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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 184812 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Giugno 16, 2010, 11:26:07 pm »

Il ministro battuto nella corsa a sindaco

Brunetta plenipotenziario a Venezia

Delegato dal governo a riformare la legge speciale. Cacciari: indecente


«Brunetto scherzetto!», ridacchiò Calderoli bocciando il collega Brunetta reo d’aver anticipato nel dicembre 2008 l’idea di mandar le donne in pensione a 65 anni. «Brunetto scherzetto!», deve aver ridacchiato oggi Berlusconi. I veneziani hanno trombato «Renatino» come sindaco? E lui glielo rifila come «delegato» governativo. Una specie di antisindaco. Tié. Il ministro dell’innovazione aveva scommesso forte, sulla conquista della sua città.

Aveva portato in laguna, come sponsor, la bellezza di dieci ministri. Aveva sventolato l’appoggio del Cavaliere, il quale si era speso invitando gli elettori a compiere un «peccatuccio »: «Andate a riscoprire le vecchie fidanzate e convincetele a votare. Vi auguro di realizzare tutti i vostri sogni. Viva Venezia, viva l’Italia, viva la libertà». Aveva promesso di spostare la sede del comune da Ca’ Farsetti a Palazzo Ducale. Promesso la metropolitana sublagunare per rendere meno complicata la vita ai veneziani e arginare l’esodo, inesorabile da decenni. Promesso un nuovo «Rinascimento». Insomma, una campagna grandiosa. Sintetizzata dal titolo del Giornale berlusconiano alla vigilia del voto: «Brunetta sindaco a Venezia: se vinco investo 25 miliardi ». Uno in più della mega-manovra finanziaria di oggi. Macché: trombato. Per la seconda volta, dopo un primo assalto fallito anni fa. «Mi sono mancati i voti della Lega.

L’elettorato della Lega è egoista, se ha un candidato suo lo vota, sennò si distrae... Certo è che se avessi avuto i voti leghisti che ha avuto Zaia avrei vinto al primo turno», si sfogò amaro dopo la batosta. «Non mi candiderò mai più al sindaco. Mai più». La decisione di paracadutarlo ora in laguna come plenipotenziario per la legge speciale, decisione destinata a incendiare le polemiche nel centrosinistra che proprio a Venezia aveva raccolto all’ultima tornata elettorale l’unica vera soddisfazione grazie alla vittoria al primo turno di Giorgio Orsoni, è sulla Gazzetta ufficiale. Dove il presidente del consiglio, a integrazione delle deleghe governative assegnate il 13 giugno 2008, decreta, «ferme restando le competenze delle Amministrazioni statali, delle Regioni e degli enti locali », di assegnare a Brunetta le «funzioni di impulso, promozione e coordinamento delle iniziative legislative dirette a modificare la normativa vigente in materia di salvaguardia di Venezia e della sua laguna».

C’è chi dirà che, per carità, ogni polemica è inutile e pretestuosa. E che il decreto va letto per quello che è, parola per parola, alla lettera. Che non c’è alcun tentativo del governo di «commissariare» Orsoni, colpevole d’aver fatto mancare al Pdl e alla Lega (che da tre lustri conclude nella «capitale padana» la sua festa di settembre) l’agognato filotto che si sentiva già in tasca: regione, provincia, comune. E che insomma il ministro veneziano si occuperà soltanto di quella cosa là: coordinare «le iniziative legislative dirette a modificare la normativa vigente in materia di salvaguardia di Venezia e della sua laguna ». Punto. Anzi, possiamo scommettere che Brunetta sottolineerà di avere accettato il nuovo incarico solo per spirito di servizio e generosità. Per dare una mano alla città dove è nato, dove è cresciuto, dove ha conservato i suoi affetti. E che tutte le interpretazioni diverse sono malevole. Sarà... Massimo Cacciari, però, saputa la cosa, reagisce come se il governo delle destre avesse deciso di mandare in laguna, sessantasette anni dopo quel Giobatta Dall’Armi che concluse il suo mandato alla caduta del fascismo, una specie di nuovo podestà: «Dare una delega così al candidato trombato alle ultime elezioni, imporre dall’alto agli elettori veneziani l’uomo che hanno appena rifiutato con il voto è indecente».

Non potrebbe invece dare davvero unamano a cambiare la legge speciale per Venezia? «Che quella legge va cambiata lo ripeto un sacco di tempo! », sbuffa l’ex sindaco veneziano. «All’ultimo comitatone», ormai un paio di anni fa, piantai un casino spiegando «evviva il Mose, ma è folle che tutte le altre opere siano bloccate per mancanza di fondi». Il solito Gianni Letta disse sì, giusto, è vero, occorre cambiare... Gli risposi che già nel 1996 avevo presentato una proposta di legge rifinita nei dettagli e che gli avrei mandato l’articolato. Lo feci. Non si sono neanche degnarsi di rispondermi. Neanche di dirmi: no, grazie. Zero. E adesso, salta fuori Brunetta! Brunetta! Brunetta! Quello che ama tanto Venezia che dopo essere stato trombato non si è presentato neppure alla prima riunione del consiglio comunale. Si è dimesso prima. Bel modo di rispettare gli elettori! ». Tanto più, sottolineano a sinistra, che la scelta di dare al ministro della funzione pubblica la nuova delega speciale, arriva dopo la non meno controversa nomina di Vittorio Sgarbi a sovrintendente del Polo museale di Venezia. Insomma, l’assedio alla città «rossa» capoluogo di una provincia, di una regione, di una Padania verdi e azzurre sarebbe appena cominciato.

Gian Antonio Stella

16 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_giugno_16/brunetta_plenipotenziario_b2bc1d34-7908-11df-ad02-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Giugno 20, 2010, 12:09:47 pm »

BENE LE NUOVE NORME MA PIU’ CONTROLLI

Autocertificati (e responsabili)


Dio benedica l’autocertificazione.
In un Paese come il nostro dove il Censis è arrivato a contare in un anno 233 scadenze fiscali e amministrative e la macchina burocratica si è spinta a chiedere 71 adempimenti per l’apertura d’una trattoria o 23 firme per piantare una bricola in Laguna, il grimaldello della dichiarazione firmata che sostituisce un mucchio di carte può essere davvero indispensabile. Ed è naturale che il governo, nel tentativo di dare ossigeno all’economia, pensi di dare ancora più spazio a questo strumento per incentivare la nascita di nuove imprese.

Sbaglierebbe l’opposizione a mettersi di traverso, facendo della rigidità dei paletti burocratici (che a volte non garantiscono affatto il rispetto delle regole ma solo la sopraffazione ottusa dei timbri) un fortilizio da difendere come l’ultima ridotta. E così, reso omaggio alla Costituzione, non ha forse senso erigere barricate intorno alla sacralità intangibile di certi passaggi dell’art. 41, letti a torto o a ragione solo per giustificare spesso lacci e lacciuoli.

Detto questo, ogni grimaldello può essere usato bene oppure male. Può salvare la vita a chi è intrappolato o consentire al ladro di scardinare una saracinesca. E allargare ulteriormente l’autocertificazione senza introdurre dei contrappesi potrebbe essere, in un Paese come il nostro, devastante. Le cronache di questi anni fanno rizzare i capelli. Seicentosei studenti della Sapienza smascherati (su un campione di soli 4000) perché si dichiaravano poveri rubando le borse di studio ai poveri veri. Settantatré palazzine abusive a Casalnuovo vendute dal notaio in base a un’autocertificazione falsa secondo cui tutto era a posto per il condono. Cento per cento dei posti in graduatoria nelle «materne» dell’Agrigentino assegnati grazie alla legge 104 e ai documenti di maestre che giuravano di assistere parenti invalidi.

E poi parlamentari come il senatore Nicola Di Girolamo eletti grazie a una falsa dichiarazione di residenza all’estero. E migliaia di «buoni-bebè» (solo a Voghera erano truffaldine 354 pratiche su 430) distribuiti a immigrati «finti italiani » che per legge, giusta o sbagliata che fosse, non ne avevano diritto. E decine di migliaia di finti nullatenenti dalla Val d’Aosta alla Calabria esenti dal ticket sanitario. E 321 «comunali » napoletani (seguiti da altre decine e decine a Taranto) denunciati perché si erano aumentati lo stipendio autocertificando di avere a carico zie, nonni, cugini e consuocere. E 96 tassisti romani con licenza nonostante la fedina non candida. Per non dire dell’impennata (da 4 a 70 milioni di euro) dei soldi spesi per il gratuito patrocinio a chi dichiara meno di 9.296 euro, compresi boss mafiosi e un immobiliarista che ha avuto dallo Stato l’avvocato gratis 152 volte. O delle centinaia di militari processati perché assunti (e c’è chi passò poi ai carabinieri!) a dispetto dei precedenti penali. Condannati a pene lievi e quasi sempre rimasti in servizio.

Ben vengano dunque le nuove norme.

Ma guai se non venissero abbinate a controlli più seri e a una mano più ferma contro gli imbroglioni. Chi dichiara il falso, oggi, rischia pochissimo: da 20 giorni a un massimo di due anni con la condizionale, ma male che vada in cinque anni cade tutto in prescrizione.

E i «furbetti del certificativo », purtroppo, lo sanno.


Gian Antonio Stella

20 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_20/autocertificati-e-responsabili-gian-antonio-stella_4698edb8-7c3b-11df-bd5b-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 22, 2010, 09:36:01 am »

Corsi e ricorsi

Grandi e piccoli abusi, la tentazione dell’«ultimissima» sanatoria

Le solite promesse e il colpo di spugna del 2003: un tormentone indimenticabile


L’«ultimissimissimissimo» condono edilizio è durato un paio d’ore. Il tempo che l’emendamento fosse ritirato e Paolo Bonaiuti dichiarasse a nome del governo: «Di nuovi condoni non se ne parla assolutamente: né fiscali, né edilizi». Meno male. Anche se c’è da toccar ferro. Le sanatorie del passato, infatti, erano sempre nate così: due righe infilate da deputati di seconda fila, smentite indignate, solenni giuramenti: mai. Fino al rilancio con la solita promessa: «Lo giuriamo: è l’ultimissima volta!».

Il condono suggerito dai senatori Pdl, se fosse passato, sarebbe stato il più indecente di tutti i tempi. Paolo Tancredi, Gilberto Pichetto e Cosimo Latronico proponevano non solo di riaprire fino al 30 marzo 2010 i termini della sanatoria 2003 ma di estendere il colpo di spugna «anche agli abusi edilizi realizzati in aree sottoposte alla disciplina di cui al codice dei beni culturali e del paesaggio». Di più: aggiungevano che poteva fare domanda anche chi si era già visto negare il condono. Peggio: pretendevano che automaticamente fossero «sospesi tutti i procedimenti sanzionatori, di natura penale e amministrativa, già avviati, anche in esecuzione di sentenze passate in giudicato». Uno sconcio. Destinato alla bocciatura ma buono da sventolare con gli elettori: «Amici abusivi, ci abbiamo provato!» L'intervento di Bonaiuti, scandalizzato per le reazioni scandalizzate delle sinistre come se i tre pidiellini fossero infiltrati comunisti («un'altra trovata propagandistica creata ad arte dall'opposizione!») ha chiuso: nessun condono. Tesi confermata da Luigi Casero, sottosegretario all'Economia: nessun condono. Vogliamo credere che sia davvero così. Anche se non risulta ritirato un altro emendamento di Tancredi: se va all'asta un bene sequestrato «il responsabile dell'abuso ha il diritto di prelazione». Anche se resta sospeso un terzo emendamento che propone il condono fiscale fino al 31 dicembre 2008. Mai come stavolta, però, le diffidenze sono legittime. Colpa degli archivi. «Nessun ministro mi ha mai parlato di un condono edilizio e questa ipotesi non è mai stata al centro di riunioni di governo», giura Silvio Berlusconi il 20 maggio 1994. Lo saprà ben lui, che è il premier! Macché: pochi mesi e la sanatoria è approvata. Promossa da chi? Dal governo.

Quanto al colpo di spugna del 2003, il tormentone è indimenticabile. «Il condono è un provvedimento profondamente immorale destinato a premiare i comportamenti illegali», sentenzia corrucciato Sandro Bondi. «Nessuno si sogna di proporre un maxicondono per gli abusi edili, nè c'è la minima intenzione di favorire l'illegalità facendo un regalo agli evasori», conferma Maurizio Lupi.«Sul condono edilizio la Lega è contraria», tuona per i «lumbard » Giancarlo Giorgetti. «In nessun consiglio dei ministri, finora, si è mai parlato di condono edilizio», garantisce Altero Matteoli. In ogni caso mette le mani avanti: «Io resto contrario. A meno che non sia una mini sanatoria per piccolissimi abusi».

È lì parte il tormentone numero due: «Permetterà di risolvere una infinità di piccoli abusi», dice il leghista Francesco Moro. «Si potranno condonare solo piccoli abusi», conferma Gianni Alemanno. «E' solo per i piccoli abusi, finestre aperte o chiuse, che riguardano la gente perbene e non i distruttori del paesaggio», minimizza il ministro dei beni culturali Giuliano Urbani. «Si tratta di sanare i piccoli abusi, quelli già dentro la volumetria. Non si tratta certo di sanare gli abusi edilizi, le costruzioni abusive», sdrammatizza l'aennino Alberto Giorgetti. Spiegando che «la sanatoria potrebbe dare maggiori risorse, via Ici, anche ai Comuni».

Il 19 novembre 2003 l'Ansa scrive: «Verandine sulle terrazze, piani aggiuntivi sui palazzi, ma anche ristoranti, piccoli alberghi, capannoni industriali, intere palazzine che possono contenere una decina di appartamenti medi o una trentina di mini-alloggi: c'è tutto questo nei 3.000 metri cubi di tetto massimo del condono edilizio, approvato stasera col voto di fiducia al decretone collegato alla Finanziaria». Quanto all'Ici, la Corte dei Conti già il 7 aprile 2004 segnalava «le riserve dei Comuni sui quali ricadrebbero gli oneri di urbanizzazione». Le stime di Legambiente sul condono 1994 confermavano: tra i soldi incassati e quelli spesi per dare i servizi ai cittadini che avevano aderito al condono (spesso pagando solo l'anticipo del 10% per poi scordarsi del resto) i comuni ci avevano perso 5 miliardi e 235 milioni di euro. Un bidone. Che in caso di nuovo condono sarebbe ora ingigantito dall'abolizione dell'Ici.

Non basta. Stando al dossier ufficiale nel solo comune di Roma addirittura il 13,2% degli abusi sanati (uno su sette!) sono stati commessi «dopo» la sanatoria 2003. Peggio: 12.315 immobili oggetto di condono edilizio sono «non condonabili» quindi dovrebbero essere demoliti. Cosa che nessuno ha il fegato di fare. Di più ancora: su 48 comuni sciolti per infiltrazione mafiosa negli ultimi cinque anni, il 68,7% ha tra le motivazioni citate l'abusivismo. E c'è ancora qualcuno che ha il coraggio di insistere?

Gian Antonio Stella

22 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_giugno_22/stella-grandi-piccoli-abusi-tentazione-sanatoria_c5331684-7dc2-11df-a575-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Agosto 03, 2010, 06:52:08 pm »

Previsioni

Sondaggi «catastrofici» anche su Casini, Dini e Fini

Il premier e le profezie (sbagliate) sui «nemici»

Nel '94 pronosticò la fine di Bossi, ma due anni dopo il senatur ottenne un successo «storico»


Allegria: Berlusconi non crede alla jella. Una buona notizia, nel Paese della smorfia, del «curnaciell' 'e corall'» e di Amelia, la fattucchiera che ammalia. Non fosse così, mai e poi mai si sarebbe avventurato a prevedere per Fini un futuro elettorale desolante se non disastroso. Ogni volta che l'ha fatto con gli alleati in fuga, infatti, ha portato bene. A loro.


Ma li avete mai letti i reportage di Charles Dickens sul Daily Mirror poi raccolti in «Visioni d'Italia» sul delirio italico per la smorfia? Racconta due episodi indimenticabili. Il primo su un cavallo imbizzarrito che aveva sbalzato di sella il cavaliere riducendolo in fin di vita: «Dietro il cavallo correva intanto a incredibile velocità un altro uomo, uno sconosciuto così lesto che si trovò sul posto appena dopo la caduta. Costui si gettò in ginocchio accanto al disgraziato che giaceva moribondo, gli prese la mano con l'espressione del più vivo dolore e disse: - Se ancora sei vivo, dimmi una parola, una sola! Se ancora ti rimane un soffio, dimmi quanti anni hai, fammeli giocare al lotto, per amore del Cielo!». Il secondo, se possibile, è ancora peggiore. Visto il boia decapitare un uomo in piazza, lo scrittore annota sconcertato: «I giocatori del lotto, che speculano su tutto, si mettono nei posti più comodi per contare le gocce di sangue che sprizzano di qua e di là; e poi puntano su quel numero».

Insomma, abbiamo pessimi precedenti. Anche in politica. Si pensi a Enrico de Nicola, il primo presidente della Repubblica, che stando alle leggende si era preso per segretario un gobbo, faceva cucire la fodera della vecchia borsa del suo primo processo dentro le borse nuove e teneva un cassetto pieno di spille, cornetti, ferri di cavallo. O Giovanni Leone, che il giorno del sopralluogo al Vajont si oppose a far salire sull'elicottero un fotografo (sorteggiato tra tutti i colleghi) perché con lui a bordo sarebbero stati in 13: «Preside', c'ho er pool». «E io tengo tre figli». Per non dire di quel parlamentare che aveva tale fama di menagramo da far segnare un record insuperabile: l'unica intervista al mondo in cui il nome dell'intervistato non era citato né nel titolo, né nell'articolo, né nella didascalia della foto. E come dimenticare l'onorevole Lucio Barani, che come sindaco di Aulla diede una consulenza alla maga Mirka per rimuovere la sfiga cosmica cagionata alla Provincia di Massa Carrara da Iosif Stalin, Pol Pot, Giovanni Quarantillo e altri comunisti toscani?

Va da sé che, con quel po' po' di passato, è una consolazione per tutti gli italiani di sobria razionalità illuminista avere alla guida del Paese un uomo che non dà peso a queste cose. Non vorremmo però essere nei panni di un berlusconiano scaramantico. Di quelli che si giocano al lotto la cinquina 21 (la donna nuda), 46 (i soldi), 51 (il giardino: vedi le meraviglie di villa Certosa), 55 (la musica, dati i successi con Apicella) e 70 (il palazzo del potere). In quel caso, ahi ahi...

Stando alle cronache, il Cavaliere avrebbe detto nei giorni scorsi ai suoi collaboratori: «Fini da solo vale solo l'1,4%». Tesi confermata, a dispetto delle stime di Renato Mannheimer, da Alessandra Ghisleri, la sondaggista preferita: «Fini, da solo, può contare su una percentuale di voti che oscilla tra l'uno e il tre per cento dei voti. In alleanza col centrosinistra varrebbe tra l'uno e il due per cento». Un futuro a tinte fosche solo in parte aggiustato da qualche rialzo successivo. Auguri.

Quando si smarcò Pier Ferdinando Casini, quattro anni fa, in occasione di un appoggio al governo Prodi sull'Afghanistan, gli auspici non erano stati diversi. Titolo Ansa: «Berlusconi: strada Casini non paga, sondaggi Udc a picco». Il Giornale berlusconiano sparò in prima pagina: «Ecco quanti elettori perde l'Udc che vota Prodi». Titolo di catenaccio: «Sondaggio per il Giornale: solo 2 su 10 con il leader. E se il partito esce dalla Cdl il 45% non lo voterà più». Compiuto lo strappo definitivo nei primi mesi del 2008, Sua Emittenza se la prendeva con i sondaggisti a suo avviso succubi di Walter Veltroni: «Secondo loro l'Udc è al 6%, mentre per i nostri è al 3,8%, è un modo scorretto di portare avanti l'informazione elettorale». Casini sorride al ricordo: «Ogni giorno ne diceva una: che eravamo sotto l'1%, che avevamo solo lo 0,8%, che potevamo arrivare all'1,4%...». Finì come sappiamo: l'Udc superò di slancio il quorum, arrivò al 5,6% e conquistò quei 36 deputati che oggi tanto farebbero comodo alla destra dopo la scelta di Gianfranco Fini.

Né era andata diversamente, anni prima, con Lamberto Dini, il ministro del Tesoro del primo governo delle destre, reo di aver messo su un governo tecnico inviso («Serve a mascherare che governano comunisti e alleati. È il maggiordomo del Quirinale») al Cavaliere. «Sappiamo in base ai nostri dati, che la lista Dini non raggiungerà il 4%», sentenziò Berlusconi. «Arriverà al 3,3%», certificò quello che era allora il suo sondaggista preferito, Luigi Crespi di Datamedia. Dini passò il quorum e, miracolo, prese 26 seggi.

Il capolavoro del Cavaliere nelle vesti della Pizia, la sacerdotessa che pronunciava gli oracoli in nome di Apollo, resta però la raffica di sondaggi sulla Lega e su Umberto Bossi dopo la rottura che fece cadere il primo governo Berlusconi. «Voi non lo capite», spiegò ai suoi collaboratori più preoccupati, stando alla cronaca di Augusto Minzolini, due giorni prima di essere costretto a passar la mano a Dini, «ma Bossi è un cadavere. Ho fatto un'operazione che porterà il Polo al 60%». «Se la Lega si spaccherà e quella "buona" resterà dentro il Polo», disse la settimana dopo, «il Carroccio di Bossi resterà con uno zoccolo duro del 2%».

E via così, per mesi: «La Lega è scesa sotto il 3%», «Quel traditore di Bossi resterà con pochi intimi», «La Lega rischia di sparire», «La Lega vale l'1,8%», «La Lega ha poco più dell'1%, mi viene da ridere. Gli elettori leghisti non ne vogliono sapere di votare ancora Lega con Bossi leader». «La Lega è sotto 1'1%».

Finì, alle elezioni del 1996, con il massimo successo leghista di tutti i tempi: oltre il 10%. Con un bottino di 3.776.354 voti. Cioè 749.510 più di quanti ne avrebbe avuti alle politiche del trionfale appuntamento del 2008. Per carità: altri tempi, altra situazione, altra Italia. Ma c'è quanto basta perché Gianfranco Fini oggi possa avere qualche speranzella in più: vuoi vedere che le previsioni catastrofiche del Cavaliere portano fortuna?

Gian Antonio Stella

03 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_03/stella-sondaggi-catastrofici-portafortuna_e6d95b04-9ec4-11df-ad0c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #124 inserito:: Agosto 05, 2010, 06:48:15 pm »

27/07/2010

Taglia la montagna

Scritto da: Gian Antonio Stella alle 15:11


Ma importa a qualcuno, della montagna italiana? Della gente che ci vive, ci lavora, ci muore? Pare di no. L' ultima conferma è nella Finanziaria. Non è facile, per uno come il presidente della comunità montana di Asiago Lucio Spagnolo, capire i tagli. Prendeva 237 euro e 50 cent netti al mese: aboliti. Come le indennità di tutti i suoi colleghi. In compenso, in extremis, una manina ha ripristinato i gettoni per consiglieri circoscrizionali. I quali, in città come Palermo, arrivano a prenderne, di euro, 900. Misteri della politica. Misteri delle clientele. Che dovesse essere fatto un repulisti nel mondo delle comunità montane è fuori discussione. L' organismo nato nel 1971 per arginare l' abbandono degli antichi borghi e la crisi progressiva della montagna, che costituisce il 54% del territorio italiano, aveva via via subito una deriva, per ragioni di bottega partitica, che a un certo punto sembrava inarrestabile. La necessità di distribuire sempre nuove poltrone, sempre nuove cariche, sempre nuove prebende, aveva portato le comunità, gonfia gonfia, a diventare 356. Un numero abnorme, con situazioni abnormi. Come quella della Sardegna, arrivata ad avere 25 enti, alcuni dei quali stupefacenti, tipo la «Comunità montana Riviera di Gallura». O quella della Puglia che, nonostante sia la regione più pianeggiante, era riuscita a dar vita a 6 comunità (compresa quella leggendaria delle Murge Tarantine dove spiccava il caso di Palagiano: 39 metri sul mare) e a guadagnare contributi erariali 14 volte più alti, in rapporto agli ettari, di quelli del Piemonte. O ancora quella della Calabria, che nel pieno delle polemiche sui costi della politica si avventurò a inserire tra le comunità montane 19 nuovi comuni tra i quali Bova Marina, Cassano allo Jonio o Monasterace. Tutti e tre sul mare. Insomma, non poteva andare avanti così. Tanto più che per distribuire soldi a pioggia anche ai furbetti, veniva sottratto denaro alla montagna vera. Quella dei paesini abbandonati. Quella dove ogni anno si chiudono scuole per mancanza di alunni. Quella dove le foreste («Anche se in certi casi c' è un risvolto paradossalmente positivo visti i guasti idrogeologici causati dalla distruzione insensata dei boschi», spiega il professor Marco Borghetti) si sono divorate negli ultimi 20 anni secondo i parametri Fao un milione e mezzo di ettari di terreno. Insomma: bisognava buttare via l' acqua sporca proprio per salvare il bambino. È stato fatto il contrario. Il guaio è che il Palazzo, incapace di eliminare le province (Margaret Thatcher le 45 Contee metropolitane britanniche le eliminò nel 1985 tutte in un colpo solo) e metter ordine dove i tagli avrebbero comportato dolorose emorragie di consenso elettorale, si è a mano a mano convinto che quello poteva essere il boccone da offrire alla plebe arrabbiata per placare le sue ire: le comunità montane. Non solo quelle ridicole e indecenti: tutte. Anche quelle che funzionavano. Un esempio? Quella in Val Sabbia. La quale, come abbiamo già spiegato, ha allestito un' anagrafe e un ufficio Ici unici per tutti i suoi 25 comuni. Li ha messi tutti in rete. Stipendia un paio di funzionari-jolly che girano di municipio in municipio perché i più piccoli non possono permettersi un segretario comunale. Tiene in ordine le strade. Ha elaborato i piani regolatori di ciascuno. Ha dimostrato come l' unione può far la forza dando l' appalto per il gas solo a chi si impegnava a portare le condutture anche nelle contrade. E così via. Un altro? Quella dell' Altopiano di Asiago, la terra dei mitici «Sieben alten Komoinen» vicentini, i «Sette antichi Comuni fratelli cari» le cui regole per i boschi e i pascoli sono in vigore dal IV secolo d.C. Uno straordinario esempio di democrazia dal basso. Dove la comunità montana (con 9 persone, che oltre a fare tutti progetti hanno messo su anche lo sportello unico per le imprese) gestisce 470 chilometri quadrati (sette volte San Marino) di prati e foreste, otto comuni per un totale di 60 frazioni, 392 chilometri di strade, 86 malghe da alpeggio (il più grande bacino europeo) e l' immenso patrimonio storico della Grande Guerra, compresa la zona sacra dell' Ortigara. Un lavoro essenziale. Tanto più in anni in cui, via via che la faticosissima agricoltura di montagna viene abbandonata, i boschi stanno divorandosi il 6% l' anno di pascoli ed alpeggi. Col risultato che già 10.260 ettari su 16.200 del comune di Asiago sono ormai coperti dagli alberi (soprattutto dall' infestante pino mugo) anche là dove i nostri nonni si erano spaccati la schiena, estirpando radici e cavando pietre, per strappare alla terra fazzoletti di terra coltivabile. Ma davvero il risanamento statale imponeva l' abolizione dello stipendio del presidente, che avendo già la paga da maestro (mica da super-manager: da maestro elementare) guadagnava 2.850 netti l' anno cioè quei 237 euro e 50 cent netti al mese di cui dicevamo, nonostante abbia contato l' anno scorso 379 appuntamenti in giro per cantieri, uffici pubblici, riunioni con gli assessori provinciali e regionali senza manco avere il cellulare pagato? Davvero il riordino delle pubbliche casse esigeva l' amputazione della busta paga della sua vice, pari a 118 euro e 75 centesimi netti mensili? Dura da credere. Tanto più che contemporaneamente, di deroga in deroga, sono rientrati, di fatto, tutta una serie di altri tagli. Dal taglio «vero» all' indennità dei parlamentari a quello, denunciato da Tito Boeri, ai gettoni di presenza dei consiglieri circoscrizionali. Quelli finiti nella bufera quando saltò fuori che a Messina si erano presentati 1755 candidati obbligando a stampare una scheda elettorale larga un metro e alta 48,3 centimetri. O quando emerse che a Palermo ognuno dei 16 «deputatini» dei consigli di quartiere guadagnava intorno ai 1200 euro netti e un presidente prendeva 4750 euro mensili e aveva un' auto blu con l' autista. Dovevano saltare tutti, i consigli di circoscrizione. Finché non è stato infilato un emendamento che salvava quelli delle città metropolitane. Di fatto quasi tutti. Di più, venivano salvati (sia pure ridotti: per ora...) anche i gettoni di presenza. Una disparità inaccettabile, secondo il presidente nazionale dell' Uncem (l' unione delle comunità) Enrico Borghi. Che presa carta e penna ha scritto a Napolitano denunciando come l' abolizione di ogni indennità fosse «una misura che nulla incide sotto il profilo economico per le finanze statali ma pesantemente incide sul morale e sulla dignità di tantissimi amministratori locali onesti, competenti e appassionati che sono disseminati sui territori montani della nostra Italia». Parole giuste. Tanto più che le comunità montane, grazie alla scrematura delle regioni, erano già state al centro dell' unico vero taglio visto in questi anni: da 356 a 180 enti. Più una rasoiata del 66% alle poltrone. Più un' altra del 50% nella Finanziaria 2008 agli stipendi. Più il prosciugamento totale delle risorse, scese dall' ultima Finanziaria di Prodi all' ultima di Tremonti da 180 milioni di euro a 0: zero. Le Regioni pensano che quelle rimaste siano indispensabili? Paghino loro. Con che soldi? Si arrangino: il Fondo nazionale per la montagna (dato alle singole regioni) è pari per il 2010 a 36 milioni di euro: un settimo del buco annuale della Tirrenia. Nonostante la montagna italiana produca il 16,7% del Pil nazionale (203 miliardi) e ospiti un quinto della popolazione. Vogliamo dirlo? La verità è che la montagna e i montanari, le loro asprezze, i loro silenzi, i loro boschi, i loro valori, sono fuori moda. Sempre più estranei a una società caciarona, edonista, teledipendente, discotecara, grandefratellesca. Dove tutto deve essere «facile». Tutto apparenza. Tutto consumato in fretta. Tutto messo a nudo sulle spiagge. Sulle barche. Sulle copertine dei giornali popolari. Alcide De Gasperi, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Karol Wojtyla andavano in vacanza in montagna. Tra le vette. L' avete mai vista, una foto di Silvio Berlusconi in montagna? E di Gianfranco Fini? E di tutti gli altri, salvo eccezioni? Oddio, il maglione di lana!!!

Pubblicato il 27.07.10 15:11
26/07/2010

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« Risposta #125 inserito:: Agosto 07, 2010, 12:08:32 am »

Politica e pallottoliere

La sfida tra neo rivali e la moltiplicazione dei «quattro gatti»

Passato e presente, rispunta l'arma della minimizzazione del nemico



Trentatré deputati, dieci senatori più, a sorpresa, Chiara Moroni. Quanto basta perché gli amici si diano di gomito dicendo che anche Gianfranco Fini (nella scia di Berlusconi si capisce) un miracolo l'ha fatto: la moltiplicazione dei gatti. Dovevano essere quattro: sono 44. Giusti giusti per intonare irridenti la canzoncina: «Quarantaquattro gatti, / in fila per sei col resto di due, / si unirono compatti...». Unica differenza: quelli erano compatti in cerca di un padrone, questi dicono di fuggirne. Sono anni che la politica italiana, come ricorda del resto la celebre rubrica di Giampaolo Pansa, è un bestiario. «Vedo il cavallo, non la cavallinità», spiegava Mino Martinazzoli a Ciriaco de Mita. «Se voglio vedere il cavallo devo prima capire cos'è la cavallinità», rispondeva quello. «Il signor Berlusconi è un serpente che avvelena la democrazia», sibilava Alessandra Mussolini prima di far la pace. «Musso da noi vuol dire somaro. Vai a studiarti Gramsci, somaraccio! Ne ho abbastanza del raglio degli stalinisti ultranazionalisti. Hi ho, hi ho...», gridava Umberto Bossi. «Di Pietro è una troia dagli occhi ferrigni», scriveva Giuliano Ferrara.

Per non dire dei continui rimandi a oche, i maiali, pidocchi, anatre, caproni, caimani, tope e vacche. Tantissime vacche. Fino al paragone lanciato da Patrizia D'Addario in un'intervista al Sunday Times, paragone che non si sa se abbia irritato o sotto sotto lusingato il Cavaliere: «Non ho mai dormito tutta la notte. Era instancabile. Un toro». Nessuno, però, nella politica italiana, ha avuto la fortuna dei gatti. Meglio: dei quattro gatti. Citati mille volte, a proposito o a sproposito. Ed ecco l'aennino Riccardo Pedrizzi irridere al Gay Pride: «Quattro gatti che reclamano "diritti". Ma quali sono questi diritti?». Veltroni a quanti lanciavano allarmi sulla manovra fiscale del comune di Roma: «I soliti quattro gatti». La forzista Anna Bertolini contro Romano Prodi alla vigilia della sua seconda vittoria (striminzita) contro Berlusconi: «Il Professore ha fatto splash. E' un leader lesso. Ha anestetizzato perfino i quattro gatti di Piazza del Popolo». Umberto Bossi contro gli organizzatori di una grande manifestazione avversa alla secessione: «I padani sono 30 milioni. In piazza, ieri, c'erano 500 mila persone, in gran parte venute da fuori. Era una manifestazione "Triculore", ma rispetto ai processi storici, mi spiace, 500 mila persone sono quattro gatti». Irene Pivetti, appena espulsa dalla Lega, contro lo stesso Bossi che aveva radunato i suoi in piazza Duomo: «Sono stata lì a volantinare e ho visto che sono quattro gatti, forse meno». Fino all'invettiva del rifondarolo Francesco Caruso: «Ci sono 4 milioni di consumatori di marijuana in Italia: i quattro gatti che Fini minaccia di mobilitare per difendere la sua legge non fanno paura a nessuno».

E come dimenticare i maitres-à-penser che hanno sdottoreggiato sul tema? Erminio "Obelix" Boso si avventurò in una comparazione "feliniana": «Siamo una massa enorme anche se come al solito diranno che eravamo quattro gatti. Ma io a Prodi mando a dire che i gatti appartengono alla stessa famiglia delle tigri, e ci sono le tigri delle nevi, animali che non attaccano mai di spalle ma sempre di fronte». Ignazio La Russa, sferzante col leghista Luigi Peruzzotti che aveva osato definire "una manifestazione di quattro gatti" un corteo di Alleanza nazionale, si avvitò in un delirio: «I quattro gatti a Milano saranno sufficienti a mangiare i due ratti che sfileranno sul Po, lui e Bossi. Due ratti con topolini al seguito, non voglio dire zoccole, che sono le mogli dei topi». Testuale.

La stessa rivendicazione di orgoglio con cui i finiani ribaltano oggi le battute di questi mesi sulla loro consistenza (una per tutte, lo sfogo di Berlusconi rilanciato dal "Giornale" a fine aprile: «Ho altri problemi che perdere tempo per quattro gatti e la loro futura corrente»), ha dei precedenti. Un esempio? Il libro dato alle stampe da Simonetta Faverio in risposta a quanti avevano ironizzato sulla Tre Giorni leghista del settembre 1996. Titolo: "Quattro gatti sul Po / Piccolo almanacco della nascita di una nazione tra bugie di regime e passione popolare".

Chi più ha giocato sul tema, toccando vette irraggiungibili, è stato però Francesco Cossiga. Ai tempi in cui in polemica con D'Alema, che due anni prima aveva aiutato a diventare presidente del Consiglio, fondò un suo gruppo spostandosi verso destra: «Dicono che siamo quattro gatti e allora ho deciso di fondare un nuovo partito: si chiamerà "i quattro gatti". Il suo slogan sarà "miao"». Era solo l'inizio di uno stralunato tormentone: «Siamo pochi? Con questa ventina di sorci che ci sono in giro, quattro gatti bastano e avanzano». «Il simbolo? Un campo verde con sopra uno scudo inglese sul quale campeggeranno quattro gatti d'oro allineati da destra a sinistra. I felini avranno poi la linguetta e gli occhietti rossi e la coda all' insù durante la campagna elettorale».

E quando Sebastiano Messina lo prese in giro sul simbolo personale («uno scudo inglese inquadrato, con un gatto mammone nel primo e nel quarto spazio, e il simbolo dei quattro gatti nei restanti due quarti») dicendo che l'aveva scelto «per l'alzabandiera che avrà luogo prima di ogni suo comizio», mandò una lettera a Repubblica per precisare: «Non vi saranno alzabandiera, perché dopo cinquant'anni ne sono stufo. Non ci saranno né spadini, né divise perché non abbiamo la nostalgia né dei balilla, né - come per Mussi - dei giovani "pionieri". Per quanto riguarda il motto, o grido di guerra, esso è già stato ideato e impreziosirà lo stemma dei "Quattro Gatti" e anche quello del Gatto Mammone, scritto con carattere gotico inglese: "Miaoooo!"».

Non bastasse, in un'intervista a Claudio Sabelli Fioretti rivelò di avere fatto fare delle cravatte (una l'indossava) con quattro gatti ricamati a mano. Esaurita la spinta propulsiva del partitino, mandò a tutti gli amici una lettera: «Per ricordo di quest'avventura, invio a ciascuno di voi un crest dei "Quattro Gatti", perché rimanga per voi ricordo del nostro esaurito sodalizio politico ma anche spero pegno della nostra personale amicizia: questo mentre tra le pianure e le colline del fantastico mondo di Gattolandia, in un triste giorno per i risultati ma gioioso per i ricordi! pomeriggio di fine primavera, dalla torre principale di Katzenschloss (il Castello dei Gatti) è ammainato con mano tremula, da alcuni scudieri che mi hanno seguito nell'avventura solo sul piano personale, il glorioso ma per niente vittorioso stendardo del Gatto Mammone!». Il tocco finale, meraviglioso, lo diede durante una visita al mercato romano di Centocelle. Dove da buon micione, per far felice una pescivendola che chiedeva un autografo, prese un pennarello e glielo firmò su una sogliola.

Gian Antonio Stella
06 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #126 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:25:57 pm »

Impeachment e dintorni

Cossiga e i sassolini, il ribaltone del '94

Quando il capo dello Stato è assediato

Napolitano giudicò «inammissibili» le sortite cossighiane, ma si dissociò dalla messa in stato d'accusa del Pds


Chissà se Napolitano, prima di dettare quelle righe durissime di sfida sull'impeachment, si è visto balenare davanti agli occhi la Grande Meretrice Circassa.

I lettori, nel ribollire del calderone politico italiano, magari non ricorderanno. Ma in uno dei momenti di massima polemica delle destre contro Oscar Luigi Scalfaro, spuntò fuori anche quell'immagine folgorante e misteriosa.

A parlarne fu l'ex ministro della giustizia Filippo Mancuso. Il quale, dopo essersi imposto all'attenzione dei cultori di leccornie linguistiche con parole come «cingomma» (chewing-gum), «latamente» ed «ercolinismo euforico», ebbe l'ispirazione per scaraventare contro l'allora capo dello Stato la seguente invettiva: «È un infame, un presidente che si è prostituito in casa e oggi si prostituisce sul marciapiede. E non è neppure la Grande Meretrice Circassa ma una piccola sgualdrina di provincia». Chi era 'sta Circassa? Qualcuno pensò ad Aziyadè, che fece impazzire d'amore lo scrittore Pierre Loti. Altri immaginarono un riferimento alle odalische di Hayez o Matisse.
O a qualche passaggio biblico. Su una cosa furono tutti d'accordo: era il punto di massima asprezza raggiunto nel bombardamento per spingere Scalfaro a togliersi di torno.

Quello dell'impeachment, dell'esautorazione, della decapitazione (metaforica, s'intende), in realtà, è un tema ricorrente. E sono stati diversi gli inquilini del Quirinale via via costretti a porsi la domanda che si è posto Napolitano. Prima il fondo di Vittorio Feltri dal titolo «Lettera al presidente che preferisce i ribaltoni al popolo». Poi la sparata del deputato pdl Maurizio Bianconi: «Finge di rispettare la Carta, ma la tradisce». Quindi le parole di Angelino Alfano che suonavano come un binario dettato al Colle: «Ogni programma per un governo o la formazione di un governo che prevedesse che chi ha vinto le elezioni stia all'opposizione, sarebbe una violazione dell'articolo 1 della Costituzione». Sassolini... Ma sufficienti a imporre la domanda: meglio lasciar cadere o reagire all'istante, prima che i sassolini possano, chissà, diventare una valanga?

Anni dopo, riabilitato da una parte dello schieramento politico, Giovanni Leone se lo chiedeva ancora, se non avesse sbagliato nel lasciarsi cingere d'assedio dalle chiacchiere intorno alla signora Vittoria e le sue amicizie con personaggi ambigui e la vivacità dei «tre monelli», quei figlioli che finivano sui giornali popolari con certe belle bionde nei locali notturni o sul motoscafo «Ma-Pa-Già». Quando si accorse che il laccio stava chiudendosi, con quei sospetti che lo abbinavano nel giallo delle tangenti Lockheed al misterioso «Antelope Cobbler» (un nomignolo senza senso, ma che storpiato in «Antelope Gobbler» diventava «ingoiatore di antilopi») era troppo tardi. Certo, neppure lui (come lo stesso Nixon, che preferì gettare la spugna prima di finire formalmente alla sbarra) fu destituito dopo la conclusione di una procedura di impeachment. Ma Enrico Berlinguer e Benigno Zaccagnini non gli lasciarono scelta.

Lo stesso Francesco Cossiga avrebbe avuto modo di provare cosa significhi un accerchiamento progressivo. Cominciò con delle battute. Irritandosi perché non le capivano: «Appena torno a Roma mi faccio fare un apparecchio con delle luci bianca, rossa, gialla, verde e blu. Così quando parlo accendo e dico: sto parlando in vena di ironia, sto parlando in termini paradossali, non sto parlando affatto...». Finì in una progressiva spirale di equivoci, risse, battibecchi, incomprensioni, picconate (un deputato del Msi, Carlo Tassi chiese l'autorizzazione a organizzare una colletta per regalargli un Caterpillar per «sostituire il pur valoroso e artigianale piccone») e accuse sempre più pesanti. Finché saltarono tutti i paletti del garbo istituzionale. «Mi pare un po' scemo», scrisse sul manifesto Luigi Pintor. E lui: «Con la volgarità del suo articolo e con le sue parole Pintor ha offeso la dignità e la correttezza dei sardi. Per causa sua, mi vergogno prima come sardo e poi come capo dello Stato». «Come devo chiamarla, Presidente? Perché lei si dimette continuamente?» gli chiese Piero Chiambretti. Rispose: «No, non mi dimetto. Minaccio. Mi deve chiamare Presidente Incombente. Anzi mi chiami semplicemente Incombente». Finì, dopo l'ennesimo scontro sul Csm e la magistratura, con la richiesta pds di impeachment per «attentato alla Costituzione e alto tradimento». Richiesta dalla quale si dissociò, in parte, proprio Napolitano. D'accordo nel giudicare le sortite cossighiane come «comportamenti inammissibili». Ma non sulla messa in stato d'accusa: meglio le dimissioni. Un distinguo che lo stesso don «Cecio da Chiaramonti», come ama vezzosamente definirsi, non apprezzò più di tanto. Come dimostrano le continue battutine su varie posizioni dell'attuale capo lo Stato: «Se l'avessi detto io avrebbero subito chiesto al mio impeachment...».

Tra i più duri nel chiedere la rimozione dell'allora presidente, che avrebbe sbattuto la porta due mesi prima della scadenza naturale, c'era un altro futuro inquilino del Colle, Scalfaro: «L'impeachment è un fatto chirurgico, ma non esiste solo questo tipo di intervento. Certo, se la medicina non basta può esser utile la chirurgia». Di più: «Quando Cossiga andrà a casa sarà sempre tardi». Una sentenza che, per quegli strani incroci della politica nostrana, sarebbe stata presto rovesciata addosso lui.

Sulle prime, il più brutale nei suoi confronti era Umberto Bossi, che con la nota sobrietà istituzionale disse: «Con una scoreggia gli faccio drizzare i capelli in testa». Poi, buttato giù il primo governo berlusconiano, il Senatur cambiò idea: «Scalfaro è uno dei prodotti migliori del vecchio sistema, uno col rispetto per le regole nel Dna. Ringrazio Dio di aver messo un uomo di tale fatta sul nostro cammino». L'esatto contrario di quanto pensava il Cavaliere. Che dopo aver benedetto l'atteggiamento scalfariano nella campagna elettorale del 1994 come «assolutamente al di sopra delle parti e ineccepibile», non gli perdonò mai di non aver sciolto le camere «dopo il ribaltone quando la Lega era scesa al 2,5%».

 Andò avanti per anni, il tormentone su Scalfaro «garante da operetta» da destituire in quanto «coautore del golpe bianco». Anni. Con pubbliche raccolte di firme. E lui per anni fece spallucce: «Il presidente è stato eletto con una Costituzione che prevede un mandato di 7 anni e se ne andrà solo con una chiamata di Domineddio». Chiamata che, com'è noto, non arrivò.


Gian Antonio Stella

17 agosto 2010
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« Risposta #127 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:25:24 am »

I colpi alla Dc e agli altri

Ceccio da Chiaramonti l’eterno provocatore


«Te la diamo vinta, basta che stai zitto», titolò a un certo punto Cuore, dopo la milionesima puntata del tormentone esternatorio.
Ora che se n’è andato, però, saranno probabilmente in tanti a sentire, in certi momenti di passaggio, la mancanza della voce di «Ceccio da Chiaramonti», come Francesco Cossiga con vezzo autoironico si era ribattezzato rivendicando l’amata «sarditudine».
La voce più imprevedibile della politica italiana. La più corrosiva. La più irridente.

«È come il tempo nel Maine: prima o poi cambia», lo immortalò un dì Arturo Parisi, che lo conosceva da quando faceva il chierichetto in quella chiesa sassarese di San Giuseppe che ha avuto tra i parrocchiani Antonio Segni e suo figlio Mario più il giovane Cossiga più tutti i suoi cugini Berlinguer (da Enrico a Giovanni, da Sergio a Luigi) più Luigi Manconi. E la sua svolta, da presidente-notaio ossequioso delle liturgie a pirotecnico picconatore del mondo che lo aveva eletto a larghissima maggioranza («i partiti si erano illusi di aver spedito al Quirinale un uomo scialbo, di seconda fila, disciplinato e obbediente») fu davvero un uragano.

Cominciò dando battaglia al giudice Felice Casson fino a proclamare la fedeltà a Gladio: «Sono uno di quei ragazzi che il 18 aprile faceva parte di una formazione armata, a Sassari, come in tante altre città d'Italia. Giovani dicì armati dall'arma dei carabinieri, per difendere le sedi dei partiti e noi stessi nel caso i comunisti, perdute le elezioni, avessero tentato un colpo di Stato ». Furente con la «sua» Dc e soprattutto con Giulio Andreotti dai quali si sentiva sempre più isolato, allargò il tiro. E prese a mettere in discussione tutto e tutti. Davanti allo sconcerto, sulle prime, ci rise su: «Qualcuno dice che sono un po’ matto. Ma dalla diagnosi di schizofrenia si è passati a quella di nevrosi e ormai siamo vicini a un leggero stato d'ansia. Alla fine del mio mandato sarò completamente sano ».

Feroce nelle battute sugli altri, si sentiva libero di sorridere anche di se stesso. Fino a dire a Claudio Sabelli Fioretti: «Sono stato il peggior Presidente nella storia. Sono quello che ha combinato di meno. Ho causato un sacco di guai. Sono stato il peggiore e il più inutile. Sono stato un velleitario. Sono stato dannoso. Ho fatto venir meno la funzione di una delle grandi istituzioni dello Stato. La mia presidenza era priva di qualunque autorità reale». Lo pensava davvero? Mah... È lecito dubitarne. Ogni tanto, nelle sue sventagliate, sbagliava mira. E magari poi si scusava. Come fece con l'ex procuratore di Napoli: «Nella vita accade talvolta di sbagliarsi, anche gravemente. Occorre allora il coraggio di riconoscerlo. Ed è quello che oggi faccio con Agostino Cordova con il quale sono stato in grave, anche se parziale dissenso su alcune sue iniziative giudiziarie quando era procuratore di Palmi (..)

Gli chiedo pubblicamente scusa per giudizi forse grossolani e affrettati e atti che non volevano essere offensivi da me compiuti nei suoi confronti ». Quali atti? Una serie di regali. Ai quali il magistrato aveva reagito con una denuncia. Dove spiegava, come riassunse l'Ansa, «d'avere ricevuto in dono un triciclo, una papera-salvagente e "Supercluedo" un gioco da piccoli detective, accompagnati dall'invito di prendersi una vacanza». C'era tutto Cossiga, nei regali che faceva. Alla senatrice Tana De Zulueta, che gli pareva naif, consegnò «Alice nel paese delle meraviglie». A Massimo D'Alema inviò un bambolotto di zucchero: «Siccome Berlusconi dice che mangia i bambini...»
A Franco Mazzola, un fedelissimo accusato di tradimento, fece recapitare 30 denari di cioccolato. A Cesare Salvi, reo d'aver chiesto l'abolizione dei senatori a vita, mandò un pacco di pannoloni perché «la smettesse di avere gli incubi notturni e di fare la pipì a letto».

Passata la metà della vita a controllarsi fino a raggiungere tutti i traguardi possibili, trascorse l'altra metà infischiandosene di ogni liturgia. Anzi, più scandalizzava e più si divertiva. Come quando, alle prime manifestazioni dell'Onda studentesca, consigliò a Roberto Maroni di «infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città». Dopo di che? «Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri». Nel senso che... «Nel senso che le forze dell'ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale». Anche i docenti? «Soprattutto i docenti». Le avesse dette venti anni fa, quelle cose, sarebbe venuto giù il soffitto. Adesso, alzarono un po’ tutti le spalle: «Uffa, Cossiga! ».

Marcello Dell'Utri ne diede una definizione folgorante: «Ormai è come il nonno di casa: fai finta di niente anche se esce in mutande ». Lasciato il Quirinale a 64 anni ancora da compiere, tre lustri prima dell'età in cui comunemente gli altri presidenti vengono eletti, confidava agli amici di annoiarsi, in quella sorta di pensione anticipata di lusso.

Si era dunque ritagliato uno spazio eccentrico. Dal quale si divertiva a lasciar cadere dentro la politica italiana tutte le provocazioni possibili (spesso dense di verità che nessun altro poteva permettersi di confessare) come certi monelli lanciano petardi in mezzo alle cerimonie solenni. Implacabile «impiccababbu» sugli avversari (a Marcello Pera che l'aveva accusato di rubare parlamentari come i suoi avi rubavano pecore, rispose ricordando che «che nella tradizione italiana i nomi inanimati sono sempre stati assegnati a chi aveva incerte origini. Lascio dunque immaginare al presidente Pera quale fosse il mestiere delle sue ave») aveva il merito di non risparmiarsi le auto-punzecchiature. Neppure nella veste di Externator: «In realtà non esterno: comunico. Parlo e qualche volta straparlo. Eccedo».

Dotato di un'ottima opinione di se stesso, per dirla con un eufemismo, si prendeva il lusso di confidare con leggerezza gli errori più gravi: «In nome della carità e della solidarietà ho sbagliato. Credevo che la politica economica dello stato dovesse ricalcare le linee della San Vincenzo. Abbiamo scambiato la solidarietà con lo spreco. La solidarietà con l'inefficienza. Pensavamo che i soldi non sarebbero finiti mai». Forte di questa disponibilità all'autocritica, si prendeva il lusso parallelo di non prendere sul serio nessuno: «Ho una grande stima per i comici. Sa di chi ho paura io? Di quelli che, credendosi seri, fanno ridere». Lasciò dunque agli archivi una serie di battute omicide per il puro gusto di stupire. Su Paolo Cirino Pomicino: «Nell'Udr non può far correnti. Al massimo correnti d'aria». Su Romano Prodi: «È la rivincita di Dossetti su De Gasperi». Su Enrico La Loggia: «Non è mia abitudine bastonare i servi al posto del padrone». Su Giuliano Amato: «Ha la vocazione alla ciliegina. Gli altri fanno le torte e lui le completa». Su Rocco Buttiglione: «Scusate, sapete dirmi a quest' ora come la pensa Buttiglione?». Su Gianni Letta: «È come padre Giuseppe, l'eminenza grigia di Richelieu. Ma lui è l'eminenza azzurrina». Ma soprattutto su Silvio Berlusconi. Una per tutte: «Pa-Peron». A rendergli l'ultimo saluto, potete scommetterci, andranno tutti. Anche quelli che non lo sopportavano.

Quanto all'epigramma, uno lo suggerì lui stesso. Beffardo: «Per una ricostruzione della mia vita vedrei bene dialoghi in stile "A cena con il diavolo"».

Gian Antonio Stella

18 agosto 2010

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« Risposta #128 inserito:: Agosto 30, 2010, 04:50:27 pm »

LA VISITA A ROMA / 2

I capricci di Sua Maestà da Tripoli

Compiaciuto tra i suoi 30 cavalli berberi più belli di quelli di Ben Hur, le amazzoni di scorta con rimmel antisommossa e le sue 500 ninfette italiane prese a nolo, «Papi» Muammar benedice l'amico Silvio e tutto il popolo italiano: questa sì è un'accoglienza da Re! E chissà che anche stavolta, tra le seguaci conquistate dalla sua oratoria e da un pacco di fruscianti bigliettoni, non spunti fuori qualche convertita all'Islam...
Diciamo la verità: era cominciata male, tra Gheddafi e gli italiani. Prima il fastidio delle polemiche sulla cacciata dei nostri connazionali buttati fuori dopo la rivoluzione. Poi lo strascico del rancore per la nostra occupazione coloniale che gli aveva fatto istituire la Giornata della Vendetta. Poi i seccanti sospetti su un suo coinvolgimento in certi episodi terroristici. Poi i missili contro Lampedusa e la rivendicazione della sovranità sulle Tremiti. Per non dire di certe parole di Oriana Fallaci: «Oltre ad essere un tiranno è un gran villanzone». Peggio: «È clinicamente stupido». Peggio ancora: «È senz'altro il più cretino di tutti». Screanzata. Più ancora di Indro Montanelli, che lo aveva bollato come «un sinistro pagliaccio». Più di Reagan, che lo chiamava: «Il cane di Tripoli».
Vabbè, pietra sopra. Tutto cancellato dal rapporto con l'amico Silvio. Lui, Muammar, l'aveva detto già nel lontano 1994: «Io e Berlusconi siamo fatti per intenderci, in quanto rivoluzionari. Prevedo per lui grandi successi nella gestione dello Stato, così com'è stato nella gestione del Milan. La sua personalità è apparsa all'orizzonte cambiando tutto da cima a fondo». Certo, il Cavaliere non ha accettato tutti i suoi consigli su come risolvere le grane parlamentariste. L'anno scorso in Campidoglio, ad esempio, aveva detto: «Il partitismo è un aborto della democrazia. Se me lo chiedesse il popolo italiano gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché il popolo possa prendere il loro posto. Non ci sarebbero più elezioni e si verificherebbe l'unità di tutti gli italiani. Basta destra e sinistra. Il popolo italiano eserciterebbe il potere direttamente, senza rappresentanti». Quindi, all'università «La Sapienza», aveva spiegato che questa è l'essenza della democrazia: «Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie». Aristotelico.
Allora, alle «letterine» affittate perché ascoltassero a ottanta euro l'una il sermone maomettano, aveva rivelato: «Sapete che al posto di Gesù crocifissero un suo sosia?». Questa volta, tra i sorridenti inchini e gli ossequiosi salamelecchi dei nostri uomini di governo solitamente ostili, diciamo così, a certi discorsi, è andato oltre: «L'Islam dovrebbe diventare la religione di tutta l'Europa». Lo dicesse l'imam di una sgangherata moschea di periferia sarebbe scaraventato fuori tra strilli di indignazione. Lo dice lui? Spallucce. È la politica, bellezza.
Così è fatto, «Papi» Muammar: adora essere circondato da cammelli, cavalli e puledre. Il tutto con una sobrietà che in quattro decenni di potere è diventata leggendaria. Oddio, diciamo la verità: il Colonnello si muove nel solco di una storia antica. È un secolo che gli italiani dalla Libia si aspettano cose spropositate. Basti ricordare come, per eccitare la fantasia dei lettori prima della conquista, l'inviato de «La Stampa» Giuseppe Bevione scriveva che laggiù c'erano «ulivi più colossali che le querce» e che l'erba medica poteva «essere tagliata 12 volte all'anno» e che i poponi crescevano «a grandezze incredibili, a venti e trenta chili per frutto». Va da sé che, con questi poponi alle spalle, il re beduino della Jamahiriyya non poteva essere da meno.
Il suo piccolo Paese, disse un giorno Igor Man, «gli è sempre andato stretto». Detto fatto, si è sempre mosso alla grande. Come quando si presentò al vertice dell'Unione africana ad Addis Abeba facendosi precedere da 15 lussuosissime auto blu personali fatte sbarcare da aerei giganteschi e scandalizzò tutti con due valigie («Un regalo del nostro leader ai capi di Stato africani», spiegarono i diplomatici) piene d'oro zecchino. O quando, sceso a Roma con la solita corte di 300 attaché, pretese che gli montassero una tenda di 60 metri quadrati a Villa Pamphilii con 12 poltrone dai piedi dorati, lampade, divanetti, tavoli e «grandi incensieri per profumar l'ambiente». O quando inaugurò un pellegrinaggio attraverso Swaziland, Mozambico, Malawi, Zimbabwe e Kenia presentandosi in Sudafrica con due Boeing 707 in configurazione Vip, un jet più piccolo d'appoggio, un gigantesco Antonov russo con a bordo due autobus di lusso da 46 posti, sessanta auto blindate e 400 guardie del corpo armate fino ai denti di kalashnikov. Più, piccolo dettaglio regal-pastorale, un container frigorifero di agnelli macellati.
Potevano i figli di tanto padre non seguirne l'esempio? No. Ed ecco Hannibal e Moutassem sgommare in Costa Smeralda al volante di una Ferrari a testa fino a far saltare i nervi del giardiniere della spettacolare villa presa in affitto, furibondo per la quotidiana raccolta di cocci delle bottiglie di champagne millesimato buttate dalla finestra. Ecco il conto preteso per via giudiziaria (la famiglia si era dimenticata di pagare) dall'hotel Excelsior di Rapallo per una vacanza di Al Saadi, detto l'Ingegnere: 392 mila euro per sei settimane. Ecco lo stesso Al Saadi, capricciosamente deciso a «giocare al calciatore professionista», affittare Villa Miotti a Tricesimo: 13 mila euro al mese. Spiccioli per un uomo che, volendo farsi insegnare qualche trucco sul palleggio, raccontò Emanuela Audisio su Repubblica, ingaggiò per gli allenamenti un trainer personale esclusivo: Diego Armando Maradona. Costo: 5 milioni di dollari.
Anche queste cose però, diciamo la verità, finiscono per annoiare. Ed è così che il despota tripolino, un bel giorno, ha deciso di commissionare alla Tesco Ts di Torino un'auto disegnata da lui medesimo. Possibile? Parola dei costruttori dei due prototipi: «Durante la realizzazione di questa macchina, l'équipe tecnica di Tesco Ts ha seguito alla lettera le idee del designer, il Leader, per produrre la vettura perfetta secondo la sua visione». E come poteva essere la vettura perfetta, per sua maestà Muammar? Rifiniture in marmo. Un capriccio è un capriccio. Se no che gusto c'è ad essere il leader di una Jamahiriyya Popolare e Socialista?

GIAN ANTONIO STELLA

30 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_30/20100830NAZ38_17_b5449c1a-b400-11df-913c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Settembre 14, 2010, 08:05:07 am »

I partiti e i giovanissimi

L'uso politico dei bambini e la nuova dottrina di Adro

Dai manifesti di Pci e Dc ai piccoli finiani in marcia


Dice la Padania: coinvolgere nella politica «innocenti e disinformati bambini» è «meschino e spregevole». Dice Berlusconi: «È inaccettabile strumentalizzare i bambini». Dice la Gelmini: «È vergognoso che si strumentalizzino i bambini». Ma se la pensano così (a ragione) per i piccoli portati nelle piazze «rosse», come possono tacere su quella scuola di Adro marchiata di simboli leghisti? Sia chiaro, quel sindaco del Carroccio non ha scoperto niente di nuovo. L'indottrinamento dei fanciulli è da sempre una fissa di chi pensa di avere la verità in tasca. Lo hanno fatto i comunisti coi giovani pionieri devoti a Peppone Stalin che correvano per casa annunciando la rivoluzione: «Budet revolucija!». Lo hanno fatto i fascisti coi balilla che a scuola studiavano che «gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c'è Credere, Obbedire, Combattere». Lo hanno fatto i nazisti partendo da quanto aveva scritto Hitler nel «Mein Kampf»: «Lo Stato razzista deve considerare il bambino come il bene più prezioso della nazione».

Per carità, ogni paragone tra la scuola di Adro e quelle in cui gli scolari intonavano «Heil Hitler! Sia lodato Gesù Cristo in eterno, amen», sarebbe una forzatura esagerata. La tragedia, è noto, si ripete spesso in farsa. Ma certo l'iniziativa di Oscar Lancini, il sindaco bossiano che ha tappezzato col marchio leghista del sole delle Alpi tutta la nuova scuola elementare, dai tavoli ai banchi, dai cestini dell'immondizia alle finestre, è una cosa sgradevolmente nuova perfino nel tormentone dell'uso e dell' abuso dei bambini nelle faccende della politica nostrana. Non c'è mai stato molto rispetto per i minori, dalle nostre parti. Basti ricordare i manifesti del Pci del 1946 con due fratellini che in mezzo a un campo di grano, mentre sventolano una bandiera rossa e una tricolore, invitavano a votare contro la monarchia. O i manifesti della DC. La bimba terrorizzata davanti ai cingoli d'un carro armato marchiato con falce martello. La mamma che protegge i figlioletti: «Madre! Salve i tuoi figli dal bolscevismo!». Il piccolo democristiano che esulta: «Mamma e papà votano per me». Lo scolaretto che tiene un comizio ai compagnucci: «E se papà e mamma non andranno a votare, noi faremo la pipì a letto!»

Né si può dire che le cose siano cambiate col passare degli anni. Lo ricorda una foto di bambini che sfilano per le vie di Milano nel ‘69 col fazzoletto rosso al collo e il “libretto rosso” in mano tra uno sventolio di bandiere dei marxisti leninisti. O l'immagine di una femminista «'n zacco alternativa» che nel 1975 tira a una manifestazione per l'aborto un carrettino dove due bimbe mostrano un cartello: «È più bello nascere se si è desiderati». O ancora la poesia letta in apertura di un congresso radicale da una «tesserata di quattro anni», Altea: «In un bel vaso di porcellana / era rinchiusa una bella cinesina / che danzava una danza americana / con il capitano della Marina. Ciao e buon congresso!» . Per non dire di quel maestro che alla periferia milanese spiegava ai bambini un alfabeto tutto suo (C come Castro, F come fucile, R come rivoluzione…) o delle processioni dei nostalgici alla tomba del Duce a Predappio con figli al seguito con fez e manganellino: «Tu levi la piccola mano, / con viso di luce irradiato. / Tu sei quel bambino italiano, / che il Duce a cavallo, ha incontrato. / Il Duce ti guarda, o innocenza. / Sull'erba, che sfiori, gli appare / la dolce e radiosa semenza…».

Si poteva sperare che cambiasse tutto con la seconda Repubblica? Magari! L'esordio, spettacolare, fu di Maria Pia Dell'Utri il giorno in cui spiegò come mai era nato a casa sua, per iniziativa a suo dire della figlioletta Araba, il primo «Baby club di Forza Italia»: «Mi ha detto: "Mamma, posso essere anch'io presidente di un club di Forza Italia per bambini?" E io: "Ma certo amore, è una splendida idea, chissà come sarà contento papà"». La bimba, spiegò la madre al giornale del quartiere ripreso da Concita de Gregorio, aveva «voluto uno striscione con scritto "Silvio facci sempre vedere i cartoni"» perché «i bambini temevano che se Berlusconi avesse perso le elezioni loro non avrebbero più avuto cartoni animati in tv».

Da allora, ne abbiamo viste, letteralmente, di tutti i colori. Neonati comunisti col pugnetto alzato per «il manifesto». Piccoli finiani (non ancora antiberlusconiani) in marcia contro i leghisti con le magliette che dicevano: «Io sono italiano». Giovanissimi crociati in calzamaglia o con strampalati costumi pseudo-celtici sui palchi dei comizi di Bossi. Devoti chierichetti al «family day». Famigliole felici e avanguardiste arruolate per i manifesti di Forza Nuova. Cuccioli di «black block» o «Tute Bianche» trascinati da babbi e mammine ai cortei alternativi. Tranne il «piccolo kamikaze coi candelottini alla cintura», non ci siamo fatti mancare niente. E ogni volta: scandalo! Da parte di chi, si capisce, stava sull'altro fronte. Indimenticabile un Maurizio Gasparri da antologia: «Trovo sgradevole l'uso dei bambini nelle manifestazioni. È sbagliato strumentalizzare e disinformare i bambini portandoli nei cortei. È una cosa gravissima e chi lo fa è un cattivo genitore». E con chi si fa fotografare al corteo del Family Day del 12 maggio? Con la sua figlioletta. Che porta al collo il badge con nome, cognome e partito di appartenenza: Alleanza Nazionale. Proprio perché questo è un tema che più di altri richiede coerenza, val la pena dunque di ricordare i giudizi della destra sui bambini portati in piazza un paio di anni fa contro Maria Stella Gelmini. «La marcia su Roma dei bambini», titolò scandalizzata la Padania, dedicando al tema altri titoli come «Che pena i bimbi in piazza». «E’ odioso vedere certi insegnanti e certi genitori, spesso senza aver letto una riga del decreto, sfruttare i bambini per la protesta», tuonò il segretario romagnolo della Lega Gianluca Pini. E via così, fino ai durissimi giudizi già ricordati del capo del governo e di Maria Stella Gelmini. La quale oggi pensa che la scelta di indottrinamento leghista della scuola di Adro sia «folklore». Ma va?

Gian Antonio Stella

13 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_settembre_13/adro-scuola-bambini-lega-gian-antonio-stella_44c80ec6-befb-11df-8975-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #130 inserito:: Settembre 17, 2010, 12:59:53 pm »

LOMBARDO E I PATTI CON PD E CAVALIERE

Trasformismi siciliani


Fareste un governo con chi avete bollato come un uomo «temibilissimo perché ha costruito un sistema di potere clientelare spaventoso che ha riportato la Sicilia al Medioevo »? Eppure è quello che sta facendo il Pd isolano. Lo stesso che per arginare alle Regionali quel figuro dipinto come il peggio del peggio gli schierò contro Anna Finocchiaro, la «donna forte» della sinistra locale. Autrice, oggi silente, della dichiarazione di cui sopra. Oddio, non è che tutto il Pd sia d’accordo con questa scelta palermitana. Nella scia di Enzo Bianco e Rita Borsellino, che fu candidata dalla sinistra («currite, currite, cu Rita!») proprio come antitesi totale a un certo modo di far politica anche se poi vinse nella sola Enna del discusso Mirello Crisafulli, sarebbero diversi i deputati regionali col mal di pancia. Al punto che forse forse il pastrocchio «tecnico» potrebbe anche non passare.

Certo è che mai come oggi la Sicilia rappresenta la sintesi di tutti i paradossi, indigesti, di una certa politica italiana. Riassumendo: dopo essere stato candidato dalla destra che dopo tante batoste lui aveva «miracolosamente» salvato sulla trincea delle «comunali» a Catania del maggio 2005 e avere ottenuto una maggioranza straripante con 61 seggi contro 29, il governatore siculo si è via via liberato di governo in governo (è già al terzo e sta provando col quarto in due anni: evviva la stabilità) di quasi tutti gli alleati iniziali. Prima ha fatto fuori i cuffariani, fino a spingere il predecessore a bandire «un concorso di idee per l’abolizione della parola cuffarismo visto che il lombardismo è molto più clientelare». Poi ha liquidato i lealisti berlusconiani, spedendo all’opposizione il presidente del Senato Renato Schifani, il ministro della Giustizia Angelino Alfano e il coordinatore Giuseppe Castiglione poco entusiasti di lui. Infine, cercato l’appoggio dei finiani, dei rutelliani, dei democratici e di una fetta di casiniani, sta oggi sgravandosi dell’ultima «zavorra» pidiellina, il malpancista berlusconiano Gianfranco Miccichè.

Il tutto a distanza di poche ore dal momento in cui, con la solennità pensosa dello statista che ha a cuore le sorti della Patria, declinava ogni ipotesi di dar vita a un gruppo «di responsabilità nazionale» ma confermava al Cavaliere la piena e totale lealtà dei suoi 5 deputati e 4 senatori. Disponibili senz’altro a votare la fiducia a Montecitorio e a Palazzo Madama rafforzando a Roma il governo pidiellino- leghista di cui si è liberato a Palermo nel nome di una maggiore combattività nei confronti di un esecutivo troppo «nordista».

Un capolavoro da spregiudicato merlettaio della politique politicienne. Che dovrebbe aprire a sua volta spazi a una ricucitura tra gli stessi Cuffaro e Miccichè. Con la posa di una robusta «pietra sopra» su giudizi all’arsenico che l’uno aveva dato dell’altro. E tutto ciò fino al momento in cui, contro-ribaltando il ribaltone attuale, Lombardo non deciderà di traslocare di nuovo a destra (dove già sta non solo a Roma, ma in diverse giunte locali) per essere accolto, potete scommetterci, col vitello grasso che si riserva all’amatissimo figliol prodigo. Resta una sola domanda: ma i siciliani, che pure se li sono votati, si meritano tutto questo?

Gian Antonio Stella

16 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_16/stella-trasformismi-siciliani_262e93f6-c151-11df-96dc-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Settembre 28, 2010, 04:37:01 pm »

L'esilarante disputa giuridica sull'insulto in diretta tv del critico d'arte

Sgarbi si difende da Travaglio

La disputa sul «pezzo di m...»

Gli avvocati del critico: non ci fu offesa, la natura non è volgare


«Libera nos a luame», recitavano i vecchi contadini veneti in latinorum: liberaci dal letame. E l'invocazione spiega più di mille saggi quanto pesasse loro vivere tra i miasmi dello stallatico.

Tutto cambiato: lo dicono gli avvocati di Vittorio Sgarbi. Che per difendere il cliente, sotto processo per aver definito Marco Travaglio «un pezzo di merda tutto intero», hanno scritto una memoria difensiva la cui tesi epocale è che la popò è sana, bella e «fa bene al corpo ed anche all'anima».

Cerchiamo di capirci: non è la prima volta che un difensore, costretto a difendere l'indifendibile, si arrampica sugli specchi. Resta indimenticabile, ad esempio, l'arringa fenomenale con cui Ippolita Ghedini, sorella del più celebre Niccolò «Ma-va-là» Ghedini, tentò di minimizzare le parole di Giancarlo Galan, che aveva bollato come comunisti dei giornalisti Rai di Venezia. A dispetto del Cavaliere e delle sue fobie anticomuniste, scrisse l'Ippolita, il soviet non era che un «organo elettivo e dunque espressione di quella democrazia reale che ancora oggi viene rimpianta da molti e l'aggettivo sovietico non ha certo valenza diffamatoria intrinseca». Spasibo tovarisha Ghedinova! Decisi a umiliare la collega nel campionato mondiale d'arrampicata sugli specchi, l'avvocato Giampaolo Cicconi e Fabrizio Maffiodo sono andati oltre. Scrivendo che Sgarbi con «la frase "è un pezzo di merda tutto intero" non ha comunque diffamato il dottor Travaglio, atteso che la frase non ha alcuna valenza offensiva».

Va detto che i due professionisti avevano un compito da far tremare i polsi. Il «Maitre à tombeur» ferrarese, infatti, è recidivo assai. In anni di sfoghi leggendari ne ha dette di tutti i colori.

A un comizio a Palmi esortò: «Ripetete con me: affanculo il procuratore Cordova!». All'arrivo alla Camera del presidente dell'Arcigay Franco Grillini tuonò: «Liberi culi in libero Stato!». Ai veneti che lo avevano trombato alle elezioni mandò a dire che erano «deficienti. Egoisti. Stronzi. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori», per chiudere così: «Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo». A Oscar Luigi Scalfaro, quand'era al Quirinale, si rivolse definendolo «una scorreggia fritta».

E insomma, dopo aver composto e declamato a tredici anni «5.000 versi per diventare Apollinaire», ha battuto via via la strada liberatoria della parolaccia fino a fare disperare il Cavaliere: «Vittorio, come faccio a farti ministro se continui a dire le parolacce?». Resta indimenticabile una seduta dell'ottobre 2007, quando a Montecitorio si discusse fino a notte se dare o no l'autorizzazione a procedere: urlare a dei poliziotti «mi avete rotto i coglioni!» come aveva fatto Sgarbi rientrava nell'insindacabile esercizio delle funzioni parlamentari? Un dibattito unico al mondo.

Che vide il leghista Rizzi sbottare: «Sono due ore che si parla dei coglioni di Sgarbi, sinceramente ne ho pieni i coglioni». Il capolavoro fu di Filippo Mancuso, che invitò il collega, d'ora in poi, a chiamare i cosiddetti «tommasei», come faceva Leopardi per disprezzo verso l'autore del celebre dizionario. Totale degli interventi a favore e contro: 56.

La passione del critico d'arte, però, è sempre stata quella che i latini chiamavano stercus (genitivo: stercoris). Tra i tanti esempi, ne citiamo uno. Al dibattito parlamentare alla nascita del governo D'Alema, quando il nostro zazzeruto mise a verbale: «Onorevole D'Alema, le darei volentieri il mio voto; sono molto tentato di farlo, per aggiungere la mia corruzione alla vostra, aggiungere merda a merda». Insomma, se non temessimo d'essere equivocati diremmo che ce l'ha sempre in bocca.

All'idea di perdere l'immunità, aveva confidato ad Aldo Cazzullo di non avere troppi timori: «Vinco una causa al giorno. Finora, 190 su 270; le altre sono in corso». Spiegò anzi di avere «pronto un libro: Le mie querele. L'editore non lo pubblica per paura di altre querele». In ogni caso sospirò quando fu chiaro che non fosse stato rieletto, avrebbe dovuto per sicurezza contenersi: «Mi toccherà diventare buono e insipido come Prodi». Macché: gli è impossibile.

Era appena stato condannato a pagare 30mila euro (più le spese) a Travaglio per essersi dilungato su questo genere di insulto ad AnnoZero quando, alla trasmissione domenicale su Canale 5 con Barbara D'Urso, rincarò appunto: Travaglio «è un pezzo di merda tutto intero». A quel punto i suoi due legali, presumibilmente su ispirazione «artistica» del loro stesso cliente, hanno steso una memoria difensiva che resterà negli annali. Per loro, infatti, quella lì non è un'offesa. Può essere mai volgare la natura? «Se in un agriturismo ci forniscono prodotti dell'agricoltura biologica significa che essi sono fatti con la merda nel senso che l'agricoltura biologica vuol dire coltivazioni in terreni concimati non con prodotti industriali ma con letame, con la merda, appunto, la quale serve a fertilizzare i terreni». Bucolici.

Inoltre «giova osservare che, un tempo, il letame accumulatosi per tutto l'anno veniva, con la zappa (in genere nel mese di settembre), rivoltato, sbriciolato, miscelato, messo sul carro e sparso nel campo ove si seminavano le fave ed in cui, l'anno appresso, si sarebbe piantato di grano. Le merde, invece, che le mucche depositavano nei campi durante il periodo estivo ed essiccate dal sole formavano delle dense "torte" che venivano raccolte ed immagazzinate e poi usate come combustibile per cucinare la minestra di fave che rappresentava il pasto principale e si consumava la sera. La cenere residua veniva depositata nella concimaia. Nulla andava perduto e tutto veniva riciclato: ciò faceva bene al corpo ed anche all'anima». Di più: «Fabrizio De Andrè - nella celebre canzone Via del Campo - cantava "dai diamanti non nasce niente, dal letame (o dalla merda) nascono i fiori"».

Come possono dunque, signori della corte, non capire la bellezza del richiamo alla vita agreste? «Per tali motivi», proseguono gli avvocati nella scia di De Andrè, Sgarbi «voleva fare della sottile ironia, far capire comunque che da Travaglio sarebbe nato qualcosa (per esempio un partito politico) tanto che egli un giorno avrebbe avuto un futuro con la destra liberale, facendo financo concorrenza a Berlusconi proprio perché "è un pezzo di merda tutta intera" e non un diamante». Questa, però, al Cavaliere la dovranno spiegare per benino...

Gian Antonio Stella

27 settembre 2010(ultima modifica: 28 settembre 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_27/Sgarbi-si-difende-da-travaglio_a74e3db0-ca11-11df-9db5-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Novembre 19, 2010, 11:56:06 am »

LE ACCUSE DI SAVIANO, I RISULTATI DI MARONI

Non dividiamoci contro il crimine


Se il boss camorrista Antonio Iovine ha continuato a ridere anche ieri, dopo aver sbattuto in faccia a tutti quella strafottente risata di sfida mentre lo portavano via finalmente in manette, qualche motivo ce l'ha. La rissa divampata sul tema di chi è più duro e puro nella guerra alle mafie tra Roberto Saviano e Roberto Maroni, ma peggio ancora fra i tifosi esasperati dell'uno e dell'altro, è un regalo a lui e a quelli come lui. E rischia di avvitarsi in una pericolosa spirale destinata non tanto ad aprire una salutare discussione sulla penetrazione della criminalità organizzata in aree tradizionalmente «estranee». Ma a spaccare un fronte che almeno su queste cose, al di là delle legittime diversità di opinioni, dovrebbe essere compatto come l'Armada di Giovanni d'Austria a Lepanto.

Certo, il tema è: dobbiamo preoccuparci per le 6.092 operazioni finanziarie sospette a Milano e provincia segnalate dall'Ufficio italiano cambi alla Dia nel solo primo semestre 2008 o sentirci rassicurati dai 29 arresti di personaggi di spicco della mafia, della camorra e della 'ndrangheta finiti in galera da due anni in qua? La risposta non è facile. «Hanno parlato di mafia ma per noi del Nord la mafia è un fenomeno lontano. Senza contare che il 90% dei mafiosi è in carcere e quindi la criminalità organizzata è sotto controllo», disse sette anni fa Silvio Berlusconi ai corrispondenti esteri. Ne è convinto?

D'accordo, l'autore di Gomorra, tirando in ballo nella sua denuncia dei rapporti insani tra 'ndrangheta e politica il solo partito del ministro dell'Interno, è andato a cercarsele le nove pagine di indignazione della «Padania». Il taglio di un passaggio-chiave («Che cos'è la mafia? Potere personale spinto fino al delitto») nella citazione della frase molto provocatoria di Miglio non l'ha aiutato a dimostrare la cristallina buonafede. L'accostamento infelicissimo tra Sandokan e Maroni (al quale lui stesso riconobbe con parole nette i risultati lusinghieri su questo fronte) se lo poteva risparmiare. E l'apocalittica sicurezza sulle mafie che «hanno in mano il mercato della ristorazione» per un totale di «ventimila locali» è improbabile che sia stata apprezzata dalle decine di migliaia di persone perbene che fanno quel mestiere. Alla larga dai teoremi preconfezionati: se non è tutto mafia il Sud, non può essere tutto invaso dalla mafia il Nord.

Guai, però, se l'appassionata arringa del giovane scrittore a Vieni via con me fosse liquidata solo come un'offesa al buon nome della Lombardia, del Veneto, del Piemonte o dell'Emilia. Guai. Perché ha ragione quando lancia l'allarme sulle infiltrazioni della grande criminalità nelle terre dove ci sono i soldi, come sostengono la magistratura, la Dia e l'ultimo rapporto Sos impresa. Ha ragione quando denuncia il tentativo delle mafie di insinuarsi e aprire un dialogo con chi è al potere, quale che sia la sua bandiera. Ha ragione quando ricorda che gli arresti dei grandi latitanti, per quanto importantissimi, non esauriscono la complessità della guerra: come spiega Enzo Ciconte nel libro 'Ndrangheta padana, inchieste e documenti alla mano, troppo spesso «la 'ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano». E certe storie esemplari quali quella di Ivano Perego, l'imprenditore che secondo i giudici per tirarsi fuori dai guai economici non si fece scrupolo di cercare dei soci mafiosi, sono solo la conferma che l'infezione c'è. E l'errore più grave sarebbe di scambiarla per un brufolo.

Gian Antonio Stella
19 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #133 inserito:: Dicembre 03, 2010, 04:03:49 pm »


La denuncia di Salvatore Settis: così l'Italia viola la Costituzione

Mare, sole e (molto) cemento

Panorami Abusi, confusione urbanistica, devastazioni ambientali.

Ogni giorno viene coperto di nuove costruzioni l'equivalente di 251 campi da calcio


Vi fanno schifo gli ammassi ammorbanti di case abusive di Triscina e Marinella che assediano Selinunte? Niente paura. Un paio di ritocchi col computer e potete far tornare la costa vergine e bella come ai tempi in cui veniva adorata Tanit, la dea dell'abbondanza. L'ha già fatto, tempo fa, la Regione Sicilia in una campagna pubblicitaria che, per rendere più attraente Taormina agli occhi dei turisti del pianeta, rimosse elettronicamente tutta la spazzatura urbanistica del lido di Naxos per farlo tornare meraviglioso come dovette apparire a Teocle il giorno in cui Nettuno, furente col nostromo che gli aveva offerto del fegato cotto male, lo aveva fatto naufragare a Capo Schilisi.

L'incubo d'una Italia sdoppiata, quella che vogliamo ancora immaginarci e quella che sta diventando nella realtà, ti assale pagina dopo pagina leggendo l'ultimo libro di Salvatore Settis, archeologo, direttore fino a un mese fa della Scuola Normale di Pisa, già a capo del Getty Center di Los Angeles e presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali (dal quale si dimise in polemica con Sandro Bondi) e oggi, fra le tante altre cose, docente al Prado e presidente del comitato scientifico del Louvre. Si intitola Paesaggio, Costituzione, Cemento, è edito da Einaudi e gela il sangue a chiunque ami questo nostro Paese.

Non c'è giorno in cui qualche politico, operatore turistico o albergatore non tiri fuori la storia che siamo «il Paese più ricco del mondo di bellezze naturali e di beni culturali censiti» e c'è chi dice che ne abbiamo un quarto di tutto il pianeta, chi un terzo fino a Silvio Berlusconi che, primo in tutto, si è avventurato a dire che «possediamo il 72% del catalogo delle opere d'arte e di cultura d'Europa, il 50% di quelle mondiali, abbiamo 100.000 tra chiese e case storiche». Oltre ad essere «il Paese del sorriso e della gioia di vivere». E, si capisce, delle belle ragazze.

Calcio e ragazze a parte, Settis fa a pezzi questi consolanti luoghi comuni per sbatterci in faccia la realtà dei fatti: abbiamo «il più basso tasso di crescita demografica d'Europa, e uno dei più bassi del mondo» e insieme «il più alto tasso di consumo di territorio». Qualche numero? «Negli undici anni dal 1991 al 2001 l'Istat registra un incremento delle superfici urbanizzate del 15%, ben 37,5 volte maggiore del modesto incremento demografico degli stessi anni (0,4%), mentre nei sette anni successivi l'incremento delle superfici edificate è stato del 7,8%».

Ancora: «Tra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata (Sau) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un'area più vasta della somma di Lazio e Abruzzo: abbiamo così convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17,06% del nostro suolo agricolo». E l'assalto continua. Basti dire che ogni giorno, da Vipiteno a Capo Passero vengono cementificati 161 ettari di terreno. Pari, per capirci, a 251 campi da calcio.

Una enormità, per un Paese che non ha gli spazi immensi e desertici dell'Australia o del Nevada. «In alcune regioni (specialmente al Sud, ma non solo) si è andato radicando un diffuso abusivismo, che offende il paesaggio e la storia ignorando le norme ed eludendo i controlli. In altre regioni (specialmente al Nord, ma non solo), i delitti contro il paesaggio si consumano non ignorando le regole, ma modificandole o "interpretandole" con mille artifizi, perché siano al servizio non del pubblico bene, ma del "partito del cemento", invadente e trasversale».

Un delitto contro la nostra storia, la nostra cultura, i nostri stessi interessi: «Costruiamo devastando il paesaggio in nome del progresso e della modernità; ma queste alluvioni di cemento, che forse sono il residuo (rovesciato) di un'arcaica fiducia contadina nella terra come unica fonte di ricchezza, non creano sviluppo, lo bloccano».

Se la nostra ricchezza non è il petrolio, non sono i diamanti, non sono le «terre rare» come lo scandio, l'ittrio o i lantanoidi ma Segesta e il lago di Garda, Pompei e San Gimignano, i faraglioni di Capri e i trulli del Salento, che senso c'è a stuprare questo territorio fragile? Perché un turista dovrebbe venire a far le vacanze sulla «stupenda costa calabrese» decantata nei depliant se «uno studio reso pubblico dalla Regione Calabria (giugno 2009) ha registrato 5.210 abusi edilizi nei 700 chilometri delle coste calabresi, mediamente uno ogni 135 metri, di cui "54 all'interno di Aree Marine Protette, 421 in Siti d'interesse comunitario e 130 nelle Zone a protezione speciale", incluse le aree archeologiche»?
Caos urbanistico, caos legislativo. «L'intrico normativo e la labirintica segmentazione delle competenze fra Stato, Regioni, Province e Comuni contribuiscono in modo determinante alla mancata tutela del paesaggio», denuncia Settis. Aggravato da scelte scellerate: i comuni, asfissiati dalla mancanza d'ossigeno finanziario, sono spinti per fare cassa a «ricorrere in modo ancor più massiccio agli oneri di urbanizzazione, cioè alle nuove costruzioni» questo «ha ulteriormente accelerato la devastazione del territorio». Con un'impressionante crescita dei conflitti d'interesse: «Vedremo insediarsi fra Mantova e Verona Motor City, quattro milioni e mezzo di metri quadrati con un gigantesco autodromo, enormi centri commerciali, un parco di divertimenti doppio di Gardaland, sale espositive di case automobilistiche, e così via; un investimento da un miliardo di euro, a cui partecipano gli stessi enti (come la Regione Veneto) che devono rilasciare le autorizzazioni e promuovere le valutazioni d'impatto ambientale».

Un delitto. Tanto più che la Costituzione «consacrò la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio al più alto grado, ponendola fra i principî fondamentali dello Stato». Anzi, come ricorda Carlo Azeglio Ciampi, quello è «l'articolo più originale della nostra Costituzione». E ci ricorda che «sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio, formano un tutto inscindibile».

Gian Antonio Stella

03 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_dicembre_03/mare-sole-e-molto-cemento-gian-antonio-stella_9f663ae2-fea7-11df-b6f8-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Gennaio 10, 2011, 05:51:53 pm »

16/11/2010

Parole, organizzazione, falsi miti: Nicaso spiega la mafia

Scritto da: Gian Antonio Stella alle 13:53

«Allibertatevi d’u cagnuleddu», liberatevi del cagnolino. Con queste parole, il 12 gennaio '96, Giovanni Brusca ordinò al fratello Enzo, Vincenzo Chiodo detto «Quaquarotto», Giuseppe Monticciolo e Salvatore Grigoli di ammazzare e di sciogliere nell’acido Giuseppe Di Matteo, il figlio di un pentito di mafia che avevano sequestrato nel '94, quando aveva solo 13 anni. Il verbale degli interrogatori gela il sangue. Chiodo: «Facemmo mettere il bambino faccia al muro. Fui io a strangolarlo, gli altri due lo tenevano fermo per le braccia e per le gambe. Il bambino non oppose alcuna resistenza. Secondo me, non ha capito fino all’ultimo momento. Era ormai fiacco». Monticciolo: «Poi dopo questa operazione, mentre Brusca spogliava il bambino, il Chiodo ha portato giù i bidoni dell’acido e il fusto di lamiera». Finita l’operazione, si fecero un caffè. Monticciolo: «Andammo dopo due ore a controllare. Si vedevano solo i piedi del ragazzino». Chiodo: «Ricordo che Brusca, vedendo che stavo andando a bruciare il pezzo di corda, mi disse in tono scherzoso: «Questo te lo puoi conservare come trofeo». Sono stati tanti, i bambini che negli anni sono rimasti stritolati in queste guerre infami. Tanti. Assassinati perché avevano visto qualcosa. Per punire la famiglia. Perché passavano nel momento sbagliato nel posto sbagliato. Altri hanno visto la loro vita marchiata fin dalle scuole materne, come Vitoandrea Ciancimino, che qualche mese fa ha ricevuto la sua prima letterina a 5 anni, con dentro una pallottola. Pallottola che doveva spaventare suo papà Massimo, il figlio del discusso sindaco di Palermo, colpevole di raccontare ciò che sa ai magistrati. «A un mafioso che gli fa notare come nella sparatoria sarebbero potuti morire anche bambini», ricorda Antonio Nicaso, «il boss Totò Riina risponde: "E allora? Anche a Sarajevo muoiono i bambini"».

Per questo il giornalista calabrese, che da anni vive in Canada e ha firmato una serie di libri importanti sulla criminalità organizzata internazionale, da Deadly Silence: Canadian Mafia Murders a Fratelli di sangue (con Nicola Gratteri), da Global Mafia (tradotto in francese, ungherese, indonesiano, cinese e giapponese) a ’Ndrangheta. Le radici dell’odio, ha deciso di scrivere un saggio apposta per loro, i più giovani. Si intitola La mafia spiegata ai ragazzi, è edito da Mondadori (pagine 168, 14) e si propone un obiettivo ambizioso: raccontare nel modo più semplice (e Dio sa quanto ciò sia difficile, soprattutto su certi temi) cosa sono la mafia, la ’ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita. Qual è la loro storia. Quali sono i loro riti. Quali sono le parole chiave. Non si parla, certo, solo delle mafie italiane. Ma anche dell’americana Cosa Nostra, delle Triadi cinesi, della Yakuza giapponese, dei Vory v Zakone russi, dei cartelli colombiani e messicani, della mafia nigeriana o albanese. Il centro di gravità del libro, però, e non potrebbe essere altrimenti, è qui, nel nostro tormentato Mezzogiorno. Dove per troppo tempo, nelle scuole, nelle case, in famiglia, il tema è stato accuratamente accantonato.

«Quando ero ragazzo, di contribuire a combattere la mafia assieme alle forze dell’ordine non passava per la testa a nessuna persona "perbene"», scrive Andrea Camilleri nella prefazione del libro Oltre il buio della mafia, di Alfonso Bugea. «Le persone perbene, o meglio "civili" come si usava dire allora, la mafia semplicemente la ignoravano. Di mafia non se ne doveva parlare a casa, se per caso sotto alle tue finestre avveniva un omicidio di mafia, si chiudevano bene le finestre. Nominare la mafia in famiglia era come parlare di diarrea durante un pranzo di gala». Certo, qualcosa oggi è cambiato. La discussione sulla «materia» mafiosa nelle scuole italiane come punto nodale per il nostro vivere civile, però, è ancora sporadica. Se non osteggiata. Ecco, La mafia spiegata ai ragazzi cerca di tappare il buco. Con la spiegazione di certe parole: «"Cosca" in siciliano indica il "torso", la parte interna e nascosta del carciofo, protetta da foglie spesso spinose». Le testimonianze dirette, come quella di Leonardo Messina sulla sua iniziazione: «Con un ago mi hanno punto il polpastrello di un dito e mi hanno dato in mano una santina ( …), l’ hanno macchiata con il mio sangue, le hanno dato fuoco e io me la passavo da una mano all’altra. Poi mi hanno suggerito le parole da dire. Mi hanno detto di ripetere: "Come carta ti brucio, come santa ti adoro, come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se un giorno tradirò Cosa Nostra"».

I proverbi su cui la mafia si appoggia: «A megghiu parola è chidda cca nun si rici». La parola migliore è quella che non si dice. Non mancano i ricordi di tante persone che alla guerra contro la mafia hanno sacrificato la vita. Da Giovanni Falcone a Peppino Impastato, da Antonino Scopelliti a don Pino Puglisi. E tanti spunti per meditare, come una frase nel diario del giudice-ragazzino Rosario Livatino, assassinato vent’anni fa ad Agrigento: «Verrà il giorno in cui non ci chiederanno se siamo stati credenti, ma credibili». Può bastare per sottrarre gli scolari ai Mangiafuoco della mafia, della camorra, della ’ndrangheta che quotidianamente arruolano burattini promettendo loro una vita di soldi, avventure, lussi, fuoriserie? Forse no. Ma certo ci si deve almeno provare, anche coi libri giusti, a strappare tanti ragazzini dei quartieri a rischio a quel destino riassunto in poche parole, terribili, del magistrato Raffaele Cantone, uno di quelli più esposti nella lotta contro la camorra, davanti al cadavere di un giovanissimo morto in una sparatoria: «Che fosse autentico o contraffatto tutto quello che riuscivo a scorgere addosso a quel ragazzo morto era di marca. Qui vanno al macello, i piccoli yuppie della Camorra».

Pubblicato il 16.11.10 13:53
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