Addio a Mario Monicelli
De te fabula narratur.
Conversazione con Mario Monicelli di Curzio Maltese
Mezzo secolo di storia ‘italiota’ tra generosità collettiva e ‘soliti mostri’
L’Italia della ricostruzione e quella del boom, l’Italia dei perdenti e quella dei furbi, l’Italia solidale e quella che non si vergogna, l’Italia mostruosa, brancaleona, solita nota: un dialogo con il regista che ha scritto la storia della commedia all’italiana (e del cinema tout court).
Conversazione con Mario Monicelli di Curzio Maltese, da MicroMega 7/2006
Curzio Maltese: Girare un film a novant’anni [Le rose del deserto] è un’impresa eroica. Dev’esserci stata una spinta, un’urgenza nel recuperare un pezzo della nostra storia. Perché ti è venuta voglia di raccontare la guerra degli italiani in Libia del ’40-’43?
Mario Monicelli: Gli italiani andavano a piedi, non avevano carri armati, non avevano cibo, non avevano niente. Si dibattevano in mezzo alla sabbia e alle dune. Correvano avanti e indietro. La guerra era un continuo correre disperatamente in mezzo alla sabbia del deserto, come quei poveracci che stavano in Russia e che, anche loro, correvano avanti e indietro in mezzo alle paludi. Questa era la guerra per gli italiani. Io poi la guerra l’ho fatta e so com’erano le cose. Sono stato mobilitato nel ’40. Avevo 24 anni. Mi hanno mandato in Albania. La situazione era esattamente come quella del 1915-’18. Benché quella fosse una guerra di posizione in trincea, comunque stavi sempre nel freddo, nel caldo, non vestito, non armato, affamato. Eravamo senza una guida, in balia di rapporti politici trasversali, di sopraffazioni e conflitti fra i vari generali e i vari politici. La vita di ciascuno di noi era in mano a questi personaggi.
Maltese: È la tragedia finale del regime, prima del grande risveglio del dopoguerra, nel quale il cinema ha un ruolo centrale, unico. Voi protagonisti ne eravate consapevoli?
Monicelli: Per nulla. È tutto sorprendente. L’Italia che aveva perso la guerra malamente è diventata all’improvviso la nazione principe del cinema, grazie al neorealismo che ha rovesciato la struttura e il linguaggio del cinema. Negli anni Trenta non si immaginava che il cinema fosse importante. Per fortuna, erano importanti la letteratura, la musica, la pittura. Il cinema era considerato un fenomeno popolare da baraccone. Ma nel dopoguerra, improvvisamente, il cinema fu considerato quasi come fosse l’unica fonte della cultura. Oggi tutti i ragazzi vogliono occuparsi solo di cinema. Credono di potersi divertire dedicandosi ad un’attività che non richiede molto studio e fatica. Ormai la cultura è identificata con il cinema. E questo è vergognoso.
Maltese: Una volta hai detto che il cinema lo facevano quelli che non riuscivano a diventare romanzieri...
Monicelli: Perché io volevo essere un romanziere. Mi piaceva Flaubert, avrei voluto srivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del ’15, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì.
Maltese: Anche Fellini, quando gli chiedevano dei film che l’avevano più influenzato, citava Maciste. Nei fatti però il cinema diventa l’arte dominante e l’Italia gioca una parte straordinaria. A mettere in fila i titoli del cinema italiano dal ’46 alla fine degli anni Sessanta c’è da perdere la testa. Ogni anno una raffica di capolavori. Ci sono stati film, e tra questi i tuoi, che hanno addirittura inventato dei generi che prima non esistevano, e che poi sono stati copiati in tutto il mondo. Da I soliti ignoti all’Armata Brancaleone, chi aveva mai pensato di costruire un film su una banda di disgraziati in cerca di fortuna? Il road movie passa per un genere americano ma nasce da Il sorpasso di Dino Risi. I vitelloni di Fellini viene rifatto ogni dieci anni in Italia, da Moretti a Muccino, e non solo da noi. La dolce vita inaugura un genere di film senza plot, apre la strada a tutti gli Altman che verranno dopo. Come si spiega questa stagione di creatività e coraggio in un paese in genere tradizionalista, al traino di mode e culture straniere?
Monicelli: Tutto nasce dal neorealismo. È una rivoluzione culturale vera. Con il neorealismo l’Italia si è trasformata nel paese faro della cultura, una specie di terra promessa. Pensa a Rossellini che va negli Stati Uniti e ne ritorna portandosi via la loro stella, Ingrid Bergman. Noi che lavoravamo nel cinema eravamo esaltati dal successo che aveva l’Italia. Eravamo un gruppo di trenta o forse quaranta fra autori, sceneggiatori e qualche attore. L’importanza che si dava al nostro cinema ci stupiva, ma eravamo anche divertiti, lusingati e ben contenti di questo fatto.
Maltese: A parte il cinema, quello è stato un periodo straordinario anche nella pittura, nell’architettura, nel design. L’Italia si traforma da nazione museo, custode di bellezza antica, a fabbrica di bellezza contemporanea.
Monicelli: Quello è stato anche al di fuori dell’arte un periodo fecondo. Però è durato appena cinque o sei anni. Credo sia stato il momento più straordinario della nostra storia recente. E vorrei aggiungere che è anche stato il momento più onesto che abbia vissuto l’Italia. Tutti erano felici di dover ricostruire, e di dover lavorare per questo. Si viveva male o modestamente, ma prevaleva l’allegria e la volontà di fare. La gran parte degli italiani abitavano in due o tre in modeste camere ammobiliate, cercando di arrangiarsi. Ma c’era un sentire collettivo: l’Italia si stava ricostruendo. Poi, non so come, questo spirito si è perso. Forse si è perso con l’industrializzazione, con il boom, quando è cominciata la maledizione della Fiat. Quella di allora era un’Italia rurale, fatta per un 70 per cento di contadini e per un 25 per cento di muratori. L’emigrazione in Piemonte e in Lombardia è stata una grande iattura. Sono comparsi i cartelli con sopra scritto: «Vietato affittare ai cani e ai terroni». Insomma, da quei quattro o cinque anni meravigliosi è scaturita di nuovo un’Italia di perdenti.
Maltese: Sì, ma perdenti non poetici, cattivi, furbi. La tua equazione fra furbi e perdenti è illuminante. Negli anni del boom l’italiano è un eroe del fare, l’italiano furbo verrà inventato più tardi. Sono i truffatori di Il bidone di Fellini, il Gassman del Sorpasso che è un perdente mascherato da vincitore. Proprio nel Sorpasso si racconta la perdita dell’innocenza, la morte di Trintignant è la fine di una certa Italia onesta, perfino ingenua. Rimane soltanto il furbastro, che poi diventerà il protagonista di tutta la commedia all’italiana.
Monicelli: Da un certo punto in poi ha avuto inizio la corruzione, la prevaricazione. Si è cominciato a barare su tutto. Abbiamo visto anche recentemente che cosa è successo nel calcio. Si trattano da eroi dei bari. Per paradosso, ad esaltarli sono quegli stessi tifosi che rinunciavano al pacchetto di sigarette per andare alla partita o per giocare al Totocalcio, mentre i loro eroi si giocavano le partite alterandole. Il furbo italiano è contento di essere un truffatore e si vanta di esserlo. In qualche modo riesce ad essere anche una figura simpatica, come può però essere simpatico Sordi. Ma accade soltanto in Italia, attenzione. L’italiano di Sordi ha un fondo repellente. Fa ridere rappresentando un italiano repellente. Non a caso all’estero non riescono a capire come Sordi possa essere un attore a cui gli italiani danno tanta importanza. A loro non fa ridere. Fa orrore.
Maltese: Sordi si è rivelato fino in fondo in Un borghese piccolo piccolo, o anche in Il Marchese del Grillo, ovvero in personaggi orrendi, autentici mostri. Ma anche quello di Il vedovo, che dice al fattore: «Mi raccomando, fammeli lavorà ’sti bambini», come fa a essere simpatico?
Monicelli: Perché nel fondo l’italiano è un mostro. È un furbetto che può anche uccidere se qualcuno in un certo momento gli dà uno spintone.
Maltese: Dietro l’apparente bonarietà c’è la crudeltà. Vorrei tornare all’Italia onesta del dopoguerra, più felice e capace di progredire.
Monicelli: Quell’Italia era collaboratrice, solidale, sopravvissuta a una guerra persa, che era stata atroce e sbagliata. Gli italiani non sapevano in quale misura erano stati oppressi dal fascismo. Applaudivano se dovevano applaudire. Da quelle macerie è nata però la libertà, che gli italiani non conoscevano. La libertà all’inizio li ha resi euforici, li ha resi allegri e felici di essere vivi. Tutti eravamo contenti di appartenere alla gioventù che si era liberata dal fascismo e dalla guerra.
Maltese: Come hai vissuto il periodo delle inchieste di Tangentopoli? Te lo chiedo perché sei stato uno di quelli che avevano raccontato nei film la corruzione prima ancora che la rivelassero le inchieste dei giudici.
Monicelli: In molti abbiamo raccontato quell’Italia prima che emergesse dalle inchieste giudiziarie: l’ha raccontata Germi e l’hanno raccontata tanti altri. In quel periodo ero contentissimo. Del resto, ero e resto un fan del magistrato Borrelli. Anzi, vorrei che ce ne fossero cinquanta, di Borrelli. Speravo che Mani Pulite non finisse mai, che dilagasse e che alla fine si compisse veramente una pulizia spettacolare. E invece c’è stato quello che c’è stato.
Maltese: C’è un tratto che, secondo me, rivela una difficoltà del cinema italiano contemporaneo. Gli italiani furbi dei film di allora erano più brillanti degli italiani furbi di oggi, che sono molto banali. In questo scarto c’è il passaggio dalla commedia all’italiana ai Vanzina – con tutta la simpatia per i Vanzina. Immagino che tu legga le intercettazioni. Avrai visto che parlano tutti con la stessa lingua, che sembra la lingua di Boldi e di De Sica. Parlano tutti in modo volgarissimo, sia che si tratti del mancato re o di Ricucci. È il quadro di una piccola borghesia televisiva, piccola in senso culturale più che economico, totalmente omologata e quindi anche poco interessante da raccontare. Non è un caso che le nuove commedie italiane siano incomprensibili oltre confine.
Monicelli: Esibiscono una lingua volgare perché è il loro segno distintivo, che li rende tutti uguali e tutti colpevoli. È l’esibizione di un’appartenenza. Fa parte di quello stesso fondo morale che esibiva Craxi, quando diceva che rubavano tutti. Coinvolgere tutti è la cosa più bassa e più volgare, e anche più corrotta, che si dia.
Maltese: Una figura costante dei tuoi film è l’italiota. Ora, secondo me, Luciano Moggi è un italiota fantastico, una fotografia impeccabile di questo tipo umano. Poteva essere il personaggio di una tua sceneggiatura. Tutti sapevano, tra l’altro, che faceva quel mestiere non capendo granché di calcio.
Monicelli: Tutti erano d’accordo e speravano di entrare in quel pus, anche gli «eroi» di Berlino. Il problema è che questo pus esiste dappertutto. L’indignazione che abbiamo per il calcio, che in fondo è un settore poco importante, dovremmo averla nei riguardi di molte cose. Ti faccio un esempio personale. Io voto Rifondazione comunista. Ebbene, ti fanno credere che le cose si svolgono in una certa maniera; tu vai, segui, speri, e ti dici: va bene, aiutiamo, votiamo, applaudiamo, parliamo, sentiamo, testimoniamo. Ma poi Rifondazione comunista non rifonda un bel niente. Anche Rifondazione è un partito che vuole prevaricare sugli altri. Io però non faccio il politico; e forse per me è facile indignarsi.
Maltese: Sostanzialmente il mestiere del politico dovrebbe essere quello di migliorare la vita delle persone. Tra l’altro, è un potere euforizzante, perché può migliorare veramente la vita delle persone normali.
Monicelli: Che sono le persone oneste. E tuttavia bisogna stare attenti: anche queste stesse persone oneste sono potenzialmente corrotte. Basta che si presenti loro l’occasione di usare dei mezzi disonesti per migliorare la propria condizione, qualunque essa sia, dalla più miserabile alla più alta, e pochissimi si tireranno indietro. Questa è la verità. Io ho pietà di questi personaggi, mi fanno ridere. In I soliti ignoti, in Brancaleone trovi tutte storie nelle quali il miglioramento passa attraverso mezzi anomali. Brancaleone vuole addirittura conquistare un feudo! Ciò che accomuna tutti questi personaggi è che l’unica via che vedono è la prevaricazione, l’inganno, l’espediente.
Maltese: S’insiste molto oggi sulla retorica della patria. A me dà molto fastidio. Come dici mezza parola di critica, sei anti-italiano. Ma la categoria degli anti-italiani è una categoria meravigliosa: da Dante Alighieri in poi comprende tutti: Leopardi, Manzoni, d’Azeglio... La nostra grande letteratura fino a Flaiano e a Pasolini è costituita da anti-italiani. In realtà, l’anti-italiano dimostra un vero amore per il paese, un amore sofferto e critico. Ci sono degli anti-italiani nel cinema? Io non ne vedo.
Monicelli: I Visconti, i De Sica erano talmente vincenti nel mondo che potevano permettersi di essere contro in Italia, di non piegarsi. Nel cinema italiano c’è stato un momento felicissimo quando i vari Germi, Antonioni e non solo loro erano sulla cresta dell’onda. Questi autori potevano anche ergersi a difensori dell’onestà. La loro libertà era possibile però solo perché erano estremamente vincenti, avevano un loro seguito di pubblico. Se questa condizione manca, subito nasce la necessità di concertare.
Maltese: Mentre prima c’era un’egemonia culturale del Partito comunista sul cinema, che però, a ben vedere, era più un’egemonia dei cineasti sul Partito comunista, oggi la situazione è del tutto cambiata. Oggi il rapporto è da raccomandato a padrone, mentre allora il rapporto era di influenza. Mi viene in mente il tuo film I compagni. Quello è un film che rappresenta una sinistra italiana che in realtà non c’era più.
Monicelli: Io mi riferivo a Costa, a Treves, che non erano comunisti, ma socialisti. Io sono stato socialista, poi con Craxi, naturalmente, me ne sono andato. Ma alla fine dell’Ottocento l’Italia aveva dei socialisti seri, che erano espressione di un’Italia generosa. Sono loro che hanno introdotto gli scioperi. Questi socialisti erano spesso dei borghesi o anche dei piccolo-borghesi. Si sono sforzati di mettere insieme i proletari e i contadini, che allora erano degli sbandati, per far loro acquisire una coesione di gruppo, e renderli solidali tra loro. Volevano riscattare in qualche maniera la condizione in cui versavano, facendo loro capire che insieme avrebbero potuto ottenere dei risultati. Avevano le idee chiare e una morale solida: e se uno ha le idee chiare e una morale solida non può sbagliare.
Maltese: C’era allora la spinta a rendersi portatori dell’interesse di tutti e non solo del proprio esclusivo interesse. È il caso di uno spirito inedito per la storia politica italiana, che è per lo più dominata da un’attenzione al «particolare». La classe operaia aveva la generosità di pensare non solo alle proprie rivendicazioni, ma al miglioramento generale. Poi però la politica italiana è tornata a esprimere una rassegnazione al sistema generale. Rispetto al paradigma italiano, come collochi tu una figura come quella di Berlinguer?
Monicelli: Berlinguer era, per così dire, un folle: ha creduto che si potesse invitare gli italiani ad essere onesti, a risparmiare, a non volere troppo, a pagare le tasse. E meno male che è morto, sennò l’avrebbero ammazzato! I suoi militanti, i suoi compagni, dicevano che sbagliava tutto perché quelle cose, secondo loro, non si potevano dire agli italiani, per giunta proprio nel momento in cui il Partito comunista poteva vincere la battaglia elettorale contro la Democrazia cristiana. Berlinguer era un personaggio politico anomalo.
Maltese: Come spieghi il fatto che i tuoi film sono popolari?
Monicelli: Sono popolari, secondo me, perché raccontano la condizione umana dei perdenti. E l’Italia è fatta di perdenti. E allora, se uno racconta questi perdenti con un certo affetto, il risultato piace, diverte. Io poi cerco di far divertire. Nei miei film c’è sempre un gruppo di persone che cercano di migliorare la loro condizione: un gruppo di povera gente, siano essi contadini, proletari, donne o disperati dell’anno Mille. I miei personaggi vogliono migliorare la loro condizione cercando di sfondare una cassaforte o di conquistare un feudo o di lavorare un’ora di meno, come in I compagni. E in questo falliscono sistematicamente, perché sono inadeguati all’impresa. L’inadeguatezza diverte, però fa anche pena e induce alla pietà. La condizione umana degli italiani è solo quella di essere dei perdenti. Cercano di migliorare la loro condizione perché questa è, per la stragrande maggioranza, una condizione di povertà.
Maltese: Gli italiani hanno anche la capacità di dividersi sempre. C’è una battuta di Brancaleone che, secondo me, raccoglie tutta la storia italiana: «Andate pur’anco voi senza meta, ma da un’altra parte». Ecco: questa è la realtà dell’alleanza elettorale, dell’Ulivo e non di meno della destra: tutto è un andare senza meta, ma ciascuno da un’altra parte.
Monicelli: Ognuno si crea il suo feudo, il suo partito...
Maltese: I film italiani che hanno avuto più successo, che hanno vinto degli Oscar, parlano di italiani che in realtà non esistono più. Tornatore, Salvatores, Benigni, tutti rappresentano gli italiani del dopoguerra o di prima della guerra. Sembra che gli italiani contemporanei non siano interessanti.
Monicelli: Sarebbero anche interessanti, sono infatti degli italiani mostruosi. Il problema però è che se uno mette in scena Berlusconi, Bondi, Cicchitto, Adornato, Fini, arriva sempre in ritardo. Quando esce il film, la realtà ha superato la parodia. La realtà oggi supera la satira. L’indignazione che vuoi produrre non basta mai. Arranchiamo dietro i fatti. Una volta non era così, gli italiani erano più stabili. Oggi il cinema non riesce a star dietro alla cronaca.
Maltese: Però voi avete fatto una cronaca profonda. Io faccio il giornalista ma ho capito meglio la realtà andando a vedere un film che attraverso un’inchiesta. La commedia italiana ha raccontato la corruzione di Tangentopoli molto prima che il sistema fosse scoperchiato dai magistrati. Non dico che gli autori di cinema debbano fare i profeti, però l’intuizione di un artista è più profonda di quella di un giornalista. È un’intuizione che percepisce non solo che le cose accadono, ma anche dove vanno a finire.
Monicelli: E che cosa può accadere adesso di peggio di quello che è già accaduto? Non so veramente cosa possiamo immaginare io e i miei amici sceneggiatori. Tu che fai il giornalista, cosa puoi immaginare di peggio di quello che sta accadendo o che è accaduto fino a poco tempo fa, facendo finta che oggi non accada più?
Maltese: Che effetto ti ha fatto avere come presidente del Consiglio un personaggio dei tuoi film? Anche se forse un po’ iperbolico, Berlusconi, in fondo, è un personaggio di alcuni tuoi film.
Monicelli: Il cinema italiano ha sempre fatto delle metafore, anticipando forse delle cose, ma non ha mai rappresentato dei personaggi reali, pensando che fossero anche vedibili e divertenti. Da chi lo fai interpretare Berlusconi? Il cinema italiano non ha mai rappresentato le cose per cronaca, bensì per metafora: Sordi si vendeva un occhio per sopravvivere. Queste sono le mostruosità di questo paese.
Maltese: In realtà Sordi si vende l’occhio come Berlusconi fonda il partito. È una scelta disperata. Solo che più tardi è diventato possibile fondare un partito.
Monicelli: È la legge del mercato. La cosa più micidiale che esita.
Maltese: Che cosa è veramente cambiato nella vita e nella testa degli italiani? Alcune cose sono rimaste, altre si sono trasformate. Forse i rapporti con le donne sono cambiati rispetto a prima. Ma c’è una specie di antropologia eterna che tra l’altro riproduce una specie di fascismo permanente. E poi c’è qualcosa che invece si muove, che muta. In che cosa, secondo te, gli italiani sono profondamente diversi da quelli raccontati nella commedia all’italiana?
Monicelli: Credo che oggi manchi la pietà che c’era un tempo. Una volta, c’era pietà tra gli italiani, c’era solidarietà verso chi aveva bisogno. Lo si faceva senza spendersi troppo, intendiamoci, però c’era un momento di solidarietà. Comunque, la pietà era parte della nostra educazione. Adesso credo proprio che la pietà sia sparita. Sembra una stupidaggine, ma una volta le armi non si maneggiavano; chi maneggiava le armi era già considerato una persona poco raccomandabile. Adesso non è più così. Il fatto che uno maneggi delle armi va bene a tutti. Una volta uno che usciva dal carcere era effettivamente finito. Era meglio quando c’era il marchio…
Maltese: Perché?
Monicelli: Perché la comunità poteva difendersi. Il fatto che uno avesse meritato il carcere significava che non era una persona raccomandabile.
Maltese: Durante Tangentopoli i suicidi erano dovuti alla vergogna. Gli indagati di oggi – che sono indagati per fatti gravi, non inferiori a quelli – non pensano minimamente a vergognarsi. Come li beccano, anzi, cominciano a fare la morale al prossimo, diventano quasi dei guru. E i giornali, senza non dico la minima decenza ma almeno senso dell’ironia, titolano: «Previti all’attacco», «Moggi accusa il sistema», «Ricucci si ribella».
Monicelli: Chiamano i fotografi per farsi fotografare quando escono dal carcere.
Maltese: La vergogna è sparita e la rivendicazione del proprio crimine neanche stupisce, è la norma.
Monicelli: L’avere ottenuto un vantaggio imbrogliando qualcuno è un titolo di merito conclamato. La filosofia degli italiani ormai è questa.
Maltese: I registi italiani, anche quelli che hanno più talento degli altri, non hanno la stessa voglia di cercarsi un pubblico, di comunicare, che avevate voi. Al terzo film già citano se stessi. Hanno una loro nicchia di pubblico e continuano a rivolgersi solo a quella.
Monicelli: Un autore vuol essere visto, capito, letto o ascoltato. Noi della commedia all’italiana eravamo molto popolari subito nel dopoguerra, ma i critici ci trattavano come spazzatura. Spesso non ci recensivano nemmeno. Era sempre a causa del rigore di Alicata, del rigore del vecchio Partito comunista. Se uno affrontava un tema sociale, si dedicava a una cosa molto seria, impegnata. Non si pensava minimamente che si potesse far sorridere occupandosi di temi sociali, perché far sorridere era già inquinare tutto. Chi faceva dei film divertenti, era in partenza da escludere. Significava che non faceva cose serie. E infatti era così, non facevamo cose serie. Noi volevamo catturare il pubblico. Se questa era l’accusa, era un’accusa vera. Noi eravamo contenti quando avevamo catturato il pubblico.
Maltese: Nella cultura italiana la sottovalutazione del comico è una costante. Swift in Italia sarebbe stato immediatamente confinato ad autore minore. Sergio Saviane, che è stato un grandissimo giornalista, è già dimenticato, e comunque non veniva mai considerato un grande giornalista, perché aveva un talento satirico formidabile.
Monicelli: Questa diffidenza per il genere comico non è solo italiana.
Maltese: Però in Francia Molière è Molière. E poi lo scandalo per il Nobel a Dario Fo c’è stato solo in Italia.
Monicelli: Nelle rassegne, nei festival, persiste dovunque una forte preclusione per il comico. Il fatto di far ridere, o che un film possa essere popolare, ha evidentemente qualche cosa che non va.
Maltese: Tornando agli italioti, uno degli aspetti più straordinari della commedia all’italiana è l’aver descritto quel tratto tipico del fascismo che è l’inventarsi una gloria che non esiste. L’Armata Brancaleone è analoga al revisionismo italiano: l’idea di riscrivere la storia inventandosi una gloria che non c’è. Così come Brancaleone si inventa una gloria che non esiste, Mussolini s’inventava l’impero, Berlusconi la sua irresistibile ascesa, Bossi la Padania dei celti, l’ampolla magica e il dio Po. Questa è tutta commedia all’italiana, il poveraccio che s’ammanta di un eroismo immaginario. Tra l’altro, ove vi fosse stata, la Padania sarebbe stata alleata di Roma ladrona, contro gli imperatori tedeschi.
Monicelli: Tutto discende dal fatto che in Italia non c’è stata una Riforma, ma c’è stata la Controriforma senza che ci sia stata la Riforma. È stata una cosa incredibile. Immagina la vittoria della Controriforma contro una Riforma che in Italia non c’è mai stata. È stata vinta una battaglia che nessuno ha combattuto.
Maltese: A proposito di controriforme, che effetto vi hanno fatto questi anni in cui politici e giornalisti di sinistra hanno contribuito a criticare l’antifascismo come valore, a smontare la Resistenza come momento della storia italiana di cui andare orgogliosi?
Monicelli: Non ci si è mai occupati in modo adeguato della Resistenza né nel teatro, né nel cinema, e neanche nella letteratura, a parte Fenoglio. Eppure è l’unica cosa che abbiamo di cui potremmo veramente vantarci. Non solo non è stata apprezzata la Resistenza, ma sono venuti subito quelli che hanno detto che quelli di Salò erano dei bravi ragazzi. E i morti sono tutti uguali. Non è vero: fascisti e combattenti per la libertà sono diversi anche da morti. Ma è andata a finire così. La Resistenza è stata messa in disparte, non è stata più celebrata. Anche perché sembrava che fosse una pagina della storia di questo paese troppo intelligente, e generosa.
Maltese: In fondo a un decennio di revisionismo dominante sui media, i cittadini però sono andati a votare in massa un «No» alla pretesa di cambiare la Costituzione antifascista.
Monicelli: Ma è stato anche un modo per liberarsi di questa destra, di Berlusconi. Gli italiani l’hanno votato con un plebiscito. Ma poi in verità non è piaciuto. Ed è venuta fuori tutta la mediocrità di quell’avventura, se ne sono allontanati anche quelli che sono disposti a tutto pur di essere sul carro del vincitore.
Maltese: Un problema italiano è quello di diventare adulti. È un tema ricorrente del nostro cinema, dal Fellini dei Vitelloni a Germi e a te in Amici miei. Ora, la difficoltà a diventare adulti è profondamente legata alla struttura della famiglia italiana.
Monicelli: Ho fatto un film, Parenti serpenti, che era una farsa. La farsa è un genere meraviglioso, molto difficile perché va molto a fondo. Pur non essendo realistica, nella farsa c’è sempre una verità che va a fondo, come nella farsa di Chaplin e di Buster Keaton. Ora, la verità di quella farsa era la famiglia. Ma la colpa è delle donne. Adesso le donne, le ragazze, le signore, si lamentano che non trovano uomini. Ma questi uomini che non trovano sono quelli che loro da mamme hanno tenuto in casa, e che non vogliono far uscire, e che hanno accudito e curato e tenuto fino a 30-35 anni, senza mai farli crescere. Gli uomini italiani sono dei bambini non cresciuti per colpa delle donne. Che poi si lamentano perché trovano degli uomini che non sono cresciuti. Al contrario, le figlie femmine si possono anche mandare via: e loro infatti maturano, affrontano la vita molto più degli uomini, con più coraggio e con più grinta.
Maltese: L’idea che Berlusconi esibisca in continuazione la mamma, mamma Rosa, spiega molte cose di Berlusconi. Il suo narcisismo clinico deriva da quella mamma lì. È evidente che la mamma lo ha esaltato in ogni sua attività.
Monicelli: Ma Berlusconi la esibisce anche perché è convinto che gli italiani sono contenti se il loro Presidente, la loro guida, è legato alla mamma e che si rivolga alla mamma per prendere da lei le cose giuste, gli affetti, il modo di comportarsi verso gli altri. Berlusconi era convinto che quello fosse il lato debole degli italiani.
Maltese: Io non ricordo nessun altro leader politico al mondo che abbia parlato così tanto della mamma come Berlusconi. Mamma Rosetta è presente in un discorso politico su due. Ma alla fine, perché i personaggi pubblici italiani, tutti, sono soltanto delle variazioni dei personaggi di Alberto Sordi, insomma protagonisti da commedia?
Monicelli: La commendia è la nostra nascita. La lingua italiana nasce dalla Commedia di Dante, che poi si è chiamata Divina commedia. Ed è una pagliacciata di Boccaccio: perché «Divina», a che serve? L’opera di Dante si chiamava La Commedia. E nella Commedia avviene tutto, tutto. Noi veniamo dalla commedia e la nostra vera natura è «la Commedia». La commedia continua nella Mandragola. E anche qui cose turche. Nella commedia italiana ci sono sempre turpitudini. Poi c’è la commedia dell’arte, in cui i servitori cercano di difendersi dal padrone che li vuole sopraffare e che, a loro volta, rubacchiano. La commedia all’italiana non l’abbiamo mica inventata noi del dopoguerra. Magari! Viene da lontano. La commedia all’italiana viene dalla Commedia di nostro padre Dante.
Maltese: Forse bisognerebbe aggiungere anche zio Goldoni. Il cinema ruba in continuazione da Goldoni, senza dirlo. Però nella commedia nobile c’era un coraggio eccezionale. Dante è uno che prende il suo papa, Bonifacio VIII, e lo sbatte all’inferno, ne parla come di un dannato. Questo nel 1300. Ora vorrei capire se fra gli eroi della satira contemporanea, sempre pronti a vantare il proprio coraggio, ce n’è uno capace di tanto con Ratzinger.
Monicelli: Prima o poi arriverà, e forse torneremo a divertirci col cinema.
(a cura di Giovanni Perazzoli)
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