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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 186185 volte)
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« Risposta #210 inserito:: Luglio 24, 2013, 10:59:34 am »

L'intervista

«Non ci stiamo nella parte dei ladroni: se ci fanno quella multa chiudiamo»

Dolce e Gabbana: le nostre barche con bandiera italiana e ci accusano di evadere.

La rabbia degli stilisti


GIAN ANTONIO STELLA

Valeva la pena di piantare tutto questo casino? «Tante briciole, dice il proverbio, fanno una panetteria», ribatte Domenico Dolce, «Era tutto un vocio fastidiosissimo...». «Ma scusi: come potevamo accettare di essere bollati come evasori? - irrompe Stefano Gabbana -. Noi siamo delle persone perbene. Viviamo in Italia, paghiamo le tasse in Italia, non facciamo finta di vivere all'estero...». State dicendo che la vostra è una storia tutta diversa da quella di Valentino Rossi o altri? Gabbana«Noi parliamo per noi. Ci limitiamo a chiedere: vi pare possibile che per gli stessi identici fatti, sulle stesse identiche carte, possiamo essere assolti nei processi penali e condannati in quello tributario? Noi sappiamo fare vestiti. Vogliamo fare vestiti. E invece siamo stati tirati in mezzo in una storia complicatissima di commi e codicilli».

Gli avvocati sanno di questo vostro sfogo?
G. «Sanno che noi siamo dei pazzi. Lo mettono in conto. Ma al di là dell'aspetto legale (non vogliamo neanche parlarne: siamo convinti di non avere fatto niente di scorretto) non ci rassegniamo a essere crocifissi come dei ladroni. Perché non lo siamo».
Dolce «Calunnia calunnia, qualcosa resta. Non ci va bene. Non è solo per noi. È per l'azienda. Parliamo di migliaia di persone, con l'indotto. L'altro giorno ho dovuto incoraggiare io delle sartine. Erano sconvolte. "Ma come! Noi! Noi!" Io dico: guardate la nostra vita...»

Cioè?
G. «Per esempio io ho una barca, si chiama "Regina d'Italia": non la porto mica in Francia o in Croazia! Non la intesto mica a una società! Non batte mica bandiera delle Cayman! Io sono italiano e la barca la tengo in un porto italiano. E batte bandiera italiana».
D. «Vale anche per me. Anni fa Stefano mi regalò un motoscafo Riva. Lo uso pochissimo, ma lo tengo a Portofino e batte bandiera italiana».

Le case in cui vivete? Appartengono a qualche società oppure...
D. «No, guardi. Casa mia è intestata a me, Dolce Domenico, nato a Polizzi Generosa, residente eccetera... Mica fingo di vivere in Svizzera o a Montecarlo. Le mie residenze sono sempre state quelle: Polizzi Generosa, Palermo, Milano».
Eppure in casi come il vostro...
G. «Ma che ci importa di eludere il fisco? Noi vogliamo solo starcene tranquilli a fare vestiti. Punto. D'altra parte, vuole una dimostrazione di quanto siamo ossessionati dal denaro? Fino al 2004 avevamo tutto, diciamo così, "in comunione dei beni».

E allora?
G. «Ma non stiamo insieme, come fidanzati, dal 2000! Se fossimo attaccati ai soldi lei pensa che avremmo tenuto i conti e l'azienda insieme per quattro anni dopo la nostra separazione? Eppure per quattro anni siamo rimasti così, metà a testa: 50 e 50. Con tutti che ci dicevano: chiaritevi, non potete lasciare le cose così, ci va di mezzo l'azienda».
D. «Ci siamo decisi quando cominciammo a ricevere offerte da Vuitton, Gucci, Hdp... Dovevamo darci una struttura aziendale all'altezza di quanto eravamo cresciuti».

E così avete venduto il marchio, cioè il vostro tesoro, alla «Gado».
D. «Esatto».

Ma perché in Lussemburgo?
G. «Scusi, ma noi siamo un marchio mondiale. Non è che possiamo aprire in Cina o in Brasile appoggiandoci, faccio per dire, alla Cassa Rurale di Rogoredo. Una azienda che opera a livello internazionale ha delle società internazionali. Ovvio. Mica era una operazione illegale! Era tutto trasparente».

Niente scatole cinesi?
G. «Macché scatole cinesi! Ecco qua la nostra "Annual Revue 2004-2005". Pagina 27: c'è tutto, sulla nascita della "Dolce & Gabbana Luxembourg S.a.r.l. cui fanno capo la neonata Gado S.a.r.l., titolare dei due marchi, e la Dolce & Gabbana Srl, realtà operativa che integra le realtà produttive..." Non abbiamo mica fatto le cose di notte! Tutto alla luce del sole».
D. «Tanto è vero che né la guardia di finanza né i magistrati ce l'hanno mai contestato».

Dicono però che 360 milioni per quel marchio celeberrimo nel mondo erano pochi.
G. «Ma cosa vuole che ne sapessimo, noi! Avevamo cominciato girando per la pianura padana come consulenti delle aziende di abbigliamento e battendo gli autogrill della Bauli per farci un pandorino o della Fini per mangiarci i tortellini! Ci era scoppiata in mano una cosa più grande di noi. Non eravamo neanche in grado di valutarne il valore. Infatti...».

...Chiedeste una stima a Price Waterhouse Coopers.
D. «Esattamente. Che disse: 360 milioni».

Centottanta a testa: come li avete spesi?
D. «Come vuole che li abbiamo spesi? In azienda. L'azienda è la nostra creatura. La nostra figlia. Tutto va a finire là».
G. «Cosa vuole che ne facciamo dei soldi? Che li mettiamo via per quando saremo morti?»

E qui nasce la grana: la finanza dice che la stima era bassa... Che valeva molto di più e si presume...
G. «Si presume, si presume... "Si presume che Domenico e Stefano si droghino". "Si presume che lavorino in ufficio completamente nudi". Cosa significa, scusi? E poi "chi" lo presume? Noi non ce la siamo fatta in casa: abbiamo chiesto alla Pwc. Loro quante aziende mondiali hanno monitorato per "presumere"? Non si lanciano accuse così su supposizioni».
D. «Tanto più che per l'infedele dichiarazione dei redditi nel penale siamo stati assolti perché "il fatto non sussiste". Lo stesso giudizio del gup per l'omessa dichiarazione: il fatto non sussiste».

Fatto sta che secondo i magistrati il valore del marchio era oltre il triplo: 1.190 milioni. Una stima poi ribassata a 730 milioni ...
G. «Un miliardo! Ma chi l'ha mai visto, un miliardo! È chiaro che, a distanza di anni, dopo che eravamo ulteriormente cresciuti, ci hanno sopravvalutato. Ma noi? Mica potevamo decidere facendoci leggere le carte dalla maga Cloris!».

E se vi confermano la condanna a 400 milioni di multa?
D. «Chiudiamo. Cosa vuole che facciamo? Chiudiamo. Non saremmo in grado di resistere. Impossibile».
G. «Chi immagina un ricatto morale sui dipendenti sbaglia. Se ci meritassimo la condanna, niente da dire. Ma non la meritiamo. E comunque sì, purtroppo dovremmo chiudere».

Avete messo in conto anche di andarvene?
D. «Si fanno tanti pensieri...»
G. «Ma li ha visti i titoloni sui giornali?».

Voi stessi, decidendo di chiudere i negozi per tre giorni, avete forse amplificato quella battuta polemica...
D. «Amen. Ma non potevamo tacere. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo mesi e mesi di sgocciolio...».
G. «Vedesse certi blog... "Boicottiamo Dolce & Gabbana, non compriamo più i loro prodotti!" Per carità, moltissimi sono anche da parte nostra, però...».
D. «Io, meno male, i blog non li guardo proprio. Occhio non vede, cuore non duole».
G. «Per quanto te ne freghi, sono cose che ti feriscono se sei uno che ha sempre pagato le tasse. Così, quando quell'assessore ha detto che non avrebbe concesso spazi "a degli evasori" mi è venuto di getto di twittare: fate schifo. Chi se l'immaginava che venisse fuori tutto quel casino?».

Pentito?
G. «No».
D. «Magari io non avrei scritto "fate schifo" scegliendo parole diverse. Ognuno ha il suo temperamento. Ma sulla decisione di chiudere per indignazione, pagando regolarmente i dipendenti, sia chiaro, siamo stati d'accordissimo. Non ne potevamo più».
G. «Sono andato due giorni al mare e stavo così male che mi sono ustionato anche con la protezione 50! Ci chiamavano dall'America: "Ma fate lo stesso la sfilata o è annullata perché andate in prigione?" E noi a spiegare, spiegare, spiegare... Io domando: chi ti sbatte sulle prime pagine con accuse come queste smentite dalle sentenze penali ha idea del danno che fa?».

Se avete violato la legge...
G. «Ripeto: dall'accusa di infedele dichiarazione dei redditi, per quella contestazione tributaria sul reale valore del marchio, siamo stati assolti, nel penale. E questo addirittura "dopo" che il reato era stato prescritto. Più di così!».

E adesso, col Comune di Milano?
G. «Ma mica ce l'abbiamo col Comune di Milano. Ce la siamo presa con l'assessore. Chi mai gli aveva chiesto qualcosa? Che motivo aveva per tirarci in ballo?».
D. «Il fatto è che non abbiamo mai avvertito intorno l'orgoglio delle istituzioni per quello che rappresenta Dolce & Gabbana nel mondo. Come se la moda fosse una cosa secondaria. Sentiamo l'orgoglio dei milanesi e degli italiani, sì. Ma mai abbiamo avvertito questo orgoglio delle istituzioni. Mai».
G. «Una donna mi ha fermato per strada: "Non ho mai comprato un vostro vestito e non mi piace il vostro stile ma sono con voi". Sia chiaro, non siamo Giovanna d'Arco. E non vogliamo proporci come paladini di una rivolta contro il fisco. Per carità! Ma viviamo questa storia come una ingiustizia».

Che Giuliano Pisapia abbia liquidato la battuta del suo assessore come infelice e abbia ricordato che lui è sempre stato un garantista ha chiuso la ferita?
D. «Mai stati in guerra con lui».

Quindi lo incontrerete?
D. «Al mio paese si dice: ogni fuoco cenere diventa».

24 luglio 2013 | 8:15
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da - http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/13_luglio_24/dolce-e-gabbana-intervista-2222308349585.shtml
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« Risposta #211 inserito:: Luglio 27, 2013, 06:45:26 pm »

Roma Un anno fa, per mettere fine alle polemiche, disse che non voleva soldi

«Lavoro gratis per il Maxxi»

La retromarcia di Melandri

Un anno fa, appena nominata, disse che non voleva soldi Mercoledì Cda: all'ordine del giorno il suo stipendio

 Gian Antonio Stella

ROMA - «Totalmente gratuitamente». Per chiudere le polemiche sul suo trasloco dal seggio di deputata alla poltrona di presidente del Maxxi, Giovanna Melandri buttò sul tavolo due avverbi marmorei: ci andava «totalmente gratuitamente». Mercoledì ha convocato il cda: «Ordine del giorno: compenso del presidente». Cesello finale a una precisazione: la promessa valeva un anno. E va a scadere come uno yogurt.

Sgomberiamo subito il terreno: è giusto che chi guida un grande museo lo faccia gratis? Dipende. Se fosse una presidenza puramente onorifica, concessa a un miliardario noto per il mecenatismo o a un vecchio genio della pittura perché ci mettano il nome e vadano a qualche inaugurazione con cocktail, ovviamente sì. Se si tratta di un professionista famoso e magari strappato alla concorrenza perché venga a lavorare una dozzina di ore al giorno con l'obiettivo di far di quel museo una straordinaria vetrina nel pianeta, allora no, non deve lavorare gratis. Deve essere pagato e pagato bene.

Questo tipo di professionisti, però, proprio come i grandi chirurghi e i grandi fisici nucleari e i grandi architetti, si vanno a cercare sul mercato. Possibilmente (e già qui l'Italia è zoppa) il mercato internazionale. Non si scelgono, quei professionisti, tra amici, colleghi, compagni di partito o amabili frequentatori delle terrazze romane.

Ed è su questo punto che la nomina di Giovanna Melandri, l'anno scorso, sollevò un putiferio. Perché la deputata del Pd, che sedeva in Parlamento da 5 legislature, era appunto una parlamentare in carica con un netto profilo politico. Era indecoroso averlo? Per niente. Un grande direttore potrebbe essere destrorso o sinistrorso senza essere intaccato nella sua statura. Ma se facesse il senatore, la sua nomina alla guida di una grande istituzione statale, bianco, rosso o verde che fosse, sarebbe comunque inopportuna.

E fu lì che in Parlamento la destra scatenò l'inferno. Francesco Giro accusò la collega di essersi fatta «riciclare dopo la mancata ricandidatura per la regola vigente Pd di non presentare chi abbia superato il limite dei 15 anni in Parlamento». Maurizio Gasparri parlò di «selvaggia lottizzazione». Fabrizio Cicchitto disse che la nomina era «incredibile». Stefano de Lillo sbottò: «Ora aspettiamoci Massimo D'Alema per il Teatro alla Scala».

Lei, Giovanna Melandri, parlò di «maccartismo». Ma mentre l'udc Gian Luca Galletti ribadiva che si trattava di una cosa così inopportuna che «non dovremmo neanche spiegarne le ragioni», le perplessità dilagarono a sinistra. E se la dipietrista Giulia Rodano contestava «l'errore compiuto dal ministro nell'opacità del metodo scelto», Matteo Renzi sbuffò: «Facciamoci del male! Com'è possibile dopo il Parlamento avere subito lo scivolo del Maxxi?». Nichi Vendola storse la bocca: «La sua nomina è stilisticamente complicata da digerire». E Stefano Fassina chiuse il cerchio: «Giovanna è una figura di primissima qualità, ma mi pare inopportuno transitare dalla poltrona di deputata a quella di un istituzione come il Maxxi, che non è di responsabilità politica».

Fu in questo contesto che la parlamentare pd spiegò che non solo si sarebbe dimessa da deputata «anche se la legge non prevede nessuna incompatibilità» ma sarebbe andata a svolgere quel ruolo gratuitamente, per amore dell'arte e dell'Italia. E il ministro Lorenzo Ornaghi, che l'aveva scelta, emise un comunicato: era proprio «il decreto numero 78 del 2010 ad imporre che presidente e componenti di cda delle fondazioni culturali non debbano percepire alcun compenso».

Dopo di che lei stessa sostenne di essere stata «scelta da un tecnico come tecnica» e dettò un comunicato che ironizzava sulle «illazioni»: al massimo avrebbe preso «30 euro come gettone di presenza per le sedute del cda». Insomma: «È tutto molto chiaro, la mia indennità al Maxxi è zero. Mi auguro che la nota del Mibac chiuda definitivamente il caso misterioso».
Non bastasse, il giorno dopo spiegò a Maria Latella a SkyTg24 (vedi YouTube) che secondo lei quella legge sulla gratuità era sbagliata ma pazienza: «So benissimo che la proposta di Ornaghi mi è arrivata in questo contesto e come ho detto più volte ho accettato "pro bono", cioè gratuitamente. La mia indennità è: zero».

Quindi, ricordando di sentirsi «un po' la mamma del Maxxi», insistette: «Non c'è il passaggio da una poltrona a una poltrona perché come ho detto vado a svolgere questo incarico gratuitamente». Anzi, come dicevamo, «totalmente gratuitamente». Uffa, le polemiche!

Già sei mesi dopo, però, usciva un'altra Ansa. Con una versione postuma di cui non c'è traccia negli archivi: «Giovanna Melandri manterrà la promessa di "regalare un anno di lavoro per il rilancio del Maxxi": a sottolinearlo è la stessa presidente della Fondazione Maxxi, in una nota in cui spiega che la trasformazione del Museo nazionale delle arti del XXI secolo in ente di ricerca è stata avviata dal precedente cda». Conseguenza: lo stipendio ora era possibile.

«Lo prenderò da settembre-ottobre», ha spiegato a Panorama , «nell'ottobre 2012, quando ho accettato l'incarico, sapevo che il Maxxi era una fondazione e che in base alla legge Tremonti avrei prestato la mia opera gratuitamente. Legge sbagliatissima, me lo si lasci dire, perché la cultura ha bisogno di grandi manager, e questi vanno pagati. Sapevo anche che era in corso una procedura, avviata dai precedenti amministratori e conclusa ad aprile, per il riconoscimento del Maxxi come ente di ricerca. Ho detto all'allora ministro dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi: "Comunque vada, per un anno regalo il mio tempo prezioso". Ho sbagliato: dovevo dire che non appena avrei potuto prendere uno stipendio me lo sarei preso, eccome. Scherzo, ovviamente. Ma sarà uno stipendio sobrio, pari a quello di altri dirigenti». Di qui l'ordine del giorno.

Congratulazioni. Sarebbe bello, ora, se la post-deputata e neo-manager dedicasse un po' del suo tempo prezioso alla lettera pubblica di un gruppetto di ricercatori che chiede i motivi, se il Maxxi è «un ente di ricerca», della sorpresa di fine giugno: «la Biblioteca chiusa, l'accesso agli archivi bloccato e nessuna assicurazione sui tempi e sulle modalità della riapertura. Per l'accesso alla biblioteca abbiamo pagato una tessera annuale e proprio nel periodo degli esami e di preparazione delle tesi di laurea e di dottorato il servizio pubblico è sospeso. Se un Museo pubblico, che vive con soldi dello Stato, è un ente di ricerca perché sospende proprio queste attività? Che ente di ricerca è?».

27 luglio 2013 | 12:47
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http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/13_luglio_27/20130727NAZ20_444-2222360211907.shtml
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« Risposta #212 inserito:: Agosto 06, 2013, 11:44:19 am »

Una licenza del '64 per 18 mila metri cubi. Ora fondi di Stato per la demolizione

Il business dell'ecomostro mai finito che sfregia la costa di Sorrento

L'hotel Alimuri e i costi di abbattimento.

Nel 2007 l'ex ministro Rutelli aveva annunciato l'abbattimento immediato è ancora lì


Basta, buttatelo giù l'ecomostro di Alimuri. Non ne possiamo più di vederlo, mostro tra i mostri, ancora lì. Piantato sotto la roccia a strapiombo. Ritto a lanciare ai turisti sospiranti in navigazione verso il mito di Sorrento una volgare pernacchia cementizia: io sto qua. Orrendo. Simbolo perenne dello spreco di bellezza.

Sono passati 50 anni, da quando la Soprintendenza ai monumenti di Napoli, cose da pazzi, elaborò un contorto via libera all'assalto edilizio della costiera sorrentina. A Palazzo Chigi c'era Giovanni Leone, agli interni Mariano Rumor. Antonio Cederna si sgolava a denunciare: «Le meraviglie artistiche e naturali del "Paese dell'arte" e del "giardino d'Europa" gemono sotto le zanne di questi ossessi», questi vandali che «per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d'animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato».

Urlava tra i sordi, però. Sulla base di quel dissennato parere della Soprintendenza, il Comune di Vico Equense che non vedeva l'ora di distruggere le proprie coste meravigliose, rilasciò il 9 marzo 1964 la licenza edilizia n.67. La quale consentiva a cinque compari di costruire un immenso hotel da 18mila metri cubi in località «La conca», a ridosso del confine con il territorio di Meta di Sorrento. Avete presente quanti sono 18mila metri cubi? Minimo minimo centocinquanta camere. Più tutto il resto, dai saloni ai servizi vari.

C'era però, in quella autorizzazione, qualcosa che non andava. E mentre i muratori erano al lavoro per tirar su più in fretta possibile l'orrendo manufatto («cosa fatta, capo ha»), cambiarono le leggi e cambiò la giunta comunale. E sotto la minaccia di un intervento della magistratura, il terrificante scheletro di cemento armato fu bloccato e rimase lì, a pancia all'aria, spoglio di ogni parete, coi pilastri conficcati nel vuoto verso il cielo. Chiusi i cantieri, si apriva una decennale battaglia di carte bollate, ricorsi e controricorsi.

Nel 2007 l'allora ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli ne promise l'immediato abbattimentoNel 2007 l'allora ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli ne promise l'immediato abbattimento
Battaglia centrata tutta sul tema dibattuto in altre mille inchieste di mille tribunali: un'autorizzazione già data può essere revocata o resta in vigore per l'eternità, sacra come la reliquia di Santa Rita, anche nel caso le leggi fossero sbagliate o peggio ancora fosse sospetta la concessione? L'aspetto più stupefacente della storia, però, è un altro. E cioè il fatto che quello scheletro considerato abusivo e dunque da abbattere, abbia trovato via via nuovi compratori indifferenti all'ipotesi che arrivassero le ruspe.
Man mano che diventa il simbolo della speculazione più becera e del più insultante affronto alla costa del Golfo di Sorrento, l'Alimuri anziché essere buttato giù, scrive Vincenzo Maresca sul periodico Inchiesta sociale , «viene venduto nel 1988 alla società "La conca srl" per 240 milioni di vecchie lire e successivamente ceduto nel 1993 alla società "Sa.An." per l'incredibile cifra di 2 miliardi e 700 milioni di lire, importo record per l'epoca per un rudere destinato a essere abbattuto».

Ma non è finita. Anzi. «Nel 2006 alla "Sa.An." subentra un'altra società, la "Sica srl" nel cui organigramma compare il nome di Anna Normale, una imprenditrice appartenente ad una nota famiglia napoletana». E chi è il marito di Anna Normale? Andrea Cozzolino, il braccio destro del governatore Antonio Bassolino. Quattro anni dopo, finirà sulle prime pagine dei giornali italiani: vinte le primarie del Pd per subentrare a Rosa Russo Jervolino sulla poltrona di sindaco di Napoli, sarà costretto a farsi da parte dopo durissime polemiche interne sull'anomalo afflusso alle urne di immigrati cinesi e più ancora su presunte interferenze di ambienti vicini alla camorra. Non ancora noto nel resto d'Italia, in quel 2006 in cui la società della moglie compra l'Alimuri, Cozzolino è però un uomo potentissimo a Napoli e dintorni: è infatti assessore regionale alle Attività produttive e all'Agricoltura.

E che succede, l'anno dopo l'acquisto? Succede che Francesco Rutelli, ministro dei Beni Culturali, annuncia in piena estate che entro la fine di ottobre il famigerato scheletro dell'albergone sarà abbattuto. Ambientalisti in festa, trombe e grancasse finché il Corriere del Mezzogiorno , pochi giorni dopo, titola: «Ecomostro, ombre sul patto». Nella cronaca, Fabrizio Geremicca spiega che il governo, per buttar giù lo scheletro, ha concesso alla società proprietaria e dunque anche alla moglie dell'assessore varie cose. Primo: l'abbattimento che costerà oltre un milione di euro sarà a carico soprattutto delle pubbliche casse. Secondo: come risarcimento per l'arrivo delle ruspe, sarà concesso ai proprietari di costruire un albergone altrettanto grande da un'altra parte del territorio di Vico Equense. Terzo: una volta sistemato il terreno e consolidata la parete a strapiombo, gli stessi proprietari potranno farci uno stabilimento balneare.

Apriti cielo! Mentre la moglie dell'assessore manda una lettera spiegando che il marito non c'entra e che lei è solo «un'imprenditrice che da anni lavora con passione», il presidente della commissione ambiente del Senato, il rifondarolo Tommaso Sodano, salta su contro l'accordo, «spropositatamente generoso». E raccoglie intorno alla protesta il consenso di altri 33 parlamentari. La sinistra si spacca. Di qua quelli decisi a contestare tutti i punti dell'intesa e a chiedere l'abbattimento tout court. Di là quelli convinti, come Matteo Renzi, che il gioco valga comunque la candela: «In Italia a chi dice sempre e solo "no" bisogna contrapporre la politica che realizza e cura gli interessi di tutti. No ai termovalorizzatori, no alla Tav, no addirittura all'abbattimento degli ecomostri che deturpano il nostro Paese...».

Fatto sta che da allora sono passati altri sei anni. E lo scheletro dell'hotel Alimuri è sempre lì. Con i soffitti qua e là sfondati, i tondini di ferro arrugginiti, la recinzione tirata su per impedire l'accesso ai ragazzi più spericolati (uno ha rischiato di restare paralizzato nel crollo di un solaio da dove voleva tuffarsi in mare) in condizioni disastrate. Ma non è solo una questione di sicurezza: l'impatto visivo, là dove un tempo svettava solo un faraglione, è devastante.

Prospettive? Boh... Anche a recuperare quell'accordo così esageratamente generoso, spiega Antonio Irlando, presidente dell'Osservatorio archeologico vesuviano e autore del libro fotografico «Vico Equense, che bellezza!», «andremmo incontro a un pasticcio. Per recuperare il terreno nel vallone di Seiano da dare a quei privati padroni del manufatto abusivo, il Comune dovrebbe espropriare un altro privato e poi cambiare la destinazione d'uso del lotto con una variante. Mah... Comunque l'espropriato potrebbe aprire una nuova causa giudiziaria destinata a durare altri decenni...».

Col rischio che intanto il mostro resti lì. A sfregiare la bellezza di una costa che ispirò quei versi indimenticabili: «Vide 'o mare quant'è bello / spira tanto sentimento...».

5 agosto 2013 | 7:50
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Gian Antonio Stella

da - http://www.corriere.it/cronache/13_agosto_05/ecomostro-sorrento-hotel-alimuri-costi-abbattimento-fondi-stato-danni_1689d70a-fd88-11e2-a2a4-b405456a2122.shtml
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« Risposta #213 inserito:: Agosto 24, 2013, 04:23:50 pm »

LEGGE ELETTORALE, LA CONVERSIONE DI GRILLO

Il Porcellum a Cinque Stelle

«Il Porcellum è stato partorito dalle scrofe di destra con l'aiuto dei verri di sinistra», sentenziò tre mesi fa Beppe Grillo. Maiali di qua, maiali di là. Eppure, par di capire, quella legge sciagurata potrebbe restare in vigore anche alle prossime elezioni anche grazie ai grillini.
È difficile infatti interpretare in maniera diversa, per quanto qualche pentastellato sia accorso a randellare i commenti sulla «retromarcia», le parole scritte dal leader genovese contro «il Nipote dello Zio», Enrico Letta, e quanti vorrebbero accelerare sulla riforma della legge che a parole tutti detestano: «Improvvisamente, dopo quasi otto anni di letargo sul Porcellum hanno fretta, molta fretta di cambiarlo. Sanno che con il Porcellum il rischio che il M5S vinca le elezioni e vada al governo è altissimo». Nessun confronto: «La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E basta, «alle elezioni subito, con buona pace di Napolitano». Sottinteso, con la legge che c'è.


Ma come: è lo stesso Grillo che ad aprile diceva che «il Porcellum ha trasformato i parlamentari in yes men» e che «ci si può mettere d'accordo in un attimo: i tre gruppi principali si riuniscono, abroghiamo il Porcellum e poi andiamo a votare con la legge di prima»? Lo stesso che a luglio accusava gli altri («è ormai chiaro che vogliono tenersi il Porcellum ») e dettava l'agenda a Napolitano con le parole «imponga la cancellazione del Porcellum e sciolga il Parlamento»?
Quanto la svolta possa confermare i pregiudizi di chi già diffidava dell'ex comico, entusiasmare i fedelissimi ostili all'ipotesi di una riforma bollata «super Porcellum » o seminare perplessità tra gli elettori non si sa. Grillo, che un po' tutti gli ultimi sondaggi prima della pausa estiva davano in rimonta dopo le flessioni primaverili, avrà fatto i suoi conti. Ma se è così si tratterebbe, appunto, dei «suoi conti»: cosa conviene al Movimento?


Gli stessi calcoli di bottega, piaccia o no il paragone, che spinsero nel 2005 la destra, decisa a boicottare una vittoria della sinistra data (a torto) per trionfante, a inventarsi il Porcellum . Il cui senso fu chiaro nel titolone di Libero : «Addio, caro Mortadella / Passa la riforma elettorale di Berlusconi. E per Prodi saranno guai». E ancora gli stessi calcoli che spinsero nel 2012 Pier Luigi Bersani, convinto d'avere la vittoria in tasca, a non scatenare l'iradiddio per cambiare l'odiata legge ma a «rassegnarsi» alla sua conferma fino a tirarsi addosso le ironie di uomini diversissimi come Cicchitto, Parisi, Casini o Ferrero.
Come sia andata nell'uno e nell'altro caso è noto: trionfi (drogati) alla Camera, caos al Senato. Perfino il boom nel 2008, quando per circostanze forse irripetibili riuscì a conquistare la maggioranza in 67 province (solo 17 a febbraio, contro le 40 del Pd e le 50 del M5S), bastò al Cavaliere a reggere faticosamente solo un paio di anni. Davvero Grillo pensa di poter fare meglio?
Auguri. Ma certo la sua scommessa su una vittoria grazie all'attuale legge elettorale che lui bollò come «contraria alla Costituzione» («Se la Corte costituzionale dovesse dichiararla illegittima avremmo un Parlamento di abusivi») è una scommessa già fatta da quelli che lui vorrebbe processare in piazza. Il guaio è che sul piatto non c'è solo il destino suo e dei suoi «boy scout». Ma molto di più.

24 agosto 2013 | 8:15
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Gian Antonio Stella

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_24/il-porcellum-a-cinque-stelle-gian-antonio-stella_fc568c2c-0c7b-11e3-b1d8-7abcf4b26cce.shtml
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« Risposta #214 inserito:: Ottobre 31, 2013, 05:12:12 pm »

Il caso

Quasi quattrocento milioni spesi per il porto turistico e un’inchiesta con 17 indagati per la bonifica dell’area dell’ex Arsenale mai portata a termine

Il centro congressi del G8 è nuovo e già perde pezzi

Doveva rilanciare La Maddalena, dopo 4 anni è vuoto


«Ah, quando s’alza il vento…». Il lamento cantato da Lucio Battisti si leva alla Maddalena a ogni folata di maestrale. Altri tetti scoperchiati, altri pannelli di vetro strappati all’avveniristico «Main Center», altri pezzi di coperture inghiottiti dal mare… Cadono a pezzi, solo quattro anni dopo, le costosissime strutture costruite per il G8 poi spostato all’Aquila. E i soldi dati ieri per finire la bonifica, potete scommetterci, non basteranno.Sono 11 milioni e rotti, i nuovi stanziamenti decisi dal ministero dell’Ambiente e dalla Regione Sardegna per completare il risanamento «dello specchio acqueo antistante l’ex Arsenale militare di La Maddalena». Il guaio è che per i giudici impegnati nell’inchiesta sulla «bonifica fantasma», i quali poche settimane fa hanno inviato gli avvisi di indagini concluse a 17 indagati eccellenti, dall’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso all’ex responsabile della struttura di missione per il G8 Mauro Della Giovanpaola fino all’ex viceré del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, l’area dettata da fanghi neri impregnati di idrocarburi lasciati dai vecchi insediamenti militari non è di sei ettari ma di dodici: il doppio.

Tanto che i pessimisti sono pronti a giurare che saranno insufficienti non solo i quattrini (ne servono almeno 19, di milioni, secondo i periti della magistratura) ma anche i tre anni fissati per finire il disinquinamento. E tutto si può chiedere ai maddalenini meno che abbiano fiducia negli impegni presi. Troppe volte, in questi anni, sono stati traditi. Alla Maddalena, giurava Silvio Berlusconi nel dicembre di cinque anni fa, «è stata fatta la più grande bonifica ambientale mai fatta in Italia in modo che l’isola diverrà un’attrazione turistica assolutamente all’avanguardia». E il governo assicurava, sfidando la Ue che avrebbe aperto una procedura d’infrazione su tutte le violazioni delle regole, che i lavori per il G8 sarebbero stati fatti «nel massimo rispetto ambientale». E ancora tre giorni prima del terremoto all’Aquila che avrebbe spinto il Cavaliere a mollare l’arcipelago, Bertolaso affermava: «Abbiamo bonificato una zona inquinata in un parco nazionale, abbiamo portato le barche dove c’erano i sommergibili e ora garantiamo l’occupazione a un migliaio di persone». Sì, ciao… Mai vista un’assunzione.

Costò una tombola, quel «lifting ambientale» per cui la Protezione civile ingaggiò anche Francesco Piermarini, il fratello della moglie di Bertolaso che lo definiva «un grande esperto di bonifiche». Trentuno milioni, pare. Ma con tutti gli annessi e connessi sarebbero stati 72. Senza che le acque fossero ripulite almeno il necessario per rimuovere, se non il divieto di balneazione, almeno quello di navigazione e di ancoraggio. Il colmo, scrisse sull’Espresso Fabrizio Gatti: «Un porto turistico costato complessivamente 377 milioni di euro pubblici nel quale yacht, barche e gommoni non possono attraccare». E lì c’è la seconda grana. La pretesa della Mita Resort di Emma Marcegaglia che lo Stato rispetti l’accordo fatto poche settimane prima dello spostamento del G8. Quando l’allora presidente di Confindustria vinse in gara solitaria (contestatissima da due altri imprenditori turistici) l’appalto per gestire in cambio di 40 milioni, per trent’anni, le strutture costruite o ristrutturate per il summit internazionale. Un complesso che avrebbe dovuto diventare, dopo lo spot mondiale della parata con Obama, Medvedev, Merkel, Sarkozy e tutti gli altri, il cuore della nautica esclusiva dell’intero Mediterraneo.

Dicono quelli della Mita: ma come, dovevate portare i Grandi del pianeta e (con tutto il rispetto per la tragedia aquilana) così non è stato; dovevate risanare le acque e non l’avete fatto; dovevate togliere lo stradone che passa davanti all’ex ospedale militare trasformato in un hotel di lusso per farci la passeggiata a mare e non l’avete tolto; ci avete fatto spendere 9 milioni di euro di arredamenti e non possiamo affittare una camera o un posto barca… Risultato: una richiesta danni di 149 milioni. Che si aggiungerebbero al mezzo miliardo (la cifra esatta, per ora, pare non saperla nessuno) già buttato per quella costosissima giostra mai fatta girare. «Ma come: se la Marcegaglia non ha ancora tirato fuori un centesimo dei soldi dovuti!», sbotta l’ex assessore provinciale all’ambiente Pierfranco Zanchetta, duro oppositore delle scelte sventurate fin qui commesse, «Non capisco. Già le avevano fatto lo sconto riducendo da 40 a 31 i milioni di canone e allungandole da 30 a 40 gli anni di gestione! Ha speso soldi per arredamenti o altro? Porti le ricevute ed esiga i rimborsi. Ma chiedere 149 milioni di mancato guadagno senza neppure aver tirato fuori quello che deve lei allo Stato…».

Fatto sta che, in attesa che si chiuda la rissa sulla manutenzione («Tocca allo Stato», «No, alla Regione», «No, alla Marcegaglia») le opere che solo quattro anni fa erano nuove di zecca e pronte ad accogliere il vertice planetario, sono in condizioni catastrofiche. L’area delegati che doveva diventare una struttura culturale e commerciale mostra le ferite dei pezzi di tetto strappati dal vento. Le colonne degli antichi depositi dell’arsenale costosamente restaurate sono già oscenamente arrugginite. L’albergo ricavato dall’ex ospedale con lavori abnormi per 77 milioni di euro (722 mila euro a camera) è assediato dalle erbacce che stanno mangiandosi anche il marciapiede. E ovunque degrado, degrado, degrado.

Quello che più fa salire il sangue al cervello è però l’edificio futuristico del «Main Center» che doveva ospitare le personalità più illustri del mondo e che si protende sull’acqua del bacino. Le spettacolari vetrate sui fianchi erano coperte da una specie di alveare, un grande merletto di vetro e acciaio voluto per dare insieme un po’ d’ombra e insieme trasparenza, stanno giorno dopo giorno sgretolandosi. «Uno schifo», si sfoga l’architetto Stefano Boeri, autore del progetto, «Lo vedo e sto male. Sono pazzi a lasciarlo finire così». Non era stata una pazzia piuttosto mettere quella grata leggera esposta alla furia del maestrale? «Per niente! Non c’è posto dove il maestrale tiri quanto a Marsiglia eppure lì il Mucem, cioè il museo della civilizzazione dell’Europa e del Mediterraneo, coperto con la stessa tecnica, è stupendo e intatto. Alla Maddalena è mancata la minima manutenzione annuale. L’azienda che l’ha costruita, quella copertura, si è offerta di farla, la manutenzione. Non le hanno neanche risposto. Tanto che hanno fatto causa per la figuraccia cui sono, senza colpa, esposti».

Tema: ammesso che ci mettano «solo» altri tre anni per la bonifica vera (totale otto: più di quelli bastati a fare il tunnel sotto la Manica) cosa sarà di tutto quel complesso che fu bellissimo e bellissimo potrebbe tornare a essere ma è abbandonato al vento, alla polvere, agli sterpi? Beffa tra le beffe, la Regione è costretta pure a pagarci sopra quattrocento mila euro l’anno di Imu…

30 ottobre 2013
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Gian Antonio Stella

Da - http://www.corriere.it/cronache/13_ottobre_30/centro-congressi-g8-nuovo-gia-perde-pezzi-90661318-4135-11e3-b893-6da25b6fc0fa.shtml
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« Risposta #215 inserito:: Novembre 09, 2013, 11:14:05 am »

La denuncia del Papa, la corruzione che ci frena

I devoti alla dea tangente rubano ogni anno sessanta miliardi al Paese

Le bustarelle fanno impennare del 40% il costo delle grandi opere



«Meno male che papa Francesco c’è», scrive Pino1947 guadagnandosi il primo posto tra i commenti più votati di Corriere.it. Meno male sì, perché la lotta ai «devoti della dea tangente», come li chiama il Papa, non pare in cima ai pensieri del mondo politico. Nonostante i corrotti rubino al Paese, dice la Corte dei Conti, almeno 60 miliardi l’anno. Dodici volte l’Imu sulla prima casa.

Non è la prima volta che Jorge Mario Bergoglio va giù duro sulle bustarelle. Quand’era a Buenos Aires si scagliò contro il fenomeno con parole di fuoco, raccolte poi in un libro pubblicato dalla Emi (Editrice missionaria italiana) sotto il titolo «Guarire dalla corruzione». La sintesi è questa: «Il peccato si perdona, la corruzione non può essere perdonata». Di più: «La corruzione puzza. Odora di putrefazione». Lo dicessero altri, immaginiamo la replica: «Uffa, il solito moralismo!» La stessa insofferenza che da anni colpisce chi, come don Luigi Ciotti, combatte con Libera una guerra frontale al sistema delle tangenti nella convinzione che «la corruzione è più grave del semplice peccato perché è un peccato sociale. Un male che si esercita non solo contro l’altro ma attraverso gli altri. Il corruttore ha sempre bisogno di un corrotto».

Non è solo una questione etica. Come spiegava tempo fa il Procuratore generale della Corte dei Conti, Furio Pasqualucci, «in tempi di crisi come quelli attuali» il peso delle tangenti è tale «da far più che ragionevolmente temere che il suo impatto sociale possa incidere sullo sviluppo economico del Paese» perfino oltre le stime «del servizio Anticorruzione e Trasparenza del ministero della Funzione pubblica, nella misura prossima a 50/60 miliardi di euro all’anno costituenti una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini».

Una tesi ribadita dal successore Salvatore Nottola, secondo il quale le bustarelle fanno impennare del 40% il costo delle grandi opere. Un’affermazione raccolta dalla Cgia di Mestre che, partendo dai 233,9 miliardi di euro del programma delle infrastrutture strategiche 2013-2015, redatto dal governo Monti, ha calcolato che su questi lavori le tangenti peserebbero per 93 miliardi di euro in più. L’equivalente di quasi 6 punti di Pil. Gravando su ogni cittadino italiano per 1.543 euro».
Allora ti chiedi: come è possibile che i cittadini, così sensibili (giustamente) ai rincari di 50 o 100 euro sulle bollette della luce o del gas possono rassegnarsi a un prelievo medio di cinquemila euro l’anno a famiglia? Com’è possibile che non si rivoltino se lo studio «Eurobarometer 2011», presentato nell’autunno 2012, ha accertato che nell’arco dell’anno precedente 12 italiani su 100, quasi uno su otto, si erano sentiti rivolgere «almeno una richiesta, più o meno velata, di tangenti»?

I numeri di «Transparency», l’organismo internazionale che misura la percezione della corruzione nei vari Paesi, del resto, dicono tutto. Nel 1995, mentre entravano nel vivo i processi di Tangentopoli quando l’Italia intera era impazzita per il pool di Mani Pulite e il settimanale Cuore rideva della catena di arresti giocando a tutta pagina sulla pubblicità Alpitour («No San Vitùr? Ahi ahi ahi...»), eravamo al 33º posto nella classifica dei Paesi virtuosi. Dieci anni dopo, come se l’onda moralizzatrice non fosse mai avvenuta, al 40º. Nel 2008 al 55º. Nel 2009 al 63º. E via via abbiamo continuato a scendere fino all’umiliante 72ª posizione del 2012. Quando ci siamo ritrovati un posto sotto la Bosnia Erzegovina e addirittura otto sotto il Ghana.

Uno scivolone mortificante. Sulla scia dei numeri sconcertanti forniti nel 2008 dall’Alto commissariato per la lotta alla corruzione. Dove le tabelle, su dati ufficiali del ministero della Giustizia, dimostravano dal 1996 al 2006 una catastrofica sconfitta: da 608 a 210 condanne per peculato. Da 1159 a 186 per corruzione. Da 555 a 53 per concussione. Da 1305 a 45 per abuso d’ufficio. Un tracollo. Ancora più grave in alcune situazioni locali. Da 421 a 38 condanne per corruzione in Lombardia, da 123 a 3 in Sicilia...

Non bastasse, uno studio di Pier Camillo Davigo e Grazia Mannozzi dimostra che anche i pochissimi che sono stati condannati per corruzione se la sono cavata con un buffetto: il 98% con meno di due anni di carcere. Ovviamente condonati. Una percentuale che grida vendetta e dimostra l’abisso che ci separa ad esempio dall’America. Il deputato californiano Randy «Duke» Cunningham, ha avuto per corruzione (anche se era un eroe dell’aviazione al centro del film «Top Gun») otto anni di galera. Il governatore dell’Illinois George Ryan, candidato al Nobel della pace per la sua avversione alla pena di morte, sei e mezzo. Il suo successore Rod Blagojevich, che cercò di vendersi il seggio di senatore lasciato libero a Chicago da Barack Obama, addirittura quattordici. Uscirà, se avrà tenuto una buona condotta, nel 2024.

È un peso enorme, quello delle mazzette. Perfino al di là dell’aspetto morale. Lo testimonia un dossier di Confindustria del 2012 che spiega come gli investimenti esteri in Italia siano precipitati dal 2% del totale spalmato su tutto il pianeta nel periodo 2000-2004 a un misero 1,2% negli anni 2007-2011. Quasi un dimezzamento. Una sconfitta storica. Ancora più grave nel Mezzogiorno. Spiega infatti quel dossier che di tutti i soldi stranieri arrivati nel nostro Paese quelli investiti in Campania sono stati l’1%, in Puglia lo 0,8%, in Sardegna lo 0,6%, in Sicilia lo 0,4%, in Calabria lo 0,2 e in Basilicata lo 0,1...
Risultato finale: tutto il Sud messo insieme, compreso l’Abruzzo (2,2%) e il Molise (zero!) non ha raccolto che il 5,3%. Sarà una coincidenza se, nel grafico dell’Istituto di ricerca «Quality of Government Institute» del 2010 le nostre regioni sono considerate, tra 172 regioni europee, tra le più corrotte?

09 novembre 2013
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Gian Antonio Stella

Da - http://www.corriere.it/cronache/13_novembre_09/i-devoti-dea-tangente-rubano-ogni-anno-sessanta-miliardi-paese-abcdf574-4907-11e3-9b5e-4a807d4a40fa.shtml
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« Risposta #216 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:55:59 am »

L’intervento del ministro dei beni culturali Bray
La Reggia dei Borbone appartiene agli Italiani

La villa di Carditello ora è proprietà dello Stato
Accordo firmato, parte la sfida del recupero dopo i saccheggi dei clan e le aste a vuoto.
Il ruolo delle associazioni antiracket



È nostra, finalmente. Dopo mille tormenti societari e mille razzie vandaliche e mille incubi sul destino d’ineluttabile degrado, la Reggia di Carditello, la stupenda Versailles agreste dei Borbone, appartiene da ieri a tutti gli italiani. Era ora. Anche se adesso viene il difficile: vincere la camorra sul suo terreno.
Erano anni che la magnifica residenza settecentesca progettata come reggia di caccia per Carlo di Borbone da Francesco Collecini, braccio destro di Luigi Vanvitelli, e trasformata poi da Ferdinando IV in una villa delle delizie al centro di una tenuta modello di 2.070 ettari bagnati dalle acque dei Regi Lagni, pareva avviata a diventare un rudere.

Come fosse nell’epoca d’oro, possiamo immaginarlo: campi e vigne e frutteti a perdita d’occhio. Quando ci passò Wolfgang Goethe restò incantato spiegando che bisognava andare di lì «per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra. (...) La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l’aiuola di un giardino».

Finita dopo l’Unità d’Italia nel bottino del re Vittorio Emanuele II, che già aveva le sue tenute dove sfogare la passione venatoria a Venaria e a San Rossore, la reggia agreste fu affidata perché se ne occupasse all’allora capo della camorra locale. Il primo di tanti errori e tante scelleratezze. Che importava, ai Savoia, di quella meravigliosa proprietà terriera?

Oltre mezzo secolo di disinteresse dopo, come ha scritto Gerardo Mazziotti sul Corriere del Mezzogiorno , «gli immobili e l’arredamento passarono dal demanio all’Opera Nazionale Combattenti e i 2.070 ettari della tenuta furono lottizzati e venduti. Rimasero esclusi il fabbricato centrale e i 15 ettari circostanti». Era il 1920. Quasi un secolo fa.

Un esterno della Reggia, con le colonnine distrutteUn esterno della Reggia, con le colonnine distrutte Passata la II Guerra mondiale, durante la quale era stata occupata dai nazisti che andandosene si erano portati via quanto potevano, compresi un po’ di camini, la Reggia di Carditello finì per entrare nel patrimonio immobiliare del Consorzio generale di bonifica del bacino inferiore del Volturno. Un carrozzone destinato a esser assorbito dalla Regione e via via a sprofondare sotto una montagna di debiti mai pagati. Debiti in gran parte nei confronti del Banco di Napoli. Col risultato che, quando questo naufragò, tutto finì ipotecato dalla Sga, la «bad bank» che ammucchiò, dopo il crac, i crediti in sofferenza dell’Istituto fallito.


Certo, se la Regione Campania avesse restituito il dovuto, la faccenda sarebbe stata chiusa prima. Ma dove trovarli, i soldi? E così, la splendida dimora tra Napoli e Caserta che aveva vissuto una sua ultima stagione decorosa quando era stata scelta come sede di prestigio dai responsabili dell’Alta Velocità allora in costruzione tra Roma e Napoli ed era stata perciò sottoposta a un parziale restauro della parte più nobile, era stata abbandonata a se stessa in attesa di trovare un compratore.

Macché, a vuoto la prima asta, a vuoto la seconda, a vuoto la terza... E man mano che la Reggia veniva abbandonata a se stessa e il suo prezzo calava e calava, i camorristi della zona l’hanno cannibalizzata portandosi via tutto: i marmi delle scalinate, gli stucchi, i cancelli, le panche, i camini, i pavimenti dell’altana, l’impianto elettrico, tutto... Era stato installato, dopo il parziale restauro, un sistema d’allarme: rubato anche quello. Per finire insieme con le colonnine delle balaustre, chissà, nella villa di qualche boss.

Metteva il magone, vedere il progressivo e devastante degrado di quel tesoro d’arte e bellezza che ogni paese del mondo, al posto nostro, avrebbe trasformato in una fonte di ricchezza turistica riportandolo magari alla vocazione originaria e cioè quella di un centro di eccellenza dell’agricoltura. Metteva il magone annotare come all’umiliazione dei saccheggi barbarici si fosse sommato l’accumulo di spropositate quantità di immondizia, «normale» e tossica, buttate nelle discariche, «regolari» e clandestine, tutto intorno. Un assedio di puzza e veleni.

Il calvario, ieri, ha avuto una svolta. Preso atto che la vendita all’asta non c’era modo che andasse a buon fine (e meno male, a questo punto) la Sga ha incamerato la Reggia a pagamento del debito. E, ieri mattina, ha firmato un contratto preliminare per cedere la dimora settecentesca al ministero dei Beni culturali e del Turismo che aveva a suo tempo sborsato i soldi per il restauro vanificato dal successivo vandalismo.

L’aveva giurato, Massimo Bray. L’ha fatto. E oggi ha diritto ad assaporare, insieme con i protagonisti di Intesa-San Paolo (subentrati al Banco di Napoli) il miele degli elogi, così raro di questi tempi per chi governa. Evviva. Finalmente sul fronte del nostro patrimonio artistico e culturale è stato battuto un colpo. Bravi.

Restano un problema e una nota d’amarezza. Il problema è che ora la reggia di Carditello dev’essere restituita al suo originario splendore. E non è solo una questione di soldi. Il rischio è che ogni carriola di ghiaia, ogni sacco di cemento, ogni mattone del restauro possano pagare il pedaggio ai Casalesi. E lì lo Stato, a ridosso della Terra dei fuochi, si gioca tutto. Occorrono, con il concorso obbligato degli enti locali e delle associazioni anti-camorra che verranno coinvolti, tre risanamenti paralleli: quello ambientale del territorio avvelenato, quello estetico della Real Delizia dove sono stati strappati perfino brandelli degli affreschi e quello morale di un territorio infiltrato dalla criminalità.

L’amarezza è per la scomparsa di Tommaso Cestrone, il volontario della protezione civile che aveva dedicato la vita, negli ultimi anni, a proteggere ciò che restava della Reggia. Nonostante le minacce. Gli incendi. Le intimidazioni. L’uccisione delle sue pecore. Sarebbe felice, oggi. La notte del 25 dicembre postò su Facebook un messaggio a Bray: «Auguri dalla Reggia di Carditello. Il mio Natale è qua». «Carditello è chiusa da troppo tempo», gli rispose il ministro, «Cercherò una soluzione perché torni alla sua bellezza e sia aperta a tutti». Poco dopo, quella notte, Tommaso se ne andò.

09 gennaio 2014
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Gian Antonio Stella

Da - http://www.corriere.it/cultura/14_gennaio_09/reggia-borbone-appartiene-italiani-villa-carditello-ora-proprieta-stato-24d7c364-7932-11e3-a2d4-bf73e88c1718.shtml
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« Risposta #217 inserito:: Febbraio 17, 2014, 07:20:12 pm »

LE DIFFICOLTÀ DOPO LE ATTESE MESSIANICHE

Cercansi ministri (all’altezza però)

«Abbiamo un problema solo: l’enorme abbondanza nel centrosinistra di persone d’altissima qualità», ammiccò Massimo D’Alema alla vigilia del voto del 1996. Non era così. E si sarebbe visto in fretta. Così come si vede oggi. Mica facile, allestire un governo all’altezza di guidare un Paese come l’Italia. Tanto più in tempi complicati come questi. E dopo anni e anni trascorsi, accusa Antonio Merlo della Penn University di Filadelfia, a costruire una Mediocracy. Cioè «un sistema che ha selezionato e promosso scientificamente una classe dirigente di basso profilo funzionale non al Paese ma al partito. Al leader. Al segretario».

Sta sbattendoci il naso, a quanto pare, lo stesso Matteo Renzi. Il quale, dopo avere fatto irruzione col piglio del condottiero predestinato a rapidi trionfi, starebbe già assaggiando la molliccia resistenza, una specie di impenetrabile gommapiuma, dei primi passaggi. Alla larga dai paragoni impropri, ma sembra di rivedere la baldanza del Cavaliere del ‘94 prima che si impantanasse: «Davvero pensa di chiudere sui ministri in pochi giorni?». «Santo cielo, ma quanto ci dovrei mettere? Per fare la lista che ho in mente mi basterà mezz’ora». Ci mise settimane.

Quale veridicità possano avere gli oroscopi circolanti sui nomi dei vari ministri non abbiamo idea. Meno delle previsioni del polpo Paul ai Mondiali in Sudafrica, probabilmente. Par di capire, però, che Renzi si sia già sentito dire vari «no» da uomini e donne di spessore sui quali sperava di basare l’«effetto annuncio» per lui essenziale dopo la brusca sterzata con cui si è impossessato del governo esponendosi a critiche e sberleffi, come il contrappasso dell’hashtag inventato per Letta: #matteostaisereno .

Chi mettere all’Economia per dare un fortissimo segnale di novità senza innervosire la Ue? Chi piazzare alla Giustizia, dov’è indispensabile una riforma radicale ma che non spacchi il Paese? Chi allo Sviluppo economico? Chi al Lavoro? È la sua condanna: ha un disperato bisogno di figure d’eccellenza. Possibilmente «nuove». Pronte a gesti di rottura. Ma abbastanza esperte da non diventare subito schiave degli espertissimi capi di gabinetto. Ma dove scovarli?

Il guaio è che lui stesso, che ha costruito buona parte della sua svelta scalata al Palazzo proponendosi come un’alternativa al vecchio sistema, si ritrova ora a fare i conti con la diffidenza di chi, venendo da altri pianeti professionali, è restio a farsi coinvolgere in un mondo che ha già inghiottito, masticato e sputato un bel po’ di «tecnici» entrati in questo o quel governo con curriculum sfavillanti e usciti come scarti: «Pareva tanto bravo...». Per non dire del traumatico ridimensionamento di qualche sindaco proiettato ai vertici e ben presto demolito.
Dura la vita, per chi è insieme artefice e vittima di attese messianiche.

Eppure tutto il Paese, anche chi non lo voterebbe mai e magari non apprezza i suoi modi spicci, deve augurarsi che Renzi ce la faccia. Che trovi le persone giuste e le metta al posto giusto. Non possiamo permetterci di galleggiare all’infinito finendo per essere governati, tra i tormenti della politica, da potentissimi burocrati che troppo spesso hanno dato mostra di avere un obiettivo che non coincide con quello dell’Italia: il rinvio di ogni vera riforma.

17 febbraio 2014
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Gian Antonio Stella

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_17/cercansi-ministri-all-altezza-pero-71c12684-979b-11e3-910c-771d54eec810.shtml
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« Risposta #218 inserito:: Febbraio 24, 2014, 06:50:52 pm »

SERVONO UN ESECUTIVO E UNA MAGGIORANZA
L’autostima non basta più

«Anche a Dio piace sentir suonare le campane», ammiccò un secolo e mezzo fa il poeta e diplomatico Alphonse Marie Louis de Lamartine. Sono galeotti, però, i troppi elogi: prima o poi arriva sempre il momento in cui ti vengono ribaltati contro. E se Mario Monti ancora è ferito dalle ironie feroci sul tormentone della sua sobrietà (c’è chi si avventurò a scrivere che alla domanda sul nome del suo cane aveva risposto «no comment»), Matteo Renzi può scommettere che gli verranno rinfacciate scampanate varie, su tutte quella di essere «un magnifico incrocio tra Pico della Mirandola e Niccolò Machiavelli». Bum!

Il neo-capo del governo dovrebbe perciò render grazie agli sketch di Maurizio Crozza o a Max Paiella che a «Il ruggito del coniglio» si è inventato una canzonetta che ride della sua «fissa» del calendario: «Sì, sì, che bel calendario / nessuno ha mai avuto un programma più vario / ogni mese, ogni mese, quante sorprese!».

Il rischio più grosso che corre l’ex sindaco fiorentino, infatti, è quello di ripetere lo stesso errore di tanti suoi predecessori. Quello di pensare, partendo da un buon gruzzolo di consensi personali (sia pure non convalidati da un passaggio elettorale) e da una dose esuberante di autostima (che in politica fino a un certo punto può essere perfino una virtù: nessuno ti segue se non credi tu per primo in te stesso), di poter supplire anche a eventuali debolezze di questo o quel giocatore della squadra. Nella convinzione di saper tappare ora questo, ora quel buco. Non è stato così, in passato. Neppure quando erano in sella uomini che, allora, parevano dotati di non minore carisma. Da Fanfani a Craxi, da D’Alema a Berlusconi.

Ricordate il Cavaliere? Via via che perdeva per strada un ministro e ne prendeva il posto ad interim, spiegava d’esser l’uomo ideale agli Esteri («resterò finché non troverò una persona capace di sostituirmi») e l’ideale all’Economia e l’ideale allo Sviluppo economico... E nella foga del «ghe pensi mi» spiegò che Pietro Lunardi gli aveva chiesto una mano al ministero delle Infrastrutture al quale avrebbe dedicato «un giorno alla settimana» ... Risultati? Mah... Meglio un’orchestra dove il direttore fa il direttore, il pianista il pianista e l’oboista l’oboista. La speranza, quindi, è che a dispetto del modo in cui è nato il nuovo esecutivo e delle diffidenze per questa o quella figura che appaiono davvero fragili a fronte dell’impegno titanico, Renzi li abbia davvero indovinati tutti, i suoi principali compagni di viaggio.

Al premier che si presenta oggi al Senato viene chiesto infatti molto più che ai predecessori. Viene chiesto, come lui stesso ha promesso mille volte prima, di «cambiare l’Italia». Un impegno che farebbe tremare le vene e i polsi pure a un governo di statisti e fuoriclasse. Immaginiamo l’obiezione: l’assalto al cielo potrebbe riuscire proprio a un manipolo di giovani più freschi. Può darsi. Non per altro, su molti punti, fa il tifo anche chi renziano non è. Purché il presidente del Consiglio si liberi della «fissa» del record (il primo in questo, in quello, in quell’altro...) e della tentazione di piacere a tutti. Non ci serve un recordman. Ci servono un governo (non un uomo: un governo) e una maggioranza che facciano finalmente, in tempi ragionevoli ma stretti, le cose che vanno fatte. Lasciandoci alle spalle la stagione degli annunci.

24 febbraio 2014
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Gian Antonio Stella

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_24/autostima-non-basta-piu-c018d582-9d1a-11e3-bc9d-c89ba57f02d5.shtml
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« Risposta #219 inserito:: Marzo 15, 2014, 07:39:56 am »

Parallelismi

Silvio, Matteo e l’Arte dei perfetti Venditori
I punti di contatto tra i due leader che hanno un’ottima opinione di se stessi

di Gian Antonio Stella

«Meno rughe per tutti!», strillava uno dei manifesti finti che ridevano delle promesse del Cavaliere. E poi «Più dentiere per tutti», «Meno tosse per tutti», «Più Totti per tutti»... Un diluvio. Figuratevi quindi cosa sarebbe successo se fosse andato lui, in tv, a promettere come ha fatto Renzi, «Una casa per tutti». Apriti cielo! Quello slogan, per gli amici ma più ancora i nemici, è la prova: Matteo si muove nel solco di Silvio. Sull’età, a dire il vero, tra il giovane Silvio degli esordi e il giovane Matteo di oggi non c’è gara. Ricordate cosa scrisse anni fa, allegramente perfido, Mattia Feltri sul «Foglio» di Giuliano Ferrara? «Che bello il Cav. con il lifting. Non gli si darebbe più di quarant’anni. Con le attenuanti generiche, anche trentacinque». Ecco, Renzi non ha bisogno, come rise Le Monde, «di mantenere un aspetto giovanile, a volte con uno zelo quasi comico». A Palazzo Chigi lui c’è arrivato prima di spegnere 40 candeline e con una ventina di anni di anticipo rispetto al Cavaliere che al momento della discesa in campo andava per la sessantina. È vero però che i punti di contatto fra i due, esaltati dalle stralunate imitazioni di Maurizio Crozza, sono diversi.

Per cominciare, hanno un’ottima opinione di se stessi. Silvio, chiamato a descriversi, rispose: «Il mio ruolo? Attaccante, centrocampista, difensore e anche regista in panchina. Sono fruibile per qualsiasi ruolo... Sapete, sono un po’ montato». Matteo, quando strappò a Lapo Pistelli la candidatura a sindaco di Firenze, il trampolino di lancio della sua ascesa, mandò un amico (o almeno così dicono i suoi avversari) ad appiccicare fuori dalla porta del comitato elettorale dello sconfitto un cartello irridente: «Chiuso per manifesta superiorità».

Certo, entrambi sorridono del vizietto sdrammatizzando con l’autoironia. A tutti e due, in tempi diversi, l’Italia chiede miracoli? Il primo ne rise così: «All’Ospedale San Raffale una madre mi pregò di convincere il figlio bloccato provvisoriamente su una sedia a rotelle a riprendere a camminare. Mi presentai dal ragazzo e gli dissi: “Giacomo, fatti forza. Alzati e cammina...” Lui, dopo alcuni giorni, si alzò». Il secondo, ogni tanto ammicca: «Un amico mi ha detto: Dio esiste ma non sei tu». Stessa tecnica: meglio prendersi in giro, sul tema della vanità, prima che lo facciano gli altri...

C’è da capirli: mica facile tenere la testa sul collo tra i cori di certi laudatores dediti al turibolo e all’incenso. Tra gli adoranti del Cavaliere c’è chi si spinse, come Claudio Scajola, a dire: «Berlusconi è il sole al cui calore tutti si vogliono scaldare. Ha capacità di attrazione molto forti. È geniale. Di persone come lui ne nascono due in un secolo». «Chi è il secondo?», gli chiese mariuolo Claudio Sabelli Fioretti. E lui: «John Kennedy». Per Renzi, Carlo Rossella si è avventurato più in là: «Un magnifico incrocio tra Pico della Mirandola e Niccolò Machiavelli».

Non lavorano forse entrambi per la storia? «Conto di rivedere tutti i codici giuridici e, in primo luogo, quello delle imposte. Nel mio piccolo sarò Giustiniano o Napoleone», dichiarava il Cavaliere. «Io non voglio cambiare governo, voglio cambiare l’Italia», ha giurato il sindaco di Firenze.

Va da sé che, con tanti violini, trombe e grancasse intorno, capita perfino a loro due, nonostante le proverbiali sobrietà, modestia e riservatezza, di avere qualche brividino di importanzite. Come la volta che Matteo lanciò nell’aere un tweet in cui parlava di sé in terza persona come faceva Diego Armando Maradona: «Dicono Renzi non è di sinistra perché legati all’idea che è di sinistra solo quello che perde». Niente in confronto, tuttavia, con l’ego a soufflé dell’allora giovine (politicamente) Berlusconi: «Non voglio parlare di me in terza persona ma molto spesso mi viene comodo. Questo però non significa nessuna aumentata considerazione di me stesso. Anche perché più alta di così non potrebbe essere».

Niente, però, li accomuna, quanto la fissa del record. Ricordate Sua Emittenza? Primo in tutto. Nel calcio: «Sono il presidente più vincente di tutti e la storia del football si ricorderà di me». Nell’imprenditoria: «Io ho una caratura non paragonabile a nessun europeo. Solo Bill Gates, in America, mi fa ombra...». In politica: «Sono il recordman come presidente del Consiglio, visto che ho superato il grande politico Alcide De Gasperi che ha governato 2.497 giorni mentre io credo di aver toccato i 2.500 giorni». Matteo Renzi non è da meno: il presidente di provincia più giovane d’Italia, il sindaco di Firenze più giovane di sempre, il premier più giovane di tutti i tempi, l’inventore del governo con più donne che mai si sia visto...

E via con le riforme a raffica: o la va o la spacca. «Nel caso che al termine di questi cinque anni di governo almeno quattro su cinque di questi traguardi non fossero stati raggiunti», diceva il contratto firmato dal Cavaliere sotto gli occhi benedicenti di Bruno Vespa, cerimonioso ospite oggi di Renzi, «Silvio Berlusconi si impegna formalmente a non ripresentare la propria candidatura alle successive elezioni politiche». Parole non dissimili da quelle pronunciate dal neopremier: «Se non riusciremo ad arrivare al superamento del bicameralismo perfetto, non dico che terminerà questa esperienza di governo: dico che io lascerò la politica».

Spiegò una volta Silvio Magnago che «il segreto di una politica di successo consiste in tre cose. Primo: avere buone idee. Secondo: crederci fermamente. Terzo: metterci un pizzico di demagogia perché anche la merce buona bisogna poi saperla vendere». E su questo lo stesso Renzi, che pure ha mostrato di soffrire un po’ i paragoni, deve convenire: nel saper «vendere la merce» (buona o cattiva che sia) è difficile non vedere un parallelo. L’uno e l’altro, che siano intervistati da un giornale, ospiti in tv o chiamati a intervenire in Aula, non parlano ai giornalisti o ai colleghi: parlano direttamente ai loro elettori. Al popolo. Antonio Ricci, che conosce bene entrambi, l’ha detto: «Matteo è un venditore straordinario, al livello di Silvio giovane».

I parallelismi gli danno fastidio? Si consoli: il titolone «Renzi si sgonfia subito» fu preceduto nel 1994 dal giudizio di Roberto Maroni dopo l’esordio del Cavaliere: «Ho capito di che pasta è fatto. Fin che si parla si parla, ma poi... Magari arriverà pure alla presidenza del Consiglio ma poi quanto ci resta? Alla prima rogna si sgonfia e torna ad Arcore con la coda fra le gambe». È rimasto vent’anni.

14 marzo 2014 | 07:23
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_14/silvio-matteo-l-arte-perfetti-venditori-e0ceeb3a-ab3f-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml
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« Risposta #220 inserito:: Aprile 07, 2014, 05:34:11 pm »

L’Aquila, 5 anni dopo: macerie e sfollati la ricostruzione è ancora lontana

Di GIAN ANTONIO STELLA

C’è un tanfo da svenire, nelle case «belle e salubri» per i terremotati dell’Aquila. L’impiegato comunale spalanca la porta e vien fuori una folata fetida come il fiato rancido di una bestia immonda. Siamo a Cansatessa, a due passi da Coppito. Dove l’Italia, cinque anni fa, pianse ai funerali dei morti del terremoto e dove accolse i Grandi del G8 chiamati a testimoniare la «miracolosa rinascita che tutto il mondo ammira». È vuoto e spettrale, il «villaggio modello» di Cansatessa-San Vittorino. Avevano cominciato a consegnarlo agli aquilani rimasti senza tetto nel gennaio 2010. C’erano Guido Bertolaso, Franco Gabrielli, il sindaco Massimo Cialente, la presidente della Provincia Stefania Pezzopane e gli alti papaveri della «Task Force Infrastrutture» delle Forze Armate che si era fatta carico del progetto. Brindisi e urrà.

Certo, carucce: 1.300 euro al metro quadro per case di legno, ferro e cartongesso. Quattrocento euro in più di quanto, tolto questo e tolto quello, viene dato oggi a chi ristruttura le vecchie e bellissime case di pietra. Ma che figurone! Pochi mesi per costruirle ed eccole là, pronte: con la bottiglia di spumante in frigo.

Pochi mesi e già puzzavano di muffa. Pessimo il legno. Pessime le giunture. Pessimi i vespai contro l’umidità. Asma. Bronchiti. Artriti. Finché è intervenuta la magistratura arrestando il principale protagonista del «miracolo», mettendo tutto sotto sequestro e ordinando l’evacuazione totale. Centotré famiglie vivevano lì, a Cansatessa. Quando le spostarono avevano il magone: «Siamo sfollati due volte». In via Fulvio Bernardini, via Nereo Rocco, via Vittorio Pozzo, tutti allenatori di calcio, non è rimasto nessuno. «Giardini» spelacchiati. Lampioni storti. Pavimenti semidistrutti. Piastrelle divelte. Case cannibalizzate. Docce rubate. Lavandini rubati. Bidè rubati. Mobili e materassi lasciati lì: facevano schifo anche agli sciacalli.

L’abbiamo scritto e lo riscriviamo: sarebbe ingiusto liquidare l’enorme sforzo di migliaia di uomini e donne, nei mesi febbrili seguiti alla tremenda botta del 6 aprile 2009, soltanto come un’occasione di affari. E sarebbe ingiusto ricordare di Silvio Berlusconi solo le sdrammatizzazioni nelle tendopoli («Bisogna prenderla come un camping da fine settimana»), le battute alle dottoresse («Mi piacerebbe farmi rianimare da lei!») o la promessa di case con le «lenzuola cifrate e una torta gelato con lo spumante in frigo». Furono migliaia e migliaia gli aquilani che all’arrivo del gelido inverno ai piedi della Maiella, nell’autunno del 2009, ringraziarono Iddio e il Cavaliere per quel tetto sopra la testa.

Non si può liquidare tutto come un business scellerato. Come se si fossero occupati dell’emergenza, degli sfollati e della ricostruzione solo faccendieri come Francesco De Vito Piscicelli, quello che la mattina del 6 aprile gongolava: «Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto...». Non è stato solo quello, l’intervento dello Stato a L’Aquila. E forse è davvero troppo spiccio il dossier di Søren Søndergaard, il deputato europeo della Sinistra membro della Cont, la commissione di controllo del bilancio di Bruxelles, che ha rovesciato sugli interventi d’emergenza e la ricostruzione accuse pesantissime parlando, a proposito delle case provvisorie, di «materiale scadente... impianti elettrici difettosi... intonaco infiammabile...» e di pesanti infiltrazioni delle mafie al punto che parte dei fondi per i progetti Case e Map (Moduli abitativi provvisori) sarebbero finiti a società «con legami diretti o indiretti con la criminalità organizzata».
Ma certo, in questi anni, è venuto a galla di tutto. Prima i conti pazzeschi di certe spese del G8: 4.408.993 euro per gli «arredi» delle foresterie dei Grandi alla caserma Coppito, 24.420 euro per gli accappatoi, 433 euro per ciascuna delle «60 penne in edizione unica» per un totale di 26.000, 500 euro per ognuna delle 45 ciotoline portacenere di Bulgari, 92.000 per la consulenza artistica di Mario Catalano, chiamato a dare un tocco di classe al G8 dopo essere stato lo scenografo (tette, culi e battute grasse) di «Colpo grosso». Poi le accuse di Libera e di Don Ciotti, tra le quali quella incredibile sull’acquisto di un numero così spropositato di gabinetti chimici, per un totale di 34 milioni di euro, che ogni sfollato nelle tendopoli avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». E poi ancora il diluvio di leggi e leggine, regole e regolette che hanno ingabbiato L’Aquila peggio ancora dei grovigli (152 milioni di euro) di impalcature. Riassunto: nei primi quattro anni dopo il sisma 5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione Civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato, 720 ordinanze del Comune. «Ma devo confessare poi mi sono anche stufato di tenere i conti», spiega l’ingegnere Gianfranco Ruggeri.

Per non dire dei conti delle sistemazioni provvisorie: 792 milioni iniziali per le C.a.s.e. (Complessi antisismici ecocompatibili), 231 per i Map, 84 per i Musp (Moduli a uso scolastico provvisorio) e 736 mila euro per i Mep, i Moduli ecclesiastici provvisori. Troppi: fatti i conti, ammesso che abbiano accolto 18 mila persone, quelle case temporanee sarebbero costate oltre mille euro al mese per ogni ospite. Una enormità. «Credo che difficilmente queste case nuove verranno lasciate perché sono molto belle e saranno immerse nel verde», ammiccò il Cavaliere davanti ad alcune di queste abitazioni. Certo si sperava fossero un po’ meno «provvisorie». Che avessero meno magagne. Quanto all’«ecosostenibilità», un dossier di Legambiente accusa: il 43% è al di sotto di ogni soglia. Dice tutto la polemica sulle bollette arretrate che il Comune, dopo quattro anni, ha chiesto di pagare agli sfollati. «Per 60 metri quadri mi sono ritrovata una bolletta del gas di 875 euro l’anno», spiega Giusi Pitari, la docente animatrice del Popolo delle carriole, «Alla signora di sotto è andata peggio: per gli stessi 60 metri, deve pagarne 1.250 l’anno. Alla faccia del risparmio energetico!»

E intanto, mentre troppe case temporanee diventano velocemente inabitabili, quelle vecchie abbattute o devastate dal sisma sono ancora in larga parte lì, in macerie. Certo, dopo cinque anni di silenzio irreale, finalmente il centro dell’Aquila è un frastuono di martelli pneumatici, rombar di camion, urla di muratori in tutte le lingue. «Il problema non sono i soldi. Ce ne sono tanti ma tanti che potremmo lavorare tutti», dice l’architetto Sestilio Frezzini che sta sistemando uno dei più bei palazzi del centro. I problemi, quelli veri, sono i lacci e lacciuoli burocratici. Anche se il Comune, dopo lo scandalo delle intercettazioni dell’ex assessore comunale Ermanno Lisi («Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi...») pare avere infine accelerato. Spiega Massimo Cialente, il «sindaco antisismico» capace di resistere a tutte le scosse telluriche, partitiche e giudiziarie che da anni lo circondano, che i cantieri aperti sono 150. Il ministero dei Beni culturali abbassa: 101. Accusa Ruggeri: «Comunque troppo pochi su 190 ettari di abitazioni e 1.532 cantieri da aprire solo a L’Aquila». Dire che tutto sia fermo come due anni fa, tre anni fa, quattro anni fa sarebbe ingiusto. Ma gran parte degli edifici sono ancora lì. Com’erano. Con gli armadi rimasti spalancati su ciò che resta del pavimento.

Alla prefettura, finita su tutti i giornali del mondo per la foto di Barack Obama, hanno rifatto la facciata in legno e raddrizzato la scritta «Palazzo del governo». Dentro, però, è un disastro. Perfino i cavi di acciaio tesi per tenere i muri, sono pericolosamente afflosciati e le pareti minacciano di staccare. La Casa dello studente, uno dei simboli della tragedia, è ancora lì. Con le stanze spalancate nel vuoto. Sulla rete di recinzione si accavallano le foto dei ragazzi morti, qualche regalino, biglietti di affetto: «Luminoso sognavi il tuo avvenire. / Un giorno diventare medico. / Curare con amore grande / i malati nel corpo e nello spirito. / Al di là del tempo, tra gli angeli / alla Vergine Addolorata / porti il dolore dei tuoi cari...».

Morirono in quaranta, a Onna. Su trecento abitanti. Le macerie di via dei Martiri, la strada principale del paese dedicata alle vittime di una rappresaglia nazista e devastata dal terremoto, furono uno dei simboli della catastrofe. Cinque anni dopo, c’è all’ingresso una struttura modernissima, la «CasaOnna» progettata dall’architetto sudtirolese Wittfrida «Witti» Mitterer. Subito dopo, al posto del vecchio asilo, la Casa della cultura. Ma gli edifici che si affacciavano sulla strada sono rimasti com’erano. Macerie. Mute. Non senti lo schiocco di una gru, la botta di un martello, il cigolio di una carriola... L’unico cantiere aperto, dice l’architetto Onelio De Felice, è quello per ricostruire la chiesa: «I tedeschi sì, ci sono stati vicini. Il Comune meno. Il piano di ricostruzione, per rifare il paese com’era e dov’era, è stato fatto abbastanza in fretta. Ce l’ha tenuto fermo un tempo immemorabile, all’Aquila. Forse non volevano che noi partissimo per primi...».

Eppure, sono tornate a sfrecciare le rondini, nel cielo azzurro di Onna. E tra le robinie e i meli in fiore, quelli vecchi sotto i quali quel giorno maledetto adagiarono i morti e quelli nuovi piantati tra le case prefabbricate, cantano i passeri e le cinciallegre e Matteo e gli altri bambini della nuova «materna» fanno merenda sotto disegni rossi e gialli e blu che sprizzano allegria primaverile.

Matteo è il primo dei piccoli nati dopo il terremoto. Il simbolo stesso della rinascita. L’antico paese che un tempo si chiamava Villa Unda, lui e gli altri che sono cresciuti nel villaggio costruito dalla Provincia di Trento, non l’hanno mai conosciuto. Quando qualche figlioletto, così, di colpo, chiede come fosse il paese «prima», la mamma lo porta al di là della strada, dove la staccionata è tappezzata da grandi fotografie di struggente malinconia.

Ogni foto, per gli onnesi, è un tuffo al cuore. La processione in via dei Calzolai, coi rampicanti che salivano per i muri. L’angolo Sant’Antonio con l’altarino coperto di fiori. La chiesetta di Sant’Anna. Via Oppieti, coi balconi che traboccavano di gerani. C’è anche una poesia di Giustino Parisse, il giornalista de il Centro che qui viveva e che sotto le macerie perse il padre e i due figli Domenico e Maria Paola: «Quanto era bella Onna prima dell’orrendo scossone. Sorta fra le acque e immersa nella verde valle dell’Aterno. Mille anni di storia e milioni di storie».

4 aprile 2014 | 14:59
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_04/aquila-5-anni-dopo-macerie-sfollati-69073be4-bbf6-11e3-a4c0-ded3705759de.shtml
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« Risposta #221 inserito:: Maggio 10, 2014, 07:04:22 pm »

Come prima, più di prima

di GIAN ANTONIO STELLA

Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto...». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte.

Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop.

Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni... Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela.

È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa.

L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico...) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.

9 maggio 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_09/editoriale-come-prima-piu-di-prima-gian-antonio-stella-20d31010-d739-11e3-bbb4-071d29de8b1e.shtml
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« Risposta #222 inserito:: Maggio 18, 2014, 05:21:18 pm »

Il tour elettorale

Quel comizio nel paese del bandito Giuliano, la scossa dei 5S in Sicilia
La piazza di Montelepre è vuota ma nessun politico si presentava da anni.
La corsa del Movimento Cinque Stelle


Di Gian Antonio Stella

Piazza vuota a destra, a sinistra, davanti... Sole che picchia. Vecchi camioncini che passano scatarrando. Unici spettatori, i curiosi che, ai tavolini del Caffè del Centro, portano alla bocca una tazzina ostentando la loro noia. Uffa, grillini... Ci vuole fegato, a parlare nel vuoto come fanno i parlamentari Claudia Mannino e Riccardo Nuti e i candidati alle europee Ignazio Corrao e Antonio Zanotto. Più ancora a indire un comizio elettorale qui, in piazza Principe di Piemonte a Montelepre. Il paese di Salvatore Giuliano. Quello dove Crescenzo Guarino scrisse che «si impara l’arte di non passare mai davanti a finestre e balconi. L’abitato sorge tra balze e valloni da cui, in qualunque momento, come provano gli agguati di questi anni, i briganti possono tirare, uccidere e poi dileguarsi».

Sono passati anni, da allora. Tanti. E magari non succede più che la corriera debba fermarsi tra «strilli di pianto e gesùmmìo» perché in mezzo alla strada c’è un morto ammazzato messo di traverso. E nessuno spara più al busto ottocentesco di «Filippo Riccobono presidente della Cassazione di Palermo» ricordato «con grato e devoto amore dai concittadini» che si allenavano scheggiandogli la testa con le pallottole. Il ristorante-albergo finto medievale «Castello di Giuliano» che domina il paese, però, si presenta cantando la «leggenda» dell’«Uomo che toglieva ai ricchi per dare ai poveri» e il Comune in pugno prima ai democristiani e poi ai berlusconiani è stato sciolto per mafia. E i ragazzi di ciò che resta della sinistra ti ricordano che è lì, a Montelepre, che scelsero di andare a vivere la latitanza prima Giovanni Brusca (quello che sciolse nell’acido il piccolo Peppe Di Matteo) e poi Salvatore Lo Piccolo, l’erede di Bernardo Provenzano. Insomma, l’aria che tira è tale, spiega Totò Cristiano (il quale dopo essere stato segretario dei Ds se n’è andato accusando il partito di «compromessi inaccettabili») che quando nel 2009 lui ed altri ragazzi presentarono la lista «Liberi tutti», ogni candidato che presentavano «veniva subito convinto a ritirare la candidatura».

Era dal 2009 che a Montelepre non c’era un comizio in piazza. Cinque lunghissimi anni. Non ci prova la destra, non ci prova la sinistra. C’è chi giura che un giorno, per le ultime Regionali, ci provò una specie di kamikaze di Sel presentandosi da solo munito di altoparlanti ma il vuoto fu ancora più vuoto di oggi e ben presto lasciò perdere... Certo, Montelepre non è la Sicilia e la Sicilia non è Montelepre. Non avrebbe senso generalizzare. Però non c’è forse posto migliore per vedere, nella sua fotografia più estrema, come è cambiata l’isola da quelle elezioni del 2001 in cui la destra, dopo la «traversata nel deserto» cominciata con la sconfitta del 1996, riuscì a prendere 61 parlamentari su 61 a disposizione. Un cappotto irripetibile. Seguito dal trionfo alle Regionali di Totò Cuffaro che stracciò Leoluca Orlando dandogli 23 punti di distacco.

Cosa resta, di quelle vittorie clamorose? Restano i titoli in archivio con le eccitate declamazioni di Enrico La Loggia: «In Sicilia si volta pagina, inizia la nuova era della Cdl, quella della politica del fare, nella quale il governo Berlusconi e il governo Cuffaro lavoreranno insieme per dare le risposte che i siciliani attendono da troppo tempo, in termini di sviluppo, occupazione e sicurezza...». Restano le ferite d’un progressivo degrado segnato da guerre intestine, rotture, liste di proscrizione, movimenti di fuoriusciti, sconfitte che parevano impossibili come a Messina nel 2005, quando inutilmente il Cavaliere si spinse a promettere perfino di dare in prestito dei giocatori del Milan alla squadra locale per salvarla dalla B. Restano i rottami di una classe dirigente andata in pezzi o finita addirittura in galera come nel caso, appunto, di Totò Cuffaro. Restano gli abissi nei bilanci delle municipalizzate. Resta il rimpianto di errori irreparabili, come la spaccatura, di qua il Pdl di Angelino Alfano, di là l’asse Lombardo-Micciché, che nell’autunno 2012 consentì la vittoria di Rosario Crocetta e lo sfondamento dei grillini. Resta l’incapacità di capire gli errori, fino a lasciare spazio nella stessa Messina alla vittoria stupefacente nel 2013 di un cavallo pazzo alternativo a tutto e a tutti come Renato Accorinti.

Per non dire dell’ultima fase di Forza Italia, che poche settimane fa, liquidato Micciché, si era data una quindicina di vicepresidenti tra i quali una (è Dudù che traccia il solco...) con la delega agli «amici dell’uomo». Finché Micciché («questi sono impazziti») si è fiondato ad Arcore e si è fatto riconsegnare il partito, compreso il posto di capolista, direttamente dal «vice-papà» Silvio.

Provate a fare a Francesco Cascio, per cinque anni presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, la seguente domanda: quanti errori avete fatto, per far diventare il MoVimento 5 Stelle il primo partito isolano? «Tantissimi». E sospira sull’incapacità di «capire che una stagione era finita», sull’uso scellerato dei corsi di formazione che videro lui stesso toccato dallo scandalo Ciapi costato 15 milioni di euro per sfornare in totale 18 apprendisti («ma io sono l’unico che ne è uscito pulitissimo»), sugli errori del Cavaliere «che si è via via circondato di “Capezzoni e Santanchè” costringendo Angelino e noi ad andarcene». Ma su tutti l’errore di «avere sbagliato due presidenti di fila, prima Lombardo e poi Crocetta». Niente da dire sul terz’ultimo, Cuffaro, oggi a Rebibbia? «Totò sta pagando i suoi errori. Ma come amministratore era certo molto più bravo».

Guai a dirlo a Crocetta. Il quale, sempre più contestato dalle opposizioni e criticato anche da chi lo aveva votato e gli riconosce il merito di battaglie importanti (come le denunce alla magistratura sulla «formazione») ma gli rinfaccia anche altre scelte come quella di candidare a Bruxelles la sua ex segretaria Michela Stancheris (cosa che a Cuffaro o Lombardo non sarebbe mai stata perdonata) è convinto che, a dispetto di certi sondaggi, la sinistra andrà meglio anche in Sicilia. Auguri.

Certo è che gli errori degli uni e degli altri sono stati così tanti che perfino Caltanissetta, cioè la città dove la Democrazia cristiana nacque, prosperò e dominò per decenni per poi lasciare il serbatoio elettorale in eredità alla destra, pare essere diventata la «Stalingrado 5 Stelle». Con la conseguenza che Giovanni Magrì, un sociologo da sempre impegnato nelle comunità che aiutano disabili e tossici, alcolisti e vittime dell’azzardo, potrebbe vincere le Comunali contro la destra e una specie di grande alleanza di centro-sinistra.

Stanno sul gozzo a tutti quelli che non li votano, i grillini. Magari, qua e là, anche per buone ragioni. Non ci vogliamo entrare. Ma dovrebbero tutti farsi un esame di coscienza: è mai possibile che solo loro abbiano il fegato di andare a Montelepre a parlare di riscatto e a pronunciare quella parola mafia che, come disse il cardinale Ernesto Ruffini, «quando anche le labbra dicono di sì, fa tremare le gambe e imperlare di sudore freddo la fronte»?

18 maggio 2014 | 08:52
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_18/quel-comizio-paese-bandito-giuliano-scossa-5s-sicilia-b6c43e04-de56-11e3-a788-0214fd536450.shtml
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« Risposta #223 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:50:26 pm »

Tuttifrutti
Quelle tangenti nel paese di Maccus
Le condanne bonarie possono alimentare il sistema delle mazzette

Di Gian Antonio Stella

Come mai ventidue anni dopo lo scoppio di Mani Pulite c’è gente che continua a chiedere tangenti e gente che continua a pagarle? Alla domanda che tanti ipocriti si sono pensosamente posti nei giorni scorsi dopo gli arresti per l’Expo 2015, risponde una sentenza del tribunale di Napoli Nord. Così bonaria verso l’imputato da incoraggiare alla mazzetta ogni amministratore pubblico che si senta portato al mestiere di ladrone.

Eugenio Di Santo, un ricco imprenditore sindaco di Sant’Arpino, in provincia di Caserta, era stato arrestato sei mesi fa per avere «ripetutamente sollecitato» un imprenditore che gestisce i servizi mensa delle scuole comunali a «regalargli» un prezioso bracciale tempestato di diamanti che costava intorno ai tremila euro e che, stando a quanto diceva, avrebbe dovuto regalare a sua volta a un magistrato.
Nessun dubbio sui fatti. Come ha scritto ieri mattina sul Mattino Marilù Musto, l’uomo non poteva che «ammettere la colpa a fronte di prove schiaccianti: un video che ritraeva il sindaco con la sua vittima sul retro della scuola elementare, nastri registrati durante i colloqui fra i due e una denuncia ai carabinieri presentata dal ristoratore alla stazione di Lusciano il 1 novembre 2013.

Difendersi sarebbe stato inutile, meglio chiedere la riqualificazione del reato e andare avanti in un processo più breve possibile. Bisognava evitare l’interdizione dai pubblici uffici». Ed è esattamente quello che, grazie al patteggiamento, Eugenio Di Santo ha ottenuto l’altro giorno dal tribunale di Napoli Nord. I giudici, presidente Alberto Maria Picardi, lo hanno infatti condannato a un anno e sei mesi di carcere. Più il pagamento di 2.500 euro come risarcimento all’imprenditore costretto a pagare e al Comune. Tanto per capirci, visto che la popolazione del paese assomma complessivamente a 14.267 anime, l’onore di ogni abitante offeso dal tangentismo del primo cittadino è stato valutato 17 centesimi.

Di più: trattandosi di una condanna inferiore ai due anni, così leggera anche grazie al fatto che il Comune non si era costituito parte civile, la pena è stata sospesa. E poiché l’uomo non si era mai dimesso (si era candidato a sindaco con questa promessa: «Né io, né gli assessori, né i consiglieri comunali prenderemo un solo euro in cinque anni») potrebbe teoricamente tornare in sella.

Come andrà a finire non si sa. Dopo la condanna l’uomo, eletto da un’«alleanza democratica» trasversale che comprendeva il Pd, l’Udc, i socialisti, i mastelliani e altri ancora, è stato festeggiato nella sua villa da decine di simpatizzanti entusiasti. Un altro elettore si è spinto a scrivere sulla pagina Facebook del condannato: «abbiamo sempre confidato in te, Gesù!». Ancora più divertente, a latere, c’è un’altra noterella: solo due settimane fa quel Comune che non si è costituito parte civile contro il sindaco reo confesso ha premiato il presidente del Senato Pietro Grasso nel corso della manifestazione «Pulcinellamente»... Il paese si vanta infatti di aver dato i natali, secoli fa, al personaggio teatrale di Maccus. L’antenato di Pulcinella. Complimenti: coerenza perfetta...

21 maggio 2014 | 16:42
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_21/quelle-tangenti-paese-maccus-df763ed2-e0f5-11e3-90e5-e001228dc18c.shtml
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« Risposta #224 inserito:: Maggio 29, 2014, 11:04:55 pm »

L’ANALISI

Bisogna saper perdere
Dagli sberleffi alle accuse agli elettori.
Il leader Grillo che ora attribuisce la colpa ai pensionati

Di Gian Antonio Stella

Non sa vincere, non sa perdere. Lo sfogo di Beppe Grillo contro l’Italia di «generazioni di pensionati che forse non hanno voglia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così», somiglia a una battuta di Corrado Guzzanti: «Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli ‘sti benedetti elettori». Ed è uno sfogo, infelicissimo, che conferma: il guru pentastellato, incapace di mettere a frutto il trionfo elettorale del 2013, non sa gestire neppure la sconfitta. Così come molti grillini. Che possono anche consolarsi leggendo nel blog che «Cinzia Ferri è stata eletta sindaco con il M5S nella cittadina di Montelabbate» ma appaiono incapaci di chiedersi: dove abbiamo sbagliato, noi, per perdere in un anno quasi tre milioni di voti?

Tutta colpa di «sedici milioni di elettori per gran parte suore di clausura, preti, beghine e paralitici», urlò il comunista Fausto Gullo dopo la bastonata subita dal Fronte Popolare nel ‘48. «Ma non rompetemi le scatole, sto guardando 90° minuto!», sbuffò Mino Martinazzoli coi cronisti che si assiepavano al cancello di casa sua la sera del crollo della Dc nel ‘94.

«Meglio così. Sono contento d’aver perso Milano. Adesso ho le mani libere. Non potevamo vincere perché a Milano e a Torino ci sono troppi terroni venuti a colonizzare il Nord», barrì Umberto Bossi dopo il disastro alle comunali del ‘97, «Del resto nel ‘93 non fui molto contento di aver conquistato Milano perché questo ci legava le mani. Questi terroni ingrati, pur di non liberare il nord dalla schiavitù di Roma, avrebbero votato anche un pezzo di merda. Quei terroni d’ora in avanti bisognerà guardarli malissimo. Quei magistrati, quegli insegnanti, via, pussa!».

«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto. «La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit poll», sospirò Silvio Berlusconi dopo aver perso una tornata di elezioni amministrative. «Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone!», fece spallucce dopo una debacle alle comunali in cui erano in ballo Bari, Bologna, Firenze, Padova, Bergamo, Mantova, Perugia...

Il capopopolo genovese, insomma, è in buona compagnia. E in buona compagnia sarebbe anche se facessimo l’elenco di quanti, dopo una vittoria, hanno esibito tanta boria (suicida) da ricordare quanto scrisse Polibio ne «Le storie» raccontando di Scipione in Spagna: «È più difficile far buon uso della vittoria, che vincere».

Ma ve lo ricordate poco più di un anno fa dopo avere sfondato alle politiche? Il rifiuto di ogni contatto coi giornalisti italiani messi tutti nel mucchio dei «servi del regime» e destinati più tardi ad essere sottoposti a un «processo popolare». Le barricate in casa come le dive hollywoodiane: «Parlo solo con la stampa straniera». Le passeggiate in spiaggia con una specie di tuta spaziale che gli occultava il viso. Il raduno «clandestino» dei neo parlamentari a piazzale Flaminio per andare in pullman all’agriturismo «La Quiete» (un nome, un programma politico) per un incontro riservato senza la diretta streaming promessa come prova di trasparenza. La «diretta» imposta a Pierluigi Bersani, sbertucciato da Roberta Lombardi: «Sembra una puntata di Ballarò... Noi non incontriamo le parti sociali perché siamo le parti sociali. Cittadini, lavoratori, cassintegrati, studenti fuori sede...» E poi l’incontro al Quirinale marcato dalla confidenza di Vito Crimi: «Napolitano è stato attento, non si è addormentato. Beppe è stato capace di tenerlo abbastanza sveglio». E i silenzi complici sui senatori grillini che confidavano di andare a Palazzo Madama con la boccetta di disinfettante per lavarsi nel caso gli scappasse di dar la mano a certi colleghi. E le randellate contro la libertà di coscienza garantita a ogni parlamentare: «Insomma, l’eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare». Le espulsioni a raffica di ogni dissidente.

E poi ancora l’avanti e indrè sul Porcellum, prima bollato come la peste che ha consentito ai partiti «di nominare chi volevano» trasformando Camera e Senato «in plotoni di ubbidienti soldatini a comando» ma più tardi accettato pur di andar subito alle elezioni: «Ogni voto un calcio in culo ai parassiti e incapaci che hanno distrutto il Paese. La legge elettorale la cambierà il M5S quando sarà al governo». E gli insulti al Parlamento: «È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».

E come dimenticare il giorno in cui il Parlamento, per uscire dall’impasse, decise di rieleggere Napolitano? Convocò via web la piazza con toni apocalittici: «Ci sono momenti decisivi nella storia di una Nazione. È in atto un colpo di Stato. Pur di impedire un cambiamento sono disposti a tutto. Sono disperati. Quattro persone: Napolitano, Bersani, Berlusconi e Monti si sono incontrate in un salotto e hanno deciso di mantenere Napolitano al Quirinale, di nominare Amato presidente del Consiglio...» Ciò detto chiamò tutti all’adunata: «Ho terminato la campagna elettorale in Friuli Venezia Giulia e sto arrivando. Sarò davanti a Montecitorio stasera. Rimarrò per tutto il tempo necessario. Dobbiamo essere milioni. Non lasciatemi solo o con quattro gatti. Di più non posso fare. Qui o si fa la democrazia o si muore come Paese». Dopodiché, dieci minuti dopo le otto, mandò un post scriptum: «Arriverò a Roma durante la notte e non potrò essere presente in piazza. Domattina organizzeremo un incontro...» Buona notte.

E via così, per mesi e mesi. Insultando tutti. Di urlo in urlo. Fino all’escalation delle ultime settimane. La vivisezione per Dudù e lo «Psiconano». L’evocazione della «peste rossa». La minaccia dei processi di piazza. La lupara bianca per Renzi, «l’ebetino che è andato a dare due linguate a quel culone tedesco della Merkel» ... Spiegò un giorno Simon Bolivar, el Libertador del Sud America spagnolo: «L’arte di vincere si impara nelle sconfitte». Per ora, a Beppe Grillo e a tanti grillini che rovesciano insulti sul blog contro il «popolo di pecoroni» cui nel 78 percento dei casi «va bene il sistema del finanziamento pubblico, della corruzione, della disonestà», non è successo. E non basta un pizzico di auto-ironia sul Maalox...

28 maggio 2014 | 08:28
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_28/bisogna-saper-perdere-484bc50a-e630-11e3-b776-3f9b9706b923.shtml
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