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« Risposta #15 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:57:19 am » |
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IL COMMENTO
Il prodotto della furbizia
di CURZIO MALTESE
NEL teatro classico del trasformismo, la Rai, va in scena l'eterno conflitto delle classi dirigenti italiane: di qua i furbi, di là gli incapaci. Al centro, un personaggio che incarna bene i vizi di entrambi, il senatore Riccardo Villari.
Figura mediocrissima, un peone d'altri tempi, ma alla quale dobbiamo una lezione esemplare sui mali della politica nazionale. Democristiano di quarta fila e piccolo barone della medicina, Villari è stato riciclato prima da Mastella e poi da Rutelli non tanto in virtù di dubbie doti politiche, quanto per la conclamata cortigianeria. Cioè la principale e a volte unica competenza richiesta per fare carriera in politica.
E' noto tuttavia, dai tempi di Hegel, che un servo gode di un vantaggio decisivo sul padrone: può sempre trovarsene un altro. Magari più ricco e potente. Villari, a giudicare da come si muove, deve averne trovato uno ricchissimo.
Eletto senatore con i voti della sinistra e presidente della Commissione Vigilanza Rai con i voti della destra, il senatore Villari ha subito annunciato urbi et orbi che non si sarebbe dimesso. Non perché fosse un traditore, un opportunista dei tanti, un cialtrone insomma. No, non si sarebbe dimesso per "rispetto nei confronti delle istituzioni". Infatti, ha chiesto d'incontrare i presidenti di Camera e Senato, dai quali ha ottenuto copertura istituzionale, in cambio di un solenne giuramento: "Mi dimetterò il giorno in cui sarà trovato un nome condiviso da maggioranza e opposizione". Poi il nome eccellente è stato trovato, quello di Sergio Zavoli.
Eppure l'eroico Villari non si dimette lo stesso. Le istituzioni, una dopo l'altra gli hanno ritirato la copertura, a cominciare da Fini, seguito da Schifani e in ultimo da Berlusconi. Gli chiedono di andarsene. Ma lui resta. Fedele all'unica istituzione che quelli come lui riconoscono tale: se stesso.
Se il mandante del pasticcio è Berlusconi, com'è ovvio sospettare, si capisce che abbia scelto uno così. Chi altri, del resto? Dall'istante in cui approda a Palazzo Chigi, Berlusconi ha la prima e l'ultima parola su tutto quanto riguarda la televisione, il suo regno privato. Decide il presidente della Rai, dopo aver esaminato i candidati nella sua residenza privata. Decide in prima persona il direttore generale, i direttori di telegiornali e perfino le presentatrici. Decide quali trasmissioni possono continuare e quali si debbono chiudere.
Con l'elezione a sorpresa di Villari, il premier ha voluto scegliere anche il presidente della Commissione di Vigilanza che spetta all'opposizione. Con fiuto infallibile, ha pescato nel mucchio il tartufo. Tartufo Villari, o dell'ipocrisia.
La trappola era ben congegnata e lanciata fra i piedi di un'opposizione già in difficoltà. L'immagine della leadership democratica esce indebolita dalle sempre più evidenti contraddizioni del partito. Perché, per esempio, l'espulsione di Villari e neppure un cartellino giallo per Nicola Latorre, che durante un talk show ha suggerito con un bigliettino la risposta giusta all'avversario politico Bocchino per mettere in difficoltà l'alleato Donadi? Un distinguo etico fra i due è arduo. Uno politico no. Villari è un cane sciolto, ereditato da Mastella, mentre Latorre è il messo di D'Alema, un intoccabile.
Comunque vada a finire, la fotografia di queste ore è desolante. L'intero sistema politico è tenuto in scacco da un trecartista mastellato, per giunta su una vicenda, il potere in Rai, che di suo dà il voltastomaco alla maggioranza degli italiani. Veltroni ne esce come un vaso di coccio fra due vincitori, il "furbo" Berlusconi e l'"onesto" Di Pietro. Per uscire dall'impasse, ci vorrebbe un gesto d'orgoglio, magari l'abbandono definitivo del tavolo di trattative Rai, con annesso balletto di nomine.
Ma forse è chiedere troppo a un ceto politico che considera la televisione il principale strumento di legittimazione, l'oggetto unico del desiderio. Disposti a tutto pur di ottenere la benedizione di un Vespa, un consigliere d'amministrazione, le briciole della torta regalata tanto tempo fa a uno solo, che ora vuol portarsi via pure il vassoio.
(21 novembre 2008) da repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 19, 2009, 12:09:18 pm » |
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IL PROTAGONISTA
La verità dell'ex
di CURZIO MALTESE
NEL momento e nel luogo solenni dell'addio, nel tempio di Adriano, Walter Veltroni aveva la faccia di chi non vede l'ora di fare una passeggiata in bicicletta a Villa Borghese. Di rado capita di vedere così ben incarnata l'espressione "sollevato dall'incarico". Un uomo tornato quasi allegro, liberato da mesi di calvario. Un discorso bello. "Forse il suo migliore", confida un dirigente dalemiano, senza neppure troppa ironia.
Un discorso bello perché sincero. Un lusso e un piacere che i politici si consentono raramente, quelli di sinistra quasi mai, tanto meno i capi. Onesto a cominciare da se stesso. "Scusate, non ce l'ho fatta". "Non sono stato capace". "Forse sono più portato ad altri incarichi che non alla vita di partito". Se l'è detto alla fine da solo, perché di certo i suoi collaboratori e perfino gli avversari non gliel'avranno mai detto. Non in faccia, almeno. E' questo un altro problema del centrosinistra in Italia. I capi trovano il coraggio dopo le dimissioni e non prima, quando sarebbe servito. Il Walter ritrovato di verità scomode ne ha dette tante, per chi vuol capire. L'ha fatto veltronianamente, da buonista, ma l'ha fatto, alzando per un giorno il livello di una miserabile, ventennale rissa.
In quest'uomo che ha incarnato sempre, nel bene e nel male, vizi e virtù del romano moderno, la simpatia e l'autoironia, ma anche una certa riluttanza alla battaglia, nel giorno del congedo è spuntato un tratto da romano antico. Sarà stata magari la suggestione del tempio antico, ma un tratto stoico, al saluto finale bisogna riconoscerlo. L'invito alla solidarietà, ancora una volta valido anche per se stesso. "Non farò agli altri quello che è stato fatto a me". Le toccanti citazioni del grande Vittorio Foa: "Pessimista per il passato e ottimista per il futuro". L'invito a non tornare indietro dall'idea del Pd, alla quale comunque è valso la pena di dedicare una carriera e una vita. E perfino quei ringraziamenti in coda ai compagni di strada di tutti i giorni, dagli autisti ai ragazzi volontari agli uomini della scorta, cui rinuncerà da subito, in altri circostanze stucchevoli, stavolta sono sembrati autentici. Li aveva in fondo cercati con lo sguardo per tutto il tempo, mandando cenni a ciascuno appena li scorgeva, verso il fondo della sala affollata di giornalisti e telecamere.
"Quando si va via, è giusto ringraziare tutti, anche quelli che non si dovrebbero ringraziare", mi disse Walter tempo fa. Pensava di dimettersi da mesi. Ma alla fine non l'ha fatto, non ha ringraziato chi non doveva. Soltanto Dario Franceschini e Piero Fassino, del quale si dice il "leale Piero", come fosse un personaggio deamicisiano, con più di un'ombra di sfottò. Agli altri dirigenti, presenti e assenti, D'Alema e Rutelli, Marini e Bersani, ha riservato la stessa velenosa cortesia rivolta a Berlusconi in campagna elettorale, non li ha mai nominati. "Lascio senza sbattere la porta". Ecco forse l'unica frase non sincera. Perché è nell'accostare la porta alle spalle la vera vendetta.
Lo si capisce dalle facce terree dei pochi dirigenti presenti. Tanto disteso è lo sconfitto Veltroni, quanto elettrici appaiono i tratti dei presunti vincitori. A cominciare da Pier Luigi Bersani, che almeno ha avuto il coraggio di sfidarlo apertamente e di venire di persona all'ultimo atto. Rutelli e D'Alema sono rimasti a casa. Tutta gente che da mesi discuteva di come e quando sostituire Veltroni. E oggi, privati dell'obiettivo, non sa più cosa fare. Se non prendere tempo, per approvare poi quel che è accaduto. Una specialità del centrosinistra, insieme all'altro infinito passatempo della questione identitaria. L'identità cattolica, l'identità post comunista, l'identità riformista. Tante identità utili a litigare sul passato e non a decidere al presente, qui e oggi.
"Il discorso identitario non ci ha permesso di capire temi come la sicurezza, l'ambiente, le piccole e medie imprese e potrei andare avanti", dice Veltroni. Potrebbe sì: la natura eversiva del berlusconismo, la portata del conflitto d'interessi, l'avvento di una nuova era mediatica, la questione del Nord, i movimenti, la domanda di laicità e di diritti civili, la difesa degli interessi dei lavoratori e in particolare degli operai, che non sono spariti col comunismo, eccetera eccetera eccetera. Tutte questioni che ora dovranno aspettare una risposta ancora per qualche mese, essendo il principale partito d'opposizione affaccendato in altre mediazioni fra identità per la scelta del reggente e poi del segretario e in futuro del candidato premier. Senza contare l'avvincente diatriba sul cambiamento delle regole congressuali, il tesseramento, le norme di accesso alle eventuali primarie, il ponderoso dibattito sul partito del Nord. Il tutto in un partito che non ha trovato ancora il tempo, fra tesi, antitesi e sintesi hegeliane, di individuare una sede fisica nella città di Milano.
L'addio anticipato di Walter Veltroni ha avuto il merito di rompere con un colpo di gong gli stanchi riti di guerra simulata delle tribù del centrosinistra. Significa che non c'è più tempo. La fine di un dramma personale, quello di un "capo espiatorio", l'ennesimo senza erre, rivela il dramma vero, collettivo. Di un gruppo dirigente che rischia di essere ormai senza storia, e di un Paese intero che corre il pericolo di rassegnarsi a vivere in un regime senza opposizione.
(19 febbraio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 24, 2009, 05:49:31 pm » |
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I GIOVANI DEL PD / 1. Giuseppe Civati, consigliere regionale lombardo
"Franceschini è bravo, ma con scelte così stiamo tradendo gli elettori"
"Un errore votare Dario non si sceglie un capo in due ore"
di CURZIO MALTESE
"ABBIAMO arrotolato le nostre bandiere "Primarie subito" e siamo tornati a casa delusi. Diciamo la verità, quella dell'elezione di Franceschini non è stata una bella giornata". Giuseppe Civati, monzese, classe 1975, consigliere regionale lombardo (il più votato del Pd), ha l'aria del "bel fieou", come direbbe Berlusconi, ma con alle spalle un curriculum di ferro. Professore di filosofia e studioso del Rinascimento, colto, simpatico, popolare. Il suo blog è il settimo d'Italia, secondo politico, dopo Di Pietro. Vincitore a sorpresa del sondaggio dell'Espresso sul futuro leader del Pd. "Sono il primo a scherzarci sopra. Il dato significativo di quel sondaggio non era il primo posto, ma l'ultimo: Dario Franceschini".
Cominciamo da lei a impallinare il nuovo capo del Pd? "Ma no, certo che Franceschini è un'ottima persona. Il metodo però è sbagliatissimo. Ancora una volta, abbiamo fatto il contrario di quanto ci chiedevano gli elettori. E infatti nei sondaggi continua la caduta libera, siamo scesi dal 25 al 23".
Sondaggi, internet. Ma lei insegna Rinascimento o marketing? "Già. Ho letto che Franceschini e Bersani attaccano chi pretende di far politica coi blog. Pretende? Per la mia generazione è l'unico modo di fare ancora politica. Che dovremmo fare? Andare in sezione? A Milano la sede del Pd non c'è neppure".
Che cosa non la convince nell'elezione di Franceschini? "Non si elegge un nuovo capo in due ore. Al confronto Obama è Dysneyland. Poi questo rito del rinnovamento sempre annunciato e mai messo in pratica. Il prossimo che dice "o si cambia o si muore" lo picchio".
E se invece Franceschini cambiasse davvero? "Ne riparliamo fra un mese. Se Bassolino è sempre lì a far danno, allora significa che non è cambiato nulla".
Veltroni ha provato a far dimettere Bassolino. "E invece s'è dimesso lui. Ha idea di quanti voti ci toglie ogni giorno, da mesi, la vicenda campana? Noi andiamo in giro qui al Nord a sostenere il modello di buona amministrazione del centrosinistra, e la gente ci risponde sempre la stessa cosa: allora a Napoli? Oggi Velardi, assessore di Bassolino, ha definito il grande Roberto De Simone una sciagura. Domanda: è lo stesso Velardi che sul Corriere garantiva per Romeo una settimana prima dell'arresto? Ma perché noi dobbiamo farci il mazzo a volantinare nelle fabbriche del bresciano o a parlare con i piccoli imprenditori del Varesotto, quando poi questi distruggono tutto con una puntata di Porta a Porta?".
Che ne pensa del partito del Nord di Chiamparino e Cacciari? "Assurdo. Al Nord vivono venticinque milioni d'italiani e si producono i due terzi del Pil. Non stiamo parlando della Baviera o della Catalogna, con tutto il rispetto".
Ma il problema esiste. La sua area, la Grande Milano, otto milioni d'abitanti e un quarto del Pil, in questi quindici anni ha avuto meno rappresentanza nel centrosinistra di Nusco e Ceppaloni. "Più grave è essere assenti sui temi che riguardano il territorio. Malpensa è stata una catastrofe del centrodestra, un tradimento della Lega ai suoi elettori. E noi dove eravamo? Su temi come la sicurezza, il precariato, le riforme della pubblica amministrazione e del mondo del lavoro, abbiamo balbettato. Un giorno stiamo con la Cisl, l'altro con la Cgil. Nessuno sa più che fine ha fatto Ichino. Sul nucleare, in pochi mesi, abbiamo espresso tre posizioni diverse. Il no di Realacci, il sì di Veronesi e il forse di Colaninno. Sull'immigrazione pure, con il ridicolo finale di inseguire ora la destra sulle ronde, che non servono a nulla".
Non le chiedo neppure la sua posizione sulle interferenze della Chiesa e sul testamento biologico, visto che ha dedicato l'ultimo libro a Giordano Bruno. "Anche lì, un caleidoscopio di posizioni. In questo Franceschini ha detto una parola chiara e gli ho battuto le mani. Era ora".
Si risolverebbe tutto con l'avvento di voi trentenni? "Sciocchezze. Occorre una nuova generazione politica, non anagrafica. Bisogna farla finita con questa storia degli ex qualcosa. Io sono del '75, non sono ex di niente, per me la politica è cominciata con l'Ulivo. La verità è che questi sulla difesa dell'identità, in qualche caso acquisita di recente, come nel caso di Rutelli, ci campano".
Che cosa scriverà nel prossimo striscione congressuale? "Occupiamoci di loro, non di noi".
Da segretario dei Ds a Monza si è fatto un nome con la conquista a sorpresa della capitale della Brianza, il regno stesso di Berlusconi. Come avete fatto? "Imponendo la nostra agenda politica. Ce ne inventavamo una al giorno e loro erano costretti a inseguirci. Davamo le notizie. Abbiamo rivelato i progetti di cementificazione del fratello di Berlusconi, lo scandalo del nuovo centro commerciale, l'assalto alle aree verdi. Non è che bisogna sempre aspettare l'inchiesta di Report o di Repubblica per denunciare uno scandalo. Dopo un po' ci chiamavano anche gli elettori di destra per dire: io non vi voto, però vi devo raccontare questa cosa".
(24 febbraio 2009) da repubblica.it
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« Ultima modifica: Febbraio 26, 2009, 03:30:09 pm da Admin »
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 25, 2009, 10:04:28 am » |
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Il giovani del Pd/2. Gozi: primo banco di prova le candidature alle Europee
Basta favori a Berlusocni e Di Pietro, il leader sia capace di guardare oltre i capibastone
"Ai vecchi solo due posti su dieci nel partito ci vuole la quota grigia"
di CURZIO MALTESE
Il suo slogan potrebbe essere: "Io non sono un autarchico". Quarant'anni, quindici trascorsi in giro per l'Europa, Francia, Inghilterra, Balcani, una lunga esperienza a Bruxelles con Oreja, Prodi e Barroso, prima di tornare in Italia da parlamentare, nelle liste Pd. Sandro Gozi è stato uno dei più critici della linea Veltroni. "Ma non perché sia prodiano o dalemiano o insomma una di quelle etichette là. Semplicemente perché mi ero stufato di fare favori a Berlusconi e a Di Pietro".
Che favori ha fatto il Pd a Berlusconi in questi mesi? "Uno grandissimo. Aiutarlo a rimuovere la vera questione, la crisi economica. Berlusconi e le sue tv sono stati abilissimi nell'inventarsi un'emergenza al giorno. I clandestini, gli stupri, le intercettazioni, il testamento biologico. Tutte questioni importanti, per carità. Ma la vera priorità, la crisi, in questo modo è stata cancellata. E noi l'abbiamo inseguito sulla sua falsa agenda".
E' passato il messaggio che l'Italia è in qualche modo più al riparo dalla crisi degli altri paesi occidentali. Addirittura all'estero ci invidiano Tremonti. "Siamo riusciti a regalare a Tremonti la fama di gigante del pensiero economico. Grottesco. E' stato ed è un ministro disastroso, a tratti dilettantesco. I suoi libri sono un impasto di vecchi motivi riciclati, come certe canzoni di Sanremo. Viaggia in ritardo perenne. Nel 2003, quando occorreva essere rigorosi, fece saltare i patti di stabilità. Ora che bisognerebbe essere più elastici davanti alla crisi, riscopre il rigore. Il problema è che l'opposizione non se ne accorge neppure".
Non c'è stata abbastanza attenzione per l'economia nei vertici del Pd? "Non c'è attenzione per la realtà. E non c'è competenza. Si orecchiano le mode mediatiche, su tutti gli argomenti. Non si studiano i problemi, le polemiche sono superficiali, nominalistiche".
Diranno che è la solita tirata del tecnico contro il politico. "I capibastone vanno avanti su queste dicotomie d'altri tempi. Tecnici e politici, politica e società civile. Fesserie di cui si discute ormai soltanto in Italia. La verità è che nessuno di loro mette mai il naso fuori dall'orticello dell'identità di corrente".
Ora va molto il conflitto generazionale, vecchi contro giovani. Si pensa alle quote giovanili, oltre a quelle rosa. "Guardi io vorrei proporre la quota grigia, per gli anziani. Si stabilisce che per statuto gli ultracinquantenni con più di due mandati hanno diritto al 20 per cento dei posti. Che è più o meno quanto accade di fatto negli altri partiti riformisti d'Europa".
Buona idea. Si potrebbe cominciare dalle liste europee? "Quello è il test vero della segreteria di Franceschini. Ha detto che vuole cambiare e io gli ho creduto. Facciamo una rivoluzione. Alle europee, invece dei soliti ripescati, proviamo a candidare gente competente, che magari conosce anche qualche lingua. Non l'ha mai fatto nessuno, né a destra né a sinistra. Col risultato che in Europa contiamo sempre meno. Secondo me gli elettori del centrosinistra ci premierebbero. Certo, finora i nomi che si sentono vanno nella direzione opposta".
Infatti gli elettori del centrosinistra premiano Di Pietro. Perché? "Merito nostro. Mai una scelta netta, un'idea chiara, una parola comprensibile. Ma se tornassimo a fare il nostro mestiere, Di Pietro sparirebbe in pochi mesi".
Ne è proprio sicuro? "Sì. E' un Berlusconi rovesciato. Guida un partito personale, è un demagogo, non c'entra nulla con la storia della sinistra, non solo italiana. Non c'entra nulla con nessuna forza riformista presente in Europa. I nostri elettori lo votano per disperazione, non certo per convinzione".
Però Di Pietro è anche l'unico che ancora parla di conflitto d'interessi, dell'anticostituzionalità delle leggi sulla giustizia, delle continue interferenze del Vaticano. E' soltanto giustizialismo, estremismo, populismo? "Per nulla. Aver lasciato cadere il conflitto d'interessi è stato un altro errore. Alla fine, perché abbiamo perso in Sardegna, col miglior candidato possibile? Perché Berlusconi ha usato, e bene, le sue tv nazionali contro Soru. Del caso Mills si è parlato nei telegiornali francesi e tedeschi più che in quelli italiani. L'Europa ci guarda con preoccupazione, e tanta. Quanto al tema delle ingerenze della Chiesa, stiamo andando anche lì serenamente verso una deriva autarchica, incomprensibile oltre Chiasso. Ma anche di qua dal confine. In fondo il 70 per cento degli italiani, nel caso Englaro, si è pronunciato contro la visione delle gerarchie ecclesiastiche. Peccato, ancora una volta, non essersene accorti".
Franceschini ce la farà? "Se guarda oltre il fumo dei vertici di leader, scoprirà che il partito è pieno di risorse, di giovani e non giovani che hanno una gran voglia di fare politica, quella vera".
(25 febbraio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 26, 2009, 03:31:12 pm » |
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Giovani del Pd/3.
Martina, 30 anni, segretario regionale della Lombardia: "Nel cuore berlusconiano e leghista si vedono crepe, rilanciamo il valore del lavoro"
"Quei mille capannoni vuoti ecco la nostra arma al Nord"
di CURZIO MALTESE
"Bisogna ricominciare dai capannoni". Quali capannoni? "Quelli costruiti con la legge Tremonti nel Nord Est, una marea di capannoni che va da Novara a Mestre. Tutti vuoti, o quasi. Hanno devastato l'ambiente senza creare ricchezza. E' un monumento all'incapacità del berlusconismo di governare l'economia".
Maurizio Martina, bergamasco, trent'anni, un nome per i prossimi decenni. Una carriera lampo. Segretario bergamasco e poi lombardo dei ds, eletto responsabile lombardo del Pd con un plebiscito (78 per cento) alle primarie di ottobre. Ora è il più giovane della squadra chiamata da Franceschini a rilanciare il partito.
Martina, la sua ascesa non è la più clamorosa smentita all'idea che il centrosinistra sia chiuso ai giovani? "Forse, ma diciamo la verità. E' più facile avanzare nel vuoto. La Lombardia era ed è considerata dai dirigenti romani una terra di missione. E' difficile trovare candidati alla sconfitta certa".
Ma un partito rassegnato alla sconfitta nella regione di gran lunga più ricca e popolosa d'Italia, che futuro ha? "Nessuno. Infatti da lì occorre ricominciare, dal Nord".
Un anno fa ha detto che il Pd lombardo puntava a vincere le regionali del 2010. Lo ripeterebbe oggi, nel mezzo del disastro, coi sondaggi al minimo storico? "Sì, lo ripeto. Nel cuore dell'egemonia berlusconiana e leghista si cominciano a vedere le crepe. Finora loro reggono perché siamo mancati noi, l'opposizione. Ma bisogna fare in fretta. In giugno in Lombardia si vota in due terzi dei comuni".
Secondo i sondaggi, rischiate di essere spazzati via da tutte le città del Nord, a cominciare dalla sua Bergamo, Pavia, Lodi, Cremona, la Provincia di Milano. Da dove prende il suo ottimismo? "Secondo i sondaggi, Obama non doveva neppure fare le primarie. Questa crisi non è passeggera, come vogliono far credere Berlusconi e Tremonti. Sarà lunga, dura e porterà grandi mutamenti sociali e politici. Non possiamo dire oggi quale sarà il clima del Paese fra tre mesi, non parliamo poi da qui al 2013, quando ci saranno le politiche".
Era anche l'idea di Veltroni, poi si è dimesso. "Veltroni ha avuto il merito di capire che la questione centrale era la sfida sulla modernità. Sempre e comunque il centrosinistra in questi anni, anche quando ha vinto, è stato percepito come più conservatore dell'avversario. Era Berlusconi il nuovo".
E non è più così? Berlusconi ha smesso di sembrare nuovo? "Guardi, nel Nord gli imprenditori, di fronte alla crisi, cominciano a capire che le ricette facili di Berlusconi e Tremonti sono scenari di cartapesta, vuoti come quei capannoni. Il bluff dei dazi doganali, l'ideologia leghista del Nord trasformato in fortezza, lo stesso antieuropeismo della destra entrano in conflitto con gli interessi materiali di un territorio che al contrario ha disperato bisogno di tornare a esportare, d'integrarsi sempre di più col resto d'Europa e del mondo".
Non sarà invece che si pensa soltanto a fare i danè, a evadere le tasse col nero e a tenere sotto schiaffo gli immigrati, che così non chiedono l'aumento? "Mica tutti, mica tutti. Ci sono tanti imprenditori nella bergamasca che sono più a sinistra degli operai. Artigiani e operai che potrebbero vendere domattina e ritirarsi con una montagna di soldi e invece vanno avanti. Non è per soldi, ma per la voglia di fare. La ricchezza è il valore unico della destra, ma il lavoro dovrebbe tornare a essere il nostro valore. Ne guadagneremmo di voti".
Qual è secondo lei l'errore più grave del centrosinistra nel Nord? "L'ossessione dell'identità. Questo parlarsi addosso e contro, ex democristiani ed ex comunisti. Ma come, Berlusconi è stato tanto bravo a far dimenticare di essere stato ex qualsiasi cosa, dai socialisti alla P2, e noi qui a menarcela con le eredità del passato, invece di studiare il futuro".
E i possibili punti di forza? "Non c'è dubbio che abbiamo amministrato meglio. Bergamo, Brescia sono diventati modelli di autentico riformismo. Per trovare il riformismo non è che bisogna andare in pellegrinaggio da Blair o da Obama o su Marte, basta considerare quello che i sindaci di centrosinistra hanno saputo realizzare. E magari confrontarlo con il disastro della Moratti a Milano".
I milanesi si lamentano dell'immobilismo della Moratti. Ma intanto quali alternative avete offerto voi? "Sono d'accordo. Abbiamo parlato d'altro. Bisogna fare opposizione sulle cose. L'Expo era un'occasione e la destra la sta buttando alle ortiche, sono lì a litigare per le poltrone nel consiglio d'amministrazione fra Lega, An e Forza Italia. La vicenda di Malpensa è stato un altro fallimento della destra nei fatti. Non a caso sarà da Malpensa che Franceschini comincerà venerdì a girare l'Italia".
Qual è la prima proposta che farà al nuovo segretario? "Un esperimento. Proviamo per due mesi a non rispondere a nessuna delle provocazioni di Berlusconi e a parlare di un solo tema, uno solo, la crisi economica".
(26 febbraio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 04, 2009, 11:47:55 pm » |
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I giovani del Pd/6. Marta Meo responsabile in Veneto della questione settentrionale
"Bisogna essere aperti sui temi del lavoro e all'attacco su laicità e stranieri"
"Basta autogol nel Nord-Est è ora di parlare alla gente"
di CURZIO MALTESE
MARTA Meo, 38 anni, veneziana, architetto, due figlie, responsabile del Pd veneto per la questione settentrionale. Un rapporto assai dialettico con la dirigenza nazionale, per usare un eufemismo. Nel 2005 fu una delle protagoniste della vittoria a sorpresa di Massimo Cacciari al Comune contro il candidato diessino, il magistrato Felice Casson.
L'ultima polemica col Pd nazionale è stata sulla composizione del nuovo esecutivo ombra.
Che cosa non le piace del nuovo governo ombra di Franceschini? "E' una media ragionata fra il governo ombra precedente e l'ultimo governo Prodi, che non sono stati esattamente due successi".
In compenso la segreteria è innovativa, le pare? "Appunto. Perché tenere al solito i piedi in due scarpe? Tanto valeva rinnovare anche il governo ombra. Guardi, non è soltanto una questione di immagine o di nomi, spesso di qualità".
E allora dov'è il problema? "Le idee. Prenda Bersani, che è il nome di maggior spicco. Lo stimo molto ma c'era bisogno di novità. E' stato l'ultimo dei liberalizzatori, quando gli altri parlano d'intervento statale per sostenere l'economia. Arriviamo sempre in ritardo".
A lei non piaceva neppure il governo ombra precedente. Criticò l'assenza del suo concittadino Andrea Martella, ministro ombra delle infrastrutture, all'inaugurazione del passante di Mestre. "Un bell'autogol, davvero. Ma come, il centrosinistra è sempre stato favorevole al passante, ma il giorno dell'inaugurazione Martella non va perché, dice, è un'opera di regime. Ma i veneti lo volevano, risparmiano tempo e danaro. Sa qual è il vero problema del centrosinistra, al di là della storia vecchi e giovani?".
Che non si sforzano di pensare come i cittadini? "Sì. E impartiscono lezioni su problemi che non conoscono. Uno che non ha lavorato un giorno nella vita non può venire a spiegare che il passante è un'opera di regime".
Lei invece appartiene al popolo delle partite Iva. Come va con la crisi? "Molto male, nel Nord Est la crisi è pesantissima, ma non se ne parla. Si discute soltanto di aiutare le banche, le grandi imprese. Qui la gente soffre in silenzio, cerca di salvare le aziende a tutti i costi. Il governo non ci ha capito nulla. Ha detassato gli straordinari che di questi tempi non si fanno più. Ci sarebbe tanto lavoro politico da fare con i piccoli imprenditori".
Voi del Pd del Nord Est vi lamentate di essere considerati come missionari in terra straniera, abbandonati dal partito nazionale. "Una volta. Ora preferiamo che non venga nessuno da Roma a far danni. Durante il governo Prodi ogni volta che Visco apriva bocca per denunciare il Nord evasore noi facevamo la croce su migliaia di voti".
Ma il problema dell'evasione nelle imprese del Nord Est è reale, non le pare? "Certo che lo è, ma bisogna capire il fenomeno e non lanciare crociate moraliste. L'evasione fiscale è un tema, ma non il principale. Il più importante è creare lavoro. Spesso poi le soluzioni proposte erano velleitarie, dilettantistiche. E qui le persone lo capiscono. Ormai se vai nel vicentino senti casalinghe parlare di politiche tributarie meglio dei professori di Cà Foscari".
Il Pd di Veltroni era partito dal Lingotto con una grande attenzione per i problemi del Nord. Che cosa è successo dopo? "Che sono arrivati i nomi delle liste e qui a tutti sono cascate le braccia. Ma è vero che Veltroni era stato il primo dirigente del centrosinistra, da molto tempo, a dire cose giuste e non convenzionali sulla questione settentrionale, ovvero sulla modernità. Da qui bisogna ripartire e mi pare che Franceschini ci stia provando".
In Veneto e Lombardia il centrosinistra si trova davanti una specie di muro ideologico, difficile da sfondare anche per chi conosce bene il territorio, com'è stato per Cacciari prima e Riccardo Illy in ultimo. "Cacciari e ancora di più Illy hanno pagato un atteggiamento comunque aristocratico di fronte ai cittadini, da vicerè mandati in provincia".
La presunzione mista a vago disprezzo con cui i leader del centrosinistra trattano le popolazioni del Nord Est insomma non aiuta a raccogliere consensi. "Andiamo sul pratico. Voglio proprio vedere stavolta chi candidano alle europee. Perché qui l'Europa è presa molto sul serio, altro che provinciali. Le imprese vivono di esportazioni, tutti hanno rapporti con l'estero, non c'è artigiano che non conosca le leggi comunitarie. La Lega, non per caso, ha impostato tutta la campagna europea sulle macroregioni. Il centrosinistra invece di solito usa le europee come cimitero degli elefanti".
Non c'è il rischio che le critiche del Pd del Nord siano interpretate come un invito a inseguire la destra sul terreno della demagogia, per poi finire a organizzare ronde di sinistra o democratiche cacce al lavavetri? Col risultato di perdere quei pochi voti di sinistra e non prenderne mezzo dall'altra parte. "E' tutto il contrario. Noi dovremmo essere molto aperti sulla questione del lavoro, sganciarci dalla gabbia del sindacato e della difesa dei garantiti. Ma poi andare all'attacco sulla laicità e sui diritti di cittadinanza, per italiani e stranieri. Chiedere con forza il diritto di voto per i migranti. Per fare tutto questo ci vuole coraggio. Ma col moderatismo siamo arrivati al 22 per cento. Che cosa abbiamo da perdere?".
(4 marzo 2009) da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 05, 2009, 03:23:39 pm » |
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Laicità e merito i valori-guida.
E stop al mito del dialogo
Dalle interviste dell'inchiesta di "Repubblica" sui giovani del Pd, le 50 "parole chiave"
Figli dell'Ulivo, ingenui ed europei ecco la nuova leva dei Democratici
Ricorrono i termini "Bisogna", "fare" e "politica", oltre che "destra" e Stato"
di CURZIO MALTESE
Le crisi storiche dei grandi partiti occidentali si sono quasi sempre concluse con l'avvento di una nuova generazione di trentenni e quarantenni. E' successo al Labour inglese e ai socialisti spagnoli, come ai loro avversari, poi ai democratici americani, oggi accade ai socialdemocratici tedeschi e svedesi. Tutti partiti che si chiamano così da oltre un secolo. Il centrosinistra italiano, dopo ogni sconfitta, ha cambiato marchio e simboli, conservando linguaggio e nomenklatura. Veltroni e D'Alema litigano da vent'anni e da quattro partiti (Pci, Pds, Ds e Pd), ha scritto Ezio Mauro.
Questa finzione gattopardesca è ormai intollerabile all'elettorato che reclama il ricambio del gruppo dirigente nei sondaggi e nelle primarie. A volte senza neppure conoscere i nuovi, soltanto per esclusione. Siamo andati alla ricerca dei giovani democratici e abbiamo scoperto, per cominciare, che esistono. Non è vero che dietro l'oligarchia c'è il nulla. Al Nord, Centro e Sud s'incontrano donne e uomini di venti, trenta o quarant'anni, animati di passione politica, con le loro storie, professioni, idee. Da domani potrebbero prendere il posto dei vecchi senza farli rimpiangere troppo. E forse per nulla.
Migliori o peggiori dei Veltroni e D'Alema, Rutelli e Parisi, Bersani e Letta, Bindi e Marini? Giudicheranno i cittadini. Di certo, diversi. Più curiosi del futuro che del passato. Più simili ai cittadini che dovrebbero votarli. Non è soltanto questione di età, piuttosto di cultura e linguaggio. Mentre i vecchi leader litigavano sulle rispettive appartenenze, è cresciuta una generazione per la quale le categorie novecentesche hanno perso senso. A cominciare dalla questione dominante del secolo scorso, il comunismo. Che per l'Italia continua a essere un'ossessione. Ex e post comunisti, dialoganti con ex democristiani, in lotta con anticomunisti, a loro volte spesso ex comunisti, come se il muro non fosse mai caduto, in un delirio passatista di revisionismo rancoroso.
Questi altri, i giovani, non sono ex di nulla. Hanno votato Ulivo già a diciott'anni, sono cresciuti in una casa riformista comune, dove non è difficile trovarsi d'accordo sui valori fondanti. Cattolici e non cattolici, difensori della laicità dello stato. Moderati e radicali, convinti che il conflitto d'interessi (di Berlusconi, di Pincopallo o del governatore di una regione "rossa") sia un cancro della vita pubblica nazionale. Milanesi o siciliani, fieri europeisti, con esperienze di studio e lavoro all'estero, contatti quotidiani con coetanei che fanno politica a Berlino o Parigi, Londra o Madrid. In una specie di permanente Erasmus via Internet, dove ci si scambiano idee e informazioni sui temi del qui e dell'oggi, l'ambiente, l'energia, la crisi, i nuovi lavori, l'immigrazione. Assai più di quanto facciano con i colleghi europei i nostri parlamentari in villeggiatura politica a Strasburgo e Bruxelles, indipendentemente dal gruppo europeo al quale sono iscritti.
Hanno tutti vite che si possono raccontare oltre la sezione di un partito, non sono figli di dirigenti e funzionari, considerano la politica un impegno a termine, almeno per ora. E dalle esperienze di vita quotidiana hanno maturato quello che forse è mancato in tutti questi anni alle leadership di centrosinistra. Una visione della società italiana nei fatti alternativa a quella della destra di Berlusconi. Un'Italia più aperta e tollerante, ben disposta al merito e alla creatività, assai più integrata nel resto d'Europa, meno anomala e autarchica, familista e obbediente ai vescovi. Ma anche una sinistra meno autarchica e difensiva. E' una visione dove il coraggio si mescola con l'ingenuità. Ma forse è di coraggio e ingenuità che la sinistra ha bisogno. Nel suo primo anno di vita il Pd non si è concentrato sulla più grave crisi economica dagli anni Trenta ma sull'annosa questione del dialogo con Berlusconi. Dialogo sì, dialogo no, a prescindere, come stile politico. Senza neppure capire che, visto il risultato elettorale, Berlusconi non ha più bisogno di dialogo. Il temuto o sperato (da Veltroni) pareggio elettorale non c'è stato. Al massimo il premier ha oggi bisogno di un'opposizione che lo aiuti a far ingoiare all'opinione pubblica irriducibilmente democratica un certo numero di leggi razziali impensabili nel resto del continente, il regolamento di conti finale con la magistratura e qualche raffica di nomine di basso livello alla Rai o negli enti pubblici. Tutte operazioni alle quali procederà in ogni caso, anche senza la benedizione degli avversari. A questo brutale stravolgimento delle garanzie costituzionali, il centrosinistra ha offerto in questi anni soltanto una resistenza trattabile e poco convinta. Fino alla resa ideologica di contrapporre la ronda di sinistra a quella di destra, la caccia al lavavetri democratica contro quella leghista, il buon portatore di conflitto d'interessi (Soru) contro il cattivo. In cambio della concessione da parte del sovrano di qualche riserva indiana, di un piccolo statuto albertino in materia di sindacato o televisioni, e ancor di più in cambio della sopravvivenza del centrosinistra come ceto politico. Il tempo di questi giochi da seconda repubblica è ora scaduto. I cittadini chiedono che la politica non si occupi della propria sopravvivenza ma della loro, minacciata dalla crisi.
(5 marzo 2009) da repubblica.it
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:46:28 pm » |
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SPETTACOLI & CULTURA
Metodi e segreti dello scrittore che ha venduto 21 milioni di copie
Il romanziere a ore fisse che scrive come parla
Nella bottega di Camilleri "Così nascono i miei bestseller"
di CURZIO MALTESE ROMA - Il successo che arriva a settant'anni non ti cambia la vita, d'accordo. Ma incontrare Andrea Camilleri nella casa romana del quartiere Prati, il portone accanto alla sede della radio, nello stesso salotto da pensionato Rai dove l'ho conosciuto tanti anni fa, al principio dell'avventura, è una bella lezione di vita. Esattamente come quel giorno lontano, Camilleri si è svegliato alle sei, si è sbarbato e vestito di tutto punto per mettersi a scrivere, dalle sette alle dieci, minuto più, minuto meno. Ora, senza intervista, sarebbe in giro per il quartiere, al bar, a comprare le sigarette, a raccogliere le frasi perdute dalla gente, che poi finiranno in qualche suo romanzo. Dopo pranzo si rimetterà al tavolo di lavoro, per rivedere le pagine, correggere, riscrivere, per altre tre ore. La sera forse andrà a teatro con Rosetta, sua moglie da cinquantatré anni.
In mezzo a queste due giornate uguali, scandite dagli stessi riti, sono passati tre lustri, una trentina di romanzi, tradotti in tutto il mondo e venduti in ventuno milioni di copie, record per uno scrittore italiano.
Nessuno figura nella classifica dei primi dieci romanzi più venduti, ma quelli, da Eco a Saviano, per ora almeno, sono autori di un solo grande successo. Camilleri è una bottega da best seller, una formidabile macchina di scrittura. Di questo si parla. Il patto con Camilleri è di non occuparsi per una volta del battutista di Palazzo Chigi, un'ossessione di molti e anche sua. Ma è più affascinante l'altra ossessione, quella nei confronti della più grande macchina per scrivere della storia della letteratura, Georges Simenon. Camilleri l'ha letto, studiato, conosciuto, ammirato e naturalmente imitato per tutta la vita. Gli ha offerto un omaggio straordinario, e assai gradito da Simenon, curando la più bella traduzione in immagini delle avventure del commissario Maigret mai girata, quella con l'indimenticabile Gino Cervi.
Ora Simenon, autore di centinaia di romanzi, aveva una serie infinita di trucchi, accorgimenti, più un monumentale archivio, una Biblioteca di Babele fatta di appunti, mappe, documenti. Mi guardo intorno nella casa, alla ricerca dell'archivio di Camilleri. "Fatica inutile, non esiste un archivio", è la deludente risposta. "Non prendo neppure appunti, niente. Ho buona memoria, tutto qui. Sono ordinato per natura, sono metodico. Ma non ho testa per un archivio. Un'altra cosa, Simenon era andato a scuola da un commissario del Quai des Orfèvres per imparare le tecniche d'indagine, io no. Ho conosciuto commissari di polizia soltanto dopo aver scritto Montalbano. Il fatto è che, a differenza di Simenon, io forse ho l'anima dello sbirro".
Il mito Simenon Eppure un punto in comune con Simenon dev'esserci da qualche parte, insisto e uno lo trovo, anzi un paio. Gli autori seriali, da Simenon a King, sono come i serial killer, tendono a ripetere all'infinito le condizioni della prima volta. "Questo è vero. Gli orari di scrittura, soltanto al mattino, perché poi dovevo lavorare in Rai, il ritmo della giornata, tutto assomiglia alla prima volta, quando scrissi Il corso delle cose". L'altro punto in comune con Simenon è la lettura dei fatti di cronaca, pagine e pagine da una decina di giornali anche locali, e poi l'immersione nella realtà quotidiana del quartiere, la strada. "Mi piace inzupparmi di realtà. In fondo ho poca fantasia, e poi penso che i fatti reali siano sempre più imprevedibili delle trame degli scrittori". Gogol diceva di non aver fantasia, lo spunto per Le anime morte lo diede Pushkin. Aveva letto la storia di questo truffatore che girava per l'immensa Russia per comprare contadini defunti e ottenere così aiuti di Stato. "Come nasce un romanzo? Non l'ho mai capito. Leggi tanti piccoli fatti, ascolti frasi per strada. Due o tre rimangono in mente, crescono fino a diventare una storia. Ieri sono sceso a comprare le sigarette e ho sentito una ragazza che parlava al telefonino: "Ma come, vuoi fare l'amore con me, quando non abbiamo ancora consultato le carte?". Non è questo un magnifico spunto per una novella?".
Prima il dialogo Nei romanzi di successo contemporanei sono quasi sparite le lunghe descrizioni dei classici, di persone e ambienti e paesaggi. La stessa faccia di Montalbano è in fondo un mistero. È un calcolo, visto che poi quelle i lettori le saltavano tanto volentieri, o che cosa? "Per me no, non è tecnica. È la mia formazione teatrale. Mi viene naturale scrivere per prima cosa i dialoghi, il dialogo nudo e crudo. Quando ho stabilito come parla un personaggio, allora desumo com'è vestito, dove vive, in quale ambiente si muove. Ex ore tuo te iudico". Mi pare di capire che non abbia una gran fiducia nelle tecniche, nelle scuole di scrittura. Che cosa racconta ai giovani aspiranti scrittori? "La miglior scuola per imparare a scrivere è ascoltare. E naturalmente leggere gli scrittori che ci piacciono e provare a capire come hanno fatto". Ho notato che la sua biblioteca immensa è tutta sistemata in ordine alfabetico, tranne lo scaffale dietro la scrivania. "Qui tengo i prediletti. Cechov anzitutto, teatro e racconti. Gogol, Le anime morte e i Racconti di Pietroburgo, che sono la perfezione letteraria. Poi Beckett, Faulkner, Sterne, Pirandello, ma assai più le novelle, il teatro è un po' datato. Tutti questi sono di Leonardo Sciascia, che rileggo in continuazione, qui sta ovviamente Simenon, ed ecco Calvino, un dio della scrittura". Ma torniamo alla lingua. Prima di capire come parlano i personaggi, ci sono voluti trent'anni per capire come avrebbe parlato lui, l'autore. La ricerca di una lingua, la sua lingua, spiega la tardiva vocazione. "Beh, tardiva fino a un certo punto. Ho cominciato a pubblicare, e bene, prima dei vent'anni, su Mercurio. Poesie e racconti. Nel '47 Ungaretti m'infilò in un'antologia di nuovi poeti. Nel '48 Contini e Bo m'inserirono in un'altra, accanto a Pasolini, Zanzotto, Turoldo, Danilo Dolci, Maria Corti. Poi, certo, sparisco per mezzo secolo. Mi metto a scrivere una commedia, Silvio D'Amico mi consiglia di fare l'accademia a Roma e qui Orazio Costa dirotta il mio cervello dalla scrittura al teatro. Un lavoro stupendo, che non mi ha lascito mezzo rimpianto letterario. Quando m'è tornata voglia di scrivere, allora sì il problema è che non trovavo una lingua per raccontare".
Italiano e dialetto Così ha finito per ascoltare sé stesso. Molti scrittori parlano meglio di quanto scrivano, è una vecchia intuizione. "Proprio così. M'era venuta in mente la storia de Il corso delle cose e volevo scrivere. Ma non ci riuscivo. In quel tempo mio padre era malato, passavo le notti con lui e raccontavo il romanzo, alla maniera nostra, in quel misto di dialetto e italiano della piccola borghesia siciliana. Finché non mi venne l'idea: perché non scrivere come raccontavo a mio padre? Lo scrissi in pochissimo tempo e lo consegnai a Niccolò Gallo, grande critico, che mi promise di pubblicarlo entro l'anno. Ma, come direbbe Gadda, subito dopo si rese defunto. Il romanzo aspettò altri dieci anni". Non era facile far passare quella lingua al vaglio degli editor. A proposito, come sono stati i suoi rapporti con gli editor? "In realtà ne ho avuto uno solo, Gallo, che mi fece una montagna di correzioni, tutte preziosissime. Per il resto, ho continuato di testa mia. Tutti naturalmente mi consigliavano di lasciar perdere quella lingua bastarda. Perfino Leonardo Sciascia mi ripeteva: figlio mio, ma come vuoi che ti capiscano i lettori non siciliani? Ma per me era perfetto. Di una tal cosa l'italiano serviva a esprimere il concetto, della stessa il dialetto descriveva il sentimento".
La gabbia del giallo Ma i romanzi storici, bellissimi, cominciano a vendere con Sellerio. E poi arriva il botto di Montalbano. "È nato come un gioco. Per scrivere con metodo avevo bisogno di una gabbia, e quale migliore gabbia esiste del giallo? Il successo fu una cosa imprevista e incredibile. Balzai da cinquemila copie a novecentomila, un delirio, E un ricatto pazzesco. Sono anni che penso di sbarazzarmene, senza riuscirvi. Adesso esce l'ultimo e poi basta". È vero che ha accantonato l'idea di far morire Montalbano? "Sì, lo faccio sparire letterariamente. Il fatto è che una decina d'anni fa ci trovammo a Parigi con Manuel Vázquez Montalbán e Jean Claude Izzo e cominciammo a discutere di come far morire i nostri investigatori. Poi accade che Montalbàn e Izzo morirono tutti e due all'improvviso, senza riuscire a compiere il delitto. E io, che sono pur sempre meridionale, ho cambiato idea".
Come vive il mondo di Montalbano con quello dei romanzi storici? E soprattutto come si riesce a vivere in mezzo a quella folla di personaggi? Per uno scrittore è già difficile convivere con sette o otto personaggi alla volta. Dopo un po' diventano persone reali, che si aggirano per casa, dialogano, vivono euforie e depressioni. Camilleri scrive tre romanzi contemporaneamente, quindi si ritrova in duecento metri quadri decine di tipi che pretendono attenzione. "In effetti ogni tanto mi confondo, oppure esco e li lascio soli a vedersela fra di loro. Ma il mondo di Montalbano è un'altra cosa rispetto ai romanzi, è più rilassante, meno impegnativo. Perché quei personaggi sono in realtà maschere fisse, un teatro di pupi. Per il resto, sono abituato alla confusione. Io scrivo in un autentico bordello, con gente che va e che viene, amici, parenti, nipotini che si siedono sulle ginocchia, il rumore della città di sottofondo. Mia moglie mi dice, non sei uno scrittore, sei un corrispondente di guerra. Una volta ho provato a prendere una casa in campagna per concentrarmi e non sono riuscito e scrivere niente. Quando non riesco a sviluppare una storia, di solito non smetto di scrivere. Rispetto sempre l'orario, come un impiegato, e piuttosto che nulla, scrivo lettere a me stesso. Bene, quella volta tornai dalla villeggiatura con un pacco di lettere a me stesso".
L'arma dell'ironia C'è un ultima curiosità nel fenomeno Camilleri. Non solo è lo scrittore italiano che ha venduto di più ma è anche la smentita più clamorosa al luogo comune per cui i lettori italiani non apprezzano il senso dell'umorismo. Nella lista dei best seller, in genere improntata a una granitica assenza d'ironia, i suoi romanzi spiccano per doti satiriche, con alcuni capolavori del genere, come La presa di Macallè. "Sì, ma non a caso è stato quello che ha avuto un'accoglienza furibonda dalla critica. In Italia la satira è sempre stata considerata un genere minore. È una colpa dedicarsi a una letteratura non penitenziale. Per me è fondamentale sorridere ogni tanto, mentre scrivo. Far sorridere i lettori, se posso, lo considero un gran vanto, forse il maggiore".
(19 aprile 2009) da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Maggio 14, 2009, 11:56:26 am » |
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IL COMMENTO
Lo specchio infranto
di CURZIO MALTESE
Ma che effetto avrà fatto agli italiani vedere in mondovisione il presidente del Consiglio costretto a discolparsi di non andare con le minorenni? Dice proprio così, "Non è vero che frequento le minorenni". Come sostiene non un passante, un avversario politico senza scrupoli, un giornalaccio scandalistico, un sito di gossip, ma la madre dei suoi figli. Eccolo, il premier più popolare del mondo, secondo i suoi stessi sondaggi amato dal 75 per cento degli italiani, ma compatito, con punte di disgusto, dalla donna che gli sta accanto da trent'anni. Perché, sostiene Veronica, "è una persona che non sta bene".
Eccolo, il re nudo, con i suoi settantadue anni e i capelli nuovi, il cameraman di fiducia, nel salotto amico, mentre spiega che figurarsi se lui frequenta le ragazzine, come sostiene Veronica. Figurarsi se voleva candidare le veline all'europarlamento. Figurarsi se Veronica, che gli sta accanto da trent'anni, conosce la verità. Figurarsi, d'altra parte, se lui candida qualcuno per altri meriti che l'impegno negli studi, la competenza, l'idealismo, come del resto "nel caso di Gelmini, Carfagna, Brambilla...". Ma si capisce, certo.
Nella sempre spettacolare parabola di Silvio Berlusconi questo rimarrà il vertice. Ma stavolta non è stato lui a scegliersi la scena e neppure la parte. Lo ha costretto la moglie. L'unica persona vicina a infrangere lo specchio e a rompere il muro dell'omertà, retto per tanti anni da centinaia di schiene di cortigiani politici, giornalisti, avvocati, amici, disposti a chiudere un occhio, due, tre in tutti questi anni sullo scempio di legalità e moralità. E lui ha dovuto andare in televisione, in mondovisione, a raccontare che sua moglie è male informata sul marito, vittima di un complotto della sinistra, dei giornali di sinistra, di Repubblica. "Non a caso Repubblica". Vero. Da chi doveva andare Veronica, in un paese classificato nella libertà di stampa dietro al Benin, dove il marito controlla gran parte dell'informazione? Non c'era molta scelta. Neppure Berlusconi ha fatto una scelta originale, andando da Vespa per riparare i danni dell'attacco dei vescovi. Dove, sennò?
La claque lo sostiene, lo applaude a ogni passaggio della difficile arrampicata di sesto grado sugli specchi, sullo specchio del volto gigantesco di Veronica alle sue spalle. Sembra una scena di un film di Fellini, la Donna stupenda e immensa, e l'omino laggiù, una formica, che si dibatte in alibi puerili, strepita innocenza, sputa minacce. Gli spettatori italiani, dopo tanti anni di teleserva, non faranno più caso all'atteggiamento di Bruno Vespa, accondiscende fin dal titolo. Il più surreale mai escogitato da Vespa: "Adesso parlo io". Adesso parla Berlusconi? Perché, gli altri giorni degli ultimi quindici anni? Tuttavia, tanto per dare un'idea vaga di giornalismo, bisognerebbe ricordare il genere delle questioni poste a Bill Clinton dal suo intervistatore per il caso di Monica Lewinski (peraltro abbondantemente maggiorenne). Queste: quando, dove e come vi siete conosciuti? Quante volte vi siete visti in seguito? I genitori erano al corrente del vostro rapporto e in quali termini? E' venuta a trovarla a Washington (a Roma)? E' andato a trovarla a casa di lei? Dove dormivate? Avete avuto rapporti sessuali? Di che tipo? Quante volte? Quante volte completi? E Bill Clinton ha risposto a tutte le domande, senza citare neppure alla lontana una teoria del complotto. Alla fine è andato a scusarsi da sua moglie, nel salotto di casa, non nel salotto televisivo del ciambellano. Ha chiesto perdono a sua moglie, che aveva offeso. Si è ripresentato all'opinione pubblica quando lo ha ottenuto, dopo aver ammesso nel dettaglio più intimo e vergognoso le proprie colpe. Così accade in un paese democratico e civile.
Forse a Silvio Berlusconi sarà bastato passare una sera dall'amico Vespa, nel calore della claque, per ricominciare da domani come nulla fosse. Magari bisognerà pure rassegnarsi, con realismo, a capire che in questa storia l'unica che non potrà più liberamente andare in giro per le strade di questo paese è la vittima, Veronica Lario. Già inseguita dalla muta dei cani che hanno appena cominciato a delegittimarla in tutti i modi.
(6 maggio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #24 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:32:54 am » |
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IL COMMENTO
Il modello nordcoreano
di CURZIO MALTESE
Con quello che viene fuori ogni giorno, sarebbe curioso se gli italiani si scandalizzassero per le nomine Rai. Eppure anche in questo teatrino dell'abuso di potere, si stanno raggiungendo livelli d'inaudito squallore.
Oggi i vertici di viale Mazzini approveranno la prima rata delle nomine decise un mese fa a casa Berlusconi. A casa del proprietario di Mediaset. Magari negli intervalli fra una visita dell'avvocato Mills e un karaoke con Noemi. La prima tranche di nomine prevede l'arrivo al Tg1 di Augusto Minzolini da La Stampa e a RaiUno di Mauro Mazza, in quota ad An. Berlusconi per ora si ferma qui, al boccone più grosso, lasciando a Fini un pezzo dell'arrosto. La seconda rata di lottizzati è rimandata a dopo le elezioni di giugno, nella speranza di fare il pieno di voti e quindi di poltrone Rai, strappando anche le bricioline destinate all'opposizione.
Il Genio, l'Uomo dei Miracoli, il Premier Ingegnere, il Premier Generale, tanto per citare alcune definizioni del Minzolini, in uno dei suoi tanti splendidi esempi di reportage nordcoreano, insomma padron Berlusconi, ha deciso così. Furbo com'è, avrà la sua convenienza. Piuttosto chiara, peraltro, anche a noi fessi. In vista delle elezioni, ottiene il massimo vantaggio. Intanto occupa militarmente il Tg1, avviato sulla gloriosa strada di Tele Pyongyang. Quindi terrorizza i superstiti da un lato e dall'altro spinge gli altri aspiranti direttori ad aumentare il grado di piaggeria nei confronti del capo. Il che per molti di loro non è neppure semplice. A meno di non presentarsi alle serate di Porta a Porta direttamente da uomini sandwich elettorali. Oppure tenere pubblici comizi contro Veronica Lario, come del resto hanno già fatto quasi tutti, con bieca ingratitudine. Non fosse per l'alt di Veronica, l'anziano leader ormai annoiato dai cortigiani avrebbe già nominato al posto loro un battaglione di veline e letteronze, studiosissime di Heidegger s'intende, più un paio di Oba Oba a Rai International.
Di fronte a un simile disprezzo per la tv di Stato, sarebbe lecito e normale in altri paesi l'incatenamento di massa ai cancelli di viale Mazzini da parte di dirigenti, leader politici, sindacalisti, maestranze in genere. E' invece difficile anche soltanto ascoltare una voce critica. L'unica a bucare l'assordante silenzio è stata quella di Sergio Zavoli, presidente della commissione di vigilanza parlamentare, uno che vuole davvero bene alla Rai. Una bella voce, con il tono giusto, fra l'indignato e l'avvilito. La Rai che sta uscendo da queste bulimiche riunioni di potere a casa Berlusconi, sostiene Zavoli, è una Rai dove sono negati il pluralismo, il merito, la decenza. "Le nomine non tengono conto della ricchezza culturale dell'azienda e del Paese". Si può aggiungere che negano l'identità stessa della Rai.
Nel bene o nel male, la tv di Stato ha sempre rispecchiato il Paese, con le sue piaggerie e servilismi, ma anche con le oasi di intelligenza, coraggio, talento. Nella Rai fatta a casa Berlusconi non vi saranno neppure le oasi e i nuovi direttori dovranno accollarsi un compito di pulizia e polizia, la chiusura delle poche finestre informative superstiti, i programmi di Gabanelli, Iacona, Fazio e Santoro. Per approdare a Tele Pyongyang, all'elogio permanente del capo e del suo governo.
(20 maggio 2009) da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Giugno 29, 2009, 06:45:14 pm » |
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Le loro biografie più "calde" di quelle di Bersani e Franceschini
Il paradosso Chiamparino: ha 61 anni ed è il più tifato dai giovani
Pd, l'ombra del terzo uomo
Serracchiani E Civati: il vivaio sogna l'outsider
Al Lingotto anteprima del congresso di ottobre
Tutti alla ricerca di una "terza via" tra i due sfidanti
di CURZIO MALTESE
TORINO - E' diventata di colpo un'anteprima del congresso di ottobre, con il primo duello fra Bersani e Franceschini e sullo sfondo l'ombra del terzo incomodo Sergio Chiamparino. Un gran successo d'immagine, ma era quello lo scopo? Sono corsi tutti al Lingotto per cercare la cosa che al riformismo italiano è sempre mancata, sotto qualsiasi sigla, simbolo, dirigenza. In una parola, il coraggio. Ma di coraggio più che altro s'è sentito parlare. Nei fatti, poca roba. Chi ne ha avuto di più sono stati i vecchi, se volete i meno giovani, a cominciare dai due candidati Franceschini e Bersani, che non dovevano neppure parlare. Hanno cominciato fra qualche fischio e mugugni vari, hanno finito fra gli applausi. Più emozionante il segretario, che aveva il look giusto, scamiciato. Più concreto lo sfidante. Tutto secondo copione.
Un'ovazione aveva salutato il discorso tosto e un po' retro del padrone di casa, Sergio Chiamparino, che i giovani vorrebbero candidare come bandiera del rinnovamento. A metà dell'assemblea quello del sindaco di Torino è parso un discorso di candidatura, all'altra metà una chiara rinuncia. Ma qui entriamo in una serie di paradossi difficili anzitutto da capire, figurarsi da raccontare.
Il dato sicuro è che il favoleggiato ricambio generazionale, reclamato a parole da tutti, anche dagli ottuagenari, e voluto sul serio dagli elettori, non sembra alle porte. Alla vigilia della battaglia, i trentenni e quarantenni del Pd non hanno trovato di meglio che provare a convincere Chiamparino a lanciarsi nella sfida. Se il sindaco accettasse, potrebbe sparigliare i giochi. Ma comunque saremmo al ricambio generazionale alla rovescia, un sessantenne dopo i cinquantenni Veltroni e Franceschini.
Per giunta, una soluzione di ripiego, perché la candidata naturale dei giovani sarebbe stata Debora Serracchiani, ormai popolarissima, che è invece orientata ad appoggiare Franceschini. Chissà, forse è meglio a questo punto lasciar perdere le carte d'identità e badare all'identità politica. Il difetto di questi giovani del Pd è forse di sentirsi troppo giovani, anche a quarant'anni. Quando, per fare un paragone, a quell'età Veltroni era già vice presidente del Consiglio e D'Alema segava serenamente la sedia di Occhetto.
Quello che s'è capito dalla giornata del Lingotto è che in ogni caso esiste uno spazio largo per una terza candidatura, e magari per una quarta e quinta. Spazio mediatico, politico, di consensi popolari e di argomenti. Perfino uno spazio biografico. Le biografie di Franceschini e Bersani sono quelle di uomini di partito. Ottimi uomini di partito, bravissimi organizzatori. Ma i leader di questa epoca non sono mai uomini di partito e basta. Sono narratori. E la prima cosa che raccontano agli elettori è la propria vita. Sul mercato della comunicazione, le vite dei funzionari di partito oggi non interessano né a destra né a sinistra.
Personaggi come il medico Ignazio Marino, l'avvocato Debora Serracchiani, il giovane economista Marco Simoni o il professore di filosofia Giuseppe Civati, per citare alcuni possibili candidati della "terza via", sono tutti più seducenti per i media. Esiste poi uno spazio di argomenti politici. Altrimenti detti: valori. Lo scontro fra Franceschini e Bersani si giocherà molto sul tema delle future alleanze del Pd, che non scalda moltissimo i cuori. Molto meno di valori che si possono scrivere con la maiuscola, come la Laicità, i Diritti Civili, la Solidarietà, la Giustizia. Temi sui quali la platea del Lingotto si è spellata le mani, da chiunque fossero evocati, da Chiamparino come da Serracchiani, nelle brevi ma appassionate arringhe di Pippo Civati, Sandro Gozi, Paola Concia, Francesco Boccia e altri. Insomma lo spazio c'è e siccome in politica il vuoto non esiste, prima o poi uno di questi andrà ad occuparlo.
Una terza candidatura di pura testimonianza? Non è detto. Nella prima fase del congresso di ottobre decideranno gli apparati del partito. Bersani parte gran favorito, grazie all'appoggio di D'Alema e del decisivo Antonio Bassolino, che oggi controlla le 80 mila tessere Pd campane su un totale nazionale di 370 mila. Un dato che può anche indurre a meste riflessioni. Ma nella fase finale, le primarie, decidono due o tre milioni di persone e tutto può succedere.
Comunque vada a finire, la base chiede ai contendenti un confronto leale, sincero, senza colpi bassi. Chiede quantomeno ai dirigenti del Pd di non lanciare, con le loro divisioni, l'ennesima ciambella di salvataggio a un Berlusconi in gravi difficoltà. Se il buon giorno si vede dal Lingotto, la partita non comincia male.
(28 giugno 2009) da repubblica.it
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 27, 2009, 04:24:49 pm » |
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LA POLEMICA /
I direttori di Tg3 e RaiTre sono ritenuti da tutti ottimi professionisti ma non piacciono a Berlusconi: per questo ha dato l'ordine di farli fuori
L'assalto finale al fortino di RaiTre
di CURZIO MALTESE
GLI attuali direttori di Tg3 e RaiTre, Antonio Di Bella e Paolo Ruffini, sono ritenuti da tutti ottimi professionisti, fra i migliori della Rai. Hanno ottenuto del resto, sia in qualità che in quantità d'ascolti, molti eccellenti risultati. Tranne l'unico che conti nell'Italia di oggi: piacere a Berlusconi. Per questo il sultano ha dato ai vertici di viale Mazzini l'ordine di farli fuori, trovando una scusa. Compito non facile, perché di ragioni davvero non ce ne sono. Ma quando non esistono spiegazioni logiche, di solito basta inventarsi un complotto e un colpevole.
I vertici Rai, che invece non brillano né per doti professionali né per fantasia, hanno infine convenuto d'indicare all'opinione pubblica il colpevole più banale: la sinistra. È ormai come dire che l'assassino è il maggiordomo, ma funziona sempre. Sarebbe il Pd a volere il caos della terza rete per poter lottizzare dopo il congresso, secondo il volere del vincitore. L'ipotesi sembra troppo cretina perfino per gli elevati standard di autolesionismo del centrosinistra. Ma Antonio Di Pietro, per esempio, ci crede e dà una mano ad addossare alla sinistra la colpa dell'epurazione voluta da Berlusconi.
Naturalmente ai tre candidati alla segreteria del Pd, Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino, basterebbero dieci minuti per smontare la vicenda. Il tempo di prendersi un caffè insieme e annunciare il via libera alle nomine di RaiTre. Ma evidentemente i tre non sono in grado di prendere insieme neppure un caffè, oppure non capiscono la portata della minaccia.
Nel mirino di Berlusconi non ci sono tanto questa o quella poltrona Rai, le ha già quasi tutte. Se così fosse, non varrebbe neppure la pena di parlarne. Ma al premier interessa piuttosto eliminare un gruppo di programmi amati e, per lui, pericolosi. Si tratta anzitutto di "Che tempo che fa" di Fabio Fazio e di "Report" di Milena Gabanelli, fiori all'occhiello della rete, quindi dei salotti di Serena Dandini e di Daria Bignardi, "Parla con me" e "L'era glaciale".
Un bouquet di trasmissioni che ha molti meriti o demeriti, dipende dai punti di vista. Riescono a coniugare qualità e popolarità, danno un senso al concetto di servizio pubblico e tengono attaccato alla Rai un pezzo d'Italia moderna e intelligente, assai ambita dai pubblicitari, la quale altrimenti sarebbe già del tutto emigrata sul satellite. L'obiettivo del premier e padrone di Mediaset è di cancellarli. Stavolta con calma, senza editti, lavorando di cesello sul palinsesto e tagliando i fondi.
Il direttore Ruffini, degno erede di Angelo Guglielmi, non accetterebbe mai di sottoscrivere una simile sterilizzazione della rete. Occorre dunque uno spaventapasseri di sinistra disposto alla bisogna, in cambio della poltrona. Se ne trovano a mazzi, basta fare un fischio e si forma la coda davanti a Palazzo Grazioli. I nuovi direttori di Tg3 e RaiTre faranno tanti complimenti a Fazio e Gabanelli, Littizzetto e Dandini, ma diranno che è venuto il tempo di cambiare, innovare. In peggio, aggiungiamo pure.
Può stupire che Berlusconi, con tutto il potere di cui dispone, si concentri su questa battaglia. Ma il risultato alle elezioni europee di giugno l'ha ormai convinto che anche le riserve indiane debbano essere bonificate e gli ultimi professionisti della comunicazione vadano sostituiti con burattini pubblicitari manovrati da Palazzo Chigi.
Il piano d'assalto all'ultima roccaforte indipendente dall'egemonia berlusconiana è astuto e probabilmente andrà in porto. A meno che Franceschini, Bersani e Marino non trovino quei dieci minuti per disinnescarlo. Ma sono troppo impegnati a discutere sulla forma del partito e il suo radicamento nel territorio. L'ipotesi che l'attuale RaiTre sia ormai il principale radicamento nel territorio della cultura progressista in Italia sopraggiungerà soltanto fra qualche anno, come si dice in questi casi: a babbo morto.
(27 agosto 2009) da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 15, 2009, 10:21:45 am » |
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IL COMMENTO
La strategia del ragno
di CURZIO MALTESE
C'è qualcosa che gli italiani non sanno, ma soprattutto non debbono sapere, dietro la violenza dell'assalto finale di Silvio Berlusconi al valore di cui s'è sempre orwellianamente riempito la bocca, la libertà.
La libertà d'informazione e di critica del giornalismo, perfino la semplice libertà di scelta degli spettatori televisivi. C'è, deve esserci una disperata ragione se il premier, già osservato speciale delle opinioni pubbliche di mezzo mondo, invece di rientrare (lui sì) nei ranghi del gioco democratico, continua a sparare bordate contro le riserve indiane che ancora sfuggono al suo controllo.
L'ultimo episodio, l'oscuramento di Ballarò su Raitre, e ora anche di Matrix su Canale 5, per concentrare tutta l'audience di oggi sulla puntata celebrativa di Porta a Porta per la consegna alle vittime del terremoto abruzzese delle prime case, aggiunge un ulteriore tocco "coreano" al disegno dell'egemone. Volenti o nolenti, milioni di spettatori sono chiamati stasera all'appello, da bravi soldatini, per plaudire al "miglior presidente del Consiglio in 150 anni", che si esibisce nell'ennesimo spettacolare sfruttamento del dolore, fra le lodi dei ciambellani. Si ha un bel dire che ci vuole prudenza nell'adoperare certe parole, ma queste cose si vedono soltanto nei regimi. Più spesso, alla fine dei regimi, quando l'egemone è parecchio in là con gli anni e con l'incontinenza egolatrica.
La vicenda è grave in sé, come ha subito commentato Sergio Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza e memoria storica della Rai. E lascia perplessi che invece il presidente di garanzia della Rai la riduca a scompenso organizzativo. Si tratta quantomeno di un eufemismo. Ma l'affare Ballarò diventa ancora più inquietante perché s'inserisce in una strategia del ragno governativa per intimidire o tappare direttamente la bocca all'informazione critica.
Le denunce e le minacce contro Repubblica e Unità e perfino la stampa estera, il pestaggio mediatico di questo o quel giornalista, gli avvertimenti mafiosi a questo o quel conduttore perché si pieghino alle censure o dicano addio ai loro programmi, questi sono i metodi. Non si può neppure dire che si tratti di una trama occulta. Gli obiettivi sono palesi, dichiarati, in qualche caso rivendicati. Berlusconi sta usando tutto il suo potere di premier, primo editore e uomo più ricco d'Italia, per strangolare economicamente la stampa d'opposizione, epurare i pochi programmi d'informazione degna di un servizio pubblico, a cominciare da Annozero di Santoro, Report di Gabanelli e Che tempo che fa di Fazio, infine destituire l'unico direttore di rete televisiva, Paolo Ruffini di RaiTre, che non obbedisce agli ordini.
Non sappiamo se tutto questo si possa definire "l'agonia di una democrazia", come ha scritto Le Monde. Ma certo gli assomiglia moltissimo. Del quotidiano francese si può condividere anche il conciso titolo del commento: "Basta!". Nella speranza che siano in molti ormai in Italia a voler dire "basta!", non tanto, non più per convinzione politica, ma per buon senso, decenza e amor di patria. Lo si vedrà anche alla manifestazione di piazza del Popolo il prossimo sabato.
Al giornalismo libero rimane il compito di chiarire il mistero dietro l'offensiva finale di Berlusconi contro la libertà d'informazione. Oltre a quanto già gli italiani sanno, o almeno la minoranza che non si limita a bersi i telegiornali. E cioè il terrore governativo per il calo (reale) di consensi, l'incombere degli effetti autunnali della crisi sempre negata, il dilatarsi dei noti scandali di escort e minorenni, l'avvicinarsi di una sentenza della Consulta che potrebbe restituire Berlusconi alle proprie responsabilità davanti alla legge. E poi forse ci sarà dell'altro da nascondere, che all'informazione indipendente spetta d'indagare. Salvo che il potere impedisca ai giornalisti di fare il proprio lavoro. Come sta accadendo in Italia, con questa guerra preventiva, sotto gli occhi di tutto il mondo.
(15 settembre 2009) da repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:38:18 pm » |
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Berlusconi a "Porta a porta" torna all'attacco della stampa
Tre ore di spot governativo senza alcun contraddittorio
Monologo con insulti e menzogne nel salotto del servizio pubblico
di CURZIO MALTESE
C'è poco da commentare sulla puntata di "Porta a Porta" di ieri sera. Bisogna passare ai fatti. Registrare tutto e inviarlo al resto del mondo, via Internet, con una sola parola d'accompagnamento: "aiuto!". Tre ore di spot governativo, con il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, autoproclamatosi "superiore a De Gasperi", senza alcun contraddittorio, non soltanto in studio, ma nell'etere intero. Che ne penseranno nei paesi democratici?
Il Presidente Ingegnere, come scriveva Augusto Minzolini prima d'essere premiato con la direzione del Tg1, che consegna le prime case ai terremotati abruzzesi, è l'ultima versione dell'Uomo della Provvidenza. Bruno Vespa lo prende sottobraccio, da vecchio amico, fin dalla prima scena. A spasso fra le macerie dell'Aquila e della democrazia italiana. I commenti del conduttore spaziano fra "ma questo è un record!" a "un altro record!", fino a sfociare "è un miracolo!". Ma Onna, i terremotati e il loro dolore, la ricostruzione dell'Aquila, ancora di là da venire, sono soltanto pretesti.
Dopo mezzora si capisce qual è il vero scopo della trasmissione a reti unificate. Un attacco frontale alla stampa, anzi per dirla tutta a Repubblica. Noi giornalisti di Repubblica siamo "delinquenti", "farabutti" che ci ostiniamo a fargli domande alle quali il premier non risponde da mesi. Se non con questo impasto di minacce e menzogne, come la favola della "perdita di lettori e copie": un'affermazione smentita dalle vendite del giornale in edicola che sono in costante ascesa.
Ecco lo scopo di non avere un Ballarò e neppure un Matrix fra i piedi. Non tanto e non solo per disturbare il "vi piace il presepe?" allestito sulla tragedia del terremoto. Quanto per non rischiare un contraddittorio durante la fase di pestaggio.
Vespa non ci ha neppure provato, a parte il minimo sindacale ("Nessuno di Repubblica è presente"). Lasciamo perdere gli altri figuranti. Nessuno, nell'affrontare il problema dei rapporti con Fini, ha chiesto al Cavaliere un giudizio sui dossier a luci rosse contro il presidente della Camera sventolati come arma di ricatto da Vittorio Feltri, direttore del giornale di famiglia.
Già una volta il presidente del Consiglio era andato nel cosiddetto "salotto principe" della televisione, a "chiarire le vicende di Noemi e il resto", senza chiarire un bel nulla e con i giornalisti presenti, fra i quali il solito Sansonetti, il quale non poteva mancare neppure ieri sera, tutti ben contenti di non rivolgergli mezza domanda sul caso specifico. Stavolta però si è polverizzato davvero ogni primato d'inciviltà. Ma che razza di servizio pubblico è quello che organizza simili agguati? E' un'altra domanda che probabilmente non avrà mai risposta. Non da Berlusconi e tanto meno dai sottostanti vertici della Rai.
Il meno che si possa dire è che la puntata di "Porta a Porta" ha dato ragione a tutte le critiche della vigilia. Anzi, è andata molto oltre le peggiori aspettative. Ed è tuttavia interessante notare l'evoluzione del caso Berlusconi. Che senso ha attaccare la stampa indipendente al cospetto di una platea televisiva che poco o nulla sa delle inchieste di Repubblica e degli scandali del premier, dello stesso discredito internazionale che circonda ormai la figura di Berlusconi in tutto il mondo libero? E' davvero singolare che sia proprio Berlusconi a parlarne. Da solo, visto che i prudenti giornalisti chiamati a fargli ogni volta da corte, astutamente si guardano bene dal citare questi fatti. Per capirlo, ci vorrebbe uno psicoanalista, di quelli bravi.
Alla fine, a parte lo scempio d'informazione, cui ormai si è quasi abituati, indigna più di tutto la strumentalizzazione del dolore della gente abruzzese. La diretta in prima serata e l'oscuramento della concorrenza era stato giustificato dalla Rai con l'urgenza dell'evento, la consegna dei primi novantaquattro appartamenti agli sfollati del terremoto. Chiunque abbia seguito la serata ha potuto constatare come questo fosse appena un miserabile espediente, liquidato in pochi minuti, con qualche frase di circostanza e commozione da attori. Per poi passare al regolamento di conti con chiunque osi criticare il presidente del Consiglio. Ce la potevano risparmiare, questa serata di veleni e sciacalli.
(16 settembre 2009) da repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Settembre 17, 2009, 04:54:37 pm » |
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Il fallimento del comunicatore
di CURZIO MALTESE
Berlusconi ha fatto segnare un record. Questo vero. Il presidente del Consiglio, ospite unico dello speciale di Porta a Porta, ha registrato il peggior ascolto dell'anno nella prima serata di Raiuno. Tre milioni 200 mila spettatori di media, il 13,4 per cento di share. Un risultato che per qualsiasi altro programma di Raiuno comporterebbe l'immediata chiusura col voto unanime dei vertici di viale Mazzini. Al contrario, stavolta erano stati oscurati i programmi concorrenti, da Ballarò a Matrix.
Eppure la "tv dell'obbligo", come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, non ha funzionato. Soprattutto perché non ha funzionato lui, il Grande Comunicatore. È una nemesi storica per un uomo che ha fondato un partito con un messaggio via etere. Si possono naturalmente trovare molti alibi, a cominciare dalle partite sulla pay tv, che per chi è abbonato sono ormai pane quotidiano. Si può credere comunque ai sondaggi esibiti dal premier, che certo rimane popolare. Ma nessuno come Berlusconi sa che si vota anche col telecomando. E stavolta gli italiani hanno cambiato canale in massa. Il re delle televisioni è stato sfiduciato dall'audience.
Si tratta di una svolta nella fenomenologia del personaggio. Il Grande Comunicatore sembra aver perso la sua magia. La trasmissione era davvero brutta, televisivamente sgrammaticata, ingessata e noiosa, percorsa da un livore fastidioso e soprattutto per lunghi tratti incomprensibile. Berlusconi va ormai da mesi in tv per reagire, in genere con insulti, a fatti dei quali lo spettatore medio, tanto più quello di Porta a Porta, non sa assolutamente nulla.
Nessun telegiornale ha mai letto le famose dieci domande di Repubblica, riprese da tv e giornali di mezzo mondo. I notiziari hanno ormai abolito o censurato le rassegne stampa italiane e straniere. Pochi italiani usano Internet. Insomma, s'immagina lo sconcerto dello spettatore medio di Porta a Porta, fascia anziana, bassa scolarità, poca consuetudine con la carta stampata, che osserva il premier gonfio di rancore e si volta per chiedere lumi alla signora: "Ma con chi ce l'ha? Che è successo?".
Nella puntata dei record, si è assistito a un'oretta di tv surreale, durante la quale si è discusso dei "dissapori" fra Berlusconi e Fini senza che uno dei giornalisti presenti sentisse il bisogno di citare l'episodio scatenante. Il fatto. In questo caso, la notizia che Gianfranco Fini aveva querelato il Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi, dopo essere stato prima invitato a tornare "nei ranghi" e poi minacciato con presunte rivelazioni a sfondo sessuale. Questi sono fatti, non opinioni di Repubblica.
A proposito, sempre Berlusconi continua a ripetere nel salotto di Vespa che "Repubblica s'inventa di mie frequentazioni con minorenni e di veline inserite nelle liste elettorali". Anche qui, nessun giornalista del salotto ha mai avvertito il dovere professionale d'informare gli spettatori che quelle accuse non sono partite da Repubblica ma dalla signora Veronica Lario, moglie di Berlusconi e madre dei suoi figli. Riportate come tali, ancora una volta, dalla stampa mondiale. Questi sono fatti. Vengono prima di destra e sinistra.
Possiamo domandare che razza di servizio pubblico è quello che offre un pulpito agli insulti del premier ("farabutti", "delinquenti"), senza mai sfiorare una notizia? Il presidente della Rai è giustamente intervenuto per difendere i programmi Rai e i giornalisti attaccati dal premier in casa Vespa. Ma in questi giorni i nuovi padroni della tv di Stato stanno valutando il modo di correggere, ridimensionare negli organici o addirittura chiudere programmi di giornalismo come Annozero o Report. I pochi che ancora offrono informazione, fatti.
A parte questo, programmi di successo, con percentuali di ascolti ben superiori agli speciali di Porta a Porta. I cui conduttori costano un terzo, nel caso di Michele Santoro, o addirittura un decimo, come Milena Gabanelli, rispetto al milione e ottocentomila euro che ogni anno porta a casa Bruno Vespa per non fare servizio pubblico. Per questo dobbiamo pagare il canone?
(17 settembre 2009) da repubblica.it
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