errori, omissioni e verità parziali è lunghissimo, e tale resta purtroppo anche dopo l’intervento di Navarro-Valls ieri sera al Tg1…”.

Era facile, a quel punto, indovinare che Navarro avrebbe proceduto a una riparazione della malefatta.

La riparazione è apparsa su “Avvenire” di domenica 28 ottobre. In un’intervista nella quale Navarro dichiara che la Chiesa non ha “privilegi” ma opera con grande efficacia, in piena trasparenza e col larghissimo consenso dei cittadini italiani.

Non solo. Fin dal titolo l’intervista è presentata da “Avvenire” come un doveroso completamento a quanto non detto da Navarro al Tg1.

E per prima cosa Navarro, con la cenere sul capo, pronuncia l’atto di discolpa:

“Pochi giorni fa sono stato intervistato dal telegiornale di Raiuno su questi argomenti. Mi era sembrato in quel momento che la priorità fosse quella di evitare toni polemici, soprattutto di tipo personale, cercando di ragionare con calma. Ma ci sono anche questioni di merito, sulle quali è bene evitare imprecisioni, che non giovano a nessuno”.

“Vediamo allora di ragionare sui dati oggettivi”, lo incalza l’intervistatore.

“Appunto. E il primo mi sembra proprio questo: la Chiesa in Italia non gode di alcun privilegio”. Eccetera, eccetera.


da magister.blogautore.espresso.repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2007, 10:21:21 am
CRONACA

Lo straordinario business dei pellegrinaggi cresce del 20% all'anno. Aerei selezionati conventi a 5 stelle.

E l'extraterritorialità consente guadagni esentasse

Turisti nel nome di Dio un affare da 5 miliardi

di CURZIO MALTESE


DAL BLOG di papa Ratzinger, ufficioso ma benedetto dal Santo Padre, si legge: "Nell'era del low cost, l'Opera Romana Pellegrinaggi si adegua". La ricerca di Dio si affida a voli rigorosamente a basso costo. Il Boeing 707-200 della flotta Mistral, fondata nel 1981 dall'attore Bud Spencer, e ora targato Orp, è decollato il 27 agosto da Roma con destinazione Lourdes.
I pellegrini, 148 fra i quali l'invitato Luciano Moggi, hanno intrapreso il viaggio spirituale supportati da una guida d'eccellenza: il cardinale Camillo Ruini. Il rettore della Pontificia Università Lateranense ha elargito la sua benedizione ai devoti. All'ingresso, le hostess in completo giallo e blu, spilla del Vaticano e fazzoletto giallo al collo, accolgono i passeggeri e li accompagno al posto. Sul poggiatesta si legge: "Cerco il tuo volto Signore".

È nato insomma con un lancio pubblicitario in grande stile l'accordo fra il Vaticano e la Mistral nel settore del turismo della fede. Per una "ricerca di Dio con voli rigorosamente a basso costo", la Chiesa si affida al testimonial Luciano Moggi, all'epoca già rinviato a giudizio, e alla chiacchierata compagnia delle Poste Italiane. La Mistral, fondata da Bud Spencer e salvata durante il governo Berlusconi con un'operazione giudicata fuori mercato perfino da alcuni parlamentari della destra e ancora oggi avvolta nel mistero.

Un'interrogazione del deputato di An Vincenzo Nespoli sul perché le Poste sborsavano fino a quindici volte il valore nominale delle azioni Mistral, per fare oltrettutto concorrenza all'Alitalia in crisi, non ebbe mai risposta dal governo. Il patto fra Mistral e Opera Romana Pellegrinaggi per trasportare il primo anno 50 mila pellegrini italiani verso i santuari d'Europa e Terra Santa, con la previsione di arrivare a 150 mila nel 2008 (centocinquantesimo anniversario dell'apparizione di Fatima) non è che la punta dell'iceberg di un affare gigantesco: il turismo religioso. Quasi sempre esentasse.

Il turismo è il primo settore commerciale del mondo per espansione, terzo per margini di profitti dietro il petrolio e il traffico di armi. In Italia, una delle principali mete del pianeta, la chiesa cattolica è di gran lunga il dominus del settore. Secondo l'indagine Trademark la chiesa cattolica controlla ogni anno un traffico di 40 milioni di presenze, 19 milioni di pernottamenti, 250 mila posti letto in quasi 4 mila strutture. Il volume d'affari supera i 5 miliardi di euro all'anno, il triplo del fatturato dell'Alpitour, primo tour operator italiano. In cima alla piramide organizzativa del turismo cattolico sta l'Opera Romana Pellegrinaggi, che ha convenzioni con 2500 agenzie e una rete con migliaia di referenti sul territorio.

L'Opr è presieduta da Camillo Ruini, Vicario di Roma, con Liberio Andreatta già amministratore delegato e ora vice presidente, alle dirette dipendenze della Santa Sede. A fianco dell'Opr svolge un ruolo importante l'Apsa, l'amministrazione patrimoniale della Santa sede, che gestisce gli immobili della Chiesa e spesso gli utili alberghieri. Entrambe le società hanno sede nella Città del Vaticano, godono dunque di un regime di extraterritorialità che significa in pratica non dover presentare bilanci e sfuggire alle leggi italiane in materia fiscale, di igiene, prevenzione eccetera.

In più, in tutte le convenzioni fra l'Orp e i clienti, esiste un comma (16) che rimanda "per tutte le eventiali controversie" alla "legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano". E qual è la legge fondamentale della Città del Vaticano? Questa, che su qualsiasi controversia legale, civile o penale, l'ultima parola spetta al Papa. Il turista cattolico o no, ma in ogni caso al novanta per cento cittadino italiano, che volesse reclamare contro il servizio offerto, dovrebbe dunque aspettare la parola definitiva del Santo Padre. Nonostante questo, lo Stato italiano favorisce in vari modi l'Orp, patrocinata anche dal ministero delle Comunicazioni.

L'extraterritorialità del resto è una regola piuttosto diffusa per le attività commerciali della Chiesa, come nella sanità privata. L'ospedale pediatrico romano del Bambin Gesù, per fare un esempio, notissimo ai genitori della capitale, riceve numerosi finanziamenti statali e della Regione Lazio. Ma né l'amministrazione statale né quella regionale hanno il potere di rivedere gli accordi col Bambin Gesù perché ogni modifica deve essere trattata direttamente dal ministro degli Esteri con il Vaticano.

In un settore ricco e in forte espansione come il turismo, l'extraterritorialità si traduce in un formidabile ombrello fiscale. Non si tratta soltanto dell'Ici non pagata per alberghi, ristoranti, bar di proprietà degli enti ecclesiastici. Ma anche del mancato gettito di Irpef, Ires, Irap e altre imposte. Su questo lungo elenco di privilegi fiscali, non soltanto sull'Ici, la commissione europea ha chiesto da tempo chiarimenti al governo italiano. I lavoratori delle "case religiose", sempre più spesso veri e propri alberghi rintracciabili sul circuito commerciale normale, sono spesso suore o preti o volontari o legati da contratti anomali di collaborazione. Quindi la Chiesa non deve pagare le imposte sul lavoro dipendente.

Nel sito della Cei, a questo proposito, si legge negli ultimi tempi una ricorrente lamentela per il fatto che, visti gli indici di crescita, la catena turistica religiosa deve ricorrere sempre più spesso al personale "esterno". "Il personale esterno non garantisce le stesse prestazioni" di suore e preti, pretende di essere pagato per gli straordinari e cerca di introdurre tutele sindacali. Sia pure con i limiti enormi di libertà imposti dalla giurisdizione pontificia. I privilegi fiscali della Chiesa si traducono in un vantaggio sulla concorrenza e nella possibilità di praticare prezzi fuori mercato.

Se il settore turistico cresce ovunque in Italia, l'espansione di quello religioso ha tratti spettacolari, con un aumento di quasi il venti per cento all'anno.
Nel volgere di quattro o cinque anni il volume d'affari potrebbe sfondare il tetto dei 10 miliardi di euro. Non si tratta soltanto di turismo "povero" o "low cost". "Sono ormai un centinaio i monasteri-alberghi entrati nei network Condè-Nast, Relais & Chateaux o Leading Hotel of the world" scrive il Sole 24 Ore. Ma si tratti di due, tre, quattro o cinque stelle, i prezzi sono sempre inferiori alla concorrenza, grazie alle minori spese.

Abbiamo parlato nelle puntate scorse dell'hotel delle Brigidine, 190 euro a notte, ma in una zona dove un quattro o cinque stelle costa quasi il doppio. I casi soltanto nella capitale sono decine. Dai Carmelitani di Castel Sant'Angelo, che offrono camere con frigobar, tv satellitare e aria condizionata a 120 euro, fino ai "tre stelle" a 60 o 70 euro. La spendida abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano costa 300 euro, ma è un cinque stelle a tutti gli effetti. Lo stesso vale per le celebri Orsoline di Cortina e per il monastero di Camaldoli nell'aretino, mete di turismo intellettuale, culturale e politico d'alto bordo.

Se si scende al livello del turismo di massa, i prezzi calano ma il fatturato esplode. E lo stato italiano favorisce in ogni modo. Con le esenzioni e con i finanziamenti diretti. I 3.500 miliardi di lire versati dall'erario alla Chiesa per il Giubileo sono serviti in buona parte a riorgazzare la rete di accoglienza turistica. Ma quella pioggia di soldi non si è mai davvero fermata. In varie forme, governo ed enti locali continuano a sovvenzionare la rete alberghiera religiosa. Per il rilancio dell'antica Via Francigena, che nel medioevo collegava Roma a Canterbury, l'ultimo finanziamento statale è stato di 10 milioni di euro.
Ma bisogna aggiungere le centinaia di contributi degli enti locali. Visto il successo, l'Orp ha deciso di rilanciare anche altri pellegrinaggi: il Commino di Sigerico, da Milano a Roma; la Via dell'Est, che da Venezia attraversa Romagna e Umbria; l'antico cammino del Sud da Roma a Otranto. L'ultimo con un passaggio d'obbligo al santuario di San Giovanni Rotondo, il cui boom turistico ha messo di gran lunga in secondo piano le recenti rivelazioni sui dubbi di Giovanni Paolo XXIII a proposito della santità di Padre Pio, i suoi rapporti con le fedeli e l'origine reale delle stimmate.

In tutti questi progetti non c'è stato comune o provincia o regione o comunità montane, governata da destra o da sinistra, che non si sia accollata finanziamenti, agevolazioni fiscali, oneri di ristrutturazione. Non stupisce insomma che l'Opera Romana Pellegrinaggi allarghi di settimana in settimana il raggio d'azione. Il 2007 è stato l'anno dei voli della fede in Europa e Terra Santa. Il 2008 sarà l'anno dello sbarco nel mercato americano con il progetto "Christian World Tour". "Fra il 2008 e il 2009 - dichiara l'amministratore delegato dell'Orp, padre Cesare Atuire - i progetti saranno estesi all'America Latina e all'Oriente, in particolare Cina, India e Filippine". Tutto "rigorosamente low cost".
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(10 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2007, 06:59:32 pm
POLITICA

IL COMMENTO

I sette minuti del padrone

di CURZIO MALTESE

 
Per capire cos'è stata la politica ai tempi di Berlusconi un saggio serve meno di una telefonata di sette minuti fra il "Presidente" e "Agostino" che chiunque può scaricare dal sito di Repubblica e L'espresso.
Ancora una volta un'intercettazione disvela per caso il vero volto del potere in Italia. Ancora una volta gli intercettati, Berlusconi in testa, reagiscono lamentando la violazione della privacy, senza mai entrare nel merito dei contenuti. Devastanti.

Andiamo alla scena. Protagonisti il presidente, naturalmente Berlusconi, e Agostino Saccà, direttore della fiction Rai, l'uomo più potente della prima azienda culturale italiana, in teoria il capo della concorrenza a Mediaset. I rapporti sono chiari dal "pronto". Saccà dà del "lei" a Berlusconi e lo chiama sempre "presidente". Berlusconi risponde con il "tu" a Saccà, lo chiama "Agostino" e lo tratta come i servi ai tempi di Swift.

Nei sette irresistibili minuti di conversazione, dai quali forse un giorno una Rai libera trarrà finalmente una bella fiction, si mescolano generi teatrali, perlopiù comici, e argomenti. Si parla di televisioni, attrici raccomandate e politica. Senza soluzione di continuità perché sono la stessa cosa.

"Agostino" declama dall'ingresso in scena la sua natura di servo contento. Batte le mani al padrone, che fa il ritroso, lo gratifica di "uomo più amato d'Italia" ("lei colma un vuoto nel Paese, anche emotivamente"), usa il "noi" di parte per vantare la sua fedeltà. "Abbiamo mantenuto la maggioranza nel consiglio d'amministrazione Rai". Quindi, sempre in posizione genuflessa, il servo Agostino porta idealmente la bocca dalla scarpina rialzata del signore all'orecchio per sussurrargli i nomi dei traditori. Non quello "stronzo" di Urbani, come pensa il signore ma "i nostri alleati", An e Lega, "che hanno spaccato la maggioranza per un piatto di lenticchie". Lo implora di "richiamarli all'ordine".

Il Presidente prende nota e passa alle comande di giornata. Ha bisogno che vada avanti la fiction sul Barbarossa ("Bossi mi fa una testa tanta..."). Il fido Agostino acconsente con entusiasmo, ma segnala che il regista Renzo Martinelli ha creato problemi vantandosi troppo con la Padania. Il Martinelli è uno di quegli intellettuali molto di sinistra con eccellenti rapporti a destra e con Mediaset, eppure sempre liberi e alternativi e "contro", checché ne dicano alcuni moralisti borghesi di merda. Nella sintesi di Saccà, a tratti acuta, "un vero cretino".
Comunque non c'è problema, assicura il boss Rai. La fiction s'ha da fare "perché poi Barbarossa è Barbarossa, Legnano è Legnano". Argomenti inoppugnabili. Senza contare l'autocitazione. Saccà è infatti il geniale inventore dello slogan "perché Sanremo è Sanremo". D'altra parte, insiste il servitore, il padrone è così modesto, così liberale, gli chiede sempre tanto poco che è un piacere contentarlo.

"Per la verità, ogni tanto ti chiedo di donne", lo corregge Berlusconi, introducendo la seconda comanda. Si tratta di piazzare la solita Elena Russo e una certa Evelina Manna, per conto di un senatore della maggioranza di centrosinistra col quale Berlusconi tratta la caduta di Prodi. "Io la chiamo operazione libertà" chiarisce Berlusconi, che quando non racconta barzellette, rivela un involontario ma formidabile sense of humour.

Esaudito il terzo desiderio, il genio Saccà, invece di rientrare nella lampada, come nella tradizione, continua a profondersi in inchini e profferte di servigi. Tanto che perfino Berlusconi si stufa e lo liquida.

L'intercettazione è allegata all'inchiesta per cui Berlusconi è indagato con l'accusa di corruzione per la Rai e per il mercato dei voti, come ha rivelato Giuseppe D'Avanzo su Repubblica. In Italia, per effetto del combinato disposto di riforme di giustizia promosse da destra e da sinistra, si sa che i processi a imputati eccellenti finiscono tutti in prescrizione. In assenza di una verità processuale, le intercettazioni servono dunque nella pratica a farsi un'idea del Paese: e l'ascolto, fornisce anche un'idea sulle persone.
Il Paese degli Agostini e dei Berlusconi è una nazione dove la politica non governa nulla, tranne la televisione. Al singolare, perché la telefonata tra il leader della destra e Saccà rivela come il sistema berlusconiano sia una vera "struttura delta" che controlla l'universo Tv. Per necessità, il padrone della televisione è diventato il padrone della politica. Usa l'una per fare l'altra e viceversa.

Ci sarebbe un sistema semplice per interrompere questa perenne fonte di corruzione. Prendere un canestro, ficcarvi dentro in bussolotti una ventina di leggi europee sui sistemi televisivi, quindi estrarne a sorte una. Questo sistema, che rispecchia più o meno la logica seguita per discutere la riforma elettorale, non è mai stato preso in considerazione. Per quanto la riforma televisiva figurasse nei programmi del centrosinistra, prima e seconda versione.

I leader del centrosinistra, comunque si chiamino, alla fine s'innamorano dell'idea di poter trattare con Berlusconi, portatore di un conflitto d'interessi così gigantesco e pervasivo, accordi istituzionali "nell'interesse della collettività". Ora, l'interesse di Berlusconi per la collettività è ben illustrato dal suo dialogo con il boss della tv pubblica. Non si tratta di demonizzare i patti fra destra e sinistra. Se per esempio la sinistra e una parte di destra si trovassero finalmente ad approvare una decente e sempre più urgente riforma della Rai e dei monopoli televisivi, saremmo in prima fila a festeggiare il valore "bipartisan" dell'accordo. Ma allora si rischierebbe davvero di voltar pagina, di cambiare una politica che così com'è farà schifo ma garantisce a tutti un posto al sole, una fiction, una quota raccomandati e fidanzati, il proprio Saccà pronto ad esaudire i desideri.

(21 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Scandali, affari e misteri tutti i segreti dello Ior
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:10:21 am
CRONACA

L'Istituto Opere Religiose è la banca del Vaticano.

In deposito 5 miliardi di euro

Ai correntisti offre rendimenti record, impermeabilità ai controlli e segretezza totale

Scandali, affari e misteri tutti i segreti dello Ior

di CURZIO MALTESE


 LA CHIESA cattolica è l'unica religione a disporre di una dottrina sociale, fondata sulla lotta alla povertà e la demonizzazione del danaro, "sterco del diavolo". Vangelo secondo Matteo: "E' più facile che un cammello passi nella cruna dell'ago, che un ricco entri nel regno dei cieli". Ma è anche l'unica religione ad avere una propria banca per maneggiare affari e investimenti, l'Istituto Opere Religiose.

La sede dello Ior è uno scrigno di pietra all'interno delle mura vaticane. Una suggestiva torre del Quattrocento, fatta costruire da Niccolò V, con mura spesse nove metri alla base. Si entra attraverso una porta discreta, senza una scritta, una sigla o un simbolo. Soltanto il presidio delle guardie svizzere notte e giorno ne segnala l'importanza. All'interno si trovano una grande sala di computer, un solo sportello e un unico bancomat. Attraverso questa cruna dell'ago passano immense e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. La banca vaticana offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia "qualcuno ha avuto problemi con la giustizia", rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più riservato delle banche svizzere, l'istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto d'assegni con la sigla Ior non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici, in contanti o in lingotti d'oro. Nessuna traccia.

Da vent'anni, quando si chiuse il processo per lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo Ior è un buco nero in cui nessuno osa guardare. Per uscire dal crac che aveva rovinato decine di migliaia di famiglie, la banca vaticana versò 406 milioni di dollari ai liquidatori. Meno di un quarto rispetto ai 1.159 milioni di dollari dovuti secondo l'allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Lo scandalo fu accompagnato da infinite leggende e da una scia di cadaveri eccellenti. Michele Sindona avvelenato nel carcere di Voghera, Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, il giudice istruttore Emilio Alessandrini ucciso dai colpi di Prima Linea, l'avvocato Giorgio Ambrosoli freddato da un killer della mafia venuto dall'America al portone di casa.

Senza contare il mistero più inquietante, la morte di papa Luciani, dopo soli 33 giorni di pontificato, alla vigilia della decisione di rimuovere Paul Marcinkus e i vertici dello Ior. Sull'improvvisa fine di Giovanni Paolo I si sono alimentate macabre dicerie, aiutate dalla reticenza vaticana. Non vi sarà autopsia per accertare il presunto e fulminante infarto e non sarà mai trovato il taccuino con gli appunti sullo Ior che secondo molti testimoni il papa portò a letto l'ultima notte.
Era lo Ior di Paul Marcinkus, il figlio di un lavavetri lituano, nato a Cicero (Chicago) a due strade dal quartier generale di Al Capone, protagonista di una delle più clamorose quanto inspiegabili carriere nella storia recente della chiesa. Alto e atletico, buon giocatore di baseball e golf, era stato l'uomo che aveva salvato Paolo VI dall'attentato nelle Filippine. Ma forse non basta a spiegare la simpatia di un intellettuale come Montini, autore della più avanzata enciclica della storia, la Populorum Progressio, per questo prete americano perennemente atteggiato da avventuriero di Wall Street, con le mazze da golf nella fuoriserie, l'Avana incollato alle labbra, le stupende segreterie bionde e gli amici di poker della P2.

Con il successore di papa Luciani, Marcinkus trova subito un'intesa. A Karol Wojtyla piace molto quel figlio di immigrati dell'Est che parla bene il polacco, odia i comunisti e sembra così sensibile alle lotte di Solidarnosc. Quando i magistrati di Milano spiccano mandato d'arresto nei confronti di Marcinkus, il Vaticano si chiude come una roccaforte per proteggerlo, rifiuta ogni collaborazione con la giustizia italiana, sbandiera i passaporti esteri e l'extraterritorialità. Ci vorranno altri dieci anni a Woytjla per decidersi a rimuovere uno dei principali responsabili del crac Ambrosiano dalla presidenza dello Ior. Ma senza mai spendere una parola di condanna e neppure di velata critica: Marcinkus era e rimane per le gerarchie cattoliche "una vittima", anzi "un'ingenua vittima".

Dal 1989, con l'arrivo alla presidenza di Angelo Caloia, un galantuomo della finanza bianca, amico e collaboratore di Gianni Bazoli, molte cose dentro lo Ior cambiano. Altre no. Il ruolo di bonificatore dello Ior affidato al laico Caloia è molto vantato dalle gerarchie vaticane all'esterno quanto ostacolato all'interno, soprattutto nei primi anni. Come confida lo stesso Caloia al suo diarista, il giornalista cattolico Giancarlo Galli, autore di un libro fondamentale ma introvabile, Finanza bianca (Mondadori, 2003). "Il vero dominus dello Ior - scrive Galli - rimaneva monsignor Donato De Bonis, in rapporti con tutta la Roma che contava, politica e mondana. Francesco Cossiga lo chiamava Donatino, Giulio Andreotti lo teneva in massima considerazione. E poi aristocratici, finanzieri, artisti come Sofia Loren. Questo spiegherebbe perché fra i conti si trovassero anche quelli di personaggi che poi dovevano confrontarsi con la giustizia. Bastava un cenno del monsignore per aprire un conto segreto".

A volte monsignor De Bonis accompagnava di persona i correntisti con i contanti o l'oro nel caveau, attraverso una scala, in cima alla torre, "più vicino al cielo". I contrasti fra il presidente Caloia e De Bonis, in teoria sottoposto, saranno frequenti e duri. Commenta Giancarlo Galli: "Un'aurea legge manageriale vuole che, in caso di conflitto fra un superiore e un inferiore, sia quest'ultimo a soccombere. Ma essendo lo Ior istituzione particolarissima, quando un laico entra in rotta di collisione con una tonaca non è più questione di gradi".

La glasnost finanziaria di Caloia procede in ogni caso a ritmi serrati, ma non impedisce che l'ombra dello Ior venga evocata in quasi tutti gli scandali degli ultimi vent'anni. Da Tangentopoli alle stragi del '93 alla scalata dei "furbetti" e perfino a Calciopoli. Ma come appare, così l'ombra si dilegua. Nessuno sa o vuole guardare oltre le mura impenetrabili della banca vaticana.

L'autunno del 1993 è la stagione più crudele di Tangentopoli. Subito dopo i suicidi veri o presunti di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mattina del 4 ottobre arriva al presidente dello Ior una telefonata del procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli: "Caro professore, ci sono dei problemi, riguardanti lo Ior, i contatti con Enimont...". Il fatto è che una parte considerevole della "madre di tutte le tangenti", per la precisione 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, è transitata dallo Ior. Sul conto di un vecchio cliente, Luigi Bisignani, piduista, giornalista, collaboratore del gruppo Ferruzzi e faccendiere in proprio, in seguito condannato a 3 anni e 4 mesi per lo scandalo Enimont e di recente rispuntato nell'inchiesta "Why Not" di Luigi De Magistris. Dopo la telefonata di Borrelli, il presidente Caloia si precipita a consulto in Vaticano da monsignor Renato Dardozzi, fiduciario del segretario di Stato Agostino Casaroli. "Monsignor Dardozzi - racconterà a Galli lo stesso Caloia - col suo fiorito linguaggio disse che ero nella merda e, per farmelo capire, ordinò una brandina da sistemare in Vaticano. Mi opposi, rispondendogli che avrei continuato ad alloggiare all'Hassler. Tuttavia accettai il suggerimento di consultare d'urgenza dei luminari di diritto. Una risposta a Borrelli bisognava pur darla!". La risposta sarà di poche ma definitive righe: "Ogni eventuale testimonianza è sottoposta a una richiesta di rogatoria internazionale".

I magistrati del pool valutano l'ipotesi della rogatoria. Lo Ior non ha sportelli in terra italiana, non emette assegni e, in quanto "ente fondante della Città del Vaticano", è protetto dal Concordato: qualsiasi richiesta deve partire dal ministero degli Esteri. Le probabilità di ottenere la rogatoria in queste condizioni sono lo zero virgola. In compenso l'effetto di una richiesta da parte dei giudici milanesi sarebbe devastante sull'opinione pubblica. Il pool si ritira in buon ordine e si accontenta della spiegazione ufficiale: "Lo Ior non poteva conoscere la destinazione del danaro".

Il secondo episodio, ancora più cupo, risale alla metà degli anni Novanta, durante il processo per mafia a Marcello Dell'Utri. In video conferenza dagli Stati Uniti il pentito Francesco Marino Mannoia rivela che "Licio Gelli investiva i danari dei corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano". "Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione". Fin qui Mannoia fornisce informazioni di prima mano. Da capo delle raffinerie di eroina di tutta la Sicilia occidentale, principale fonte di profitto delle cosche. Non può non sapere dove finiscono i capitali mafiosi. Quindi va oltre, con un'ipotesi. "Quando il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) venne in Sicilia e scomunicò i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due bombe davanti a due chiese di Roma". Mannoia non è uno qualsiasi.

E' secondo Giovanni Falcone "il più attendibile dei collaboratori di giustizia", per alcuni versi più prezioso dello stesso Buscetta. Ogni sua affermazione ha trovato riscontri oggettivi. Soltanto su una non si è proceduto ad accertare i fatti, quella sullo Ior. I magistrati del caso Dell'Utri non indagano sulla pista Ior perché non riguarda Dell'Utri e il gruppo Berlusconi, ma passano le carte ai colleghi del processo Andreotti. Scarpinato e gli altri sono a conoscenza del precedente di Borrelli e non firmano la richiesta di rogatoria. Al palazzo di giustizia di Palermo qualcuno in alto osserva: "Non ci siamo fatti abbastanza nemici per metterci contro anche il Vaticano?".

Sulle trame dello Ior cala un altro sipario di dieci anni, fino alla scalata dei "furbetti del quartierino". Il 10 luglio dell'anno scorso il capo dei "furbetti", Giampiero Fiorani, racconta in carcere ai magistrati: "Alla Bsi svizzera ci sono tre conti della Santa Sede che saranno, non esagero, due o tre miliardi di euro". Al pm milanese Francesco Greco, Fiorani fa l'elenco dei versamenti in nero fatti alle casse vaticane: "I primi soldi neri li ho dati al cardinale Castillo Lara (presidente dell'Apsa, l'amministrazione del patrimonio immobiliare della chiesa, ndr), quando ho comprato la Cassa Lombarda. M'ha chiesto trenta miliardi di lire, possibilmente su un conto estero".

Altri seguiranno, molti a giudicare dalle lamentele dello stesso Fiorani nell'incontro con il cardinale Giovanni Battista Re, potente prefetto della congregazione dei vescovi e braccio destro di Ruini: "Uno che vi ha sempre dato i soldi, come io ve li ho sempre dati in contanti, e andava tutto bene, ma poi quando è in disgrazia non fate neanche una telefonata a sua moglie per sapere se sta bene o male".
Il Vaticano molla presto Fiorani, ma in compenso difende Antonio Fazio fino al giorno prima delle dimissioni, quando ormai lo hanno abbandonato tutti. Avvenire e Osservatore Romano ripetono fino all'ultimo giorno di Fazio in Bankitalia la teoria del "complotto politico" contro il governatore. Del resto, la carriera di questo strano banchiere che alle riunioni dei governatori centrali non ha mai citato una volta Keynes ma almeno un centinaio di volte le encicliche, si spiega in buona parte con l'appoggio vaticano. In prima persona di Camillo Ruini, presidente della Cei, e poi di Giovanni Battista Re, amico intimo di Fazio, tanto da aver celebrato nel 2003 la messa per il venticinquesimo anniversario di matrimonio dell'ex governatore con Maria Cristina Rosati.

Naturalmente neppure i racconti di Fiorani aprono lo scrigno dei segreti dello Ior e dell'Apsa, i cui rapporti con le banche svizzere e i paradisi fiscali in giro per il mondo sono quantomeno singolari. E' difficile per esempio spiegare con esigenze pastorali la decisione del Vaticano di scorporare le Isole Cayman dalla naturale diocesi giamaicana di Kingston, per proclamarle "missio sui iuris" alle dirette dipendenze della Santa Sede e affidarle al cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio dello Ior.

Il quarto e ultimo episodio di coinvolgimento dello Ior negli scandali italiani è quasi comico rispetto ai precedenti e riguarda Calciopoli. Secondo i magistrati romani Palamara e Palaia, i fondi neri della Gea, la società di mediazione presieduta dal figlio di Moggi, sarebbero custoditi nella banca vaticana. Attraverso i buoni uffici di un altro dei banchieri di fiducia della Santa Sede dalla fedina penale non immacolata, Cesare Geronzi, padre dell'azionista di maggioranza della Gea. Nel caveau dello Ior sarebbe custodito anche il "tesoretto" personale di Luciano Moggi, stimato in 150 milioni di euro. Al solito, rogatorie e verifiche sono impossibili. Ma è certo che Moggi gode di grande considerazione in Vaticano. Difeso dalla stampa cattolica sempre, accolto nei pellegrinaggi a Lourdes dalla corte di Ruini, Moggi è da poco diventato titolare di una rubrica di "etica e sport" su Petrus, il quotidiano on-line vicino a papa Benedetto XVI, da dove l'ex dirigente juventino rinviato a giudizio ha subito cominciato a scagliare le prime pietre contro la corruzione (altrui).

Con l'immagine di Luciano Moggi maestro di morale cattolica si chiude l'ultima puntata dell'inchiesta sui soldi della Chiesa. I segreti dello Ior rimarranno custoditi forse per sempre nella torre-scrigno. L'epoca Marcinkus è archiviata ma l'opacità che circonda la banca della Santa Sede è ben lontana dallo sciogliersi in acque trasparenti. Si sa soltanto che le casse e il caveau dello Ior non sono mai state tanto pingui e i depositi continuano ad affluire, incoraggiati da interessi del 12 per cento annuo e perfino superiori. Fornire cifre precise è, come detto, impossibile. Le poche accertate sono queste. Con oltre 407 mila dollari di prodotto interno lordo pro capite, la Città del Vaticano è di gran lunga lo "stato più ricco del mondo", come si leggeva nella bella inchiesta di Marina Marinetti su Panorama Economy. Secondo le stime della Fed del 2002, frutto dell'unica inchiesta di un'autorità internazionale sulla finanza vaticana e riferita soltanto agli interessi su suolo americano, la chiesa cattolica possedeva negli Stati Uniti 298 milioni di dollari in titoli, 195 milioni in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine, più joint venture con partner Usa per 273 milioni.

Nessuna autorità italiana ha mai avviato un'inchiesta per stabilire il peso economico del Vaticano nel paese che lo ospita. Un potere enorme, diretto e indiretto. Negli ultimi decenni il mondo cattolico ha espugnato la roccaforte tradizionale delle minoranze laiche e liberali italiane, la finanza. Dal tramonto di Enrico Cuccia, il vecchio azionista gran nemico di Sindona, di Calvi e dello Ior, la "finanza bianca" ha conquistato posizioni su posizioni. La definizione è certo generica e comprende personaggi assai distanti tra loro. Ma tutti in relazione stretta con le gerarchie ecclesiastiche, con le associazioni cattoliche e con la prelatura dell'Opus Dei. In un'Italia dove la politica conta ormai meno della finanza, la chiesa cattolica ha più potere e influenza sulle banche di quanta ne avesse ai tempi della Democrazia Cristiana.
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(26 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE. Il richiamo della foresta
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2008, 05:45:11 pm
POLITICA

IL COMMENTO

Il richiamo della foresta

di CURZIO MALTESE


Sarà la convinzione d'avere il sole della vittoria in tasca. Saranno l'età e i chilometri: alla quinta campagna elettorale il repertorio fatalmente si avvizzisce. Sarà che Berlusconi è sempre stato così, ma insomma il livello di gaffes ciniche e volgari assemblato dal Cavaliere in due settimane di campagna elettorale sembra eccessivo perfino agli amanti del genere.

Persi i grandi alibi del sogno e dell'anticomunismo, a Berlusconi sono rimaste soltanto le barzellette. L'intera sua campagna assomiglia a una barzelletta, del genere greve. L'altra sera al Tg2, a una ragazza precaria che gli poneva un problema serio ("Come si può metter su una famiglia con 600 euro al mese?") il candidato premier del centrodestra ha consigliato di sposare Berlusconi junior o "un tipo del genere", un figlio di miliardario. Di fronte al gelo dello studio, il grande comunicatore ha poi improvvisato una risposta seria delle sue, cioè lievemente meno cialtrona.

Non si era ancora spenta l'eco della candidatura di Ciarrapico, giustificata da Berlusconi più o meno così: d'accordo, è un fascista ma possiede giornali "che servono". Il verbo è da intendersi in senso largo. Il passaggio logico in cui il primo editore d'Italia dava per scontato che i giornalisti siano servi dei loro padroni è sfuggito alla già rinomata categoria. Ma in molti pagheremmo una cifra, come si dice a Milano, per vedere Berlusconi ripetere il concetto ai leader del partito popolare europeo, che ieri hanno chiarito di non essere disposti ad accogliere nostalgici di Mussolini.

Poco prima il Cavaliere, per tener fede ai propositi di fair play elettorale, s'era messo a stracciare in pubblico il programma del Pd. La campagna era cominciata peraltro con una solenne presa per i fondelli dei suoi elettori, intorno alla vicenda della candidatura di Clemente Mastella. Berlusconi aveva ammesso di aver offerto la candidatura a Mastella, ai tempi in cui questi era ancora nel centrosinistra, ma d'aver poi deciso di non onorare la promessa, "perché secondo i sondaggi, ci farebbe perdere dall'otto al dieci per cento". Anche qui è passato inosservato il passaggio logico per cui un quarto degli elettori del Pdl sarebbero tanto imbecilli da non distinguere fra un gesto politico convinto, magari dettato da scrupoli etici, e una trovata opportunistica.

Nella democrazia americana, che Berlusconi cita da una vita a modello, una qualsiasi di queste gaffes, per usare un eufemismo, avrebbe comportato l'immediata fine della carriera politica. In Italia, per fortuna sua ma non nostra, offendere le donne, i media, gli avversari e perfino l'intelligenza dei propri elettori, non è considerato grave. Neppure o soprattutto dagli interessati. E' possibile, anzi probabile, che Berlusconi non abbia perso un solo voto dei suoi, né di donne, né di giornalisti, né fra i molti antipatizzanti dell'ex Guardasigilli. Ci sono ben altri problemi, come ripete il Cavaliere. Per esempio la questione della spazzatura a Napoli, per la quale lui stesso non ha fatto nulla nei sette anni di governo.

Il tratto più sorprendente è come Berlusconi, ormai il più anziano leader in attività d'Italia e fra i più anziani del mondo, in tanti anni non abbia raggiunto un grado minimo di dimestichezza con il linguaggio democratico. Il linguaggio che accomuna in Europa e in Nord America tutti i capi di partito, conservatori o progressisti, con sporadiche eccezioni populiste, fenomeni in genere di breve durata o di limitato consenso.

Il richiamo della foresta in lui è sempre più forte di tutto, perfino in una campagna elettorale nata all'insegna della moderazione e, in teoria almeno, vinta in partenza dal centrodestra. Al cinismo berlusconiano il Paese è mitridatizzato da anni. Non manca chi lo considera, fra seguaci e avversari, con divertimento. Si accettano già scommesse sulle barzellette e le battute che il capo potrà sfornare quando incontrerà da premier il primo presidente donna o il primo presidente nero degli Stati Uniti. Tanto, ci saranno sempre "ben altri problemi". Ma se non si riesce a cambiare nemmeno la forma, figurarsi la sostanza.


(14 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 09:32:07 am
L'ANALISI

Il morso del Caimano

di CURZIO MALTESE

 

È un po' ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l'amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l'insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2.

Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l'Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all'enorme potere mediatico del premier.

Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l'assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d'urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti.

Il pacchetto giustizia di oggi è più eversivo della Cirami e del lodo Schifani, a sua volta più eversivi del "colpo di spugna" del '94. Ma, alla crescente forza delle torsioni imposte da Berlusconi agli assetti democratici, ha corrisposto una reazione dell'opinione pubblica sempre più debole. Nel '94 la rivolta contro la "salva-ladri" azzoppò da subito un governo destinato a durare pochi mesi. Nel 2001 i "girotondi" inaugurarono una stagione di movimenti, con milioni di persone nelle piazze, che si tradussero fin dal primo anno in una serie di pesanti sconfitte elettorali per la maggioranza di centrodestra, pure larghissima in Parlamento.

La terza volta, questa, in presenza di un tentativo ancora più clamoroso di far saltare i cardini della magistratura indipendente, la reazione è molto debole. L'opposizione, accantonate le illusioni di dialogo, annuncia una stagione di lotte, ma non ora, in autunno. La cosiddetta società civile sembra scomparsa dalla scena. I magistrati sono gli unici a ribellarsi con veemenza, ma sembrano isolati, almeno nei sondaggi. Quasi difendessero la propria corporazione e non i diritti e la libertà di tutti, così come l'hanno disegnata i padri della Costituzione.

Ecco che la questione non è che cosa sia successo a Berlusconi (nulla), ma che cosa è successo al Paese. Siamo davvero diventati un "paese un po' bulgaro", come si è lasciato sfuggire il demiurgo pochi giorni fa? La risposta, purtroppo, è sì.

In questo quarto di secolo che non ha cambiato Berlusconi, l'Italia è cambiata molto e in peggio, il tessuto civile e sociale si è logorato, il senso comune è stato modellato su pulsioni autoritarie. Molti discorsi che si sentono negli uffici, nei bar, sulle spiagge oggi, da tutti e su tutto, si tratti di immigrazione o di giustizia, di diritti civili come di religione, di Europa o di sindacati, nell'Italia del '94 sarebbero stati inimmaginabili.

Il berlusconismo è partito dalla pancia di un Paese dove la democrazia non si è mai compiuta fino in fondo, per mille ragioni (ragioni di destra e di sinistra), ma ora ha invaso tutti gli organi della nazione ed è arrivato al cervello. La mutazione genetica della società italiana è evidente a chi ci guarda da fuori. Perfino negli aspetti superficiali, di pelle: non eravamo mai stati un popolo "antipatico", com'è oggi. Più seriamente, il ritorno di Berlusconi al potere e le sue prime e devastanti uscite hanno evocato i peggiori fantasmi sulla scena internazionale.

Si tratta però di vedere se il "caso Italia" è tale anche per gli italiani. Se nell'opinione pubblica esistano ancora quei reagenti democratici che hanno impedito nel '94 e nel 2001 la deriva, più o meno morbida, verso un regime. I segnali sono contraddittori, la partita è aperta. Certo, in questi decenni la forza d'urto del populismo berlusconiano è andata crescendo, così come la presa su pezzi sempre più ampi di società. Non si tratta soltanto di potere delle televisioni o dell'editoria, ma di una vera e propria egemonia culturale. E sorprende che nell'opposizione, gli ex allievi di Gramsci, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non comprendano i meccanismi e la portata della strategia in atto.

Altro che "l'onda lunga" di craxiana memoria. Anche loro, purtroppo, non cambiano mai. Si erano illusi (ancora!) di trasformare Berlusconi in uno statista, offrendogli un tavolo di trattative. S'illudono (ancora!) di poter resistere con la politica del "giù le mani" e con l'arroccarsi nelle regioni rosse, che sono già rosa pallido e rischiano prima o poi di finire grigie o nere. In attesa di tempi migliori.

Non ci saranno tempi migliori per l'opposizione. Bisogna trovare qui e ora il coraggio di proposte forti e alternative al pensiero unico dominante, invenzioni in grado di suscitare dibattito e bucare così la plumbea egemonia "bulgara" dell'agenda governativa. Bisogna farsi venire qualche idea, anzi molte, una al giorno, per svegliare l'opinione pubblica democratica dal torpore ipnotico con cui segue gli scatti in avanti di Berlusconi. Lo stesso torpore ipnotico che coglie la preda davanti alle mosse del caimano. Che alla fine, attacca.

(21 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE. Show-business sul palco
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 05:11:43 pm
POLITICA IL COMMENTO

Show-business sul palco

di CURZIO MALTESE

 
ROMA - Manifestazioni come quella di Piazza Navona dell'altro giorno sono show business. Servono a sfogare i sentimenti di un pubblico di spettatori, servono ai protagonisti a vendere merci sul mercato: libri, dvd, spettacoli teatrali. Non servono a cambiare le cose. Quindi non sono politica. I guai cominciano se si scambia lo show business per politica e lo si prende sul serio.

Quando Beppe Grillo o Sabina Guzzanti o altri comici sanno di dover intervenire a una manifestazione pubblica, riuniscono i loro autori e chiedono un "pezzo" efficace. Un testo per una riunione politica è diverso da un testo comico per il teatro, ma segue regole rigide. Non dev'essere serio ma neppure troppo divertente: sarebbe un errore. Si bruciano belle battute del repertorio, che è giusto riservare al pubblico pagante dei teatri e dei palazzetti. Oltretutto, se la gente ride troppo, pensa. E se pensa non si scalda abbastanza, non urla. Bisogna dunque tenere alto il livello dell'emozione e "spararle grosse". Contro un bersaglio non scontato. Altrimenti non si fa notizia. Occorre anche valutare se alla manifestazione parteciperanno altri comici, come nel caso di piazza Navona. In tal caso il livello di fuoco aumenta, perché si corre il rischio di essere oscurati dalla concorrenza, in gergo televisivo "impallati".

La logica è simile a quella che si segue per lanciare un film o un libro in una comparsata televisiva importante, uno show del sabato sera o il festival di Sanremo. È inutile parlare del prodotto in sé, perché il pubblico se lo aspetta e si perde l'effetto sorpresa. Benigni, quando doveva lanciare un film, non andava a parlare del film da Baudo o dalla Carrà ma s'inventava memorabili performances, tipo toccare gli attributi di Baudo o palpare le curve della Raffaella nazionale, con gran successo di promozione. Non tutti naturalmente, parlando di sesso o di altri temi "bassi" - penso al magnifico "Inno del corpo sciolto" - mostrano il talento di poeta contadino di Roberto. Le allusioni sessuali comunque funzionano sempre, soprattutto in Italia. Un altro trucco è attaccare un bersaglio imprevisto e in teoria intoccabile. Insomma, se Grillo o la Guzzanti si fossero limitati ad attaccare Berlusconi, nessuno ne avrebbe parlato. Per questo, hanno spostato l'obiettivo sul presidente della Repubblica e sul Papa.

Nulla è lasciato al caso. Si tratta di strategie calcolate, testi scritti e riscritti, trucchi del mestiere di grandi teatranti. Stiamo parlando di professionisti. Dello spettacolo. Scambiati per professionisti della politica. Da un punto di vista morale saranno discutibili. Ma che c'entrano la morale o la politica? In Italia, nel volgere di pochi secoli, si è finalmente capito che etica e politica sono separate. Per la verità, lo si è capito fin troppo. Un giorno si capirà che anche politica e spettacolo sono campi separati. Per ora, il giorno è lontano.

Gli eventi creati di Beppe Grillo, dai Vaffa Day in poi, non sono azioni politiche. Il fine non è cambiare le cose, ma accrescere la popolarità del protagonista. Basterebbe un po' di lucida attenzione per comprenderlo. Purtroppo, chi vi partecipa e chi li osteggia non brilla in lucidità. La maggior parte dei bersagli di Grillo sono irrilevanti, innocui oppure marginali. Che importanza volete che abbia la presenza di diciotto parlamentari condannati in Parlamento, su mille, quando ce ne sono stati in passato due, tre, cinque volte tanti e 200 inquisiti? D'altra parte se la presenza in politica di un pregiudicato fosse un tema così importante, i seguaci di Grillo non si affiderebbero a lui, che ha una condanna definitiva e ricopre un ruolo politico, per quanto improprio, assai più importante dei diciotto messi assieme. Lo stesso discorso vale per altri obiettivi, come il doppio mandato, l'ordine dei giornalisti, i finanziamenti ai giornali di partito. Tutte storture, tutte battaglie condivisibili, s'intende, ma quisquilie. Nel caso del referendum sulla legge Gasparri non si tratta di una quisquilia, ma è ancora peggio. È un suicidio politico. Se si votasse oggi, quel referendum sarebbe una catastrofe per l'opposizione e un trionfo per Berlusconi.

Ma la cosa più probabile è che il referendum non si faccia, per fortuna. Nessuna delle altre proposte avrà poi uno sbocco politico. Che senso ha dunque sbattersi tanto? Senso politico, nessuno. Ma il comico ha enormemente aumentato il proprio seguito, pubblico, clientela. Dico subito che trovo indegno e ridicolo ogni moralismo in proposito. Grillo è un uomo di spettacolo, è grottesco giudicarlo sulla base di un metro politico o etico. In più, se guadagna tanto, se lo merita. Ha fatto scelte coraggiose che gli hanno impedito di accedere alla principale fonte di arricchimento degli attori, la televisione pubblica e privata. È giusto che si cerchi altre audience. Il blog è la principale alternativa e lui lo ha intuito fra i primi. Ma se fosse un po' più sincero, dovrebbe ammettere che il suo blog non è tanto uno strumento di lotta politica e confronto di opinioni (peraltro, sono tutti d'accordo) quanto un fenomenale punto vendita di merci autoprodotte. O quanto meno è l'uno e l'altro. Grillo è dotato di un altro talento tipico dei comici, la scelta dei tempi. I suoi interventi sono ottimamente calibrati. Non frequenti, non distanti.

Appena calano l'attenzione e le vendite, ecco l'evento, il vaffanculo col botto mediatico. Nelle settimane successive, le vendite e la popolarità schizzeranno di nuovo alle stelle. Gli altri hanno capito e lo imitano. Oggi la frase che gli agenti di spettacolo si sentono ripetere più spesso dagli attori, ma ormai perfino da registi, scrittori e professori di diritto comparato col saggio in uscita, è "facciamo una cosa alla Grillo, facciamo un gran casino". S'intende, per lanciare il prodotto. I più avveduti o i più aristocratici, come Nanni Moretti, si sono sottratti per tempo alla trappola.

L'interesse delle persone di spettacolo a usare eventi politici a fini di popolarità e commerciali è insomma piuttosto evidente. Come dovrebbero essere chiare le analogie di meccanismo e di linguaggio fra queste tecniche e il populismo berlusconiano. Misteriosa è invece la ragione per cui i politici e gli organizzatori si prestino a queste operazioni di marketing, dalle quali hanno tutto da perdere. Paolo Flores ha il grande merito di aver avviato con la manifestazione del Palavobis del 2002 la stagione dei movimenti che, negli anni successivi, riempì le piazze italiane di milioni di persone. Da storico e filosofo di valore, può stimare lui stesso l'abissale distanza che separa la sobria e feconda forza politica del Palavobis di allora con la sguaiata impotenza di Piazza Navona. L'ultima adunata non avvierà una stagione di protesta. Al contrario, può aver contribuito a stroncarla sul nascere.

I toni, i modi, l'eco mediatica per quanto parziale e magari ingiusta dell'evento, hanno contribuito a rafforzare il disegno del "nemico" berlusconiano. Il quale da anni cerca di rovesciare la questione centrale della criminalità delle classi dirigenti italiane nel suo contrario, l'emarginazione fra gli estremisti di chi difende la magistratura e i valori della Costituzione. Con gli insulti di piazza Navona gli si è reso un enorme favore.

Quanto ad Antonio Di Pietro, non gode forse degli stessi strumenti culturali di Flores, ma ha di sicuro fiuto politico. Capirà prima o poi che la strada in cui si è messo porta a un finale scontato: Grillo in cima alle classifiche dei best sellers e l'Italia dei Valori allo 0,5 per cento dei voti. Perché prima o poi gli toccherà dissociarsi, anzi ha già cominciato, e sarà bollato come codardo e venduto.

Ma in questo scambio di favori ed equivoci fra primedonne, l'unico aspetto che davvero intristisce è l'inganno del pubblico. Le persone che sono andate a Piazza Navona da cittadini e si sono ritrovati spettatori, come sempre. Hanno applaudito un idolo che attaccava un altro idolo. Portando a casa la sera il tacito, amaro dubbio che le cose non cambieranno. E come potrebbero? A colpi di eventi? Gli show servono a consolare, non a cambiare la realtà. Lo show di Berlusconi, che rimane l'inventore del metodo, si rappresenta da quindici anni e l'Italia è il paese meno cambiato al mondo. Soltanto ogni giorno un po' più volgare, ignorante e incattivito. È la politica che cambia le cose, e quella non c'è più.

(10 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:26:09 am
SCUOLA & GIOVANI   

Roma, l'Onda occupa senza nostalgie.

Non ci sono le assemblee oceaniche del '68 né le tensioni violente del '77.

"Movimento più partecipato degli ultimi trent'anni"

L'ira dei ragazzi miti "Berlusconi ci teme"

"Ho 22 anni, e vivo ogni giorno sotto ricatto. Ora sono stufo. Finalmente posso respirare"

di CURZIO MALTESE


 ROMA - "Sai cosa c'è? Alla fine uno si rompe le balle di avere paura. Ho 22 anni e vivo ogni giorno a sotto ricatto. Paura di non farcela a riscattare tutti i crediti, del contratto da precario in scadenza, di non poter più pagare l'affitto e dover tornare dai miei, di non trovare un vero lavoro dopo la laurea, della crisi mondiale e dell'aumento delle bollette. Campo a testa china e tiro avanti sperando che domani sia migliore. Ma se mi dicono che domani non c'è più, l'hanno tagliato nella finanziaria, allora basta. Non mi spaventa più Berlusconi che dice di voler mandare la polizia. Non mi spaventa nulla, sono stufo. E finalmente, respiro". Marco è uno degli studenti della Sapienza che occupano la facoltà di Lettere. È lui ad aver proposto in assemblea alla Sapienza lo striscione che oggi è su tutte le facoltà occupate d'Italia: "Io non ho paura", in risposta alle minacce di Berlusconi, al solito smentite. "Non scrivere leader, che mi sfottono. Promesso?".

Sono le nove e sulla Roma autunnale è calata un'improbabile notte di primavera. Improbabile come questo movimento, nato nel momento peggiore, cresciuto oltre ogni previsione, senza neppure il tempo di darsi un nome. Per trovarlo hanno indetto un referendum sul sito della rivolta universitaria, www.UniRiot.org, e l'ha spuntata "Onda anomala". In breve, "l'onda", "noi dell'onda" dicono, come fossero contradaioli.

Avete presente il '68, il '77? Altra storia. L'arrivo alla facoltà occupata è confortante o deludente per chi ha in mente e negli occhi la Sapienza delle assemblee oceaniche sessantottine o il teatro di guerra della cacciata di Lama. C'è un gran silenzio. Si sentono echi di radiocronache di pallone, autoambulanze lontane, perfino un coro classico che prova nella facoltà di Fisica. Pochi ragazzi nella piazza, sui viali qualche sperduto capannello. Vuoi vedere che è la solita montatura nostalgica di un '68 che non può tornare? Ma dentro le aule, i dipartimenti brulicano di centinaia di ragazzi che discutono, studiano, lavorano al computer, organizzano le manifestazioni del gran giorno, oggi, davanti al Senato. Tessono reti in tutta Italia ed è un bollettino di guerra: "Ore 11: Occupata Roma Tre! Ore 15: occupata Ingegneria! Ore 19: occupata l'Orientale di Napoli!". E poi Firenze, Cagliari, Napoli, Bologna: "Stiamo vincendo!". Giancarlo Ruoco, capo dipartimento di Fisica, 49 anni, un passato giovanile nei movimenti, osserva: "Il paragone di numeri col '77 è improponibile, ma di sicuro questo è il movimento studentesco più partecipato degli ultimi trent'anni. Non c'è Pantera o protesta contro la riforma Moratti che tenga. Allora eravamo quasi più docenti che studenti in piazza. Ora sono il doppio, il triplo, e sembrano decisi ad andare fino in fondo"

Quando i telegiornali della sera hanno diffuso il diktat poliziesco di Berlusconi, i ragazzi più grandi hanno brindato con birre e applausi, fra gli sguardi perplessi e intimoriti delle matricole. Che c'è da festeggiare se il premier minaccia manganellate? "Il fatto è che gli stiamo mettendo paura, noi a loro. È la reazione scomposta di uno che si sente debole, che non si aspettava tutto questo, non ha una strategia e pensa di risolvere al solito modo, con la polizia, come si trattasse di rifiuti, camorra o periferie insicure". Chi parla è Luca, 23 anni, un'ottima laurea in lettere a Milano, venuto a Roma per specializzarsi in filologia romanza. È di Monza: "Perfino lì hanno cacciato la Gelmini da un comizio, e non se l'aspettava. A Monza, dov'è nata la Lega, cinquant'anni di Dc. Non hanno proprio capito che la politica non c'entra, la sinistra qui non comanda niente. Quando è venuta la ragazza mandata da Veltroni (Giulia Innocenzi, ndr), chiaramente in vista della manifestazione di sabato, le abbiamo strappato i volantini. La Cgil ha cercato di mettere il cappello sul movimento e li abbiamo costretti ad arrotolare le bandiere rosse. Per me il Pd significa poco, l'opposizione è inesistente, Berlusconi non è chissacché, non mi suscita nessun sentimento. È soltanto un vecchio che fa discorsi vecchi. Insomma, qui non c'entra la politica, c'entra la vita. Il mio futuro, quello di Francesco, Vanessa, Ilaria...".

"La mia vita attuale è questa. Studio come un pazzo per finire in fretta e bene, lavoro in un call center, dormo in una camera a 500 euro al mese. E sopporto pure che un Padoa- Schioppa o un Brunetta o una Gelmini mi diano del bamboccione o del fannullone. Ma non che taglino i fondi all'università per fare affari con l'Alitalia, aiutare la Fiat o le banche dei loro amici. La crisi io non la pago. Questa settimana di proteste è stata la più bella esperienza di questi anni. Si respira, si parla, si discute dei sogni, del futuro. Penso sia un mio diritto. Ai vostri tempi era magari diverso. I corsi universitari duravano mesi, avevi sempre gli stessi compagni, gli stessi professori. In ufficio o in fabbrica eri solidale con l'altro operaio o impiegato. Ora io seguo decine di corsi dove non incontro mai le stesse persone e poi lavoro in un call center dove il mio vicino di scrivania cambia sempre, a ogni turno, senza contare che abbiamo tutti le cuffie e non c'è neppure la pausa caffè. In questi giorni ho alzato la testa, mi sono guardato intorno, ho conosciuto studenti da tutta Italia, mi sento vivo".

E' un rivolta di bravi ragazzi, della nostra meglio gioventù. Non è una rivolta contro i padri, come furono le altre, ma di giovani che prendono sul serio le parole dei padri. Vogliono studiare, uscire di casa, fare carriera per meriti e non per conoscenze, crescere insomma e scoprono che in Italia non è possibile. Non è possibile per un giovane essere "normale". Da qui la rabbia di questi ragazzi miti. Anche un po' secchioni. Luca e altri, con Francesco e Vanessa, ieri ospiti di Santoro, hanno tirato l'alba a studiare la legge Gelmini nei minimi particolari, scovando un'infinita serie di contraddizioni. Un bel lavoro e anche una lezione per l'opposizione parlamentare che deve aspettare la Gabanelli per accorgersi della norma salvamanager infilata nel decreto Alitalia. "La legge è piena di cazzate" mi spiegano "Taglia i fondi per la ricerca, che in Italia è l'uno per cento del Pil contro il tre della media europea e del trattato di Lisbona. Riduce il numero dei ricercatori che da noi sono tre ogni mille abitanti, contro l'obiettivo di otto. Non taglia le sedi universitarie, che in Italia sono 115, più di una per provincia, con decine di corsi frequentati da un solo studente. Soltanto Roma ha sedi decentrate a Civitavecchia, Rieti, Pomezia: Ma quelle rispondono a interessi clientelari".

Ilaria, che incontro a Fisica, "ci vediamo sotto la lapide di Fermi", snocciola dati statistici come formule, sospira e conclude: "Non che m'interessi più di tanto, perché fra un anno vado in Inghilterra. Però mi sembra giusto dirlo, protestare finché si può". Il Dipartimento di Fisica, quello di Fermi e Amaldi, è il fiore all'occhiello della gloriosa e ormai sfasciata Sapienza. E' quarta nelle classifiche europee, fra le prime dieci del mondo, dentro un'università che non compare neppure fra le prime cento. La fuga dei cervelli all'estero è la norma e cresce di anno in anno.

Nell'"Onda" Fisica è stato il laboratorio creativo. Il corpo docente, fra i migliori d'Italia, ha appoggiato senza riserve la protesta. "Tanto con l'appello contro la lectio magistralis del Papa ci aveva già criminalizzato. Peggio non può succedere". Fernando Ferroni, professore di fisica delle particelle elementari, presidente dell'istituto nazionale di fisica nucleare, uno degli scienziati che ha collaborato all'accensione dell'Lhc al Cern di Ginevra, è solidale ma pessimista sulle sorti dell'Onda: "Hanno ragione da vendere ma il clima culturale è il peggiore possibile. Non c'è sensibilità per questioni complesse come la formazione, la ricerca. Il governo fa discorsi primitivi, insensati ma efficaci. L'opposizione ne sa poco o nulla. Non ha capito la portata del disegno. Qui stanno dismettendo l'istruzione pubblica, un pezzo per volta. E' una cosa mai successa in nessuna parte del mondo civile. Negli Stati Uniti, il paese più malato di iper capitalismo, l'università pubblica rimane ancora fortissima. Uno studente di Fisica può scegliere di pagare quattromila dollari a Berkeley o quarantamila a Stanford, ma la qualità è la stessa, alla fine si spartiscono lo stesso numero di premi Nobel. Per non parlare dell'Europa. Qui invece fra pochi anni l'istruzione pubblica, di questo passo, sarà relegata alla marginalità, alla serie B, a quelli che non possono permettersi di meglio. Il tema è enorme, tocca l'essenza dei diritti di cittadinanza, ma temo che non passerà. Criminalizzeranno la protesta, faranno scoppiare qualche incidente, e i media andranno dietro l'onda, l'altra, quella del potere. Bisognerebbe bucare questo muro di conformismo, ma come?"

Gli studenti si sono posti il problema d'"inventarsi qualcosa di nuovo", ne discutono in assemblea, su Internet, chiedono idee, consigli. "L'importante è evitare paragoni col passato, gli slogan in rima, le bandiere della politica, le stesse forme di lotta di fronte alle quali la gente dice "l'ho già visto"e passa oltre" spiega Laura, 23 anni, delegata alla comunicazione di Fisica. "Ci siamo inventati le lezioni in pubblico, con la lavagna a Piazza Farnese, un successo con i passanti che si fermavano a chiedere. Venerdì (oggi, ndr) saremo a Montecitorio".

Sono rimasti a discutere le nuove forme di lotta fino alle tre, poi è entrato Stefano con le birre. "Che ha fatto la Roma?" "Lasciamo perdere... Aò, ma la volete smettere col dibattito? E fateve 'na birra, 'na canna, che so". Bisogna fare la colletta per i cornetti. Che cosa? "Al picchettaggio offriamo cornetti agli studenti che vogliono entrare. Li hai mai visti i picchetti con i cornetti? Lo voglio vedere Berlusconi che manda l'esercito. A noi non ci fregano con le provocazioni, non ci vedrai mai fare questo". E mostra il gesto della P38". Chissà se non li fregano. Quarant'anni fa era cominciato con le colazioni ai bambini poveri, i sit-in pacifici, il clima da "Fragole e sangue", ingenuo e fiducioso. Fino alla prima carica della polizia. Stefano prende la chitarra, sono ormai le tre, per tenere sveglia la truppa. Nella musica sono conservatori, l'eterno rock, i vecchi cantautori, da De Andrè a Ligabue, che ormai viaggia per i cinquanta. Alle quattro crolla pure il cantante, qualcuno si rinchiude nei sacchi a pelo, altri s'infrattano, qualcuno riprende a discutere fino all'alba, a parlare dei propri sogni, come tutti a vent'anni, mentre il sole sorge sempre da un'altra parte.

(24 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Quella folla è l'Italia in rivolta
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:17:24 pm
POLITICA   

Segnale forte ai leader: gli slogan e gli striscioni raccontano il disagio e la protesta crescente di milioni di italiani

Da San Giovanni al Circo Massimo

Quella folla è l'Italia in rivolta

Molte le analogie, a ruoli invertiti, con la manifestazione di Berlusconi del 2006 contro il governo Prodi

di CURZIO MALTESE


 Finalmente, in piazza. Presto o tardi? L'Altan di giugno: "Si va in piazza in autunno" "A che ora?". Il Massimo Cacciari di ieri: "E' una manifestazione fatta con cinque mesi d'anticipo". Sembra sempre impossibile mettere insieme le tante anime del centrosinistra. Ma Veltroni c'è riuscito. Presto o tardi, erano moltissimi, una marea che ha riempito l'enorme Circo Massimo oltre ogni previsione.

Il Partito Democratico, con appena un anno di vita, per giunta assai travagliata, a soli sei mesi da una sconfitta tremenda e in fondo a un tunnel di depressione, ha dimostrato, anzitutto a sé stesso, di poter mobilitare più persone di qualsiasi altra forza politica europea e forse occidentale. Per il Pd la giornata di ieri vale come l'atto fondante delle primarie e forse di più. E' il segnale forte dell'elettorato di andare avanti, magari con più coraggio. Molto più coraggio. E perché no? Con un po' d'allegria.

La piazza del 25 ottobre ha due soli paragoni possibili negli anni recenti. Con altre due piazze della capitale che hanno cambiato il corso della storia: la manifestazione della Cgil nel marzo del 2002 e il comizio di Berlusconi a Piazza San Giovanni nel dicembre del 2006. Il parallelo con la piazza di Cofferati ha ossessionato, com'era ovvio, la vigilia. E' lo stesso il teatro, d'immensa suggestione, il Circo Massimo. E' lo stesso il clima politico. Il governo Berlusconi viaggiava sulle ali di una lune di miele seguita a un'ampia vittoria, l'opposizione pareva annichilita. E' identico l'organizzatore, il mitico Achille Passoni, ex Cgil e ora senatore Pd, una specie di mago delle piazze.

Perfino l'ingombrante presente di Sergio Cofferati nel retropalco, garantiva il tocco decisivo di revival. Quella manifestazione, come questa, fu la risposta coraggiosa e vincente di una grande forza in grave difficoltà, la Cgil, scelta dal governo dell'epoca come capro espiatorio della crisi e martellata da una poderosa campagna mediatica. Il successo della giornata rovesciò il clima politico, decretò la fine della luna di miele governativa.

Dimostrò la fragilità del decisionismo berlusconiano quando si tratta di passare dall'immagine, dalla facciata, alle azioni concrete e serie nel corpo sociale, come la sciagurata guerra sull'articolo 18.

In realtà sono molte anche le analogie, sia pure a ruoli invertiti, con la San Giovanni del 2006. Un capolavoro politico di Berlusconi, fra i più notevoli della sua parabola. Nel momento di maggiore crisi del centrodestra, a pochi mesi dalla sconfitta elettorale e in piena bagarre dentro il Polo, con Casini che manifestava altrove e parlava apertamente di fine del berlusconismo, l'ormai settantenne Cavaliere rovesciò il tavolo con un colpo spettacolare. In un solo giorno dimostrò da un lato agli alleati l'inevitabilità della propria leadership e dall'altra all'avversario l'intatto fascino esercitato dal suo populismo su milioni d'italiani. "L'asso pigliatutto" era il titolo del commento di Eugenio Scalfari. San Giovanni fu il primo e decisivo passo di un'efficacissima strategia che riportò Berlusconi a Palazzo Chigi in appena un anno e mezzo.

Walter Veltroni non ha oggi all'interno del suo campo la forza e l'ascendente del Berlusconi del 2003 e il suo avversario è assai più compatto e deciso, rispetto all'arlecchinesca coalizione che sosteneva, si fa per dire, l'ultimo governo Prodi. Ma la folla del Circo Massimo gli ha fornito uno strumento formidabile per cambiare la storia. A patto di servirsene. I temi, le parole, gli slogan erano ieri davanti ai suoi occhi. Scritti sugli striscioni, urlati dalla gente, sottolineati dagli applausi ogni volta che il discorso dal palco li toccava o sfiorava.

Là davanti. Non dietro, sul palco dov'era schierata la nomenclatura e dove da quindici anni si esaurisce il dibattito politico del centrosinistra. Ma fra le persone normali. Come nel 2002 il governo Berlusconi sta scivolando sulla buccia di banana di una battaglia ideologica. All'epoca fu l'attacco al sindacato, attraverso l'insensato (anche da un punto di vista economico) assalto all'articolo 18. Oggi il governo è partito alla guerra contro il mondo della scuola, considerato riserva di caccia della sinistra.
Senza rendersi conto di aver creato in poche settimane un fronte di protesta assai più ampio e trasversale del previsto. Un fronte che va dagli studenti universitari ai professori, ai maestri, fino al cuore delle famiglie. Non è una lotta politicamente etichettata. Al Circo Massimo c'erano più giovani del solito ma sarebbe truffaldino sostenere che vi fossero masse di studenti, semmai molti insegnanti e genitori mobilitati in questi mesi contro i tagli scolastici. E tuttavia la protesta della scuola è politica, vera politica.

Altrettanto politico è il disagio crescente di milioni d'italiani né di destra né di sinistra che si vedono ogni giorno scippare un pezzo di stato sociale pagato con le tasse, per finanziare improbabili ricette da vecchio capitalismo di stato, rottamazioni, salvataggi di banche, ponti in odore di mafia e oscure cordate tipo Alitalia.

Basta ascoltare il disagio. "Ascoltare" è uno dei verbi più usati nei discorsi dell'idolo di Veltroni, Barack Obama. Non solo di Veltroni. "Obama, Obama" è il grido che ha salutato ieri il bellissimo, appassionato discorso di Jean Renet Bilongo, un uomo del Camerun che vive a Castel Volturno. Il genio del senatore Barack Obama è stato l'aver ascoltato per anni il disagio del ceto medio e averlo tradotto in politica, riuscendo a far passare soprattutto un concetto, uno solo ma decisivo: l'inadeguatezza dei repubblicani ad amministrare la crisi economica.

Ora, l'inadeguatezza di Berlusconi è un dato scontato in tutto il mondo, tranne che in Italia. Nella battuta più felice del discorso, Veltroni ha fatto notare che se Merkel, Sarkozy o Gordon Brown avessero detto le stesse follie sparse dal nostro premier lungo tutta la crisi, ci sarebbero state reazioni enormi all'estero. "Mentre se le dice Berlusconi non succede nulla, perché sanno chi è". Lo sa anche il quaranta per cento degli italiani. Bisogna convincere qualcun altro. Da oggi sarà un po' meno difficile. In ogni caso la risposta della piazza dice che non è impossibile.

(26 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE.Tra le maestre imitate ovunque "Berlusconi ha fatto male i conti"
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2008, 07:57:36 pm
SCUOLA & GIOVANI    IL RACCONTO.

Viaggio nelle scuole elementari emiliane che l'Ocse indica come le migliori in assoluto

Tra le maestre imitate ovunque "Berlusconi ha fatto male i conti"

di CURZIO MALTESE


BOLOGNA - A New York sono sorte negli ultimi dieci anni scuole materne ed elementari che copiano quelle emiliane perfino negli arredi. Via i banchi, le classi prendono l'aria delle fattorie reggiane che ispirarono Loris Malaguzzi, con i bambini impegnati a impastare dolci sui tavolacci di legno, le foglie appese alle finestre per imparare a conoscere i nomi delle piante.
Si chiama "Reggio approach", un metodo studiato in tutto il mondo, dall'Emilia al West, con associazioni dal Canada all'Australia alla Svezia.

Se la scuola elementare italiana è, dati Ocse, la prima d'Europa, l'emiliana è la prima del mondo, celebrata in centinaia di grandi reportage, non soltanto la famosa copertina di Newsweek del '91 o quello del New York Times un anno fa, e poi documentari, saggi, tesi di laurea, premi internazionali. Non stupisce che proprio dalle aule del "modello emiliano", quelle doc fra Reggio e Bologna, sia nata la rivolta della scuola italiana. La storia dell'Emilia rossa c'entra poco.

A Bologna di rosso sono rimaste le mura, tira forte vento di destra e sul voto di primavera incombono i litigi a sinistra e l'ombra del ritorno di Guazzaloca. "C'entra un calcolo sbagliato della destra, che poi fu lo stesso errore dell'articolo 18", mi spiega Sergio Cofferati, ancora per poco sindaco. "Il non capire che quando la gente conosce una materia, perché la vive sulla propria pelle tutti i giorni, allora non bastano le televisioni, le favole, gli slogan, il rovesciamento della realtà. Le madri, i padri, sanno come lavorano le maestre. E se gli racconti che sono lazzarone, mangiapane a tradimento, si sentono presi in giro e finisce che s'incazzano".

Che maestre e maestri emiliani siano in gamba non lo testimonia soltanto un malloppo alto così di classifiche d'eccellenza, o la decennale ripresa della natalità a Bologna, unica fra le grandi città italiane e nonostante le mamme bolognesi siano le più occupate d'Italia. Ma anche il modo straordinario in cui sono riusciti in poche settimane a organizzare un movimento di protesta di massa.

Stasera in Piazza Maggiore, alla fiaccolata per bloccare l'approvazione dei decreti sulla scuola, sono attese decine di migliaia di persone. "È il frutto di un lavoro preparato con centinaia di assemblee e cominciato già a metà settembre, da soli, senza l'appoggio di partiti o sindacati che non si erano neppure accorti della gravità del decreto", dice Giovanni Cocchi, maestro.

Il 15 ottobre Bologna e provincia si sono illuminate per la notte bianca di protesta che ha coinvolto 15 mila persone, dai 37 genitori della frazione montana di Tolè, ai tremila di Casalecchio, ai quindicimila per le strade di Bologna. Genitori, insegnanti, bambini hanno invaso la notte bolognese, ormai desertificata dalle paure, con bande musicali, artisti di strada, clown, maghi, fiaccole, biscotti fatti a scuola e lenzuoli da fantasmini, il logo inventato dai bimbi per l'occasione. Ci sarebbe voluto un grande regista dell'infanzia, un Truffaut, un Cantet o Nicholas Philibert, per raccontarne la meraviglia e l'emozione. C'erano invece i giornalisti gendarmi di Rai e Mediaset, a gufare per l'incidente che non è arrivato.

Perché stavolta la caccia al capro espiatorio non ha funzionato? Me lo spiega la giovane madre di tre bambini, Valeria de Vincenzi: "Non hanno calcolato che quando un provvedimento tocca i tuoi figli, uno i decreti li legge con attenzione. Io ormai lo so a memoria. C'è scritto maestro "unico" e non "prevalente". C'è scritto "24 ore", che significa fine del tempo pieno. Non c'è nulla invece a proposito di grembiulini e bullismo".

Il fatto sarà anche che le famiglie vogliono bene ai maestri, li stimano. Fossero stati altri dipendenti statali, non si sarebbe mosso quasi nessuno. Marzia Mascagni, un'altra maestra dei comitati: "La scuola elementare è migliore della società che c'è intorno e le famiglie lo sanno. Con o senza grembiule, i bambini si sentono uguali, senza differenze di colore, nazionalità, ceto sociale. La scuola elementare è oggi uno dei luoghi dove si mantengono vivi valori di tolleranza che altrove sono minacciati di estinzione, travolti dalla paura del diverso".

Come darle torto? Ci volevano i maestri elementari per far vergognare gli italiani davanti all'ennesimo provvedimento razzista, l'apartheid delle classi differenziate per i figli d'immigrati. Rifiutato da tutti, nei sondaggi, anche da chi era sfavorevole alla schedatura dei bimbi rom. "Certo che il problema esiste", mi dicono alla scuola "Mario Longhena", un vanto cittadino, dove è nato il tempo pieno "ma bastava non tagliare i maestri aggiuntivi d'italiano".

E se domani il decreto passa comunque, nel nome del decisionismo a tutti i costi? "Noi andiamo avanti lo stesso", risponde il maestro Mirko Pieralisi. "Andiamo avanti perché indietro non si può. Non vogliono le famiglie, più ancora di noi maestri. Ma a chi la vogliono raccontare che le elementari di una volta erano migliori? Era la scuola criticata da Don Milani, quella che perdeva per strada il quaranta per cento dei bambini, quella dell'Italia analfabeta, recuperata in tv dal "Non è mai troppo tardi" del maestro Manzi".

Ve lo ricordate il maestro Alberto Manzi? Un grande maestro, una grande persona. Negli anni Sessanta fu calcolato che un milione e mezzo d'italiani sia riuscito a prendere la licenza elementare grazie al suo programma. Poi tornò a fare il maestro, allora con la tv non si facevano i soldi. Nell'81 fu sospeso dal ministero per essersi rifiutato di ritornare al voto. Aveva sostituito i voti con un timbro: "Fa quel che può, quel che non può non fa". È morto dieci anni fa. Altrimenti, sarebbe stasera a Piazza Maggiore.

(28 ottobre 2008)


da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE - La rabbia di una prof: quelli picchiavano e gli agenti zitti
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2008, 11:23:47 am
SCUOLA & GIOVANI   

Caschi, passamontagna e bastoni. E quando passa Cossiga un anziano docente urla: "Contento ora?"

Un camion carico di spranghe e in piazza Navona è stato il caos

La rabbia di una prof: quelli picchiavano e gli agenti zitti

di CURZIO MALTESE

 

AVEVA l'aria di una mattina tranquilla nel centro di Roma. Nulla a che vedere con gli anni Settanta. Negozi aperti, comitive di turisti, il mercatino di Campo dè Fiori colmo di gente. Certo, c'era la manifestazione degli studenti a bloccare il traffico. "Ma ormai siamo abituati, va avanti da due settimane" sospira un vigile. Alle 11 si sentono le urla, in pochi minuti un'onda di ragazzini in fuga da Piazza Navona invade le bancarelle di Campo dè Fiori. Sono piccoli, quattordici anni al massimo, spaventati, paonazzi.

Davanti al Senato è partita la prima carica degli studenti di destra. Sono arrivati con un camion carico di spranghe e bastoni, misteriosamente ignorato dai cordoni di polizia. Si sono messi alla testa del corteo, menando cinghiate e bastonate intorno. Circondano un ragazzino di tredici o quattordici anni e lo riempiono di mazzate. La polizia, a due passi, non si muove.

Sono una sessantina, hanno caschi e passamontagna, lunghi e grossi bastoni, spesso manici di picconi, ricoperti di adesivo nero e avvolti nei tricolori. Urlano "Duce, duce". "La scuola è bonificata". Dicono di essere studenti del Blocco Studentesco, un piccolo movimento di destra. Hanno fra i venti e i trent'anni, ma quello che ha l'aria di essere il capo è uno sulla quarantina, con un berretto da baseball. Sono ben organizzati, da gruppo paramilitare, attaccano a ondate. Un'altra carica colpisce un gruppo di liceali del Virgilio, del liceo artistico De Chirico e dell'università di Roma Tre. Un ragazzino di un istituto tecnico, Alessandro, viene colpito alla testa, cade e gli tirano calci. "Basta, basta, andiamo dalla polizia!" dicono le professoresse.

Seguo il drappello che si dirige davanti al Senato e incontra il funzionario capo. "Non potete stare fermi mentre picchiano i miei studenti!" protesta una signora coi capelli bianchi. Una studentessa alza la voce: "E ditelo che li proteggete, che volete gli scontri!". Il funzionario urla: "Impara l'educazione, bambina!". La professoressa incalza: "Fate il vostro mestiere, fermate i violenti". Risposta del funzionario: "Ma quelli che fanno violenza sono quelli di sinistra". C'è un'insurrezione del drappello: "Di sinistra? Con le svastiche?". La professoressa coi capelli bianchi esibisce un grande crocifisso che porta al collo: "Io sono cattolica. Insegno da 32 anni e non ho mai visto un'azione di violenza da parte dei miei studenti. C'è gente con le spranghe che picchia ragazzi indifesi. Che c'entra se sono di destra o di sinistra? È un reato e voi dovete intervenire".

Il funzionario nel frattempo ha adocchiato una telecamera e il taccuino: "Io non ho mai detto: quelli sono di sinistra". Monica, studentessa di Roma Tre: "Ma l'hanno appena sentito tutti! Chi crede d'essere, Berlusconi?". "Lo vede come rispondono?" mi dice Laura, di Economia. "Vogliono fare passare l'equazione studenti uguali facinorosi di sinistra". La professoressa si chiama Rosa Raciti, insegna al liceo artistico De Chirico, è angosciata: "Mi sento responsabile. Non volevo venire, poi gli studenti mi hanno chiesto di accompagnarli. Massì, ho detto scherzando, che voi non sapete nemmeno dov'è il Senato. Mi sembravano una buona cosa, finalmente parlano di problemi seri. Molti non erano mai stati in una manifestazione, mi sembrava un battesimo civile. Altro che civile! Era stato un corteo allegro, pacifico, finché non sono arrivati quelli con i caschi e i bastoni. Sotto gli occhi della polizia. Una cosa da far vomitare. Dovete scriverlo. Anche se, dico la verità, se non l'avessi visto, ma soltanto letto sul giornale, non ci avrei mai creduto".

Alle undici e tre quarti partono altre urla davanti al Senato. Sta uscendo Francesco Cossiga. "È contento, eh?" gli urla in faccia un anziano professore. Lunedì scorso, il presidente emerito aveva dato la linea, in un intervista al Quotidiano Nazionale: "Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno (...) Infiltrare il movimento con agenti pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto della polizia. Le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti all'ospedale. Picchiare a sangue, tutti, anche i docenti che li fomentano. Magari non gli anziani, ma le maestre ragazzine sì".

È quasi mezzogiorno, una ventina di caschi neri rimane isolata dagli altri, negli scontri. Per riunirsi ai camerati compie un'azione singolare, esce dal lato di piazza Navona, attraversa bastoni alla mano il cordone di polizia, indisturbato, e rientra in piazza da via Agonale. Decido di seguirli ma vengo fermato da un poliziotto. "Lei dove va?". Realizzo di essere sprovvisto di spranga, quindi sospetto. Mentre controlla il tesserino da giornalista, osservo che sono appena passati in venti. La battuta del poliziotto è memorabile: "Non li abbiamo notati".

Dal gruppo dei funzionari parte un segnale. Un poliziotto fa a un altro: "Arrivano quei pezzi di merda di comunisti!". L'altro risponde: "Allora si va in piazza a proteggere i nostri?". "Sì, ma non subito". Passa il vice questore: "Poche chiacchiere, giù le visiere!". Calano le visiere e aspettano. Cinque minuti. Cinque minuti in cui in piazza accade il finimondo. Un gruppo di quattrocento di sinistra, misto di studenti della Sapienza e gente dei centri sociali, irrompe in piazza Navona e si dirige contro il manipolo di Blocco Studentesco, concentrato in fondo alla piazza. Nel percorso prendono le sedie e i tavolini dei bar, che abbassano le saracinesche, e li scagliano contro quelli di destra.

Soltanto a questo punto, dopo cinque minuti di botte, e cinque minuti di scontri non sono pochi, s'affaccia la polizia. Fa cordone intorno ai sessanta di Blocco Studentesco, respinge l'assalto degli studenti di sinistra. Alla fine ferma una quindicina di neofascisti, che stavano riprendendo a sprangare i ragazzi a tiro. Un gruppo di studenti s'avvicina ai poliziotti per chiedere ragione dello strano comportamento. Hanno le braccia alzate, non hanno né caschi né bottiglie. Il primo studente, Stefano, uno dell'Onda di scienze politiche, viene colpito con una manganellata alla nuca (finirà in ospedale) e la pacifica protesta si ritrae.

A mezzogiorno e mezzo sul campo di battaglia sono rimasti due ragazzini con la testa fra le mani, sporche di sangue, sedie sfasciate, un tavolino zoppo e un grande Pinocchio di legno senza più una gamba, preso dalla vetrina di un negozio di giocattoli e usato come arma. Duccio, uno studente di Fisica che ho conosciuto all'occupazione, s'aggira teso alla ricerca del fratello più piccolo. "Mi sa che è finita, oggi è finita. E se non oggi, domani. Hai voglia a organizzare proteste pacifiche, a farti venire idee, le lezioni in piazza, le fiaccolate, i sit in da figli dei fiori. Hai voglia a rifiutare le strumentalizzazioni politiche, a voler ragionare sulle cose concrete. Da stasera ai telegiornali si parlerà soltanto degli incidenti, giorno dopo giorno passerà l'idea che comunque gli studenti vogliono il casino. È il metodo Cossiga. Ci stanno fottendo".

(30 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE. L'immagine peggiore
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:15:00 am
IL COMMENTO

L'immagine peggiore

di CURZIO MALTESE



I bookmakers in questi casi non accettano scommesse. Da mesi, in previsione dell'evento storico dell'altra notte, si aspettava la prima gaffe di Silvio Berlusconi sul colore della pelle del nuovo presidente americano. Il Cavaliere non delude mai le peggiori aspettative e la battuta è arrivata. L'unica sorpresa è la tempistica. Ad appena ventiquattr'ore dall'elezione il premier se n'è uscito con la storia di Obama "abbronzato". Non è la solita cafonata alla quale ci ha abituato e ci siamo ormai rassegnati da lustri. È una definizione grondante di razzismo.

Il peggior razzismo, quello semi inconsapevole e quindi assai autoindulgente che dilaga in Italia, fra la preoccupazione del resto del mondo. Una malattia sociale che un governo responsabile dovrebbe combattere, invece di sguazzarci con gusto.

Scontata la gaffe, ovvia la reazione. In simili frangenti Berlusconi adotta due reazioni standard. La prima: non l'ho mai detto. È la più assurda, ma paradossalmente efficace (in Italia). Come fai a discutere con uno che nega se stesso? La seconda è: l'ho detto ma non avete capito.

Stavolta ha usato questa. "Abbronzato era un complimento, una carineria" ha spiegato ai soliti cronisti bolscevichi. "E se non lo capite, allora andate a fare...". Sommando così carineria a carineria.

S'intende che "andare a fare" è detto con affetto. Con eguale affetto i giornalisti potrebbero ricambiare l'invito, ma probabilmente le giustificazioni valgono solo dall'alto verso il basso.

Non stiamo a farla lunga. Non si tratta solo di vergogna. Chi ne ha ancora la forza? È piuttosto la disperazione di essere ogni volta precipitati in questo indegno pollaio. Gli elettori americani in un giorno hanno cambiato la storia del mondo. L'avvento del figlio di un africano alla Casa Bianca sta spingendo miliardi di persone, pur nel mezzo di una crisi spaventosa, a interrogarsi sui valori profondi della democrazia, la più straordinaria conquista dell'umanità, in fondo a un cammino secolare di sangue e intolleranza. E il contributo dell'Italia berlusconiana a questo grandioso dibattito qual è? Questa miserabile trovata, volgare e razzista, senza neppure il coraggio dell'assunzione di responsabilità o la dignità di porgere le scuse.

Non bastava la sortita a caldo del ministro Gasparri, il quale, confondendo le proprie ossessioni di ex fanatico fascista con la competenza internazionale, aveva commentato "sarà contento Bin Laden". Ci voleva pure lo strazio supplementare della "battuta" di Berlusconi, che ha ormai girato il mondo, con danno enorme per il Paese. In pochi minuti infatti la rete ha deluso la speranza residua, che non lo prendessero sul serio, come altre volte. Come siamo abituati a fare qui, rassegnati a non scandalizzarci per lo scandalo, a non chiamare fascismo il fascismo, razzismo il razzismo.

C'era stata la rincorsa provinciale ad appropriarsi di Obama. Tutti si proclamano o cercano l'Obama italiano, a destra e a sinistra. Quando in Italia un Barack Obama non avrebbe neppure il diritto di voto. I figli d'immigrati, 440 mila fra nati e cresciuti qui, non sono considerati cittadini italiani, per via del medievale ius sanguinis. Lo ricordiamo nell'ipotesi, piuttosto remota, in cui fra le centinaia di obamisti dell'ultima ora si trovasse un politico serio. Ecco l'occasione per proporre finalmente una legge civile in materia d'immigrazione.

A cominciare dal presidente del Consiglio, i cui molti cantori hanno illustrato nei giorni scorsi alle masse ammirate le straordinarie analogie fra Berlusconi e Obama. Come non scorgere, del resto, l'assoluta comunanza delle due parabole. Il figlio di un pastore kenyano che arriva alla Casa Bianca a soli 47 anni e promette di cambiare il mondo. E l'uomo più ricco d'Italia che a 72 anni, con il solo aiuto del novanta per cento dei media da lui controllati, torna a Palazzo Chigi, dopo aver cambiato i capelli. È naturale che Berlusconi abbia adottato Obama, ripromettendosi di dargli presto "buoni consigli". Incrociamo le dita perché non avvenga, nell'interesse stesso del premier. Non si sa come la Casa Bianca potrebbe reagire a una frase del tipo: "Vieni, abbronzato, che ti spiego come non farsi processare".

Che fare? Vergognarsi per loro, ridere, piangere. Fingiamo pure che tutto sia normale. Però quanto stringe il cuore ascoltare il nobile discorso dello sconfitto McCain: "Il popolo ha scelto. Ho avuto l'onore di salutare il nuovo presidente degli Stati Uniti. È una giornata storica". Non si potrebbe avere un giorno un conservatore come questo a capo della destra italiana, anche di seconda mano?

(7 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Il prodotto della furbizia
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:57:19 am
IL COMMENTO

Il prodotto della furbizia

di CURZIO MALTESE


NEL teatro classico del trasformismo, la Rai, va in scena l'eterno conflitto delle classi dirigenti italiane: di qua i furbi, di là gli incapaci. Al centro, un personaggio che incarna bene i vizi di entrambi, il senatore Riccardo Villari.

Figura mediocrissima, un peone d'altri tempi, ma alla quale dobbiamo una lezione esemplare sui mali della politica nazionale. Democristiano di quarta fila e piccolo barone della medicina, Villari è stato riciclato prima da Mastella e poi da Rutelli non tanto in virtù di dubbie doti politiche, quanto per la conclamata cortigianeria. Cioè la principale e a volte unica competenza richiesta per fare carriera in politica.

E' noto tuttavia, dai tempi di Hegel, che un servo gode di un vantaggio decisivo sul padrone: può sempre trovarsene un altro. Magari più ricco e potente. Villari, a giudicare da come si muove, deve averne trovato uno ricchissimo.

Eletto senatore con i voti della sinistra e presidente della Commissione Vigilanza Rai con i voti della destra, il senatore Villari ha subito annunciato urbi et orbi che non si sarebbe dimesso. Non perché fosse un traditore, un opportunista dei tanti, un cialtrone insomma. No, non si sarebbe dimesso per "rispetto nei confronti delle istituzioni". Infatti, ha chiesto d'incontrare i presidenti di Camera e Senato, dai quali ha ottenuto copertura istituzionale, in cambio di un solenne giuramento: "Mi dimetterò il giorno in cui sarà trovato un nome condiviso da maggioranza e opposizione". Poi il nome eccellente è stato trovato, quello di Sergio Zavoli.

Eppure l'eroico Villari non si dimette lo stesso. Le istituzioni, una dopo l'altra gli hanno ritirato la copertura, a cominciare da Fini, seguito da Schifani e in ultimo da Berlusconi. Gli chiedono di andarsene. Ma lui resta. Fedele all'unica istituzione che quelli come lui riconoscono tale: se stesso.

Se il mandante del pasticcio è Berlusconi, com'è ovvio sospettare, si capisce che abbia scelto uno così. Chi altri, del resto? Dall'istante in cui approda a Palazzo Chigi, Berlusconi ha la prima e l'ultima parola su tutto quanto riguarda la televisione, il suo regno privato. Decide il presidente della Rai, dopo aver esaminato i candidati nella sua residenza privata. Decide in prima persona il direttore generale, i direttori di telegiornali e perfino le presentatrici. Decide quali trasmissioni possono continuare e quali si debbono chiudere.

Con l'elezione a sorpresa di Villari, il premier ha voluto scegliere anche il presidente della Commissione di Vigilanza che spetta all'opposizione. Con fiuto infallibile, ha pescato nel mucchio il tartufo. Tartufo Villari, o dell'ipocrisia.

La trappola era ben congegnata e lanciata fra i piedi di un'opposizione già in difficoltà. L'immagine della leadership democratica esce indebolita dalle sempre più evidenti contraddizioni del partito. Perché, per esempio, l'espulsione di Villari e neppure un cartellino giallo per Nicola Latorre, che durante un talk show ha suggerito con un bigliettino la risposta giusta all'avversario politico Bocchino per mettere in difficoltà l'alleato Donadi? Un distinguo etico fra i due è arduo. Uno politico no. Villari è un cane sciolto, ereditato da Mastella, mentre Latorre è il messo di D'Alema, un intoccabile.

Comunque vada a finire, la fotografia di queste ore è desolante. L'intero sistema politico è tenuto in scacco da un trecartista mastellato, per giunta su una vicenda, il potere in Rai, che di suo dà il voltastomaco alla maggioranza degli italiani. Veltroni ne esce come un vaso di coccio fra due vincitori, il "furbo" Berlusconi e l'"onesto" Di Pietro. Per uscire dall'impasse, ci vorrebbe un gesto d'orgoglio, magari l'abbandono definitivo del tavolo di trattative Rai, con annesso balletto di nomine.

Ma forse è chiedere troppo a un ceto politico che considera la televisione il principale strumento di legittimazione, l'oggetto unico del desiderio. Disposti a tutto pur di ottenere la benedizione di un Vespa, un consigliere d'amministrazione, le briciole della torta regalata tanto tempo fa a uno solo, che ora vuol portarsi via pure il vassoio.


(21 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE. La verità dell'ex
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2009, 12:09:18 pm
IL PROTAGONISTA

La verità dell'ex

di CURZIO MALTESE


NEL momento e nel luogo solenni dell'addio, nel tempio di Adriano, Walter Veltroni aveva la faccia di chi non vede l'ora di fare una passeggiata in bicicletta a Villa Borghese. Di rado capita di vedere così ben incarnata l'espressione "sollevato dall'incarico". Un uomo tornato quasi allegro, liberato da mesi di calvario. Un discorso bello. "Forse il suo migliore", confida un dirigente dalemiano, senza neppure troppa ironia.

Un discorso bello perché sincero. Un lusso e un piacere che i politici si consentono raramente, quelli di sinistra quasi mai, tanto meno i capi. Onesto a cominciare da se stesso. "Scusate, non ce l'ho fatta". "Non sono stato capace". "Forse sono più portato ad altri incarichi che non alla vita di partito". Se l'è detto alla fine da solo, perché di certo i suoi collaboratori e perfino gli avversari non gliel'avranno mai detto. Non in faccia, almeno. E' questo un altro problema del centrosinistra in Italia. I capi trovano il coraggio dopo le dimissioni e non prima, quando sarebbe servito. Il Walter ritrovato di verità scomode ne ha dette tante, per chi vuol capire. L'ha fatto veltronianamente, da buonista, ma l'ha fatto, alzando per un giorno il livello di una miserabile, ventennale rissa.

In quest'uomo che ha incarnato sempre, nel bene e nel male, vizi e virtù del romano moderno, la simpatia e l'autoironia, ma anche una certa riluttanza alla battaglia, nel giorno del congedo è spuntato un tratto da romano antico. Sarà stata magari la suggestione del tempio antico, ma un tratto stoico, al saluto finale bisogna riconoscerlo. L'invito alla solidarietà, ancora una volta valido anche per se stesso. "Non farò agli altri quello che è stato fatto a me". Le toccanti citazioni del grande Vittorio Foa: "Pessimista per il passato e ottimista per il futuro". L'invito a non tornare indietro dall'idea del Pd, alla quale comunque è valso la pena di dedicare una carriera e una vita. E perfino quei ringraziamenti in coda ai compagni di strada di tutti i giorni, dagli autisti ai ragazzi volontari agli uomini della scorta, cui rinuncerà da subito, in altri circostanze stucchevoli, stavolta sono sembrati autentici. Li aveva in fondo cercati con lo sguardo per tutto il tempo, mandando cenni a ciascuno appena li scorgeva, verso il fondo della sala affollata di giornalisti e telecamere.

"Quando si va via, è giusto ringraziare tutti, anche quelli che non si dovrebbero ringraziare", mi disse Walter tempo fa. Pensava di dimettersi da mesi. Ma alla fine non l'ha fatto, non ha ringraziato chi non doveva. Soltanto Dario Franceschini e Piero Fassino, del quale si dice il "leale Piero", come fosse un personaggio deamicisiano, con più di un'ombra di sfottò. Agli altri dirigenti, presenti e assenti, D'Alema e Rutelli, Marini e Bersani, ha riservato la stessa velenosa cortesia rivolta a Berlusconi in campagna elettorale, non li ha mai nominati. "Lascio senza sbattere la porta". Ecco forse l'unica frase non sincera. Perché è nell'accostare la porta alle spalle la vera vendetta.

Lo si capisce dalle facce terree dei pochi dirigenti presenti. Tanto disteso è lo sconfitto Veltroni, quanto elettrici appaiono i tratti dei presunti vincitori. A cominciare da Pier Luigi Bersani, che almeno ha avuto il coraggio di sfidarlo apertamente e di venire di persona all'ultimo atto. Rutelli e D'Alema sono rimasti a casa. Tutta gente che da mesi discuteva di come e quando sostituire Veltroni. E oggi, privati dell'obiettivo, non sa più cosa fare. Se non prendere tempo, per approvare poi quel che è accaduto. Una specialità del centrosinistra, insieme all'altro infinito passatempo della questione identitaria. L'identità cattolica, l'identità post comunista, l'identità riformista. Tante identità utili a litigare sul passato e non a decidere al presente, qui e oggi.

"Il discorso identitario non ci ha permesso di capire temi come la sicurezza, l'ambiente, le piccole e medie imprese e potrei andare avanti", dice Veltroni. Potrebbe sì: la natura eversiva del berlusconismo, la portata del conflitto d'interessi, l'avvento di una nuova era mediatica, la questione del Nord, i movimenti, la domanda di laicità e di diritti civili, la difesa degli interessi dei lavoratori e in particolare degli operai, che non sono spariti col comunismo, eccetera eccetera eccetera. Tutte questioni che ora dovranno aspettare una risposta ancora per qualche mese, essendo il principale partito d'opposizione affaccendato in altre mediazioni fra identità per la scelta del reggente e poi del segretario e in futuro del candidato premier. Senza contare l'avvincente diatriba sul cambiamento delle regole congressuali, il tesseramento, le norme di accesso alle eventuali primarie, il ponderoso dibattito sul partito del Nord. Il tutto in un partito che non ha trovato ancora il tempo, fra tesi, antitesi e sintesi hegeliane, di individuare una sede fisica nella città di Milano.

L'addio anticipato di Walter Veltroni ha avuto il merito di rompere con un colpo di gong gli stanchi riti di guerra simulata delle tribù del centrosinistra. Significa che non c'è più tempo. La fine di un dramma personale, quello di un "capo espiatorio", l'ennesimo senza erre, rivela il dramma vero, collettivo. Di un gruppo dirigente che rischia di essere ormai senza storia, e di un Paese intero che corre il pericolo di rassegnarsi a vivere in un regime senza opposizione.

(19 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE.
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2009, 05:49:31 pm
I GIOVANI DEL PD / 1. Giuseppe Civati, consigliere regionale lombardo

"Franceschini è bravo, ma con scelte così stiamo tradendo gli elettori"

"Un errore votare Dario non si sceglie un capo in due ore"

di CURZIO MALTESE


"ABBIAMO arrotolato le nostre bandiere "Primarie subito" e siamo tornati a casa delusi. Diciamo la verità, quella dell'elezione di Franceschini non è stata una bella giornata". Giuseppe Civati, monzese, classe 1975, consigliere regionale lombardo (il più votato del Pd), ha l'aria del "bel fieou", come direbbe Berlusconi, ma con alle spalle un curriculum di ferro. Professore di filosofia e studioso del Rinascimento, colto, simpatico, popolare. Il suo blog è il settimo d'Italia, secondo politico, dopo Di Pietro. Vincitore a sorpresa del sondaggio dell'Espresso sul futuro leader del Pd. "Sono il primo a scherzarci sopra. Il dato significativo di quel sondaggio non era il primo posto, ma l'ultimo: Dario Franceschini".

Cominciamo da lei a impallinare il nuovo capo del Pd?
"Ma no, certo che Franceschini è un'ottima persona. Il metodo però è sbagliatissimo. Ancora una volta, abbiamo fatto il contrario di quanto ci chiedevano gli elettori. E infatti nei sondaggi continua la caduta libera, siamo scesi dal 25 al 23".

Sondaggi, internet. Ma lei insegna Rinascimento o marketing?
"Già. Ho letto che Franceschini e Bersani attaccano chi pretende di far politica coi blog. Pretende? Per la mia generazione è l'unico modo di fare ancora politica. Che dovremmo fare? Andare in sezione? A Milano la sede del Pd non c'è neppure".

Che cosa non la convince nell'elezione di Franceschini?
"Non si elegge un nuovo capo in due ore. Al confronto Obama è Dysneyland. Poi questo rito del rinnovamento sempre annunciato e mai messo in pratica. Il prossimo che dice "o si cambia o si muore" lo picchio".

E se invece Franceschini cambiasse davvero?
"Ne riparliamo fra un mese. Se Bassolino è sempre lì a far danno, allora significa che non è cambiato nulla".

Veltroni ha provato a far dimettere Bassolino.
"E invece s'è dimesso lui. Ha idea di quanti voti ci toglie ogni giorno, da mesi, la vicenda campana? Noi andiamo in giro qui al Nord a sostenere il modello di buona amministrazione del centrosinistra, e la gente ci risponde sempre la stessa cosa: allora a Napoli? Oggi Velardi, assessore di Bassolino, ha definito il grande Roberto De Simone una sciagura. Domanda: è lo stesso Velardi che sul Corriere garantiva per Romeo una settimana prima dell'arresto? Ma perché noi dobbiamo farci il mazzo a volantinare nelle fabbriche del bresciano o a parlare con i piccoli imprenditori del Varesotto, quando poi questi distruggono tutto con una puntata di Porta a Porta?".

Che ne pensa del partito del Nord di Chiamparino e Cacciari?
"Assurdo. Al Nord vivono venticinque milioni d'italiani e si producono i due terzi del Pil. Non stiamo parlando della Baviera o della Catalogna, con tutto il rispetto".

Ma il problema esiste. La sua area, la Grande Milano, otto milioni d'abitanti e un quarto del Pil, in questi quindici anni ha avuto meno rappresentanza nel centrosinistra di Nusco e Ceppaloni.
"Più grave è essere assenti sui temi che riguardano il territorio. Malpensa è stata una catastrofe del centrodestra, un tradimento della Lega ai suoi elettori. E noi dove eravamo? Su temi come la sicurezza, il precariato, le riforme della pubblica amministrazione e del mondo del lavoro, abbiamo balbettato. Un giorno stiamo con la Cisl, l'altro con la Cgil. Nessuno sa più che fine ha fatto Ichino. Sul nucleare, in pochi mesi, abbiamo espresso tre posizioni diverse. Il no di Realacci, il sì di Veronesi e il forse di Colaninno. Sull'immigrazione pure, con il ridicolo finale di inseguire ora la destra sulle ronde, che non servono a nulla".

Non le chiedo neppure la sua posizione sulle interferenze della Chiesa e sul testamento biologico, visto che ha dedicato l'ultimo libro a Giordano Bruno.
"Anche lì, un caleidoscopio di posizioni. In questo Franceschini ha detto una parola chiara e gli ho battuto le mani. Era ora".

Si risolverebbe tutto con l'avvento di voi trentenni?
"Sciocchezze. Occorre una nuova generazione politica, non anagrafica. Bisogna farla finita con questa storia degli ex qualcosa. Io sono del '75, non sono ex di niente, per me la politica è cominciata con l'Ulivo. La verità è che questi sulla difesa dell'identità, in qualche caso acquisita di recente, come nel caso di Rutelli, ci campano".

Che cosa scriverà nel prossimo striscione congressuale?
"Occupiamoci di loro, non di noi".

Da segretario dei Ds a Monza si è fatto un nome con la conquista a sorpresa della capitale della Brianza, il regno stesso di Berlusconi. Come avete fatto?
"Imponendo la nostra agenda politica. Ce ne inventavamo una al giorno e loro erano costretti a inseguirci. Davamo le notizie. Abbiamo rivelato i progetti di cementificazione del fratello di Berlusconi, lo scandalo del nuovo centro commerciale, l'assalto alle aree verdi. Non è che bisogna sempre aspettare l'inchiesta di Report o di Repubblica per denunciare uno scandalo. Dopo un po' ci chiamavano anche gli elettori di destra per dire: io non vi voto, però vi devo raccontare questa cosa".

(24 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE. Il giovani del Pd/2. Gozi: primo banco di prova le candidature..
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2009, 10:04:28 am
Il giovani del Pd/2. Gozi: primo banco di prova le candidature alle Europee

Basta favori a Berlusocni e Di Pietro, il leader sia capace di guardare oltre i capibastone

"Ai vecchi solo due posti su dieci nel partito ci vuole la quota grigia"

di CURZIO MALTESE


Il suo slogan potrebbe essere: "Io non sono un autarchico". Quarant'anni, quindici trascorsi in giro per l'Europa, Francia, Inghilterra, Balcani, una lunga esperienza a Bruxelles con Oreja, Prodi e Barroso, prima di tornare in Italia da parlamentare, nelle liste Pd. Sandro Gozi è stato uno dei più critici della linea Veltroni. "Ma non perché sia prodiano o dalemiano o insomma una di quelle etichette là. Semplicemente perché mi ero stufato di fare favori a Berlusconi e a Di Pietro".

Che favori ha fatto il Pd a Berlusconi in questi mesi?
"Uno grandissimo. Aiutarlo a rimuovere la vera questione, la crisi economica. Berlusconi e le sue tv sono stati abilissimi nell'inventarsi un'emergenza al giorno.
I clandestini, gli stupri, le intercettazioni, il testamento biologico. Tutte questioni importanti, per carità. Ma la vera priorità, la crisi, in questo modo è stata cancellata. E noi l'abbiamo inseguito sulla sua falsa agenda".

E' passato il messaggio che l'Italia è in qualche modo più al riparo dalla crisi degli altri paesi occidentali. Addirittura all'estero ci invidiano Tremonti.
"Siamo riusciti a regalare a Tremonti la fama di gigante del pensiero economico. Grottesco. E' stato ed è un ministro disastroso, a tratti dilettantesco. I suoi libri sono un impasto di vecchi motivi riciclati, come certe canzoni di Sanremo. Viaggia in ritardo perenne. Nel 2003, quando occorreva essere rigorosi, fece saltare i patti di stabilità. Ora che bisognerebbe essere più elastici davanti alla crisi, riscopre il rigore. Il problema è che l'opposizione non se ne accorge neppure".

Non c'è stata abbastanza attenzione per l'economia nei vertici del Pd?
"Non c'è attenzione per la realtà. E non c'è competenza. Si orecchiano le mode mediatiche, su tutti gli argomenti. Non si studiano i problemi, le polemiche sono superficiali, nominalistiche".

Diranno che è la solita tirata del tecnico contro il politico.
"I capibastone vanno avanti su queste dicotomie d'altri tempi. Tecnici e politici, politica e società civile. Fesserie di cui si discute ormai soltanto in Italia. La verità è che nessuno di loro mette mai il naso fuori dall'orticello dell'identità di corrente".

Ora va molto il conflitto generazionale, vecchi contro giovani. Si pensa alle quote giovanili, oltre a quelle rosa.
"Guardi io vorrei proporre la quota grigia, per gli anziani. Si stabilisce che per statuto gli ultracinquantenni con più di due mandati hanno diritto al 20 per cento dei posti. Che è più o meno quanto accade di fatto negli altri partiti riformisti d'Europa".

Buona idea. Si potrebbe cominciare dalle liste europee?
"Quello è il test vero della segreteria di Franceschini. Ha detto che vuole cambiare e io gli ho creduto. Facciamo una rivoluzione. Alle europee, invece dei soliti ripescati, proviamo a candidare gente competente, che magari conosce anche qualche lingua. Non l'ha mai fatto nessuno, né a destra né a sinistra. Col risultato che in Europa contiamo sempre meno. Secondo me gli elettori del centrosinistra ci premierebbero. Certo, finora i nomi che si sentono vanno nella direzione opposta".

Infatti gli elettori del centrosinistra premiano Di Pietro. Perché?
"Merito nostro. Mai una scelta netta, un'idea chiara, una parola comprensibile. Ma se tornassimo a fare il nostro mestiere, Di Pietro sparirebbe in pochi mesi".

Ne è proprio sicuro?
"Sì. E' un Berlusconi rovesciato. Guida un partito personale, è un demagogo, non c'entra nulla con la storia della sinistra, non solo italiana. Non c'entra nulla con nessuna forza riformista presente in Europa. I nostri elettori lo votano per disperazione, non certo per convinzione".

Però Di Pietro è anche l'unico che ancora parla di conflitto d'interessi, dell'anticostituzionalità delle leggi sulla giustizia, delle continue interferenze del Vaticano. E' soltanto giustizialismo, estremismo, populismo?
"Per nulla. Aver lasciato cadere il conflitto d'interessi è stato un altro errore. Alla fine, perché abbiamo perso in Sardegna, col miglior candidato possibile? Perché Berlusconi ha usato, e bene, le sue tv nazionali contro Soru. Del caso Mills si è parlato nei telegiornali francesi e tedeschi più che in quelli italiani. L'Europa ci guarda con preoccupazione, e tanta. Quanto al tema delle ingerenze della Chiesa, stiamo andando anche lì serenamente verso una deriva autarchica, incomprensibile oltre Chiasso. Ma anche di qua dal confine. In fondo il 70 per cento degli italiani, nel caso Englaro, si è pronunciato contro la visione delle gerarchie ecclesiastiche. Peccato, ancora una volta, non essersene accorti".

Franceschini ce la farà?
"Se guarda oltre il fumo dei vertici di leader, scoprirà che il partito è pieno di risorse, di giovani e non giovani che hanno una gran voglia di fare politica, quella vera".

(25 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Martina, 30 anni, segretario regionale della Lombardia
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2009, 03:31:12 pm
Giovani del Pd/3.

Martina, 30 anni, segretario regionale della Lombardia: "Nel cuore berlusconiano e leghista si vedono crepe, rilanciamo il valore del lavoro"

"Quei mille capannoni vuoti ecco la nostra arma al Nord"

di CURZIO MALTESE

 

"Bisogna ricominciare dai capannoni". Quali capannoni? "Quelli costruiti con la legge Tremonti nel Nord Est, una marea di capannoni che va da Novara a Mestre. Tutti vuoti, o quasi. Hanno devastato l'ambiente senza creare ricchezza. E' un monumento all'incapacità del berlusconismo di governare l'economia".

Maurizio Martina, bergamasco, trent'anni, un nome per i prossimi decenni. Una carriera lampo. Segretario bergamasco e poi lombardo dei ds, eletto responsabile lombardo del Pd con un plebiscito (78 per cento) alle primarie di ottobre. Ora è il più giovane della squadra chiamata da Franceschini a rilanciare il partito.

Martina, la sua ascesa non è la più clamorosa smentita all'idea che il centrosinistra sia chiuso ai giovani?
"Forse, ma diciamo la verità. E' più facile avanzare nel vuoto. La Lombardia era ed è considerata dai dirigenti romani una terra di missione. E' difficile trovare candidati alla sconfitta certa".

Ma un partito rassegnato alla sconfitta nella regione di gran lunga più ricca e popolosa d'Italia, che futuro ha?
"Nessuno. Infatti da lì occorre ricominciare, dal Nord".

Un anno fa ha detto che il Pd lombardo puntava a vincere le regionali del 2010. Lo ripeterebbe oggi, nel mezzo del disastro, coi sondaggi al minimo storico?
"Sì, lo ripeto. Nel cuore dell'egemonia berlusconiana e leghista si cominciano a vedere le crepe. Finora loro reggono perché siamo mancati noi, l'opposizione. Ma bisogna fare in fretta. In giugno in Lombardia si vota in due terzi dei comuni".

Secondo i sondaggi, rischiate di essere spazzati via da tutte le città del Nord, a cominciare dalla sua Bergamo, Pavia, Lodi, Cremona, la Provincia di Milano. Da dove prende il suo ottimismo?
"Secondo i sondaggi, Obama non doveva neppure fare le primarie. Questa crisi non è passeggera, come vogliono far credere Berlusconi e Tremonti. Sarà lunga, dura e porterà grandi mutamenti sociali e politici. Non possiamo dire oggi quale sarà il clima del Paese fra tre mesi, non parliamo poi da qui al 2013, quando ci saranno le politiche".

Era anche l'idea di Veltroni, poi si è dimesso.
"Veltroni ha avuto il merito di capire che la questione centrale era la sfida sulla modernità. Sempre e comunque il centrosinistra in questi anni, anche quando ha vinto, è stato percepito come più conservatore dell'avversario. Era Berlusconi il nuovo".

E non è più così? Berlusconi ha smesso di sembrare nuovo?
"Guardi, nel Nord gli imprenditori, di fronte alla crisi, cominciano a capire che le ricette facili di Berlusconi e Tremonti sono scenari di cartapesta, vuoti come quei capannoni. Il bluff dei dazi doganali, l'ideologia leghista del Nord trasformato in fortezza, lo stesso antieuropeismo della destra entrano in conflitto con gli interessi materiali di un territorio che al contrario ha disperato bisogno di tornare a esportare, d'integrarsi sempre di più col resto d'Europa e del mondo".

Non sarà invece che si pensa soltanto a fare i danè, a evadere le tasse col nero e a tenere sotto schiaffo gli immigrati, che così non chiedono l'aumento?
"Mica tutti, mica tutti. Ci sono tanti imprenditori nella bergamasca che sono più a sinistra degli operai. Artigiani e operai che potrebbero vendere domattina e ritirarsi con una montagna di soldi e invece vanno avanti. Non è per soldi, ma per la voglia di fare. La ricchezza è il valore unico della destra, ma il lavoro dovrebbe tornare a essere il nostro valore. Ne guadagneremmo di voti".

Qual è secondo lei l'errore più grave del centrosinistra nel Nord?
"L'ossessione dell'identità. Questo parlarsi addosso e contro, ex democristiani ed ex comunisti. Ma come, Berlusconi è stato tanto bravo a far dimenticare di essere stato ex qualsiasi cosa, dai socialisti alla P2, e noi qui a menarcela con le eredità del passato, invece di studiare il futuro".

E i possibili punti di forza?
"Non c'è dubbio che abbiamo amministrato meglio. Bergamo, Brescia sono diventati modelli di autentico riformismo. Per trovare il riformismo non è che bisogna andare in pellegrinaggio da Blair o da Obama o su Marte, basta considerare quello che i sindaci di centrosinistra hanno saputo realizzare. E magari confrontarlo con il disastro della Moratti a Milano".

I milanesi si lamentano dell'immobilismo della Moratti. Ma intanto quali alternative avete offerto voi?
"Sono d'accordo. Abbiamo parlato d'altro. Bisogna fare opposizione sulle cose. L'Expo era un'occasione e la destra la sta buttando alle ortiche, sono lì a litigare per le poltrone nel consiglio d'amministrazione fra Lega, An e Forza Italia. La vicenda di Malpensa è stato un altro fallimento della destra nei fatti. Non a caso sarà da Malpensa che Franceschini comincerà venerdì a girare l'Italia".

Qual è la prima proposta che farà al nuovo segretario?
"Un esperimento. Proviamo per due mesi a non rispondere a nessuna delle provocazioni di Berlusconi e a parlare di un solo tema, uno solo, la crisi economica".

(26 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE. "Basta autogol nel Nord-Est è ora di parlare alla gente"
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2009, 11:47:55 pm
I giovani del Pd/6. Marta Meo responsabile in Veneto della questione settentrionale

"Bisogna essere aperti sui temi del lavoro e all'attacco su laicità e stranieri"

"Basta autogol nel Nord-Est è ora di parlare alla gente"

di CURZIO MALTESE

 
MARTA Meo, 38 anni, veneziana, architetto, due figlie, responsabile del Pd veneto per la questione settentrionale. Un rapporto assai dialettico con la dirigenza nazionale, per usare un eufemismo. Nel 2005 fu una delle protagoniste della vittoria a sorpresa di Massimo Cacciari al Comune contro il candidato diessino, il magistrato Felice Casson.

L'ultima polemica col Pd nazionale è stata sulla composizione del nuovo esecutivo ombra.

Che cosa non le piace del nuovo governo ombra di Franceschini?
"E' una media ragionata fra il governo ombra precedente e l'ultimo governo Prodi, che non sono stati esattamente due successi".

In compenso la segreteria è innovativa, le pare?
"Appunto. Perché tenere al solito i piedi in due scarpe? Tanto valeva rinnovare anche il governo ombra. Guardi, non è soltanto una questione di immagine o di nomi, spesso di qualità".

E allora dov'è il problema?
"Le idee. Prenda Bersani, che è il nome di maggior spicco. Lo stimo molto ma c'era bisogno di novità. E' stato l'ultimo dei liberalizzatori, quando gli altri parlano d'intervento statale per sostenere l'economia. Arriviamo sempre in ritardo".

A lei non piaceva neppure il governo ombra precedente. Criticò l'assenza del suo concittadino Andrea Martella, ministro ombra delle infrastrutture, all'inaugurazione del passante di Mestre.
"Un bell'autogol, davvero. Ma come, il centrosinistra è sempre stato favorevole al passante, ma il giorno dell'inaugurazione Martella non va perché, dice, è un'opera di regime. Ma i veneti lo volevano, risparmiano tempo e danaro. Sa qual è il vero problema del centrosinistra, al di là della storia vecchi e giovani?".

Che non si sforzano di pensare come i cittadini?
"Sì. E impartiscono lezioni su problemi che non conoscono. Uno che non ha lavorato un giorno nella vita non può venire a spiegare che il passante è un'opera di regime".

Lei invece appartiene al popolo delle partite Iva. Come va con la crisi?
"Molto male, nel Nord Est la crisi è pesantissima, ma non se ne parla. Si discute soltanto di aiutare le banche, le grandi imprese. Qui la gente soffre in silenzio, cerca di salvare le aziende a tutti i costi. Il governo non ci ha capito nulla. Ha detassato gli straordinari che di questi tempi non si fanno più. Ci sarebbe tanto lavoro politico da fare con i piccoli imprenditori".

Voi del Pd del Nord Est vi lamentate di essere considerati come missionari in terra straniera, abbandonati dal partito nazionale.
"Una volta. Ora preferiamo che non venga nessuno da Roma a far danni. Durante il governo Prodi ogni volta che Visco apriva bocca per denunciare il Nord evasore noi facevamo la croce su migliaia di voti".

Ma il problema dell'evasione nelle imprese del Nord Est è reale, non le pare?
"Certo che lo è, ma bisogna capire il fenomeno e non lanciare crociate moraliste. L'evasione fiscale è un tema, ma non il principale. Il più importante è creare lavoro. Spesso poi le soluzioni proposte erano velleitarie, dilettantistiche. E qui le persone lo capiscono. Ormai se vai nel vicentino senti casalinghe parlare di politiche tributarie meglio dei professori di Cà Foscari".

Il Pd di Veltroni era partito dal Lingotto con una grande attenzione per i problemi del Nord. Che cosa è successo dopo?
"Che sono arrivati i nomi delle liste e qui a tutti sono cascate le braccia. Ma è vero che Veltroni era stato il primo dirigente del centrosinistra, da molto tempo, a dire cose giuste e non convenzionali sulla questione settentrionale, ovvero sulla modernità. Da qui bisogna ripartire e mi pare che Franceschini ci stia provando".

In Veneto e Lombardia il centrosinistra si trova davanti una specie di muro ideologico, difficile da sfondare anche per chi conosce bene il territorio, com'è stato per Cacciari prima e Riccardo Illy in ultimo.
"Cacciari e ancora di più Illy hanno pagato un atteggiamento comunque aristocratico di fronte ai cittadini, da vicerè mandati in provincia".

La presunzione mista a vago disprezzo con cui i leader del centrosinistra trattano le popolazioni del Nord Est insomma non aiuta a raccogliere consensi.
"Andiamo sul pratico. Voglio proprio vedere stavolta chi candidano alle europee. Perché qui l'Europa è presa molto sul serio, altro che provinciali. Le imprese vivono di esportazioni, tutti hanno rapporti con l'estero, non c'è artigiano che non conosca le leggi comunitarie. La Lega, non per caso, ha impostato tutta la campagna europea sulle macroregioni. Il centrosinistra invece di solito usa le europee come cimitero degli elefanti".

Non c'è il rischio che le critiche del Pd del Nord siano interpretate come un invito a inseguire la destra sul terreno della demagogia, per poi finire a organizzare ronde di sinistra o democratiche cacce al lavavetri? Col risultato di perdere quei pochi voti di sinistra e non prenderne mezzo dall'altra parte.
"E' tutto il contrario. Noi dovremmo essere molto aperti sulla questione del lavoro, sganciarci dalla gabbia del sindacato e della difesa dei garantiti. Ma poi andare all'attacco sulla laicità e sui diritti di cittadinanza, per italiani e stranieri. Chiedere con forza il diritto di voto per i migranti. Per fare tutto questo ci vuole coraggio. Ma col moderatismo siamo arrivati al 22 per cento. Che cosa abbiamo da perdere?".

(4 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE giovani del Pd...
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2009, 03:23:39 pm
Laicità e merito i valori-guida.

E stop al mito del dialogo

Dalle interviste dell'inchiesta di "Repubblica" sui giovani del Pd, le 50 "parole chiave"

Figli dell'Ulivo, ingenui ed europei ecco la nuova leva dei Democratici

Ricorrono i termini "Bisogna", "fare" e "politica", oltre che "destra" e Stato"

di CURZIO MALTESE


 Le crisi storiche dei grandi partiti occidentali si sono quasi sempre concluse con l'avvento di una nuova generazione di trentenni e quarantenni. E' successo al Labour inglese e ai socialisti spagnoli, come ai loro avversari, poi ai democratici americani, oggi accade ai socialdemocratici tedeschi e svedesi. Tutti partiti che si chiamano così da oltre un secolo. Il centrosinistra italiano, dopo ogni sconfitta, ha cambiato marchio e simboli, conservando linguaggio e nomenklatura. Veltroni e D'Alema litigano da vent'anni e da quattro partiti (Pci, Pds, Ds e Pd), ha scritto Ezio Mauro.

Questa finzione gattopardesca è ormai intollerabile all'elettorato che reclama il ricambio del gruppo dirigente nei sondaggi e nelle primarie. A volte senza neppure conoscere i nuovi, soltanto per esclusione. Siamo andati alla ricerca dei giovani democratici e abbiamo scoperto, per cominciare, che esistono. Non è vero che dietro l'oligarchia c'è il nulla. Al Nord, Centro e Sud s'incontrano donne e uomini di venti, trenta o quarant'anni, animati di passione politica, con le loro storie, professioni, idee. Da domani potrebbero prendere il posto dei vecchi senza farli rimpiangere troppo. E forse per nulla.

Migliori o peggiori dei Veltroni e D'Alema, Rutelli e Parisi, Bersani e Letta, Bindi e Marini? Giudicheranno i cittadini. Di certo, diversi. Più curiosi del futuro che del passato. Più simili ai cittadini che dovrebbero votarli. Non è soltanto questione di età, piuttosto di cultura e linguaggio. Mentre i vecchi leader litigavano sulle rispettive appartenenze, è cresciuta una generazione per la quale le categorie novecentesche hanno perso senso. A cominciare dalla questione dominante del secolo scorso, il comunismo. Che per l'Italia continua a essere un'ossessione. Ex e post comunisti, dialoganti con ex democristiani, in lotta con anticomunisti, a loro volte spesso ex comunisti, come se il muro non fosse mai caduto, in un delirio passatista di revisionismo rancoroso.

Questi altri, i giovani, non sono ex di nulla. Hanno votato Ulivo già a diciott'anni, sono cresciuti in una casa riformista comune, dove non è difficile trovarsi d'accordo sui valori fondanti. Cattolici e non cattolici, difensori della laicità dello stato. Moderati e radicali, convinti che il conflitto d'interessi (di Berlusconi, di Pincopallo o del governatore di una regione "rossa") sia un cancro della vita pubblica nazionale. Milanesi o siciliani, fieri europeisti, con esperienze di studio e lavoro all'estero, contatti quotidiani con coetanei che fanno politica a Berlino o Parigi, Londra o Madrid. In una specie di permanente Erasmus via Internet, dove ci si scambiano idee e informazioni sui temi del qui e dell'oggi, l'ambiente, l'energia, la crisi, i nuovi lavori, l'immigrazione. Assai più di quanto facciano con i colleghi europei i nostri parlamentari in villeggiatura politica a Strasburgo e Bruxelles, indipendentemente dal gruppo europeo al quale sono iscritti.

Hanno tutti vite che si possono raccontare oltre la sezione di un partito, non sono figli di dirigenti e funzionari, considerano la politica un impegno a termine, almeno per ora. E dalle esperienze di vita quotidiana hanno maturato quello che forse è mancato in tutti questi anni alle leadership di centrosinistra. Una visione della società italiana nei fatti alternativa a quella della destra di Berlusconi. Un'Italia più aperta e tollerante, ben disposta al merito e alla creatività, assai più integrata nel resto d'Europa, meno anomala e autarchica, familista e obbediente ai vescovi. Ma anche una sinistra meno autarchica e difensiva. E' una visione dove il coraggio si mescola con l'ingenuità. Ma forse è di coraggio e ingenuità che la sinistra ha bisogno.
 
Nel suo primo anno di vita il Pd non si è concentrato sulla più grave crisi economica dagli anni Trenta ma sull'annosa questione del dialogo con Berlusconi. Dialogo sì, dialogo no, a prescindere, come stile politico. Senza neppure capire che, visto il risultato elettorale, Berlusconi non ha più bisogno di dialogo. Il temuto o sperato (da Veltroni) pareggio elettorale non c'è stato. Al massimo il premier ha oggi bisogno di un'opposizione che lo aiuti a far ingoiare all'opinione pubblica irriducibilmente democratica un certo numero di leggi razziali impensabili nel resto del continente, il regolamento di conti finale con la magistratura e qualche raffica di nomine di basso livello alla Rai o negli enti pubblici. Tutte operazioni alle quali procederà in ogni caso, anche senza la benedizione degli avversari. A questo brutale stravolgimento delle garanzie costituzionali, il centrosinistra ha offerto in questi anni soltanto una resistenza trattabile e poco convinta. Fino alla resa ideologica di contrapporre la ronda di sinistra a quella di destra, la caccia al lavavetri democratica contro quella leghista, il buon portatore di conflitto d'interessi (Soru) contro il cattivo. In cambio della concessione da parte del sovrano di qualche riserva indiana, di un piccolo statuto albertino in materia di sindacato o televisioni, e ancor di più in cambio della sopravvivenza del centrosinistra come ceto politico. Il tempo di questi giochi da seconda repubblica è ora scaduto. I cittadini chiedono che la politica non si occupi della propria sopravvivenza ma della loro, minacciata dalla crisi.


(5 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Nella bottega di Camilleri "Così nascono i miei bestseller"
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:46:28 pm
SPETTACOLI & CULTURA     

Metodi e segreti dello scrittore che ha venduto 21 milioni di copie

Il romanziere a ore fisse che scrive come parla

Nella bottega di Camilleri "Così nascono i miei bestseller"


di CURZIO MALTESE
 
ROMA - Il successo che arriva a settant'anni non ti cambia la vita, d'accordo. Ma incontrare Andrea Camilleri nella casa romana del quartiere Prati, il portone accanto alla sede della radio, nello stesso salotto da pensionato Rai dove l'ho conosciuto tanti anni fa, al principio dell'avventura, è una bella lezione di vita. Esattamente come quel giorno lontano, Camilleri si è svegliato alle sei, si è sbarbato e vestito di tutto punto per mettersi a scrivere, dalle sette alle dieci, minuto più, minuto meno. Ora, senza intervista, sarebbe in giro per il quartiere, al bar, a comprare le sigarette, a raccogliere le frasi perdute dalla gente, che poi finiranno in qualche suo romanzo. Dopo pranzo si rimetterà al tavolo di lavoro, per rivedere le pagine, correggere, riscrivere, per altre tre ore. La sera forse andrà a teatro con Rosetta, sua moglie da cinquantatré anni.

In mezzo a queste due giornate uguali, scandite dagli stessi riti, sono passati tre lustri, una trentina di romanzi, tradotti in tutto il mondo e venduti in ventuno milioni di copie, record per uno scrittore italiano.

Nessuno figura nella classifica dei primi dieci romanzi più venduti, ma quelli, da Eco a Saviano, per ora almeno, sono autori di un solo grande successo. Camilleri è una bottega da best seller, una formidabile macchina di scrittura. Di questo si parla.
Il patto con Camilleri è di non occuparsi per una volta del battutista di Palazzo Chigi, un'ossessione di molti e anche sua. Ma è più affascinante l'altra ossessione, quella nei confronti della più grande macchina per scrivere della storia della letteratura, Georges Simenon. Camilleri l'ha letto, studiato, conosciuto, ammirato e naturalmente imitato per tutta la vita. Gli ha offerto un omaggio straordinario, e assai gradito da Simenon, curando la più bella traduzione in immagini delle avventure del commissario Maigret mai girata, quella con l'indimenticabile Gino Cervi.

Ora Simenon, autore di centinaia di romanzi, aveva una serie infinita di trucchi, accorgimenti, più un monumentale archivio, una Biblioteca di Babele fatta di appunti, mappe, documenti. Mi guardo intorno nella casa, alla ricerca dell'archivio di Camilleri. "Fatica inutile, non esiste un archivio", è la deludente risposta. "Non prendo neppure appunti, niente. Ho buona memoria, tutto qui. Sono ordinato per natura, sono metodico. Ma non ho testa per un archivio. Un'altra cosa, Simenon era andato a scuola da un commissario del Quai des Orfèvres per imparare le tecniche d'indagine, io no. Ho conosciuto commissari di polizia soltanto dopo aver scritto Montalbano. Il fatto è che, a differenza di Simenon, io forse ho l'anima dello sbirro".

Il mito Simenon
Eppure un punto in comune con Simenon dev'esserci da qualche parte, insisto e uno lo trovo, anzi un paio. Gli autori seriali, da Simenon a King, sono come i serial killer, tendono a ripetere all'infinito le condizioni della prima volta. "Questo è vero. Gli orari di scrittura, soltanto al mattino, perché poi dovevo lavorare in Rai, il ritmo della giornata, tutto assomiglia alla prima volta, quando scrissi Il corso delle cose". L'altro punto in comune con Simenon è la lettura dei fatti di cronaca, pagine e pagine da una decina di giornali anche locali, e poi l'immersione nella realtà quotidiana del quartiere, la strada. "Mi piace inzupparmi di realtà. In fondo ho poca fantasia, e poi penso che i fatti reali siano sempre più imprevedibili delle trame degli scrittori". Gogol diceva di non aver fantasia, lo spunto per Le anime morte lo diede Pushkin. Aveva letto la storia di questo truffatore che girava per l'immensa Russia per comprare contadini defunti e ottenere così aiuti di Stato. "Come nasce un romanzo? Non l'ho mai capito. Leggi tanti piccoli fatti, ascolti frasi per strada. Due o tre rimangono in mente, crescono fino a diventare una storia. Ieri sono sceso a comprare le sigarette e ho sentito una ragazza che parlava al telefonino: "Ma come, vuoi fare l'amore con me, quando non abbiamo ancora consultato le carte?". Non è questo un magnifico spunto per una novella?".

Prima il dialogo
Nei romanzi di successo contemporanei sono quasi sparite le lunghe descrizioni dei classici, di persone e ambienti e paesaggi. La stessa faccia di Montalbano è in fondo un mistero. È un calcolo, visto che poi quelle i lettori le saltavano tanto volentieri, o che cosa? "Per me no, non è tecnica. È la mia formazione teatrale. Mi viene naturale scrivere per prima cosa i dialoghi, il dialogo nudo e crudo. Quando ho stabilito come parla un personaggio, allora desumo com'è vestito, dove vive, in quale ambiente si muove. Ex ore tuo te iudico". Mi pare di capire che non abbia una gran fiducia nelle tecniche, nelle scuole di scrittura. Che cosa racconta ai giovani aspiranti scrittori? "La miglior scuola per imparare a scrivere è ascoltare. E naturalmente leggere gli scrittori che ci piacciono e provare a capire come hanno fatto". Ho notato che la sua biblioteca immensa è tutta sistemata in ordine alfabetico, tranne lo scaffale dietro la scrivania. "Qui tengo i prediletti. Cechov anzitutto, teatro e racconti. Gogol, Le anime morte e i Racconti di Pietroburgo, che sono la perfezione letteraria. Poi Beckett, Faulkner, Sterne, Pirandello, ma assai più le novelle, il teatro è un po' datato. Tutti questi sono di Leonardo Sciascia, che rileggo in continuazione, qui sta ovviamente Simenon, ed ecco Calvino, un dio della scrittura".
Ma torniamo alla lingua. Prima di capire come parlano i personaggi, ci sono voluti trent'anni per capire come avrebbe parlato lui, l'autore. La ricerca di una lingua, la sua lingua, spiega la tardiva vocazione. "Beh, tardiva fino a un certo punto. Ho cominciato a pubblicare, e bene, prima dei vent'anni, su Mercurio. Poesie e racconti. Nel '47 Ungaretti m'infilò in un'antologia di nuovi poeti. Nel '48 Contini e Bo m'inserirono in un'altra, accanto a Pasolini, Zanzotto, Turoldo, Danilo Dolci, Maria Corti. Poi, certo, sparisco per mezzo secolo. Mi metto a scrivere una commedia, Silvio D'Amico mi consiglia di fare l'accademia a Roma e qui Orazio Costa dirotta il mio cervello dalla scrittura al teatro. Un lavoro stupendo, che non mi ha lascito mezzo rimpianto letterario. Quando m'è tornata voglia di scrivere, allora sì il problema è che non trovavo una lingua per raccontare".

Italiano e dialetto
Così ha finito per ascoltare sé stesso. Molti scrittori parlano meglio di quanto scrivano, è una vecchia intuizione. "Proprio così. M'era venuta in mente la storia de Il corso delle cose e volevo scrivere. Ma non ci riuscivo. In quel tempo mio padre era malato, passavo le notti con lui e raccontavo il romanzo, alla maniera nostra, in quel misto di dialetto e italiano della piccola borghesia siciliana. Finché non mi venne l'idea: perché non scrivere come raccontavo a mio padre? Lo scrissi in pochissimo tempo e lo consegnai a Niccolò Gallo, grande critico, che mi promise di pubblicarlo entro l'anno. Ma, come direbbe Gadda, subito dopo si rese defunto. Il romanzo aspettò altri dieci anni". Non era facile far passare quella lingua al vaglio degli editor. A proposito, come sono stati i suoi rapporti con gli editor? "In realtà ne ho avuto uno solo, Gallo, che mi fece una montagna di correzioni, tutte preziosissime. Per il resto, ho continuato di testa mia. Tutti naturalmente mi consigliavano di lasciar perdere quella lingua bastarda. Perfino Leonardo Sciascia mi ripeteva: figlio mio, ma come vuoi che ti capiscano i lettori non siciliani? Ma per me era perfetto. Di una tal cosa l'italiano serviva a esprimere il concetto, della stessa il dialetto descriveva il sentimento".

La gabbia del giallo
Ma i romanzi storici, bellissimi, cominciano a vendere con Sellerio. E poi arriva il botto di Montalbano. "È nato come un gioco. Per scrivere con metodo avevo bisogno di una gabbia, e quale migliore gabbia esiste del giallo? Il successo fu una cosa imprevista e incredibile. Balzai da cinquemila copie a novecentomila, un delirio, E un ricatto pazzesco. Sono anni che penso di sbarazzarmene, senza riuscirvi. Adesso esce l'ultimo e poi basta". È vero che ha accantonato l'idea di far morire Montalbano? "Sì, lo faccio sparire letterariamente. Il fatto è che una decina d'anni fa ci trovammo a Parigi con Manuel Vázquez Montalbán e Jean Claude Izzo e cominciammo a discutere di come far morire i nostri investigatori. Poi accade che Montalbàn e Izzo morirono tutti e due all'improvviso, senza riuscire a compiere il delitto. E io, che sono pur sempre meridionale, ho cambiato idea".

Come vive il mondo di Montalbano con quello dei romanzi storici? E soprattutto come si riesce a vivere in mezzo a quella folla di personaggi? Per uno scrittore è già difficile convivere con sette o otto personaggi alla volta. Dopo un po' diventano persone reali, che si aggirano per casa, dialogano, vivono euforie e depressioni. Camilleri scrive tre romanzi contemporaneamente, quindi si ritrova in duecento metri quadri decine di tipi che pretendono attenzione. "In effetti ogni tanto mi confondo, oppure esco e li lascio soli a vedersela fra di loro. Ma il mondo di Montalbano è un'altra cosa rispetto ai romanzi, è più rilassante, meno impegnativo. Perché quei personaggi sono in realtà maschere fisse, un teatro di pupi. Per il resto, sono abituato alla confusione. Io scrivo in un autentico bordello, con gente che va e che viene, amici, parenti, nipotini che si siedono sulle ginocchia, il rumore della città di sottofondo. Mia moglie mi dice, non sei uno scrittore, sei un corrispondente di guerra. Una volta ho provato a prendere una casa in campagna per concentrarmi e non sono riuscito e scrivere niente. Quando non riesco a sviluppare una storia, di solito non smetto di scrivere. Rispetto sempre l'orario, come un impiegato, e piuttosto che nulla, scrivo lettere a me stesso. Bene, quella volta tornai dalla villeggiatura con un pacco di lettere a me stesso".

L'arma dell'ironia
C'è un ultima curiosità nel fenomeno Camilleri. Non solo è lo scrittore italiano che ha venduto di più ma è anche la smentita più clamorosa al luogo comune per cui i lettori italiani non apprezzano il senso dell'umorismo. Nella lista dei best seller, in genere improntata a una granitica assenza d'ironia, i suoi romanzi spiccano per doti satiriche, con alcuni capolavori del genere, come La presa di Macallè. "Sì, ma non a caso è stato quello che ha avuto un'accoglienza furibonda dalla critica. In Italia la satira è sempre stata considerata un genere minore. È una colpa dedicarsi a una letteratura non penitenziale. Per me è fondamentale sorridere ogni tanto, mentre scrivo. Far sorridere i lettori, se posso, lo considero un gran vanto, forse il maggiore".


(19 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Lo specchio infranto
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 11:56:26 am
IL COMMENTO

Lo specchio infranto

di CURZIO MALTESE


Ma che effetto avrà fatto agli italiani vedere in mondovisione il presidente del Consiglio costretto a discolparsi di non andare con le minorenni? Dice proprio così, "Non è vero che frequento le minorenni". Come sostiene non un passante, un avversario politico senza scrupoli, un giornalaccio scandalistico, un sito di gossip, ma la madre dei suoi figli. Eccolo, il premier più popolare del mondo, secondo i suoi stessi sondaggi amato dal 75 per cento degli italiani, ma compatito, con punte di disgusto, dalla donna che gli sta accanto da trent'anni. Perché, sostiene Veronica, "è una persona che non sta bene".

Eccolo, il re nudo, con i suoi settantadue anni e i capelli nuovi, il cameraman di fiducia, nel salotto amico, mentre spiega che figurarsi se lui frequenta le ragazzine, come sostiene Veronica. Figurarsi se voleva candidare le veline all'europarlamento. Figurarsi se Veronica, che gli sta accanto da trent'anni, conosce la verità. Figurarsi, d'altra parte, se lui candida qualcuno per altri meriti che l'impegno negli studi, la competenza, l'idealismo, come del resto "nel caso di Gelmini, Carfagna, Brambilla...". Ma si capisce, certo.

Nella sempre spettacolare parabola di Silvio Berlusconi questo rimarrà il vertice. Ma stavolta non è stato lui a scegliersi la scena e neppure la parte. Lo ha costretto la moglie. L'unica persona vicina a infrangere lo specchio e a rompere il muro dell'omertà, retto per tanti anni da centinaia di schiene di cortigiani politici, giornalisti, avvocati, amici, disposti a chiudere un occhio, due, tre in tutti questi anni sullo scempio di legalità e moralità. E lui ha dovuto andare in televisione, in mondovisione, a raccontare che sua moglie è male informata sul marito, vittima di un complotto della sinistra, dei giornali di sinistra, di Repubblica. "Non a caso Repubblica". Vero. Da chi doveva andare Veronica, in un paese classificato nella libertà di stampa dietro al Benin, dove il marito controlla gran parte dell'informazione? Non c'era molta scelta. Neppure Berlusconi ha fatto una scelta originale, andando da Vespa per riparare i danni dell'attacco dei vescovi. Dove, sennò?

La claque lo sostiene, lo applaude a ogni passaggio della difficile arrampicata di sesto grado sugli specchi, sullo specchio del volto gigantesco di Veronica alle sue spalle. Sembra una scena di un film di Fellini, la Donna stupenda e immensa, e l'omino laggiù, una formica, che si dibatte in alibi puerili, strepita innocenza, sputa minacce. Gli spettatori italiani, dopo tanti anni di teleserva, non faranno più caso all'atteggiamento di Bruno Vespa, accondiscende fin dal titolo. Il più surreale mai escogitato da Vespa: "Adesso parlo io". Adesso parla Berlusconi? Perché, gli altri giorni degli ultimi quindici anni? Tuttavia, tanto per dare un'idea vaga di giornalismo, bisognerebbe ricordare il genere delle questioni poste a Bill Clinton dal suo intervistatore per il caso di Monica Lewinski (peraltro abbondantemente maggiorenne). Queste: quando, dove e come vi siete conosciuti? Quante volte vi siete visti in seguito? I genitori erano al corrente del vostro rapporto e in quali termini? E' venuta a trovarla a Washington (a Roma)? E' andato a trovarla a casa di lei? Dove dormivate? Avete avuto rapporti sessuali? Di che tipo? Quante volte? Quante volte completi? E Bill Clinton ha risposto a tutte le domande, senza citare neppure alla lontana una teoria del complotto. Alla fine è andato a scusarsi da sua moglie, nel salotto di casa, non nel salotto televisivo del ciambellano. Ha chiesto perdono a sua moglie, che aveva offeso. Si è ripresentato all'opinione pubblica quando lo ha ottenuto, dopo aver ammesso nel dettaglio più intimo e vergognoso le proprie colpe. Così accade in un paese democratico e civile.

Forse a Silvio Berlusconi sarà bastato passare una sera dall'amico Vespa, nel calore della claque, per ricominciare da domani come nulla fosse. Magari bisognerà pure rassegnarsi, con realismo, a capire che in questa storia l'unica che non potrà più liberamente andare in giro per le strade di questo paese è la vittima, Veronica Lario. Già inseguita dalla muta dei cani che hanno appena cominciato a delegittimarla in tutti i modi.

(6 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Il modello nordcoreano
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:32:54 am
IL COMMENTO

Il modello nordcoreano

di CURZIO MALTESE


Con quello che viene fuori ogni giorno, sarebbe curioso se gli italiani si scandalizzassero per le nomine Rai.
Eppure anche in questo teatrino dell'abuso di potere, si stanno raggiungendo livelli d'inaudito squallore.

Oggi i vertici di viale Mazzini approveranno la prima rata delle nomine decise un mese fa a casa Berlusconi. A casa del proprietario di Mediaset. Magari negli intervalli fra una visita dell'avvocato Mills e un karaoke con Noemi. La prima tranche di nomine prevede l'arrivo al Tg1 di Augusto Minzolini da La Stampa e a RaiUno di Mauro Mazza, in quota ad An. Berlusconi per ora si ferma qui, al boccone più grosso, lasciando a Fini un pezzo dell'arrosto. La seconda rata di lottizzati è rimandata a dopo le elezioni di giugno, nella speranza di fare il pieno di voti e quindi di poltrone Rai, strappando anche le bricioline destinate all'opposizione.

Il Genio, l'Uomo dei Miracoli, il Premier Ingegnere, il Premier Generale, tanto per citare alcune definizioni del Minzolini, in uno dei suoi tanti splendidi esempi di reportage nordcoreano, insomma padron Berlusconi, ha deciso così. Furbo com'è, avrà la sua convenienza. Piuttosto chiara, peraltro, anche a noi fessi. In vista delle elezioni, ottiene il massimo vantaggio. Intanto occupa militarmente il Tg1, avviato sulla gloriosa strada di Tele Pyongyang. Quindi terrorizza i superstiti da un lato e dall'altro spinge gli altri aspiranti direttori ad aumentare il grado di piaggeria nei confronti del capo. Il che per molti di loro non è neppure semplice. A meno di non presentarsi alle serate di Porta a Porta direttamente da uomini sandwich elettorali. Oppure tenere pubblici comizi contro Veronica Lario, come del resto hanno già fatto quasi tutti, con bieca ingratitudine. Non fosse per l'alt di Veronica, l'anziano leader ormai annoiato dai cortigiani avrebbe già nominato al posto loro un battaglione di veline e letteronze, studiosissime di Heidegger s'intende, più un paio di Oba Oba a Rai International.

Di fronte a un simile disprezzo per la tv di Stato, sarebbe lecito e normale in altri paesi l'incatenamento di massa ai cancelli di viale Mazzini da parte di dirigenti, leader politici, sindacalisti, maestranze in genere. E' invece difficile anche soltanto ascoltare una voce critica. L'unica a bucare l'assordante silenzio è stata quella di Sergio Zavoli, presidente della commissione di vigilanza parlamentare, uno che vuole davvero bene alla Rai. Una bella voce, con il tono giusto, fra l'indignato e l'avvilito. La Rai che sta uscendo da queste bulimiche riunioni di potere a casa Berlusconi, sostiene Zavoli, è una Rai dove sono negati il pluralismo, il merito, la decenza. "Le nomine non tengono conto della ricchezza culturale dell'azienda e del Paese". Si può aggiungere che negano l'identità stessa della Rai.

Nel bene o nel male, la tv di Stato ha sempre rispecchiato il Paese, con le sue piaggerie e servilismi, ma anche con le oasi di intelligenza, coraggio, talento. Nella Rai fatta a casa Berlusconi non vi saranno neppure le oasi e i nuovi direttori dovranno accollarsi un compito di pulizia e polizia, la chiusura delle poche finestre informative superstiti, i programmi di Gabanelli, Iacona, Fazio e Santoro. Per approdare a Tele Pyongyang, all'elogio permanente del capo e del suo governo.

(20 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Pd, l'ombra del terzo uomo
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2009, 06:45:14 pm
Le loro biografie più "calde" di quelle di Bersani e Franceschini

Il paradosso Chiamparino: ha 61 anni ed è il più tifato dai giovani

Pd, l'ombra del terzo uomo

Serracchiani E Civati: il vivaio sogna l'outsider

Al Lingotto anteprima del congresso di ottobre

Tutti alla ricerca di una "terza via" tra i due sfidanti


di CURZIO MALTESE


TORINO - E' diventata di colpo un'anteprima del congresso di ottobre, con il primo duello fra Bersani e Franceschini e sullo sfondo l'ombra del terzo incomodo Sergio Chiamparino. Un gran successo d'immagine, ma era quello lo scopo? Sono corsi tutti al Lingotto per cercare la cosa che al riformismo italiano è sempre mancata, sotto qualsiasi sigla, simbolo, dirigenza. In una parola, il coraggio. Ma di coraggio più che altro s'è sentito parlare. Nei fatti, poca roba. Chi ne ha avuto di più sono stati i vecchi, se volete i meno giovani, a cominciare dai due candidati Franceschini e Bersani, che non dovevano neppure parlare. Hanno cominciato fra qualche fischio e mugugni vari, hanno finito fra gli applausi. Più emozionante il segretario, che aveva il look giusto, scamiciato. Più concreto lo sfidante. Tutto secondo copione.

Un'ovazione aveva salutato il discorso tosto e un po' retro del padrone di casa, Sergio Chiamparino, che i giovani vorrebbero candidare come bandiera del rinnovamento. A metà dell'assemblea quello del sindaco di Torino è parso un discorso di candidatura, all'altra metà una chiara rinuncia. Ma qui entriamo in una serie di paradossi difficili anzitutto da capire, figurarsi da raccontare.

Il dato sicuro è che il favoleggiato ricambio generazionale, reclamato a parole da tutti, anche dagli ottuagenari, e voluto sul serio dagli elettori, non sembra alle porte. Alla vigilia della battaglia, i trentenni e quarantenni del Pd non hanno trovato di meglio che provare a convincere Chiamparino a lanciarsi nella sfida. Se il sindaco accettasse, potrebbe sparigliare i giochi. Ma comunque saremmo al ricambio generazionale alla rovescia, un sessantenne dopo i cinquantenni Veltroni e Franceschini.

Per giunta, una soluzione di ripiego, perché la candidata naturale dei giovani sarebbe stata Debora Serracchiani, ormai popolarissima, che è invece orientata ad appoggiare Franceschini. Chissà, forse è meglio a questo punto lasciar perdere le carte d'identità e badare all'identità politica. Il difetto di questi giovani del Pd è forse di sentirsi troppo giovani, anche a quarant'anni. Quando, per fare un paragone, a quell'età Veltroni era già vice presidente del Consiglio e D'Alema segava serenamente la sedia di Occhetto.

Quello che s'è capito dalla giornata del Lingotto è che in ogni caso esiste uno spazio largo per una terza candidatura, e magari per una quarta e quinta. Spazio mediatico, politico, di consensi popolari e di argomenti. Perfino uno spazio biografico. Le biografie di Franceschini e Bersani sono quelle di uomini di partito. Ottimi uomini di partito, bravissimi organizzatori. Ma i leader di questa epoca non sono mai uomini di partito e basta. Sono narratori. E la prima cosa che raccontano agli elettori è la propria vita. Sul mercato della comunicazione, le vite dei funzionari di partito oggi non interessano né a destra né a sinistra.

Personaggi come il medico Ignazio Marino, l'avvocato Debora Serracchiani, il giovane economista Marco Simoni o il professore di filosofia Giuseppe Civati, per citare alcuni possibili candidati della "terza via", sono tutti più seducenti per i media. Esiste poi uno spazio di argomenti politici. Altrimenti detti: valori. Lo scontro fra Franceschini e Bersani si giocherà molto sul tema delle future alleanze del Pd, che non scalda moltissimo i cuori. Molto meno di valori che si possono scrivere con la maiuscola, come la Laicità, i Diritti Civili, la Solidarietà, la Giustizia. Temi sui quali la platea del Lingotto si è spellata le mani, da chiunque fossero evocati, da Chiamparino come da Serracchiani, nelle brevi ma appassionate arringhe di Pippo Civati, Sandro Gozi, Paola Concia, Francesco Boccia e altri. Insomma lo spazio c'è e siccome in politica il vuoto non esiste, prima o poi uno di questi andrà ad occuparlo.

Una terza candidatura di pura testimonianza? Non è detto. Nella prima fase del congresso di ottobre decideranno gli apparati del partito. Bersani parte gran favorito, grazie all'appoggio di D'Alema e del decisivo Antonio Bassolino, che oggi controlla le 80 mila tessere Pd campane su un totale nazionale di 370 mila. Un dato che può anche indurre a meste riflessioni. Ma nella fase finale, le primarie, decidono due o tre milioni di persone e tutto può succedere.

Comunque vada a finire, la base chiede ai contendenti un confronto leale, sincero, senza colpi bassi. Chiede quantomeno ai dirigenti del Pd di non lanciare, con le loro divisioni, l'ennesima ciambella di salvataggio a un Berlusconi in gravi difficoltà. Se il buon giorno si vede dal Lingotto, la partita non comincia male.

(28 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE L'assalto finale al fortino di RaiTre
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2009, 04:24:49 pm
LA POLEMICA /

I direttori di Tg3 e RaiTre sono ritenuti da tutti ottimi professionisti ma non piacciono a Berlusconi: per questo ha dato l'ordine di farli fuori

L'assalto finale al fortino di RaiTre

di CURZIO MALTESE


GLI attuali direttori di Tg3 e RaiTre, Antonio Di Bella e Paolo Ruffini, sono ritenuti da tutti ottimi professionisti, fra i migliori della Rai. Hanno ottenuto del resto, sia in qualità che in quantità d'ascolti, molti eccellenti risultati. Tranne l'unico che conti nell'Italia di oggi: piacere a Berlusconi. Per questo il sultano ha dato ai vertici di viale Mazzini l'ordine di farli fuori, trovando una scusa. Compito non facile, perché di ragioni davvero non ce ne sono. Ma quando non esistono spiegazioni logiche, di solito basta inventarsi un complotto e un colpevole.

I vertici Rai, che invece non brillano né per doti professionali né per fantasia, hanno infine convenuto d'indicare all'opinione pubblica il colpevole più banale: la sinistra. È ormai come dire che l'assassino è il maggiordomo, ma funziona sempre. Sarebbe il Pd a volere il caos della terza rete per poter lottizzare dopo il congresso, secondo il volere del vincitore. L'ipotesi sembra troppo cretina perfino per gli elevati standard di autolesionismo del centrosinistra. Ma Antonio Di Pietro, per esempio, ci crede e dà una mano ad addossare alla sinistra la colpa dell'epurazione voluta da Berlusconi.

Naturalmente ai tre candidati alla segreteria del Pd, Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino, basterebbero dieci minuti per smontare la vicenda. Il tempo di prendersi un caffè insieme e annunciare il via libera alle nomine di RaiTre. Ma evidentemente i tre non sono in grado di prendere insieme neppure un caffè, oppure non capiscono la portata della minaccia.

Nel mirino di Berlusconi non ci sono tanto questa o quella poltrona Rai, le ha già quasi tutte. Se così fosse, non varrebbe neppure la pena di parlarne. Ma al premier interessa piuttosto eliminare un gruppo di programmi amati e, per lui, pericolosi. Si tratta anzitutto di "Che tempo che fa" di Fabio Fazio e di "Report" di Milena Gabanelli, fiori all'occhiello della rete, quindi dei salotti di Serena Dandini e di Daria Bignardi, "Parla con me" e "L'era glaciale".

Un bouquet di trasmissioni che ha molti meriti o demeriti, dipende dai punti di vista. Riescono a coniugare qualità e popolarità, danno un senso al concetto di servizio pubblico e tengono attaccato alla Rai un pezzo d'Italia moderna e intelligente, assai ambita dai pubblicitari, la quale altrimenti sarebbe già del tutto emigrata sul satellite. L'obiettivo del premier e padrone di Mediaset è di cancellarli. Stavolta con calma, senza editti, lavorando di cesello sul palinsesto e tagliando i fondi.

Il direttore Ruffini, degno erede di Angelo Guglielmi, non accetterebbe mai di sottoscrivere una simile sterilizzazione della rete. Occorre dunque uno spaventapasseri di sinistra disposto alla bisogna, in cambio della poltrona. Se ne trovano a mazzi, basta fare un fischio e si forma la coda davanti a Palazzo Grazioli. I nuovi direttori di Tg3 e RaiTre faranno tanti complimenti a Fazio e Gabanelli, Littizzetto e Dandini, ma diranno che è venuto il tempo di cambiare, innovare. In peggio, aggiungiamo pure.

Può stupire che Berlusconi, con tutto il potere di cui dispone, si concentri su questa battaglia. Ma il risultato alle elezioni europee di giugno l'ha ormai convinto che anche le riserve indiane debbano essere bonificate e gli ultimi professionisti della comunicazione vadano sostituiti con burattini pubblicitari manovrati da Palazzo Chigi.

Il piano d'assalto all'ultima roccaforte indipendente dall'egemonia berlusconiana è astuto e probabilmente andrà in porto. A meno che Franceschini, Bersani e Marino non trovino quei dieci minuti per disinnescarlo. Ma sono troppo impegnati a discutere sulla forma del partito e il suo radicamento nel territorio. L'ipotesi che l'attuale RaiTre sia ormai il principale radicamento nel territorio della cultura progressista in Italia sopraggiungerà soltanto fra qualche anno, come si dice in questi casi: a babbo morto.

(27 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE La strategia del ragno
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2009, 10:21:45 am
IL COMMENTO

La strategia del ragno

di CURZIO MALTESE


C'è qualcosa che gli italiani non sanno, ma soprattutto non debbono sapere, dietro la violenza dell'assalto finale di Silvio Berlusconi al valore di cui s'è sempre orwellianamente riempito la bocca, la libertà.

La libertà d'informazione e di critica del giornalismo, perfino la semplice libertà di scelta degli spettatori televisivi. C'è, deve esserci una disperata ragione se il premier, già osservato speciale delle opinioni pubbliche di mezzo mondo, invece di rientrare (lui sì) nei ranghi del gioco democratico, continua a sparare bordate contro le riserve indiane che ancora sfuggono al suo controllo.

L'ultimo episodio, l'oscuramento di Ballarò su Raitre, e ora anche di Matrix su Canale 5, per concentrare tutta l'audience di oggi sulla puntata celebrativa di Porta a Porta per la consegna alle vittime del terremoto abruzzese delle prime case, aggiunge un ulteriore tocco "coreano" al disegno dell'egemone. Volenti o nolenti, milioni di spettatori sono chiamati stasera all'appello, da bravi soldatini, per plaudire al "miglior presidente del Consiglio in 150 anni", che si esibisce nell'ennesimo spettacolare sfruttamento del dolore, fra le lodi dei ciambellani. Si ha un bel dire che ci vuole prudenza nell'adoperare certe parole, ma queste cose si vedono soltanto nei regimi. Più spesso, alla fine dei regimi, quando l'egemone è parecchio in là con gli anni e con l'incontinenza egolatrica.

La vicenda è grave in sé, come ha subito commentato Sergio Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza e memoria storica della Rai. E lascia perplessi che invece il presidente di garanzia della Rai la riduca a scompenso organizzativo. Si tratta quantomeno di un eufemismo. Ma l'affare Ballarò diventa ancora più inquietante perché s'inserisce in una strategia del ragno governativa per intimidire o tappare direttamente la bocca all'informazione critica.

Le denunce e le minacce contro Repubblica e Unità e perfino la stampa estera, il pestaggio mediatico di questo o quel giornalista, gli avvertimenti mafiosi a questo o quel conduttore perché si pieghino alle censure o dicano addio ai loro programmi, questi sono i metodi. Non si può neppure dire che si tratti di una trama occulta. Gli obiettivi sono palesi, dichiarati, in qualche caso rivendicati. Berlusconi sta usando tutto il suo potere di premier, primo editore e uomo più ricco d'Italia, per strangolare economicamente la stampa d'opposizione, epurare i pochi programmi d'informazione degna di un servizio pubblico, a cominciare da Annozero di Santoro, Report di Gabanelli e Che tempo che fa di Fazio, infine destituire l'unico direttore di rete televisiva, Paolo Ruffini di RaiTre, che non obbedisce agli ordini.

Non sappiamo se tutto questo si possa definire "l'agonia di una democrazia", come ha scritto Le Monde. Ma certo gli assomiglia moltissimo. Del quotidiano francese si può condividere anche il conciso titolo del commento: "Basta!". Nella speranza che siano in molti ormai in Italia a voler dire "basta!", non tanto, non più per convinzione politica, ma per buon senso, decenza e amor di patria. Lo si vedrà anche alla manifestazione di piazza del Popolo il prossimo sabato.

Al giornalismo libero rimane il compito di chiarire il mistero dietro l'offensiva finale di Berlusconi contro la libertà d'informazione. Oltre a quanto già gli italiani sanno, o almeno la minoranza che non si limita a bersi i telegiornali. E cioè il terrore governativo per il calo (reale) di consensi, l'incombere degli effetti autunnali della crisi sempre negata, il dilatarsi dei noti scandali di escort e minorenni, l'avvicinarsi di una sentenza della Consulta che potrebbe restituire Berlusconi alle proprie responsabilità davanti alla legge. E poi forse ci sarà dell'altro da nascondere, che all'informazione indipendente spetta d'indagare. Salvo che il potere impedisca ai giornalisti di fare il proprio lavoro. Come sta accadendo in Italia, con questa guerra preventiva, sotto gli occhi di tutto il mondo.

(15 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Monologo con insulti e menzogne nel salotto del servizio pubblico
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:38:18 pm
Berlusconi a "Porta a porta" torna all'attacco della stampa

Tre ore di spot governativo senza alcun contraddittorio

Monologo con insulti e menzogne nel salotto del servizio pubblico

di CURZIO MALTESE


C'è poco da commentare sulla puntata di "Porta a Porta" di ieri sera. Bisogna passare ai fatti. Registrare tutto e inviarlo al resto del mondo, via Internet, con una sola parola d'accompagnamento: "aiuto!". Tre ore di spot governativo, con il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, autoproclamatosi "superiore a De Gasperi", senza alcun contraddittorio, non soltanto in studio, ma nell'etere intero. Che ne penseranno nei paesi democratici?

Il Presidente Ingegnere, come scriveva Augusto Minzolini prima d'essere premiato con la direzione del Tg1, che consegna le prime case ai terremotati abruzzesi, è l'ultima versione dell'Uomo della Provvidenza. Bruno Vespa lo prende sottobraccio, da vecchio amico, fin dalla prima scena. A spasso fra le macerie dell'Aquila e della democrazia italiana. I commenti del conduttore spaziano fra "ma questo è un record!" a "un altro record!", fino a sfociare "è un miracolo!". Ma Onna, i terremotati e il loro dolore, la ricostruzione dell'Aquila, ancora di là da venire, sono soltanto pretesti.

Dopo mezzora si capisce qual è il vero scopo della trasmissione a reti unificate. Un attacco frontale alla stampa, anzi per dirla tutta a Repubblica. Noi giornalisti di Repubblica siamo "delinquenti", "farabutti" che ci ostiniamo a fargli domande alle quali il premier non risponde da mesi. Se non con questo impasto di minacce e menzogne, come la favola della "perdita di lettori e copie": un'affermazione smentita dalle vendite del giornale in edicola che sono in costante ascesa.

Ecco lo scopo di non avere un Ballarò e neppure un Matrix fra i piedi. Non tanto e non solo per disturbare il "vi piace il presepe?" allestito sulla tragedia del terremoto. Quanto per non rischiare un contraddittorio durante la fase di pestaggio.

Vespa non ci ha neppure provato, a parte il minimo sindacale ("Nessuno di Repubblica è presente"). Lasciamo perdere gli altri figuranti. Nessuno, nell'affrontare il problema dei rapporti con Fini, ha chiesto al Cavaliere un giudizio sui dossier a luci rosse contro il presidente della Camera sventolati come arma di ricatto da Vittorio Feltri, direttore del giornale di famiglia.

Già una volta il presidente del Consiglio era andato nel cosiddetto "salotto principe" della televisione, a "chiarire le vicende di Noemi e il resto", senza chiarire un bel nulla e con i giornalisti presenti, fra i quali il solito Sansonetti, il quale non poteva mancare neppure ieri sera, tutti ben contenti di non rivolgergli mezza domanda sul caso specifico. Stavolta però si è polverizzato davvero ogni primato d'inciviltà. Ma che razza di servizio pubblico è quello che organizza simili agguati? E' un'altra domanda che probabilmente non avrà mai risposta. Non da Berlusconi e tanto meno dai sottostanti vertici della Rai.

Il meno che si possa dire è che la puntata di "Porta a Porta" ha dato ragione a tutte le critiche della vigilia. Anzi, è andata molto oltre le peggiori aspettative. Ed è tuttavia interessante notare l'evoluzione del caso Berlusconi. Che senso ha attaccare la stampa indipendente al cospetto di una platea televisiva che poco o nulla sa delle inchieste di Repubblica e degli scandali del premier, dello stesso discredito internazionale che circonda ormai la figura di Berlusconi in tutto il mondo libero? E' davvero singolare che sia proprio Berlusconi a parlarne. Da solo, visto che i prudenti giornalisti chiamati a fargli ogni volta da corte, astutamente si guardano bene dal citare questi fatti. Per capirlo, ci vorrebbe uno psicoanalista, di quelli bravi.

Alla fine, a parte lo scempio d'informazione, cui ormai si è quasi abituati, indigna più di tutto la strumentalizzazione del dolore della gente abruzzese. La diretta in prima serata e l'oscuramento della concorrenza era stato giustificato dalla Rai con l'urgenza dell'evento, la consegna dei primi novantaquattro appartamenti agli sfollati del terremoto. Chiunque abbia seguito la serata ha potuto constatare come questo fosse appena un miserabile espediente, liquidato in pochi minuti, con qualche frase di circostanza e commozione da attori. Per poi passare al regolamento di conti con chiunque osi criticare il presidente del Consiglio. Ce la potevano risparmiare, questa serata di veleni e sciacalli.

(16 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Il fallimento del comunicatore
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 04:54:37 pm
Il fallimento del comunicatore

di CURZIO MALTESE


Berlusconi ha fatto segnare un record. Questo vero. Il presidente del Consiglio, ospite unico dello speciale di Porta a Porta, ha registrato il peggior ascolto dell'anno nella prima serata di Raiuno. Tre milioni 200 mila spettatori di media, il 13,4 per cento di share. Un risultato che per qualsiasi altro programma di Raiuno comporterebbe l'immediata chiusura col voto unanime dei vertici di viale Mazzini. Al contrario, stavolta erano stati oscurati i programmi concorrenti, da Ballarò a Matrix.

Eppure la "tv dell'obbligo", come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, non ha funzionato. Soprattutto perché non ha funzionato lui, il Grande Comunicatore.
È una nemesi storica per un uomo che ha fondato un partito con un messaggio via etere. Si possono naturalmente trovare molti alibi, a cominciare dalle partite sulla pay tv, che per chi è abbonato sono ormai pane quotidiano. Si può credere comunque ai sondaggi esibiti dal premier, che certo rimane popolare. Ma nessuno come Berlusconi sa che si vota anche col telecomando. E stavolta gli italiani hanno cambiato canale in massa. Il re delle televisioni è stato sfiduciato dall'audience.

Si tratta di una svolta nella fenomenologia del personaggio. Il Grande Comunicatore sembra aver perso la sua magia. La trasmissione era davvero brutta, televisivamente sgrammaticata, ingessata e noiosa, percorsa da un livore fastidioso e soprattutto per lunghi tratti incomprensibile. Berlusconi va ormai da mesi in tv per reagire, in genere con insulti, a fatti dei quali lo spettatore medio, tanto più quello di Porta a Porta, non sa assolutamente nulla.

Nessun telegiornale ha mai letto le famose dieci domande di Repubblica, riprese da tv e giornali di mezzo mondo. I notiziari hanno ormai abolito o censurato le rassegne stampa italiane e straniere. Pochi italiani usano Internet. Insomma, s'immagina lo sconcerto dello spettatore medio di Porta a Porta, fascia anziana, bassa scolarità, poca consuetudine con la carta stampata, che osserva il premier gonfio di rancore e si volta per chiedere lumi alla signora: "Ma con chi ce l'ha? Che è successo?".

Nella puntata dei record, si è assistito a un'oretta di tv surreale, durante la quale si è discusso dei "dissapori" fra Berlusconi e Fini senza che uno dei giornalisti presenti sentisse il bisogno di citare l'episodio scatenante. Il fatto. In questo caso, la notizia che Gianfranco Fini aveva querelato il Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi, dopo essere stato prima invitato a tornare "nei ranghi" e poi minacciato con presunte rivelazioni a sfondo sessuale. Questi sono fatti, non opinioni di Repubblica.

A proposito, sempre Berlusconi continua a ripetere nel salotto di Vespa che "Repubblica s'inventa di mie frequentazioni con minorenni e di veline inserite nelle liste elettorali". Anche qui, nessun giornalista del salotto ha mai avvertito il dovere professionale d'informare gli spettatori che quelle accuse non sono partite da Repubblica ma dalla signora Veronica Lario, moglie di Berlusconi e madre dei suoi figli. Riportate come tali, ancora una volta, dalla stampa mondiale.
Questi sono fatti. Vengono prima di destra e sinistra.

Possiamo domandare che razza di servizio pubblico è quello che offre un pulpito agli insulti del premier ("farabutti", "delinquenti"), senza mai sfiorare una notizia? Il presidente della Rai è giustamente intervenuto per difendere i programmi Rai e i giornalisti attaccati dal premier in casa Vespa. Ma in questi giorni i nuovi padroni della tv di Stato stanno valutando il modo di correggere, ridimensionare negli organici o addirittura chiudere programmi di giornalismo come Annozero o Report. I pochi che ancora offrono informazione, fatti.

A parte questo, programmi di successo, con percentuali di ascolti ben superiori agli speciali di Porta a Porta. I cui conduttori costano un terzo, nel caso di Michele Santoro, o addirittura un decimo, come Milena Gabanelli, rispetto al milione e ottocentomila euro che ogni anno porta a casa Bruno Vespa per non fare servizio pubblico. Per questo dobbiamo pagare il canone?

(17 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Crolla il muro della finzione
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2009, 07:37:41 pm
COMMENTI

Crolla il muro della finzione

di CURZIO MALTESE


C'ERA un solo Paese, fino a ieri, dove si potesse definire una "farsa" una manifestazione per la libertà di stampa in Italia. Indovinate un po', il nostro. Nel resto d'Europa e dell'universo democratico, l'anomalia italiana è ormai evidente a tutti. Bene, da oggi diventa più difficile per il potere negarla. La folla di cittadini che ha riempito all'inverosimile Piazza del Popolo e dintorni ha avuto l'effetto di far crollare un muro di finzione.

Ha portato un pezzo di realtà sulla scena pubblica, restituito un senso alle parole rubate dal marketing politico, come popolo e libertà, segnalato l'esistenza e la resistenza di un'Italia aperta al mondo, allegra e pronta a scendere in piazza per i propri diritti. Ed è un segnale del paradosso orwelliano in cui ci tocca vivere che proprio questa Italia si presenti in piazza al grido: "Siamo tutti farabutti".

È crollata in un pomeriggio una finzione costruita da mesi e anni di propaganda. Quella per cui la questione della libertà d'informazione in Italia è soltanto una lotta di élites nemiche, di qui Berlusconi e i suoi media, di là Repubblica e un pugno di giornalisti di tv e carta stampata, spalleggiati dalla fantomatica Spectre internazionale del giornalismo di sinistra. Se così fosse, aggiungiamo, avremmo già perso da un pezzo, visto i rapporti di forza.

Ma la questione è altra ed è quella che vede benissimo l'opinione pubblica internazionale. Da un lato c'è una concezione classica delle libertà democratiche, per cui il governo e l'informazione fanno ciascuno il proprio mestiere. Dall'altro, il fronte berlusconiano, dove è affermata ormai a chiare lettere una concezione di democrazia mutilata in cui i media debbono astenersi dal criticare il potere politico, perfino dal porre domande non previste dal protocollo. Altrimenti rischiano ritorsioni economiche, politiche, giudiziarie.

Sullo sfondo di un irrisolto e monumentale conflitto d'interessi, il progetto di Berlusconi è di costringere l'intero campo dell'informazione a due sole possibilità. Una metà militante a favore del padrone, cioè servile. E l'altra metà comunque deferente.

Nei quindici anni di carriera politica, Berlusconi non era mai giunto tanto vicino a raggiungere questo obiettivo come al principio del suo terzo mandato. Una televisione e una stampa prone ai voleri del governo, in molti casi liete di fare da semplici megafoni, hanno scortato il premier fra infinite passerelle nella luna di miele con l'elettorato. Poi qualcosa si è rotto. Le voci non servili o non deferenti rimangono poche, ma suonano forte e soprattutto sono sostenute da un crescente sostegno popolare.

Perfino il pubblico televisivo, il "popolo" di Berlusconi, ha cominciato a ribellarsi a una rassegnata deriva. Per il re delle antenne, abituato a riferire dell'azione di governo prima (o solo) in tv piuttosto che in Parlamento, far segnare record negativi di ascolti, quando il "nemico" Santoro polverizza un primato dopo l'altro, è davvero un brutto segno di declino. La risposta di massa in piazza all'appello del sindacato giornalisti è un altro pessimo segnale. Pessimo, s'intende, per l'egemone. Magnifico per chi continua a pensare all'Italia come a una grande democrazia occidentale.

Non sappiamo se l'opinione pubblica è davvero e ancora "una forza superiore a quella dei governi", come scriveva Saint Simon agli albori della democrazia. Nell'Italia di oggi è in ogni caso una forza superiore a quella di un'opposizione politica divisa, confusa e a giudicare dagli ultimi voti parlamentari anche distratta. Il potere ne è consapevole e infatti gli attacchi agli organi d'informazione in questi mesi hanno raggiunto toni mai toccati dalla polemica politica.

Per finire con una nota grottesca, parliamo del Tg1, ormai scaduto a bollettino governativo. Ieri sera il direttore Augusto Minzolini è intervenuto con un editoriale nel quale, dopo aver esordito definendo una manifestazione di cittadini in favore della libertà di stampa "incomprensibile per me" (nel suo caso, si capisce), ha ripetuto parola per parola gli slogan appena usati nel pastone politico dagli esponenti del Pdl.

Minzolini, che è quello senza occhiali - per distinguerlo da Capezzone - non è l'ennesimo portavoce del premier, ma un dipendente del servizio pubblico, pagato coi soldi del canone versato anche dai manifestanti. Anzi, forse più da loro che da altri. Dovrebbe tenerne conto e dare qualche notizia in più, invece di propinarci per la seconda volta il Berlusconi-pensiero mascherato da editoriale.

(4 ottobre 2009)
da corriere.it


Titolo: CURZIO MALTESE Il partito e gli elettori
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2009, 05:31:45 pm
IL COMMENTO

Il partito e gli elettori

di CURZIO MALTESE


Voglio trovare un senso a tante cose, canta il Vasco Rossi imitato da Bersani. Ma un senso il congresso del Pd finora non l'ha avuto. Restano due settimane per recuperarne uno e convincere almeno due milioni d'italiani a partecipare col voto alle primarie. Sarebbe un duro colpo a Berlusconi, che ne ha ricevuti tanti in questi mesi, mai però dal Pd.

Con tutto quello che succede, chi si ricordava della corsa alla segreteria del Pd? Perfino ieri, nel giorno della convenzione, la scena è stata rubata dal Cavaliere.
Le aperture dei telegiornali fotografano una lotta impari. Da un lato, un Berlusconi alla spallata finale, in guerra aperta con la Costituzione, la Consulta e il Presidente della Repubblica, deciso a spianare la magistratura indipendente e la stampa libera, magari anche estera. Dall'altra tre gentili signori, Bersani, Franceschini, Marino, che dibattono di forme partito, alleanze e statuti interni. Oppure di quanto sarebbe stato meglio fare una legge sul conflitto d'interessi, dieci anni fa. O ancora se l'anti-berlusconismo e lo spirito anti-italiano siano due cose diverse, come ormai in molti cominciano a sospettare.

Questa è l'immagine che il principale partito d'opposizione ha dato al Paese, non da oggi. Una totale incapacità di cogliere la crisi nazionale e internazionale del berlusconismo. Restano due settimane, da qui alle primarie, per ripartire all'attacco. È quanto chiedono gli elettori. Ed era quanto chiedeva ieri l'assemblea democratica alle porte di Roma. Fra i candidati, l'unico a capirlo è stato Dario Franceschini. L'unico che ha scaldato la platea.

Il compito del segretario uscente era più facile. Pierluigi Bersani ha già vinto la corsa, con ampio margine di voti fra gli iscritti, ed è favorito nei sondaggi.
Il suo discorso è stato cauto, solido, di buon senso, appunto bersaniano. Il punto di forza sono le alleanze, la riapertura del "cantiere dell'Ulivo". Qui Bersani è assai più convincente di Franceschini. La vocazione maggioritaria del Pd, col 26 per cento dei voti, è andata a farsi benedire. La storia di quindici anni insegna che, alla fine, il centrosinistra ha vinto nelle due uniche occasioni in cui s'è presentato unito e perso sempre quand'era diviso. Per il resto, il vincitore designato non ha saputo trovare un argomento o un tono adatti a scatenare la sua assemblea, che non aspettava altro.

Il "comizio domenicale" di Franceschini, come l'hanno definito con disprezzo i dalemiani, è stato quindi una liberazione. Lo sconfitto designato ha potuto giocarsi le carte proibite all'avversario. L'appello al popolo delle primarie, perché rovesci il risultato degli iscritti. Il rinnovamento del partito e il cielo sa quanto ce ne sarebbe bisogno in un partito dove le facce sono le stesse da vent'anni. Infine, ma certo non ultimo, l'anti-berlusconismo. Per meglio dire, quello che perfino nel Pd si accetta di definire anti-berlusconismo e che consisterebbe in realtà nel fare il proprio mestiere di opposizione con più coraggio e grinta. Franceschini, rispetto a Bersani e anche a un Ignazio Marino in versione moderata, ha fatto nomi e cognomi. Soprattutto uno, Massimo D'Alema, il grande elettore di Bersani. Trattato come il vero vincitore del congresso e il vero padrone di casa. Non del tutto a torto, com'era dimostrato simbolicamente dall'assenza alla convenzione dei tre rivali storici di D'Alema: Romano Prodi, Walter Veltroni, Francesco Rutelli.

Con questi argomenti Franceschini spera di rovesciare in due settimane il responso degli iscritti. Impresa difficile, ma non impossibile. I venti punti di distacco in percentuale della sua mozione, in termini reali, si riducono a 84 mila voti di distacco da Bersani. Ma nella campagna elettorale "sul territorio", secondo la formula un po' bolsa, insomma in giro per l'Italia, Bersani sarà assai più efficace di quanto sia parso davanti all'assemblea democratica. Chiunque vinca, ha davanti un compito difficile. All'interno di un partito da ripulire a fondo. Un partito dove oggi la Calabria ha più iscritti della Lombardia, Napoli e provincia contano il doppio dell'intero Nord-Est.
Ma ancor di più all'esterno, nella tanto evocata Italia reale, dove la voce del maggior partito dell'opposizione suona flebile e confusa, sovrastata dal clamore berlusconiano e non solo.

© Riproduzione riservata (12 ottobre 2009)
DA repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Tangentopoli è ancora qui
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:23:52 am
IL COMMENTO

Tangentopoli è ancora qui

di CURZIO MALTESE


Soffia un vento da fine Repubblica, un clima da '92, nelle vicende di questi giorni. Si è tornati a parlare delle stragi di Falcone e Borsellino, delle trattative fra mafia e stato intorno al "papello", il mistero più oscuro all'origine della Seconda Repubblica.

Le cronache tornano a riempirsi di storiacce di appalti e tangenti, di sistemi politici criminali scoperchiati, di arresti eccellenti fra Napoli e Milano. È come se il muro di omertà, mascherato da ideologie, steso da un decennio sulla corruzione fosse in procinto di cadere in pezzi, rivelando l'eterna attualità della questione morale.

La corruzione in Italia è da sempre la vera emergenza, un fattore che condiziona la vita politica ed economica. Ma il circo di media e politica, passata la tempesta di Mani Pulite, ha finto che non esistesse più. Alimentando una fabbrica di chiacchiere generiche, appese alle nuvole e fondate sul nulla. La forza delle cose s'incarica poi di restituirci alla realtà. Alla luce delle notizie di queste ore, alcuni dei temi privilegiati dal dibattito pubblico assumono un significato grottesco. Il posto fisso è un valore o bisogna accettare la flessibilità? Nel reame di Ceppaloni il conflitto era risolto in una mirabile sintesi hegeliana. Posti fissi o mobili, progetti a termine e consulenze milionarie, erano assegnati senza distinzioni fra destra e sinistra, laureati e asini, da un unico e gigantesco ufficio di collocamento clientelare. La signora Lonardi, moglie dell'ex ministro del centrosinistra, ora europarlamentare del centrodestra, dice che le "è crollato il mondo addosso" quando ha ricevuto l'ordine dei magistrati di non rimettere piede in Campania. Si figuri, signora, com'è crollato il mondo ai giovani meridionali. A quelli ancora convinti che per trovare un lavoro occorrano studio, impegno, talento.

Da anni destra e sinistra discutono sulla forma del federalismo futuro. Quali funzioni potrà svolgere il meraviglioso stato federale, soluzione di ogni conflitto, quali (poche) dovranno rimanere all'orrido Stato centralista, con quali contrappesi solidali. Fingono tutti di non sapere e di non vedere che cos'è il federalismo nell'unico settore in cui è già stato realizzato: la sanità. La voce che da sola occupa i due terzi dei bilanci delle Regioni. Un'orgia di sprechi, mazzette, appalti truccati, affari sporchi fatti, non metaforicamente, sulla pelle dei cittadini. Dalla Puglia alla Lombardia, nelle regioni rosse come in quelle berlusconiane. Regni di trafficanti bipartisan come il Tarantini di Bari, che organizzava festini per il premier e dopocena per gli assessori della giunta di Vendola. In cambio di che cosa, lo diranno i magistrati. Potentati economici e politici, come la sanità lombarda, governata da quel Giancarlo Abelli sfiorato da decine di inchieste e in ultimo toccato da quella sulle bonifiche delle aree edificabili di Santa Giulia, dell'ex Falck di Sesto San Giovanni e di Pioltello, per cui è già in carcere la signora Abelli, Rosanna Gariboldi. Perché sia chiaro che i clan familisti non allignano soltanto nel Mezzogiorno.

Non è il "ritorno della corruzione", come titola qualche notiziario. Perché la corruzione non se n'era mai andata. Ha continuato a far parte della vita quotidiana di milioni d'italiani dopo Tangentopoli e ora forse più di prima. È forse il ritorno di un clima sociale. O ancora più probabilmente, si tratta dei morsi della crisi economica. "Quando circolano meno soldi nelle tasche, i cittadini s'indignano più facilmente" chiosava anni fa uno dei protagonisti del pool milanese, Pier Camillo Davigo. Oggi, come allora, la crisi rende insostenibile per molti imprenditori la tassa della corruzione, che si erano rassegnati a pagare. Sono loro a sollevare il coperchio, gli esclusi dagli appalti di partito, i bocciati al concorso truccato. Corrono a chiedere giustizia a una magistratura senza mezzi e sotto minaccia, forte soltanto della propria indipendenza dal potere politico, garantita dalla Costituzione. Ancora per quanto, non si sa.

© Riproduzione riservata (22 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Una bella giornata per la democrazia
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2009, 09:45:06 am
IL COMMENTO

Una bella giornata per la democrazia


di CURZIO MALTESE


Tre milioni di votanti, cinquantamila volontari in diecimila seggi, decine di milioni di euro raccolti. Se qualcuno nel Pd ha ancora dubbi sulle primarie è un pazzo. Sono l'elemento più identitario del partito, dal giorno della nascita.

È stata una grande giornata per l'unico partito al mondo che coinvolga tanti cittadini nella scelta del segretario, ma soprattutto per la democrazia. Il voto degli elettori ha confermato nella sostanza quello degli iscritti. Bersani è il vincitore, ma Franceschini e Marino non escono sconfitti. Il segretario uscente ha avuto proprio ieri la conferma d'aver svolto bene la missione di salvare il Pd nella stagione peggiore e oggi può consegnarlo al successo in ottima salute. Ignazio Marino è stata la sorpresa del voto popolare, a riprova che i temi del rinnovamento e della laicità sono assai avvertiti dalla base.

La vera notizia è la partecipazione. Tre milioni non li aveva previsti nessuno. Tanto meno dopo l'ultimo desolante caso di Piero Marrazzo. Il popolo democratico ha invece reagito con un atto di generosità e responsabilità, qualità più rare ai vertici. La corsa alle primarie può segnare un punto di svolta nello stallo politico. È una scossa positiva per il Pd, in cerca d'identità da troppo tempo. Ed è una spallata al governo Berlusconi, già avvitato in un evidente declino. Una spallata vera e potente, che non arriva dalle élites e dai palazzi complottardi di cui favoleggiano i demagoghi, ma piuttosto da milioni d'italiani. Cittadini normali che si sono svegliati presto di domenica, messi in fila, versato un contributo, atteso i risultati fino a notte. Non perché Bersani, Franceschini o Marino siano leader di travolgente carisma, né sull'onda di un entusiasmante dibattito congressuale. Ma nella speranza d'infondere al principale partito d'opposizione la forza necessaria per mandare a casa il peggior governo della storia repubblicana.

Questo è il chiarissimo mandato che i tre milioni consegnano nelle mani del vincitore Bersani, ma anche a Franceschini e Marino, da oggi chiamati a collaborare come rappresentanti delle minoranze interne a un grande progetto. Si tratta di vedere se la nuova dirigenza saprà interpretarlo o, chiusi i gazebo, tornerà a rinchiudersi nelle stanze affumicate di strategie tanto sottili quanto perdenti. Come è sempre accaduto finora. Il nuovo leader democratico ha davanti compiti difficili e tempi strettissimi, da qui alle regionali. Il primo è rilanciare il Pd alla guida di un'opposizione seria nei toni, ma dura nella sostanza. Più dura di quanto non sia stata finora. Di "tregue" a Berlusconi, più o meno volontarie, il centrosinistra ne ha offerte già troppe in questi anni. Un'ulteriore resa a un Cavaliere a fine corsa, almeno nell'opinione mondiale, sarebbe interpretata come un tradimento degli elettori e si tradurrebbe in una catastrofe politica.

Il secondo compito è quello di affrontare il rinnovamento interno al partito, che non sia la solita mano di bianco sulla nomenklatura. Nei confronti dei casi inquietanti segnalati qua e là, la base si aspetta da Bersani che agisca con rapidità e chiarezza. Per fare l'esempio più recente, che convinca Marrazzo, dopo l'opportuno gesto dell'autosospensione, a tagliare la testa al toro e rassegnare subito le dimissioni da governatore.

Occorre certo un po' di coraggio, quello che è sempre mancato ai leader, davvero non al popolo di centrosinistra. Ma il coraggio, se uno non l'ha, milioni di voti glielo potrebbero pur dare. A Prodi e a Veltroni non erano bastati. Bersani ne ha presi molti meno, ma alla fine di primarie vere e combattute fino all'ultimo. Ora ha l'occasione di dimostrare nei fatti quanto aveva ragione a criticare i predecessori.

© Riproduzione riservata (26 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Boccia: "Con Nichi la sinistra da bere".
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:55:58 pm
L'INCHIESTA / Lo scrittore Carofiglio: "Le elezioni saranno evento dadaista"

Boccia: "Con Nichi la sinistra da bere".

Vendola: "Io vado avanti"

Il tramonto del laboratorio Puglia la guerra balcanica che scuote il Pd

di CURZIO MALTESE


TUTTE le piste dell'inguacchio pugliese, come lo chiamano qui, per dire di un inciucio andato male, portano a lui, la volpe del Tavoliere, il leader Massimo. Magari capiva più di politica estera che non d'Italia e forse non ci libererà mai da Berlusconi. In compenso, nel far fuori chiunque gli possa fare ombra nel centrosinistra, D'Alema è sempre infallibile. Uno dopo l'altro, Prodi e Cofferati, Veltroni e Rutelli. Liquidata la pratica nazionale, è tornato nelle sue terre e in un mese ha schiantato i due miti locali, Michele Emiliano e Nichi Vendola. In cambio, s'intende, di un grande disegno. Il professor D'Alema aveva deciso che nel laboratorio pugliese dovesse nascere la nuova creatura del centrosinistra. Un mostro invincibile e un po' Frankenstein, con dieci partiti, una gamba di Casini qua, un braccio di Di Pietro là, un piede comunista e uno ex fascista, innestati sul corpaccione inerte del Pd. Ma il colpo di fulmine che doveva animarlo non è arrivato. Così l'inventore è ripartito sul destriero per Roma, lasciando il fido assistente Nicola Latorre a fronteggiare incendi e forconi.
E l'incendio avanza, dilaga. "Al posto del nuovo centrosinistra allargato, si rischia di avere la spaccatura nel Pd, a Bari come a Roma", commentano allarmati i militanti. Di ora in ora s'incarognisce la battaglia fra i candidati, che alla fine potrebbero essere quattro. Due nel centrosinistra, Nichi Vendola e Francesco Boccia, e due a destra, Antonio Distaso, candidato ufficiale del Pdl, e la finiana Adriana Poli Bortone. "Di questo passo" è la sintesi dello scrittore Gianrico Carofiglio "le elezioni di marzo si presentano come un evento dadaista".

Chi avrebbe mai potuto immaginare una simile triste fine per la primavera pugliese. I fatti non contano più nulla. Bari la stanno ammazzando il pettegolezzo e le televisioni. Da un anno la città sta sulle prime pagine per storie di malaffare e cocaina, escort e appalti, e parentopoli. Alla fine gli stessi pugliesi vi si specchiano. Eppure, al netto di scandali tutti ancora da dimostrare, di processi da celebrare chissà quando, Bari e la Puglia rimangono agli occhi di chi arriva l'unico pezzo d'Europa a sud di Roma, l'unica area meridionale non riducibile a una Gomorra di rifiuti, mafie, frane, rivolte, collasso sociale. Lo sanno tutti, a destra e a sinistra. Lo dicono le statistiche, gli indicatori di crescita per cui la Puglia è seconda alla sola Lombardia. Lo vedono gli inviati sull'eterno "caso Bari" come i trecento clandestini sbarcati l'altro giorno dall'inferno di Rosarno nel lindo aeroporto di Palese.

Non si capisce allora la ragione di questa guerra balcanica nel centrosinistra. Se non appunto per via della condanna a essere il "laboratorio della politica nazionale". "Un'antica iattura - commenta il sociologo Franco Cassano - Dai tempi di Aldo Moro, giù fino al pentapartito e ora a questa vicenda. È chiaro che la partita era nazionale. Era il segnale di un ritorno al primato dei partiti. Basta Vendola e basta pure Emiliano. Basta con le primarie, che qui in Puglia sono nate, almeno quelle vere. Basta con la cosiddetta società civile. La ricreazione è finita. Un progetto coloniale che qui ha sempre fallito e che considero sbagliato. Ma al quale si potrebbe riconoscere una dignità se almeno fosse stato chiaramente esposto. Invece si è andati avanti a colpi di vertici segreti, trovate tattiche. Il risultato è lo scoppio del laboratorio. Ora se il centrosinistra vuole salvare la faccia deve fare una veloce retromarcia e tornare alle primarie". Primarie, primarie ripetono gli intellettuali pugliesi, ma anche la gente al mercato. E ormai le primarie le vuole anche mezzo Pd romano. "Perché sono nello statuto del partito" ricorda la presidente Rosy Bindi. "Ma prima ancora sono iscritte nel senso comune" aggiunge un pugliese ormai romanizzato come il produttore di cinema Domenico Procacci. La pressione è forte e ieri i delegati dell'area Emiliano, entrati in assemblea per votare a favore di Boccia, sono usciti dicendo "primarie". Nell'imbarazzo dello stesso sindaco Emiliano, che di imbarazzi ne ha avuti e ne ha procurati molti in tutta la vicenda, compresa l'impronunciabile richiesta di una legge ad personam per candidarsi alla Regione.
A opporsi è rimasto quasi soltanto Francesco Boccia, che sui manifesti a favore delle primarie ironizza pesante: "La solita sinistra da bere che Vendola si è conquistato con le consulenze in regione. Fare le primarie oggi significa perdere subito l'Udc, quindi il progetto di nuova alleanza".

Ma intanto le centinaia di giovanissimi volontari che lavorano per Vendola non hanno l'aria da salotto, le migliaia di messaggi sui web non li paga la Regione. Gli strateghi hanno molto sottovalutato il fenomeno Vendola, che è mediatico prima che politico. Il compagno Nichi è un combattente. L'aveva annunciato fin dalla prima riunione con D'Alema: "Se credete di farmi fuori o che io mi faccia da parte, vi sbagliate. Io vado avanti, farò il martire. Che alla fine, paga sempre". E l'ha fatto benissimo, il martire dell'orrida casta politica, soprattutto in televisione da Santoro. Oggi paradossalmente sembra lui, il governatore uscente, il capo della rivolta contro il palazzo. Vendola ha dalla sua argomenti popolari e contro di lui veti incomprensibili. Perché alla fine non lo vogliono più? Perché Casini, che pure gli testimonia grande stima personale, non vuole Vendola? Perché è gay? Perché è comunista? Oppure perché non vuole privatizzare l'acquedotto pugliese, magari al gruppo Caltagirone? Perché i dipietristi non lo vogliono? Perché non ha cambiato la sanità pugliese? Ma in procura negano di avere nulla a carico del governatore. "Tranne un'intercettazione dove cercavo di "raccomandare" come primario un ex docente di Harvard, vedi che colpa" dice l'interessato. Non sarà allora perché non ha mai dato un assessore all'Idv in giunta? Sospetti, dietrologie. "Le solite fesserie dei giustizialisti" liquida Nicola Latorre.

E magari sarà vero. Ma vi sarebbero meno sospetti e dietrologie se il Pd avesse messo in campo un criterio chiaro. Le primarie vanno bene per eleggere il segretario regionale e quello nazionale, ma non per il candidato governatore. L'alleanza con l'Udc è irrinunciabile in Puglia, ma era facoltativa nel Lazio. Non si capisce neppure chi comandi oggi nel Pd, se D'Alema o Bersani, che nella vicenda pugliese, dove il partito si gioca la faccia, non s'è ancora mai visto. Oppure magari comanda Casini, tecnicamente segretario di un altro partito, o forse nessuno. L'unica cosa certa è che il laboratorio è fallito e qualcuno deve prenderne atto. Tira aria di ritirata strategica. Il primo a fiutarla è stato Antonio Di Pietro, che ora è pronto a tornare sul nome di Vendola: "Lui o un altro, ma in fretta. O 'sto candidato lo vogliamo scegliere dopo le elezioni?".


© Riproduzione riservata (12 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Regionali, ciclone Vendola in Puglia
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2010, 06:01:29 pm
Domani la sfida del "Berlusconi rosso" con Francesco Boccia

Quel misto di stordimento e rabbia con cui il partitone si avvia ad una sconfitta annunciata

Regionali, ciclone Vendola in Puglia

Opa ostile sul Pd alla ricerca di un leader


di CURZIO MALTESE


BARI - "Guagliò, calmi, che la capa gira!". È diventato lo slogan amaro nei quartier generali del Pd. La "capagira" significa il misto di stordimento, rabbia e impotenza col quale oggi il partitone s'avvia a una sconfitta annunciata contro il guerrigliero Nichi Vendola. "Uno che era finito sei mesi fa e noi siamo stati capaci di trasformare in Che Guevara" dicono i vecchi militanti. Soffiano mazzate di vento gelido sul lungomare di Bari e perfino quelle tirano per Vendola. Domenica la gente non andrà in gita e più gente va a votare le primarie, tanto più sale il vantaggio del governatore sullo sfidante. La domanda della gente pugliese non è se vincerà "Nichi o Boccia", dove già la scelta di nome o cognome segna una distanza. Piuttosto "di quanto vincerà Nichi". Se con il dieci, il venti o il trenta per cento. È raro in effetti assistere a una vigilia tanto univoca. Non solo nei sondaggi, per quel che valgono.

Ma nei discorsi, negli umori, nei segni sparsi per le strade. Almeno a Bari e dintorni, dove si gioca, cifre alla mano, la metà della partita. Basta confrontare la mestizia delle sedi del Pd con l'allegra sarabanda giovanile di Fabrica, il quartier generale di Vendola. Confrontare i muti e radi manifesti di Boccia con gli squillanti e felicemente populisti del Comandante Nichi, "Solo con(tro) tutti". Misurare con lo sguardo i luoghi della contesa. Mentre i dirigenti del partitone viaggiano per salette da convegno, sezioni desertiche e studi televisivi, Vendola attraversa bagni di folla e prenota per il gran finale di oggi Piazza Prefettura, roba da ventimila persone, che soltanto il Berlusconi dei tempi d'oro è riuscito a riempire con un comizio. L'altro giorno è arrivato finalmente a Bari il segretario Pier Luigi Bersani per sostenere la candidatura di Boccia e l'evento non è riuscito a colmare le trecento poltrone di una sala della Fiera.

"Uno spettacolo avvilente e preoccupante" ammette il senatore dalemiano Nicola Latorre. "Non c'era uno della minoranza del partito. Tutti a sostenere l'Opa ostile di Vendola sul Pd". Lo sfascio del partitone in questa guerra insensata è del resto facilissimo da misurare. Nelle due ore trascorse a Fabrica ho assistito al pellegrinaggio di una decina di consiglieri comunali del Pd e all'arrivo di una comitiva di giovani di Molfetta decisa a organizzare una serata "pro Vendola". "Siete di Sinistra e Libertà?" "Macché, siamo del Pd!".

"Per quale motivo, di preciso, avete deciso di suicidarvi?" ha risposto lo scrittore e senatore Pd Gianrico Carofiglio ai messi di Bersani e D'Alema che gli avevano chiesto se "almeno lui" se la sentisse di pronunciarsi per il candidato ufficiale. Dopo che decine di artisti, intellettuali, scienziati e premi Nobel, da Margherita Hack a Dario Fo, avevano aderito agli appelli di Vendola. Dalla parte di Boccia, a sorpresa, è arrivato un solo testimonial e piuttosto bizzarro: Franco Califano. Ma sì, il mitico. Sempre stato "nero". "Ma che te devo di'? Francesco è n' amico. E poi 'sto Vendola che fa la vittima m'ha veramente rotto li...". Così oggi Francesco Boccia, che sembra molto più solo contro tutti, si è consolato sfrecciando fra Foggia e Bisceglie su un'Alfa con al fianco "Er Califfo". "Alla faccia della sinistra da bere, meglio il Califfo" dice lo sfidante. "Prima o poi gli elettori capiranno che quella di Vendola è una truffa, retorica allo stato brado".

Prima di domani però pare difficile. Quanto all'altro califfo, Massimo D'Alema, ha deciso di rinviare la nomina romana al Copasir a martedì e di rimanere sulla barca del suo candidato fino all'ultima ora utile. Soltanto che la barca continua a prendere acqua e il ventennale califfato di D'Alema in Puglia rischia di chiudersi.
Chi l'ha fatto fare a D'Alema, a Bersani e al Pd tutto di ficcarsi nella trappolona pugliese? Alessandro Piva, regista barese che di "capagira" se ne intende, ha la sua teoria: "Vendola è un Berlusconi rosso e li ha fregati con lo stesso metodo che il Cavaliere usa da anni. E' bravo a far la vittima, quello contro il sistema, quello che si è fatto da solo. E' più moderno, è un comunicatore, si rivolge direttamente al popolo ed è capace di emozionare. Con lui gli avvisi di garanzia funzionano alla rovescia. È un combattente e ha dimostrato di avere nove vite come i gatti. È come Berlusconi".

Almeno un po' deve essere vero, se il "Berlusconi rosso" non s'offende al paragone, sembra anzi quasi compiaciuto. Ma sugli errori degli ex compagni del Pci, Nichi Vendola ha anche un'altra spiegazione: "Hanno un rapporto nevrotico con la modernità e non hanno mai davvero chiuso i conti col passato. Ma di tutta la grande narrazione politica comunista, quelli come D'Alema e Bersani hanno conservato un solo tratto, il fascino supremo del comando. L'illusione di poter imporre alla base qualsiasi scelta, per quanto impopolare, in nome del fine superiore del partito. Soltanto che questo fine superiore non esiste più. E alla lunga, senza un'utopia, una trascendenza, la gente prima o poi si stufa di obbedire".

L'impressione è che il "poi" sia arrivato di colpo, oggi, qui, in Puglia. Dove il Pd di Bersani rischia di correre incontro a una crisi dura, non soltanto locale, ma nazionale. Per la tigna dalemiana, per incapacità di fiutare il vento, per il "rapporto nevrotico con la modernità", và a sapere. In ogni caso, a quarantotto ore dal voto delle primarie, perfino nel fronte fedele al candidato ufficiale, si discuteva soltanto di come rimediare alla sconfitta. Come rimettere insieme, da lunedì, i cocci di un'alleanza devastata dal palio delle sinistre. Michele Emiliano, il sindaco di Bari che appoggia Boccia, ma non perde mezza occasione di fare l'elogio di "Nichi", si ritaglia fin da subito il ruolo di grande mediatore per il dopo disastro: "Comunque vada a finire, le primarie del Pd hanno cancellato dalla scena politica il centrodestra e segnalato la ricchezza del centrosinistra agli elettori pugliesi. Boccia e Vendola sono due facce di una bella politica, destinate a collaborare da lunedì se il centrosinistra vuole davvero vincere. Ed è già troppo tardi. Perché se Francesco Boccia fosse stato in questi anni il vice presidente della Puglia e l'assessore al bilancio, come in molti avevamo suggerito a Nichi, oggi la Regione non avrebbe buchi, ma risorse da destinare allo sviluppo". Su una linea pragmatica è Alessandro Laterza, editore e presidente degli industriali pugliesi, che finora si è tenuto lontano dalla rissa: "Aspetto che finisca la disfida per tornare a parlare dei fatti. Per esempio dei tre miliardi di fondi europei che finora non siamo stati in grado di ottenere per la Puglia e che potrebbero cambiare la faccia all'economia della regione.

La sconfitta del Pd è annunciata, ma la catastrofe si può ancora evitare. Soprattutto se la vittoria di Vendola non sarà schiacciante, come dicono i sondaggi e il popolo del blog. Perché altrimenti il vento si porta via tutti i personaggi. Magari al suono di una musica da circo, come nel finale di Otto e Mezzo di Fellini, che ieri mezza Bari bene è corsa ad applaudire al Petruzzelli, nella versione holliwodiana di "Nine". Per distrarsi col festival del cinema dal festival della politica, per sorridere alla fine di un'altra giornata amara. 
 

© Riproduzione riservata (23 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Vendola: con me torna a vivere una sinistra che sa emozionare
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2010, 09:49:13 am
Ma Il governatore della Puglia frena i suoi ultrà: "Basta infierire su Massimo.

"Veniamo da anni di realpolitik. Dobbiamo criticare il populismo dalla parte del popolo"

Vendola: con me torna a vivere una sinistra che sa emozionare


di CURZIO MALTESE

BARI - Il giorno dopo, il giorno del trionfo a reti quasi unificate, dai salotti di Bruno Vespa e Gad Lerner, la celebrazione più inattesa è arrivata al compagno Nichi da un vecchio nemico, l'ex fascistone Salvatore Tatarella, l'uomo più popolare della destra pugliese, fratello del mitico Pinuccio. All'aeroporto di Bari, dove Vendola è in partenza per Milano, Tatarella gli viene incontro: "Omaggi a sua eccellenza!". "Sua eccellenza sarà lei..." sorride Nichi. "Quant'è bravo 'sto ragazzo, che spinge i suoi avversari al suicidio" aggiunge Tatarella. E rivolto al cronista: "Ha vinto ieri e vincerà a marzo. Lo sa lui, lo so io, lo sapete pure voi". Poi s'accendono le telecamere e parte la dichiarazione ufficiale: "Rocco Palese è il miglior candidato possibile per smascherare i cinque anni d'inganno". Un vero Tatarella. Ma tutti sanno, Vendola, Tatarella che il vento ormai tira a favore del ciclone Nichi.

E' diventato di colpo un principe fortunato, Nichi Vendola. Una fortuna bipartisan. D'Alema l'ha trasformato in eroe, Berlusconi gli sceglie l'antagonista di minor carisma, Rocco Palese, ombra dell'oscuro Fitto. E perfino Casini gli regala la candidatura di Adriana Poli Bortone. E dire che Vendola ha sempre considerato un limite l'appartenenza a una generazione "sfigata" di neo cinquantenni, quelli che non avevano fatto il '68 e ora sono troppo vecchi per il famoso ricambio. E' del '58. Famiglia della piccola borghesia, classe destinata all'estinzione secondo il piccolo borghese Marx, "eterna" invece per Hans Magnus Enzensberger. "Padre partito fascista per la guerra e tornato comunista come tanti". L'hanno chiamato Nicola in onore al patrono di Bari e di tutte le Russie, ma Nichi per via di Nikita Kruscev, il profeta della destalinizzazione. "E tu hai dedalemizzato la Puglia!" gli hanno detto la notte della festa. Pronta replica: "Calmi, guagliò. Non è proprio il momento d'infierire".

Non ha infierito, infatti. Da quando è arrivato il pazzesco risultato del feudo di D'Alema, Gallipoli città (85 Vendola, 15 Boccia), lo sforzo del governatore è stato di ricucire. Con perle di diplomazia: "Ringrazio D'Alema d'aver indicato la soluzione democratica delle primarie". Roba da ridere per chi ha assistito alle telefonate furibonde ai delegati democratici per evitare le primarie "a tutti i costi", agli sms secchi a Michele Emiliano ("Ora è tutto nelle tue mani"), agli avvertimenti di Nicola Latorre agli aspiranti candidati.

Ma nel ciclone Vendola sarebbe sbagliato ridurre tutto al duello rusticano con D'Alema. La Puglia, con queste primarie, è diventato un vero laboratorio nazionale. "Non di nuove alleanze, ma di un modo nuovo di fare politica a sinistra". Non è una vanteria. Si sono viste cose davvero nuove attorno al fenomeno Vendola. Nessuno in Italia aveva mai usato così il web, l'invenzione fortunata della "videolettera". "Abbiamo pensato che la piazza virtuale di Internet e quella reale non fossero pianeti diversi, ma evocative l'una dell'altra. E ha funzionato nel riportare alla partecipazione soprattutto i giovani".

Scuola Obama, insomma. Ci si dava appuntamento in piazza via Internet. Lo chiamano il "Berlusconi rosso". "E io non mi offendo, perché sulla capacità di comunicare dal Cavaliere qualche lezione a sinistra la potremmo prendere. Ma certo sui contenuti, non c'è messaggio più lontano del nostro dal populismo della destra. Sull'immigrazione, l'ambiente, la conservazione dei beni comuni come l'acqua, la difesa dei lavoratori. La questione è che la sinistra deve riuscire a tradurre tutto questo in senso comune, attraverso anche le emozioni, perché no. E' rimasta a metà del guado fra la difesa d'ufficio, con toni vagamente sociologici, di un'identità sempre più genericamente progressista, oppure la suicida rincorsa alla destra sui temi della sicurezza".
Ecco un altro che vuole incarnare "la terza via", si dirà. "Ma una terza via fra la casta e il populismo bisognerà pur trovarla. Qui in Puglia nessuno ha identificato me con la nomenclatura di sinistra, anche dopo cinque anni di governo. Mentre, tanto più dopo lo spettacolo delle primarie, confrontato con i vertici romani per designare lo sfidante, è il centrodestra ad apparire come una banda di politicanti. Ci sarà un motivo".

"Dicono che io ho personalizzato la campagna fra me e D'Alema - continua il governatore - . Ma si tratterebbe sinceramente una misera vittoria. La questione è stata fra modi diversi di far politica a sinistra. Quello che ha prevalso in questi anni, incarnato non solo da Massimo, lo possiamo definire il fascino stringente della realpolitik. Che è stato la cifra dominante della nostra ultima esperienza di governo con Prodi, fallita non per Mastella o questo o quello, ma perché gli italiani si sono ribellati alla casta. E la destra è stata bravissima a far passare il messaggio che la casta era il centrosinistra. Io credo invece che si possa criticare il populismo dalla parte del popolo, riuscendo a evocare un senso comune alternativo a quello di Berlusconi. Ed è possibile su tutti gli argomenti dove oggi la sinistra perde".

L'immigrazione, per esempio, o la giustizia? "Ma si pensa che gli operai del Nord, negli anni '50 e '60, fossero contenti di veder arrivare milioni di meridionali? Eppure il sindacato, la sinistra hanno saputo lavorare al senso comune, comunicare l'importanza dell'accoglienza. Lo stesso vale per la giustizia. Io non sono giustizialista, ma neppure reclamo l'impunità se parte un avviso di garanzia. Mi rivolgo agli elettori, come ho fatto con la videolettera, con chiarezza e nulla da nascondere"

Alla fine la Puglia rimane laboratorio nazionale. Anche delle ambizioni di Vendola? "Questo si vedrà. Da oggi sono soltanto uno che deve vincere le elezioni di marzo, altrimenti, diciamo qui, sò mazzate. La vicenda pugliese è stata un'epifania, una storia che ne ha chiarite in maniera direi plastica tante altre precedenti. Spetta ai dirigenti del centrosinistra trarne le conseguenze".
 

© Riproduzione riservata (26 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Gli uomini del cavaliere
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2010, 09:11:07 am
IL COMMENTO

Gli uomini del cavaliere

di CURZIO MALTESE

Passato l'effetto statuina, è ripreso il declino di Silvio Berlusconi. In un clima da fine della seconda repubblica, ogni giorno scoppia uno scandalo che tocca sempre più da vicino il cuore del potere di Palazzo Chigi. Ieri Guido Bertolaso, il potente capo della Protezione civile, forse l'unico successore che Berlusconi abbia mai avuto in mente. Oggi Denis Verdini, il coordinatore del partito, indagato per corruzione e protagonista di mille intercettazioni.

Inutile aggiungere che in un paese normale, come pure nell'Italia prima di Berlusconi, ci sarebbero già state raffiche di dimissioni. Qui il premier nega o minimizza. Continua a dipingere come un martire Bertolaso, la cui evidente intimità con l'imprenditore Anemone, escort o non escort, dovrebbe bastare per liquidarne la parabola. Riduce le storie di tangenti a ruberie di "piccole volpi nel pollaio", come faceva Bettino Craxi a proposito del "mariuolo" Chiesa. Sembra sicuro, il Cavaliere, che nessuno scandalo potrà bucare il muro di gomma, quel perenne stato di eccezione che circonda il potere berlusconiano, costruito in anni e anni di egemonia mediatica. Molte volte ha avuto ragione. Ma ora forse si sbaglia. Come fu per Mani Pulite, sul banco degli imputati non si trovano soltanto nomi eccellenti, pezzi di nomenclatura, ma un intero sistema.
Due italiani su tre, secondo un sondaggio di Sky, pensano che siamo di fronte a una nuova Tangentopoli. La suggestione del parallelo non può nascondere le profonde differenze. L'Italia e gli italiani, anzitutto, non sono più quelli. Ora sono assai più rassegnati e cinici, molto meno informati. I telegiornali dell'epoca esaltavano i magistrati inquirenti come eroi, questi li perseguitano come nemici del popolo.

Sono cambiati i protagonisti degli scandali, l'antropologia dei nuovi ladri. Quelli alla fine rubavano, o almeno cominciavano a rubare, per far politica. Questi fanno politica per poter rubare. Ha ragione Gianfranco Fini, non prendono per il partito, ma per se stessi. Al massimo per la combriccola, il quartierino, la banda. La corte dei miracoli di Berlusconi appare, alla luce delle intercettazioni, come un crogiuolo di cortili d'affari. Rubano in maniera sgangherata e ostentata, continuano a vantarsene al telefono da veri imbecilli, intascano mazzette in favore di videocamera. E rubano molto di più. Ai tempi di Tangentopoli la Corte dei Conti stimava la "tassa della corruzione" in cinque miliardi di euro attuali. Oggi siamo a sette, otto volte tanto.
Ma sono cose che tutti sappiamo, come si sapevano alla vigilia di Mani Pulite. Che cosa allora aveva fatto scoppiare la bolla? La stessa miscela che si sta riformando adesso. Da un lato la stanchezza e la sfiducia della maggioranza degli italiani in una classe dirigente non solo corrotta, ma decrepita. Non si riesce a immaginare un futuro per il Paese con Berlusconi, come non se ne immaginava più uno con Andreotti, Craxi e Forlani diciotto anni fa. Dall'altro i morsi di una crisi economica ancora più feroce di quella dei primi Novanta, che rende ormai insostenibile la sovrattassa della corruzione per milioni di cittadini e per migliaia di imprenditori. E' questa combinazione chimica di senso comune,  contingenza economica e voglia di futuro che può scatenare la tempesta finale sul sistema.

Naturalmente, il sistema e Berlusconi che lo incarna si batteranno come leoni. Ma già nella vicenda Bertolaso si leggono i segnali di un cedimento da parte di chi, troppo assuefatto a un potere senza controllo, non è più abbastanza vigile. Come si poteva pensare che uno scandalo così macroscopico, solare, come gli appalti del mancato G8 della Maddalena non attirassero l'attenzione dei giornali e delle procure?  Quanta presunzione d'impunità trasuda da quelle voci registrate. Ma con tutto il potere e i soldi e le minacce di Berlusconi e della corte, vi sarà sempre un cronista o un magistrato troppo curiosi per non indagare su storie tanto assurde. E' la libertà, bellezza. E loro non possono farci niente.

© Riproduzione riservata (17 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Capitan terremoto
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 03:00:13 pm
IL COMMENTO

Capitan terremoto

di CURZIO MALTESE


Con il tempo tutti i protagonisti della vita pubblica italiana diventano maschere della commedia dell'arte. Vuoi per interesse, vuoi per naturale propensione, Guido Bertolaso ha bruciato le tappe. La centesima volta che lo vedi in tv con il maglioncino dell'uomo del fare, mentre ripete all'infinito il mantra, "la gente mi spinge a tener duro", "io vado avanti e mi occupo di problemi seri", ti vien voglia di denunciarlo per un crimine non iscritto nel codice penale, ma in Italia propedeutico a tutti gli altri: la retorica.

Retorica a palate, è il caso di dire. A valanga, a frana, a slavina, alluvionale. Con un vocabolario di cento parole al massimo, fra le quali spicca il verbo fare. Fare, fare, fare. Ogni tanto, anzi spesso, dire. Mai baciare, per carità. Figurarsi lettera (di dimissioni) o testamento (politico, s'intende). È il gioco di Bertolaso, il suo canovaccio. Da maschera della commedia dell'arte, appunto: il Capitano. Una delle più antiche, nipote del miles gloriosus, e con mille varianti, Capitan Fracassa, Spaventa, Matamoros, Corazza, Rinoceronte, Spezzaferro, Spaccamonti, Rodomonte e sì, Terremoto. Il Bertolaso le incarna tutte in un corpo solo, ormai tutt'uno con la divisa della Protezione Civile. Uomo d'azione, del fare e non del pensare, quindi vittima generosa e ingenua di astuti marpioni. "Non avevo il tempo di controllare, di fare il poliziotto, il commissario". Ma se non aveva mai tempo prima, dove lo trova ora tutto 'sto tempo per stare in televisione dalla mattina su Canale 5 fino alla sera su Ballarò, senza contare i telegiornali, le interviste sui quotidiani, gli speciali, le apparizioni ovunque? Proprio lui, che da Haiti aveva dichiarato con disprezzo: "Troppi show in televisione sono sempre un segnale pessimo, ci si esibisce per le telecamere e in concreto non si fa nulla per le vittime". Già. Poi uno si lamenta se i Clinton lo mandano a quel paese.

La strategia della difesa dai processi via etere gli è stata di sicuro suggerita dal suo grande sponsor, Silvio Berlusconi, che la usa con successo da vent'anni. La televisione è il gran lavacro nazionale. Ma per taluni aspetti l'allievo sta superando il maestro. Anzitutto, il volume di fuoco. Bertolaso è in questi giorni onnipresente, Rai, Mediaset, La7, Sky. Si porta dietro le telecamere nei sopralluoghi in Sicilia e Calabria, dove non parla delle frane reali ma del fango metaforico che è piovuto addosso a lui. Con involontaria ironia aggredisce la "barbarie di processi fatti sui media e non nelle aule dei tribunali". "Nei processi mediatici  -  enuncia  -  la verità è l'ultima cosa che interessa, si cercano le emozioni del pubblico". Vale anche per l'arringa della difesa? Il Capitano sorpassa il modello berlusconiano per vittimismo, che sembrava impossibile. Sul sito della Protezione Civile, altro strumento assai improprio di difesa personale, si definisce un "alluvionato" e si paragona alle "tante vittime di catastrofi che abbiamo soccorso in questi anni".

Ma dove Capitan Bertolaso non teme davvero confronti, né col maestro né con le maschere della commedia dell'arte, è nell'auto elogio. Da un lato delle proprie mirabolanti imprese, ai limiti del sovrumano. Dall'altro, di un'onestà proverbiale, implicita, ovvia, che non ha dunque alcun bisogno di essere dimostrata, quasi fosse un elemento della natura. Un'onestà fanciullesca, che sconfina nel candore e nell'idiozia, in senso dostoeskiano. Perfino Berlusconi avrebbe infatti qualche imbarazzo a dipingersi così, sia pure a fin di bene. Capitan Bertolaso, forza della natura, uomo del fare, esibisce invece una purezza assoluta. Lui era lì che vangava nel fango e non s'è accorto di nulla, delle ruberie, degli appalti truccati, degli sciacalli che ridevano alla notizia dei terremoti. Non s'è chiesto a che cosa servisse buttare 300 milioni per un centro congressi sull'isola della Maddalena e perché la maggior parte fossero appaltati a un'azienda con una ventina di dipendenti. Non s'è mai neppure domandato perché il titolare dell'azienda, l'Anemone, fosse tanto premuroso con lui da aprire e chiudere a comando il suo centro sportivo, organizzare feste e incontri. Devono avergli detto anche che per farsi un messaggio alla cervicale bisognava portare i preservativi e il Capitano li ha portati, senza pensare che poi magari la stampa ci avrebbe malignato sopra. Tangenti, mazzette, prostitute, ma scherziamo? Può essere corrotto un uomo che da anni indossa lo stesso golfino blu? Siamo al solito incubo kafkiano, all'incipit di ogni processo italiano. "Qualcuno doveva aver calunniato il povero Joseph K. perché una mattina, senza che avesse fatto nulla di male, fu arrestato...".

© Riproduzione riservata (23 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Ma soprattutto sono stati sconfitti sia Berlusconi che D'Alema
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2010, 12:21:55 pm
Il "Poeta" contro il "Ragioniere" con la Poli Bortone che potrebbe essere decisiva

Ma soprattutto sono stati sconfitti sia Berlusconi che D'Alema

Puglia, con la sfida Vendola-Palese qui è finita la seconda Repubblica

Il governatore uscente fa campagna con slogan in rima baciata: è l'unico comunista osannato ad ogni manifestazione.

Lo sfidante martella gli elettori con cifre e commi

di CURZIO MALTESE


BARI - Nel laboratorio Puglia si vede oggi quello che forse domani sarà la politica italiana. Qui la seconda repubblica è finita il 24 gennaio scorso. Era la notte delle primarie. Con la vittoria di Vendola e la nomina di Rocco Palese a sfidante, in poche ore è crollata a sinistra l'egemonia di D'Alema e a destra è cominciato il dopo Berlusconi. Fuori gioco il Padrone e lo Stratega, senza i quali in Puglia, ancor più che nel resto d'Italia, non si muoveva foglia da quindici anni, che cosa è rimasto sul campo? Una nuova sinistra di guerriglieri mediatici, una vecchia destra di notabili poco telegenici, un centro né nuovo né vecchio a fare da ago della bilancia. Sullo sfondo, un intreccio di affari, scandali e regolamenti di conti fra potentati economici. E il paradosso di una regione da sempre di destra che rischia di finire per la seconda volta nelle mani del più rosso dei governatori.

"In Puglia almeno abbiamo presentato le liste, peccato non il candidato" dicono che ripeta Berlusconi. Questo Rocco Palese, ombroso braccio destro del ministro Raffaele Fitto, questo candidato in grisaglia, noiosamente onesto e antitelevisivo, al premier non è mai andato giù. "Rocco chi?!" aveva urlato in faccia a Fitto, durante un consiglio dei ministri. "Palese, come l'aeroporto" aveva sussurrato l'altro. "Ah, così la gente se lo ricorda" s'era calmato il Cavaliere. Ma pochi giorni dopo, con i manifesti "Palese presidente" già stampati, il premier era tornato alla carica, aveva convocato Fitto e i maggiorenti del partito per dire che "con questo Rocco, come si chiama?, non andiamo da nessuna parte. Per vincere dobbiamo allearci con Casini e appoggiare la Poli Bortone". Ma Fitto si oppose al punto di minacciare una scissione e Berlusconi, per la prima volta, fece lui un passo indietro.

E' partita così la strana sfida fra il Ragioniere e il Poeta, secondo la reciproca definizione. Dove il Ragioniere sta per Palese e il Poeta allude naturalmente a Vendola, il "poeta di Terlizzi", e ad altro. Come si evince dalla greve traduzione del terzo incomodo, Adriana Poli Bortone: "Vuoi vedere che fra un ragioniere e un diverso, stavolta ai pugliesi può piacere una donna?". Tanto per dire del livello.

Il duello fra Vendola e Palese è lo spettacolare rovesciamento degli stilemi che hanno dominato la seconda repubblica. E' la sinistra che detta l'agenda e si diverte, sfrutta l'abilità mediatica, ricorre al populismo, inventa una trovata dopo l'altra, ribalta le accuse in punti di forza. La destra irride al Poeta di Terlizzi? E Vendola risponde con una campagna fatta di slogan, una ventina, tutti in rima baciata. "Si tratta di far mancare il terreno sotto i piedi alla propaganda avversaria" spiega Giovanni Sasso, capo dei trentenni creativi dell'agenzia ProForma, che cura la campagna di Vendola. Lo stesso che ha inventato gli slogan poetici, le videolettere e l'esilarante "mago pidiello" che spopola da settimane su Youtube. La destra è costretta a inseguire, a dire "anche noi siamo contrari al nucleare", "anche noi non vogliamo la privatizzazione dell'Acquedotto pugliese". "Ma l'avete detto a Berlusconi, a Fitto e al governo?" è la facile replica di Vendola.

Quando si va sul territorio, come si dice, sembra di assistere al confronto non fra candidati, ma fra epoche storiche. Incrocio la campagna di Vendola e Palese per la prima volta a Taranto, la più cinica e indolente piazza politica d'Italia. L'arrivo del ciclone Nichi è una scarica d'adrenalina, si bloccano le strade del centro nuovo e perfino della città antica, che è un deserto di palazzi disabitati, percorsi ormai soltanto da bande di spacciatori. Il governatore stringe centinaia di mani, più che un comunista sembra un senatore dell'Illinois. Nelle stesse ore la convention di Palese si svolge nel lussuosissimo Hotel Histò a Mare Piccolo, in un salone dove si raccoglie la vecchia nomenclatura cittadina, ampie nuche democristiane, età media sulla sessantina. Al tavolo di presidenza spicca la pittoresca figura di Giancarlo Cito, ex sindaco e senatore, condannato per mafia, il proto Berlusconi di Taranto che già negli Ottanta faceva politica con le tv e le squadre di proprietà. E a Palese fa pure la lezione: "Ricordati che la battaglia politica si vince sui media".

Scene simili a Foggia, a Barletta, a Brindisi. Nel Salento, dove la macchina del Pd è ancora nelle salde mani di Baffino, i dalemiani sfottono: "Stasera parla Vendola in piazza, portatevi i fazzoletti". Ma poi le piazze sono piene e la gente piange davvero. Ironizzano pure i berlusconiani sul loro candidato: "Stasera c'è Palese, portate le calcolatrici". E alla sera, al centro congressi, la gente sbadiglia di fronte all'alluvione di cifre da ordinanza regionale, "di cui al comma...".

Il maggior vanto e merito di Palese sta proprio nell'opposizione testarda, meticolosa, da ragioniere secchione ma galantuomo, che ha guidato per cinque anni in consiglio regionale. Non senza ragione, viste le inchieste della magistratura. Il guaio è che la vena moralizzatrice della destra si è fermata al nome del candidato presidente e all'epurazione delle escort, tornate a popolare le notti di corso Vittorio. Per il resto le liste pulite qui non sono pervenute. A destra spicca il nome di Tato Greco, genero dei Matarrese, socio e amicissimo di Giampaolo Tarantini, già sponsor di Patrizia D'Addario. Per proseguire con Francesco Pistilli, ex sindaco di Acquaviva, condannato l'anno scorso per corruzione. Anche la Poli Bortone vanta in lista nientemeno che il ripescaggio di Cosimo Mele, l'ex deputato Udc sorpreso il 27 luglio 2007, in un albergo di via Veneto, nel mezzo di un'orgia a base di cocaina con un paio di prostitute. Oggi è in giro per le parrocchie del brindisino a spiegare il valore della famiglia.

Nel centrosinistra ha fatto discutere, per opposti motivi, la candidatura a capolista dell'Idv di Lorenzo Nicastro, magistrato titolare per nove anni delle inchieste su Fitto e Angelucci. Attaccato dalla destra come "evidente caso di barbara commistione fra politica e giustizia". Difeso a spada tratta da Di Pietro, meno dal Pd e da Vendola, quasi per niente dall'Associazione nazionale dei magistrati. La civile idea che non si debbano candidare in lista delinquenti, corrotti e inquisiti, ma neppure i magistrati che li hanno indagati fino al giorno prima, pare minoritaria anche nei laboratori della Terza Repubblica. "Come sembrano minoritari i problemi concreti" obietta Alessandro Laterza, presidente degli industriali baresi. "In fondo si parla molto della personalità dei candidati, di chi c'è e di chi manca nelle liste. Ma che cosa vogliono fare nella sanità, che rappresenta l'80 per cento del bilancio regionale e il 90 per cento degli scandali, nessuno l'ha ancora ben chiarito. E alla prossima puntata Vendola non potrà più dire che alla sanità ha dovuto accettare l'assessore voluto da D'Alema. Stesso discorso per i miliardi dei fondi europei, gli ultimi, l'ultima occasione per rilanciare l'economia della regione".

Sono tutti d'accordo nel dire che la battaglia fra il rock Vendola e il lento Palese si deciderà nel Salento, dove Poli Bortone rischia di togliere molti voti al centrodestra, e soprattutto a Bari. Qui Vendola e il sindaco Michele Emiliano hanno siglato sabato scorso una spettacolare pace, dopo mesi di conflitti. Si vocifera di un accordo già trovato fra i due per fare in modo che sia Emiliano il successore di Vendola, in caso di vittoria. Fra cinque anni o forse molto prima. Dipende da quando finirà la seconda repubblica anche nel resto d'Italia.
 
© Riproduzione riservata (11 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE L'ossessione televisiva
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2010, 04:29:42 pm
IL COMMENTO.

Mentre il Pil crolla e i conti peggiorano il premier trascorre le serate a trovare il modo di chiudere le trasmissioni

L'ossessione televisiva

di CURZIO MALTESE

La televisione conta poco o nulla nel consenso a Berlusconi? A parlare dei processi e degli scandali che riguardano il premier gli si fa soltanto un favore? Invece di rompere le tasche da anni a noi "antiberlusconiani", i professorini di liberalismo dovrebbero spiegare questi concetti al diretto interessato. Dalle intercettazioni pubblicate da Il Fatto e riprese da tutti, pare infatti che il Cavaliere non si occupi d'altro che di controllare la televisione e i suoi controllori.

Mentre il Pil crolla e i premi Nobel per l'economia pronosticano la bancarotta dello Stato italiano, il presidente del Consiglio trascorre le serate a "concertare" con il commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi e con altri sottoposti il modo di chiudere Annozero, si sbatte per impedire in futuro l'accesso agli studi Rai a Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro, ordina l'oscuramento perpetuo di Antonio Di Pietro, perde perfino tempo a spiegare a Minzolini che cosa deve dire nell'editoriale del giorno dopo. Tutto purché non passi nel servizio pubblico una mezza informazione sui processi e gli scandali che lo riguardano. Al resto, ci pensano i fidi direttori dei tiggì.

È un concentrato nauseabondo di regime quello che emerge dai dialoghi al telefono. Un padrone ossessivo e dittatoriale che impartisce ordini pazzeschi a un branco di servi contenti. Nel novembre scorso, alla vigilia di una puntata di Santoro dove figura fra gli invitati, Maurizio Belpietro, classico giornalista da riporto, telefona al padrone per informarlo che si parlerà del caso Mills. Berlusconi diventa una furia, chiama il suo uomo all'Autorità delle Comunicazioni, Innocenzi, e gli affida la missione di impedire la messa in onda del programma. Innocenzi chiama il direttore generale della Rai che un po' si lamenta ("nemmeno in Zimbabwe") ma poi illustra allo sprovveduto censore il sistema per bloccare Santoro. In futuro però, perché per impedire la messa in onda la sera stessa bisognerebbe fare un golpe. Ipotesi ancora prematura. Nel frattempo il premier del fare ha già sparso minacce e pressioni per mezza Italia e inviato in missione Letta da Calabrò, presidente dell'Autorità. Un copione simile si rivede ogni volta che Annozero affronta le questioni giudiziarie del premier, per esempio nei giorni della deposizione del pentito Spatuzza. In questo caso scatta anche la rappresaglia sotto forma di editoriale di Minzolini. Quello che teme chi vuole dimezzarne la professionalità. Ponendo un affascinante quesito matematico: si può dimezzare lo zero assoluto?

Ma qui nello Zimba, nemmeno Zimbabwe, si può tutto. Nessuno si scandalizza. Il direttore del Tg1 sostiene che sia normale per un giornalista prendere ordini dal presidente del Consiglio. "Altrimenti che giornalista sarei?". Quando si dice una domanda retorica. I professori di liberalismo invitano, come sempre quando si tratta di persone di rispetto, a non criticare (ovvero: "linciare") nessuno prima che siano provati i reati in maniera definitiva. Quindi, mai. In Italia infatti i processi a potenti da decenni non giungono a sentenza definitiva. In compenso la libera informazione italiana può sempre sfogarsi mettendo alla gogna mediatica qualsiasi anonimo poveraccio incappato in un'indagine su un delitto di periferia, senza suscitare le ire dei garantisti nostrani. Così com'è un costume diffuso in Europa, nel Nord America e finanche in molte democrazie africane e asiatiche, esprimere giudizi etici e politici sui comportamenti delle figure pubbliche addirittura - sebbene alcuni opinionisti indigeni non lo crederanno mai - in assenza di veri e propri reati.

Se dalle intercettazioni e dai comportamenti concreti del commissario Innocenzi e del direttore Minzolini, funzionario e dipendente pubblico, emerge una totale sottomissione a un capo politico, non c'è alcun bisogno di aspettare l'esito dell'inchiesta di Trani per dare un giudizio del loro operato. Almeno se si vuole continuare a fingere di essere un paese normale.

Peraltro, a volte queste cose accadono anche in paesi meno normali. Tanto per rimanere in tema, tre anni fa a Bulawayo l'arcivescovo Pius Ncube, anche in seguito alla protesta dei fedeli, rassegnò le dimissioni per potersi difendere "più liberamente e senza coinvolgere la Chiesa" in un processo per reati sessuali. Bulawayo è nello Zimbabwe.

© Riproduzione riservata (15 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Gli esiliati della tv
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2010, 11:04:45 pm
IL COMMENTO

Gli esiliati della tv

di CURZIO MALTESE

Lo Zimbabwe televisivo nel quale ci ha precipitato l'ossessione del premier ha toccato nella settimana elettorale il massimo di squallore. Alla vigilia del voto, i principali tg pubblici e privati, ormai entrambi di Berlusconi, sembravano cinegiornali dell'Istituto Luce.

La ponderatissima Autorità si è vista costretta a multare per centomila euro il Tg1 e il Tg5 a causa dell'evidente sproporzione di spazi dedicati al partito del premier rispetto all'opposizione. In crisi nei sondaggi, incapace ormai di riempire le piazze reali, Berlusconi ha deciso di occupare per intero la piazza mediatica, con un vero e proprio golpe televisivo. Per arrivare a questo risultato, ha dovuto stravolgere le regole come mai in precedenza, con una complicità strisciante della corte. La par condicio è stata tirata come un elastico fino a esplodere nella censura totale dei programmi scomodi. La natura mollemente governativa del Tg1 è stata geneticamente mutata fino a trasformarlo in una specie di supplemento video dei pieghevoli elettorali. Una vergogna mai toccata in mezzo secolo di Rai. Il principale telegiornale pubblico usato come un manganello contro la metà del Paese che non vota Berlusconi e che pure paga il canone, gli stipendi dei giornalisti galoppini e ora anche le salate multe procurate dalla loro mancanza di dignità professionale. Per tutte queste vicende, del resto, Berlusconi è indagato dalle procure per concussione e minacce.

Il tocco finale di grottesco è arrivato ieri sera con la puntata di Annozero costretta all'esilio sul web e sul satellite. La serata del Paladozza è stata bella e gioiosa, a parte qualche caduta di stile, ma rischia di essere consolatoria. Non basta qualche ora d'aria per evadere da questo carcere televisivo. È meglio non farsi illusioni su un rapido ritorno alla normalità, dopo le elezioni. Sia pure alla strana, anomala normalità del panorama dell'informazione italiana. C'è un disegno disperato ma preciso dietro l'occupazione governativa della piazza mediatica. La solita voglia autoritaria di arrivare allo stato d'eccezione permanente. La tentazione di cambiare il patto fra i cittadini, la Costituzione stessa, a colpi di gazebo e di televisione. L'ultimo, ma minaccioso, colpo di coda di un populismo ormai al capolinea.

© Riproduzione riservata (26 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE "Non cadere nella trappola di Berlusconi"
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:45:37 am
L'ex segretario sostiene che è necessario "ammettere la sconfitta".

"Non cadere nella trappola di Berlusconi"

Rifiuto dei processi: "Vizio nefasto la tendenza Conte Ugolino di distruggere la leadership dopo ogni voto"

Veltroni: "Aggressivo e popolare Così il partito può rinascere"

I temi da cui ripartire all'attacco: fine delle Province, nuova legge elettorale
con collegi uninominali, riduzione dei deputati e dei costi della politica

di CURZIO MALTESE


ROMA - Non è andato poi in Africa, come aveva ventilato. Ma, con un po' di pazienza, l'Africa sta arrivando qui. Partiti tribali, corruzione invincibile, "una generale e pericolosa rassegnazione", dice Walter Veltroni. Anche un certo cannibalismo dentro l'opposizione, al quale l'ex segretario dice di non voler partecipare. "Io i processi non li faccio, perché li ho subiti a suo tempo. Questa tendenza conte Ugolino per cui ogni risultato elettorale serve a distruggere la leadership è un vizio nefasto".

Ma intanto la sua analisi del voto è opposta a quella di Bersani. Quindi una certa tendenza conte Ugolino...
"Io chiedo solo che si guardi in faccia la realtà e si dica la verità. Bersani deve dare atto alle minoranze, a Franceschini anzitutto, di grande lealtà. Quando ero segretario io, e anche Franceschini, uscivano sparate sui giornali alla vigilia di ogni voto. Stavolta c'è stato il massimo d'unità nel Pd, e il massimo di divisioni nel Pdl. Eppure non è bastato. Ora la verità bisogna dirla, bisogna corrispondere allo stato d'animo dei nostri elettori. E la verità è che è andata male".

Avete perso, il Pd ha perso le regionali.
"Siamo fermi al risultato delle europee, il 26 per cento. Ma nel 2009 Berlusconi era in piena luna di miele con l'elettorato, veniva da un anno di successi, aveva tolto i rifiuti da Napoli, inscenato il miracolo del dopo terremoto a L'Aquila. Nell'ultimo anno è successo di tutto, Berlusconi è stato travolto da scandali personali e non solo, la crisi ha massacrato l'economia delle famiglie, il Pdl era lacerato da contrasti terribili. I sondaggi lo davano in forte declino. Lo stesso risultato del Pdl, è deludente. Ma il Pd non ha saputo strappare un voto in più. Perché?"

Già, perché?
"Partiamo dall'astensionismo, che, diversamente dal normale, ha colpito anche l'opposizione. C'è certo una componente di rabbia ma per me prevale la sfiducia, la disillusione. Il Pd deve incarnare un'alternativa credibile nella società. E' ricominciata la litania delle alleanze, viste come la panacea dei tutti i mali. Ma è nella società che si vince o si perde. Bisogna far capire che si costituisce una alternativa di valori e di programmi, non una alleanza dei no. Il riformismo è la più dura delle sfide e contiene una visione, una narrazione della società che deve essere alternativa alla destra. Obama ha saputo imporre la più grande riforma sociale della storia recente americana, sfidando le lobby interne ed esterne, andando avanti anche contro i sondaggi".

Scusi, ma lei il coraggio l'ha avuto? Alla fine non si è arreso alle lobby?
"Io mi sono arreso quando mi sono accorto che era impossibile fare quel partito aperto e animato da una ambizione maggioritaria che avrebbe richiesto, come tutti i progetti innovativi, quel tempo che le correnti non consentivano. In Italia ha vinto l'idea che il riformismo sia una versione moderata del pensiero unico. Col Lingotto noi avevamo provato a dipingere un riformismo vero, radicale, rischioso. Da lì per me bisogna ripartire".

Insomma, una sfida aperta alla destra non c'è stata.
"La destra ha tenuto, anche se Berlusconi un po' meno, perché comunica in ogni caso una visione chiara della società. Una promessa di cambiamento che è soltanto tale, non si realizza mai, ma intanto è suggestiva. Un fastidio per le regole che identifica un pezzo d'Italia, quella che festeggia ogni condono edilizio e ogni scudo fiscale. Noi non possiamo contrapporre a questo la riedizione dell'Unione, magari con l'aggiunta di Grillo. Occorre il disegno di un nuovo ordine sociale che per ora non c'è".

E invece quale dovrebbero essere le parole d'ordine?
"Esistono praterie da percorrere. Dobbiamo dire parole chiare contro la precarizzazione della società e non solo dei giovani. Per la riconversione ecologica dell'economia. Contro l'evasione fiscale. Per la semplificazione della burocrazia e della politica, a cominciare dall'abolizione delle Province. Per la legalità, per la difesa dell'istruzione pubblica, per la liberazione della Rai dai partiti. Questo dobbiamo dire e soltanto dopo vedere se Casini o Di Pietro sono d'accordo o no. C'è una grande domanda di cambiamento, nonostante tutto. Sono d'accordo con Vendola, la società è assai più ricca ed energica di quanto siano oggi le strutture dei partiti".

A proposito, l'unica vittoria vera del centrosinistra, in Puglia, Vendola l'ha ottenuta nonostante il Pd, che gli aveva fatto una lunga guerra ed è ridotto nel voto ai minimi storici.
"Senza Vendola, saremmo sette a sei per la destra, confinati in una enclave. E' stato un grande successo personale. Spero che le strade di tutti noi si incrocino di nuovo. Sarebbe un modo di tornare alla concezione per cui questo partito è nato, quello di ospitare anime diverse dentro lo stesso progetto riformista".ù

La candidatura esterna della Bonino non ha avuto invece successo nel Lazio. Si sente responsabile del disastro fra Roma e Lazio di questi due anni?
"A Roma quando mi sono candidato come premier, il Pd ha raggiunto il 40 per cento dei voti. E venivamo da sette anni meravigliosi nei quali avevamo riconquistato Provincia, Regione e tutti i municipi meno uno. So che lo sport interno è stato in questo anno caricare tutto sulle mie spalle. Le spalle di uno che si è dimesso e dell'unico che non ha alcun incarico. Io prima che si candidasse Emma pensavo che Zingaretti fosse il candidato ideale. Poi si è scelto diversamente. Non sono mai stato neanche consultato. Ho difeso la candidatura della Bonino, ho fatto campagna per lei".

Ma Zingaretti non ha rifiutato lui?
"Bisogna vedere se e come gliel'hanno chiesto. Ma ripeto, lasciamo perdere le recriminazioni. Bisogna guardare avanti".

Avanti ci sono tre anni senza elezioni. E' un problema più per voi o per Berlusconi?
"Paradossalmente per Berlusconi, perché senza elezioni gli toccherebbe governare. E ciò che lo appassiona di più sono le campagne elettorali, nelle quali viviamo da quindici anni. Lo dice chi pensa che l'antiberlusconismo non basta, ma che una opposizione forte e onesta sia uno strumento dell'alternativa. Quindi s'inventerà qualcosa, anzi lo sta già facendo".

Tipo un bel referendum sul presidenzialismo?
"Condito con proposte ragionevoli, ma strumentali. Per esempio la riduzione del numero dei parlamentari e la Camera delle Regioni. Fingerà di volere un dialogo, e poi farà da solo, puntando sul plebiscito popolare. Un trappolone nel quale non bisogna cadere".

E quindi che cosa dovreste fare voi del Pd?
"Partire noi all'attacco, proporre noi le cose ragionevoli. E popolari. Fine delle Province, nuova legge elettorale con collegi uninominali, riduzione dei parlamentari e del costo della politica, comprese le retribuzioni di parlamentari e consiglieri regionali. Più forti poteri al premier per garantire una democrazia che governi. Ma più forti poteri al Parlamento per impedire derive monarchiche".

A dirlo non ci vuole nulla, lo dicono tutti da vent'anni
"Bene, allora impegniamoci a votarlo subito, da domani. Ma il presidenzialismo alla sudamericana, come lo concepisce Berlusconi, quello non si discute neppure".
 

© Riproduzione riservata (01 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: CURZIO MALTESE Quella crepa nel potere assoluto
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2010, 09:15:19 am
IL COMMENTO

Quella crepa nel potere assoluto

di CURZIO MALTESE

NEL PESTAGGIO mediatico organizzato contro Gianfranco Fini il principale argomento degli zelanti cortigiani del Cavaliere è costituito dai rapporti di forza. Berlusconi ha tutto il potere, il governo, i soldi, il consenso. Fini ha soltanto una cinquantina di fedelissimi. Quindi, nella logica servile, il premier ha ragione e lo sfidante torto, l'uno ha già vinto e l'altro è "disperato". Ma i rapporti di forza non sono tutto, nella vita e perfino in politica. La partita è appena cominciata. E Fini può vincerla. Perché ha dalla sua, oltre alla piccola truppa, qualcosa che nella politica italiana s'è ormai perso: un progetto. Un grande progetto. Quello di creare anche in Italia una destra normale, europea, repubblicana, chiamatela come vi pare, ma insomma più simile ai conservatori inglesi o francesi o tedeschi di quanto non sia il partito ad personam escogitato sul predellino da Berlusconi.

È un progetto che ha una sua forza intrinseca, storica, che va oltre i numeri da riunione carbonara. Già oggi Berlusconi sarà costretto ad accettare una prima normalizzazione del Pdl. La costituzione di una componente interna di dissenso. Qualcosa che nelle sue aziende e nei suoi partiti, equivalenti per lui, non pensava di dover mai sopportare. Una minoranza interna con la quale il governo dovrà fare i conti ogni giorno, per mille giorni, da qui alla fine della legislatura. Una faccenda seria sul piano pratico e uno sfregio tremendo, su quello simbolico, al monumento equestre che il Cavaliere pensava di essersi ormai costruito. Si spiega la reazione rabbiosa del premier, la terribile metafora della metastasi. Ma il cancro della seconda repubblica, per rimanere all'ossessione oncologica del premier, avanza per altri motivi. E l'iniziativa di Fini li illustra tutti.

Il Pdl è un partito invecchiato, come il suo leader, e privo di progetti. La politica è delegata alla Lega. Le strombazzate riforme sono una panzana. Berlusconi quasi lo ammette e, dopo la vittoria, è tornato come sempre a occuparsi di giustizia e televisioni. Non esiste nel partitone di maggioranza relativa, sempre più relativa, uno straccio d'idea, a parte Silvio for President. Su tasse, immigrazione, temi etici, tutto il Pdl, da Berlusconi in giù, si limita a far l'eco agli slogan di Bossi. Quasi non avesse più una visione della società e del Paese. Fini invece ne ha una ed è assai diversa da quella della Lega. Se si tratta di discutere a destra di pillola abortiva o di federalismo fiscale, conta per i media l'opinione di un leghista o di un finiano. Il berlusconismo è presente nel dibattito politico soltanto grazie ai famosi rapporti di forza, al dominio del capo sulle televisioni e ogni volta che il premier avanza una proposta di legge sugli affari suoi, in particolare giudiziari. Per il resto, l'afasia è totale.

Questa assenza di politica nel Pdl, cui per fortuna di Berlusconi corrisponde un vuoto parallelo nel Pd, ha prodotto in soli due anni una colossale emorragia di consensi. In parte e in poche regioni del Nord intercettati dalla Lega. Per il resto, si tratta di un enorme mercato di voti in libertà. Il primo partito italiano, con otto milioni di aderenti, è diventato quello dei delusi da Pdl e Pd. Ed è a questo che Fini guarda in prospettiva.

Oggi Fini può accontentarsi di far scendere Berlusconi dal cavallo e costringerlo a trattare come un leader normale, abbandonando per sempre l'idea di coronare la propria resistibile ascesa con il plebiscito presidenziale. Ma in futuro i rapporti di forza possono cambiare.
Il futuro in politica arriva all'improvviso, quando meno te l'aspetti. Fu così quando Berlusconi comparve all'orizzonte della politica e sarà così quando scomparirà.

Visto che almeno al futuro il Cavaliere non ha davvero più nulla da dire.

(22 aprile 2010) © Riproduzione riservata

da repubblica.it



Titolo: CURZIO MALTESE La battaglia al malaffare
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2010, 09:41:49 pm
IL COMMENTO

La battaglia al malaffare

di CURZIO MALTESE


L'arrivo a sorpresa di Roberto Saviano è stato il momento più forte della manifestazione di ieri a piazza Navona contro la legge bavaglio.

Parole semplici, quelle dell'autore di Gomorra, senza slogan, senza retorica, come la parole di tanti giovani della rete che si sono appassionati a questa battaglia civile, di cittadini, non dei giornalisti.

Parole giuste per togliere la maschera di tutela della privacy a una legge semplicemente e indecentemente liberticida. L'unica tutela che si vuole con questa legge è la privacy del malaffare. L'unica divisione che alimenta nel Paese non è fra destra e sinistra, ma fra "le persone perbene e i banditi". Stavolta l'appello populista, il referendum permanente che è lo stilema del berlusconismo, non funzionano, sono sospesi. Non è il popolo, alle prese con ben altri problemi, a volere una legge scudo per i corrotti contro il lavoro di magistrati e giornalisti. Non è il popolo, nemmeno di destra, a non voler più essere informato sulle case di Scajola, le mazzette di Brancher, sui favori di Dell'Utri agli amici degli amici di Dell'Utri, sulle mille altre ruberie di una classe dirigente corrotta che poi chiede sacrifici ai cittadini per uscire dalla crisi. Sono soltanto loro, i signori del malaffare, ad avere bisogno disperato di uno scudo contro la ricerca della verità, tanto da stravolgere l'agenda parlamentare per approvarlo in fretta e furia, meglio se quando i cittadini sono in vacanza.

Così agiscono appunto i ladri. Tanto più che diventa ogni giorno più difficile darla a bere alla famosa gente, nonostante tutte le loro televisioni e le legioni di giornalisti servi e contenti. È difficile convincere le istituzioni, dal Quirinale alla presidenza della Camera, perfino gli stessi parlamentari della maggioranza, dell'assoluta, quasi sacra urgenza di un'altra guerra di casta contro magistrati e giornalisti nell'Italia dilaniata da disoccupazione e sfiducia.

E' una legge anti-italiana. Sono loro gli anti-italiani, ha detto Saviano. Diffamano l'immagine del nostro Paese all'estero, riducendola a quella di una repubblica delle banane. Per due motivi. Entrambi evidenti dalle reazioni di queste settimane. Il primo è che la classe dirigente al potere non si riconosce nel valore comune della Costituzione. Non esiste d'altra parte una democrazia al mondo dove il governo, sia di destra o di sinistra, attacchi un giorno sì e l'altro pure il patto comune. Il berlusconismo si conferma sempre di più nella sua natura eversiva, ormai apertamente anti-costituzionale. Vengono da un'altra storia, parlano un'altra lingua, hanno altri valori. Hanno altri eroi. Un mafioso assassino e trafficante d'eroina, per esempio. Scambiano l'omertà mafiosa per coraggio, così come scambiano la censura per privacy.

L'altro motivo, strettamente collegato, è che abbiamo al potere la classe dirigente più corrotta dell'Occidente e della storia repubblicana. Non sono impressioni o valutazioni politiche. Sono dati. Ai tempi di Tangentopoli si calcolava che gli italiani versassero alla corruzione politica ogni anno il valore di "un'altra finanzaria". Oggi, secondo la Corte dei Conti, la tassa della corruzione è di sessanta miliardi all'anno, il triplo di una finanziaria.
Questi sono i fatti, che nessun bavaglio ci impedirà di continuare a raccontare. La giornata di piazza Navona è stato un passaggio di una battaglia che continuerà nelle piazze, nelle istituzioni, in Parlamento, sui giornali, sulla rete. Finché non saremo tutti rassegnati all'impunità dei banditi, oppure finché la casta non si arrenderà alle regole della democrazia.

(02 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/02/news/battaglia_malaffare-5321538/?ref=HRER1-1


Titolo: CURZIO MALTESE - La catastrofe da evitare
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2010, 02:53:00 pm
L'ANALISI

La catastrofe da evitare

di CURZIO MALTESE

Nella storia d'Italia le pagliacciate tendono a finire in tragedia. Lo scoppio della bolla del berlusconismo era prevedibile e previsto, ma purtroppo non dal soggetto in teoria più interessato: l'opposizione. La rocambolesca eppure annunciata fine della maggioranza ha colto il campo avversario ancora una volta diviso, lacerato fra le solite cento anime, incapace non soltanto di esprimere da subito un'alternativa per il futuro, ma finanche di elaborare una strategia comune per i prossimi mesi.

Di Pietro e Vendola vorrebbero andare alle elezioni subito, Casini chiede da mesi un governo di larghe intese, il Pd invece vorrebbe ma non può. Le elezioni anticipate subito, con questa legge elettorale, sarebbero appunto il modo di trasformare la farsa in catastrofe. Un voto in autunno, inedito per la storia repubblica, avrebbe un solo vincitore, Berlusconi, e un perdente altrettanto sicuro. Non i dirigenti dell'opposizione, che seguiterebbero a campare benissimo, magari felici di uno o due punti percentuali guadagnati. Ma il Paese, consegnato con le mani legate all'attacco feroce della speculazione internazionale, col rischio di finire stavolta davvero come la Grecia. D'altra parte, senza l'appoggio della Lega, è impraticabile oggi la strada di un nuovo ribaltone. Una maggioranza da Di Pietro a Fini, passando per il Pd e Casini, sarebbe debole politicamente e numericamente, destinate a breve e grama vita. E allora?

L'unica strada logica è che l'opposizione, tutta l'opposizione, mettendo da parte gli interessi di bottega, si unisca per garantire una maggioranza con un programma limitato a pochi punti, in modo da evitare nell'immediato il pericolo di bancarotta e preparare la strada a elezioni regolari. O quasi regolari, visto che il controllo delle televisioni rimarrebbe comunque in gran parte in mano a uno dei contendenti.
Per far questo il primo passo è approvare con la nuova maggioranza una legge elettorale decente, al posto dell'attuale "porcata". Le ipotesi sono molte e tutte migliori dell'attuale. Si tratta di restituire agli elettori la possibilità di scegliersi i candidati, com'è ovvio. Ma soprattutto si tratta di scegliere se l'Italia è matura per un bipolarismo autentico o se è meglio tornare al proporzionale. Entrambe  ne sono migliori del ridicolo e ora fallimentare tentativo d'imitazione del bipolarismo che ha dominato la presunta seconda repubblica. Quello che abbiamo avuto in Italia dal '94 a oggi non è bipolarismo. è un referendum periodico su un leader, uno scontro fra berlusconiani e anti berlusconiani. Del bipolarismo come lo conoscono le democrazie occidentali mancano le fondamenta. Per esempio il riconoscersi da parte di entrambi gli schieramenti nei valori costituzionali, in regole condivise. Per esempio la serena autonomia dei poteri di controllo, dall'informazione alla magistratura, che da noi sono o asserviti o minacciati. Un falso bipolarismo come il nostro non poteva che produrre ondate di trasformismo, centinaia di cambi di casacca impensabili nelle altre democrazie occidentali. Non c'è stata una legislatura conclusa dalla stessa maggioranza indicata al principio dagli elettori. Come avrebbe potuto, del resto?

L'unico valore che ha legato finora il centrodestra è l'obbedienza a Berlusconi. Chiunque si allontani dal dogma dell'obbedienza al leader viene per questo espulso dal cerchio magico e diffamato come un criminale. È successo a turno a tutti i principali alleati, nessuno escluso: da Bossi a Follini, da Casini a Fini. Ma se Casini o Fini domani mattina tornassero a inchinarsi, sarebbero riabilitati con tutti gli onori. Vogliamo chiamarla democrazia? Sull'altro fronte le maggioranze hanno retto soltanto sulla base dell'emergenza anti berlusconiana. Non appena questo collante veniva meno in un singolo partito, per ideologia o per convenienza, crollava l'intero castello.

Questa versione miserabile e peronista del bipolarismo è ora al capolinea, come testimoniano le crisi parallele dei due soggetti che lo incarnavano, il Pdl e il Pd. Se si vuole evitare che il collasso di un sistema politico sbagliato coincida con il collasso del Paese, bisogna muoversi ora e subito. Costruire un campo politico che, nella migliore delle ipotesi, ponga le basi per un futuro davvero bipolare e occidentale della politica italiana. Oppure scegliere di tornare al passato, alla prima repubblica che tanto non è mai finita, a non voler essere ipocriti. Magari con il buon senso di imporre un serio sbarramento per scongiurare l'avvento di altri nani e ballerine sulla scena. Il cast è già completo.

(06 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/06/news/maltese-6101201/?ref=HREA-1


Titolo: CURZIO MALTESE Dal dietrofront al mercato dei seggi
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2010, 10:12:49 pm
L'ANALISI

Dal dietrofront al mercato dei seggi

di CURZIO MALTESE


DAL video messaggio di Berlusconi ai suoi venditori o promotori arrivano una notizia buona e una cattiva, ma entrambe grottesche. La buona novella è che il premier ha deciso di rinunciare alla legge sul processo breve. La cattiva è che ha deciso di inaugurare un altro fronte in difesa del porcellum elettorale, a lui gradito proprio per questo.

Gli consente, per esempio, di promettere un seggio sicuro ai traditori di Fini, al di là della volontà degli elettori. Un elogio della porcata. Cominciamo dalla buona notizia. Dopo tre mesi sprecati a far barricate in Parlamento, in piena crisi economica, il premier si arrende e annuncia il ritiro del «processo breve». Una «norma giusta e anzi assolutamente doverosa» ha spiegato «che però la sinistra e i suoi giornali hanno fatto diventare uno scandalo». Com'è noto, il principio di non contraddizione è sospeso nel suo caso da molti anni. La verità è che la legge non sarebbe mai passata.

Grazie non tanto alla timida sinistra e a (pochissimi) giornali, ma alla rivolta morale di larghissima parte dell'opinione pubblica. Una rivolta che ha avuto come riferimento non un partito o uno schieramento, ma la Costituzione stessa e il suo custode, il presidente della Repubblica. È la seconda volta, in pochi mesi, che Berlusconi deve accantonare un progetto eversivo per la spontanea ribellione dell'opinione pubblica. Era già accaduto con la legge sulle intercettazioni.

Ogni volta i berluscones hanno ripetuto come un mantra «non ci faremo condizionare o spaventare dalle piazze». Pare invece che siano le sole in grado di condizionarli spaventarli, assai più della incerta opposizione parlamentare. Naturalmente è presto per cantare vittoria. Berlusconi tornerà alla carica con altri lodi, altre leggi ad personam, altri trucchi scaturiti dal cilindro dell'avvocato Ghedini. Ma almeno è scongiurato il rischio di danneggiare decine di migliaia di cittadini per fornire il salvacondotto a uno. Nella guerra fra guardie e ladri i secondi in Italia sono già abbastanza avvantaggiati, anche senza altri regali e condoni.

L'altra notizia, messaggio, pizzino o come si vuole chiamarlo, è indirizzato dal Cavaliere ai possibili finiani di ritorno o riporto. Se insomma torneranno dal padrone, magari con un bastoncino fra i denti, Berlusconi assicura loro un posto garantito nelle liste elettorali. Questo in virtù della legge elettorale, che Berlusconi stesso, due minuti dopo dipinge come un capolavoro di democrazia. Di fronte a uscite come queste si capisce la crisi della satira in Italia. È comunque un merito, da parte del presidente del consiglio, aver illustrato con chiarezza agli italiani perché la legge elettorale va cambiata subito.

Non solo è una legge fallimentare, che ha prodotto finora una legislatura durata appena venti mesi, un'altra già da rottamare e probabilmente, in caso di voto anticipato, ne sfornerebbe una terza destinata a durare pochi mesi. Non solo perché, come ha scritto Giovanni Sartori sul Corriere, con il 30 per cento dei voti un polo potrebbe comunque ottenere la maggioranza assoluta. Ma infine perché consegna nelle mani di quattro o cinque leader di partito il potere di nominare centinaia di parlamentari, trasformando i rappresentanti del popolo in servi agli ordini di un capo.

(05 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/05/news/mercato_seggi-maltese-6769516/?ref=HREA-1


Titolo: CURZIO MALTESE I guardiani del talk show
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2010, 10:16:43 am
IL COMMENTO

I guardiani del talk show

di CURZIO MALTESE

L'Ufficio Facce, geniale metafora di Beppe Viola ed Enzo Jannacci, dopo quarant'anni diventa realtà in Rai. Nel nuovo codice per i talk show firmato da Mauro Masi, quello del "nemmeno in Zimbabwe", è contemplato anche il controllo della direzione generale sulle espressioni del pubblico in studio.

Una smorfia, un mezzo sorriso di troppo e, oplà, la trasmissione viene chiusa per sempre. Figurarsi con gli applausi o i fischi. L'atteggiamento corretto del pubblico, secondo il codice "da Masi", sarebbe l'imitazione delle sagome di cartone già usate dalla Triestina calcio per colmare i vuoti in tribuna. Muti, sordi, immobili.
Con l'avvento di Annozero, in programma da giovedì prossimo, era scontato che Masi battesse un colpo. Meno scontato era che il direttore generale lo battesse sulla propria testa. Il presunto regolamento sottoposto all'approvazione del cda Rai è più sciocco che vergognoso. In pratica, è la sfrontata e quasi puerile ricerca di un pretesto qualsiasi per chiudere i talk show, quello di Santoro anzitutto, nell'anno del probabile voto anticipato.

Siamo molto oltre lo Zimbabwe, vicino al Minculpop fascista. Nel regolamento redatto in stretto burocratese, sono previste anche altre "correzioni" alla fortunata formula dei talk show, in particolare di Annozero. Per esempio, il solito tentativo di affiancare un opinionista di destra a Marco Travaglio, che nello schema sarebbe troppo di sinistra, probabilmente a sua insaputa. L'ipotesi è agonisticamente
divertente. In fondo non sarebbe male vedere Travaglio, ormai bravissimo in tv, distruggere ogni giovedì sera il Sallusti di turno. Ma soprattutto è interessante il principio. Perché, se si tratta di garantire "in ogni caso il pluralismo nell'informazione Rai", allora si apre subito un altro fronte. A chi tocca il ruolo di controbattere agli editoriali bulgari di Augusto Minzolini?

Come si vede, la mossa del direttore generale telecomandato da Arcore, è tanto arrogante quanto dilettantesca. La pretesa di stabilire un controllo di vertice sull'autonomia delle testate giornalistiche Rai da parte del direttore generale è infondata ai limiti della bizzarria. Sarebbe come se l'amministratore delegato di un gruppo editoriale si arrogasse il diritto di decidere i titoli in prima pagina. Se pure il cda Rai, in una crisi di autostima, decidesse di approvare il codice Masi, non se ne farebbe comunque nulla. I conduttori, Floris e Santoro in testa, potrebbero rifiutarsi di applicarlo, leggi alla mano. Da subito i comitati di redazione delle testate Rai, quasi all'unanimità, hanno bollato le norme come "scelte estemporanee e senza progetto, che avranno effetti devastanti sulla qualità dell'offerta Rai".

Quella di Berlusconi, di cui Masi è soltanto una protesi, è la mossa disperata di un potere alle corde. Un potere ormai in declino nella società e dunque arroccato nella trincea di partenza, nel bunker televisivo. Spiace soltanto che a fare le spese di questa strategia del bunker sia la principale azienda culturale italiana. La Rai sarà l'ultima vittima del berlusconismo. Non si rendono conto, i dirigenti di viale Mazzini, che appena si aprono nuovi spazi d'informazione il popolo del telecomando scappa sul satellite, da Mentana, ovunque si respiri aria di libertà. E invece di contrastare questa fuga, si adoperano per rendere l'immagine della tv di Stato ancora più bolsa, angusta e servile. Se i consiglieri d'amministrazione Rai avessero un minimo di dignità professionale, piuttosto che discutere il codice Masi dovrebbero avere il coraggio di mettere all'ordine del giorno la richiesta di dimissioni di un direttore generale che sta avviando l'azienda di viale Mazzini verso il fallimento. O il patrono della Rai ha da essere sempre don Abbondio?

(16 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/16/news/guardiani_talk_show-7123019/


Titolo: CURZIO MALTESE La voce del padrone
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2010, 06:42:19 pm
IL COMMENTO

di CURZIO MALTESE

UNA premessa. In molte aziende italiane, anche piccole, è ormai una prassi, mutuata dagli americani, quella di sottoporre il personale da assumere a test attitudinali e d'intelligenza.

E ora passiamo alla prima azienda culturale italiana, la Rai, e al suo direttore generale, Mauro Masi.

Dopo aver provato senza successo la chiusura di Annozero, con il maldestro alibi di una sanzione a Michele Santoro, e dopo gli sfortunati tentativi di non far andare in onda Report di domenica scorsa, l'intraprendente massimo dirigente di viale Mazzini è stato colto da un'altra idea geniale: fermare il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Con un altro dei suoi astutissimi e infallibili artifici, il blocco dei contratti degli ospiti. A cominciare dal primo, un nome di scarso richiamo, Roberto Benigni. Pensate l'acutezza dell'uomo. Non potendo cancellare dal palinsesto un programma che si presenta come l'evento dell'anno e un formidabile affare pubblicitario per l'azienda, in tempi di vacche magrissime, il direttore generale agisce indirettamente, boicottando i compensi agli ospiti, giudicati incongrui. Si tratta infatti di un pugno di premi Nobel o alle brutte premi Oscar, più qualche rockettaro come Bono, i quali pretendono di essere pagati come e addirittura più di veline, tronisti, ospiti della casa del Grande Fratello o artisti del circo di Lele Mora. Con questo movente di forte impronta etica, ipotizza il Masi, nessuno sospetterà che lui invece voglia semplicemente censurare i contenuti del programma di Fazio e Saviano. Che vertono su temi quali la mafia, la camorra, la 'ndrangheta, la corruzione, le speculazioni sui terremoti, l'evasione fiscale. Tutti argomenti, al solo nominarli, grondanti un implicito e odioso antiberlusconismo. Purtroppo, caro direttore generale, non sarà facile sviare i sospetti. La gente, si sa, è maliziosa.

Esaurita la riserva di indignazione, si seguono gli esperimenti di censura di Mauro Masi con sincera curiosità. Ce la farà stavolta il nostro di viale Mazzini ad adempiere agli ordini dei suoi superiori? Masi si muove infatti su una linea sottile e sospesa nel vuoto. Dietro lo spinge il padrone, che vorrebbe cancellare i programmi con uno schiocco delle dita, come avrà visto fare dai governi modello dei paesi a lui più cari, dalla Bielorussia alla Libia ad Antigua (lo Zimbabwe ha smentito). Davanti il povero Masi deve affrontare alcuni impacci, dalla Costituzione ai regolamenti interni Rai, dal codice civile alla Corte dei Conti. L'ultima, per esempio, un giorno potrebbe interessarsi dell'operato e della responsabilità personale di un dirigente di un'azienda pubblica la cui mission, come si dice fra manager, sembra essere la guerra agli unici programmi Rai di qualità e di altissima resa economica.

Come un povero Mephisto, il direttore generale finora, cercando di ottenere il male, ha comunque operato per il bene. Nel senso che oltre a non chiudere un bel nulla ha garantito alle trasmissioni messe all'indice un formidabile lancio. Il caso più recente e meritevole ha riguardato la puntata di Report con il servizio sulla villa da Scarface di Berlusconi ad Antigua. Senza l'affannosa richiesta di non mandare in onda nulla, partita dalla corte di Berlusconi, cinque milioni e mezzo d'italiani non avrebbero mai seguito un magnifico programma di autentico giornalismo. Un'oasi di serietà nella melma di dossier confezionati ad arte che si tenta di far passare per informazione. Dopo mesi e mesi trascorsi a discutere di pettegolezzi mai provati sulla casetta di 55 metri quadri a Montecarlo venduta (forse) sottocosto da Fini al cognato (sempre forse), ecco un bel villone da almeno venti milioni comprato sicuramente dal presidente del Consiglio, sicuramente attraverso società off shore, in un paradiso fiscale e con i fondi depositati in una banca svizzera indagata per riciclaggio. Pochi minuti di libero giornalismo sulle reti di Stato sono bastati per riportare l'Italia fra le nazioni normali.

Certo, un paese normale non lo siamo. Il sogno è durato lo spazio di una serata televisiva. Sappiamo tutti che Berlusconi non sarà mai costretto a spiegare in Parlamento o su Internet lo scandalo di Antigua. Così come sappiamo che tutti i telegiornali e i giornali che hanno chiesto per tre mesi a Gianfranco Fini di chiarire il piccolo affare di Montecarlo, nel nome della trasparenza delle istituzioni, non avranno mai il coraggio di rivolgere la stessa richiesta al premier, per una vicenda cento volte più grave. Secondo la natura ipocrita del doppiopesismo, gli scandali di Berlusconi non sono scandali, da chiarire nel merito, ma complotti della Spectre.

Ma forse non siamo (ancora) un paese come la Bielorussia o la Libia. Le censure di Masi-Berlusconi naufragano nel ridicolo e il programma di Saviano, piaccia o no, andrà in onda lo stesso. Poi magari ci penserà il solerte Bruno Vespa a metterlo sotto processo, come ha fatto ieri sera con Annozero, in una grottesca trasmissione alla presenza di Masi e, questa sì, senza contraddittorio. "Fuori luogo", secondo lo stesso presidente Rai, Garimberti. Un po' anche fuori di testa.
 

(19 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/19/news/la_voce_del_padrone-8208412/?ref=HREC1-2


Titolo: CURZIO MALTESE L'occasione della sinistra
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2010, 10:06:04 am

L'ANALISI

L'occasione della sinistra

di CURZIO MALTESE

Le decine di migliaia di votanti che hanno sfidato una giornata d'inferno per scegliere lo sfidante di Letizia Moratti, sono una delle poche buone notizie della vita pubblica in questi mesi. E questo anche se erano di meno rispetto alle primarie precedenti. Sono una buona notizia perché segnalano che la politica non è soltanto trame di palazzo, guerre televisive, macchine del fango e altre porcherie, ma soprattutto libertà e partecipazione, come cantava un grande milanese onorario, Giorgio Gaber. Ma poi perché la partita milanese, da qui alle comunali, è destinata a riscrivere i destini nazionali.
 
Come sempre, viene da dire. Tanto per cominciare, le primarie milanesi sono la prova generale delle primarie nazionali del centrosinistra. Quasi uno scontro per procura fra Bersani e Vendola, che infatti si sono spesi anima e corpo nel sostengo ai rispettivi candidati, Stefano Boeri e Giuliano Pisapia. Vendola è addirittura piombato a Milano alla vigilia del voto per il comizio finale di Pisapia, con mossa tanto teatrale quanto efficace. In una battaglia all'ultimo voto, ha vinto Pisapia.
Ma il Pd non dovrebbe pentirsi di queste primarie, semmai riflettere. A Milano, come in Puglia e a Firenze, le candidature del Pd pagano l'ambiguità delle scelte o delle non scelte, la distanza crescente dei gruppi dirigenti dagli umori dell'elettorato. A parte queste diatribe interne al centrosinistra, le primarie di ieri hanno avuto un sicuro effetto positivo: la prova di vitalità della sinistra milanese che deve uscire dall'angolo e risorgere.

La sinistra si era ritirata da Milano, ovvero dalla trincea più moderna del Paese, negli anni Ottanta, ed è stato un modo rapido per uscire dalla storia italiana. Queste primarie, belle, nervose e vivaci, con candidati di qualità presi dal mondo delle professioni, l'avvocato Giuliano Pisapia, l'architetto Stefano Boeri, il costituzionalista Valerio Onida e il fisico Michele Sacerdoti, hanno restituito al centrosinistra milanese dignità, smalto e appeal persi nel tempo e fra mille errori.

Il candidato espresso dal voto di oggi potrebbe avere per la prima volta da molto tempo una possibilità concreta di battere la destra.
Lo testimoniano anche il nervosismo del sindaco Moratti, le divisioni interne fra Lega e Pdl, la tentazione del terzo polo di candidare l'ex sindaco Albertini. Da feudo del centrodestra, Milano può così tornare ad essere un laboratorio centrale della vita politica italiana.
Un laboratorio che potrebbe decretare fra quattro mesi la fine del berlusconismo, così come ne aveva salutato la nascita. Attraverso il libero voto e non per un'alchimia di palazzo. Da oggi si torna a Milano per capire dove andrà il Paese, com'è stato in tutte le svolte decisive della storia repubblicana, dalla Liberazione al primo centrosinistra, da Tangentopoli all'invasione leghista e alla nascita della seconda repubblica. Era questa la speranza di una Milano democratica che per tanti anni ha assistito allo scempio di cattive amministrazioni populiste e reazionarie senza perdere mai la voglia di combattere. Era la speranza di gente come Riccardo Sarfatti, la personalità che forse si è più spesa per arrivare alle primarie milanesi ed è morto due mesi fa in un incidente stradale, senza poter vedere il risultato dei propri sforzi.

Un grande milanese, Sarfatti, una bella persona.

(15 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/15/news/maltese_milano-9119476/?ref=HRER1-1


Titolo: CURZIO MALTESE Via dal teatrino della televisione
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2010, 09:06:08 am
LA POLEMICA

Via dal teatrino della televisione

di CURZIO MALTESE


"Vieni via con me" era la più bella canzone italiana ed è ora il titolo di una trasmissione piena di difetti, come ha notato la critica laureata. Ma chi se ne frega. È un evento storico, segnala la morte del berlusconismo televisivo.
Il prodromo, l'archetipo, l'ideologia, il fondamento degli ultimi vent'anni di politica. Un programma che batte il Grande Fratello non soltanto con uno strepitoso Benigni, che sarebbe comprensibile, ma con don Gallo e le storie dei rom o della 'ndrangheta dell'hinterland milanese, non è un fenomeno di costume, ma la spia di una svolta della società italiana.

Il teatrino della televisione è l'antefatto del teatrino della politica, bersaglio preferito di Berlusconi. Nel bene o nel male, nel teatrino della politica stanno accadendo cose importanti e nuove, come la crisi finale del berlusconismo. Nel teatrino televisivo è invece tutto immobile da vent'anni, almeno all'apparenza. Il berlusconismo impera, dal Tg1 ai quiz, all'ultimo programma per casalinghe del mattino o del pomeriggio. Tutti i talk show, anche quelli alternativi e "contro", sono monopolizzati da una compagnia di giro formata al massimo da venti persone che campano negli studi congiunti Rai-Mediaset e trasmigrano da un canale all'altro, da Vespa a Santoro a Ballarò, formando un'unica marmellata. Dal punto di vista stilistico, non dei contenuti per carità, questo rende Annozero altrettanto bolsa di Porta a Porta. L'operaio in sciopero, la cittadinanza in rivolta, il disoccupato napoletano sono soltanto la scenografia esterna, le comparse di contorno dell'interminabile, incomprensibile e in definitivo inutile pollaio da studio.

Il primo merito di "Vieni via con me" è di rompere questa rappresentazione. Non c'è teatrino. Si possono vedere e ascoltare davvero personaggi e temi espulsi da anni dalla televisione. Ligabue e i rom, Benigni e la laicità dello Stato, don Gallo e la prostituzione da strada, Paolo Rossi e l'immigrazione. Non a caso, i meno efficaci l'altra sera erano i temutissimi Fini e Bersani. La solita guerra censoria del berlusconismo è stavolta particolarmente grottesca e inefficace perché è chiaro a tutti, anche agli elettori del centrodestra, che "Vieni via con me" a differenza di altri programmi "proibiti" non conduce battaglie politiche, ma sociali. Ed è un'altra ragione per cui rappresenta un'oasi dal teatrino politico-televisivo.

Non saprei neppure dire se è televisione nuova o vecchissima, post berlusconiana o magari pre berlusconiana, con sapori di Rai d'una volta, Barbato e Biagi, TvSette e "Non è mai troppo tardi". È piena di difetti, si diceva. Lenta, a tratti pedante, ossessionata dagli elenchi, politicamente troppo corretta. Roberto Saviano spiega la 'ndrangheta in Lombardia come il maestro Manzi spiegava la grammatica, in maniera quasi ingenua, che può far ridere i giornalisti che si occupano di questi argomenti da decenni. Ma siccome Saviano porta queste conoscenze da specialisti a nove milioni d'italiani, come con Gomorra a decine di milioni di lettori, siamo noi a far ridere. L'unica cosa che si può fare con Saviano è di ringraziarlo, volergli bene e proteggerlo con la popolarità dalla ferocia dei suoi nemici. Quelli con i kalashnikov e gli altri in doppiopetto.

Roberto Maroni è un buon ministro degli interni, seriamente impegnato nella lotta alle mafie. Ma quando per amore di bandiera nega il dato storico dello sviluppo della 'ndrangheta anche nella Lombardia leghista e rifiuta anche soltanto di discuterne, non diciamo d'indagare, si comporta da politicante da quattro soldi.
Il successo di "Vieni via con me" va comunque oltre queste polemiche e i tentativi di censura. È l'epifania di un cambiamento negli umori del Paese. Con una tv di servizio pubblico da anni Settanta, il programma d'arte varia di Fazio e Saviano ha intercettato paradossalmente un bisogno di nuovi codici e linguaggi; ha ricondotto alla platea Rai un pubblico giovane e colto che da tempo aveva abbandonato disgustato le reti pubbliche per fuggire ovunque, da Mentana a Sky. È stata una piccola, imprevedibile rivoluzione televisiva. Dopo tanti anni, certo. Ma non è mai troppo tardi.

(17 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/17/news/maltese_saviano-9190847/


Titolo: CURZIO MALTESE Fazio: "Italiani vogliono nuova tv, la Rai no"
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 11:59:14 am
IL CASO

Fazio: "Italiani vogliono nuova tv, la Rai no"

Oggi l'ultimo atto di "Vieni via con me"

di CURZIO MALTESE

 
L'ELENCO. Dieci milioni di spettatori, oltre il trenta per cento di share, cifre superiori al Grande Fratello per un programma fieramente antitelevisivo. I politici usati dalla tv e non viceversa. Un fronte di critiche trasversali, da Grillo a Libero, e un altrettanto trasversale successo di pubblico. La signora Welby che fa più ascolti del festival di Sanremo, gli sfollati dai campi rom più dell'Isola dei Famosi. Nel nome della più bella canzone di Paolo Conte si è compiuta una rivoluzione nel costume televisivo.

Fabio Fazio, allora un'altra tv è possibile e quindi un'altra Italia?
"Con la volontà rispondo sì, con la ragione no. Diciamo che un'altra tv è desiderata da milioni d'italiani. Ma la reazione dell'establishment politico-televisivo è stata tale da farmi pensare che sia troppo presto. La Rai non sopporta che la tv pubblica diventi strumento di un vero dibattito sociale, culturale. L'hanno permesso perché non se n'erano accorti, non se l'aspettavano. E nemmeno noi. Ma la prossima volta sarà impossibile".

Karl Kraus diceva: la satira che il potere riesce a capire, viene giustamente censurata. Vale anche per "Vieni via con me". Al principio erano soltanto preoccupati che parlaste di Berlusconi, e invece...
"Non l'abbiamo quasi mai nominato, tolta la prima puntata. Siamo il primo programma già nel dopo Berlusconi".

Nonostante questo, vi sono saltati addosso tutti. Perché?
"Abbiamo fatto una tv riformista e non c'è cosa che spaventi più del riformismo. La rissa a somma zero di altri talk show in fondo è del tutto innocua".

Era un programma non ideologico, Saviano e lei non lo siete, gli ospiti hanno raccontato storie. La signora Welby e il signor Englaro hanno raccontato tragedie di famiglia. Come si spiega che il cda Rai abbia chiesto di far replicare a un'esperienza di vita con un comizio ideologico di un movimento integralista cattolico?
"Accettare quella replica dei Pro Vita avrebbe significato ammettere che Mina Welby e Beppe Englaro avevano parlato in favore della morte. Non esiste direttiva Rai che possa impormi un'assurdità del genere".

Più che un programma, siete stati il fenomeno sociale di queste settimane, insieme alla lotta universitaria. Anche la vostra era una specie di "occupazione"?
"Il parallelo mi piace e mi è piaciuto che gli studenti abbiano adottato nelle lotte lo strumento dell'elenco. Sono segnali che sta accadendo qualcosa di profondo nella società italiana, che parte dai due luoghi principali di formazione dell'opinione pubblica, la scuola e la televisione. E riguarda i valori, l'identità".

Se dovesse citare due valori di questo cambiamento?
"Legalità e laicità. Sono le basi di partenza di ogni patto civile, i materiali con i quali si costruisce una comunità. In questi anni sono stati attaccati e derisi, hanno trasformato l'uno in giustizialismo e l'altro in laicismo. Eppure nell'opinione pubblica sono valori più importanti di quanto si pensi. Saviano è amato perché incarna il bisogno di legalità di un pezzo di Paese disgustato dalla corruzione, dal malaffare, dalla rassegnazione a convivere con le mafie".

Come si spiega che decine d'inchieste sulla 'ndrangheta al Nord non siano riuscite a smuovere un decimo di un racconto di Roberto Saviano?
"La narrazione è più libera dell'inchiesta. Roberto ha questo dono del divulgatore e poi è un trentenne, appartiene a un generazione non ideologica. Poi certo il programma ha avuto un effetto Sanremo. Dopo quegli ascolti, tutti dovevano intervenire. Ma se questo ha finalmente portato la discussione politica su temi concreti, come la 'ndrangheta in Lombardia, i diritti civili, l'integrazione degli immigrati, beh, vivaddio".

Avete intercettato il bisogno di una lingua diversa in tv. Niente talk show, niente conduttore domatore, tempi lenti, argomenti difficili. Chi si aspettava questo seguito?
"Siamo partiti per fare il 12 per cento. Il 15 sarebbe già stato un successo. È arrivato il 30. Perché non lo capisco neppure io. Dai dati ho capito soltanto che una grande fetta di pubblico è in realtà un non pubblico, gente che non accendeva mai il televisore. In termini politici abbiamo recuperato l'astensionismo di massa. Che evidentemente non era indifferenza, ma ribellione alla tv del pollaio, al finto dibattito dove uno dice una cosa, l'altro lo interrompe con il contrario e alla fine non s'è capito nulla, non è successo nulla. Con gli autori abbiamo pensato a una cerimonia. Una cosa certo poco televisiva, semmai teatrale. Fondata sul valore della parola nuda. Un format post o pre berlusconiano, và a sapere. L'unico precedente linguistico era Celentano, i suoi silenzi, la rottura del rito attraverso un altro rito".

Lei quando si è emozionato di più?
"Quando Gemmi Sufali ha letto le ragioni per cui le piace essere italiana. Era una delle bambine sbarcate a Bari dall'Albania con la nave Vlora nel '91. Vent'anni dopo quell'inferno c'è questa ragazza intelligente, carina, entusiasta di un Paese meraviglioso, il suo e nostro".

Elenco. Vuole ringraziare qualcuno?
"Roberto Saviano, gli autori, Benigni che ci ha permesso di rompere il ghiaccio alla grande. Il pubblico, naturalmente. Quelli che mi hanno insegnato il mestiere, da Guglielmi a Biagi a tanti altri".

Vuole ringraziare anche qualcuno che non dovrebbe?
"Ma certo. Il dottor Masi, che ha commentato: gli ascolti non sono tutto. L'editore che di sicuro da domani mi chiederà di mettere a frutto il successo per nuovi programmi. Buona, vero?".

Avete fatto saltare il banco, e ora? Che cosa farà dopo un'avventura come questa?
"Una lunga vacanza. Un viaggio. No, un programma comico". 

(29 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/29/news/fazio_italiani_vogliono_nuova_tv_la_rai_no_oggi_l_ultimo_atto_di_vieni_via_con_me-9629281/?ref=HRER2-1


Titolo: CURZIO MALTESE Il Balzac del cinema
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2010, 05:34:36 pm
IL RITRATTO

Il Balzac del cinema

di CURZIO MALTESE


"Se dovessi essere costretto a una vita che non è vita, la farei finita anch'io". Mario Monicelli me lo disse anni fa, a casa sua nel rione Monti. Erano i giorni del caso Welby. Sembrava più una presa di posizione intellettuale di un grande laico che non una confessione personale. A novant'anni era ancora bellissimo, elegante, ironico, sempre dentro qualche battaglia. L'altro giorno era ancora in piazza a protestare contro i tagli alla cultura. Questa notte ha deciso lui dove mettere la parola fine. Con Monicelli se ne va un genio e un maestro del cinema, anche se entrambe le definizioni l'avrebbero fatto sorridere.

"Appartengo ancora a una generazione dove si diventava registi di cinema soltanto perché non si era capaci di scrivere un bel romanzo. Potendo scegliere, avrei continuato a cercare d'imitare Dostoevskji". Si è ucciso come il padre Tomaso, giornalista di gran talento. Da giornalista aveva cominciato anche Mino e diceva di non aver mai smesso. Sempre curioso, polemico, informatissimo, divoratore di notizie grandi e piccole.

Nessuno come Monicelli ha indagato tanto e descritto meglio gli italiani dal dopoguerra a oggi. E' stato il nostro Balzac, l'autore di una gigantesca commedia umana degli italiani, attraverso decine di film, spesso capolavori. Titoli e storie che conoscono tutti, entrati nel linguaggio comune per descrivere l'oroscopo dei caratteri nazionali. L'elenco mette i brividi, dagli inizi col Totò di "Guardie e Ladri" a "I soliti ignoti", da "La grande guerra" a "I Compagni", e poi "L'Armata Brancaleone", "Amici miei", "I nuovi mostri", "Il marchese del Grillo", "Speriamo che sia femmina". Senza contare i film definiti minori dalla critica, come "Risate di gioia" o "Romanzo popolare", che da soli valgono più di alcune decine di presunti capolavori da festival.

Monicelli ha inventato la commedia all'italiana nel '58 con "I soliti ignoti" e ne ha dichiarato la fine vent'anni dopo con "Il borghese piccolo piccolo". In mezzo ha fabbricata l'unica epica di cui disponiamo, tragicomica, amorale, ma grande. Da parte sua, era quanto di più lontano dai suoi personaggi si potesse immaginare. Anti retorico, moralista, sempre a schiena dritta, con un profondo credo nei suoi valori laici, socialisti, libertari, antropologicamente antifascista. E' paradossale che un anti italiano tanto fieramente minoritario abbia ottenuto un tale immenso successo. Frutto, secondo Monicelli, anche di un significativo fraintendimento. "Ho quasi sempre descritto personaggi mostruosi. All'estero si stupiscono che gli italiani li trovino tanto simpatici".

Non credeva nella religione. Diceva che gli sarebbe piaciuto credere negli dei greci perché erano tanti, cialtroni ma allegri, mentre "il dio della Bibbia è in assoluto uno dei personaggi più cupi della letteratura mondiale". Sul set dell'ultimo film, "Le rose del deserto", girato a novant'anni, in condizioni ambientali eroiche anche per un trentenne, confessò di non avere paura della morte, ma del giorno in cui avrebbe smesso di lavorare. Come sempre, era la verità.

(30 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/11/30/news/balzac_cinema-9670361/?ref=HRER3-1


Titolo: CURZIO MALTESE Conversazione con Mario Monicelli
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2010, 12:13:56 pm
Addio a Mario Monicelli

De te fabula narratur.

Conversazione con Mario Monicelli di Curzio Maltese


Mezzo secolo di storia ‘italiota’ tra generosità collettiva e ‘soliti mostri’

L’Italia della ricostruzione e quella del boom, l’Italia dei perdenti e quella dei furbi, l’Italia solidale e quella che non si vergogna, l’Italia mostruosa, brancaleona, solita nota: un dialogo con il regista che ha scritto la storia della commedia all’italiana (e del cinema tout court).

Conversazione con Mario Monicelli di Curzio Maltese, da MicroMega 7/2006


Curzio Maltese: Girare un film a novant’anni [Le rose del deserto] è un’impresa eroica. Dev’esserci stata una spinta, un’urgenza nel recuperare un pezzo della nostra storia. Perché ti è venuta voglia di raccontare la guerra degli italiani in Libia del ’40-’43?
Mario Monicelli: Gli italiani andavano a piedi, non avevano carri armati, non avevano cibo, non avevano niente. Si dibattevano in mezzo alla sabbia e alle dune. Correvano avanti e indietro. La guerra era un continuo correre disperatamente in mezzo alla sabbia del deserto, come quei poveracci che stavano in Russia e che, anche loro, correvano avanti e indietro in mezzo alle paludi. Questa era la guerra per gli italiani. Io poi la guerra l’ho fatta e so com’erano le cose. Sono stato mobilitato nel ’40. Avevo 24 anni. Mi hanno mandato in Albania. La situazione era esattamente come quella del 1915-’18. Benché quella fosse una guerra di posizione in trincea, comunque stavi sempre nel freddo, nel caldo, non vestito, non armato, affamato. Eravamo senza una guida, in balia di rapporti politici trasversali, di sopraffazioni e conflitti fra i vari generali e i vari politici. La vita di ciascuno di noi era in mano a questi personaggi.
Maltese: È la tragedia finale del regime, prima del grande risveglio del dopoguerra, nel quale il cinema ha un ruolo centrale, unico. Voi protagonisti ne eravate consapevoli?
Monicelli: Per nulla. È tutto sorprendente. L’Italia che aveva perso la guerra malamente è diventata all’improvviso la nazione principe del cinema, grazie al neorealismo che ha rovesciato la struttura e il linguaggio del cinema. Negli anni Trenta non si immaginava che il cinema fosse importante. Per fortuna, erano importanti la letteratura, la musica, la pittura. Il cinema era considerato un fenomeno popolare da baraccone. Ma nel dopoguerra, improvvisamente, il cinema fu considerato quasi come fosse l’unica fonte della cultura. Oggi tutti i ragazzi vogliono occuparsi solo di cinema. Credono di potersi divertire dedicandosi ad un’attività che non richiede molto studio e fatica. Ormai la cultura è identificata con il cinema. E questo è vergognoso.
Maltese: Una volta hai detto che il cinema lo facevano quelli che non riuscivano a diventare romanzieri...
Monicelli: Perché io volevo essere un romanziere. Mi piaceva Flaubert, avrei voluto srivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del ’15, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì.
Maltese: Anche Fellini, quando gli chiedevano dei film che l’avevano più influenzato, citava Maciste. Nei fatti però il cinema diventa l’arte dominante e l’Italia gioca una parte straordinaria. A mettere in fila i titoli del cinema italiano dal ’46 alla fine degli anni Sessanta c’è da perdere la testa. Ogni anno una raffica di capolavori. Ci sono stati film, e tra questi i tuoi, che hanno addirittura inventato dei generi che prima non esistevano, e che poi sono stati copiati in tutto il mondo. Da I soliti ignoti all’Armata Brancaleone, chi aveva mai pensato di costruire un film su una banda di disgraziati in cerca di fortuna? Il road movie passa per un genere americano ma nasce da Il sorpasso di Dino Risi. I vitelloni di Fellini viene rifatto ogni dieci anni in Italia, da Moretti a Muccino, e non solo da noi. La dolce vita inaugura un genere di film senza plot, apre la strada a tutti gli Altman che verranno dopo. Come si spiega questa stagione di creatività e coraggio in un paese in genere tradizionalista, al traino di mode e culture straniere?
Monicelli: Tutto nasce dal neorealismo. È una rivoluzione culturale vera. Con il neorealismo l’Italia si è trasformata nel paese faro della cultura, una specie di terra promessa. Pensa a Rossellini che va negli Stati Uniti e ne ritorna portandosi via la loro stella, Ingrid Bergman. Noi che lavoravamo nel cinema eravamo esaltati dal successo che aveva l’Italia. Eravamo un gruppo di trenta o forse quaranta fra autori, sceneggiatori e qualche attore. L’importanza che si dava al nostro cinema ci stupiva, ma eravamo anche divertiti, lusingati e ben contenti di questo fatto.
Maltese: A parte il cinema, quello è stato un periodo straordinario anche nella pittura, nell’architettura, nel design. L’Italia si traforma da nazione museo, custode di bellezza antica, a fabbrica di bellezza contemporanea.
Monicelli: Quello è stato anche al di fuori dell’arte un periodo fecondo. Però è durato appena cinque o sei anni. Credo sia stato il momento più straordinario della nostra storia recente. E vorrei aggiungere che è anche stato il momento più onesto che abbia vissuto l’Italia. Tutti erano felici di dover ricostruire, e di dover lavorare per questo. Si viveva male o modestamente, ma prevaleva l’allegria e la volontà di fare. La gran parte degli italiani abitavano in due o tre in modeste camere ammobiliate, cercando di arrangiarsi. Ma c’era un sentire collettivo: l’Italia si stava ricostruendo. Poi, non so come, questo spirito si è perso. Forse si è perso con l’industrializzazione, con il boom, quando è cominciata la maledizione della Fiat. Quella di allora era un’Italia rurale, fatta per un 70 per cento di contadini e per un 25 per cento di muratori. L’emigrazione in Piemonte e in Lombardia è stata una grande iattura. Sono comparsi i cartelli con sopra scritto: «Vietato affittare ai cani e ai terroni». Insomma, da quei quattro o cinque anni meravigliosi è scaturita di nuovo un’Italia di perdenti.
Maltese: Sì, ma perdenti non poetici, cattivi, furbi. La tua equazione fra furbi e perdenti è illuminante. Negli anni del boom l’italiano è un eroe del fare, l’italiano furbo verrà inventato più tardi. Sono i truffatori di Il bidone di Fellini, il Gassman del Sorpasso che è un perdente mascherato da vincitore. Proprio nel Sorpasso si racconta la perdita dell’innocenza, la morte di Trintignant è la fine di una certa Italia onesta, perfino ingenua. Rimane soltanto il furbastro, che poi diventerà il protagonista di tutta la commedia all’italiana.
Monicelli: Da un certo punto in poi ha avuto inizio la corruzione, la prevaricazione. Si è cominciato a barare su tutto. Abbiamo visto anche recentemente che cosa è successo nel calcio. Si trattano da eroi dei bari. Per paradosso, ad esaltarli sono quegli stessi tifosi che rinunciavano al pacchetto di sigarette per andare alla partita o per giocare al Totocalcio, mentre i loro eroi si giocavano le partite alterandole. Il furbo italiano è contento di essere un truffatore e si vanta di esserlo. In qualche modo riesce ad essere anche una figura simpatica, come può però essere simpatico Sordi. Ma accade soltanto in Italia, attenzione. L’italiano di Sordi ha un fondo repellente. Fa ridere rappresentando un italiano repellente. Non a caso all’estero non riescono a capire come Sordi possa essere un attore a cui gli italiani danno tanta importanza. A loro non fa ridere. Fa orrore.
Maltese: Sordi si è rivelato fino in fondo in Un borghese piccolo piccolo, o anche in Il Marchese del Grillo, ovvero in personaggi orrendi, autentici mostri. Ma anche quello di Il vedovo, che dice al fattore: «Mi raccomando, fammeli lavorà ’sti bambini», come fa a essere simpatico?
Monicelli: Perché nel fondo l’italiano è un mostro. È un furbetto che può anche uccidere se qualcuno in un certo momento gli dà uno spintone.
Maltese: Dietro l’apparente bonarietà c’è la crudeltà. Vorrei tornare all’Italia onesta del dopoguerra, più felice e capace di progredire.
Monicelli: Quell’Italia era collaboratrice, solidale, sopravvissuta a una guerra persa, che era stata atroce e sbagliata. Gli italiani non sapevano in quale misura erano stati oppressi dal fascismo. Applaudivano se dovevano applaudire. Da quelle macerie è nata però la libertà, che gli italiani non conoscevano. La libertà all’inizio li ha resi euforici, li ha resi allegri e felici di essere vivi. Tutti eravamo contenti di appartenere alla gioventù che si era liberata dal fascismo e dalla guerra.
Maltese: Come hai vissuto il periodo delle inchieste di Tangentopoli? Te lo chiedo perché sei stato uno di quelli che avevano raccontato nei film la corruzione prima ancora che la rivelassero le inchieste dei giudici.
Monicelli: In molti abbiamo raccontato quell’Italia prima che emergesse dalle inchieste giudiziarie: l’ha raccontata Germi e l’hanno raccontata tanti altri. In quel periodo ero contentissimo. Del resto, ero e resto un fan del magistrato Borrelli. Anzi, vorrei che ce ne fossero cinquanta, di Borrelli. Speravo che Mani Pulite non finisse mai, che dilagasse e che alla fine si compisse veramente una pulizia spettacolare. E invece c’è stato quello che c’è stato.
Maltese: C’è un tratto che, secondo me, rivela una difficoltà del cinema italiano contemporaneo. Gli italiani furbi dei film di allora erano più brillanti degli italiani furbi di oggi, che sono molto banali. In questo scarto c’è il passaggio dalla commedia all’italiana ai Vanzina – con tutta la simpatia per i Vanzina. Immagino che tu legga le intercettazioni. Avrai visto che parlano tutti con la stessa lingua, che sembra la lingua di Boldi e di De Sica. Parlano tutti in modo volgarissimo, sia che si tratti del mancato re o di Ricucci. È il quadro di una piccola borghesia televisiva, piccola in senso culturale più che economico, totalmente omologata e quindi anche poco interessante da raccontare. Non è un caso che le nuove commedie italiane siano incomprensibili oltre confine.
Monicelli: Esibiscono una lingua volgare perché è il loro segno distintivo, che li rende tutti uguali e tutti colpevoli. È l’esibizione di un’appartenenza. Fa parte di quello stesso fondo morale che esibiva Craxi, quando diceva che rubavano tutti. Coinvolgere tutti è la cosa più bassa e più volgare, e anche più corrotta, che si dia.
Maltese: Una figura costante dei tuoi film è l’italiota. Ora, secondo me, Luciano Moggi è un italiota fantastico, una fotografia impeccabile di questo tipo umano. Poteva essere il personaggio di una tua sceneggiatura. Tutti sapevano, tra l’altro, che faceva quel mestiere non capendo granché di calcio.
Monicelli: Tutti erano d’accordo e speravano di entrare in quel pus, anche gli «eroi» di Berlino. Il problema è che questo pus esiste dappertutto. L’indignazione che abbiamo per il calcio, che in fondo è un settore poco importante, dovremmo averla nei riguardi di molte cose. Ti faccio un esempio personale. Io voto Rifondazione comunista. Ebbene, ti fanno credere che le cose si svolgono in una certa maniera; tu vai, segui, speri, e ti dici: va bene, aiutiamo, votiamo, applaudiamo, parliamo, sentiamo, testimoniamo. Ma poi Rifondazione comunista non rifonda un bel niente. Anche Rifondazione è un partito che vuole prevaricare sugli altri. Io però non faccio il politico; e forse per me è facile indignarsi.
Maltese: Sostanzialmente il mestiere del politico dovrebbe essere quello di migliorare la vita delle persone. Tra l’altro, è un potere euforizzante, perché può migliorare veramente la vita delle persone normali.
Monicelli: Che sono le persone oneste. E tuttavia bisogna stare attenti: anche queste stesse persone oneste sono potenzialmente corrotte. Basta che si presenti loro l’occasione di usare dei mezzi disonesti per migliorare la propria condizione, qualunque essa sia, dalla più miserabile alla più alta, e pochissimi si tireranno indietro. Questa è la verità. Io ho pietà di questi personaggi, mi fanno ridere. In I soliti ignoti, in Brancaleone trovi tutte storie nelle quali il miglioramento passa attraverso mezzi anomali. Brancaleone vuole addirittura conquistare un feudo! Ciò che accomuna tutti questi personaggi è che l’unica via che vedono è la prevaricazione, l’inganno, l’espediente.
Maltese: S’insiste molto oggi sulla retorica della patria. A me dà molto fastidio. Come dici mezza parola di critica, sei anti-italiano. Ma la categoria degli anti-italiani è una categoria meravigliosa: da Dante Alighieri in poi comprende tutti: Leopardi, Manzoni, d’Azeglio... La nostra grande letteratura fino a Flaiano e a Pasolini è costituita da anti-italiani. In realtà, l’anti-italiano dimostra un vero amore per il paese, un amore sofferto e critico. Ci sono degli anti-italiani nel cinema? Io non ne vedo.
Monicelli: I Visconti, i De Sica erano talmente vincenti nel mondo che potevano permettersi di essere contro in Italia, di non piegarsi. Nel cinema italiano c’è stato un momento felicissimo quando i vari Germi, Antonioni e non solo loro erano sulla cresta dell’onda. Questi autori potevano anche ergersi a difensori dell’onestà. La loro libertà era possibile però solo perché erano estremamente vincenti, avevano un loro seguito di pubblico. Se questa condizione manca, subito nasce la necessità di concertare.
Maltese: Mentre prima c’era un’egemonia culturale del Partito comunista sul cinema, che però, a ben vedere, era più un’egemonia dei cineasti sul Partito comunista, oggi la situazione è del tutto cambiata. Oggi il rapporto è da raccomandato a padrone, mentre allora il rapporto era di influenza. Mi viene in mente il tuo film I compagni. Quello è un film che rappresenta una sinistra italiana che in realtà non c’era più.
Monicelli: Io mi riferivo a Costa, a Treves, che non erano comunisti, ma socialisti. Io sono stato socialista, poi con Craxi, naturalmente, me ne sono andato. Ma alla fine dell’Ottocento l’Italia aveva dei socialisti seri, che erano espressione di un’Italia generosa. Sono loro che hanno introdotto gli scioperi. Questi socialisti erano spesso dei borghesi o anche dei piccolo-borghesi. Si sono sforzati di mettere insieme i proletari e i contadini, che allora erano degli sbandati, per far loro acquisire una coesione di gruppo, e renderli solidali tra loro. Volevano riscattare in qualche maniera la condizione in cui versavano, facendo loro capire che insieme avrebbero potuto ottenere dei risultati. Avevano le idee chiare e una morale solida: e se uno ha le idee chiare e una morale solida non può sbagliare.
Maltese: C’era allora la spinta a rendersi portatori dell’interesse di tutti e non solo del proprio esclusivo interesse. È il caso di uno spirito inedito per la storia politica italiana, che è per lo più dominata da un’attenzione al «particolare». La classe operaia aveva la generosità di pensare non solo alle proprie rivendicazioni, ma al miglioramento generale. Poi però la politica italiana è tornata a esprimere una rassegnazione al sistema generale. Rispetto al paradigma italiano, come collochi tu una figura come quella di Berlinguer?
Monicelli: Berlinguer era, per così dire, un folle: ha creduto che si potesse invitare gli italiani ad essere onesti, a risparmiare, a non volere troppo, a pagare le tasse. E meno male che è morto, sennò l’avrebbero ammazzato! I suoi militanti, i suoi compagni, dicevano che sbagliava tutto perché quelle cose, secondo loro, non si potevano dire agli italiani, per giunta proprio nel momento in cui il Partito comunista poteva vincere la battaglia elettorale contro la Democrazia cristiana. Berlinguer era un personaggio politico anomalo.
Maltese: Come spieghi il fatto che i tuoi film sono popolari?
Monicelli: Sono popolari, secondo me, perché raccontano la condizione umana dei perdenti. E l’Italia è fatta di perdenti. E allora, se uno racconta questi perdenti con un certo affetto, il risultato piace, diverte. Io poi cerco di far divertire. Nei miei film c’è sempre un gruppo di persone che cercano di migliorare la loro condizione: un gruppo di povera gente, siano essi contadini, proletari, donne o disperati dell’anno Mille. I miei personaggi vogliono migliorare la loro condizione cercando di sfondare una cassaforte o di conquistare un feudo o di lavorare un’ora di meno, come in I compagni. E in questo falliscono sistematicamente, perché sono inadeguati all’impresa. L’inadeguatezza diverte, però fa anche pena e induce alla pietà. La condizione umana degli italiani è solo quella di essere dei perdenti. Cercano di migliorare la loro condizione perché questa è, per la stragrande maggioranza, una condizione di povertà.
Maltese: Gli italiani hanno anche la capacità di dividersi sempre. C’è una battuta di Brancaleone che, secondo me, raccoglie tutta la storia italiana: «Andate pur’anco voi senza meta, ma da un’altra parte». Ecco: questa è la realtà dell’alleanza elettorale, dell’Ulivo e non di meno della destra: tutto è un andare senza meta, ma ciascuno da un’altra parte.
Monicelli: Ognuno si crea il suo feudo, il suo partito...
Maltese: I film italiani che hanno avuto più successo, che hanno vinto degli Oscar, parlano di italiani che in realtà non esistono più. Tornatore, Salvatores, Benigni, tutti rappresentano gli italiani del dopoguerra o di prima della guerra. Sembra che gli italiani contemporanei non siano interessanti.
Monicelli: Sarebbero anche interessanti, sono infatti degli italiani mostruosi. Il problema però è che se uno mette in scena Berlusconi, Bondi, Cicchitto, Adornato, Fini, arriva sempre in ritardo. Quando esce il film, la realtà ha superato la parodia. La realtà oggi supera la satira. L’indignazione che vuoi produrre non basta mai. Arranchiamo dietro i fatti. Una volta non era così, gli italiani erano più stabili. Oggi il cinema non riesce a star dietro alla cronaca.
Maltese: Però voi avete fatto una cronaca profonda. Io faccio il giornalista ma ho capito meglio la realtà andando a vedere un film che attraverso un’inchiesta. La commedia italiana ha raccontato la corruzione di Tangentopoli molto prima che il sistema fosse scoperchiato dai magistrati. Non dico che gli autori di cinema debbano fare i profeti, però l’intuizione di un artista è più profonda di quella di un giornalista. È un’intuizione che percepisce non solo che le cose accadono, ma anche dove vanno a finire.
Monicelli: E che cosa può accadere adesso di peggio di quello che è già accaduto? Non so veramente cosa possiamo immaginare io e i miei amici sceneggiatori. Tu che fai il giornalista, cosa puoi immaginare di peggio di quello che sta accadendo o che è accaduto fino a poco tempo fa, facendo finta che oggi non accada più?
Maltese: Che effetto ti ha fatto avere come presidente del Consiglio un personaggio dei tuoi film? Anche se forse un po’ iperbolico, Berlusconi, in fondo, è un personaggio di alcuni tuoi film.
Monicelli: Il cinema italiano ha sempre fatto delle metafore, anticipando forse delle cose, ma non ha mai rappresentato dei personaggi reali, pensando che fossero anche vedibili e divertenti. Da chi lo fai interpretare Berlusconi? Il cinema italiano non ha mai rappresentato le cose per cronaca, bensì per metafora: Sordi si vendeva un occhio per sopravvivere. Queste sono le mostruosità di questo paese.
Maltese: In realtà Sordi si vende l’occhio come Berlusconi fonda il partito. È una scelta disperata. Solo che più tardi è diventato possibile fondare un partito.
Monicelli: È la legge del mercato. La cosa più micidiale che esita.
Maltese: Che cosa è veramente cambiato nella vita e nella testa degli italiani? Alcune cose sono rimaste, altre si sono trasformate. Forse i rapporti con le donne sono cambiati rispetto a prima. Ma c’è una specie di antropologia eterna che tra l’altro riproduce una specie di fascismo permanente. E poi c’è qualcosa che invece si muove, che muta. In che cosa, secondo te, gli italiani sono profondamente diversi da quelli raccontati nella commedia all’italiana?
Monicelli: Credo che oggi manchi la pietà che c’era un tempo. Una volta, c’era pietà tra gli italiani, c’era solidarietà verso chi aveva bisogno. Lo si faceva senza spendersi troppo, intendiamoci, però c’era un momento di solidarietà. Comunque, la pietà era parte della nostra educazione. Adesso credo proprio che la pietà sia sparita. Sembra una stupidaggine, ma una volta le armi non si maneggiavano; chi maneggiava le armi era già considerato una persona poco raccomandabile. Adesso non è più così. Il fatto che uno maneggi delle armi va bene a tutti. Una volta uno che usciva dal carcere era effettivamente finito. Era meglio quando c’era il marchio…
Maltese: Perché?
Monicelli: Perché la comunità poteva difendersi. Il fatto che uno avesse meritato il carcere significava che non era una persona raccomandabile.
Maltese: Durante Tangentopoli i suicidi erano dovuti alla vergogna. Gli indagati di oggi – che sono indagati per fatti gravi, non inferiori a quelli – non pensano minimamente a vergognarsi. Come li beccano, anzi, cominciano a fare la morale al prossimo, diventano quasi dei guru. E i giornali, senza non dico la minima decenza ma almeno senso dell’ironia, titolano: «Previti all’attacco», «Moggi accusa il sistema», «Ricucci si ribella».
Monicelli: Chiamano i fotografi per farsi fotografare quando escono dal carcere.
Maltese: La vergogna è sparita e la rivendicazione del proprio crimine neanche stupisce, è la norma.
Monicelli: L’avere ottenuto un vantaggio imbrogliando qualcuno è un titolo di merito conclamato. La filosofia degli italiani ormai è questa.
Maltese: I registi italiani, anche quelli che hanno più talento degli altri, non hanno la stessa voglia di cercarsi un pubblico, di comunicare, che avevate voi. Al terzo film già citano se stessi. Hanno una loro nicchia di pubblico e continuano a rivolgersi solo a quella.
Monicelli: Un autore vuol essere visto, capito, letto o ascoltato. Noi della commedia all’italiana eravamo molto popolari subito nel dopoguerra, ma i critici ci trattavano come spazzatura. Spesso non ci recensivano nemmeno. Era sempre a causa del rigore di Alicata, del rigore del vecchio Partito comunista. Se uno affrontava un tema sociale, si dedicava a una cosa molto seria, impegnata. Non si pensava minimamente che si potesse far sorridere occupandosi di temi sociali, perché far sorridere era già inquinare tutto. Chi faceva dei film divertenti, era in partenza da escludere. Significava che non faceva cose serie. E infatti era così, non facevamo cose serie. Noi volevamo catturare il pubblico. Se questa era l’accusa, era un’accusa vera. Noi eravamo contenti quando avevamo catturato il pubblico.
Maltese: Nella cultura italiana la sottovalutazione del comico è una costante. Swift in Italia sarebbe stato immediatamente confinato ad autore minore. Sergio Saviane, che è stato un grandissimo giornalista, è già dimenticato, e comunque non veniva mai considerato un grande giornalista, perché aveva un talento satirico formidabile.
Monicelli: Questa diffidenza per il genere comico non è solo italiana.
Maltese: Però in Francia Molière è Molière. E poi lo scandalo per il Nobel a Dario Fo c’è stato solo in Italia.
Monicelli: Nelle rassegne, nei festival, persiste dovunque una forte preclusione per il comico. Il fatto di far ridere, o che un film possa essere popolare, ha evidentemente qualche cosa che non va.
Maltese: Tornando agli italioti, uno degli aspetti più straordinari della commedia all’italiana è l’aver descritto quel tratto tipico del fascismo che è l’inventarsi una gloria che non esiste. L’Armata Brancaleone è analoga al revisionismo italiano: l’idea di riscrivere la storia inventandosi una gloria che non c’è. Così come Brancaleone si inventa una gloria che non esiste, Mussolini s’inventava l’impero, Berlusconi la sua irresistibile ascesa, Bossi la Padania dei celti, l’ampolla magica e il dio Po. Questa è tutta commedia all’italiana, il poveraccio che s’ammanta di un eroismo immaginario. Tra l’altro, ove vi fosse stata, la Padania sarebbe stata alleata di Roma ladrona, contro gli imperatori tedeschi.
Monicelli: Tutto discende dal fatto che in Italia non c’è stata una Riforma, ma c’è stata la Controriforma senza che ci sia stata la Riforma. È stata una cosa incredibile. Immagina la vittoria della Controriforma contro una Riforma che in Italia non c’è mai stata. È stata vinta una battaglia che nessuno ha combattuto.
Maltese: A proposito di controriforme, che effetto vi hanno fatto questi anni in cui politici e giornalisti di sinistra hanno contribuito a criticare l’antifascismo come valore, a smontare la Resistenza come momento della storia italiana di cui andare orgogliosi?
Monicelli: Non ci si è mai occupati in modo adeguato della Resistenza né nel teatro, né nel cinema, e neanche nella letteratura, a parte Fenoglio. Eppure è l’unica cosa che abbiamo di cui potremmo veramente vantarci. Non solo non è stata apprezzata la Resistenza, ma sono venuti subito quelli che hanno detto che quelli di Salò erano dei bravi ragazzi. E i morti sono tutti uguali. Non è vero: fascisti e combattenti per la libertà sono diversi anche da morti. Ma è andata a finire così. La Resistenza è stata messa in disparte, non è stata più celebrata. Anche perché sembrava che fosse una pagina della storia di questo paese troppo intelligente, e generosa.
Maltese: In fondo a un decennio di revisionismo dominante sui media, i cittadini però sono andati a votare in massa un «No» alla pretesa di cambiare la Costituzione antifascista.
Monicelli: Ma è stato anche un modo per liberarsi di questa destra, di Berlusconi. Gli italiani l’hanno votato con un plebiscito. Ma poi in verità non è piaciuto. Ed è venuta fuori tutta la mediocrità di quell’avventura, se ne sono allontanati anche quelli che sono disposti a tutto pur di essere sul carro del vincitore.
Maltese: Un problema italiano è quello di diventare adulti. È un tema ricorrente del nostro cinema, dal Fellini dei Vitelloni a Germi e a te in Amici miei. Ora, la difficoltà a diventare adulti è profondamente legata alla struttura della famiglia italiana.
Monicelli: Ho fatto un film, Parenti serpenti, che era una farsa. La farsa è un genere meraviglioso, molto difficile perché va molto a fondo. Pur non essendo realistica, nella farsa c’è sempre una verità che va a fondo, come nella farsa di Chaplin e di Buster Keaton. Ora, la verità di quella farsa era la famiglia. Ma la colpa è delle donne. Adesso le donne, le ragazze, le signore, si lamentano che non trovano uomini. Ma questi uomini che non trovano sono quelli che loro da mamme hanno tenuto in casa, e che non vogliono far uscire, e che hanno accudito e curato e tenuto fino a 30-35 anni, senza mai farli crescere. Gli uomini italiani sono dei bambini non cresciuti per colpa delle donne. Che poi si lamentano perché trovano degli uomini che non sono cresciuti. Al contrario, le figlie femmine si possono anche mandare via: e loro infatti maturano, affrontano la vita molto più degli uomini, con più coraggio e con più grinta.
Maltese: L’idea che Berlusconi esibisca in continuazione la mamma, mamma Rosa, spiega molte cose di Berlusconi. Il suo narcisismo clinico deriva da quella mamma lì. È evidente che la mamma lo ha esaltato in ogni sua attività.
Monicelli: Ma Berlusconi la esibisce anche perché è convinto che gli italiani sono contenti se il loro Presidente, la loro guida, è legato alla mamma e che si rivolga alla mamma per prendere da lei le cose giuste, gli affetti, il modo di comportarsi verso gli altri. Berlusconi era convinto che quello fosse il lato debole degli italiani.
Maltese: Io non ricordo nessun altro leader politico al mondo che abbia parlato così tanto della mamma come Berlusconi. Mamma Rosetta è presente in un discorso politico su due. Ma alla fine, perché i personaggi pubblici italiani, tutti, sono soltanto delle variazioni dei personaggi di Alberto Sordi, insomma protagonisti da commedia?
Monicelli: La commendia è la nostra nascita. La lingua italiana nasce dalla Commedia di Dante, che poi si è chiamata Divina commedia. Ed è una pagliacciata di Boccaccio: perché «Divina», a che serve? L’opera di Dante si chiamava La Commedia. E nella Commedia avviene tutto, tutto. Noi veniamo dalla commedia e la nostra vera natura è «la Commedia». La commedia continua nella Mandragola. E anche qui cose turche. Nella commedia italiana ci sono sempre turpitudini. Poi c’è la commedia dell’arte, in cui i servitori cercano di difendersi dal padrone che li vuole sopraffare e che, a loro volta, rubacchiano. La commedia all’italiana non l’abbiamo mica inventata noi del dopoguerra. Magari! Viene da lontano. La commedia all’italiana viene dalla Commedia di nostro padre Dante.
Maltese: Forse bisognerebbe aggiungere anche zio Goldoni. Il cinema ruba in continuazione da Goldoni, senza dirlo. Però nella commedia nobile c’era un coraggio eccezionale. Dante è uno che prende il suo papa, Bonifacio VIII, e lo sbatte all’inferno, ne parla come di un dannato. Questo nel 1300. Ora vorrei capire se fra gli eroi della satira contemporanea, sempre pronti a vantare il proprio coraggio, ce n’è uno capace di tanto con Ratzinger.
Monicelli: Prima o poi arriverà, e forse torneremo a divertirci col cinema.

(a cura di Giovanni Perazzoli)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/de-te-fabula-narratur-conversazione-con-mario-monicelli-di-curzio-maltese/


Titolo: CURZIO MALTESE Folla, colori, allegria, il sole e le piazze romane.
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2010, 04:26:24 pm
IL COMMENTO

Una boccata di democrazia

Folla, colori, allegria, il sole e le piazze romane.

Ci voleva una giornata di sana democrazia per respirare fra i miasmi di una politica ridotta all'orrido cinepanettone parlamentare recitato da onorevoli macchiette in vendita.

di CURZIO MALTESE

Per distrarsi dallo spettacolo di un grande paese in mano al voto degli ultimi due voltagabbana arruolati da Di Pietro. È un sollievo incontrare le facce di un'Italia diversa, reale. Quanti erano? Chissà. Se Berlusconi giurava di aver superato i due milioni la primavera scorsa, allora qui dovrebbero essere cinque o sei. Basta confrontare le foto di piazza San Giovanni dall'alto. Fuori dalla contabilità di fantasia, comunque una marea. Ma più dei numeri conta l'emozione di veder sfilare i ragazzi dell'Aquila accanto ai precari dello spettacolo, i ricercatori e i migranti, i maestri elementari e i cassintegrati, da tutta Italia, con cento dialetti e un milione di storie.

Una gran bella giornata. Tanto bella quanto probabilmente inutile. A questa politica del paese reale importa poco o nulla. I giochi si fanno altrove, nei palazzi del potere berlusconiano. Quanti se n'è comprati? Quanti ne comprerà nelle prossime 48 ore? Nel retropalco di piazza San Giovanni, mentre parla Bersani, gli specialisti sfoderano il pallottoliere. Dario Franceschini, che di solito ci azzecca («comunque più di Di Pietro» è la battuta), sostiene che il fronte della sfiducia è ancora sopra di due voti. «Se Guzzanti passa di là, siamo pari».

L'unica certezza è che non vi sarà un solo parlamentare, un singolo esponente del popolo, che cambierà idea perché uno, due o cinque milioni d'italiani sono scesi in piazza. Badano ad altre cose, consulenze, contratti in scadenza, rielezione, pensioni, mutui, ipoteche, debiti. La manifestazione di ieri non servirà a dare una spallata al governo Berlusconi. Ma può dare una scossa di fiducia al Partito Democratico, da mesi paralizzato da un paradosso. Il berlusconismo perde colpi, ma il principale partito d'opposizione non guadagna consensi, al contrario scivola nei sondaggi. Perché, se ha potenziale elettorale che supera il quaranta per cento? Perché, se ogni chiamata alla piazza raccoglie milioni di adesioni, quando in tutte le democrazie occidentali mezzo milione di persone in corteo costituiscono un record?

Il Pd è a un bivio storico, di fronte a una scelta difficile, che merita rispetto. Alle prese con un problema assai più profondo di quanto appaia dalle risse fra la ventina di aspiranti segretari. Il Pd deve scegliere se diventare un partito come tutti gli altri, ovvero il comitato elettorale di un leader forte e carismatico. Oppure rimanere l'ultimo partito collegiale sulla scena.

Nel suo bel discorso Bersani, assai più efficace in piazza che in televisione, ha rivendicato con orgoglio la diversità del Pd. «Non vogliamo creare passione per una persona, ma per la Repubblica». È cosa buona e giusta da dirsi, nobile. Bisogna vedere se è anche attuale. Nell'Italia berlusconizzata, ma non solo, i partiti sono la narrazione di un capo. Oggi il Pd, con tutta la fatica e il dolore affrontato per separarsi dalle proprie radici, il Pci e la Dc, si trova a perdere voti nei confronti di Vendola e Casini, rispettivamente un ex comunista e un ex democristiano, entrambi poco ex, i quali semplicemente hanno capito due o tre cose in più su come funziona la comunicazione politica nei tempi moderni. Nell'Italia del 2010 il Pd è un partito che appare fermo al Novecento, mentre il resto del mondo è entrato da tempo nel Duemila. Oppure è regredito all'Ottocento, chissà, ma in ogni caso sta altrove.

All'orizzonte del Pd oggi non esiste un leader carismatico. L'ultimo giovane pretendente l'hanno appena beccato a confabulare in segreto ad Arcore, lui sostiene per il bene di Firenze. Ma anche se si presentasse Obama in persona, il Pd per come è strutturato non accetterebbe mai di diventare il partito di un leader. Gli unici ad averci provato in questi anni, Prodi e Veltroni, sono finiti presto. Sia pure dopo aver raccolto molti più consensi delle direzioni collegiali. Ad ascoltare la gente di San Giovanni, la base del Pd non avrebbe dubbi sulla scelta da compiere. C'è il rischio che la metà delle persone scese in piazza all'appello di Bersani, in caso di primarie si precipitino a votare Vendola. Forse domani cambierà tutto, se cadrà Berlusconi. Ma per far finire il berlusconismo, più che un governo tecnico, servirebbe allora la rivoluzione invocata dal grande Mario Monicelli.

(12 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/12/news/maltese_manifestzione-10097911/?ref=HREC1-3


Titolo: CURZIO MALTESE Cosa vogliono quei ragazzi
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 11:02:47 am
IL COMMENTO

Cosa vogliono quei ragazzi

di CURZIO MALTESE

La sera del 13 dicembre, vigilia del voto di fiducia e degli scontri di piazza del Popolo, l'ho passata alla Sapienza per discutere con gli studenti che cosa sarebbe successo il giorno dopo. Soprattutto sul come i media avrebbero trattato la rivolta degli studenti. La paura era il remake di Genova 2001. Zone rosse, black bloc, infiltrati e no, botte da orbi. In questo modo le ragioni del movimento sarebbero state completamente oscurate dal dibattito sulla violenza, come poi ha scritto Roberto Saviano.

I media si sarebbero volentieri accodati, alcuni per servilismo, altri per sensazionalismo, altri ancora per il riflesso condizionato di paragonare ogni movimento giovanile al passato. Nel 2001, fra i fumi dei lacrimogeni veri e gli altri a mezzo stampa, la strategia ha funzionato benissimo e l'Italia ha perso una grande occasione di modernità. Basta rileggersi i documenti del movimento no global dell'epoca sulla finanza internazionale, le bolle speculative, la privatizzazione dell'acqua, il clima o l'evoluzione del mercato agricolo per capire quanto fossero profetiche, acute, attuali quelle analisi. Tanto più degne d'attenzione delle quattro fesserie di circostanza e delle mille menzogne esalate durante il G8 da Bush e dagli altri potenti della terra. Ma si discusse soltanto degli atti di pochi violenti e dei discorsi vacui del potere.

Fra dieci anni potremmo pentirci di non aver ascoltato le ragioni degli studenti italiani, la loro protesta che è anzitutto contro il declino dell'Italia. Una battaglia che dovrebbe riguardare tutti, giovani e anziani, partiti e sindacati, destra e sinistra, imprenditori e lavoratori. Riguarda molto gli altri giovani di piazza del Popolo, i ragazzi in divisa, ventenni che spesso non hanno trovato altri lavori e misurano sulla propria pelle che cosa significhi aver studiato più dei colleghi anziani per avere meno soldi in busta paga e minori possibilità di carriera. Ragazzi in divisa che infatti, come si vede dai filmati, non avevano alcuna voglia di usare i manganelli. Il declino non riguarda soltanto l'Italia, ma l'Europa intera. E infatti la protesta degli studenti esplode in tutte le capitali d'Europa. La differenza è che soltanto in Italia, la nazione dove il declino è peggiore, si considera la protesta un mero problema di ordine pubblico, una faccenda poliziesca.

Qui non si tratta di una riforma buona o cattiva. Sarebbe facile smontare i due o tre slogan populisti e volgari sui quali si fonda la difesa della legge Gelmini. La guerra ai baroni? La riforma concentra il massimo del potere nelle mani dei rettorati, il Gotha del baronato. La lotta agli sprechi, ai troppi assunti, agli stipendi clientelari che fagocitano tutte le risorse? Su questo punto è difficile rimanere calmi. Il maggior spreco clientelare nella storia della scuola pubblica, il più costoso degli ultimi vent'anni, è stata l'assunzione di massa di ventimila insegnanti di una materia facoltativa, la religione, decisa da un governo Berlusconi per garantirsi l'appoggio dei vescovi. Spreco, vergogna, insulto alla Costituzione e alla meritocrazia, visto che gli insegnanti di religione non debbono affrontare un concorso, ma soltanto essere segnalati dalla curia. Ma questo è davvero il meno.

Il vero problema è che per la prima volta da secoli in Europa avanza una generazione "meno". Una generazione che avrà meno opportunità, mobilità sociale, in concreto meno consumi, automobili, case, strade, pensioni, perfino forse aspettative di vita, nonostante i progressi della scienza, di quanto ne abbiano avute i padri. È la questione dell'epoca ed è gigantesca, inedita. Ed è tanto più evidente in Italia, avanguardia del declino europeo. La politica, i sindacati, le associazioni industriali e finanche la Chiesa non dovrebbero occuparsi d'altro. Invece si occupano soltanto d'altro. Tutti dovremmo essere grati a questi ragazzi perché ci ricordano che abbiamo un futuro e dobbiamo sceglierlo. Invece molti e forse la maggioranza sono grati all'idiota che picchia un poliziotto a terra, al delinquente che incendia una camionetta o sfonda un bancomat, a chiunque armato di un bastone ci permetta il lusso di non pensare, come ricordava Saviano. Oggi come nel 2001, dopo Genova. Dopo Genova ci sono stati i crack finanziari, la peggiore crisi dal dopoguerra, il crollo dei prezzi agricoli, la privatizzazione dei grandi acquedotti. E adesso, brava gente allevata coi dibattiti televisivi, che cosa deve accadere per svegliarsi?

(18 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/18/news/commento_maltese-10343067/?ref=HRER1-1


Titolo: CURZIO MALTESE Un marziano a Roma
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2011, 04:16:39 pm
IL COMMENTO

Un marziano a Roma

di CURZIO MALTESE

SIAMO alle comiche finali, come direbbe il suo ex capo, Gianfranco Fini. L'ultima trovata di Gianni Alemanno, sindaco per caso della capitale, sarebbe quella di chiamare come vice Guido Bertolaso, il Capitan Terremoto appena pensionato dalla Protezione civile.

Un colpo di teatro che dovrebbe risollevare l'immagine dell'amministrazione capitolina, in caduta libera. Il sondaggio annuale del Sole 24 Ore indica Alemanno fra i sindaci meno amati d'Italia, soltanto un'incollatura davanti ai casi disperati del palermitano Cammarata e della napoletana Russo Iervolino. Con tutte le perplessità che evoca la figura di Bertolaso, si tratterebbe in ogni caso di un passo avanti. Indietro, del resto, era difficile compierne. Da tre anni i romani assistono al bizzarro esperimento di una grande capitale dell'umanità governata da una curva di ultras della politica. Un pugno di ex camerati del Fronte della Gioventù romano, più parenti e amici, proiettati da un destino crudele (e dall'imbecillità degli avversari politici) verso una missione impossibile. Governare una città che ha la popolazione e il bilancio di un piccolo stato europeo, e la storia di molti messi insieme. Per qualche tempo i romani, anche chi non l'aveva votato, ha sperato che Alemanno e i suoi potessero farcela. Così come si tifa allo stadio per una squadra di terza categoria giunta in finale. Ma ora il fallimento è conclamato e perfino ammesso.

Gianni Alemanno è stato per tre anni il sindaco marziano di Roma, senza un rapporto vero con la città.
Distante, impaziente, forse persino deluso da una vittoria insperata che gli ha negato una più comoda poltrona di ministro, alle prese con problemi troppo più grandi di lui. Circondato per giunta da una compagnia di fedelissimi, pronti a sfoderare il pugnale per difenderlo, magari in cambio di un posto per il cognato o la prozia, ma del tutto inadeguati a compiti di governo. Ha svolto il compito di malavoglia, eccitato soltanto dalla possibilità di fare ogni tanto annunci d'ispirazione marinettiana, come la demolizione di Tor Bella Monaca, l'abbattimento delle opere di Meyer o il gran premio di Formula Uno all'Eur. E dire che s'era guadagnato il voto con la critica alla "politica spettacolo di Veltroni". Prima della cultura, dei festival, dei concertoni e concertini, diceva Alemanno, bisogna pensare alle buche nelle strade, alla criminalità, all'economica cittadina. La cultura infatti è quasi azzerata, ma non così le buche e i buchi in bilancio. I romani, tolleranti ma non fessi, se ne sono accorti e gli indici di popolarità sono crollati. Al disastro finale ha pensato la rapinosa compagnia dei collaboratori, con una serie di scandali all'insegna del "tengo famiglia".

Ora il marziano sindaco pensa di rimontare affiancandosi un marziano vice, ancora più bravo a fare annunci mirabolanti in televisione. Si tratta comunque, già dal nome, dell'ammissione di uno stato d'emergenza. Se fallisce anche la mossa Bertolaso, si può provare col mago Silvan e Harry Potter. Oppure dimettersi e fare posto a uno del mestiere. Tanto una poltrona da ministro ad Alemanno non gliela toglie nessuno. E al governo l'incompetenza non è un problema.

(11 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/11/news/marziano_roma-11071944/?ref=HREC1-3


Titolo: CURZIO MALTESE Le piazze e la Costituzione
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2011, 05:09:29 pm
IL CASO

Le piazze e la Costituzione

Nel Paese c'è una minoranza che non si riconosce nei valori della Carta e c'è una maggioranza che invece vorrebbe vedere applicato il patto fondante della Patria. Questo è il vero conflitto

di CURZIO MALTESE


IL TRICOLORE e la Costituzione, l'inno di Mameli e "Bella ciao". Le cento piazze italiane hanno sapute leggere, fin dai simboli, la storia di questi anni, l'essenza della scontro politico in atto da quindici anni. Assai meglio di quanto non sappiano fare i partiti.
Nei 150 anni di unità, l´Italia, al prezzo di immani tragedie, è riuscita a darsi una sola vera e grande patria. Questa patria è la Costituzione antifascista. Le altre idee di patria, dal fascismo in su o in giù, sono state piccole, miserabili e funeste.

Da quindici anni la lotta politica non è quella che si racconta, fra una destra e una sinistra quasi altrettanto immaginarie, almeno secondo i parametri delle altre democrazie. Tanto meno fra berlusconismo e anti berlusconismo, categorie al pari esagerate rispetto all´esiguità e a tratti il grottesco del personaggio.

Il cuore del conflitto sta altrove, fra un´Italia di larga e compatta minoranza che non crede ai valori della Costituzione, non li pratica e vorrebbe cancellarli, e un´Italia maggioritaria, ma divisa, che si riconosce nel patto fondante della Repubblica e vorrebbe vederlo finalmente applicato. Era questa la fotografia politica del Paese nel ´94, subito dopo la discesa in campo di Berlusconi, confermata dai referendum costituzionali del 2006, e tale rimane ancora oggi. In mezzo, il grumo di poteri ideologicamente anticostituzionali che ora chiamiamo col nome di un ricco imprenditore che si è adoperato con ogni strumento culturale, politico, economico per attaccare e distruggere le basi stesse del patto democratico. Senza risparmiare nessuno dei valori fondanti, dal ripudio della guerra alla prevalenza dell´interesse pubblico sul privato, dalla separazione dei poteri alla laicità dello Stato, al ruolo di garante costituzionale del Presidente della Repubblica. Anche attraverso l´azione parallela di un revisionismo storico che punta al massimo e blasfemo scopo di equiparare i partigiani e i repubblichini di Salò.

Se domani, per ipotesi, sparisse Berlusconi, il conflitto non cambierebbe nella sostanza di una virgola. Diventerebbe soltanto più limpido, sgombrato dalle nebbie del populismo mediatico. Lasciando più spazio alla Lega, cioè alla forza che con schiettezza identifica l´attacco alla Costituzione antifascista con l´attacco all´unità del Paese. Come avviene già in questi tempi di berlusconismo agonizzante, in cui è la Lega l´autentico motore politico dell´azione di governo.

Questa è la posta in gioco. Così l´hanno illustrata le cento piazze d´Italia, con la semplice forza dei simboli, degli inni e delle duecento parole con le quali i padri costituenti hanno scritto la prima parte della Carta. In modo che proprio tutti possano comprenderla, anche coloro che continuano a non volerlo fare. Così l´hanno percepita e spiegata di recente artisti come Roberto Benigni o Roberto Saviano, e
l´hanno trasformata in racconto popolare. Il giorno in cui i partiti dell´opposizione sapranno capire e spiegare la posta in gioco con altrettanta chiarezza, sarà un gran bel giorno per la democrazia italiana.

(13 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: CURZIO MALTESE - Quei vergognosi manifesti sui brigatisti in Procura
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2011, 10:08:04 pm
LA POLEMICA

Quei vergognosi manifesti sui brigatisti in Procura

di CURZIO MALTESE

La scritta "Via le Br dalle procure" appesa davanti al Palazzo di Giustizia di Milano evoca alla memoria immagini che hanno segnato una generazione. Il corpo del giudice Emilio Alessandrini, massacrato dai proiettili di Prima Linea nel centro di Milano, dopo aver accompagnato il figlio a scuola.

Il sangue di Vittorio Bachelet, assassinato dalle Br, sparso sulle scalinate della Sapienza di Roma. Lo sguardo delle mogli, dei figli, dei genitori ai funerali dei tanti magistrati uccisi dal terrorismo. Il presidente del Consiglio, teorico dell'equazione fra magistrati e brigatisti, ha di sicuro l'età, ma non la decenza, per ricordare quei fatti. Per quanto, certo, all'epoca fosse già molto distratto dai propri affari.

Mentre i suoi coetanei magistrati rischiavano e a volte sacrificavano la vita nella lotta per la democrazia, contro la mafia e il terrorismo, Berlusconi infatti si portava in casa un boss mafioso e trafficava con l'assistenza del fido Marcello Dell'Utri a caccia di capitali. Ma perfino un personaggio così, che la stampa estera definisce "tragico clown", potrebbe ogni tanto fare appello alla propria natura di uomo, quindi di padre, fratello, per capire che quella propaganda è uno schiaffo al dolore di altri padri, figli, fratelli, colpiti da un lutto terribile.

In fondo, anche i brigatisti avevano cominciato con le parole, le scritte davanti a Palazzo di Giustizia, i volantini contro i magistrati "servi della borghesia" e "boia di Stato". Le pallottole sono arrivate dopo anni di violenza verbale. Una volta stabilito che i magistrati erano uguali ai boia, agli assassini, perché non agire di conseguenza? Ma non è nemmeno questo il punto.

La questione è che abbiamo nostalgia di una politica che ispiri sentimenti normali. Normali per la politica, dov'è contemplato la polemica, anche la più aspra, con l'avversario. Ma non la vergogna e il ribrezzo che suscitano questi spettacoli. Il presidente del Consiglio ha da molto tempo un conto aperto con la giustizia. Non potendo difendersi nei processi e avendo la fortuna (per lui) di vivere nel paese più corrotto dell'Occidente, si difende dai processi con ogni mezzo. Dispone di una maggioranza cortigiana disposta a votare qualsiasi legge ad personam e finanche a dichiarare agli atti il falso, come nel caso della "nipote di Mubarak", pur di mantenersi al potere. A tutto questo siamo ormai abituati. Non rassegnati, ma abituati. Quello a cui non si riesce ad abituarsi è alla pretesa dei delinquenti d'infangare gli onesti, alla volontà dei ladri di mettere in galera le guardie. Al rovesciamento totale della realtà, che è la premessa di ogni regime totalitario. Gli animali che accusano di brigatismo le prime vittime del terrorismo, i magistrati, non sono moralmente tanto lontani dai razzisti che accusavano gli ebrei di tramare lo sterminio degli ariani. Sono soltanto, per fortuna, assai più ridicoli.

(16 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/16/news/


Titolo: C. MALTESE L'autoironia dal web alla piazza la campagna allegra della sinistra
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2011, 05:47:42 pm
IL RACCONTO

L'autoironia dal web alla piazza la campagna allegra della sinistra

Crozza dà il via sulla bat-casa, poi un diluvio di gag in Rete. Sul blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti, tanti messaggi sarcastici. Un cortometraggio irride gli incubi di un elettore che immagina Milano in mano ai "rossi"

di CURZIO MALTESE

L'autoironia dal web alla piazza la campagna allegra della sinistra Un fotogramma del corto satirico "Il favoloso mondo di Pisapie"
Esplode un arcobaleno in piazza del Duomo, dopo la tempesta. Scoppia la voglia di ridere di Milano, in fondo a una campagna mai così brutta, sporca e cattiva. Ma poi è stato davvero così? Gli insulti fanno sempre notizia.

Ma la vera novità della campagna per il sindaco di Milano, almeno nelle ultime settimane verso il ballottaggio, è stato il ritorno di un'arma fra le meno frequentate dalla politica italiana: l'ironia. Sulle magliette arancioni dei ragazzi in piazza del Duomo. "Sono senza cervello". "Milano libera tutti". Nelle radio, nei capannelli, nei bar, soprattutto sulla rete, a fiumi, come antidoto ai veleni della televisione. È accaduto di colpo, come una liberazione. Il film horror della destra si è rovesciato in uno "Scary movie" da sbellicarsi. Le accuse sempre più gravi e incredibili mosse al mite Giuliano Pisapia si sono ribaltate, attraverso la parodia, nella principale fonte di propaganda a suo favore.

Il più riuscito esempio di questa parodia della paura è il video oggi più cliccato su Internet. "Il favoloso mondo di Pisapie", un cortometraggio gioiello. Pochi minuti in cui si raccontano i tormenti e gli incubi di un elettore indeciso che prova a immaginarsi la Milano in mano ai "rossi". Pisapia che ringrazia dai manifesti gli amici di Al Qaida, consegna le chiavi della Torre Velasca ai centri sociali, accoglie sulle rive dei navigli le barche dei clandestini. In una Milano dove i multisala proiettano soltanto film di
Nanni Moretti, i parchi pullulano di omosessuali tossicomani, gli impiegati del Comune distribuiscono eroina zona per zona, si paga l'Ecopass anche per andare a Sesto San Giovanni. Fino all'inevitabile chiusura con furto d'auto.

Il clima alla Tarantino, anzi da vecchio film con Luc Merenda ("Milano trema...") era un'occasione troppo ghiotta per le schiere di comici impegnati col candidato di sinistra. Dal principio alla fine la satira, da Dario Fo all'ultimo blogger, è stata un elemento fondamentale della campagna milanese, per quanto ignorato dai media a caccia di titoloni. Fino ai molti sorrisi della serata di chiusura, sul palco del Duomo, con la parodia papale di Lella Costa ("Quando tornate a casa, date una carezza ai vostri figli e dite loro che la manda Pisapia"), le imitazioni di Marcorè, la verve di Bisio, l'elenco esilarante in finto stile Saviano di Massimo Cirri sui motivi per non votare Pisapia: "Primo, ha inventato le zanzare...".

Il vero comico sceso in campo nel voto di Milano non è stato Beppe Grillo, sempre meno divertente. Piuttosto Maurizio Crozza, dal quale infatti Pierluigi Bersani ha deciso di chiudere la campagna, con un duetto memorabile in cui il segretario del Pd, con tempi comici perfetti, ha accettato di ripetere le celebri frasi fatte luogocomuniste. E dunque "ragazzi, non siamo mica qui a tagliare i bordi ai toast", "non siamo qui a spalmare l'Autan sulle zanzare", "a smacchiare i giaguari", "a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole" e via delirando.

A Crozza va del resto il merito d'aver colto per primo, a Ballarò, le potenzialità comiche della strategia della paura. Quando per esempio, dopo aver illustrato le cattive abitudini dell'avvocato mariuolo ("Era lì che svitava un'autoradio..."), ha lanciato l'appello: "Ma è possibile che con un simile delinquente in giro per Milano, Batman se ne stia a casa e non intervenga?".

Perché la vera svolta umoristica della campagna di Milano è venuta, come spesso capita, da un fatto vero. La scoperta della bat-casa del bat-figlio della bat-sindaco Letizia Moratti. Una vicenda che ha rovesciato il clima cittadino. Non solo e non tanto per la portata dell'abuso edilizio, quanto per il fragoroso abuso di cattivo gusto. Davanti a quelle immagini del loft da Gotham City, al dark tinello e alla piscina d'acqua di mare, si poteva scegliere se scandalizzarsi o scoppiare a ridere e i milanese hanno optato per la seconda ipotesi.
Da allora è scattata la rivoluzione dell'ironia, la mossa da judoka che ha usato l'aggressività dell'avversario per restituirla come boomerang comico. Il blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti e diffusore di terrificanti leggende metropolitane sull'avversario "comunista", è stato invaso di messaggi grotteschi. Una piccola antologia del buonumore, con in cima l'anonimo rapper di "Non trovo più Red Ronnie, l'ha preso Pisapia". La parodia è diventata l'unica forma efficace di reazione ai colpi troppi bassi di una politica troppo volgare e menzognera per esser più presa sul serio. Per le strade di Milano tutti, perfino qualche elettore di destra, s'è messo a canticchiare le parodie musicali di Elio e Le Storie Tese o della ormai mitica Sora Cesira di "Incarcerabile", variazione di Laura Pausini dedicata naturalmente a lui e ai suoi incubi: "Perché se vince Pisapia/ temo tu debba andare via".

È presto per dire se da Milano partirà la risata capace di seppellire la politica della paura e del rancore. Negli ultimi anni l'ironia, tanto più contro Berlusconi, non ha portato fortuna. A cominciare dal Mino Martinazzoli del '94, che al Cavaliere sventolante fantasmagorici sondaggi ("Il 65 per cento degli italiani mi vuole premier"), aggiungeva: "Risulta anche che il 99 per cento dei cinesi lo voglia imperatore". Ma i tempi cambiano, il vento politico fa il suo giro, i linguaggi invecchiano e soprattutto la rete, Facebook, Twitter, i blog fanno sembrare decrepita le risse televisive. E questa sì è una novità seria.
 

(29 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/29/news/


Titolo: CURZIO MALTESE - Veltroni: Basta tabù sull'articolo 18
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 11:44:01 pm
L'INTERVISTA

Veltroni: "Basta tabù sull'articolo 18 Non lasciamo Monti alla destra"

Le proposte dell'ex leader democratico.

Nel Pd ricette vecchie, bisogna sciogliere tutte le correnti, far ripartire l'iniziativa politica del partito. E mettere a frutto il riformismo di Monti

di CURZIO MALTESE

ROMA - Sciogliere tutte le correnti del Pd, a cominciare dalla sua. Rilanciare l'iniziativa politica del partito sulle riforme, la lotta alla criminalità e alla corruzione politica, mettendo a frutto il riformismo di Monti per avvicinare la "rivoluzione democratica" che deve essere l'obiettivo del Pd. Cambiare subito la Rai ed escludere i partiti da tutte le nomine degli enti pubblici. Le proposte di Walter Veltroni sono sassi lanciati nello stagno della politica commissariata dal governo dei tecnici, destinate a far discutere anzitutto un Pd ancora imbambolato dalla batosta delle primarie genovesi.

Veltroni, non è un po' eccessivo definire riformismo la stagione di Mario Monti?
"No. Sono bastati tre mesi per capire che non si tornerà indietro. Circola nel Pd, ancor più nel Pdl, l'idea che questo sia solo un governo d'emergenza, una parentesi dopo la quale si tornerà ai riti e ai giochi della seconda repubblica o peggio della prima. Qualcuno dà giudizi tali da rischiare il paradosso di consegnare al centro o al nuovo centro destra il lavoro del governo. È un errore grave. Questo governo tecnico ha fatto in tre mesi più di quanto governi politici abbiano fatto in anni. Ha dimostrato non solo di voler risanare i conti, ma di voler cambiare molto del paese e vi sta riuscendo, con il consenso dei cittadini e dell'opinione pubblica internazionale. La copertina di Time o l'ovazione al Parlamento europeo sono un tributo ad un paese che solo qualche mese fa era guidato
da Berlusconi e deriso".

È d'accordo con il governo anche sull'articolo 18?
"Sono d'accordo col non fermarsi di fronte ai santuari del no che hanno paralizzato l'Italia per decenni. Il nostro è un paese rissoso e immobile e perciò a rischio. Credo che finora il governo Monti stia realizzando una sintesi fra il rigore dei governi Ciampi e Amato e il riformismo del primo governo Prodi".

Non risponde sull'articolo 18.
"Totem e tabù si intitolava un libro di Freud. Ed è perfetto per definire gran parte del discorso pubblico in Italia. Bisogna cambiare un mercato del lavoro che continua a emarginare drammaticamente i giovani, i precari, le donne e il Sud. Ci vogliono più diritti per chi non ne ha nessuno. Questa è oggi una vera battaglia di sinistra".

Quindi, figurarsi se non è d'accordo con la lotta all'evasione, la revisione delle spese militari, l'Ici alla Chiesa.
"Si diceva che questo era il governo delle lobbies e del Vaticano. Come se queste non pesassero nei governi politici. Fatto sta che Monti ha deciso bene sull'Ici per gli immobili della chiesa, sugli F 35, sta facendo bene nella lotta all'evasione, che potrà portare ad una riduzione di pressione fiscale. I blitz a Cortina, Portofino, Sanremo sono segnali forti e chiari. Come lo è stato far pagare per 16 miliardi i possessori di patrimonio. Devo ricordare che quando al Lingotto proposi la patrimoniale nel mio stesso partito ci fu chi si precipitò a dire che non era la posizione del Pd".

Che cos'altro si aspetta dal metodo Monti?
"La sua sfida è la crescita, uno sviluppo di qualità sociale, culturale e ambientale. E poi che consideri priorità la lotta alla mafia, che si sta mangiando mezzo paese, dalla Sicilia a Bordighera, da Reggio Calabria a Milano. Bisogna intervenire subito e stroncare le complicità con una nuova e durissima legge contro la corruzione. Il secondo campo è la Rai. Lo dico dal 2008: la Rai deve avere un amministratore delegato e un cda che si riunisce tre volte l'anno. Sento che ora si vuole limitare il numero dei consiglieri d'amministrazione a cinque, ma con alcuni sempre di nomina parlamentare. È sbagliato. I partiti devono smetterla di nominare persone agli enti pubblici, sia la Rai o l'ultima Asl. I partiti servono a fare proposte e programmi, non nomine. Via dai consigli d'amministrazione".

Chi dovrebbe nominare il prossimo consiglio Rai?
"I presidenti di Camera e Senato, scegliendo fra personalità dell'impresa e della cultura con requisiti adeguati. In questo momento c'è bisogno di un servizio pubblico vero, meno show di quart'ordine e più produzione dell'industria culturale nazionale. E più intelligenza, se la parola qualità spaventa".

Ma se Monti e i suoi professori sono tanto bravi, allora lei, voi, il Pd, i partiti in generale, che ci stanno a fare?
"Il Pd ha il merito di aver fatto nascere questo governo. Ora dovrebbe sfruttare questa immensa occasione per rilanciare un grande programma riformista. Dire agli italiani che non torna nulla del passato, compresi i governi rissosi dell'Unione. Ma il riformismo radicale, la modernità equa che devono affrontare una recessione pericolosa dal punto di vista sociale e democratico".

E invece il Pd che sta facendo?
"Si discute di liberismo e di ritorno al socialismo. Invece siamo fuori dal Novecento. Siamo in un passaggio storico inedito. E tornano vecchie ricette e coperte apparentemente rassicuranti. Si parla poco della disperazione sociale e troppo delle alleanze future. Sento dire che dopo Monti si potrà tornare finalmente al tempo dei partiti. Ma quel tempo gli italiani l'hanno conosciuto già. O la politica riforma se stessa e ritrova le sue grandi missioni e il respiro dei "pensieri lunghi" e la coscienza dei limiti ai quali si deve arrestare o prevarranno populismo e tecnocrazia. E poi ci si divide, come si è visto a Genova, col risultato di allontanare i cittadini e di perdere le primarie".

L'invito all'unità del partito non risulta un po' paradossale da parte di uno che litiga con D'Alema da trent'anni?
"Potrei risponderle che con D'Alema si discuteva di cose serie, se fondare un partito democratico o puntare sul modello della socialdemocrazia, se far vivere o morire il governo Prodi. Non litigavamo sulle nomine. Ma lasciamo perdere, quel tempo è passato. Oggi sono il primo a chiedere di sciogliere le correnti, tutte, compresa la mia. Che non si è mai formata per la mia conosciuta idiosincrasia al tema. I partiti devono essere luoghi aperti, non trincee di strutture che diventano pure macchine di potere. Ci vuole più pluralismo e meno correnti. La discussione politica è vitale e bella ma nel Pd le correnti, comprese le numerose componenti della maggioranza di Bersani, stanno allontanando persone che vogliono far vivere le loro idee senza sentirsi chiedere "con chi stai". Fu questa una delle ragioni delle mie dimissioni, proprio tre anni fa'".

Alle elezioni manca ancora un anno. Quali rischi corre il Pd da qui al voto?
"Io vedo le possibilità. La fine del Berlusconismo libera energie e apre spazi immensi. Il profilo di un partito riformista, innovatore, aperto, unito può raccogliere il lavoro di questi mesi e presentarsi come il soggetto di un tempo nuovo. La foto di Vasto fu scattata quando c'era Berlusconi. Ora pensiamo a noi. Non vorrei che Casini facesse, in un nuovo centro destra, l'operazione che noi avevamo immaginato per il centro sinistra e che noi si rifluisca, come nel 94. Perderemmo così un'altra occasione, forse l'ultima, di far conoscere all'Italia una vera e profonda stagione di riforme".

(19 febbraio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/19/news/veltroni_articolo_18-30134125/?ref=HREC1-3


Titolo: CURZIO MALTESE Nel Veneto tradito da Bossi "Ora Maroni deve trattare con noi"
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 04:01:04 pm
REPORTAGE

Nel Veneto tradito da Bossi "Ora Maroni deve trattare con noi"

Sul muro dove c'erano scritte contro Roma oggi si legge "Lega ladrona" su uno striscione.

Il bossiano Gobbo non si nasconde: "Avanti così e il partito implode"

dal nostro inviato CURZIO MALTESE


TREVISO - Ogni maledetto venerdì in un'azienda del trevigiano o del vicentino o del bellunese, una delle aree più ricche d'Europa, un imprenditore aspetta che escano gli operai e la segretaria, chiude il libro contabile e apre il cassetto con la pistola o scende nel capannone e si impicca. Perché non ha più la forza di andare in piazza, al bar, a messa, di incrociare lo sguardo dell'operaio amico o del cognato impiegato senza stipendio da mesi.

Dall'inizio della crisi gli imprenditori e gli artigiani suicidi in Veneto sono cinquantadue, dodici dall'inizio dell'anno. Quasi sempre a fine settimana e fine mese, dopo l'estremo tentativo di rimettere in moto gli affari, l'ultimo sollecito di pagamento ricevuto o inviato, l'ultima inutile visita in banca. "Nelle assemblee ormai ci guardiamo intorno, chi sarà il prossimo?" dice uno dei presenti l'altro giorno a Vigonza, vicino a Padova, alla fondazione di "Speranzaallavoro", l'associazione dei familiari degli imprenditori suicidi, guidata da due giovani orfane, Laura Tamiozzo e Flavia Schiavon.

In questo clima si può immaginare come il laborioso Nord Est possa accogliere il bollettino quotidiano della padanopoli di via Bellerio, i lingotti d'oro di Francesco Belsito, i diamanti di Rosi Mauro, i rotoli di euro dei figli di Bossi, gli appartamenti di famiglia. Perfino il bossiano più ortodosso, Gian Paolo Gobbo, segretario regionale della Lega ("Il mio imam in Veneto" dice il Senatur) allarga le braccia e ammette: "Avanti così e la Lega implode, muore. Ci mandano a casa tutti".

Sul ponte di Caorle, una specie di dazebao dei malumori locali, dove negli anni Ottanta avevo letto il primo slogan proto leghista ("Roma ne ciucia el sangue"), oggi campeggia un definitivo: "LEGA LADRONA". Quella scritta l'ha vista anche Bepi Covre, leghista eretico ma della prima ora, ex sindaco di Oderzo e fondatore con Cacciari e l'indimenticato Giorgio Lago del movimento dei sindaci anni Novanta, silurato in tandem da Bossi e D'Alema. Vado a trovarlo nella sua fabbrica, mobili e ferramenta. "Come va? Resisto. Non ho fatto un'ora di cassa integrazione. L'export tira da matti, ma il mercato interno è roba triste. Ci facciamo uno spritz?". Al secondo spritz affiora tutta l'amarezza: "Noi leghisti di antica data alla diversità ci credevamo davvero. Siamo nati quando i vecchi partiti morivano di corruzione e ora vedere questi scenari squallidi, la corte, le badanti, i profittatori, ogni giorno è una coltellata. Certo, la puzza di bruciato si sentiva da un po', c'era insofferenza nella base per quel coprire in tutto e per tutto Berlusconi. Quando è scoppiato lo scandalo dei festini io che ho una figlia dell'età di Ruby ho scritto una lettera aperta su un giornale e parecchie chiuse ai dirigenti. Ma nessuno si aspettava di scoprire tanto marcio intorno a Bossi. La Lega è stata nobile con lui quando ha avuto il colpo, l'ha aspettato, sostenuto. In qualsiasi altro partito avrebbero affilato i coltelli per la successione. E lui li ripaga così. Come andrà a finire? Chissà. Un pezzo di Lega terrà nei territori, qui in Veneto gli amministratori sono a posto, le città ben condotte, il consenso è radicato. Ma a livello nazionale il fallimento del progetto è sotto gli occhi di tutti. Bisogna ricominciare, ma stavolta le decisioni non possono essere prese tutte fra Varese e Bergamo. La nuova Lega di Maroni dovrà trattare coi veneti, a cominciare da Zaia e Tosi, e mi pare lo stia già facendo".

Nelle pieghe dello scontento riemergono antiche ferite e l'eterna vocazione autonomista del Veneto, prima regione leghista nei voti e ultima a contare nelle decisioni. "Colonizzati due volte, anzi tre, da Roma, Milano e Varese" dicono i vecchi "lighisti". Quelli che ricordano la Liga Veneta, la "madre di tutte le leghe", fondata nel 1980 e la prima a portare eletti in Parlamento. L'annessione dei fratelli maggiori veneti è stato il primo machiavellico capolavoro dell'ascesa di Umberto Bossi ed è una storia che spiega bene il trionfo del virtuale nella seconda repubblica. Il vantaggio paradossale di Bossi è stato infatti il totale sradicamento della sua idea di patria immaginaria. La Padania è un falso mito senza storia e la Serenissima ne ha troppa. I padani non sono mai esistiti, mentre i veneti sono un popolo da tremila anni e da allora si lamentano dei vicini. I lombardi sono dialetti e il veneto è una lingua da prima dell'italiano. Il sole padano è paccottiglia pseudo celtica e il Leone alato è uno dei grandi simboli della civiltà europea. Ma proprio perché se l'era inventata lui, Bossi s'è messo in tasca la Padania e se l'è venduta e rivenduta a piacere sul mercato politico, mentre i fratelli veneti s'accoltellavano sull'eredità della Serenissima.

A Gianfranco Miglio che gli consigliava il "divide et impera" in Veneto alla vigilia del primo congresso federale, a Pieve Emanuele nel 1991, Bossi che conosceva i suoi rissosi polli rispose: "Non c'è bisogno, ci pensano da soli". Per avere un'idea del grado di conflittualità interna agli autonomisti veneti, vale la pena di ricordare la loro più famosa impresa, l'occupazione del campanile di San Marco da parte dei "Serenissimi" nella notte fra l'8 e il 9 maggio 1997. Un'immagine finita sulle prime pagine di tutto il mondo. Ma pochi conoscono i retroscena, narrati da Francesco Jori, allievo di Lago, nella bellissima inchiesta "Dalla Liga alla Lega". L'operazione San Marco parte come una spedizione militare in grande stile, con decine di militanti e diversi "tanki", mezzi di trasporto paramilitari. Soltanto che alla fine si presentano in otto, con un trattore mascherato da panzer. Il capo, l'"ambasciatore serenissimo" che avrebbe dovuto leggere la dichiarazione d'indipendenza dal campanile di San Marco, si dilegua la notte stessa, rincorso dalle chiamate disperate degli altri. All'alba vengono arrestati tutti. Durante i processi litigano fra di loro e con gli avvocati, un paio si pentono e in cinque patteggiano. All'uscita dal carcere smettono di frequentarsi.

Naturalmente Franco Rocchetta e Marilena Marin, la coppia leader per un decennio, papà e mamma della Liga veneta, buttati fuori da Bossi nel '94 ("ma ce n'eravamo andati noi da sei mesi") hanno un'altra versione e me la raccontano in una trattoria di Conegliano, davanti a prosecco e baccalà d'ordinanza. "Voi giornalisti avete spiegato la fine della Liga con le solite baruffe chiozzotte, ma sono balle" spiega Rocchetta "La verità è che Bossi, con alle spalle le teorie di Miglio, vate della Lombardia come Prussia del Nord, ha tramato fin dal principio per prendersi l'egemonia del movimento. E se l'è preso manovrando i soldi del partito, esattamente come aveva fatto prima Craxi nel Psi. La Lega Lombarda era appena nata e già intascava duecento milioni di tangenti Enimont. Poi hanno dato la colpa al "pirla" Patelli, come ora cercano di fare con Belsito. Ma uno che dà la cassa di partito a uno come Belsito, perché lo fa? Non mi stupisce neppure la debolezza di Bossi nei confronti dell'amica Rosi Mauro. E' lo stesso tipo di debolezza che lo portò a nominare la ragazzotta, in seguito show girl, Irene Pivetti alla terza carica dello Stato". Marilena Marin rincara la dose: "Nel '94 Berlusconi, che ha i suoi lati comici, ci chiese che cos'era questo famoso federalismo e di fargli avere una memoria sulla faccenda. Malafede? Non credo. A lui interessava scampare ai processi e salvare le tv, per il resto era disposto a tutto, al federalismo, alla riforma fiscale, perfino al ritorno della Serenissima. In ogni caso, noi gli portammo il dossier, Bossi mai". Conclusione di Rocchetta: "A Bossi del federalismo non è mai fregato niente. E' stato al governo dieci anni e le uniche riforme federaliste le ha fatte l'Ulivo con i decreti Bassanini e la riforma del titolo V della Costituzione, soltanto che sono troppo stupidi per rivendicarla e anzi se ne vergognano. Bossi ha replicato con la devolution, che è una solenne pagliacciata".

Papà e mamma Liga avranno i loro rancori da mettere in conto, ma nel grande Nord Est i tamburi della rivolta autonomista hanno ricominciato a battere da Verona a Belluno. Se le elezioni di primavera andranno come si prevede, un crollo della Lega romanizzata in Lombardia e la tenuta della Lega dei sindaci in Veneto, anche grazie alle liste civiche che Bossi aveva proibito, Roberto Maroni dovrà tornare nella culla del leghismo a firmare un nuovo patto fra lombardi e veneti.

(18 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/18/news/veneto_tradito_bossi-33495824/


Titolo: CURZIO MALTESE. Nel Veneto tradito da Bossi Ora Maroni deve trattare con noi
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2012, 03:58:42 pm
REPORTAGE

Nel Veneto tradito da Bossi "Ora Maroni deve trattare con noi"

Sul muro dove c'erano scritte contro Roma oggi si legge "Lega ladrona" su uno striscione.

Il bossiano Gobbo non si nasconde: "Avanti così e il partito implode"

dal nostro inviato CURZIO MALTESE


TREVISO - Ogni maledetto venerdì in un'azienda del trevigiano o del vicentino o del bellunese, una delle aree più ricche d'Europa, un imprenditore aspetta che escano gli operai e la segretaria, chiude il libro contabile e apre il cassetto con la pistola o scende nel capannone e si impicca. Perché non ha più la forza di andare in piazza, al bar, a messa, di incrociare lo sguardo dell'operaio amico o del cognato impiegato senza stipendio da mesi.

Dall'inizio della crisi gli imprenditori e gli artigiani suicidi in Veneto sono cinquantadue, dodici dall'inizio dell'anno. Quasi sempre a fine settimana e fine mese, dopo l'estremo tentativo di rimettere in moto gli affari, l'ultimo sollecito di pagamento ricevuto o inviato, l'ultima inutile visita in banca. "Nelle assemblee ormai ci guardiamo intorno, chi sarà il prossimo?" dice uno dei presenti l'altro giorno a Vigonza, vicino a Padova, alla fondazione di "Speranzaallavoro", l'associazione dei familiari degli imprenditori suicidi, guidata da due giovani orfane, Laura Tamiozzo e Flavia Schiavon.

In questo clima si può immaginare come il laborioso Nord Est possa accogliere il bollettino quotidiano della padanopoli di via Bellerio, i lingotti d'oro di Francesco Belsito, i diamanti di Rosi Mauro, i rotoli di euro dei figli di Bossi, gli appartamenti di famiglia. Perfino il bossiano più ortodosso, Gian Paolo Gobbo, segretario regionale della Lega ("Il mio imam in Veneto" dice il Senatur) allarga le braccia e ammette: "Avanti così e la Lega implode, muore. Ci mandano a casa tutti".

Sul ponte di Caorle, una specie di dazebao dei malumori locali, dove negli anni Ottanta avevo letto il primo slogan proto leghista ("Roma ne ciucia el sangue"), oggi campeggia un definitivo: "LEGA LADRONA". Quella scritta l'ha vista anche Bepi Covre, leghista eretico ma della prima ora, ex sindaco di Oderzo e fondatore con Cacciari e l'indimenticato Giorgio Lago del movimento dei sindaci anni Novanta, silurato in tandem da Bossi e D'Alema. Vado a trovarlo nella sua fabbrica, mobili e ferramenta. "Come va? Resisto. Non ho fatto un'ora di cassa integrazione. L'export tira da matti, ma il mercato interno è roba triste. Ci facciamo uno spritz?". Al secondo spritz affiora tutta l'amarezza: "Noi leghisti di antica data alla diversità ci credevamo davvero. Siamo nati quando i vecchi partiti morivano di corruzione e ora vedere questi scenari squallidi, la corte, le badanti, i profittatori, ogni giorno è una coltellata. Certo, la puzza di bruciato si sentiva da un po', c'era insofferenza nella base per quel coprire in tutto e per tutto Berlusconi. Quando è scoppiato lo scandalo dei festini io che ho una figlia dell'età di Ruby ho scritto una lettera aperta su un giornale e parecchie chiuse ai dirigenti. Ma nessuno si aspettava di scoprire tanto marcio intorno a Bossi. La Lega è stata nobile con lui quando ha avuto il colpo, l'ha aspettato, sostenuto. In qualsiasi altro partito avrebbero affilato i coltelli per la successione. E lui li ripaga così. Come andrà a finire? Chissà. Un pezzo di Lega terrà nei territori, qui in Veneto gli amministratori sono a posto, le città ben condotte, il consenso è radicato. Ma a livello nazionale il fallimento del progetto è sotto gli occhi di tutti. Bisogna ricominciare, ma stavolta le decisioni non possono essere prese tutte fra Varese e Bergamo. La nuova Lega di Maroni dovrà trattare coi veneti, a cominciare da Zaia e Tosi, e mi pare lo stia già facendo".

Nelle pieghe dello scontento riemergono antiche ferite e l'eterna vocazione autonomista del Veneto, prima regione leghista nei voti e ultima a contare nelle decisioni. "Colonizzati due volte, anzi tre, da Roma, Milano e Varese" dicono i vecchi "lighisti". Quelli che ricordano la Liga Veneta, la "madre di tutte le leghe", fondata nel 1980 e la prima a portare eletti in Parlamento. L'annessione dei fratelli maggiori veneti è stato il primo machiavellico capolavoro dell'ascesa di Umberto Bossi ed è una storia che spiega bene il trionfo del virtuale nella seconda repubblica. Il vantaggio paradossale di Bossi è stato infatti il totale sradicamento della sua idea di patria immaginaria. La Padania è un falso mito senza storia e la Serenissima ne ha troppa. I padani non sono mai esistiti, mentre i veneti sono un popolo da tremila anni e da allora si lamentano dei vicini. I lombardi sono dialetti e il veneto è una lingua da prima dell'italiano. Il sole padano è paccottiglia pseudo celtica e il Leone alato è uno dei grandi simboli della civiltà europea. Ma proprio perché se l'era inventata lui, Bossi s'è messo in tasca la Padania e se l'è venduta e rivenduta a piacere sul mercato politico, mentre i fratelli veneti s'accoltellavano sull'eredità della Serenissima.

A Gianfranco Miglio che gli consigliava il "divide et impera" in Veneto alla vigilia del primo congresso federale, a Pieve Emanuele nel 1991, Bossi che conosceva i suoi rissosi polli rispose: "Non c'è bisogno, ci pensano da soli". Per avere un'idea del grado di conflittualità interna agli autonomisti veneti, vale la pena di ricordare la loro più famosa impresa, l'occupazione del campanile di San Marco da parte dei "Serenissimi" nella notte fra l'8 e il 9 maggio 1997. Un'immagine finita sulle prime pagine di tutto il mondo. Ma pochi conoscono i retroscena, narrati da Francesco Jori, allievo di Lago, nella bellissima inchiesta "Dalla Liga alla Lega". L'operazione San Marco parte come una spedizione militare in grande stile, con decine di militanti e diversi "tanki", mezzi di trasporto paramilitari. Soltanto che alla fine si presentano in otto, con un trattore mascherato da panzer. Il capo, l'"ambasciatore serenissimo" che avrebbe dovuto leggere la dichiarazione d'indipendenza dal campanile di San Marco, si dilegua la notte stessa, rincorso dalle chiamate disperate degli altri. All'alba vengono arrestati tutti. Durante i processi litigano fra di loro e con gli avvocati, un paio si pentono e in cinque patteggiano. All'uscita dal carcere smettono di frequentarsi.

Naturalmente Franco Rocchetta e Marilena Marin, la coppia leader per un decennio, papà e mamma della Liga veneta, buttati fuori da Bossi nel '94 ("ma ce n'eravamo andati noi da sei mesi") hanno un'altra versione e me la raccontano in una trattoria di Conegliano, davanti a prosecco e baccalà d'ordinanza. "Voi giornalisti avete spiegato la fine della Liga con le solite baruffe chiozzotte, ma sono balle" spiega Rocchetta "La verità è che Bossi, con alle spalle le teorie di Miglio, vate della Lombardia come Prussia del Nord, ha tramato fin dal principio per prendersi l'egemonia del movimento. E se l'è preso manovrando i soldi del partito, esattamente come aveva fatto prima Craxi nel Psi. La Lega Lombarda era appena nata e già intascava duecento milioni di tangenti Enimont. Poi hanno dato la colpa al "pirla" Patelli, come ora cercano di fare con Belsito. Ma uno che dà la cassa di partito a uno come Belsito, perché lo fa? Non mi stupisce neppure la debolezza di Bossi nei confronti dell'amica Rosi Mauro. E' lo stesso tipo di debolezza che lo portò a nominare la ragazzotta, in seguito show girl, Irene Pivetti alla terza carica dello Stato". Marilena Marin rincara la dose: "Nel '94 Berlusconi, che ha i suoi lati comici, ci chiese che cos'era questo famoso federalismo e di fargli avere una memoria sulla faccenda. Malafede? Non credo. A lui interessava scampare ai processi e salvare le tv, per il resto era disposto a tutto, al federalismo, alla riforma fiscale, perfino al ritorno della Serenissima. In ogni caso, noi gli portammo il dossier, Bossi mai". Conclusione di Rocchetta: "A Bossi del federalismo non è mai fregato niente. E' stato al governo dieci anni e le uniche riforme federaliste le ha fatte l'Ulivo con i decreti Bassanini e la riforma del titolo V della Costituzione, soltanto che sono troppo stupidi per rivendicarla e anzi se ne vergognano. Bossi ha replicato con la devolution, che è una solenne pagliacciata".

Papà e mamma Liga avranno i loro rancori da mettere in conto, ma nel grande Nord Est i tamburi della rivolta autonomista hanno ricominciato a battere da Verona a Belluno. Se le elezioni di primavera andranno come si prevede, un crollo della Lega romanizzata in Lombardia e la tenuta della Lega dei sindaci in Veneto, anche grazie alle liste civiche che Bossi aveva proibito, Roberto Maroni dovrà tornare nella culla del leghismo a firmare un nuovo patto fra lombardi e veneti.

(18 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/18/news/veneto_tradito_bossi-33495824/


Titolo: CURZIO MALTESE - La foresta dei Gattopardi
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2012, 04:57:07 pm
IL COMMENTO

La foresta dei Gattopardi

di CURZIO MALTESE

Che cos'è davvero l'antipolitica? Da mesi le forze politiche in Parlamento non trovano l'accordo invocato da tutti, dal Quirinale alle associazioni, dal primo cittadino all'ultimo di noi, per cambiare una porcata di legge elettorale invisa al 99 per cento degli italiani.
In compenso ieri, in un attimo, i partiti sono riusciti a bloccare quasi all'unanimità una piccola norma di trasparenza, l'obbligo di affidare a una società esterna il controllo delle spese dei gruppi parlamentari. Poca roba, si capisce, rispetto a quello che i partiti avrebbero potuto e dovuto fare di corsa dopo l'ondata di scandali che rischia di travolgerli, dai casi di Lusi e Belsito giù fino alle spese trimalcionesche della Regione Lazio, e cioè una vera riforma dei rimborsi elettorali e un taglio netto agli sprechi, con un severo controllo da parte di organismi terzi.

Insomma una spending review applicata ai costi della politica. Nulla di questo è avvenuto e la montagna di promesse aveva finora partorito lo sparuto topolino di una singola regola di trasparenza, per giunta applicata a una modesta fetta della torta di danaro pubblico destinata ai partiti, quella gestita dai gruppi della Camera. Ma anche questo minimo sforzo d'intercettare le richieste del Paese reale è parso al ceto politico un sacrificio troppo grande e ieri la norma ha rischiato di essere cancellata, prima dell'intervento di Fini e di Pd, Udc e Idv.
Negare l'obbligo di un controllo esterno per lasciarlo alla vigilanza degli  organi interni significa non cambiare nulla. Andare avanti com'è andata finora, ovvero malissimo.

Questa è antipolitica. Autentica, volgare e pericolosa. Quando si disprezza in questo modo la richiesta da parte dei cittadini di maggior pulizia e controllo sul danaro pubblico dato ai partiti, quando si maschera con la bandiera ideale dell'autonomia una sostanziale impunità, quando si predicano i sacrifici ogni giorno agli altri per barricarsi alla prima occasione intorno ai propri privilegi, non si rende soltanto un pessimo servizio alla democrazia e al Paese. Si pongono le basi per far saltare l'intero sistema politico, le fondamenta stesse del patto di rappresentanza fra cittadini e partiti. Che razza di professionisti della politica sono questi, in grado di trovare l'unanimità su scelte oggettivamente odiose, ma incapaci di raggiungere un accordo sulle riforme chieste a gran voce dall'intera opinione pubblica?

Viene quasi da chiedersi se non vi sia una logica in questa follia. Se una classe dirigente di gattopardi allergici al cambiamento non abbia deciso di blindarsi a palazzo, nel calcolo che comunque il movimentismo di Grillo non esprimerà mai un'alternativa di governo per una grande nazione, ma al massimo uno sfogatoio ai rancori accumulati da pezzi di società. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia catastrofica.

Occorre sperare che non sia vero. Sperare di trovarci di fronte all'ennesimo richiamo della foresta di sorde burocrazie di partito e vecchi gruppi dirigenti che hanno perso il contatto con la realtà, la volontà e i sentimenti dei cittadini. Credere che il ripensamento di alcuni partiti, il Pd, l'Udc, l'Idv, sia la sincera ammissione di un errore e non una retromarcia da opportunisti. Ma al solito, perché non ci avevano pensato prima? Non si pretende che la politica arrivi sempre prima della società. Per quanto proprio in questo consista la buona politica.
Ma neppure si può rassegnarsi all'idea che arrivi ogni volta molto dopo, quasi sempre troppo tardi e per giunta con l'aria di chi è trascinata a forza verso soluzioni chiare e oneste, cui naturalmente sfuggirebbe come il diavolo davanti all'acquasantiera. Non bastassero ogni mese un nuovo scandalo e un altro rinvio delle leggi contro la corruzione per alimentare cattivi pensieri e pessimi populisti.

(19 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/19/news/foresta_gattopardi-42818012/?ref=HRER1-1


Titolo: CURZIO MALTESE Cinque sfidanti, un vincitore
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2012, 05:45:54 pm
IL COMMENTO

Cinque sfidanti, un vincitore

Per la prima volta il Pd ha dato l'impressione di aver identificato un campo di valori condivisi da tutti, il comune denominatore che sembrava mancare ai tempi dei duelli fra Veltroni e D'Alema

di CURZIO MALTESE


IL VERO vincitore del confronto televisivo è stato il Partito democratico che esce dalla campagna per le primarie con un'immagine nuova. Per il primo partito italiano, finalmente un'immagine moderna e perfino compatta. L'altra sera i cinque candidati erano o sembravano d'accordo su tutto o quasi, comunque molto di più di quanto immaginassero i cittadini abituati a considerare il Pd delle cento anime e altrettante correnti, in perenne rissa. Erano d'accordo contro, che è più facile. Contro Marchionne e il ministro Fornero, contro la rincorsa al centro di Casini, al quale soltanto Bersani ha lasciato aperto uno spiraglio. Ma erano d'accordo anche a favore, per esempio a favore delle unioni gay e di una riforma del mercato del lavoro per favorire l'inserimento di donne e giovani. Naturalmente rimangono le differenze e sono diverse le storie. Ma per la prima volta il Partito democratico ha dato l'impressione di aver finalmente identificato un common ground, un campo di valori condivisi da tutti, il comune denominatore che sembrava mancare ai tempi dei duelli rusticani fra Veltroni e D'Alema o degli scontri ideologici, soprattutto sul tema dei diritti civili, fra ex democristiani e post comunisti. Tanto che non si capisce perché Nichi Vendola ne rimanga ancora fuori. In fondo il radicalismo del governatore della Puglia è meno distante dalla linea di Bersani di quanto non lo siano le ali estreme del Labour o dei socialisti francesi e tedeschi dai rispettivi leader. Senza contare che dentro il Pd l'intelligenza politica e la passione di Vendola potrebbero avere effetti molto positivi.

Piaccia o meno, magari per demeriti altrui più che per meriti propri, il Pd è oggi l'unica realtà solida in un panorama di partiti devastato dalla crisi. È l'unica forza che assomiglia a un partito classico delle democrazie occidentali. Non è un partito padronale all'italiana, come tutti gli altri, i vecchi e incistati al potere e i nuovi presunti alternativi. Dall'Idv, dove Di Pietro è il padrone di casa, alla lettera, al Movimento 5 Stelle, dove ormai Grillo sguinzaglia contro i dissidenti torme di avvocati a tutelare il marchio depositato, manco fosse la Nestlè o la CocaCola. Ma finora l'assenza di una personalità carismatica di demiurgo era vissuta dagli elettori come una carenza, l'indizio di una mancanza di personalità del Pd, simbolo di un indistinto spirito democratico che non era né questo né quello, né socialista né liberal, imprigionato nelle pesanti e in qualche modo inconciliabili eredità del Pci e della sinistra democristiana. Ma se perfino Tabacci riconosce i diritti civili degli omosessuali, se Vendola si apre alle ragioni della libera impresa, allora significa che esiste un'anima del Pd capace di imporsi ai singoli candidati e delimitare un territorio comune.

Certo, il Pd è stato molto favorito dal format del dibattito di Sky. Il confronto all'americana dell'altra sera sta a quella che sarà, si spera, la nuova politica esattamente come il talk show padronale degli ultimi vent'anni è stato ai partiti azienda e ai loro leader carismatici. Lo stesso Grillo sfrutta benissimo la simpatia dei conduttori per le personalità autoritarie. Vieta i talk show ai militanti perché sa di potervi andare quando e soprattutto come vuole, senza contraddittorio. Ma se si affermasse il modello Sky, sarebbe complicato anche per l'ultimo padrone della politica italiana rifiutare il confronto.

L'unico lato oscuro dello spettacolo democratico dell'altra sera è la reale possibilità dei candidati premier del centrosinistra di governare alla fine il Paese. La storia degli ultimi decenni è andata da un'altra parte. Dal '92 a oggi abbiamo avuto soltanto due politici puri a palazzo Chigi, Massimo D'Alema e Giuliano Amato. Il primo non è stato rimpianto da nessuno e il secondo si era presentato con la maschera del governo tecnico. Per il resto, da Berlusconi a Prodi, da Ciampi a Monti, si è ormai affermata l'idea che la politica non sia più capace in proprio di esprimere uomini di governo come nelle altre democrazie. Fra tutte le anomalie del sistema politico italiano, questa è la più difficile da risolvere. Diciamo la verità, la più motivata.

(14 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/primarie-pd/edizione2012/2012/11/14/news/cinque_sfidanti_un_vincitore-46595787/?ref=HRER2-1


Titolo: CURZIO MALTESE Destra e sinistra pari non sono
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 11:38:04 am
Destra e sinistra pari non sono

di CURZIO MALTESE

Si sperava che la salita in politica di Mario Monti fosse, a partire dalla scelta delle parole, l'esatto contrario della discesa in campo di vent'anni fa. Un'azione in grado di elevare il tasso di modernità, concretezza e stile europeo nella lotta politica italiana, avvinghiata a furori ideologici d'altri tempi. Spostare insomma il centro del dibattito dall'eterno "chi" all'attuale "che cosa".

La speranza per ora è vana. Il Monti leader ha riscoperto il politichese e parla con il linguaggio di un vecchio democristiano. Con in aggiunta un po' di sussiego professorale.

Monti non dice che cosa bisogna fare per uscire dalla crisi, ma chi lo deve fare, ovviamente lui, e chi deve stare fuori. L'elenco è piuttosto lungo, dall'esperto di economia del Pd, Stefano Fassina, alla Cgil di Susanna Camusso, passando per Sel di Nichi Vendola. Il compito assegnato a Bersani, in vista di un'alleanza del centro con il Pd, è di "tagliare le estreme". Dev'essere una versione aggiornata del preambolo di Donat Cattin, se non che i dorotei mai avrebbero usato il termine "silenziare".

Quanto alla concretezza, Mario Monti si richiama all'agenda omonima, si definisce riformista e tanto basta. Peccato che non basti affatto. Riforme e ora anche "agenda Monti" sono parole che non significano nulla. Ormai anche gli amministratori di condominio, all'atto dell'insediamento, si dichiarano riformisti. Da un ventennio il riformismo è sulla bocca di tutti i leader politici italiani, nessuno escluso, e di riforme non se n'è vista l'ombra. Non si può neppure più ascoltare la retorica del "sinistra e destra ormai non esistono più". La destra esiste eccome, nessuno lo sa meglio degli italiani che l'hanno sperimentata al governo per molti anni, con i risultati noti. Ed esiste perfino la sinistra, anche se non sembra, tanto che Monti la vuole "silenziare". Chi sostiene che destra e sinistra non esistono più di solito è di destra, ma non lo vuole ammettere.

Se la salita in campo di Monti doveva servire a riciclare tutti i luoghi comuni dell'ultimo ventennio politico, il professore poteva risparmiarsela. Soprattutto poteva risparmiarla a una nazione che di luoghi comuni sta morendo. Da due decenni l'Italia politica si accapiglia su nominalismi e personalismi ridicoli, mentre il resto del mondo marcia a una velocità pazzesca e le mappe del potere e della ricchezza sono cambiate più che nel secolo precedente.

Da un premier che ha saputo risollevare e modernizzare l'immagine dell'Italia all'estero non ci aspettiamo un'altra lista con nome e cognome e l'ennesima raffica di slogan senza senso, ma finalmente una visione chiara del futuro del Paese. Che cosa fare con tasse, salari, pensioni, rendite, banche, politica industriale, istruzione e ricerca. Roba vera, concreta.

È tempo di scelte che possono essere, quelle sì, di destra o di sinistra. Il professor Monti dovrebbe comunicare agli elettori quali sono le sue. Altrimenti poteva rimanere sereno nel suo seggio di senatore a vita a Palazzo Madama, aspettare un'investitura al Quirinale e lasciare il compito di guidare il centro a Casini, che è un democristiano doc e a non scegliere è bravissimo anche da solo. Come testimonia del resto una lista centrista che va politicamente da Fini agli ex comunisti, socialmente dal salotto di Montezemolo alla comunità di Sant'Egidio.

(04 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/04/news/destra_e_sinistra_pari_non_sono-49883032/?ref=HREA-1


Titolo: CURZIO MALTESE Gli errori del Pd nell’incubo di Lost
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:43:42 pm
Gli errori del Pd nell’incubo di Lost
   
di Curzio Maltese, da Repubblica, 26 Febbraio 2013


«Le elezioni? È come il finale di Lost, la serie tv. Non si capisce niente, ma probabilmente sono tutti morti». Tutto è perduto fra i militanti milanesi del Pd.

Tra i militanti venuti sotto la sede del Pirellone a festeggiare la presa del palazzo d’inverno, e tornati a casa mesti e pesti, tutto è perduto ma non il senso dell’umorismo. L’abitudine alla sconfitta allevia la delusione, comunque bruciante. La Lombardia sembrava l’Ohio e invece rimane il Texas d’Italia, l’inattaccabile roccaforte della destra. Berlusconi ha vinto ancora, nonostante gli scandali, gli arresti, la catastrofe finale del sistema formigoniano, e quindi non poteva perdere nel resto d’Italia. Per il risultato del voto regionale, bisognerà aspettare questa sera. Ma l’esito delle politiche lascia poche speranze all’avvocato Ambrosoli.

Forse si tornerà a votare presto. Ma un’occasione come quella appena persa, in Lombardia e quindi in Italia, è difficile che torni per Bersani e compagni. Perfino la Borsa aveva festeggiato sull’onda dei sondaggi la vittoria della sinistra. E da oggi è pronta invece a speculare, come tutte le altre piazze del mondo, sull’ingovernabilità del Paese.

Naturalmente non è soltanto questione di Milano o di Lombardia. Ma è sul voto del Nord, dove ancora una volta si è schiantata l’ennesima gloriosa macchina da guerra, che si misura il ritardo della sinistra. L’incapacità di intercettare i mutamenti culturali, politici, sociali nelle aree più ricche e avanzate del Paese.

È facile ora elencare gli errori di una campagna sottotono, ma visto che ne abbiamo scritto mentre si svolgeva, forse si può ripetere qualche banale concetto. Primo, non s’è mai vista una forza politica vincere le elezioni senza riuscire a occupare il centro della scena elettorale. All’inizio la sinistra ha subito l’invasione mediatica di Berlusconi, alla fine quella di Grillo. In mezzo non ha saputo elaborare concetti forti, visioni chiare del Paese, parole d’ordine in grado di garantire visibilità. C’entra di sicuro l’antica diffidenza, mista a disprezzo, nei confronti del mezzo televisivo. Da decenni i dirigenti della sinistra cullano l’idea bizzarra che la «televisione non conta» e considerano di conseguenza il carisma un vizio dell’anima. E invece l’Italia continua a essere un paese ipnotizzato dalla televisione e succube delle star televisive. Se poi uno davvero crede che le piazze contino più della televisione, almeno non dovrebbe cedere a Grillo le più simboliche d’Italia.

Un secondo errore, fatale al Nord, è stata la drammatica sottovalutazione della questione fiscale. Gli italiani sono stanchi di essere massacrati da aliquote scandinave e il Pd non ha offerto chiare soluzioni al problema. Paradossalmente, Berlusconi e Grillo, con le polemiche su Equitalia e l’Imu e le giustificazioni all’evasione, hanno fatto il pieno di voti in due campi teoricamente nemici: i tartassati e gli evasori fiscali. Ai messaggi furbi, cialtroneschi fin che si vuole, ma terribilmente efficaci dei demagoghi in campo, la coalizione di sinistra ha risposto con vaghe promesse di piccoli aggiustamenti tecnici, non del tutto comprensibili neppure ai commercialisti.

Il terzo errore, sempre più visibile al Nord, è stata la rapida archiviazione del rinnovamento delle classi dirigenti. Dopo la vittoria delle primarie, il gruppo dirigente intorno a Bersani ha pensato che la rottamazione fosse una moda passeggera. Nella campagna elettorale del Pd hanno ripreso voce e visibilità vecchi leader, dalla Bindi a D’Alema, in predicato di diventare ministro. Le liste erano piene di facce troppo note. Il tutto è stato interpretato da un bel pezzo di elettorato come una presa in giro.

Il risultato finale di una strategia grigia è stato altrettanto mediocre. Una mezza vittoria o una mezza sconfitta, dipende dai punti di vista. In ogni caso la conferma che questa guida del centrosinistra non è in grado di sfondare nelle aree decisive del Paese e non è capace
d’intercettare un solo voto oltre i propri confini naturali, neppure quando tutto un sistema intorno sta crollando. Anzi, a fare bene i conti, non è più tanto in grado di mantenere integro il proprio zoccolo duro di elettori. Quelli che ieri erano andati a festeggiare e sono tornati a casa in silenzio, senza aver capito niente, ma con il sospetto che siano tutti morti.

(26 febbraio 2013)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-errori-del-pd-nell%E2%80%99incubo-di-lost/


Titolo: CURZIO MALTESE Grillo, permette una domanda?
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 12:11:45 am
   
Grillo, permette una domanda?

di CURZIO MALTESE

A Berlusconi abbiamo fatto per anni tante domande, senza successo. A Grillo oggi se ne può rivolgere una sola. Questa: ma perché non consulta la sua base sull'eventuale alleanza col centrosinistra?

Beppe Grillo ha detto alla stampa tedesca che vuole far decidere la permanenza o l'uscita dall'euro dell'Italia attraverso un referendum on-line. Sarebbe una scelta storica, con conseguenze colossali e forse catastrofiche per la vita del Paese e l'economia europea, mondiale. Ma, spiega Grillo, queste sono le regole della nuova democrazia nell'era di Internet, dove non ci sono leader, uno vale uno e su tutte le decisioni, anche le più gravi, bisogna consultare direttamente la base attraverso il voto on-line. Benissimo. E allora perché non chiedere alla base degli elettori M5S, con un referendum, se vogliono o non vogliono allearsi per pochi mesi con il Pd allo scopo di approvare in Parlamento qualche urgente riforma, peraltro contenuta nei loro programmi?

Grillo, Casaleggio e tutti i cantori della democrazia on-line ammetteranno che si tratta di una scelta molto meno importante rispetto all'abbandono della moneta europea. Si tratta semplicemente di votare un accordo a termine, con pochi punti programmatici, dal quale si può recedere in qualsiasi momento, facendo mancare la maggioranza col voto di sfiducia, nel caso in cui gli impegni non vengano rispettati. Poca cosa davvero, al confronto di una drammatica uscita dall'euro, una strada dalla quale l'Italia non potrebbe mai più tornare indietro. E dunque, che cosa aspettano?

In questi giorni non si parla d'altro che di questo, fra italiani. Quelli che hanno votato Grillo e quelli che hanno votato centrosinistra o centrodestra. La domanda è una sola: che faranno adesso Grillo e Casaleggio? Ma perché Grillo? Perché Casaleggio? Non sono i leader, contano come qualsiasi altro, non si sono neppure fatti eleggere.

Il movimento 5 Stelle è nato per tornare a far contare i semplici cittadini, per restituire loro il potere decisionale usurpato dall'orrida partitocrazia. Quindi, di fronte alla prima importante scelta del movimento, dovrebbe essere naturale ricorrere alla consultazione on-line della base. Così come si è fatto per le parlamentarie. Se si è deciso in questo modo chi doveva andare in Parlamento, non si capisce perché non si debba sottoporre ai cittadini le prime scelte degli eletti. Grillo stesso se l'è appena presa con l'articolo 67 della Costituzione, sul libero mandato, sostenendo con qualche approssimazione democratica, che in questo modo i deputati e i senatori sono liberi di tradire il mandato degli elettori. Ha parlato di "circonvenzione di elettori". Ma qual è il mandato? Chi lo stabilisce, Grillo o gli elettori stessi? Come fa Grillo a sapere, senza consultare nessuno, che gli elettori non vogliono l'alleanza col centrosinistra?

Chi scrive ha naturalmente una risposta prevenuta su tutto questo. Grillo e Casaleggio non lanciano la proposta di consultare la base del movimento sull'alleanza col centrosinistra perché, semplicemente, perderebbero. Due elettori del M5S su tre, forse di più, sono favorevoli a un accordo a termine per portare a casa qualche risultato immediato. Ripeto: Grillo e Casaleggio perderebbero. Quindi la consultazione non si fa, non se ne parla nemmeno. La democrazia della rete, la regola uno vale uno, la volontà dei cittadini sono tutte balle, nuova retorica, in realtà vecchissima, per sdoganare un altro partito padronale all'italiana, dove conta quello che decidono Grillo e Casaleggio, nelle belle ville un po' troppo vicine alle spiagge per degli ecologisti convinti, emettendo di tanto in tanto il comunicato numero 56 o 57 ai fedeli. Come la pensano davvero i fedeli, e magari anche gli eletti, non conta un accidente.

Ma questa è la versione prevenuta di un giornalista mascalzone, servo dei partiti che stranamente ha passato la vita a criticare. Quindi non vale. Sarebbe più interessante conoscere a questo punto la verità, dai soli detentori di verità autorizzati, i leader, pardon: i portavoce del Movimento. Qualcuno vuole rispondere a questa banale domanda: perché non vogliono fare un referendum on-line sulla proposta di governo del Pd? La domanda è rivolta a Grillo e Casaleggio, in primis. Che non risponderanno, perché sono troppo furbi per farlo, come lo era Berlusconi. Ma il grande Dario Fo, padre culturale del movimento, magari potrebbe farlo. O Stefano Benni o uno dei tanti stimabili simpatizzanti del movimento. O la stessa base, gli elettori del Movimento 5 Stelle, che Grillo non consulta, ma dei quali a noi di Repubblica interesserebbe moltissimo conoscere l'opinione su questo tema. Qualcuno insomma in grado di chiarirci questo paradosso. Sì al referendum sull'euro, no al referendum sull'alleanza col centrosinistra. Qual è il problema? Le masse sono mature per scegliere se uscire dall'Europa, ma non abbastanza da decidere se accettare gli otto punti del Pd? In fiduciosa attesa, grazie.

(08 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/08/news/domanda_a_grillo-54089868/


Titolo: CURZIO MALTESE Ast: manganelli e prese per i fondelli
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:27:55 am
Ast: manganelli e prese per i fondelli
Pubblicato: 06/11/2014 20:20 CET Aggiornato: 3 ore fa
AST

C'è qualcosa che può fare più male di una gragnuola di manganellate ed è la cinica presa in giro messa in atto l'altro giorno a Bruxelles dai 73 eurodeputati italiani, fra i quali chi scrive, ai danni dei lavoratori delle acciaierie di Terni. Dopo le cariche di Roma, era partita l'idea dalla presidenza della regione Umbria di far incontrare una delegazione di lavoratori Ast con gli europarlamentari italiani, in parte per emendare l'ignobile episodio e in parte per riportare all'attenzione del parlamento di Bruxelles le ripetute violazioni delle norme comunitarie da parte della Thyssen. Gli operai si sono sorbiti 40 ore di pullman, fra andata e ritorno, per il piacere di incontrare una foltissima rappresentanza guidata dai due vice presidenti del parlamento europeo, Antonio Tajani e David Sassoli, Forza Italia e Pd, e per sottoporre agli eurodeputati nazionali una letterina di una decina di righe, assai cauta nei toni, di sostegno alla vertenza dei lavoratori e per il mantenimento di produzione e posti di lavoro. Con la preghiera di far uscire la presa di posizione prima dell'incontro di ieri fra sindacati, esponenti della Thyssen e il ministro Guidi.

È seguita davanti alle telecamere e ai taccuini una sfilata commovente e unanime d'interventi solidali, dalla destra alla sinistra, da Forza Italia, in testa lo stesso Tajani (il quale pure da commissario dell'industria non ha mai mosso un dito per difendere l'acciaio italiano) e Sassoli, ma poi senza distinzione di parte politica: grillini e alfaniani, il leghista Mario Borghezio come il capo dei socialisti europei Pittella, fino naturalmente alla lista Tsipras. Tutti si sono detti disponibili a firmare fin da subito la lettera di solidarietà congiunta e anzi molti, soprattutto Pd e Forza Italia, si sono complimentati per l'uso di toni moderati e quasi tecnici che avrebbe favorito il massimo grado di consenso. Molti hanno poi abbrancato operai singoli o gruppi per i selfies da mettere sul sito. Nessuno ha chiesto di cambiare una virgola del testo. Chi ha provato a mettere in dubbio la sincerità del presepe ("Ma com'è che con il 100 per cento di consenso dei politici contro i licenziamenti siamo arrivati a questo punto?") è stato immediatamente zittito dalla presidenza congiunta.

Ripartiti i lavoratori alla volta di Terni, per altre venti ore di viaggio, sono successe le seguenti cose. 1) Le lettera di solidarietà ai lavoratori di Terni è sparita dai radar di Bruxelles per ventiquattr'ore, il tempo perché si svolgesse l'incontro del governo con sindacati e azienda senza disturbare i manovratori. 2) La nota ex presentatrice Elisabetta Gardini ha chiesto e ottenuto da Tajani e Sassoli di censurare il testo concordato nei passaggi in cui si nominava la Thyssen, il mancato pagamento degli stipendi di ottobre, le violazioni di norme comunitarie e l'espressione "no ai licenziamenti". La versione Gardini è stata volentieri accettata dai maggiori capigruppo, che hanno anche eliminato dal testo originale la brutta espressione "governo" e sostituito il "no ai licenziamenti" con un più carino e democristiano "auspichiamo il mancato licenziamento". La versione Gardini è stata insomma accolta in toto. Tu pensa chi ci dà la linea in Europa. 3) La nuova lettera epurata è stata firmata da tutti i parlamentari dei gruppi maggiori, con l'eccezione di Sergio Cofferati, il cui sintetico commento alla capogruppo Toja è stato: "È un'indegna presa per il culo dei lavoratori, non la firmo nemmeno morto". 4) Nessuno ha ovviamente avvisato delle modifiche al testo i sindacati e i lavoratori, i quali soltanto a destinazione hanno scoperto di essersi fatti due giorni di pullman per nulla. Poi si lamentano che la gente non ha fiducia nei politici. Davvero, le manganellate in fondo non sono più oneste?


Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/ast-manganelli-prese-fondelli_b_6115846.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Curzio Maltese. Il 40,8% è solo un'eccezione, Renzi non arriverà al 2018
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:37:36 pm
Il 40,8% è solo un'eccezione, Renzi non arriverà al 2018
Pubblicato: 02/06/2015 16:49 CEST Aggiornato: 02/06/2015 16:49 CEST

Curzio Maltese

Resisterà Matteo Renzi fino al 2018? Ognuno ha letto il voto regionale come ha voluto, ma su un punto tutti i commenti concordano: nelle urne è sparito il Partito della Nazione. In meno di un anno è fallito il principale progetto politico del renzismo.

Ed è fallito nelle migliori condizioni per cui si realizzasse, in assenza di una qualsiasi alternativa. Contro un centrodestra confuso e suonato come il Berlusconi che a Segrate chiede il voto per il sindaco avversario, un centrodestra che non può più contare sulla bussola di un berlusconismo morto e sepolto e non potrà mai essere guidato dal lepenismo in salsa padana di Salvini.

È fallito contro un Movimento 5 Stelle che, dietro l'alibi della purezza, ha dimostrato ancora una volta di non voler governare mai e da nessuna parte, dopo l'incubo e lo choc della Parma di Pizzarotti. Ed è quindi destinato, prima o dopo, a esaurirsi, come sarebbero spariti Syriza e Podemos se invece di governare le grandi città greche e spagnole grazie ad alleanze improntate alla real politik avessero sposato la linea purista e settaria del "noi contro tutti".

Ho sempre pensato che Renzi, preso il Pd al 25 per cento, l'avrebbe portato al 35 (in realtà il 41), ma l'avrebbe lasciato al 15, o forse meno. Le qualità personali del leader, sulle quali in Italia è fiorita in pochi mesi un'ampia e spesso ridicola letteratura, c'entrano poco. La crisi dei partiti socialisti è un processo che riguarda tutta Europa da molti anni. Il clamoroso successo del Pd di Renzi alle europee l'anno scorso, quel 41 per cento figlio di molte circostanze favorevoli, era soltanto l'eccezione.

Nel resto d'Europa le social democrazie sono tutte in rotta, alcune si sono quasi estinte, laddove l'austerità ha colpito più duro, come il Pasok in Grecia; altrove hanno dimezzato i consensi, come in Spagna; oppure sono diventati stabilmente alleati della destra al governo, come in Germania. In Gran Bretagna i laburisti non riescono a rimontare la china e in Francia i socialisti governano a dispetto di un'opinione pubblica che non vede l'ora di mandarli a casa.

La tanto celebrata Terza Via di Blair, Schroeder, Zapatero e altri, ovvero la conversione delle social democrazie ai dogmi liberisti, ha lasciato ai successori queste macerie. L'austerità voluta dalla Merkel si è dimostrata un pessimo piano economico, perché non ha ottenuto nessuno dei risultati dichiarati, dal rilancio dell'economia e dell'occupazione al contenimento del debito pubblico. Ma in compenso s'è rivelato un geniale strumento politico, perché attaccando la grandiosa costruzione del welfare ha tolto dai piedi dell'avversario politico, la social democrazia, la base sociale.

Quello che possiamo chiamare il suicidio socialista in Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Grecia si è realizzato nell'arco di un ventennio. In Italia è cominciato in ritardo, come tutto, ma rischia di compiersi in pochissimo tempo e non solo per colpa di Renzi. Tutto è infatti cominciato con le scelte suicide di Pierluigi Bersani. Se nel 2011, al crollo del ventennio berlusconiano, il Pd di Bersani avesse trovato il coraggio di andare al voto con un deciso programma anti austerità, avrebbe di sicuro vinto e governato. Al contrario ha preferito caricarsi sulle spalle due anni delle politiche sbagliate e recessive di Mario Monti, tele comandate dalla trojka, e sotto quel peso è stato alla fine schiacciato. L'elettorato del Pd, che da sempre è assai più a sinistra dei propri dirigenti, ha punito l'errore di Bersani con il plebiscito a Renzi, votando il nuovo senza neppure conoscerlo. E per la stessa ragione, l'amor di novità, milioni d'italiani hanno votato Renzi (lui, non il Pd) alle europee. Senza conoscerne davvero i programmi.

Dopo il trionfo delle europee il nuovo partito, il PdR (copyright Ilvo Diamanti) ha finalmente rivelato agli elettori la sua essenza, quindi non lo votano più. Il PdR è una strana creatura, un ircocervo della politica, come direbbe Eugenio Scalfari. Un partito sedicente di sinistra che coltiva come bersagli principali il sindacato, lo statuto dei lavoratori e gli stessi lavoratori dotati ancora di qualche garanzia, gli insegnanti, i pensionati, insomma lo storico blocco sociale della sinistra. A questo "vecchiume da rottamare" non contrappone nessun mito, sogno o visione dell'Italia, Soltanto l'urgenza ineluttabile di controriforme liberiste volute dalla signora Merkel e già sperimentate con risultati catastrofici in tutto il Sud Europa, in Grecia, Portogallo e Spagna.

Oltre a questo, il PdR si segnala per l'offerta di una classe dirigente mediocre perfino per i bassi parametri italiani, priva di fascino e di prestigio in Europa. Guardate l'immagine di Renzi e Orfini che giocano alla playstation in attesa della batosta elettorale. E' un'immagine che vorrebbe comunicare forza e serenità, e invece trasmette un'inquietante sensazione di fragilità e dilettantismo. Com'è successo che una grande nazione che avrebbe bisogno d'essere guidata da un genio di politiche industriali per uscire dal proprio declino, si sia invece consegnata a un adolescentone simpatico quanto superficiale che trascorre la gran parte della giornata a giocare con le più sciocche e inutili invenzioni del nostro tempo, da twitter al selfie?
Il PdR, il partito nuovo, ha perso domenica scorsa.

Il Pd della vecchia guardia da rottamare, Emiliano, Rossi, De Luca, che con Renzi, nel bene e nel male, non c'entra nulla, quello ha vinto. Ha perso il renzismo da rotocalco e talk show di Alessandra Moretti, umiliata dal voto veneto, e quello ossessionato dalla polemica a sinistra di Lella Paita, che fra un po' darà a Pastorino anche la colpa dell'alluvione, piuttosto che interrogarsi sul perché abbia perso oltre la metà dei voti di Burlando.

E veniamo alla risposta: Renzi non arriverà al 2018. Sarà fatto fuori prima, dall'alto o dal basso. Dall'alto quando avrà finito il lavoro per cui l'hanno messo lì i poteri nazionali e internazionali garantiti da Napolitano: abbattere i diritti del lavoro, licenziare centinaia di migliaia di statali, tagliare salari e pensioni e stravolgere la costituzione antifascista, ormai incompatibile con le politiche di austerità, come scrisse tempo fa JP Morgan. A quel punto il giovane aspirante principe fiorentino, ormai impopolare, farà la fine di Monti, Letta e di tanti fantocci descritti dal Machiavelli: immolato sulla pubblica piazza. Magari per spianare la strada a un vero e serio progetto conservatore, guidato da Mario Draghi.

Renzi potrebbe essere fatto fuori anche dal basso, nel caso in cui alla sua sinistra si facesse la cosa semplice che hanno fatto Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, ovvero lasciar perdere le velleità da rivoluzionari di salotto, copiare con la carta carbone i programmi della più classica social democrazia e offrire rappresentanza al blocco sociale abbandonato dal vecchio centrosinistra. Ma la sinistra della sinistra, con i suoi ego arroventati, la sua ridicola contrapposizione in sedicesimo fra politica e antipolitica, con una minuscola società civile fieramente contrapposta a dei minuscoli partitini, sembra per ora molto lontana da una simile prospettiva.

DA - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/matteo-renzi-elezioni_b_7492976.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Curzio Maltese. Merkel e Renzi e il silenzio della socialdemocrazia
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:29:11 pm
Merkel e Renzi e il silenzio della socialdemocrazia

Pubblicato: 03/07/2015 15:22 CEST Aggiornato: 03/07/2015 15:22 CEST

Nel rapido processo di berlusconizzazione, Matteo Renzi ha trovato il suo Bush, per dire il protettore internazionale, in Angela Merkel. L'adozione a distanza del nostro premier da parte della cancelliera è ormai cosa fatta. I media celebrano l'idillio fra "Angela e Matteo" come un tempo l'amicizia fra Silvio e George W.

All'epoca, con quattro complimenti all'impettito comparuccio italiano, perfino quello comico sull'"ottimo inglese", Bush trascinò l'Italia nelle insensate guerre mediorientali. Ora, con un paio di pacche sulle spalle Angela Merkel ha convinto l'alunno Renzi a mettersi in fila nello spezzare le reni alla Grecia e si è garantita una subalternità dell'Italia alla Germania come non si era mai vista nella storia dell'Unione.

Arruolato all'ultimo momento, dopo essere sempre stato escluso dai vertici sul caso greco, il vassallo si è dimostrato più realista della regina. Merkel, e Draghi non direbbero mai una sciocchezza falsa come "i greci sono chiamati a votare fra euro e dracma", anche se è quanto vogliono far credere al popolo greco. Lo fanno dunque dire a Renzi, che non ha problemi di decenza istituzionale e in più rappresenta il secondo paese d'Europa più danneggiato dalle politiche di austerità, cioè in teoria quello che dovrebbe essere più solidale con la Grecia.

Ora, a parte che il premier italiano farebbe bene a toccare ferro - visto l'esito delle precedenti investiture della cancelliera a Monti e Letta - questo nuovo asse Roma-Berlino lascia ancora più perplessi del precedente Arcore-Texas.

Non soltanto per l'evidente tono coloniale dell'intesa. Siamo abituati da italiani a mettere da parte l'orgoglio e a considerarci una nazione di seconda fila che esprime a getto continuo classi dirigenti provinciali e servili, troppo gratificate dall'esser prese (per finta) sul serio dai leader mondiali per badare alla cura degli interessi nazionali.

Ma, mentre l'intesa Bush-Berlusconi corrispondeva almeno a un'affinità politica, qui siamo al trasformismo puro. Il capo del più grande partito social democratico d'Europa e la leader dei conservatori non dovrebbero almeno fingere di essere un po' alternativi? Perché dar ragione così platealmente agli odiati populisti, per i quali destra e sinistra non esistono, se non come unica casta al servizio della grande finanza e dei poteri forti?

Intendiamoci, nella lunga trattativa fra istituzioni e Grecia, così come in tutte le grandi questioni che agitano il continente, l'intera socialdemocrazia europea (non solo il Pd) è stata la grande assente. Soltanto tre o cinque anni fa i programmi di socialisti e popolari sull'Europa si potevano considerare ancora alternativi.

I socialisti tedeschi, francesi, italiani, spagnoli chiedevano a gran voce gli eurobond, l'unione fiscale e bancaria, il ritorno degli investimenti pubblici in economia, l'integrazione delle politiche sull'immigrazione, la difesa dei beni comuni, eccetera. Ora tutte queste vere riforme sono sparite dalle loro agende, sostituite dalle riforme liberiste che piacciono tanto alla signora Merkel e alla Bce.

A voler essere appena onesti e obiettivi, e non è più il caso dell'informazione dominante, si dovrebbe riconoscere che Syriza e Podemos si sono limitati a colmare questo vuoto, che i loro programmi somigliano molto meno ai vecchi programmi dell'estrema sinistra di quanto non ricordino le tradizionali ricette socialdemocratiche dell'Spd o del Psf o del Psoe di qualche anno fa, per non parlare dei socialisti scandinavi e perfino dell'Ulivo di Romano Prodi. Per contro, non stupisce che il governo Renzi sia oggi considerato troppo di destra finanche da una democristiana progressista come Rosi Bindi.

Ma in pochi anni, il laboratorio secolare della socialdemocrazia europea si è spento. Il silenzio dei socialisti europei, il disorientamento, l'irrilevanza, la subalternità di questa grande famiglia politica di fronte alle sfide del nuovo mondo ha qualcosa d'impressionante. Ricorda la crisi di senso che colse l'eurocomunismo dopo la caduta del muro di Berlino. Dopo il comunismo, sta scomparendo anche la socialdemocrazia? Sembra proprio di sì.

Così, al volo, quale elettore saprebbe dire qual è la differenza, se esiste, fra socialisti e conservatori sulle maggiori questioni che l'Europa ha di fronte? Dal caso greco all'immigrazione, dalla lotta alla povertà al ruolo della Bce, dal piano Juncker (che fine ha fatto?) al Ttip, dalle privatizzazioni alla riforma del sistema bancario, per non parlare della politica estera, dall'Ucraina alla minaccia dell'Isis, la verità è che i partiti di centrosinistra in Europa non hanno nulla di originale da dire e sono in definitiva grati alla signora Merkel che almeno fornisce loro una linea.

Il fatto poi che questa linea, anzi questa teologia dell'austerità, fallita in Grecia e ovunque, sia ormai considerata folle da uno stuolo di premi Nobel dell'economia e rischi di distruggere in un decennio mezzo secolo di faticosa costruzione dell'idea d'Unione, tutto questo è considerato del tutto marginale. Almeno la Merkel ha una visione e un progetto politico, per quanto nefasto, mentre i socialisti non sono più in grado di elaborare un pensiero critico e originale su quasi nulla. I più estremismi, per spiegare la loro idea di società, rimandano alle encicliche del papa.

L'estinzione del pensiero socialista si è manifestata nell'acefala presenza-assenza dei leader del centrosinistra europeo nella lunga trattativa fra istituzioni e Grecia, ridotta da subito, per usare una metafora renziana, a un derby fra Merkel e Tsipras.

Matteo Renzi, come detto, non è stato neppure convocato ai vertici. Hollande invece ai vertici ha partecipato, ma nessuno se n'è accorto. Se c'era, dormiva, e si svegliava soltanto per correre a Parigi a chiudere le frontiere in faccia ai rifugiati. I socialdemocratici tedeschi si sono addirittura lanciati in una specie di critica da destra alla linea Merkel, abbaiando in ogni occasione contro i poveri greci capitati per sbaglio al tavolo dei potenti.

Il segretario della Spd, Sigmar Gabriel, come l'ineffabile presidente dell'europarlamento Martin Schulz si sono pure dati da fare nelle interviste per alimentare i peggiori pregiudizi dell'opinione pubblica tedesca nei confronti dei greci lazzaroni e profittatori, come se non bastasse la stampa di destra. Pare proprio che gli eredi di Willy Brandt (santo cielo!) siano ormai contenti di fare la ruota di scorta permanente della cancelliera.
Va detto, a onor del vero, che fra Renzi e l'Spd c'è una differenza e non da poco. L'Spd a parole difende le politiche di austerità _ da applicare nei paesi del Sud Europa, naturalmente _ ma nei fatti in patria sostiene il welfare, il ruolo dei sindacati, i diritti dei lavoratori (tedeschi) e il massiccio intervento pubblico nell'economia, senza il quale la locomotiva tedesca non sarebbe mai ripartita.

Al contrario Renzi critica l'austerità a parole, ma nei fatti applica le ricette liberiste come mai nessun altro governo di centrosinistra aveva fatto. Per questo piace tanto ad Angela Merkel, per questo la cancelliera esibisce giustamente Renzi come l'incarnazione del proprio capolavoro politico, l'aver trasformato il socialismo europeo in una sottomarca dell'originale conservatore, ridotto gli avversari storici a vassalli della propria indiscutibile supremazia. E per giunta, vassalli felici di esserlo.

Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/merkel-e-renzi-e-il-silenzio-socialdemocrazia_b_7721370.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: CURZIO MALTESE L'Unione Europea ha dimenticato di essere nata dall'antifascismo?
Inserito da: Arlecchino - Maggio 21, 2016, 04:36:00 pm
L'Unione Europea ha dimenticato di essere nata dall'antifascismo?

Pubblicato: 20/05/2016 09:37 CEST Aggiornato: 20/05/2016 09:37 CEST

L'Unione Europea ha dimenticato di essere nata dall'antifascismo? Può sembrare una domanda paradossale ma l'attualità politica di questi giorni la propone con forza. Basta confrontare la debole reazione dell'Europa di oggi di fronte all'avanzata dell'estrema destra del FPOE in Austria con quella di sedici anni fa. Nel 2000 l'ingresso al governo del partito xenofobo allora guidato da Jorg Haider, in alleanza con i popolari, provocò in tutta Europa una rivolta morale. Senza distinzioni fra destra e sinistra, quasi tutti i governi conservatori o socialisti continentali, in testa quello francese della coabitazione fra Chirac all'Eliseo e Jospin premier, votarono all'unanimità sanzioni contro il di Vienna. I toni dei conservatori furono spesso più duri di quelli dei socialisti e l'allora premier spagnolo Josè Maria Aznar si spinse fino a chiedere la cacciata dal partito popolare europeo del collega austriaco Wolfang Schuessel, colpevole di aver accettato l'appoggio dei del partito di Haider.

Il 24 aprile scorso il FPOE, nel frattempo per nulla moderato, ha ottenuto un successo ben più clamoroso di quello di sedici anni fa, vincendo al primo turno le presidenziali con oltre il 35 per cento dei voti conquistati dal candidato Norbert Hofer, gran favorito per il ballottaggio del 22 maggio contro il verde Alexander Van der Bellen. La reazione dell'Unione è stata quasi inesistente. Interrogati sul perché di tale reticenza, le autorità europee hanno fatto rispondere in via ufficiosa dagli addetti stampa di non voler interferire nella politica interna di uno stato membro alla vigilia del ballottaggio. Se ne riparlerà insomma dopo il 22 maggio, se gli xenofobi dovessero conquistare la presidenza austriaca. Una serie di scrupoli che i potenti d'Europa non avevano osservato l'anno scorso durante la crisi greca, quando tutti, ma proprio tutti, dai leader europei a quelli nazionali erano intervenuti pesantemente per condizionare il voto del popolo greco alle politiche, e in seguito prima del referendum, contro Syriza e il suo leader Alexis Tsipras, che pure, a differenza di Hofer, non gira con un revolver in tasca elogiando l'autodifesa personale e non ha mai proposto d'innalzare muri ai confini di altri stati dell'Unione. Due pesi, due misure. Come nei confronti dei governi di ultradestra d'Ungheria e Polonia, dove si continuano ad arrestare e intimidire i giornalisti d'opposizione, nella sostanziale noncuranza delle istituzioni europee.

Una certa disattenzione per i valori antifascisti dell'Unione è emersa anche dalla triste e scandalosa vicenda dei finanziamenti per complessivi 600 mila euro annui concessi dal Parlamento Europeo all'Alliance for Peace and Freedom, un partito che riunisce sigle neofasciste e neonaziste di vari paesi (Forza Nuova, i greci di Alba Dorata, i tedeschi della Npd e altri), presieduto dall'ex terrorista dei Nar Roberto Fiore, e alla fondazione collegata Europa Terra Nostra. Più di duecento europarlamentari di varia tendenza politica hanno chiesto di verificare l'attribuzione di questi fondi in linea con il regolamento che impedisce di finanziare con soldi pubblici partiti che non rispettino i valori fondanti dell'Unione, ovvero "i principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell'uomo, delle libertà fondamentali e dello stato di diritto".

L'aspetto più inquietante di questa storia è che diversi esponenti dei socialisti e dei popolari hanno cercato di spostare la questione dall'antifascismo sul piano della critica al modello europeo neoliberista. Insomma criticare la Trojka o l'austerità sarebbe più grave che negare l'Olocausto o proporre il ritorno ai parlamenti delle corporazioni, abolendo i partiti. Tutti i valori sui quali è stata ideata e fondata l'Unione europea sono figli della cultura e della lotta antifascista. Dal manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann durante il confino fascista, alla nascita del Consiglio d'Europa e poi della Comunità Europea nel dopoguerra, il profondo collante che ha unito gli europeisti, di sinistra, centro o destra, era la comune casa di valori dell'antifascismo. Aver smarrito questo glorioso ancoraggio al passato spiega la grigia miseria del presente.

Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/lunione-europea-ha-dimenticato-di-essere-nata-dallantifascismo-_b_10050374.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: CURZIO MALTESE La stagione renziana è finita, fatevene una ragione
Inserito da: Arlecchino - Giugno 22, 2016, 05:53:01 pm
La stagione renziana è finita, fatevene una ragione

Pubblicato: 22/06/2016 13:17 CEST Aggiornato: 4 ore fa

Curzio Maltese
Giornalista e scrittore, eurodeputato Lista Tsipras

È incredibile come, anche di fronte all'evidenza, il coro dei media si rifiuti di considerare l'ipotesi che la portentosa stagione del "renzismo" sia già finita. Qui non si tratta neppure di politica, ma di matematica. Combinando gli ultimi risultati, referendum e comunali, è oggi impensabile che Renzi possa portare a ottobre 15 milioni d'italiani a votare Sì al referendum costituzionale, contro i 15 milioni che quasi certamente andranno a votare No. Naturalmente molte cose possono accadere da qui a ottobre, il governo può inventarsi bonus, sconti fiscali e mance elettorali.

Può cambiare anche l'atteggiamento e l'impegno degli avversari politici, il centrodestra e i 5 stelle, riguardo al referendum. In fondo, nell'essenza, questa riforma della Costituzione serve a ridimensionare il ruolo del parlamento e in particolare delle opposizioni, e ad accrescere in maniera consistente i poteri dell'esecutivo. Fino a quando il Pd di Renzi era percepito come il sicuro vincitore delle prossime elezioni, per le opposizioni il No era questione di vita o di morte. Ora che la possibilità di vittoria del Pd sono scemate di molto, soprattutto nel ballottaggio previsto dall'Italicum, la riforma può diventare un boomerang per chi l'ha proposta e una formidabile clava nelle mani di chi la osteggiava.

Il vibrante No di destra e 5 stelle potrebbe insomma diventare, strada facendo, un più cauto "Ni". Renzi è finito e non lo sa, avevo scritto dopo il primo turno delle comunali. Con il ballottaggio la situazione è cambiata. Renzi è finito, ma lo sa anche lui. E infatti ha già cambiato tono e stile, smettendo l'arroganza guascona di tutti questi mesi e riconoscendo con chiarezza la vittoria dei 5 stelle. In questo, al solito, Renzi si rivela più intelligente della mediocre corte di miracolati cui si è circondato, politici e giornalisti. I secondi ancora più patetici dei primi. Tanta era la felicità, dopo l'inusitato 41 per cento alle europee, d'essere saltati stavolta per tempo sul carro del sicuro vincitore, che ora fanno fatica più degli altri a tornare coi piedi per terra. Ricordano quel mezzobusto socialista Rai che tanti anni fa, alla vigilia del crollo della prima repubblica, cercava di convincere Bettino Craxi d'aver vinto le elezioni a sua insaputa.

Il "renzismo" era apparso a molti il nuovo sol dell'avvenire e si sta invece rivelando il breve crepuscolo del "berlusconismo" che l'ha preceduto. Rispetto al quale è assai meno solido. Berlusconi era un leader amato dal suo popolo, portatore di un mito che esaltava il tradizionale egoismo della destra fino a condurlo all'utopia scintillante di un arricchimento collettivo (il sole in tasca). Renzi è un leader non amato dal suo popolo, ma tollerato in virtù di un mito vincente, all'apparenza, che comporta l'umiliazione dei valori storici della sinistra in cambio di una promessa di potere, modernità e benessere generale. Si capisce allora perché il mito naturale (per la destra) berlusconiano abbia potuto resistere quasi un ventennio, contro l'evidenza del mancato "nuovo miracolo economico".

Erano anche tempi migliori in economia e più lenti. Prima che si materializzassero gli effetti della crisi del 2008, Berlusconi ha continuato a vedere ristoranti di lusso strapieni e il signor Tremonti ha potuto raccontare a lungo la favola di un paese estraneo alla crisi e di un sistema bancario "più solido che nel resto d'Europa". Grottesche menzogne che oggi si rivelano anche fonti di tragedie personali. Il mito "renziano", già politicamente contro natura, è invece già franato con la brutale smentita nei fatti di una narrazione irrealistica e infantile nei toni (la guerra ai "gufi"), incentrata sull'ottimismo e la crescita.

È un mito che resiste soltanto per un ceto mediatico ancora più separato dalla realtà di quanto non appaia il famigerato ceto politico e di conseguenza ancor meno popolare. Renzi confidava molto nell'appoggio dei media per la conquista del consenso al suo progetto di partito della nazione: un altro miraggio. Alla vigilia del ballottaggio tv e giornali hanno dedicato chilometrici retroscena dietrologici alle voci di presunti accordi sottobanco anti Renzi fra grillini, leghisti, sinistra e minoranze dem, ma in compenso hanno ignorato la notizia vera che a Napoli i candidati del Pd avevano apertamente invitato per lettera i propri elettori a votare il candidato del centrodestra, Lettieri, contro De Magistris.

Questa sfrontata propaganda mascherata da informazione politica produce ormai un rigetto istantaneo nell'opinione pubblica, come forse sono in grado di capire anche gli astutissimi strateghi di comunicazione al servizio del piccolo principe.

Da - http://www.huffingtonpost.it/curzio-maltese/la-stagione-renziana-finita_b_10608802.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001