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« Risposta #240 inserito:: Novembre 20, 2014, 01:01:51 pm » |
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Genova dopo l’alluvione Il pasticcio dei lavori sul torrente fermi da 4 anni. Chi paga l’incuria? Nel 1974 l’allora ministro dell’Industria Ciriaco De Mita, definì il Bisagno «emergenza nazionale». Quattro decenni dopo siamo ancora qui Di Gian Antonio Stella D al fango di Genova escono due mani che reggono due plichi di ingiunzioni avvocatizie. La prima intima a Claudio Burlando di affidare immediatamente i lavori alle imprese che hanno vinto l’ultimo ricorso. La seconda, dei legali di chi ha perso l’ultima battaglia giudiziaria, diffida il governatore stesso dall’affidare quei lavori in attesa delle motivazioni della sentenza: è in arrivo una nuova raffica di eccezioni. E in quelle due diffide contrapposte, mentre amici e parenti piangono Antonio Campanella, l’ultimo dei genovesi uccisi in questi anni da quel Bisagno che di tanto in tanto lascia esplodere la sua collera come se volesse vendicarsi di chi nei decenni ha immaginato di poterlo domare stringendolo e rinsecchendolo e seppellendolo dentro un budello di cemento, c’è la sintesi di una storia scellerata. Dove le carte bollate, un attimo dopo la fine di ogni emergenza, un attimo dopo i funerali dei morti di turno, un attimo dopo le furenti proteste e le accorate promesse («Mai più! Mai più!»), tornano a impossessarsi di un problema che da decenni è lì, sotto gli occhi di tutti. Occhi gonfi di lacrime nelle ore del pianto, distratti appena le prime pagine sono dedicate ad altro. Il solo elenco delle alluvioni genovesi dell’ultimo mezzo secolo dice quanto sia serio il problema. Dieci morti nel 1953, quarantaquattro nel 1970, due nel 1992, tre nel 1993, uno nel 2010, sei nel 2011, un altro ieri... Ed è una triste scommessa prevedere, se non cambia qualcosa, nuovi morti domani, dopodomani, dopodomani l’altro. Ed è del tutto inutile invocare San Giovanni Nepomuceno, il patrono contro le frane e le alluvioni. Non può star dietro a tutto: il nostro, come ricorda una relazione al Parlamento della «Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico» affidata da Renzi a Erasmo D’Angelis, è un Paese a rischio: «486.000 delle 700.000 frane in tutta l’Ue sono in 5.708 comuni italiani». Quasi il 69%. Più esposta tra gli esposti, Genova: «Il tratto terminale del torrente Bisagno, che sottende un’area fortemente antropizzata nella quale gravitano oltre 100.000 persone, e in cui sono presenti una serie di strutture e infrastrutture di valore strategico e logistico per l’intero assetto urbanistico della città», dice un rapporto della Regione al governo, «presenta condizioni di elevatissima criticità idraulica dovute alla grave insufficienza al deflusso dell’alveo attuale e in particolare del tratto terminale coperto». Non basta: «Detta area rappresenta inoltre un nodo infrastrutturale particolarmente complesso, dal momento che vi si concentrano flussi di traffico - sia viabilistico sia ferroviario - già notevoli e ulteriormente destinati ad aumentare». Come spiegava qualche mese fa su queste pagine Marco Imarisio, raccontando di anni perduti, lettere smarrite, tormentoni giudiziari, commissari a girandola, quando nel 1928 studiò come ingabbiare il Bisagno che scende Passo della Scoffera e solca il centro del capoluogo ligure, il progettista incaricato dal Duce di interrare il torrente calcolò che nei momenti di piena potesse rovesciarsi a valle portando al massimo 500 metri cubi d’acqua al secondo. Sarà perché è stato sconvolto il territorio alle spalle della città, sarà perché è cambiato il clima, certo è che sbagliava i conti. Quando si gonfia sotto improvvise piogge torrenziali con l’apporto di altri sei torrenti, il Bisagno irrompe furibondo in città portandone, di litri, il triplo: 1.450. Era il 1974 quando dopo l’ennesimo spavento quella volta senza morti, l’allora ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato, Ciriaco De Mita, definì il Bisagno una «emergenza nazionale». Quattro decenni dopo siamo ancora qui. A rileggere documenti della struttura d’emergenza di Palazzo Chigi intitolati: «Come e perché da 3 anni sul Bisagno lavorano avvocati e magistrati ma non operai». A chiederci come sia possibile che la «rimozione del tappo» nel tratto terminale del fiume, tappo che ogni tanto salta, sia bloccata da anni dalle risse intorno agli appalti nonostante fosse stata riconosciuta come una criticità a livello nazionale ed europeo almeno da quando fu inserita nel «Piano degli interventi strutturali per la riduzione del rischio idrogeologico in aree urbane ad altissima vulnerabilità» redatto nel luglio 2001. Chi abbia ragione tra i due consorzi di imprese che si scannano intorno all’appalto per 35.730.000 euro stanziati l’11 ottobre 2010, con tutto il rispetto per le ragioni dei contendenti, non può interessare più di tanto i cittadini italiani. Che scoprono basiti come a distanza di anni dai lutti, dalle lacrime, dalle promesse, dai solenni giuramenti del 2011 praticamente nulla sia stato fatto. Per ragioni di carte. Solo di carte. E non vale solo per Genova, dove oggi piangiamo l’ultimo degli oltre cinquemila morti uccisi negli ultimi decenni da frane e alluvioni che spesso si potevano evitare. La stessa «Struttura di missione» di Palazzo Chigi denuncia i ritardi nei lavori per mettere in sicurezza altre aree ad alto rischio. Da quella del Seveso a quella dell’Arno, da quella del Tagliamento («Si discute sulle soluzioni da 48 anni, con 41 milioni da spendere») a quella di Sarno e di Quindici. Dove nel maggio 1998 morirono, travolte dal fango, 160 persone. Spiega una relazione che «il “grande progetto Sarno” consiste nell’apertura di uno scolmatore che sfocia a Torre Annunziata sfruttando il percorso del “canale Conte di Sarno” realizzato negli anni 70 e mai utilizzato» e che è prevista anche «la realizzazione di vasche e aree ad esondazione controllata per una superficie complessiva di 100 ettari circa» per mettere al sicuro almeno «i 44.000 abitanti più a rischio in caso di piena» dato che «allo stato attuale l’insufficienza idraulica del fiume provoca esondazioni praticamente a ogni pioggia». Bene: l’intero progetto, rifinito in tutti i dettagli dai tecnici della Autorità di Bacino e dell’Agenzia regionale Arcadis, con 23 interventi suddivisi in 5 lotti, è però fermo. E restano così in sospeso i 247,4 milioni di euro stanziati per l’opera. Quasi tutti fondi europei. Anche sul Sarno, accusano da Palazzo Chigi, «sono in corso guerre legali tra Comuni e tra Comuni e Regione». Un ammasso di conflitti a volte anche giustificati: molti cittadini si pongono ad esempio il problema delle vasche: il Sarno è inquinatissimo, non sarà il caso, prima, di procedere col disinquinamento? Fatto sta che decine di migliaia di persone, che vivono in un’area sei volte più popolata rispetto alla media nazionale, restano lì, tre lustri dopo la catastrofe, a rileggere quei dati che spiegano come Sarno sia stata colpita da 5 frane nel secolo dal 1841 al 1939 e da 36 (trentasei!) dopo la seconda guerra mondiale. E a sperare che il buon Dio e la natura perdonino i loro sventurati ritardi. 11 ottobre 2014 | 08:21 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_11/pasticcio-lavori-torrente-fermi-4-anni-chi-paga-l-incuria-b070574e-510c-11e4-8503-0b64997709c2.shtml
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« Risposta #241 inserito:: Novembre 22, 2014, 05:33:28 pm » |
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L’editoriale Un piano speciale per ricominciare Il disastro dovuto al maltempo era già tutto scritto. Lo scrisse Indro Montanelli, raccontando la cecità con cui stavano seppellendo la Liguria sotto il calcestruzzo Di Gian Antonio Stella «Meno sentimentalismo sterile e più cemento!». Così urlavano gli incoscienti che mezzo secolo fa accolsero un gruppo di studiosi scesi a Montemarcello per opporsi alla lottizzazione degli stupendi declivi. Lo scrisse Indro Montanelli, raccontando furente la cecità con cui stavano seppellendo la Liguria sotto il calcestruzzo. E condannandola ai rischi di oggi. Toglie il fiato rileggere, nel ribollio di notizie su nuove esondazioni e nuove frane e nuovi lutti e nuovi incubi, i reportage dei grandi cronisti che allora descrissero inorriditi lo scempio di quella terra flagellata oggi dal maltempo e dallo strascico di errori antichi. Stanno venendo al pettine nodi lasciati per decenni irrisolti. Sul fronte economico e sindacale. Sul fronte delle periferie, bruttissime e progettate, per dirla con Antonio Cederna, come «case-canili». Sul fronte dell’ambiente dato che, come scrisse il nobiluomo modenese Luigi F. Valdrighi, «la barbarie è sgoverno permanente e, fra le caratteristiche degli sgoverni sono anche le inondazioni». Per troppo tempo il nostro Paese, nel rapporto con la natura, è stato «sgovernato». Ignorando quanto già avvertiva Leonardo da Vinci: «L’acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potessi». Dando la colpa delle alluvioni alla malasorte o addirittura alle streghe, come nel 1493 quando i mantovani bruciarono viva una poveretta accusata di una piena del Po. Scacciando come mosche fastidiose i ricordi delle tragedie che dovevano essere di monito. Pretendendo di imprigionare le acque come a Messina dove i 52 torrenti del territorio comunale sono stati per la metà intubati. E tagliando via via i fondi per il rischio idrogeologico. Ridotti l’anno scorso a 30 milioni di miserabili euro. Briciole. È da qui che bisogna ripartire. Dobbiamo tornare a governare la nostra terra. Proprio perché è bellissima e fragile. Perché è unica al mondo. Perché riparare i suoi guasti con un grande progetto e grandi investimenti potrebbe essere l’occasione per sfilarci dal collo il nodo scorsoio della crisi. Come potrebbe l’Europa sbatterci i suoi No in faccia su un tema come questo? Per essere credibili in questa svolta e in questa pretesa che anche i Paesi europei più diffidenti ci assecondino in uno sforzo che sarebbe immane, però, dobbiamo essere consapevoli fino in fondo delle responsabilità che abbiamo. E degli errori, qua e là irrimediabili, purtroppo, che abbiamo commesso ai danni di un patrimonio universale. Non basta vantarci di avere più siti Unesco di tutti: abbiamo l’obbligo di meritarceli. E se dal nostro passato migliore abbiamo l’opportunità di trarre la forza per ripartire, dal passato peggiore dobbiamo assolutamente ricavare la lezione per non ripetere sempre gli stessi, maledetti, criminali errori. Basti rileggere un passaggio del libro La colata di Sansa, Garibaldi, Massari, Preve e Salvaggiulo dove si racconta ad esempio di come una notte, a Sanremo, «una zona di 72 ettari che era stata classificata come “frana attiva” da Alfonso Bellini, uno dei geologi più noti d’Italia, con un tratto di colore diventa edificabile» con un voto quasi all’unanimità nonostante tutti avessero ancora «negli occhi le immagini di via Goethe, a due passi dal municipio, trasformata dalle piogge in un fiume di fango e pietre». Restò indimenticabile, allora, il commento dell’udc Luigi Patrone: «Io voto sì, ma da quelle parti i bambini non ce li porto a giocare». Era già tutto scritto. Tutto. Fin dagli Anni 60, quando Giorgio Bocca coniò espressioni quali «Lambrate sul Tigullio» e Leonardo Vergani narrò di come «arrivati a Rapallo sull’onda di un nome una volta famoso, un nome quasi mitico negli inverni padani, i milanesi con un conticino in banca» avevano «dato la scalata al mutuo, fatto economie, firmato rogiti lasciandosi allegramente spolpare pur di diventare proprietari del loro fazzoletto piastrellato, scala B interno 14». Una corsa pazza. E «i pentimenti, al punto in cui siamo, sono liquidi come le lacrime dei coccodrilli». «Su oltre 8.000 chilometri di coste», denunciava nel ‘66 Antonio Cederna, «più della metà sono da considerarsi perduti in quanto ridotti ad agglomerati lineari semi urbani, squallidi e ininterrotti, che riproducono sulla riva del mare gli aspetti peggiori delle concentrazioni cittadine, stroncano ogni continuità fra mare e risorse naturali dell’entroterra, e distruggono praticamente la stessa potenzialità turistica delle zone investite». Il caso limite, spiegava, era proprio la Riviera ligure, «dove località già famose per i loro parchi e giardini sono ridotte ad avere venti centimetri quadrati di verde per abitante “estivo”, e dove l’indice di affollamento supera d’estate quello del centro di Londra. Nella Riviera di Ponente, su 175 chilometri di costa restano soltanto 900 metri di spiaggia libera». Certo, la Liguria veniva soprattutto nell’entroterra da secoli di miseria, fame, emigrazione. Basti ricordare i «birbanti» che partivano dalle montagne alle spalle di Chiavari per guadagnarsi la «birba», cioè il tozzo di pane, quotidiana. Il turismo, lo sviluppo, il boom furono accolti come una manna sulla quale non bisognava fare gli schizzinosi. Egisto Corradi, scandalizzato dalla costruzione a Rapallo di «diecimila vani all’anno» fino a farne in certe parti «una periferia di grande città» e dalle masse esagerate di turisti ingolfati sulla «spiaggia formato francobollo», raccolse l’ottuso entusiasmo di un rapallese: «Tutto vero, ma è anche vero che a 3.000 lire a testa fanno più di 10 milioni di lire lasciati a Rapallo. Siamo nell’era della produttività e dell’automazione? Se i tempi lo vogliono, Rapallo diventi pure una macchina per villeggiare!». Ma valeva davvero la pena di avventarsi in quel modo ad arraffare ogni occasione di business? Lasciamo rispondere a Indro Montanelli, che in quel lontano ‘66, decenni prima che esplodessero insieme i torrenti intubati e le contraddizioni, scriveva: «Gli anni del boom passeranno alla storia come quelli della sistematica distruzione dell’ex giardino di Europa, perché i miliardi in mano agl’italiani sono più pericolosi delle bombe atomiche in mano ai bantu. E la prova la fornisce la Liguria dove i miliardi sono affluiti con più alluvionale intensità. Da Bocca di Magra al confine francese, per trecento chilometri, è un bagnasciuga di cemento». E concludeva amaro: «Evidentemente il buon Dio fece il «giardino d’Europa» in un momento d’indulgenza e di abbandono. Poi si accorse della propria parzialità e la corresse mettendoci come giardinieri gl’italiani». 16 novembre 2014 | 09:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_16/piano-speciale-ricominciare-1ff7172a-6d68-11e4-a925-1745c90ecb18.shtml
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« Risposta #242 inserito:: Novembre 22, 2014, 05:42:02 pm » |
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La resa del ministro davanti ai burocrati Matteo Renzi definiva quella contro gli apparati e il loro linguaggio «la madre di tutte le battaglie». Ma al di là dei proclami andiamo avanti senza un segnale di rottura Di Gian Antonio Stella Siamo condannati all’ergastolo dei commi «36-sexiesdecies» e delle «panie della scepsi»? Pare di sì, a leggere la lettera del ministro della Semplificazione Marianna Madia. Secondo la quale contro i deliri psicopatici del burocratese si può usare solo «una sorta di moral suasion dei ministri nei confronti degli uffici legislativi». Ma come: siamo passati dalla «violenta lotta alla burocrazia» alla soave moral suasion? Auguri. Era un martello pneumatico, Matteo Renzi. Ringhiava che «il vero capo del governo è la burocrazia». Denunciava l’incubo di «una sabbia mobile che è la burocrazia» dalla quale «o si ha il coraggio di uscire o il Paese è condannato al declino». Definiva quella contro la burocrazia «la madre di tutte le battaglie» … Ed ecco che pochi mesi dopo, rispondendo al Corriere Economia reo d’aver beccato sulla Gazzetta Ufficiale una leggina che correggeva al volo un’altra pubblicata sullo stesso numero, la «Giovanna d’Arco» scelta per la guerra riconosce — sul Corriere della Sera di ieri — che sì, certo, «servono meno leggi» e «più chiare, scritte meglio, comprensibili da tutti i cittadini» ma tutto ciò che un governo può fare è spiegare ai burocrati che devono sburocratizzarsi… Campa cavallo… Come scriveva molti decenni fa Max Weber, «ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Perché mai i nostri alti burocrati, che secondo l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli sono i più pagati al mondo, dovrebbero aprire l’accesso ai labirinti dei quali solo loro conoscono l’accesso e l’uscita? Quello è il loro potere: essere incomprensibili. Lo spiegò tempo fa Pietro Ichino sventolando a Palazzo Madama la legge che i senatori stavano votando: «Questo testo è letteralmente illeggibile (…) Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona in grado di dirci che cosa voglia dire». E così, al di là dei proclami, andiamo avanti. Senza un segnale di rottura. Di smarcamento. Di rivolta contro la schiavitù dei «gabinettisti». Lo prova il decreto che ha convocato gli ultimi esami di maturità: 55 «visto» e «vista» (cinquantacinque!) prima di venire al nocciolo. Lo conferma il decreto sui contributi allo spettacolo dal vivo che chiede ad attori e violinisti, trapezisti e domatori di tigri di risolvere una formula pazzesca di 31 elementi impossibile non solo da risolvere ma perfino da leggere, manco fosse un ideogramma cinese, per chi non abbia dottorati in matematica. Lo ribadiscono i calcoli cervellotici pretesi da certi Comuni per la Tasi: puro disprezzo per i cittadini. La prova del nove è però il decreto «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari» della stessa Marianna Madia. Che, semplificando semplificando, firma leccornie come questa: «Art. 21-bis. (Riorganizzazione del ministero dell’Interno). – 1. In conseguenza delle riduzioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, da definire entro il 31 ottobre 2014, il ministero dell’Interno provvede a predisporre, entro il 31 dicembre 2014, il decreto del presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2, comma 7, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e successive modificazioni…». Fateci capire: è questa la semplificazione? C’era una legge del 2001 che ordinava ai dipendenti pubblici di usare «un linguaggio chiaro e comprensibile». Macché: avendo «l’interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare» (copyright Alberto Alesina e Francesco Gavazzi) gli azzeccagarbugli han tirato dritto. Ignorando la regola. Finché Filippo Patroni Griffi ha deciso di abolire la legge: tanto, non la rispettava nessuno… Bel modo di governare: nessuno rispetta il rosso? Aboliamo il semaforo! Ed ecco al Policlinico di Napoli spuntare in un avviso pubblico il termine «elasso» che, abbandonato da secoli, non c’è più nei dizionari. E il Comune di Farini, Piacenza, deliberare che «considerata la situazione descritta nei prolegomeni…». E il segretario comunale di Ariano Irpino spedire lettere che si avvitano sulle «panie della scepsi» o frasi tipo «è meridianamente epifanica l’indifferenza contenutistica» … Ma può un Paese reggere a una crisi così se la società intera, imprese e cittadini, scuola e famiglie affogano in questo pantano? Dove il vincolo su un pitosforo a Messina porta via 2.650 giorni cioè il doppio di quelli necessari ai cinesi per fare il ponte di Donghai, 32 chilometri a otto corsie in mezzo al mare? 19 novembre 2014 | 11:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_19/resa-ministro-ai-burocrati-60b760f0-6fc3-11e4-921c-2aaad98d1bf7.shtml
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« Risposta #243 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:30:04 pm » |
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MOVIMENTO 5 STELLE: IL PERSONAGGIO Grillo, il patrimonio dilapidato Crisi di un leader che si era illuso di poter avere il Paese in pugno Di Gian Antonio Stella «Sono un po’ stanchino», ha scritto sul suo blog citando Forrest Gump. C’è da credergli: come Tom Hanks nel film di Robert Zemeckis era partito così, senza una meta precisa («Quel giorno, non so proprio perché decisi di andare a correre un po’») e si era ritrovato con l’illusione di avere in pugno il Paese. Dove abbia cominciato, Beppe Grillo, a sprecare l’immenso patrimonio che di colpo si era ritrovato in dote alle elezioni del 2013 non si sa. Forse il giorno in cui apparve sulla spiaggia davanti alla sua villa con quella specie di scafandro, misterioso e inaccessibile come un’afghana sotto il burka. Forse quando, avvinazzato dai titoli dei giornali di tutto il mondo, rifiutò per settimane ogni contatto con la «vil razza dannata» dei giornalisti nostrani compresi quelli corteggiati nei tempi di vacche magre. Forse quando, scartando a priori ogni accordo, plaudì ai suoi che rifiutavano perfino di dire buongiorno agli appestati della vecchia politica o si disinfettavano se per sbaglio avevano allungato la mano a Rosy Bindi. O piuttosto la sera in cui strillò al golpe e si precipitò verso Roma invocando onde oceaniche di «Indignados»: «Sarò davanti a Montecitorio stasera. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Qui si fa la democrazia o si muore!». Dopo di che, avuta notizia di un’atmosfera tiepidina, pubblicò un post scriptum immortale: «P.s. Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...». E le barricate contro i golpisti? Uffa... Certo è che mai ora, dopo aver perso tra abbandoni ed espulsioni 15 senatori e 7 deputati con la prospettiva di perderne altri ed essere uscito a pezzi dalle ultime regionali che aveva solennemente annunciato di stravincere («Ci dobbiamo prendere Calabria ed Emilia-Romagna. Sarà un successo, mai stato così sicuro») Grillo si ritrova a fare i conti con un dubbio: non avrà perso il biglietto della lotteria? Non sarebbe il primo. Smarrì il suo biglietto vincente Guglielmo Giannini, dopo aver portato con l’Uomo Qualunque trenta deputati (tantissimi: il quadruplo degli azionisti) all’Assemblea costituente. Lo smarrì Mario Segni, che dopo il referendum pareva destinato a raccogliere l’eredità della Dc. Lo ha smarrito Antonio Di Pietro, del quale Romano Prodi disse «quello si porta dietro i voti come la lumaca il guscio». I voti perduti Il guaio è che lui stesso sembra sempre meno convinto di esser ineluttabilmente destinato a vincere. E fa sempre più fatica a spacciare per vittorie certe batoste. E in ogni caso, ecco il problema principale, sono sempre meno convinti di vincere quanti avevano visto in lui l’occasione per ribaltare tutto. Non ripassano, certi autobus. Una volta andati, ciao. Prendete la Calabria: conquistò 233 mila voti (quasi il 25%), alle politiche del 2013. Ne ha persi l’altra settimana duecentomila. E quando mai li recupererà più? Con questa strategia, poi! «Non ci sono più parole per descrivere il lento e inesorabile, ma tutt’altro che inevitabile, suicidio del Movimento 5 Stelle», ha scritto ieri Marco Travaglio, che pure non faceva mistero di averlo votato. «Un suicidio di massa che ricorda, per dimensioni e follia, quello dei 912 adepti della setta Tempio del Popolo, che nel 1978 obbedirono all’ultimo ordine del guru, il reverendo Jim Jones, e si tolsero la vita tutti insieme nella giungla della Guyana». Citazione curiosamente appropriata. Basti riprendere un numero di «Sette» del 1995. Il titolo di un’intervista all’allora comico diceva tutto: «Quasi quasi mi faccio una setta». Beppe Grillo non era già più «soltanto» un istrione da teatro. Girava l’Italia in 60 tappe con lo show «Energia e informazione», irrompeva all’assemblea della Stet rinfacciando all’azienda telefonica i numeri hot a pagamento, attaccava le multinazionali, incitava ad «accelerare la catastrofe economica. Per l’esplosione del consumismo. Potremmo comprare cose inesistenti: elettroseghe per il burro, spazzolini da due chili monouso che dopo esserti lavato una volta li butti in mare per ammazzare i pesci...». Faceva ridere. E spiegava che proprio per quello gli andavano dietro: «Perché sono un comico. Perché non fabbrico niente. Perché chi parla contro i gas fabbrica le maschere antigas. Invece io, non vendendo né gas né maschere antigas, sono credibile. Che ci guadagno?». Ed è su questa domanda che è andato a sbattere. Brutta bestia, il potere. Guadagnato quello, il bottino più ambito di chi fa politica, è andato avanti sparandola sempre più grossa. Nella convinzione che ogni urlo, ogni invettiva, ogni insulto portasse ancora voti, voti, voti... «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti che hanno distrutto il Paese». «Facendo a modo nostro saremo più poveri per i prossimi 4-5 anni, ma senza dubbio più felici». «Apriremo il Parlamento come una scatola di tonno». «Il Parlamento potrebbe chiudere domani. È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica». «Bisogna ripulire l’Italia come fece Ercole con le stalle di Augia, enormi depositi di letame spazzati via da due fiumi deviati dall’eroe». Parole pesanti E via così. Anche sui temi più ustionanti, dove non è lecito esercitare il battutismo: «La mafia è emigrata dalla Sicilia, è andata al Nord, qui è rimasta qualche sparatoria, qualche pizzo e qualche picciotto». «Hanno impedito a Riina e Bagarella di andare al Colle per la deposizione di Napolitano per proteggerli: hanno già avuto il 41 bis, un Napolitano bis sarebbe stato troppo». «La mafia è stata corrotta dalla finanza, prima aveva una sua condotta morale e non scioglieva i bambini nell’acido. Non c’è differenza tra un uomo d’affari e un mafioso, fanno entrambi affari: ma il mafioso si condanna e un uomo d’affari no». Una cavalcata pazza. Perdendo uno dopo l’altro amici, simpatizzanti, osservatori incuriositi. Di nemico in nemico. «Adesso Schulz dice che io sono come Stalin. Ma un tedesco Stalin dovrebbe ringraziarlo, altrimenti Schulz sarebbe in Parlamento con una svastica sulla fronte. Schulz, siamo un venticello, lo senti? Arriva un tornado, comincia a zavorrarti attaccato alla Merkel perché ti spazzeremo via». «Noi non siamo in guerra con l’Isis o con la Russia, ma con la Bce!». «Faremo i conti con i Floris e i “Ballarò” ... Io non dimentico niente. Siamo gandhiani ma gli faremo un culo così...». E poi barriti contro le tasse: «Siete sicuri che se pagassimo tutti le tasse questo Paese sarebbe governato meglio? Ruberebbero il doppio». Contro l’ultimo espulso: «Un pezzo di merda». Contro Equitalia: «È un rapporto criminogeno tra Stato e cittadini». Contro l’inceneritore di Parma: «Chi mangerà il parmigiano e i prosciutti imbottiti di diossina?» Contro gli immigrati: «Portano la tubercolosi». Sempre nella convinzione che il «suo» movimento potesse prendere voti a destra e a sinistra, tra i padani e i terroni, tra i qualunquisti e i politicizzati al cubo. Un «partito-tutto» contro tutto e tutti. Finché, di sconfitta in sconfitta, non si è accorto che qualcosa, nel rapporto col «suo» popolo, si stava incrinando. Che lui stesso stava smarrendo l’arte superba di saper mischiare insieme la potenza della denuncia e la leggerezza dei toni. Finché arrivò il momento che, in una piazza qualsiasi, si accorse che la solita battuta non tirava più. Capita anche ai clown più ricchi di genio. Ma loro, se vogliono, possono inventarsi un altro numero. 29 novembre 2014 | 07:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_29/grillo-patrimonio-dilapidato-b081c1c8-7790-11e4-8006-31d326664f16.shtml
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« Risposta #244 inserito:: Dicembre 16, 2014, 06:48:14 am » |
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Il turismo? Non interessa Il tesoro che l’Italia disprezza Di Gian Antonio Stella Dallo scudetto alla zona retrocessione: come abbiamo potuto precipitare in soli dieci anni dal 1° al 18º posto come «marchio» turistico mondiale? L’ultima edizione del «Country Brand Index 2014-15», compilato in base ai giudizi di migliaia di opinion maker, la dice lunga sulla reputazione di cui godiamo. Restiamo primi per appeal: il sogno di un viaggio in Italia è ancora in cima ai pensieri di tutti. E primi per il fascino delle ricchezze culturali e paesaggistiche. E così per i nostri piatti e i nostri vini. Sul resto, però... Soprattutto sul rapporto prezzi/qualità. Eravamo al 28º posto: due anni e siamo precipitati al 57º. Un incubo. «Nessun dorma», titola il capitolo dedicato al nostro Paese. Perché è da pazzi trascurare un settore come il turismo che sta vivendo il più grande boom mondiale di tutti i tempi e che potrebbe darci una formidabile spinta per cavarci dai guai. Invece, poco o niente. Rari accenni (10 citazioni su 46.059 parole) nello sblocca Italia, dove si parla dei «condhotel» o della necessità di «armonizzare» le offerte dei vari enti locali. Fine. Ma dov’è la piena consapevolezza di quanto il tema sia vitale per il nostro presente e il nostro futuro? Dice il rapporto World Travel & Tourism Council che nel 2013 l’Italia ha ricavato dal turismo in senso stretto il 4,2% del Pil e compreso l’indotto il 10,3. La metà della promessa di troppi premier... Dice ancora che il turismo in senso stretto occupa 1.106.000 addetti (dieci volte più della chimica) e con l’indotto (compresi per capirci gli artigiani che fanno i gilè dei camerieri) 2.619.000, cioè un milione più degli addetti dell’industria metalmeccanica. Bene: dice l’archivio dell’Ansa che su 1.521 titoli con Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, non ce n’è uno associato alle parole turismo, turistico, turisti. Peggio ancora per Susanna Camusso: su 4.988 titoli, uno solo (uno!) associato al turismo. Per la Cgil ci sono solo i metalmeccanici, chimici, i pensionati... E il settore che impiega quasi il 14% degli occupati? Boh... Una cecità insensata e collettiva che negli anni ha fatto disastri: dall’abolizione del ministero alle deleghe alle regioni chiamate ciascuna a giocar per conto proprio sul mercato mondiale, dai pasticci sull’Enit al sito italia.it per il quale furono stanziati 45 milioni di euro con risultati comici come le musiche dei filmati che raccontavano le regioni ai cinesi, in 19 casi su 20 di compositori stranieri. Soldi buttati. Col cesello finale di Matteo Renzi che due mesi fa ha chiesto ai ragazzi d’una startup palermitana: «Ce lo preparate voi un progetto gratuito sul turismo? Sarebbe una figata bestiale». Secondo il premier, «ci manca una adeguata strategia e non sappiamo raccontare nel modo giusto il nostro prodotto. C’è bisogno di una grande campagna di comunicazione web, un’operazione di marketing in Rete per rilanciare il nostro turismo...». Giusto. Le classifiche «Brand Index», però, dimostrano inequivocabilmente che possiamo pure «raccontare» l’Italia con le parole più immaginifiche possibili, ma ciò non scioglierebbe i nodi fondamentali. Che sono altri. Dicono quelle classifiche infatti che il «marchio» Italia è già conosciutissimo e primissimo per ciò di cui andiamo fieri: i tesori artistici, monumentali, paesaggistici. Ma, come spiega il dossier a noi dedicato, non possiamo più campare di rendita: tutte quelle cose «non sono più sufficienti a farci preferire ad altre destinazioni, specie perché il nostro rapporto qualità-prezzo è precipitato dal 28° al 57° posto, un tracollo!». Quasi trenta punti persi rispetto all’ultimo rapporto biennale. Venezia resta Venezia, Roma resta a Roma e Capri resta Capri, ma i turisti stranieri non sono baccalà: non tornano, se si sentono bidonati. Peggio: scoraggiano gli amici e i parenti dal venire in un Paese stupendo ma che pretende di avere una sorta di diritto di imporre ai visitatori pedaggi ingiusti. Tanto più se, intorno, troppe cose sono insoddisfacenti. «L’Italia perde posizioni proprio perché il suo percepito e anche il suo vissuto», spiega il rapporto Brand Index, «è quello di un Paese penalizzato da una cattiva gestione politica (24° posto), con un sistema valori che si va opacizzando sempre più (23° posto), poco attrattivo come destinazione per studi e investimenti (19° e 28°), con infrastrutture insoddisfacenti (23°), intolleranza (23°), scarsa tecnologia (29°) e una qualità della vita sempre più bassa (25°)». L’ultimo dossier del World Economic Forum nel settore Travel & Tourism, come denuncia uno studio di Silvia Angeloni, ci rinfaccia per di più il modo in cui gestiamo le nostre ricchezze paesaggistiche: nella «sostenibilità ambientale» siamo cinquantatreesimi. Peggio ancora nell’indice «Applicazione delle norme ambientali», dove ci inabissiamo all’84º posto. Qualcuno pensa che sia furbo continuare ad aggiungere cemento e cemento da Taormina a Cortina, da Courmayeur a Santa Maria di Leuca? Ecco la risposta: i turisti internazionali ci dicono che quella roba lì non gli interessa. L’Italia che vogliono vedere è un’altra. Fatto sta che, come dicevamo, nel primo Brand Index del 2005 il marchio Italia era primo assoluto. Nel 2007 quinto. Nel 2009 sesto. Nel 2011 decimo. Nel 2013 quindicesimo e nell’ultimo, 2014-2015, appunto, diciottesimo. Certo, rispetto al primo monitoraggio alcuni criteri sono stati cambiati. E l’insieme della «accoglienza» di un Paese, dall’igiene alla qualità dei prodotti locali, dalla sicurezza ai prezzi, è diventato più importante che non la ricchezza di tesori. Il tracollo segnala un problema: chiunque sia a Palazzo Chigi la nostra reputazione è a pezzi. Ma soprattutto il mondo del turismo ha preso atto che l’Italia non è impegnata, se non a chiacchiere, in un progetto di rilancio vero. Corposo. Decisivo. Capace di coinvolgere tutto il Paese. Vogliamo fare qualche confronto fastidioso? Proviamo con la Gran Bretagna, che oggi viaggia con un Pil che cresce del 3% l’anno e ha i nostri stessi abitanti. Noi siamo al quinto e loro all’ottavo posto, staccati, tra i Paesi più visitati dai turisti internazionali, ma ci hanno quasi raggiunti per i ricavi: 40,6 miliardi di dollari contro i nostri 43,9. Qualche anno e ci pigliano. Loro hanno 17 siti Unesco, noi il triplo (50 più due del Vaticano più un paio di patrimoni immateriali) per non dire delle Dolomiti, della costa Smeralda o della Riviera sorrentina, del cibo e dei vini dove non c’è confronto. E ti chiedi: com’è possibile che loro siano sei posti davanti a noi nel «marchio» e addirittura 24 posti (loro al 4°, noi al 28°) nella competitività turistica? Com’è possibile che, stando al dossier Wttc, il turismo con l’indotto pesi sul loro Pil per il 10,5%, cioè più che sul nostro o che abbiano nel turismo (sempre incluso l’indotto) oltre 4 milioni di addetti e cioè quasi un milione e mezzo più di noi? Un piccolo dettaglio dice tutto: il nostro sito web ufficiale italia.it è in cinque lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco) e il loro visitbritain.com in dieci, il doppio, compresi il russo e il cinese. E vi risparmiamo altri confronti. Umilianti. Ecco: non sarebbe il caso che nel Paese di Pompei, degli Uffizi, di Venezia, della Valle dei Templi e del Cenacolo leonardiano il turismo diventasse, finalmente, una grande questione nazionale? 10 dicembre 2014 | 07:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_10/tesoro-che-l-italia-disprezza-faf4afe8-8034-11e4-bf7c-95a1b87351f5.shtml
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« Risposta #245 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:30:39 pm » |
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La proposta Il Quirinale diventi museo, è la casa di tutti noi Di Gian Antonio Stella «Il Quirinale è la casa degli italiani», ha detto più volte Giorgio Napolitano. È una frase molto bella. Espressa, ne siamo certi, con sincerità. Gli italiani, però, possono entrarci poco. Sarebbe un torto alle istituzioni scegliere per il capo dello Stato una sede nobile ma diversa spalancando finalmente a tutti uno dei palazzi più importanti del pianeta? Conosciamo l’obiezione: ma come, adesso? Non c’è il rischio, in questi tempi di sbandamento, di intaccare una delle figure che ancora godono di largo prestigio popolare? Tesi dura da sostenere: Francesco ha scelto di abbandonare gli appartamenti papali per vivere nei pochi metri quadri di una delle camere con salottino del convitto Santa Marta. E mai Papa ha goduto di tanto prestigio e tanto affetto popolare. Napolitano, nella scia di Carlo Azeglio Ciampi e altri ancora, ha reso onore al Quirinale. E a buon diritto può rivendicare di avere contenuto le spese: il palazzo costa oggi, contando l’inflazione, meno che nel 2008. E i tagli, compreso quello di 507 addetti, sarebbero stati più vistosi se alcuni costi mostruosi come quello delle pensioni (90 milioni sui 228 della dotazione 2014) non fossero imbullonati alla difficoltà enorme di toccare i diritti acquisiti, sia pure spropositati. Resta il fatto che la reggia che ospitò i Papi, i Savoia e infine i presidenti della Repubblica, proprio perché è molto più grande e più ricca e più costosa nella manutenzione, come il Colle precisa ogni volta che c’è una polemica sui confronti con l’Eliseo o Buckingham Palace, pesa sulle pubbliche casse più di ogni altro. Nuova obiezione: ma è aperta al pubblico! Sì, alcune stanze di rappresentanza e, precisa il sito, «quasi ogni domenica». Dalle 8.30 alle 12. Tranne l’estate: chiuso. Più le visite delle scuole: un’ora a settimana. Su appuntamento. Più i concerti nella cappella Paolina, tre o quattro al mese da ottobre a giugno. Più le mostre temporanee nelle Scuderie. Come quella del 2013 su Tiziano che richiamò 245.979 turisti. Un piccolo trionfo, con 2.365 visitatori al giorno. Ma comunque all’80° posto nella classifica mondiale. Dopo «La poetica della carta» al Getty Center di Los Angeles. La Hofburg di Vienna, per secoli cuore del potere degli Asburgo, ospita oggi solo un ufficio di rappresentanza della presidenza più la sede dell’Osce e soprattutto una straordinaria rete di istituzioni culturali. Dal museo di Storia naturale alla Biblioteca Nazionale, dall’Albertina alla Scuola d’Equitazione Spagnola fino al celebre Kunsthistorisches che fa da solo un milione e 300 mila ingressi l’anno. Lo stesso re di Spagna vive alla Zarzuela e utilizza il Palazzo Reale (formalmente ancora sede della casa regnante) solo per certe cerimonie ufficiali ma il Palacio Real madrileno è aperto al punto di avere accolto nel 2013 oltre un milione di turisti. E lo stesso doppio uso è in vigore da altre parti, come in Svezia, dove la reggia di Stoccolma è aperta tre ore al giorno dal martedì alla domenica nei mesi invernali e tutti i giorni per sei o sette ore in quelli estivi. Per non dire dei casi storicamente più eclatanti. Il Louvre che da moltissimo tempo non ospita il re di Francia (o il presidente della Repubblica, che sta all’Eliseo, un palazzo minore donato da Luigi XIV a madame de Pompadour) attira ogni anno nove milioni di turisti, la Città Proibita di Pechino dodici. Diciamolo: è un peccato che tanta apertura non sia possibile al Colle. Certo, è curioso entrarci con la «visita virtuale» offerta dal sito web e «ammirare la ricchezza artistica del Palazzo» grazie alle «immagini “immersive” (come se il visitatore fosse nelle sale o nei corridoi) ad alta definizione». E fa venire l’acquolina in bocca spostarsi dal Cortile d’onore al salone dei Corazzieri, dalla Cappella Paolina dove si svolsero quattro conclavi (ultimo quello che elesse Pio IX) alla Sala delle Virtù e via così. E come dice il cicerone web «tra le tante tappe ci si può soffermare su affreschi di Guido Reni, Pietro da Cortona e altri...». Ma sempre virtuale è. Lo diciamo oggi perché Napolitano ha già annunciato le dimissioni e ancora non si sa chi avrà l’onore e l’onere di prendere il suo posto. Sarebbe sgarbato chiedere «dopo» al nuovo capo dello Stato di lasciare quel palazzo già occupato da vari Papi, quattro re d’Italia e dieci (non undici: Enrico De Nicola da «provvisorio» preferì palazzo Giustiniani) presidenti. Ma in questi giorni «neutri», a cavallo fra il prima e il dopo, vale la pena di riproporre quanto già altri avevano suggerito. Nella sua autonomia, il nuovo capo dello Stato potrebbe «dare aria» alle Istituzioni trasferendosi in un altro palazzo, bellissimo ed elegantissimo, come dicevamo, per spalancare il Quirinale agli italiani e agli stranieri che accorrerebbero entusiasti alla scoperta di quelle stanze finora in gran parte chiuse. E fare di quel Palazzo di 1200 stanze un grande museo in grado di sbaragliare, con la sua storia, i suoi capolavori, le sue collezioni di arazzi o orologi, le sue mostre temporanee in spazi meravigliosi, ogni concorrenza mondiale. Certo, molti funzionari, burocrati, dirigenti che si erano abituati a vivere in quella bambagia, storcerebbero il naso: ma come! la tradizione! il decoro! Gli italiani però, ci scommettiamo, vedrebbero la svolta con simpatia. E la leggerebbero, di questi tempi, come un gesto di sobrietà, di riconciliazione, di amicizia. 30 dicembre 2014 | 08:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_30/quirinale-diventi-museo-casa-tutti-noi-63991654-8feb-11e4-a207-f362e6729675.shtml
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« Risposta #246 inserito:: Gennaio 17, 2015, 05:00:01 pm » |
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L’intervista Il pensionato che prende il doppio di Obama «Ma non posso rifiutare» L’avvocato comunale di Perugia con il vitalizio di 651 mila euro l’anno: è tutto in regola «È assurdo, ma che dovrei fare? Non ho neppure contestato il contributo di solidarietà» di Gian Antonio Stella «Cosa dovrei dire: «no grazie»?» Mario Cartasegna, l’ex avvocato dipendente del Comune di Perugia che con gli extra, le percentuali sulle cause vinte calcolate nella pensione, si ritrova un vitalizio di 651 mila eurosul quale l’Inps ha aperto un’inchiesta, presentandosi ieri mattina negli uffici comunali non nega niente: «Lo so, è assurdo che incassi tutti questi soldi. Ma perché ve la prendete con me?». E con chi dovremmo prendercela? «Con l’ordinamento. Su di me lei ha scritto delle cose non vere». Cioè? «Non ho avuto “concessioni spettacolari”. Il posto fisso l’ho vinto per concorso e la percentuale sulle cause me l’ha riconosciuta nel 1978 il consiglio comunale di Perugia all’unanimità (non due “sindaci socialisti” che lascia intendere chissà cosa) per evitare avvocati esterni e gli amici degli amici. Ed era il minimo della tariffa dell’ordine delle cause vinte». Non sono stati poi aboliti dalle «lenzuolate» di Bersani, quei minimi? «Per i liberi professionisti. Ma siccome io ero a contratto...» Se li è tenuti ben stretti... «Cosa dovevo fare, scusi?». Insomma, nessuno al mondo prende 651 mila euro di pensione dopo aver fatto il dipendente comunale! «Gliene do atto. Ma non ero l’unico ad avere un contratto così...». E allora perché ha il triplo dei suoi colleghi pensionati? «Perché al Comune di Perugia come avvocato ero solo. Ho fatto tantissime cause. E tantissime ne ho vinte. E poi, scusi, perché scrivere che al Tar di Perugia ero “di casa”? Come se avessi avuto una sentenza ad hoc!». Nessuna malizia: ma era lì tutti i giorni, Perugia è piccola, non negherà che c’era un rapporto diverso da quello che un anonimo impiegato dell’ufficio legale di un grande Comune avrebbe avuto al Tar di una grande regione, al di là della correttezza dei giudici... «Posso essere d’accordo sul rapporto di stima verso un avvocato che frequenta l’ambiente. I giudici li conoscevo, ovvio. Ma poteva risparmiarsi certi veleni. Ha scritto che come avvocato mi sono dimenticato di oppormi al mio ricorso...». Non è così? «Non l’ho proprio trattata quella pratica: appena presentato il ricorso mi sono astenuto...». E chi l’ha trattata? «Non lo so! Eravamo 1.600 dipendenti...». Era lei però, l’unico avvocato comunale... «Poteva occuparsene il segretario generale. Poteva prendere un avvocato esterno...». Fatto sta che il Comune non si oppose. Tornando ai suoi stipendi: fa impressione vederli schizzare negli ultimissimi anni da 200 mila euro a un milione: o no? «Ha ragione. Ma non dipendeva da me. Certe cause sono finite anche dopo 20 o 25 anni. Io le mie parcelle le passavo alla Ragioneria e se c’erano i soldi mi pagavano. Mica me le pagavo da solo». Fatto sta che uno si chiede: ma ha fatto apposta a portare tutti questi processi a compimento sul più bello che c’era da calcolare la pensione? «La tabella sulla progressione è corretta ma le assicuro: non ci ho messo lo zampino... So che non ci crede ma ho visto con sorpresa la mia pensione». Ma se ha fatto causa, ha battagliato... «Non è così. Nel 2010 proposi io, visto che ero già in pensione, di esser pagato per le cause non ancora chiuse come un professionista, con l’Iva. E fu l’Agenzia delle Entrate a dire di no. Avrebbero risparmiato...». Insomma, sono sbagliate le regole? «Non lo contesto. È vero. Anche che gli amministratori potessero fare scelte diverse è vero. Potevano mettere un tetto: “massimo compenso tutto compreso 300 mila euro l’anno”. Ma avrei dovuto proporlo io? Andiamo!». Quindi lei è semplicemente il fruitore di errori altrui... «Errori... Erano leggi, regolamenti...». Ammette lei stesso che il Comune sbagliò a non porle il tetto. «Certo. Ma dovevo segnalarlo io? Se il principio era sbagliato dovevo sbandierarlo io sui giornali? Ora la legge di Stabilità li ha cancellati, quei compensi. Diciamolo: ho solo avuto tre botte di fortuna. Primo, sono andato in pensione col retributivo. Secondo, ero il solo avvocato comunale. Terzo, l’Agenzia delle Entrate ha detto: nelle cause pendenti costui prosegue l’attività che faceva prima quindi... Ripeto: con la mia proposta avrebbero risparmiato». Prendere in pensione il doppio di Obama non l’imbarazza? «Pensa che lo sapessi?». Adesso lo sa. «Perché dovrei essere imbarazzato? Prendo quel che l’ordinamento mi dà. Cosa dovrei fare: rinunciare ai soldi? Dai!». E se il governo decidesse di toccare certi diritti acquisiti, come il suo, frutto di regole sbagliate? «Vuol sapere se farei ricorso? Non so. C’è una Consulta. Non toccheranno solo me... Ma lei sa qual è la mia pensione netta, visto che ha scritto che al lordo prendo 651 mila euro?». Venticinque o ventisei mila euro al mese. «No: 20.700. Perché oltre alle tasse c’è il prelievo sulle pensioni d’oro. Non è che mi lamento. Ma che io ridia allo Stato 378 mila euro l’anno non è da tutti. Sono o no un grande contribuente? E non ho contestato il contributo di solidarietà». Tanti han fatto causa... «Non io. Ma se la Corte costituzionale, poi, dovesse dichiarare illegittimo questo contributo, cosa faccio? Devo rifiutare i soldi, se l’Inps me li restituisce? Lo so, è un meccanismo assurdo. Ma non si può colpevolizzare chi ne fruisce! Perché vuol farmene una colpa, se ho fatto causa per farmi riconoscere ciò che una sentenza diceva che dovevo avere?». 17 gennaio 2015 | 08:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/15_gennaio_17/pensionato-che-prende-doppio-obama-ma-non-posso-rifiutare-cartasegna-perugia-dd2117c8-9e15-11e4-a48d-993a7d0f9d0e.shtml
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« Risposta #247 inserito:: Gennaio 21, 2015, 06:29:27 pm » |
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Libertà di stampa Incontinenti dell’ingiuria con diritto di smentita Querele pretestuose per spingere il cronista a non toccare un certo personaggio o un argomento scomodo Di Gian Antonio Stella «Gasparri è trans?» Se osassimo lanciare sul serio una domanda simile, che buttiamo lì solo per una forzatura polemica (alla larga da queste fanghiglie!) il senatore forzista darebbe querela. Giustamente. Potremmo rispondere, come ha fatto lui prima di scusarsi dopo le malignità su Greta e Vanessa, che ci sono decine di siti che maramaldeggiano malevole su una sua vecchia battuta di spirito. E lui, a ragione, ci rinfaccerebbe che un giornale serio non raccoglie web-pettegolezzi. C’è però una differenza: lui, per il suo tweet indecoroso sulle ragazze sequestrate in Siria, potrà invocare se denunciato l’«insindacabilità parlamentare» che ha già salvato troppi deputati e senatori incontinenti nell’ingiuria. Un giornale no. Anzi: anche la nuova legge già passata in Senato e ora in discussione alla Camera e spacciata come un’apertura alla libertà di critica perché sopprime il carcere per i cronisti (come chiedeva l’Europa) non consente di citare a sostegno alcuna «verità» pubblicata da altri. Giusto. Il fatto deve essere vero. Punto. «Je suis Charlie”, hanno ripetuto dopo la strage di Parigi centinaia di parlamentari. Ed è venuto giù un diluvio di pensosi commenti sulla centralità della libertà d’opinione. Tutta. Anche quella estrema. Cuore dei valori fondanti di Francia ed Europa. Evviva. In parallelo, però, la nuova legge andava avanti alla Camera per mettere un bavaglino alla stampa in Italia. Volete un esempio? Massimo Marino De Caro, messo da Giancarlo Galan alla direzione della biblioteca dei Girolamini, da lui saccheggiata, reagì alle accuse d’aver barato sulla sua laurea (falsa), sulla docenza universitaria a Verona (falsa) e sulla discendenza dai principi di Lampedusa (falsa) minacciando fuoco e fiamme. Tanto più per le denunce, mosse per primo da Tomaso Montanari, di movimenti notturni di camioncini che portavano via volumi di valore inestimabile. È stato condannato in primo e secondo grado a sette anni di carcere. Ma il giorno dopo la pubblicazione del primo articolo sul Corriere, al quale reagì con raffiche di telefonate sdegnate e la minaccia («ho incaricato lo studio legale Previti di sporgere querela») di cause giudiziarie, avrebbe avuto diritto con la legge nuova a vedersi pubblicare una lettera sana sana, senza contraddittorio, dove poter ribadire tutte le frottole smentite dall’università di Siena, da quella di Verona, dal vero principe di Lampedusa, dalle prime indagini giudiziarie... Secondo le nuove norme infatti, spiega l’avvocato Caterina Malavenda, esperta di diritto dell’informazione, non basterà più pubblicare la rettifica «in testa di pagina» magari con una risposta punto per punto. Domani, se passa la legge, «dovrà farlo anche “senza commento, senza risposta e senza titolo”, indicando perfino il nome del giornalista “rettificato”». Anche se quel giornalista avesse totalmente ragione. E lo potesse dimostrare carte alla mano. Ma davvero, davanti a casi così, c’è chi in Parlamento, per dispetto verso certi giornali, certe inchieste, certi articoli fastidiosi o magari spesso anche sbagliati, se la sente di votare una regola che avrebbe consentito furenti smentite senza repliche al senatore Nicola Di Girolamo poi costretto alle dimissioni e condannato a cinque anni per riciclaggio e con lui a frotte di «colletti bianchi» colpiti da sentenze spesso pesantissime dopo aver vantato la loro rispettabilità? Abbiamo preso, negli anni, querele stupefacenti. Il «prof. avv.» Paolo Bonaccorsi, assessore regionale all’urbanistica calabrese, ruolo fondamentale perché pareva si facesse di lì a poco il ponte di Messina, fu beccato perché aveva presentato a una società delle Ferrovie dello Stato un curriculum strabiliante. Dove campeggiavano una docenza alla Luiss e l’appartenenza all’albo degli avvocati di Milano con tanto di fotocopia della pagina 80 dell’Albo 1997 dove il suo nome (residenza in Corso XXII Marzo 57) campeggiava (con la «c»: cassazionista) tra Bonaccorsi Francesco e Bonafè Mario. Macché: alla Luiss non risultava («Il signor Bonaccorsi non ha mai ricoperto alcun tipo di incarico...») e un piccolo controllo sull’albo originale aveva fatto saltar fuori che la fotocopia era stata taroccata. Immediata la risposta dell’assessore affidata alle agenzie: «Non mi resta che querelare». Tutto archiviato. Ma l’avvocato, nonostante avessimo avuto ragione, dovette pagarlo il Corriere. E ricordate di Claudio Regis, ex deputato del Carroccio in gioventù esperto di elettronica e perciò soprannominato el Valvola, nominato per meriti leghisti ai vertici dell’Enea dove si prese il lusso di bacchettare Carlo Rubbia? Scriveva sulla rivista online Kosmos firmandosi «Claudio Regis, ingegnere Enea», si compiaceva che Berlusconi l’avesse chiamato «ingegnere» nel decreto di nomina e si spinse a firmarsi così perfino in un atto giudiziario: «ing. Regis». Quando il Corriere raccontò che non era così, come del resto lui stesso aveva confessato ad Economy aggiungendo che però si considerava «comunque ingegnere a tutti gli effetti», minacciò sfracelli e fece querela. Era vera la denuncia, disse la magistratura. Ma l’avvocato, nonostante avessimo avuto ragione, dovette pagarlo il Corriere. Così è andata con il giudice Diego Curtò, furente per il «tono sproporzionatamente scandalizzato» con cui era stata descritta la sua vicenda, che forse i lettori ricordano per i soldi buttati nel cassonetto e che pretese una precisazione indimenticabile: «i 3 anni e 6 mesi di carcere gli sono stati inflitti dalla Corte di appello di Brescia non per corruzione in atti giudiziari ma per corruzione semplice». E ancora con Totò Cuffaro, che querelò perché non si riconosceva nella definizione di politico «clientelare». E Alberto Monaci, uomo forte della Dc senese, invelenito perché avevamo raccontato come un fantastico appartamento a due passi da Piazza del Campo svenduto dal partito dopo il tracollo era finito, guarda caso, alla sua compagna: «Querelo!». E potremmo avanti andare avanti per ore, a raccontare di querele pretestuose, querele fatte solo per spingere il cronista a non occuparsi più di questo o quel tizio, querele intimidatorie. Per non dire di letteracce violente destinate a essere sepolte sotto il peso delle sentenze di condanna (altrui) e assolutorie (nostre). Troppo facile, buttar lì una querela o una lettera di smentita. Sono state scritte cose false? Ben venga la pena. Purché non sia così pesante economicamente da ammazzare i piccoli giornali. Ma quanto al diritto alla smentita «a prescindere», per dirla con Totò, è il caso di andare cauti. Molto cauti. 20 gennaio 2015 | 08:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_20/gasparri-incontinenti-dell-ingiuria-diritto-smentita-cronaca-querele-97472218-a06f-11e4-b571-55218c79aee3.shtml
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« Risposta #248 inserito:: Gennaio 30, 2015, 04:51:30 pm » |
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J’accuse In un pamphlet edito da Donzelli, l’ex rettore Stefano Pivato si scaglia contro l’«Homo academicus» Narcisismo e cecità dei baroni uccidono l’università italiana Autoreferenzialità, fobia digitale, concorsi «adattati»: è l’Italia che non vuole cambiare «Bisogna avviare una profonda autocritica» Di Gian Antonio Stella «Mio padre era un professore universitario, ragion per cui aveva le abitudini tipiche dei professori universitari. Guardava tutti dall’alto in basso, non scendeva mai dalla cattedra, neanche in famiglia. Era una cosa che non sopportavo fin da quando ero bambino». Tranquilli: l’ingombrante genitore del nostro scrittore non era senese, non era barese, non era bresciano e neppure foggiano o trentino. La testimonianza, infatti, è di Haruki Murakami, uno dei più celebri romanzieri giapponesi. Tutto il mondo è paese? Ma certo. Esiste tuttavia un Homo academicus specificatamente italiano. Al punto che Stefano Pivato, docente di Storia contemporanea a Urbino dove è stato anche rettore, autore di libri deliziosi a cavallo fra storia e costume come Vuoti di memoria , Il secolo del rumore , Il nome e la storia , ha deciso di dedicare a questa specie umana un feroce e divertito pamphlet. La lezione e l’aula vuota Si intitola «Al limite della docenza». Piccola antropologia del professore universitario , è edito da Donzelli, e dimostra che non sempre, come dice il vecchio adagio, cane non morde cane. In questo caso prof. morde prof. e rettore morde rettore. Come quello che, «magnifico di un’università del Nord in carica da ventotto anni» si levò furente all’assemblea della Crui dell’ottobre 2010 scuotendo i colleghi con parole di fuoco contro il limite di sei anni ai rettorati eterni voluto da Mariastella Gelmini e contro l’introduzione del codice etico. «L’etica si pratica, non si legifera!» Boooom! C’era il pienone quel giorno, alla conferenza dei rettori. Troppo spesso però, secondo Pivato, l’ Homo academicus italicus somiglia a quel Bernardino Lamis protagonista d’una novella di Pirandello «descritto mentre tiene la sua “formidabile” lezione. Il docente è “infervorato” a tal punto che solo alla fine si accorge di aver parlato a un’aula priva di studenti». L’ex rettore ne è certo: «Coinvolta in scandali di vario genere, l’università è, da tempo, sotto scacco. C’è però da chiedersi fino a che punto sia utile e produttivo reagire scompostamente e non piuttosto avviare una profonda autocritica che coinvolga prima di tutto una serie di attitudini». Come l’autoreferenzialità. Due che s’incrociano dicono: «Come stai?». Al contrario, «una certa tipologia di docente ha l’abitudine di salutarti con una formula piuttosto diffusa nell’ambiente universitario e, stringendoti la mano, senza chiederti nulla, ti dice “come sto io”. Insomma parla unicamente di se stesso». Le citazioni e l’ego smisurato E tutto va di conseguenza: «Il professore “come sto io?” se riceve da un amico o un collega un libro, calibra il suo entusiasmo dal numero delle citazioni che ha ottenuto nell’indice dei nomi». E «non parte mai dai problemi universitari, che riguardano in particolare gli studenti e attengono alla diffusione del sapere. Ma dai “suoi” problemi. Che sono al centro del mondo». E mosso da «uno smisurato ego», pubblica libri che non vende a nessuno, ma se lo incrociate «vi dice subito che il libro è giunto già alla terza o quarta edizione, e magari che sta entrando in classifica, pronto a scalzare i best sellers di Camilleri...». Di più: «Spesso l’importanza del volume è sottolineata dal numero delle pagine che il docente “come sto io” mima allargando a dismisura le mani per darti l’idea del “tomone” che ha pubblicato. Come se l’importanza di un libro si misurasse a chili». E naturalmente il libro «fa giustizia di tutte le teorie e le ipotesi precedenti». La paura del digitale E se la grafomania fosse sfogata negli ebook? Ma per carità! «Un buon numero d’insegnanti, soprattutto quelli delle discipline umanistiche, non ha ancora dimestichezza con gli strumenti digitali. Anzi, oppone loro un vero e proprio rifiuto. La motivazione più ricorrente è quella che la scrittura con carta e penna riveste un fascino d’ antan che non può contaminarsi con la modernità». E per di più non sarebbero più possibili certi trucchetti per imporre l’adozione del proprio tomo agli studenti. Come quello di un docente che, per evitare che gli allievi si passassero i libri usati, ha fatto stampare il suo con un’accortezza: «L’ultima parte era costituita da una serie di pagine con domande ed esercizi che lo studente doveva compilare a penna e quindi staccare e consegnare al professore per la verifica. In questo modo, terminato l’esame, il testo, mancante della parte finale, non era più utilizzabile». C’è chi dirà: «Uffa! Veleni». No: come giustamente recita la fascetta, quello di Pivato è un pamphlet malizioso, irridente ma tremendamente serio. Che getta sale sulle piaghe di un sistema universitario troppo spesso ostile a ogni riforma. Legato a riti e reverenze ampollose verso il Chiarissimo, l’Amplissimo, il Magnifico... Dove il rettore d’un ateneo privato al Nord può essere contemporaneamente il «magnifico» in «un’altra università del Sud a circa millecinquecento chilometri di distanza». Dove «il camaleontismo del professore mostra incredibili doti di adattamento ai meccanismi concorsuali» e l’imperativo è taroccare de Coubertin: «L’importante è partecipare ma soprattutto vincere». L’amore ammaccato Insomma, un luogo chiuso dove «i codici etici concretamente adottati dalle università affrontano tendenzialmente tutti i temi, ma per lo più in modo astratto». Dove esattamente al contrario che nei grandi atenei internazionali che sono un viavai di eccellenze, lo jus loci , il radicamento vita natural durante nel cantuccio della propria facoltà, «costituisce una delle regole più ferree». Dove le ore obbligatorie di lezione sono al massimo 120 l’anno contro le 192 in Francia, le 279 in Baviera, le 252 (ma fino a 360) in Spagna, le 240 in Gran Bretagna... Abbiamo scommesso: c’è chi liquiderà il pamphlet, frutto di un grande amore ammaccato per l’università, come uno sfogo brillante ma fatto di mezze verità. E sbufferà: ma come, uno dei nostri che offre munizioni ai nostri nemici! Vadano a rileggersi Curzio Malaparte e la sua idea del patriottismo: «Un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza». © RIPRODUZIONE RISERVATA 28 gennaio 2015 | 11:31 Da - http://www.corriere.it/scuola/universita/15_gennaio_28/narcisismo-cecita-baroni-uccidono-l-universita-italiana-85f46652-a6d6-11e4-93fc-9b9679dd4aa0.shtml
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« Risposta #249 inserito:: Gennaio 31, 2015, 04:45:49 pm » |
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IL RITORNO DELLA PRIMA REPUBBLICA «Risorgeremo come Lazzaro» I dc e la profezia che si avvera Paolo Cirino Pomicino: ««Neppure uno dei nomi presi in considerazione è figlio della Seconda Repubblica» Di Gian Antonio Stella «Un giorno noi dicì ci toglieremo il sudario e risorgeremo come Lazzaro». Esattamente vent’anni dopo, davanti alla prospettiva di un trionfo della «Gens Democristiana» nella sfida quirinalizia, Gerardo Bianco ammicca divertito: «L’ho detta io, quella frase? Non ricordo. Si vede che non ero ancora rimbambito». Mai avuto paura dell’autoironia, «Gerry White». Basti ricordare quando, nominato ministro dell’Istruzione, disse: «Finalmente potrò comandare su mia moglie professoressa». («Quella me la ricordo: lei non me l’ha mai perdonata».) Men che meno dice di temere quella che per decenni è stata la maledizione democristiana: i franchi tiratori: «A naso, stavolta dovrebbero essere ininfluenti. Anche perché dovrebbero venire disinnescati da altri voti esterni...». Salgono sbuffi di Balena Bianca, nel Transatlantico di Montecitorio. Sbuffi come non se ne vedevano da anni. Molti anni. Ed è tutto un viavai, in questi giorni, di figure che per molto tempo o solamente per lo spazio di un mattino hanno avuto un ruolo nella vita del nostro Paese nella I Repubblica. Certo, non mancano post socialdemocratici come Carlo Vizzini, erede in gioventù del seggio del papà Casimiro e poi segretario Psdi e più volte ministro coinvolto in polemiche sulle assunzioni alle Poste («Una scelta che rivendico», disse, «disposi che fosse data la priorità alle regioni che avevano la più alta densità di disoccupati, cioè Sicilia, Calabria, Campania e Basilicata: qui erano il 24%, in Lombardia il 4») e poi ancora per qualche stagione forzista e berlusconiano. E non mancano socialisti di lungo corso come Paolo Pillitteri, il cognato di Craxi che Bettino mise a fare il sindaco di Milano e che fu travolto dal crollo di tutto il sistema socialista. E ancora reduci nostalgici di quella stagione come Lucio Barani, che quando era sindaco di Aulla concesse la cittadinanza onoraria «ai cromosomi X e XY, dei maschi di casa Savoia» e arruolò un «brain trust» di sedicenti fattucchiere per togliere al paese il malocchio rosso e oggi, senatore e segretario del Nuovo Psi sospira: «Con Mattarella si avvererà l’incredibile profezia di Craxi: i comunisti moriranno democristiani». Ma sono soprattutto loro, gli orfani dello scudocrociato, a riaffacciarsi con uno spirito nuovo, niente affatto penitenziale, in questo Parlamento che per decenni dominarono. Manca il già citato «Gerry White» che aveva preso impegni in Calabria ma non vede l’ora di farsi vedere. Mancano i defunti. Manca Paolo Cirino Pomicino, che sta a Londra ma anche lui conta le ore per rientrare. Gli altri, chi più chi meno, si sono fatti vedere tutti. O quasi tutti. Questo, esulta Pomicino dall’Inghilterra, «è il trionfo della Prima Repubblica. Dopo vent’anni tutti questi innovatori hanno dovuto cercarsi un inquilino del Colle scegliendolo tra i protagonisti o i comprimari della Prima Repubblica. Ci faccia caso: neppure uno, dei nomi presi in considerazione, è figlio della tanto mitizzata Seconda Repubblica. Per non dire di altre cose». Esempio? «Il trucco di saltare con la scheda bianca le prime tre votazioni, più complicate, è platealmente figlio di una certa cultura dc». Silvio Berlusconi si sente bidonato? «Ben gli sta. Non ha mai voluto affidarsi agli ex democristiani. Adesso gli eredi del Pci l’hanno fatto e si ritrovano al 40%!». Alcuni parlamentari più giovani, magari del MoVimento 5 Stelle, cercano di individuare questo o quell’ospite anzianotto che scivola nello struscio con l’aria di riassaporare un’abitudine antica, come se assistessero all’inaspettata apparizione di creature provenienti dal passato più profondo. Ecco un Ceratosaurus, e poi un Camptosaurus, un Megapnosaurus, un Torvosaurus... E questi da dove escono? È come se fosse rovesciato, di colpo, quel Mondo Nuovo invocato dopo l’abbattimento della I Repubblica sotto i colpi delle inchieste giudiziarie. Quello che trovava ragion d’essere nella celebre battuta di Antonio Martino: «Abbiamo fatto esperienza dei politici di esperienza e non è stata una bella esperienza». Ed ecco Sergio d’Antoni, che quando era leader della Cisl pareva avere in pugno un pezzo d’Italia e a un certo punto fondò un movimento nuovo, ovviamente neo-dc, insieme con Pippo Baudo: «Ho sentito che qualcuno teme che anche a Mattarella possa accadere quel che accadde ad Arnaldo Forlani, impallinato dai franchi tiratori. Io non credo sia possibile... Non vedo come si possa votare contro una persona dello spessore di Sergio Mattarella». Salvatore Cardinale, siciliano di Mussomeli, dicì dai tempi lontani in cui Paolo Emilio Taviani ricambiava l’ostilità di Fanfani spiegando che «nella vita ci sono solo due cose belle, le donne e l’odio perenne per Amintore», passa il pomeriggio a tessere un accordo con gli alfaniani e i berlusconiani siculi e a impestare col sigaro il corridoio fumatori che accoglie gli schiavi del vizio e i malcapitati costretti per ragioni professionali a respirare l’irrespirabile. Eletto deputato la prima volta nel 1987, assicura gongolante che «l’amico Sergio non dovrebbe avere problemi. Raffaele Fitto, che non a caso è un rampollo cresciuto in casa dicì e ha imparato in fretta come si fa politica, ha già detto che lui e i suoi lo votano. Alla fine, secondo me, i voti potrebbero essere più del previsto. Raccolgo confidenze. Non ha idea di quanti parlamentari e grandi elettori siciliani vengano raggiunti in queste ore dalle telefonate della moglie o dei figli: “Non penserai mica di votare contro Mattarella?!”. Li conosco, i miei: so cosa faranno». C’è da credergli, che li conosca. Disintegrata la Dc, «Totò» ha circumnavigato negli anni tutto il globo dei partitini nati dal Big-Bang scudocrociato: Ccd, Udr, Udeur, Ppi, Dl... Una diaspora che Mino Martinazzoli aveva ben previsto: «Se la Dc si dovesse spaccare non si spaccherebbe in due ma in tre, in quattro, in cinque, rendendo ininfluente la presenza dei cattolici». Va da sé che, nel partito democratico di oggi, si trova come un fagiolo nel baccello. Rosy Bindi, che emerse negli ultimi anni della Prima Repubblica come una specie di Giovanna d’Arco scelta come commissario da Martinazzoli per bonificare il partito in Veneto («Cerco uomini da mettere intorno non a un interesse, ma a un disinteresse!») ha smesso i musi lunghi che aveva fino all’altro ieri e pare beata come se avessero scelto lei stessa per salire al Colle. La rivincita, per lei, è doppia. Dovesse andar bene la conta di oggi, sarebbe il trionfo di quelli che il cardinale Alfredo Ottaviani, roccioso difensore delle tradizioni cattoliche e teorico di una Dc destrorsa, chiamava con sprezzante ironia i «comunistelli di sacrestia». Quelli che lo stesso Berlusconi, come ricorda il senatore Augusto Minzolini, teme più ancora di quanti ha bollato negli anni come «i figli di Stalin». Sintesi dell’incubo: l’eventualità che Mattarella diventi «una specie di nuovo Scalfaro». Un cattolico vecchio stampo che chiamava la Madonna «la Mamma, la Padrona, la Splendidissima, la madre del bell’Amore, la castellana d’Italia, la Corredentrice, l’Ancilla» e faceva mostra di monacale umiltà («Il paragone con l’asino nella nostra povera vita vale sempre. Anche per me. Perché la parentela col somaro c’è sempre, non si perde con l’età») ma per sette anni si mise di traverso più o meno a tutti gli obiettivi del Cavaliere. Questo è l’incubo di Berlusconi. Il timore che ciò che si sta ricostituendo dentro il Pd e dentro il Parlamento e dentro il suo stesso partito grazie alle insubordinazioni «del giovine Raffaele», finisca per stritolare ciò che resta (pochissimo, rispetto ai proclami di una volta) del «partito liberale di massa» che diceva di avere in testa al momento di scendere in campo. E vedere tutti insieme questi antichi e novelli dicì che stanno un po’ di qua e un po’ di là ma che oggi potrebbero trovare una sintesi due anni fa impensabile, fa tornare in mente quanto spiegò un giorno, in romanesco, il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti: «Nella Dc nun se bbutta niente. Mai metterse ‘n testa di dettare i comandamenti del buon diccì. Cominci a dire: primo, devi fa’ così; secondo, non devi fa’ cosà, terzo, parla così, quarto questo, quinto quello e daje a elencà... None! Devi dire: fate come vi pare, basta che portate voti». 31 gennaio 2015 | 07:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/quirinale-mattarella-dc-e1159412-a914-11e4-96d4-6a68544c2eeb.shtml
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« Risposta #250 inserito:: Febbraio 07, 2015, 10:05:16 am » |
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IL RACCONTO Franchi tiratori: l’incubo resta (due anni dopo) In Aula tra battute e rime baciate: il Parlamento verso l’elezione decisiva del nuovo Presidente della Repubblica Di Gian Antonio Stella «Cucù!» Silvio Berlusconi barcolla sorpreso: Matteo Renzi, a quanto pare, gli ha rifilato lo scherzo che lui, anni fa, aveva fatto ad Angela Merkel. Solo che quello, pur esponendo l’allora premier alle ironie di mezzo mondo, era una sorpresa innocua. Questa no. Questo «cucù» può essere letale. Non solo per la battaglia quirinalizia ma per i suoi stessi destini politici. Certo, lui non può ammettere se non a mezza bocca di sentirsi bidonato da quel ragazzo al quale aveva perdonato perfino di aver detto che lui, l’ex Cavaliere, poteva essere suo nonno. E dunque contiene la collera con quelle parole che un tempo, al debutto in politica contro i «faniguttùn», quando era insofferente ogni sfumatura del politichese, sarebbero state molto più dure: «Non siamo noi a non aver rispettato il patto ma Renzi». E poi: «Questa situazione segna comunque un altolà al patto del Nazareno». Traduzione: adesso salta tutto. Forse. Chissà. Probabilmente. Dipende dal senso di isolamento... Sia chiaro: la storia delle elezioni del presidente della Repubblica è costellata di tali incidenti di percorso da consigliare estrema cautela nelle previsioni di una facile vittoria mattarelliana. Basti ricordare quanti leader, entrati papi nel conclave parlamentare, sono usciti cardinali. E bastonati, a volte, solo per una manciata di voti. E dopo il tormentone di due anni fa nessuno ha il fegato di dare per già fatta l’elezione di Sergio Mattarella. Resta valida la diagnosi di Carlo Donat-Cattin chiamato a suo tempo da Aldo Moro a bloccare l’elezione di Giovanni Leone: «I mezzi tecnici», rispose, «sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori». Sempre lì. Sullo sfondo. Solo Wikipedia, nel pomeriggio, per l’incursione di un hacker ferocemente buontempone, dà la cosa per fatta: «Il 29 gennaio 2015 Sergio Mattarella diventa presidente della Repubblica con 679 voti alla prima votazione, raggiungendo la maggioranza qualificata grazie all’appoggio del Partito democratico, di Forza Italia e di Giancarlo Magalli». Man mano che passano le ore, però, l’incubo di una riapparizione di quelli che Bettino Craxi chiamava «una razza di deputati bastardi che affiorano nelle zone paludose del nostro ordinamento parlamentare», sembra (sembra!) sciogliersi nelle manifestazioni di ottimismo, i sorrisi, le pacche sulle spalle, le battute distensive delle diverse anime del Partito democratico e di tutta la costellazione del centrosinistra. Ignazio La Russa la butta sul ridere: «Ho fatto un tweet: “dal patto del Nazareno siamo passati al patto del menga”». Sottinteso goliardico: intraducibile. Censura. Sfreccia via, ghignando, Maurizio Gasparri. Nella scia di poeti parlamentari come il risorgimentale Giovanni Prati, Gabriele d’Annunzio, Trilussa e Mario Luzi, si è scoperto lui pure una vena artistica e si è messo ad armamentare intorno a rime baciate che libera nell’aere a Un giorno da pecora. Ecco l’ultima: «Tutto è pronto, addobbi e sale / per la sfida Quirinale. / Nazareno, Mattarella, / scegli questo oppure quella. / A dozzin stanno lì fuori / schiere di manovratori / e gli illusi sono tanti / di apparir determinanti. / Poi c’è Sergio Mattarella, / pronto al balzo sulla sella, / ma al momento sono ancor tanti / gli aspiranti e i questuanti». Al di là della poesiola, il vicepresidente del Senato detta all’Adnkronos parole di fuoco: «Renzi, come in altre occasioni, preferisce l’arroganza. Sarà il difetto che lo porterà nel tempo alla sconfitta». I renziani che leggono il dispaccio ridacchiano: «Nel tempo! Nel tempo!» Per ora, a vedere come i protagonisti di tutte le lancinanti battaglie intestine di questi mesi dentro il Pd su tutte ma proprio tutte le iniziative renziane, gironzolano per il Transatlantico ostentando sorrisi e serenità, pare che la vittoria (fatta la tara alla scaramanzia) l’abbiano davvero già in tasca. E pare una vittoria di tutti. Gongola Giuseppe Fioroni che tanto invocava sul Colle un inquilino cattolico. Gongola il trentino Lorenzo Dellai, l’ideatore della Margherita, che nel 2001 scatenò la guerra contro «l’amico Sergio» che era stato paracadutato dal partito a farsi eleggere nel collegio sicurissimo sulle montagne dolomitiche: «Non possiamo venire a sapere che uno si candida qui, com’è accaduto, dal Giornale di Sicilia». Sia chiaro, ammicca oggi, «tra tutti quelli che ci potevano imporre Sergio era il migliore. E dopo aver posto la questione di principio della nostra autonomia non gli facemmo mancare il nostro sostegno». «La raccolta delle firme sì, però», ridacchia Gianclaudio Bressa, «Se non fosse stato per noi che venivano da fuori...». Ma gongola anche lui. Come Stefano Fassina, che pure da mesi è con Renzi ai ferri corti: «Questa volta Matteo ha fatto la mossa giusta. Di unità per tutto il partito». Vuol dire che quando arriverà in aula alla Camera l’Italicum l’opposizione interna sarà un po’ più conciliante e non pretenderà nuove modifiche? «Qualche modifica dovrà essere fatta senz’altro...», ma perché litigare oggi? Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia, sprizza euforia: tre lustri dopo la botta micidiale del sessantun parlamentari a zero incassata dalla destra trionfante berlusconiana, l’isola che si riconosce nel Pd potrebbe ritrovarsi con due palermitani, Mattarella e Grasso, ai vertici dello Stato: «Per noi, se si passa Sergio, è una svolta storica. Lui lo sa, cos’è la mafia. Non ne ha sentito parlare così, genericamente. Suo fratello Piersanti, assassinato da chi non voleva che la Sicilia cambiasse, è morto tra le sue braccia. E bene ha fatto Renzi a ricordarlo». I siciliani, scommette, «lo voteranno tutti. Tutti. Anche i berlusconiani». Dall’altra parte, sventagliate di battute invelenite. Ecco Daniela Santanchè, che si dice schifata da quello che bolla come un tradimento degli accordi. L’altra pasionaria berlusconiana, Michaela Biancofiore, si è sfogata dicendo di avere «l’impressione sgradevole» che Renzi abbia «deciso che tutto il resto del mondo non gli serva più» e di aver capito che «gli piace fare il furbetto». Lei rincara: «Sono fiera di appartenere ad un movimento politico di uomini che quando danno una parola la mantengono e rispettano i patti. Provo tristezza per chi sta con i quaquaraqua». Augusto Minzolini ride: «Glielo avevo detto, a Berlusconi, che finiva così. Gli avevo detto di puntare su Prodi, per spaccare la sinistra. Oggi mi ha detto: avevi ragione tu. Tardi...». Maurizio Sacconi spiega che no, non si fa così e che lui e i parlamentari del Nuovo centrodestra resteranno fermi e compatti sul no alla candidatura imposta: «Ormai è chiaro che in prospettiva andiamo verso una specie di cancellierato: il capo dello Stato non può sceglierselo l’aspirante cancelliere». Maria Elena Boschi è convinta invece che no, non è detto che il terzo giorno il centrodestra resterà arroccato sulle posizioni di oggi: «Tre giorni, in politica, possono essere un’era geologica...». E Buttiglione? Che farà, a prescindere dalle decisioni dei suoi amici di partito, l’ex segretario che vent’anni fa spostò un pezzo del Partito popolare a destra? Un ventennio basta e avanza, per fare pace. Ma certo, allora, lo scontro con Sergio Mattarella, convintissimo che andasse confermata la scelta storica della Dc degasperiana del «partito di centro che guarda a sinistra», fu durissimo. Tanto da spingere Mattarella, generalmente così freddo e razionale da guadagnare il nomignolo «On. Metallo», a lanciarsi in quella che viene ricordata come l’unica battuta della sua vita: «El general golpista Roquito Butilione...» . 30 gennaio 2015 | 08:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_30/franchi-tiratori-l-incubo-resta-due-anni-dopo-4e45578a-a851-11e4-9642-12dc4405020e.shtml
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« Risposta #251 inserito:: Febbraio 13, 2015, 02:38:33 pm » |
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La casa degli italiani Presidente Mattarella, ora apra il Quirinale Di Gian Antonio Stella Brindano a Madrid: il Palacio Real, nel 2014, ha fatto il botto: un milione e duecentomila visitatori. In un solo anno. Mostre temporanee e «dependance» escluse. Quanti il Quirinale, dicono i dati diffusi dall’ex segretario generale come prova di apertura al pubblico, in tutti gli otto anni di Giorgio Napolitano. Il confronto dice tutto. E potrebbe spingere Sergio Mattarella, nuovo inquilino di quello che è considerato uno dei più bei palazzi del pianeta, a chiedersi: può essere sufficiente, come gira voce, aprire qualche stanza in più per qualche ora in più la domenica prolungando fino alle otto di sera le visite previste ora soltanto la mattina? Può esser vantato come un grande successo l’ingresso nella «casa degli italiani» nel 2014 di 15.400 alunni e insegnanti pari a 42 al giorno e cioè poco più di quanti studenti visitano quotidianamente la redazione del Corriere? Sono in tanti, ormai, a invocare la trasformazione del Quirinale in uno straordinario museo della storia, della cultura, dell’arte d’Italia. Dall’ex vicepremier e ministro della cultura Francesco Rutelli ai presidenti del Fai Andrea Carandini e di Italia Nostra Marco Parini e via via un numero crescente di studiosi, parlamentari, siti web, opinion makers, associazioni, cittadini, giornali... In prima fila il nostro. Certo, rovesciare di colpo le scelte dei predecessori non è facile. I presidenti nei decenni hanno privilegiato il palazzo sul Colle come luogo simbolo dell’eccellenza e del prestigio del Paese in grado di stupire e affascinare i Grandi del mondo, come una sorta di strepitosa vetrina del nostro patrimonio storico e monumentale. C’era un senso, nel vivere il Quirinale come una sorta di «Reggia» laica senza Papi e senza re. Ma oggi? Anche Francesco, scegliendo di vivere in bilocale del convitto di Santa Marta aveva lo stesso problema: non sarebbe suonata, quella decisione, come una presa di distanza dai Pontefici precedenti? Ha deciso la svolta. E Dio sa quanto il gesto sia stato apprezzato dai fedeli. C’è chi insiste che no, non è il caso che il presidente della Repubblica, di questi tempi, traslochi in un altro palazzo, magari bellissimo, nel centro di Roma. Che il cuore dello Stato è lassù sul Colle e lì deve restare. Può essere. Vanno custoditi con amore, certi simboli. Ma se la stessa Casa Bianca ha accolto l’anno scorso 600 mila visitatori spalmati su cinque giorni settimanali pur essendo un bel villone molto più piccolo e più esposto a ogni genere di rischio, possiamo ben immaginare che il Quirinale, con le sue 1.200 stanze, possa esser insieme le due cose. Lo scrigno dello Stato e un immenso spazio museale spalancato tutti i giorni, e non in dosi omeopatiche, ai suoi proprietari: gli italiani. 11 febbraio 2015 | 08:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_11/presidente-mattarella-ora-apra-quirinale-64463590-b1b6-11e4-a2dc-440023ab8359.shtml
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« Risposta #252 inserito:: Febbraio 24, 2015, 04:41:14 pm » |
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Misteri italiani: i geologi spariti nel Paese dei terremoti Il paradosso: dipartimenti troppo piccoli, ma gli studenti aumentano
Di Gian Antonio Stella
Qual è il Paese europeo più colpito dai terremoti? L’Italia. Quello più colpito dalle frane? L’Italia. Quello più colpito dall’emorragia di geologi? L’Italia. È tutto in questo paradosso, insensato, uno dei grandi problemi che ci affliggono. Via via che il territorio si rivelava più a rischio, le opportunità per i giovani di studiare geologia sono diventate sempre meno, meno, meno...
Il colmo è stato toccato all’università di Chieti. Dove, a causa prima delle spaccature interne e poi della necessità di trovare una scappatoia alla rigidità della legge voluta nel 2009/2010 da Maria Stella Gelmini, decisa (con buone ragioni, anche) ad arginare l’eccesso di dipartimenti spesso mignon con la soppressione o l’accorpamento di quelli più piccoli, è nato il «Disputer». Dipartimento di Scienze Psicologiche Umanistiche e del Territorio. Che tiene insieme gli psicologi che indagano nel sottosuolo delle menti umane e geologi che studiano il suolo e il sottosuolo della terra. Un capolavoro. Come se, per sopravvivere a una spending review, si fondessero insieme una carpenteria navale e un quartetto di violini.
I vulcani attivi e la prevenzione che non c’è Eppure quali siano le estreme fragilità geologiche del nostro territorio è sotto gli occhi di tutti. Lo dice il sito ufficiale della Protezione civile: «L’Italia è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio e per l’intensità che alcuni di essi hanno raggiunto, determinando un impatto sociale ed economico rilevante. La sismicità della Penisola italiana è legata alla sua particolare posizione geografica, perché è situata nella zona di convergenza tra la zolla africana e quella eurasiatica ed è sottoposta a forti spinte compressive... ». Lo ripete l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ricordando che sul territorio Italiano (in Francia c’è solo il Puy-de-Dôme che dorme da sei millenni, in Grecia solo Santorini) «esistono almeno dieci vulcani attivi» e cioè i Colli Albani, i Campi Flegrei, il Vesuvio, Ischia, lo Stromboli, Lipari, Vulcano, l’Etna, Pantelleria e l’Isola Ferdinandea. Più, se vogliamo, il Marsili che, adagiato nel mare tra il golfo di Napoli e le Eolie, è il più esteso del continente. La storia conferma: come scrivono nel volume «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni» Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «dal 1861 ad oggi nel nostro paese, tra i più martoriati, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori» per un totale di almeno 200 mila morti e 1.560 comuni, tra cui 10 capoluoghi, bastonati più o meno duramente. Uno su cinque.
Non bastasse, la relazione al Parlamento della «Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico» ricorda che oltre ai terremoti c’è il resto: «486.000 delle 700.000 frane in tutta l’Ue sono in 5.708 comuni italiani». Quasi il 69%. Con un progressivo aggravarsi della situazione, denunciata da Paola Salvati e altri nello studio «Societal landslide and flood risk in Italy»: tra il 1850 e il 1899 l’Italia è stata colpita da 162 frane più gravi, triplicate nel mezzo secolo successivo (1900-1949) salendo a 509 per poi aumentare a dismisura tra il 1950 e il 2008 fino a 2.204. E in parallelo crescevano morti, dispersi, sfollati...
L’esercito che non c’è
A farla corta: avremmo bisogno di un esercito di geologi schierato sulle trincee della ricerca, dei piani urbanistici, delle mappe delle aree a rischio da aggiornare diluvio dopo diluvio. E invece la geologia è sempre più ai margini dell’università italiana. Una tabella del Cun (Consiglio universitario nazionale) dice tutto: dal 2000 al 2014 i professori ordinari di Scienze della Terra hanno avuto un crollo del 44,4%. E i dipartimenti «puri» di geologia, senza gli accorpamenti con altre materie magari a capriccio, sono scesi da 27 (in origine erano 38) a 8. Con la prospettiva di ridursi fra tre anni, visti i numeri, a cinque: Milano, Padova, Firenze, Roma, Bari.
Un delitto. Tanto più che, dopo essere precipitati tra il 2003 e il 2008 da 1490 a 1064, gli studenti a che hanno deciso di immatricolarsi nelle materie geologiche sono poi impetuosamente aumentati fino a sfondare nel 2012 il tetto di 1541. Con un aumento del 46%. Prova provata che negli ultimi anni cresce una nuova consapevolezza di quanto il nostro Paese abbia bisogno di quei giovani da mandare al fronte contro il dissesto del territorio.
Serve una svolta Sono anni che il Parlamento è stato chiamato a correggere le storture create dalla rigidità esagerata, in settori come questo, della riforma Gelmini. Ed è dall’estate del 2013 che giace in Parlamento una proposta di legge, prima firmataria la pd Raffaella Mariani, per riscattare «la sostanziale scomparsa dei dipartimenti di scienze della terra». La denuncia di «un grave degrado della qualità della vita e della tutela della pubblica incolumità» e di inaccettabili anomalie («a volte strutture pubbliche, quali scuole, ospedali e stazioni, vengono costruite in aree a rischio») è rimasta però, per ora, lettera morta. «Oggi i 1.020 docenti e ricercatori dell’area delle scienze della terra risultano dispersi fra 50 atenei in 94 dipartimenti diversi con una media di meno di 11 unità per dipartimento», denunciava un anno e mezzo fa la Mariani, «Il caso più eclatante è quello dell’Emilia-Romagna, regione con grandissimi problemi geologici e con quattro università. In nessuna di queste è sopravvissuto un dipartimento di scienze della terra. A Bologna, nell’università più antica del mondo dove nel 1603 Ulisse Aldrovandi coniò il termine “geologia”, oggi non esiste più un dipartimento... ».
Sulle proposte tecniche lanciate per restituire nuova vita alla materia così essenziale per la salute del territorio e degli italiani non vi vogliamo annoiare. Si va da una maggiore elasticità sul numero minimo di iscritti alla richiesta di una piccola quota del Fondo per la prevenzione del rischio sismico da destinare «al finanziamento di progetti di ricerca finalizzati alla previsione e prevenzione dei rischi geologici». Possono bastare? Boh... Ma certo occorre una svolta. O i lamenti che si leveranno davanti alle macerie e ai lutti del prossimo terremoto o della prossima frana suoneranno ancora più ipocriti...
22 febbraio 2015 | 10:06 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #253 inserito:: Marzo 07, 2015, 04:24:09 pm » |
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Immigrazione e identità Diritti (e doveri) dei nuovi italiani Di Gian Antonio Stella Mohamed Emwazi, il boia dell’Isis detto «Jihadi John», ha dato una coltellata anche ai sogni di tutti quei bambini e ragazzi figli di immigrati che sono nati in Italia, parlano italiano, tifano per la nazionale italiana e aspirano a diventare italiani. La riforma della legge sulla cittadinanza del ‘92, quando a Palazzo Chigi stava Andreotti e gli immigrati erano un decimo di oggi, rischia infatti di arenarsi nella poltiglia della rissa politica. Di qua quanti vedono in ogni immigrato, fosse pure buddista, indù o cristiano, un potenziale tagliagole. Di là quanti credono che sia irragionevole pretendere dei «buoni cittadini senza cittadinanza» ma anche che, di questi tempi, occorra andar coi piedi di piombo. Tanto che lo stesso Renzi sembra aver un po’ accantonato questo che gli pareva «un problema urgente». Peccato. Non solo perché l’avventura «a cercar la bella morte» nel nome dell’Isis, come si è visto anche negli occhi delle ragazzine fotografate in fuga all’aeroporto, c’entra forse con la crisi di identità culturale e poco coi documenti di identità personale. Ma perché noi stessi abbiamo bisogno che quanti più nuovi italiani possibile si riconoscano nei nostri valori, nel nostro sistema di diritti, nella nostra Patria. Certo, tanto più coi flussi caotici in arrivo dalle aree di guerra, occorre andar cauti con lo ius soli automatico. Come dice uno studio di Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi, solo gli Stati Uniti hanno conservato il diritto al passaporto a chi nasce sul loro territorio. Tutti gli altri Paesi che l’avevano (il 47% degli Stati censiti nel ‘48) hanno via via abbandonato lo ius soli integrale per un sistema misto. Scelto anche da chi, come la Germania, veniva come noi dallo ius sanguinis . Ormai indifendibile. E bene ha fatto il premier fiorentino a battere sulla necessità di uno ius soli che tenga conto di un certo numero di anni di residenza, del percorso scolastico, della padronanza della lingua, dell’obbligo di giurare fedeltà. Insomma, è bene che i paletti siano ben conficcati. Ma come ha detto Napolitano non possiamo rinviare in eterno «la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità». Gli stessi italiani del resto, dice una ricerca Istat di pochi giorni fa, sono sì preoccupati per i nuvoloni minacciosi spinti su di noi dai venti di guerra e in tanti vorrebbero che fosse data la precedenza ai «nostri» nelle case popolari e sul lavoro. Ma allo stesso tempo sono in larghissima maggioranza a favore della cittadinanza agli immigrati inseriti e ai loro figli. Prova provata che, non andando a caccia di voti, loro non fanno di ogni erba un fascio... 4 marzo 2015 | 08:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_04/diritti-doveri-nuovi-italiani-e5c31182-c233-11e4-9c34-ed665d94116e.shtml
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« Risposta #254 inserito:: Marzo 16, 2015, 11:50:21 pm » |
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L’editoriale I devoti della dea tangente La legalità può attendere Di Gian Antonio Stella Cadono le braccia a vedere i travagli del governo, della maggioranza, delle Camere, nel portare finalmente in porto la legge anti-corruzione. Mille volte promessa, mille volte rinviata. Mese dopo mese. Settimana dopo settimana. Un tormentone. Che vede improvvisi scoppi di frenesia («subito in Aula!») a ogni ondata di arresti per l’Expo, il Mose, la mafia alla vaccinara... E nuove pennichelle parlamentari appena ogni scandalo va in ammollo. Ammollo che ha finito per scandalizzare anche il presidente del Senato Pietro Grasso, nonostante ben conosca tempi, riti e liturgie. Eppure la guerra ai «devoti della dea tangente» che «portano a casa pane sporco», per dirla con papa Francesco, non è (solo) un problema etico. Lo ha recentemente ripetuto l’ambasciatore a Roma John Phillips: «A causa della lentezza della giustizia civile e della corruzione», il valore degli investimenti diretti degli Stati Uniti da noi «è meno della metà di quelli in Francia e un quarto di quelli in Germania». L’Italia è dietro Belgio, Spagna, Svezia e Norvegia. Nonostante sia la seconda economia manifatturiera europea. Una bacchettata non nuova. Nella scia della strigliata, anni fa, dell’allora ambasciatore Ronald P. Spogli, che cercò invano di spiegare l’importanza delle regole. Per non dire della denuncia del Censis sul crollo del 58% degli investimenti esteri. E dell’ultimo atto d’accusa del governatore Ignazio Visco sul «deficit di reputazione» che ci sarebbe costato in pochi anni oltre 16 miliardi. Quattro volte l’Imu sulla prima casa. La Banca Mondiale, come ha ricordato il Sole 24 Ore, lo ha detto più volte: una vera guerra alla corruzione «efficacemente aggredita porterebbe a un aumento del reddito superiore al 2,4% con effetti benefici anche sulle imprese che crescerebbero del 3% annuo in più». E Dio sa quanto ci servirebbe. Tesi ribadita dall’economista Alfredo Del Monte su lavoce.info: «La corruzione influisce sulle principali variabili che determinano il livello del debito». Esempio? «Tende a far crescere i livelli di spesa pubblica a causa del maggior costo dei servizi e beni acquistati». Sarà un caso se le spese correnti dello Stato, come spiegava ieri una tabella della Cgia di Mestre, sono cresciute negli ultimi quattro anni (a dispetto di tutti gli sforzi e i sacrifici fatti dagli italiani) di 27,4 miliardi? Ma le ascoltano, lassù, le relazioni dei procuratori regionali della Corte dei conti? «Assistiamo oggi a un incontrollato aumento della corruzione a tutti i livelli e verifichiamo un’evasione fiscale che, nonostante gli sforzi per combatterla, costituisce un dato di fatto incontestabile e dalle dimensioni allarmanti», ha detto giorni fa il presidente dei giudici contabili piemontesi Giovanni Coppola. E un po’ tutti, dal Veneto alla Calabria, hanno ripetuto la stessa identica cosa. Il tutto a conferma dei dati di Transparency: restiamo sessantanovesimi (vergogna...) nella classifica dei Paesi più virtuosi ma il miglioramento di chi ci stava dietro come la Bulgaria e la Grecia fa sì che in Europa diventiamo ultimi. Una deriva angosciante. Avvenuta soprattutto, piaccia o no a certe comari del garantismo peloso, negli anni successivi a Tangentopoli. Quando si passò dal delirio spiritato per Tonino Di Pietro alla quotidiana demolizione dell’impianto repressivo. I numeri dicono che tra il ‘96 e il 2006, secondo l’Alto Commissariato per la lotta alla Corruzione (poi sciolto nel 2008), le condanne per corruzione precipitarono da 1.159 a 186, quelle per concussione da 555 a 56, quelle per abuso d’atti d’ufficio da 1.305 a 45 e così via... Un alleggerimento sul fronte di corrotti e corruttori che ha portato ai dati che già i lettori del Corriere conoscono: abbiamo un decimo dei «colletti bianchi» mediamente detenuti nelle altre carceri europee e un trentacinquesimo di quelli imprigionati in Germania. Possiamo, in questo contesto, accettare nuovi rinvii di norme tanto attese? E non ci provino, a tirar fuori una legge-pannicello spacciandola per qualcosa di serio. La guerra contro un cancro qual è la corruzione richiede proprio quella durezza che pare imbarazzare una parte del mondo politico. Sarebbe difficile spiegare ai cittadini, ad esempio, perché l’agente sotto copertura, mandato a smascherare i delinquenti, possa essere usato per spacciatori, terroristi, trafficanti d’armi, criminali organizzati e pedofili ma non per i corrotti. Come se far sparire alcune decine di miliardi l’anno fosse un reato minore... 16 marzo 2015 | 08:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_16/tangenti-gianantonio-stella-editoriale-corriere-sera-16-marzo-2015-3cf7d706-cba0-11e4-990c-2fbc94e76fc2.shtml
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