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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 186091 volte)
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« Risposta #270 inserito:: Settembre 19, 2015, 10:26:34 am »

Patrimonio indifeso
La cultura e le verità non dette

Di Gian Antonio Stella

Se volevano farsi dei nemici, i dipendenti che ieri mattina, per una assemblea sindacale, hanno chiuso per tre ore il Colosseo e i Fori Imperiali, ci sono riusciti. C’è modo e modo di dare battaglia e rivendicare questo o quel diritto. Fosse pure sacrosanto. Ed è non solo scontato ma legittimo il coro di esasperazione dei turisti, obbligati a code chilometriche (con addirittura il dubbio che il cuore archeologico di Roma fosse chiuso fino alle undici di sera a causa del maldestro cartello in inglese: «from 8.30 am to 11 pm») ma anche di operatori, ristoratori, albergatori, cittadini. Non è mancata l’indignazione di Ignazio Marino, colto ancora di sorpresa da questa «sua» città che non finisce di dare scandalo: «Il fatto che il Colosseo sia chiuso a chi magari è arrivato da Sydney o New York e aveva solo oggi per poter vedere il monumento millenario, è uno sfregio».

«Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge #colosseo #lavoltabuona », ha twittato Matteo Renzi. «Ora basta. La misura è colma», è sbottato Dario Franceschini. Detto fatto, il Consiglio dei ministri ha confermato il minacciato inserimento da parte dei musei e dei siti culturali tra i «servizi pubblici essenziali». Con tutti i risvolti e i limiti automatici in caso di sciopero e di prove di forza. Annuncio accolto all’istante da un fuoco di sbarramento dei sindacati. In prima fila Susanna Camusso. Toccare questi diritti, tuona, tocca la democrazia: «È uno strano Paese quello in cui un’assemblea sindacale non si può fare». E i diritti dei turisti italiani e stranieri che venivano magari per la prima volta in vita loro a Roma e sono stati bloccati ai cancelli? Restano lì, marginali, sullo sfondo...

Scaricare le responsabilità dell’ennesima figuraccia agli occhi del mondo sui soliti custodi, i soliti sindacati, i soliti agitatori, però, è troppo comodo. Ferma restando l’insofferenza crescente per l’indifferenza di un certo sindacalismo verso i disagi causati agli utenti, l’assemblea di ieri mattina era annunciata da una settimana. La legge e la prassi avrebbero consentito, riconosce un leader sindacale storico dei Beni culturali, Gianfranco Cerasoli, di pattuire tempi e modi diversi: «Dalle 8 alle 10, per dire, già i disagi sarebbero stati minori. Il guaio è che qui c’è una incapacità storica di gestire le “relazioni industriali”».

Sono insopportabili i silenzi, le omissioni, le complicità che hanno coperto per decenni situazioni che altrove sarebbero state risolte con la dovuta fermezza e invece sono state abbandonate a se stesse, per motivi spesso di pura clientela, fino al degrado. I dieci custodi del sito di Ravanusa con un solo visitatore pagante (che poi non pagò) l’anno. Il custode di Pompei colto in flagrante con una ragazzina che aveva adescato in una domus chiusa e punito col solo trasferimento. I custodi dell’«archeologico» Antonino Salinas di Palermo che, mentre il loro museo veniva ristrutturato, hanno rifiutato per anni di lavorare provvisoriamente altrove... Storie incredibili. Inaccettabili.

Detto questo, un Paese che a parole batte e ribatte sulla cultura e la ricchezza dei beni archeologici, dei musei, delle chiese, delle contrade di stupefacente bellezza, deve anche essere coerente. E investire sul serio, su queste cose. Invece siamo sempre inchiodati lì, a un investimento dello 0,19% del Pil: meno di un quarto di quanto spendeva l’Italia nel 1955, mentre stava ancora scrollandosi di dosso le macerie della guerra.

I custodi qua e là sono troppi? Certamente. I lettori ricorderanno il caso, per fare un solo esempio, dei diciotto addetti che fanno la guardia a Mazara del Vallo (e dicono che non ce la fanno...) al bellissimo Satiro Danzante ospitato in un solo grande salone dotato per di più di sei telecamere (sei!) per la videosorveglianza. Altrove, però, ce ne sono troppo pochi. E lo conferma l’ultima pianta organica ministeriale, la quale mostra sproporzioni molto ma molto vistose. Possibile che la Campania abbia 1.525 custodi e cioè quanti il Veneto (408) la Lombardia (465), il Piemonte (348), il Friuli-Venezia Giulia (157) e la Liguria (171)?

In tutta Italia, dice il ministero, sono previsti complessivamente (la Sicilia, poi, va contata a parte perché ha una quota supplementare di dipendenti propri) 7.735 custodi. In realtà quelli in servizio attualmente sono 7.461: quasi trecento di meno. Si possono distribuire meglio? Sicuro. Ma anche a pieno organico saremmo comunque molto sotto i 9.886 previsti vent’anni fa e sotto gli 8.917 di cui parlava Il Giornale dell’Arte nel 2010. Per non dire di uno studio dello stesso ministero che nel 2009 considerava necessaria una dotazione, per la sorveglianza e l’assistenza ai visitatori, di 12.000 persone.

Ben vengano dunque nuove regole che, in nome anche del peso strategico del turismo, puntino a mettere dei paletti più precisi così da evitare al nostro Paese brutte figure come quella di ieri. Brutta figura arrivata nella scia di altri episodi che ci hanno fatto arrossire e che spinsero l’Unesco a darci più di una bacchettata. Ma chi pensa questi problemi si possano risolvere solo facendo la voce grossa rischia, alla lunga, di prendere una cantonata...

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19 settembre 2015 (modifica il 19 settembre 2015 | 07:06)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_19/cultura-verita-non-dette-colosseo-sindacati-assemblea-caos-governo-1f917d3e-5e8a-11e5-8999-34d551e70893.shtml
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« Risposta #271 inserito:: Novembre 02, 2015, 08:34:32 pm »

La fiducia che serve
Il segnale che arriva da Expo

Di Gian Antonio Stella

«Cantiere all’italiana”. Quando Le Monde sparò quel titolo canzonatorio, maramaldeggiando sui ritardi nei lavori a poche ore dall’apertura dell’Expo, ci voleva del fegato a essere ottimisti. Sull’Esposizione si giocava non solo la faccia di Matteo Renzi (marginale, nel contesto) ma di una Milano ammaccata da arresti plurimi e non ancora riscoperta come «capitale morale», di una Lombardia a lungo traino della Penisola ma scivolata giù giù nella classifica delle regioni europee più competitive, dell’Italia intera.

Ci avremmo messo la firma, quel giorno, sui risultati che oggi arrivano al consuntivo? Onestamente: sì. Certo, il padiglione vietnamita con quei bellissimi fior di loto o il britannico con l’alveare tecnologico sarebbero stati bellissimi con cento metri di erba parte per parte. Ma occorreva scegliere: meglio compromettere un’area immensa di ciò che resta della campagna lombarda o accettare i limiti di spazi ristretti? Per l’Expo di Aichi del 2005, in un Giappone già molto cementificato, usarono 173 ettari, per quella di Shanghai addirittura 530: cinque volte gli spazi di Rho. Bene così: una «fiera» meno imponente ma anche meno invasiva.

I conti tornano? I più critici dicono di no, e parlano d’un buco di un miliardo o più. Gli organizzatori giurano di sì: e se gli incassi saranno inferiori ai sogni, anche le spese (via via limate sotto l’occhio di Raffaele Cantone) dovrebbero esser minori del previsto. Per arrivare, scommettono, a un pareggio.

Ma certo siamo lontani dai numeri di Shanghai dove, per celebrare la Grande Marcia industriale cinese, sarebbero stati spesi (pare) 58 miliardi di dollari. Il cui recupero resterà un mistero. Il tema «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita» è stato tradito per dare spazio alla gastronomia, alle leccornie, ai cuochi spadellanti su tutte le tv? Lo sostiene, tra gli altri, anche Letizia Moratti. E Caritas Internationalis e altri organismi non hanno firmato la Carta di Milano perché «scritta dai ricchi per i ricchi» e «generica»: un testo dove «non si sente la voce dei poveri del mondo». Difficile negarlo.

L’Expo è stata saggiamente usata, però, anche per far sentire la voce di 2.500 contadini, pescatori e allevatori giunti da ogni angolo della Terra, per riunire insieme (prima volta) settanta ministri dell’Agricoltura, per organizzare 386 laboratori per bambini e 800 eventi sulle tematiche dello spreco, per mettere in calendario nei padiglioni della biodiversità, di Save the Children o Kip International School almeno una ventina di dibattiti quotidiani sui temi del rapporto tra l’uomo, il cibo, la natura...

Si poteva fare di meglio? Tutto si può far meglio. E non possiamo accontentarci, tra record planetari come la pizza più lunga o il panino più grande con un quintale e mezzo di «Altamura», del sospiro che «comunque è stato fatto un primo passo sul fronte della consapevolezza dello spreco di risorse».
Detto questo, gli oltre venti milioni di biglietti venduti (sia pure con l’ammiccamento di quelli serali a 5 euro), il dilagare di mese in mese più impetuoso di ospiti negli hotel milanesi (+23,5% da maggio a settembre sul 2014), i soldi lasciati dai turisti nei negozi e nei ristoranti del capoluogo (190 milioni solo in luglio e agosto) non possono essere liquidati come dettagli secondari ed effimeri. Pesano.
Come pesano l’allegria contagiosa che si è respirata per mesi sul Decumano e le felicitazioni (stupite, spesso) degli stranieri e l’iniezione di fiducia legata all’Expo, a partire dalla «miracolosa» inaugurazione. E più ancora, forse, dalla reazione di quelle migliaia di milanesi che ai primi di maggio scesero in strada con scope, stracci e detersivi per ripulire i «loro» quartieri devastati dal passaggio vandalico dei «no Expo»: una prova di forza e di affetto per la città che spazzò via, umiliandole, le squadracce che avevano imbrattato Milano nel giorno in cui era al centro dell’attenzione mondiale.

«Ce l’abbiamo fatta», si dissero i milanesi, i lombardi, gli italiani quella sera. E il sospiro di sollievo riuscì, per una volta, a tenere insieme uomini e donne di destra, di centro, di sinistra. Uniti dalla consapevolezza che, a prescindere dagli schieramenti di bottega, un fallimento sarebbe stato un fallimento di tutti e un successo un successo di tutti. Sei mesi dopo siamo qui a dire: è andata. Restano i problemi dei ritardi perenni, i dubbi su certe accelerazioni, le domande sul futuro dell’area, le incognite su possibili postumi investigativi. Vigileremo, scriveremo, denunceremo. Ma, almeno per oggi, diciamocelo: ce la siamo giocata. Bene.

31 ottobre 2015 (modifica il 31 ottobre 2015 | 07:05)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_31/segnale-che-arriva-expo-editoriale-stella-e584d8f8-7f94-11e5-8b57-f1b8d18d1f0e.shtml
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« Risposta #272 inserito:: Novembre 04, 2015, 05:17:59 pm »

Francesco registrato di nascosto «I costi sono fuori controllo»
In una riunione a porte chiuse il Papa avverte: «Troppi dipendenti, serve più trasparenza».
Le indicazioni: «Prima di ogni acquisto si devono chiedere almeno tre preventivi. Chi sfora non si paga!»


Di Gian Antonio Stella

C’ è qualcuno sopra il Papa? Il buon Dio, ovvio. Difficile, però, che sia stato lui a raccomandare a certi uffici vaticani di non fornire documenti ai commissari voluti da Francesco per fare luce sulla situazione finanziaria della Chiesa. Eppure, rivela Gianluigi Nuzzi nel libro «Via crucis», che esce dopodomani in 23 Paesi preceduto dai clamorosi arresti annunciati ieri, c’è chi si è spinto a invocare ordini superiori...
Lo dice un documento intestato alla Segreteria di Stato che cortesemente rigetta la richiesta della «Cosea» d’avere notizie sull’uso dell’Obolo di San Pietro, che per il 79,4% se ne andrebbe per l’apparato: «Se, da un lato, viene pubblicato un analitico rendiconto annuale delle entrate (...) dall’altro si è mantenuto finora un assoluto riserbo, nel rispetto delle superiori indicazioni circa il suo utilizzo, in quanto escluso dal bilancio consolidato della Santa Sede».

Una risposta, accusa Nuzzi, incredibile: al punto 3 dell’atto con cui istituiva la commissione, «il pontefice è chiaro: le amministrazioni investigate “sono tenute a una sollecita collaborazione con la commissione stessa. Il segreto d’ufficio e altre eventuali restrizioni stabilite dall’ordinamento giuridico non inibiscono o limitano l’accesso della commissione a documenti, dati e informazioni necessari allo svolgimento dei compiti affidati”». E se lo dice il Papa...

I due arrestati per lo scandalo Vatileaks
Questo è il nodo: o i documenti pubblicati in «Via crucis» (a volte anche in fotocopia) sono falsi, e allora non si capirebbero le manette e le gravissime accuse a monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui che potrebbero essere liquidate con una risata, o sono autentici. E allora il quadro è fosco. Perché da quei documenti emerge un ostracismo calloso di una parte delle burocrazie vaticane alla scelta di Francesco di trasparenza, chiarezza, pulizia.

C’è di tutto, nelle carte passate al cronista che già aveva scritto «Vaticano SpA» mostrando di avere nella città-Stato preziosi informatori come l’allora maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, che gli consentì di pubblicare «Sua Santità». Alcune cose più o meno note, come lo sbigottimento dell’ex segretario del Governatorato Carlo Maria Viganò (poi inviato a Washington) per l’albero di Natale da mezzo milione di euro o gli strascichi della pesante eredità dei rapporti con Sindona, altre inedite. E sconcertanti.
Su tutte, una registrazione clandestina di Francesco. È il 3 luglio 2013 e il Santo Padre è stato messo in allarme da una lettera ricevuta dai revisori contabili della Prefettura. Lettera che segnalava la «quasi totale assenza di trasparenza nei bilanci sia della Santa Sede sia del Governatorato». Conseguenza: «È impossibile fornire una stima eloquente della reale posizione finanziaria». Di più: «I costi sono fuori controllo». Di più ancora: viene lasciato «troppo spazio alla discrezione degli amministratori».

Per 16 minuti, in quella riunione a porte chiuse convocata per discutere il bilancio, Francesco dice la sua: «Bisogna chiarire meglio le finanze della Santa Sede e renderle più trasparenti». Ricorda che «si è allargato troppo il numero dei dipendenti» con un aumento in 5 anni «del 30%», contesta la disinvoltura con cui si paga pronta cassa: «Uno dei responsabili mi diceva: “Ma vengono con la fattura e allora dobbiamo pagare...”. No, non si paga. Se una cosa è stata fatta senza un preventivo, senza autorizzazione, non si paga. (...) C-h-i-a-r-e-z-z-a. Questo si fa nella ditta più umile e dobbiamo farlo anche noi». Insomma, «prima di ogni acquisto o di lavori strutturali si devono chiedere almeno tre preventivi che siano diversi per poter scegliere il più conveniente. Farò un esempio, quello della biblioteca. Il preventivo diceva 100 e poi sono stati pagati 200. Cosa è successo? Un po’ di più? Va bene, ma era nel preventivo o no? Ma dobbiamo pagarlo... Invece non si paga!».

La situazione, sospira Francesco, è pesante: «Senza esagerare possiamo dire che buona parte dei costi sono fuori controllo». I contratti vanno studiati perché si sa, «hanno tante trappole, no?». E vanno scelti bene i fornitori: «I nostri devono essere sempre aziende che garantiscono onestà e che propongono il giusto prezzo di mercato, sia per i prodotti sia per i servizi. E alcuni non garantiscono questo».

Di fondo, per il Papa, c’è la coerenza. Ricorda lo sconcerto provato a Buenos Aires quando (era prelato provinciale) l’economo generale gli raccontò dei soldi investiti «in una banca seria e onesta. Poi, col cambiamento dell’economo, quello nuovo è andato alla banca per fare un controllo. Aveva chiesto come erano stati scelti gli investimenti: venne a sapere che più del 60 per cento erano andati per la fabbricazione di armi!». Inaccettabile. Perché, gli spiegò «un parroco anziano di Buenos Aires, saggio, che aveva molta cura nell’economia, “Se non sappiamo custodire i soldi, che si vedono, come custodiamo le anime dei fedeli, che non si vedono?”».

Da lì viene lo sforzo di papa Francesco di capire. Da lì la scelta di affidare un monitoraggio di tutti i conti alla «Cosea», composta da persone di assoluta fiducia («fiducia gravemente tradita», dice ora la Santa Sede) e presieduta dall’economista maltese Joseph Zahra. E da lì inizia, dicono le carte e i verbali passati a Nuzzi da chi «patisce la radicale ipocrisia di coloro che sanno tutto ma non vogliono ammettere ciò che sta accadendo», il quotidiano ostruzionismo.


Lo dice uno sfogo amarissimo del canadese John F. Kyle, che evidentemente si sente impotente davanti alla trincea burocratica: «Sono stati effettuati sforzi per 25 anni per arrivare a risultati praticamente nulli». Lo conferma il revisore catalano Josep Cullell parlando di un caos «insostenibile» e tracciando un paragone tra il Vaticano e i «regni di Taifa», cioè gli staterelli spuntati fuori in Spagna dopo la dissoluzione del califfato degli Omayyadi. Lo ribadisce una lettera di Joseph Zahra indirizzata direttamente a Sua Santità: «È con rammarico che vi comunico che la commissione non è in grado di completare la posizione finanziaria consolidata della Santa Sede a causa della mancanza di dati fondamentali».

Su cosa? Ad esempio sugli immobili dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) se come scrive Nuzzi valgono 2,7 miliardi ma sono a bilancio per una somma sette volte più bassa e se su «5.050 unità tra appartamenti, uffici, negozi e terreni» solo a Roma, per oltre la metà non c’è la metratura quindi non si può «valutare la congruità della pigione». O sui soldi raccolti dai postulatori delle cause di beatificazione e canonizzazione, che possono costare fino a 750 mila euro. O sulle «perdite dovute a differenze d’inventario» con «un buco da 700 mila euro al supermercato, mezzo milione nei depositi di abbigliamento, 300 mila euro in farmacia...». O sui conti correnti allo Ior, disinvoltamente utilizzati secondo lo stesso Ernst von Freyberg, presidente fino al 9 luglio 2014, anche «per operazioni illegittime, riciclaggio in tutti i sensi»... A farla corta, un caos. Tanto che tra i correntisti figurano ancora papa Luciani (saldo 110.864 euro) e addirittura Paolo VI (125.310 euro su un conto, 296.151 dollari su un altro) che è morto da 37 anni.

E in mezzo a tutto questo, lui, papa Francesco. Che vorrebbe parlare di misericordia e del «Dio che accarezza» e della Chiesa «casa della gioia» ed è costretto a fare i conti con i conti. E con chi proprio non vuole cambiare.

3 novembre 2015 (modifica il 3 novembre 2015 | 11:27)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_novembre_03/francesco-registrato-nascosto-costi-sono-fuori-controllo-81b8f16e-81f2-11e5-aea2-6c39fc84b136.shtml
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« Risposta #273 inserito:: Novembre 04, 2015, 05:41:44 pm »

Scontro
Corvi, serpenti, zizzania
Le battaglie del Papa
Per Bergoglio c’è una lotta violenta tra la luce e il buio. Alle guardie svizzere ha detto che il pericolo per il Vaticano non arriva da eserciti stranieri, ma dal diavolo che vuole dividere.
Si incarna in chi tradisce la fiducia con azioni e maldicenze

Di Gian Antonio Stella

«Aquí la Gracia de Dios es mucha pero el demonio está en persona... ». Era questa, scrive Gianluigi Nuzzi in Via crucis (Chiarelettere), la battuta più usata nella commissione di cui facevano parte i due «corvi» vaticani. In spagnolo, la lingua del Papa: «Qui la Grazia di Dio è molta ma il demonio è presente in persona». E sono tanti, oggi, a pensare: appunto…

Papa Francesco batte e ribatte da tempo sul tema della comunità, delle chiacchiere, della zizzania. La più netta fu l’omelia nel settembre di due anni fa, quando invitò i gendarmi della Santa Sede ad allontanare i pettegoli: «C’è una tentazione che al diavolo piace tanto: quella contro l’unità, quando le insidie vanno proprio contro l’unità di quelli che vivono e lavorano in Vaticano. Il diavolo cerca di creare la guerra interna, una sorta di guerra civile e spirituale, no? È una guerra che non si fa con le armi che noi conosciamo: si fa con la lingua». Poi fu ancora più chiaro: «Qualcuno di voi potrà dirmi: “Ma, Padre, noi come c’entriamo qui col diavolo? Noi dobbiamo difendere la sicurezza di questo Stato, di questa Città: che non ci siano i ladri, che non ci siano i delinquenti, che non vengano i nemici a prendere la Città”. Anche quello è vero, ma Napoleone non tornerà più, eh? Se ne è andato. E non è facile che venga un esercito qui a prendere la Città. La guerra oggi, almeno qui, si fa altrimenti: è la guerra del buio contro la luce; della notte contro il giorno».

Dicono Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, che firmano i libri sul Vaticano in uscita domani e intorno a cui lo scandalo è deflagrato come tritolo, che hanno fatto solo il loro mestiere. Difficile negarlo. Ma è dura negare anche che chi ha passato loro le carte, per quanto dica d’averlo fatto «per aiutare il Papa», ha tradito quel rapporto di fiducia che spinse proprio Francesco ad affidare loro un compito delicatissimo.

Non è un caso che ieri l’Osservatore Romano avesse un titolone che, parlando della Messa del Papa in suffragio dei cardinali e dei vescovi morti, diceva: «Il serpente sulla croce». Certo, non è tema nuovo per Francesco. Ne aveva parlato a marzo partendo dall’episodio biblico degli ebrei che si ribellano alle fatiche della fuga nel deserto e cominciano «a sparlare di Dio» e molti di loro finiscono morsi da serpenti velenosi: «Solo la preghiera di Mosè che innalza un bastone con un serpente, simbolo della Croce su cui verrà appeso Cristo, diverrà per chi lo guarda salvezza dal veleno». Ed era tornato sul tema un mese e mezzo fa. Quello spazio ai serpenti di oggi, però, la dice lunga…

Fatto è, ha scritto l’anno scorso su Avvenire Stefania Falasca, la giornalista da decenni amica di Jorge Mario Bergoglio, «che forse nessun altro Pontefice, nella storia recente, con un linguaggio puntuto ed efficace ha battuto tanto su questo male. E di fatto non c’è piaga dolente come questa della maldicenza…». Del resto, proseguiva, «il male biforcuto prodotto dalla “clericas invidia”, come la definiva il celebre moralista Haring ai tempi del Concilio, è ben noto. E non c’è qui bisogno di scomodare Dante che definiva l’invidia “meretrice delle corti”».

Batte e ribatte, batte e ribatte, il Papa: «Su questo punto, non c’è posto per le sfumature. Se tu parli male del fratello, uccidi il fratello». E ancora: «Noi siamo abituati alle chiacchiere, ai pettegolezzi. Ma quante volte le nostre comunità, anche la nostra famiglia, sono un inferno dove si gestisce questa criminalità di uccidere il fratello e la sorella con la lingua!».

Maledetta lingua! La lingua che divide le parrocchie, le comunità, la Chiesa: «Non vi dico di tagliarvi la lingua ma…». Insomma, «quando si dice di una persona che ha la lingua di serpente, cosa si vuol dire? Che le sue parole uccidono! Pertanto, non solo non bisogna attentare alla vita del prossimo, ma neppure riversare su di lui il veleno dell’ira e colpirlo con la calunnia. È tanto brutto chiacchierare! All’inizio può sembrare una cosa piacevole, anche divertente, come succhiare una caramella. Ma alla fine, ci riempie il cuore di amarezza, e avvelena anche noi».

E c’è chi ricorda come un presagio il giorno in cui le colombe liberate dal Papa furono attaccate da un gabbiano e da un corvo. «Lo Spirito santo ci liberi dai corvi, segni del male!», scrisse una certa Ninetta sulla pagina Facebook del Papa contro chi ricordava che «anche i corvi sono creature di Dio». Certo è che Francesco ha vissuto così male le fughe di notizie da non potere, oggi, sorridere della lettera che gli mandò il presidente del San Lorenzo, la squadra di Baires per cui tifa: «Saludamos el primer Papa cuervo!». Perché proprio il corvo, pensa un po’, è il simbolo della squadra.

4 novembre 2015 (modifica il 4 novembre 2015 | 08:32)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_04/corvi-serpenti-zizzania-battaglie-papa-97e67036-827b-11e5-aea2-6c39fc84b136.shtml
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« Risposta #274 inserito:: Novembre 15, 2015, 08:58:50 pm »

IL CORSIVO DEL GIORNO
La giusta rivolta dei sindaci contro lo Stato biscazziere
Chi vuole fermare i primi cittadini anti-slot.
Giorgio Santini (Pd): «Le Regioni conformano i rispettivi ordinamenti in materia di gioco, astenendosi dall’introdurre misure o assumere azioni idonee a vanificare l’unitarietà del quadro nazionale»

Di Gian Antonio Stella

Uffa, la rivolta di sindaci e governatori contro l’azzardo! E così il senatore democratico Giorgio Santini («a nome del gruppo», dice) ha presentato un emendamento alla Legge di Stabilità: «Le Regioni conformano i rispettivi ordinamenti alle disposizioni della presente legge che costituiscono disposizioni di coordinamento nazionale in materia di gioco, astenendosi dall’introdurre misure o assumere azioni idonee a vanificare l’unitarietà del quadro regolatorio nazionale di fonte primaria in materia di giochi pubblici». Traduzione? Basta coi regolamenti locali per arginare il diluvio di macchinette: Tutto il potere / allo Stato Biscazziere.

Il fatto è che le dimensioni del fenomeno (cresciuto dal 2000 ad oggi da 4 a 84,5 miliardi giocati l’anno) sono diventate per gli enti locali un problema angosciante. E da quando Marco Zacchera, allora sindaco a Verbania, tentò di contenere le slot-machine almeno in certi orari e vicino alle scuole (battaglia persa davanti al Tar del Piemonte: erano più importanti i diritti al business dei gestori) si sono moltiplicati governatori e sindaci che si mettono di traverso. Ad esempio riducendo l’Irap come in Piemonte, Lombardia, Basilicata, Umbria o Toscana agli esercizi che chiudono i «games corner». O fissando orari e permessi sempre più restrittivi per i «punti azzardo». Se il sindaco è il primo «ufficiale sanitario» e le Regioni rispondono della sanità perché mai dovrebbero farsi carico dei malati di ludopatia creati dallo Stato Biscazziere? «Vergogna!», son saltati sui grillini dopo aver scovato l’emendamento. Polemiche istantanee e Santini si è precipitato a ritirarlo: «Sono stato frainteso». Meglio così. Ma scommettiamo che ci riproveranno?

12 novembre 2015 (modifica il 12 novembre 2015 | 09:02)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_12/giusta-rivolta-sindaci-contro-stato-biscazziere-6df03270-88c6-11e5-a995-c9048b83b4c2.shtml
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« Risposta #275 inserito:: Novembre 15, 2015, 09:10:58 pm »

Conti pubblici L’economia sommersa

«Alzare il tetto al contante? Un favore a nero e corruzione»
Il dossier realizzato da Libera e Grubbo Abele di don Ciotti: «Nessun effetto positivo sui consumi. Nemmeno quelli dei pensionati».
Oltre 40 mila firme online raccolte

Di Gian Antonio Stella

«Al primo che mi dimostra la correlazione tra il tetto al contante e l’evasione cambio provvedimento», ha detto Matteo Renzi. «Eccoci qua», rispondono con un dossier Libera e Gruppo Abele. Ed è un guanto di sfida in faccia al premier da parte di don Luigi Ciotti e delle 1.500 associazioni che ruotano intorno alle sue battaglie. La campagna «#Renziciripensi», lanciata sul portale anticorruzione «riparteilfuturo.it» per rispondere alla scelta di alzare il tetto per l’uso dei contanti da 1.000 a 3.000 euro e chiedere a Camera e Senato di «fare un passo indietro» eliminando quella norma che «dà l’idea che un po’ di “nero” sia tollerabile», ha raccolto in due settimane oltre 40 mila firme. Ma è il rapporto contro la leggina governativa ad essere più fastidioso. Non si basa infatti sulle indignate invettive del prete torinese o sull’esperienza accumulata da Libera nella decennale guerra contro le mafie. Si basa su report internazionali, documenti ufficiali, relazioni ministeriali. Tutti in contraddizione con la scelta fatta.

Certo, riconosce il dossier, la stessa Bankitalia ha ammesso che non esiste «una base analitica o empirica sufficiente per precisare il valore ottimale» del limite al contante e che in astratto non ci sono «elementi per escludere a priori l’opportunità di un innalzamento del limite generale». In astratto, però: «e in astratto questo discorso è certo condivisibile». E ben si capisce come in Paesi di radicate tradizioni di rispetto delle leggi come la Svezia, la Gran Bretagna, la Finlandia, la Germania o l’Austria non esistano limiti al contante. Ma «l’Italia è il secondo Paese europeo per il valore dell’economia sommersa e ai vertici della classifica sull’evasione fiscale». Non basta: «”Nero” ed evasione sono i mezzi attraverso i quali procurarsi i fondi per pagare la corruzione e favorire quel terreno di coltura in cui le mafie crescono e si rafforzano». Insomma, noi dobbiamo stare più vigili degli altri. Non il contrario.

E qui il dossier, dopo avere ricordato il rapporto del ministero dell’Economia nel 2011 che spinse Mario Monti ad abbassare il tetto a 1.000 euro e «una dozzina di pareri sulle leggi nazionali che limitano l’uso del contante» da parte della Bce, cita uno studio Bankitalia del 2013: «Quanto più un’economia usa sistemi tracciabili di pagamento, tanto meno estesa è la porzione del sommerso». Lo ricorda una tabella dello stesso istituto di via Nazionale: dove più bassa è la quota di economia sommersa (sotto il 15%) lì stanno i paesi dove più si usano le transazioni bancarie cioè Svezia, Germania, Danimarca, Finlandia, Francia, Olanda, Regno Unito... Coincidenza: i più ricchi. Dove la quota del «sommerso» è più alta, cioè nella fascia (infamante) sopra il 20%, stanno quelli

che usano di più le banconote: Grecia, Ungheria, Cipro, Polonia, Estonia, Lituania, Bulgaria... E naturalmente (da arrossire) l’Italia.

E qui i «ragazzi di Don Ciotti», nel loro atto d’accusa, riprendono l’economista di Harvard Kenneth Rogoff: «La moneta contante rende facile compiere operazioni in modo anonimo, e aiuta a nascondere attività economiche agli occhi del governo in un modo tale che potrebbe permettere alle persone di evitare l’applicazione di leggi, regolamenti, tasse...» E ancora: «La moneta contante dovrebbe essere già divenuta tecnologicamente obsoleta. Tuttavia ciò non è ancora avvenuto e una ragione non secondaria è il legame tra l’uso del contante e l’economia sommersa». Segue una tabella dell’Ue (Study to quantify and analyse the VAT Gap in the Eu-27 Member States) che a luglio confrontava «la stima dell’Iva evasa nei diversi Stati europei, ossia la differenza tra l’Iva versata e l’Iva teoricamente dovuta». Confronto possibile perché «questa imposta è sostanzialmente conforme in tutta l’Unione». Dopo Romania, Lituania, Slovacchia e Grecia i massimi evasori siamo noi. I Paesi più seri evadono molto ma molto meno.

Del resto, accusa il dossier di Libera, il giorno stesso in cui Renzi e Padoan («Ero contrario ma ho cambiato idea: non c’è correlazione tra l’uso dei contanti e l’evasione») annunciavano la svolta, Bankitalia ribadiva in un’audizione in Parlamento, per bocca del vice direttore generale Luigi Federico Signorini, tutti i suoi dubbi: «I limiti all’uso del contante non costituiscono, ovviamente, un impedimento assoluto alla realizzazione di condotte illecite, specie per il grande riciclaggio, ma introducono un elemento di difficoltà e controllo sociale che può ostacolare forme minori di criminalità ed evasione...». Del resto per la stessa Bankitalia, sotto il profilo della lotta alle illegalità, «quanto più la soglia è bassa tanto meglio è».

Ma l’aumento dei consumi? «E’ assolutamente inverosimile che l’anno scorso un numero più che percettibile di italiani abbia rinunciato a comprare un motorino o una bici che costavano più di 1.000 euro perché non era possibile pagarli in contanti», risponde l’atto d’accusa dell’arcipelago di associazioni, «quindi è illusorio pensare che elevare il limite a 3.000 euro avrà un percettibile effetto di stimolo». Tant’è che tutti i Paesi che negli ultimi anni hanno modificato i tetti «lo hanno fatto per abbassarli». Colpisce, su dati Bankitalia e della commissione Ue, il confronto con Parigi: «In Italia si registrano meno di 70 pagamenti elettronici per anno per abitante, in Francia circa 260: quasi il quadruplo. In Italia si stima che l’economia sommersa sia equivalente al 22,8% del Pil, in Francia il 12,1%: poco più della metà. In Italia l’evasione fiscale (Iva) è stimata al 33,6%, ed è in crescita rispetto al 2012, mentre in Francia è stimata al 8,9%, ed è in calo rispetto al 2012: ben più del triplo». Eppure Roma porta il tetto ai contanti da 1.000 a 3.000 euro, Parigi lo abbassa da 3.000 a 1.000. L’opposto. Quanto agli anziani che non saprebbero usare le carte di credito, ironizza feroce il dossier, hanno altri problemi che non quello di poter pagare 3.000 euro in banconote: «Il 64,3% delle pensioni erogate in Italia ha infatti un importo inferiore a 750 euro al mese...».

13 novembre 2015 (modifica il 13 novembre 2015 | 10:56)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_novembre_13/alzare-tetto-contante-favore-nero-corruzione-22859826-89e7-11e5-8726-be49d6f99914.shtml
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« Risposta #276 inserito:: Novembre 17, 2015, 07:03:59 pm »

SPIEGARE IL TERRORISMO AI BAMBINI
Gli sguardi smarriti dei bimbi «Ma Isis viene qui a scuola?»
Mentre i jihadisti dello Stato Islamico addestrano i bambini per combattere all’istituto «Leonardo da Vinci» di Parigi gli alunni si interrogano sulla carneficina di Parigi

Di Gian Antonio Stella

Gabriele e i tre bambini che in un terrificante video dell’Isis sparano alla nuca a dei prigionieri hanno una cosa in comune. L’età. Anzi, i tre piccoli addestrati a uccidere dai macellai dello Stato Islamico hanno forse uno o due anni di meno. E così anche il figlioletto di Khaled Sharrouf, il jihadista australiano che dopo aver trascinato tutta la sua famiglia in Siria ha postato sul web la foto del bambino che, col berrettino da baseball, una maglietta e un orologio di plastica al polso regge a due mani la testa di un uomo decapitato.

Nulla dà l’idea dell’abisso tra i mondi lontanissimi di questi ragazzini quanto la reazione di Gabriele e degli altri alunni delle elementari e delle medie della scuola «Leonardo da Vinci» a Parigi alla mattanza di venerdì sera. «Per due giorni, dopo il massacro al Bataclan e negli altri locali e localini presi d’assalto non c’è stato verso di portarlo fuori di casa - racconta Stefania, la madre -. Sulle prime avevo pensato fosse meglio che non vedesse, non sapesse. Poi ho capito. Era inutile. Sapeva già. Ne abbiamo parlato a lungo, a casa. Se vuoi educarlo alla vita un figlio lo devi anche mettere davanti al tema della morte. Dell’ingiustizia. Della violenza. Ma come lo spieghi, a un bambino, quello che è successo? Domenica gli ho detto: “Ci facciamo un giro in bici?” Macché, neppure il giro in bici».

Federico quella sera, a dieci anni, «è rimasto su fino alle due di notte a guardare i telegiornali - racconta Laura -. Era choccato. La prima cosa che mi ha detto è stata: “Mamma, torniamo in Italia. Ti prego, torniamo in Italia”. Domenica abbiamo fatto una merenda con un po’ dei suoi amici. Abbiamo parlato e parlato. Cercando di far loro riassorbire il colpo». «Sabato sera, con un gruppo di genitori, siamo usciti a prendere una pizza. Proprio perché i bambini non elaborassero da soli tutte le notizie e le paure da cui erano bombardati - spiega Elisabetta Zardini, che dell’Associazione Genitori è la presidente -. Mio figlio Nicolò, a dieci anni, è molto “presente”. Ieri, dopo i bombardamenti, voleva sapere: “Ma adesso vengono e ci bombardano loro?” Abbiamo cercato di fare quello che potevamo: spiegare ai bambini che devono stare attenti a questo e a quello. Ma senza far loro venire gli incubi notturni. Sarebbe peggio».

Per aiutare i padri e le madri in questi giorni complicatissimi, dove devono tenere insieme l’obbligo di mettere i figli in allarme e insieme alleggerire le loro paure, l’Associazione ha invitato tutti a procurarsi tre giornalini: Le petit quotidien per i piccoli, Mon quotidien per i ragazzini e L’Actu (sta per «l’attualità») per gli adolescenti. Parlano della mattanza, ma con le parole giuste. Maestri e maestre delle elementari della sede di Avenue de Villars, tornati a scuola ieri, raccontano di essersi trovati davanti bambini smarriti. Alcuni sotto choc. Altri quasi ignari di quanto era successo. «Qualche raro genitore ci aveva anzi raccomandato di non affrontare il tema - spiega Giuseppe, uno degli ultimi maestri maschi (ricordate lo straordinario maestro di Cuore o Giovanni Mosca che conquista la classe abbattendo con la fionda un moscone?) di un’antica e gloriosa specie -. Ma come puoi isolare i bimbi in un mondo perfetto?».

Radunati in palestra, gli scolaretti del «Leonardo da Vinci» hanno parlato a lungo di quanto era successo la sera di venerdì. «Certo, abbiamo cercato di usare il linguaggio giusto ma era impossibile far finta di nulla - spiega Nicoletta -. Tanto più che una bambina che abita vicino all’Opera, quella sera, era stata evacuata con tutta la famiglia. Insomma, una cosa è vedere certe scene in televisione, un’altra viverle. E lei l’aveva vissuta direttamente, la paura».
Certo è che nei temi in classe fatti ieri mattina su quella sera di spari e sirene e televisioni accese sulle edizioni speciali dei telegiornali, ogni bambino ha elaborato la storia a modo suo. «C’è chi è rimasto colpito soprattutto dalla donna aggrappata alla finestra al Bataclan, chi è andato oltre le immagini tivù ricostruendo nella sua immaginazione anche cose mai viste - spiega la maestra Maia -. Un bambino ha scritto di essersi impressionato vedendo “tutti morti dentro al Bataclan”. Cosa impossibile perché quell’immagine non è mai uscita».

Maestri e maestre spiegano di aver recuperato per i piccoli, ad esempio, alcune frasi di Tiziano Terzani sul rischio in certi momenti di «risvegliare i nostri istinti più bassi» e di «aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi e a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto». O una di Socrate tratta dai Dialoghi di Platone: «Non bisogna restituire ingiustizia né bisogna far del male ad alcuno degli uomini neppure se, per opera loro, si patisca qualsiasi cosa» . A farla corta: guai allo spirito di vendetta? «Noi parliamo coi bambini e non possiamo che spingerli, come maestri, a credere nella forza della parola - risponde Francesca -. Ma direi le stesse cose anche a mio nipote, a un amico, a un estraneo che la pensa diversamente». Reazione? «Sulle prime i bambini erano attentissimi. Poi hanno cominciato a essere insofferenti. Volevano parlare d’altro, avevano bisogno di parlare d’altro». Il minuto di silenzio, però, l’hanno vissuto con la consapevolezza solenne di un adulto: «Erano molto colpiti dal fare parte di una cosa corale di tutti i francesi. L’attesa è stata molto densa. Il nostro minuto di silenzio è stato lungo lungo».

Fabio ha dieci anni e la sera di sabato sua madre, Carola, ha deciso che la famiglia doveva uscire con degli amici come preventivato proprio perché «era necessario tagliare subito l’aria. Non possiamo vivere nel terrore. Dieci mesi fa eravamo andati insieme alla manifestazione dopo Charlie Hebdo. Dopo quello che è successo mi ha chiesto: ma come, mamma, ancora? Ancora?». Ieri, a scuola, ha fatto un disegno: un kalashnikov con una croce sopra. Basta .

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 10:27)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_17/gli-sguardi-smarriti-bimbi-ma-isis-viene-qui-scuola-42f454f0-8d05-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml
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« Risposta #277 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:35:21 pm »

Il dossier Inps
Cassa integrazione extralusso per diecimila piloti e hostess
Il privilegio va verso il rinnovo. È finanziato con la tassa su tutti i biglietti. La svolta annunciata: per il 2016 era previsto il taglio dell’indennità.
Ma il provvedimento è ancora fermo

Di Gian Antonio Stella

«È Natale, è Natale / si può fare di più...». Il celebre motivetto di uno spot natalizio non vale però per tutti. Più di così ai dipendenti Alitalia non si può proprio dare. Il governo, infatti, sta per donare loro l’ennesima proroga alla cassa integrazione extralusso. E undici anni dopo il primo accordo sul «fondo volo» non c’è Babbo Natale più generoso in tutto il pianeta. Su un punto però quella canzoncina di Alicia dedicata a un pandoro ha ragione: «A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai...». Esatto: era già successo l’anno scorso, sta per succedere di nuovo. Mentre gli italiani sono distratti dagli acquisti, dai regali, dai cenoni... Ma partiamo dall’inizio. Da un’agenzia Ansa titolata «Alitalia: attivato fondo integrativo a cassa integrazione» del 21 aprile 2006. Quasi dieci anni fa. Diceva: «È operativo il Fondo speciale per il trasporto aereo che consentirà, tra l’altro, l’integrazione del reddito del personale Alitalia in cassa integrazione». E precisava che questo fondo era previsto da una legge del 2004 e che operava «presso l’Inps senza oneri per la finanza pubblica». Una promessa cara a Berlusconi: mai le mani nelle tasche degli italiani.

Come sia andata si sa. Lo ricordava nove mesi fa un dossier Inps. Che spiegava come il «salvataggio» della compagnia aerea (costato agli italiani quattro miliardi di euro e fortissimamente voluto dall’allora Cavaliere) aveva ancora agli inizi del 2015 uno strascico di quasi diecimila cassintegrati. Dei quali 152 benedetti da un assegno mensile tra i dieci e i ventimila euro e «casi limite in cui la prestazione si avvicina ai 30 mila euro lordi al mese». Cifre stratosferiche per tutti gli altri lavoratori, sottoposti per la cassa integrazione a un tetto massimo di 1.168 euro.

Come ricostruiva il dossier, infatti, decenni di privilegi concessi dalla compagnia di bandiera (uno per tutti: perfino dopo la riforma Dini piloti e personale di volo ebbero per qualche tempo la possibilità di andare in pensione a 47 anni con 23 di contributi) erano sfociati in un trattamento «deluxe» anche nello stato di crisi. Per capirci: i cassintegrati delle varie compagnie aeree in crisi (nella stragrande maggioranza Alitalia) possono contare sull’80% «della retribuzione comunicata dall’azienda all’Inps al momento della richiesta del trattamento integrativo, fino ad un massimo di 7 anni». Sette lunghissimi, interminabili anni. Risultato: a dispetto delle promesse («senza oneri» ...) la «cassa» era stata alimentata, per fare fronte al salasso, con un pubblico balzello pagato da ciascun passeggero aereo (di tutte le compagnie, anche quelle straniere) atterrato o decollato in un aeroporto italiano. Un euro, all’inizio. Poi due. Poi tre. Su tutti i biglietti. Dal low cost da pochi spiccioli al più lussuoso business intercontinentale. Di fatto, una soprattassa scaricata sui conti di tutti.

Soprattassa indispensabile: una tabella dell’Inps sulle fonti di finanziamento del «fondo» mostra infatti che dal 2007 al 2014 la quota fornita dalle aziende e dai lavoratori del settore (già bassissima) è via via scesa al 4% mentre i proventi della gabella sui biglietti sono saliti al 96%. «Un pilota che percepisce un salario mensile di 10.000 euro, di cui circa 4.000 euro di indennità di volo, versa al Fondo un contributo di 7,5 euro mensili». Una miseria. Compensata, in caso di cassa integrazione, da un assegno mensile di circa 8.000. Fate voi i conti.

Insomma, era così ingiusto questo sistema finanziato ogni anno, attraverso il balzello sui ticket, con duecento milioni di euro (e spesso di più) e complessivamente costato in pochi anni a tutti noi oltre un miliardo e mezzo, che da tempo, per usare un verbo amato da Matteo Renzi, era stato deciso di «svoltare». Col passaggio il primo gennaio 2016 dal Fsta (Fondo Sostegno Trasporto Aereo) a un Fondo di Solidarietà meno «privilegiato». E cioè sostenuto, come gli altri «fondi» di questo tipo, dai versamenti delle aziende e dei lavoratori. Altrimenti, spiegava l’Inps di Tito Boeri, «il Fsta diverrebbe l’unico fondo di solidarietà alimentato prevalentemente da proventi a carico della fiscalità generale».

Tutto chiaro? Macché. A una settimana dalla scadenza, la bozza del decreto attuativo che dovrebbe portare all’agognata «svolta» galleggia ancora da qualche parte tra i ministeri del Lavoro, dell’Economia e dei Trasporti ma alcune cose (salvo sorprese) vengono date per scontate. E cioè che forse l’Inps avrà qualche potere in più nella gestione (oggi il comitato è totalmente autoreferenziale) ma l’eccezione al tetto di 1.168 euro resterà intatta e comunque il «fondo» continuerà a venire alimentato ancora dal balzello sui ticket aerei, che scenderà sì a due euro e mezzo (per poi calare ancora negli anni futuri fino a 2,34 nel 2018) restando però il «pozzo» principale al quale attingere. Tanto che con la soppressione della gabella nel 2019 (campa cavallo...) il «fondo» non sarà più sostenibile. Sempre che, si capisce, non arrivi fra quattro anni una nuova proroga. Magari sotto Natale.

24 dicembre 2015 (modifica il 24 dicembre 2015 | 10:20)
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Da -http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_24/cassa-integrazione-extralusso-diecimila-piloti-hostess-fcc0be34-aa1d-11e5-85c0-9f00ee6a341c.shtml
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« Risposta #278 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:36:15 pm »

Smog, interventi più radicali, ma il buon senso non basta più
Mancano provvedimenti strutturali. Il decalogo varato dal vertice di sindaci e governatori va bene, ma «non ha valore giuridico»

  Di Gian Antonio Stella

Un euro a testa. Scarso. A dividere i 12 milioni stanziati mercoledì dal governo per spingere la gente a usare i mezzi pubblici tra gli italiani che vivono in città asfissiate dallo smog, vien fuori un’elemosina. Grazie. Ma dove sono, i provvedimenti strutturali? Il calcolo, anzi mancando ancora quelli finali del 2015, è fatto sui dati 2014. Quando i capoluoghi soffocati da un inquinamento fuorilegge furono 33 con 10 milioni di residenti più qualche milione di pendolari. E il 2014 fu un anno buono. Questo oggi in uscita è peggio. Capiamoci: il «decalogo» varato dal vertice di sindaci e governatori col ministro dell’Ambiente Galletti (a proposito: perché mancavano quelli dei Trasporti e dello Sviluppo economico?) è pieno di buon senso. La riduzione della velocità per sollevare meno polveri dal selciato, l’abbassamento di due gradi dei termosifoni e anche l’aiutino sui ticket per metro e bus vanno bene.

 Ma l’invito ai sindaci a prendere provvedimenti «dopo sette giorni consecutivi» di aria irrespirabile con la premurosa precisazione che il decalogo «non ha valore giuridico» (traduzione: coi cittadini vedetevela voi) non rivela piena consapevolezza della gravità del momento.
 
Così i lamenti contro la siccità e gli annunci sulla «mobilità sostenibile casa-scuola, casa-lavoro, car e bike sharing» e i «250 milioni per l’efficienza energetica in scuole, strutture sportive e condomini» e tutto il resto per un totale di 405 milioni: 6,7 euro a italiano. Se una commissione del Senato parigino ha denunciato danni dall’inquinamento per cento miliardi l’anno in Francia (e noi siamo messi peggio!) come possono essere spacciate per strutturali misure di volenterosa vaghezza come quelle di ieri? Dice molto, ad esempio, l’annuncio di «incentivi alla rottamazione delle auto più inquinanti». Evviva. Ma la rottamazione dei bus da terzo mondo? I silenzi sul trasporto pubblico? La Circumvesuviana nel 2010 trasportava 40 milioni di passeggeri, oggi 19. Con un taglio enorme delle corse, guasti continui, luridume e vandalismi: possiamo rinfacciare ai napoletani di usare, malvolentieri, la macchina loro?

E lo stesso vale, spiega l’ultimo dossier Pendolaria di Legambiente (il cui decalogo è più duro e comprende come sui rifiuti obiettivi obbligatori, proprio per sottrarre i sindaci ai ricatti della cattiva politica) per tutti i trasporti locali. Sfrecciano, le Freccerosse. Ma i treni vecchi, con più di vent’anni, sono il 44,9%. Con punte del 64% in Puglia, 66% in Umbria, 77% in Lombardia (Maroni denunciava ieri che ai finanziamenti «occorrerebbe aggiungere tre zeri»), 78% in Campania e 85% in Abruzzo. Con tagli alle ferrovie locali, negli ultimi cinque anni, del 15% in Campania, 19% in Basilicata, 26% in Calabria. E paralleli rincari dei biglietti del 25% in Umbria e in Abruzzo (con quei treni!) o addirittura del 47% in Piemonte. E sempre lì torniamo: è così che si aiutano i cittadini a non usar la macchina? Per non dire del trasporto merci quasi tutto su gomma: decenni di polemiche, decenni di rinvii, decenni di ciacole. Tema: ma se neppure in giornate di emergenza come queste vengono presi provvedimenti radicali possiamo poi sperare che arrivino dopo che il primo acquazzone si porterà via un po’ di smog e di pensieri?

31 dicembre 2015 (modifica il 31 dicembre 2015 | 07:12)

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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_31/smog-interventi-piu-radicali-ma-buon-senso-non-basta-piu-b91f7fd8-af83-11e5-98da-4d17ea8642a3.shtml
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« Risposta #279 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:31:26 am »

ISTRIA
Slovenia-Croazia: il filo spinato separa gli italiani dagli italiani
Le misure anti-immigrati riaprono antiche ferite in una terra martoriata

Di GIAN ANTONIO STELLA

C’è il filo spinato, adesso, su quello che doveva essere «un confine di seta». E Mario Beluk, che come tanti istriani porta un cognome slavo ma è italiano e parla italiano e appartiene alla minoranza italiana, non si dà pace: «Ce l’hanno sbattuto sul muso». Era andato a caccia, quel giorno: «Mi telefona l’Emilia: “papà, torna a casa di corsa!” Torno e trovo sui miei campi duecento operai, poliziotti, ruspe, caterpillar… Chiedo: “ma come, a casa mia?!” Niente da fare. Neanche scusa, mi hanno chiesto. E adesso siamo qui, prigionieri».

Non era mai esistito quel confine attuale sul Dragogna, il fiume che dalla Savrinia scende al mare, sfociando nel Vallone di Pirano attraverso le saline. Non sotto i Romani né sotto gli Ostrogoti né sotto i Bizantini e poi il patriarcato di Aquileia e l’Esarcato di Ravenna e Carlo Magno e giù giù per secoli e secoli sotto Venezia e poi Napoleone e l’Impero austro-ungarico e il Regno d’Italia e l’Adriatische Kustenland nazista e il Territorio libero di Trieste e la Jugoslavia di Tito... Mai.

E per millenni gli istriani avevano vissuto la loro terra come uno spazio unico, aperto, indiviso. E avevano amato l’Istria, fino all’impazzimento e all’odio fratricida e alle foibe e alle pulizie etniche degli anni Quaranta, proprio per questo suo essere terra plurale. Capace di donare alla cultura veneziana e italiana musicisti come il violinista Giuseppe Tartini, medici come l’inventore del termometro Santorio Santorio, intellettuali all’epoca celeberrimi come l’illuminista Gian Rinaldo Carli. E qui vissero artisti come Vittore e Benedetto Carpaccio e altri ancora.

Senza dimenticare, in tempi più vicini, scrittori quali Fulvio Tomizza, papà italiano e mamma slovena, che nel romanzo Materada (1960) raccontò lo sfacelo sanguinoso nel suo piccolo mondo antico. La contrada dov’era nato e dove da sempre i vicini di casa di lingua diversa si erano prestati lo stesso rastrello e si erano sposati nelle stesse chiese e avevano brindato agli stessi battesimi. O poeti della musica come Sergio Endrigo, autore di versi struggenti sulla sua Pola, abbandonata dopo la guerra per prendere la strada dell’esodo: «Da quella volta non ti ho rivista più/ Strada fiorita della gioventù/ Come vorrei essere un albero che sa/ Dove nasce e dove morirà…»

Il primo trauma arrivò alla fine di giugno del 1991, quando la signora Anna Del Bello Budak, che aveva casa a poche decine di metri dal Dragogna ed era a tavola con la famiglia, sentì un rumore assordante. Corsa fuori, vide le ruspe irrompere nel suo orto di piselli, sradicare centotrenta alberelli carichi di pesche, rovesciare tonnellate di ghiaia sulle piante di patate. La gente intorno

ricorda ancora lo scontro con i poliziotti: «Fermi! Fermi! Cosa fate?» «Ordini superiori». «Non potete farlo!». «Ordini superiori». «Mostratemi le carte!». «Ordini superiori».

All’arrivo dei cronisti Matia Potocar, il direttore del cantiere, ridacchiava: «Un posto di frontiera? Ma no, è solo un punto di sosta per i camion». E davanti alle perplessità di tutti, giurava: «Solo cestna. Capito? Ristrutturazione cestna: strada». Poche ore dopo, per la prima volta nella storia, sul curvone dell’antica via Flavia tracciata nel primo secolo dopo Cristo dall’imperatore Vespasiano, c’era un confine. Di qua la Slovenia, di là la Croazia. Stati sovrani. Alla Milicja di Capodistria facevano dei gran sorrisoni: «Sarà un confine dimostrativo. I cittadini dell’attuale Jugoslavia circoleranno liberamente...».

Pochi mesi e già le comunità che vivevano lungo il Dragogna raccontavano storie da incubo. Come quella di Duilio Visentin che, colpito in terra croata da una gravissima emorragia e caricato su un’ambulanza per una corsa disperata verso l’ospedale di Isola, era stato fermato al confine sloveno: «Documenti!». «Mio marito sta morendo». «Documenti!». «Muore!». «Documenti!».

O la storia di un funerale a Villa Cucini, una contrada sulle alture: il nuovo confine aveva collocato il paese in Slovenia, la chiesa e il cimitero in Croazia. Impossibile seppellire il nonno nella tomba di famiglia: «Il lasciapassare? Ce l’avete il lasciapassare?». Per non dire d’un incendio a Bresovizza coi vicini di casa che si precipitavano generosamente coi secchi e i badili a dare una mano al di là del confine appena inventato: «Altolà! Documenti».

«Maledetti tutti i nazionalisti!», imprecava il vecchio Virgilio Babich. Non si era mai mosso dalla casetta in cui era venuto al mondo in contrada Mulini. Mai. Eppure era riuscito a cambiar tre volte passaporto: nato italiano di sentimenti italiani, era diventato poi sloveno e infine, per uno spostamento amministrativo, cittadino di Umago quindi croato: «Dopo la guerra ero deciso a venire in Italia. Papà scoppiò a piangere: “E io cosa faccio? Sono vecchio…”. Mi fermai. Me ne sono pentito sempre».

Quel nuovo confine gli era insopportabile: «Ho un po’ di terra di qua e un po’ di là, la luce mi arriva da Buie in Croazia, e l’acqua da Capodistria in Slovenia, la pensione finisce nella mia vecchia banca in Slovenia, ma non posso portarmela qui perché esporterei capitali…».

Insomma, pasticci, disagi, angherie insopportabili. Per un quarto di secolo la comunità italiana sopravvissuta in Istria, spaccata dal nuovo confine proprio mentre riscopriva la propria identità dopo gli anni bui del comunismo titino, ha sperato, atteso, sognato che quella frontiera, divenuta addirittura più rigida dopo l’ingresso della Slovenia nella Unione Europea, diventasse davvero di seta dentro la grande madre Europa.

Macché. La pressione alle frontiere delle masse di profughi in fuga dal Medio Oriente ha fatto precipitare tutto. E Lubiana, dimentica delle decine di migliaia di slavi in fuga dal regime comunista accolti allora anche dall’Italia come Paese di transito verso altre mete, ha steso lungo il confine croato chilometri e chilometri di filo spinato. Uno shock.

La nostra comunità ha protestato. E mentre depositava fiori lungo quelle matasse di filo spinato, ha scritto al premier sloveno Miro Cerar una lettera accorata. Dove, «pur riconoscendo l’eccezionalità della situazione» bolla come inaccettabile, «dopo le drammatiche vicende del Ventesimo secolo», l’erezione di una nuova cortina di ferro. Destinata pare a essere ulteriormente rafforzata. Una barriera che ai più vecchi fa tornare in mente gli anni in cui si sentirono, di giorno in giorno, chiudere in una morsa. Fino a sospirare sull’addio cantato in una poesia da Arturo Daici: «Adio vojo dirghe a la caseta/ Dove che go pasà la gioventù/ adio a questa tera benedeta/ perché se vado no te vedo più...».

23 gennaio 2016 (modifica il 24 gennaio 2016 | 09:49)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_gennaio_23/slovenia-croazia-istria-italiani-confine-immigrati-jugoslavia-gian-antonio-stella-dd20f99c-c203-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
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« Risposta #280 inserito:: Aprile 11, 2016, 05:54:44 pm »

Turismo
Italia, la Grande Bellezza sprecata: Germania e Macao incassano di più
Record di siti Unesco, musei e paesaggi: ma i visitatori spendono sempre meno


Di Gian Antonio Stella

Passi per i cinesi: che abbiano 65 milioni di persone occupate nel turismo, indotto compreso, è nell’ordine delle cose. Sono tantissimi, abbondano di luoghi e capolavori da vedere e hanno una classe media sempre più ricca. Ma perché, a dispetto delle vanterie sul Bel Paese, ricaviamo dall’industria turistica meno della Germania o della Gran Bretagna sia in termini di occupati sia di soldi? E perché la politica, davanti a un tema così centrale, sembra distratta?

Le ultime tabelle di Wttc sono impietose. E dicono che l’anno scorso, rispetto
al 2014, siamo scesi di un altro gradino. Eravamo settimi al mondo per contributo del turismo puro al Pil: siamo all’ottavo. Irraggiungibili gli Stati Uniti (488 miliardi) e la Cina (224), fatichiamo con 76,3 dietro Germania (130), Giappone (106), Regno Unito (103), Francia (89) e Messico (80). Sul comparto allargato all’indotto, ci lasciamo dietro il Messico ma ci supera la Spagna. E ottavi restiamo.

Certo, rispetto al 1970 quando per numero di visitatori eravamo i primi, è cambiato il mondo. Nel 2000, spiega uno studio di Knoema.com, incassavamo da viaggi e turismo 28 miliardi e mezzo di dollari (moneta di oggi) contro i 25 della Germania, i 17 della Cina o i 3,2 di Macao. Nel 2013 noi stavamo a 46, la Germania a 55, la Cina a 56 e Macao a 52. Nonostante fossimo ancora quinti per numero di arrivi. Nettamente davanti (oltre che ai turchi) agli amici tedeschi.

Vantarsi di avere più siti Unesco di qualunque altro sulla terra (51 più due del Vaticano più alcuni siti immateriali come il teatro dei Pupi o lo Zibibbo di Pantelleria) è a questo punto non solo inutile perché sventoliamo un record ereditato, immeritatamente, dai nostri nonni, ma autolesionistico. Lo meritiamo questo patrimonio immenso di paesaggi, musei, chiese, città d’arte? Diceva nel 2010 un dossier Pwc che se noi ricaviamo dai nostri siti Unesco 100, Spagna e Brasile ricavano 130, Regno Unito, Germania e Francia da 180 a 190 e la Cina 270. Oggi va meglio? Mah...

Colpisce in particolare l’apatia che pare aver accolto gli allarmi lanciati giorni fa a Cernobbio dal rapporto Confturismo e Ciset. L’uso del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Che gli arrivi di stranieri dal 2001 al 2015 siano saliti del 48% è davvero positivo se nello stesso tempo i turisti son cresciuti nel mondo (nonostante il terrorismo dalle Torri Gemelle a Parigi) di circa il 75% arrivando a un miliardo e 187 milioni? O non c’è da chiederci come mai abbiamo intercettato solo in parte questo boom?

Di più: non è piuttosto preoccupante la sforbiciata che gli stranieri hanno dato alle vacanze da noi? «La permanenza media è passata da 4,1 giorni del 2001 a 3,6 giorni del 2015», dice il dossier citato. La domanda sempre «più orientata al mordi e fuggi» ha ridotto la spesa pro capite di ogni visitatore, in 15 anni, da 1.035 a 676 euro. Un crollo del 35%. Tanto da far dire a Confturismo che senza questa sforbiciata avremmo avuto 195 milioni di presenze e 38 miliardi in più. Due miliardi e mezzo l’anno. Buttati senza che alcuno si chiedesse seriamente: c’entrerà qualcosa, ad esempio, il fatto che l’ultimo rapporto biennale «Country Brand Index 2014-15» ci abbia visti scivolare nella classifica qualità-prezzo dal 28º al 57º posto?

Confimpresa, in vista di un convegno a Roma, ha fatto fare a Nielsen una ricerca su «Il nostro Paese visto con gli occhi degli altri»: americani, inglesi, francesi, tedeschi, cinesi, russi e giapponesi. Tra la miriade di dati (come la quota di chi si organizza sul web, quasi il 65%, o le spese dei cinesi: 326 euro procapite al giorno, viaggio escluso) emergono dettagli interessanti. Abbastanza soddisfatti (tranne per il caro-benzina) di autostrade e treni (eccezione: i regionali), quattro stranieri su dieci, per quanto bendisposti, si dicono «per nulla o poco soddisfatti» dei nostri hotel medi, a due stelle. I più scontenti (pur amando l’Italia per paesaggi e musei) sono i giapponesi: uno su tre ha da ridire sui treni, i trasporti urbani, le autostrade...

Spiccano, nel diluvio di numeri di questi giorni, alcuni dati. Dice Wttc che nel 2015 viaggi, turismo e ciò che gira intorno hanno contribuito con 7200 miliardi di dollari (il 9,8%) al Pil mondiale, che il settore in crescita da anni (alla faccia della crisi) è destinato a crescere ancora del 4% l’anno fino al 2016, che i posti di lavoro nel mondo sono 284 milioni: uno su 11.

Ed è qui che da noi non tornano i conti. Tanto più che le difficoltà geopolitiche di altri concorrenti dovrebbero sulla carta favorire noi. Stando al dossier Wttc ci sono oggi in Italia 1.119.000 occupati nel turismo diretto (dieci volte più che nella chimica) e compreso l’indotto (per capirci: compresi i laboratori che fanno i gilè per i camerieri o i mobilifici dei tavoli da trattoria...) 2.609.000. A dispetto dei sindacati, che non ne parlano quasi mai, uno ogni dieci occupati. Eppure sono pochi, rispetto ad altri Paesi meno «turistici» di noi. Può darsi che altrove contino in maniera diversa gli stagionali. Ma vi pare possibile che la Gran Bretagna abbia 672 mila occupati più di noi nel turismo diretto? O che la Germania, per quanto sia ricca non solo di industrie ma di bellezze artistiche e paesaggistiche (dai musei alla valle del Reno) abbia tre milioni e 10 mila addetti al turismo diretto cioè quasi il triplo di noi? Non ci sarà qualcosa di sbagliato nella gestione dell’enorme pepita d’oro che potrebbe essere il nostro turismo?

Vale più ancora per il nostro Mezzogiorno. Che ha 18 «patrimoni dell’umanità» e cioè più di tutta l’Inghilterra ma nel 2014 ha incassato 3,238 miliardi di dollari contro i 45,5 del Regno Unito. E nel 2015, dice il dossier Ciset e Confturismo, ha accolto in totale il 12,2% dei turisti stranieri. Poco più della metà del solo Veneto (20,5%) che con Lombardia, Toscana, Lazio e Trentino Alto Adige copre il 71,5% del totale.

Ed è lì che vedi ancora una volta i ritardi con cui il turismo è stato trattato da troppi governi. Anche nella tabella Wttc degli investimenti nel 2015 andiamo indietro: dal 15º al 16º posto. Dicono tutto, del resto, le difficoltà incontrate da Evelina Christillin e Fabio Lazzerini nel prendere in mano e rilanciare, questo era l’obiettivo, l’Enit. Sono passati mesi e mesi da quando, tra diffide sindacali e cause giudiziarie, si sono insediati. E sono ancora lì, alle prese con liti, trattative, bracci di ferro, ricorsi al Tar, carte bollate, da far saltare i nervi non solo a Gonzalo Higuain ma a un santo. E neppure uno dei dipendenti del carrozzone si è ancora spostato, come previsto, in altri uffici statali. Colpa dei nuovi vertici che forse non sono bravi come parevano? Per carità, può darsi. Ma forse perfino Napoleone, in quel contesto, avrebbe poco tempo e pochi mezzi per concentrarsi solo sul turismo. E certo il governo, distratto da altri impicci, non dà l’impressione di essere deciso a dare un taglio al tormentone...

5 aprile 2016 (modifica il 5 aprile 2016 | 07:34)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_aprile_05/turismo-grande-bellezza-sprecata-dall-italia-germania-macao-incassano-piu-noi-26616542-fab2-11e5-9ffb-8df96003b436.shtml
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« Risposta #281 inserito:: Agosto 02, 2016, 05:16:19 pm »

MALCOSTUMI ITALIANI
Il castigo inesistente per i falsi e le bugie
L’autocertificazione va abolita? No. In un Paese dove il cittadino annaspa tra le scartoffie, va addirittura rilanciata. Purché, proprio per salvaguardare le persone perbene, gli imbroglioni vengano colpiti duro. Con pene esemplari

Di Gian Antonio Stella

Così fan tutti. È questa la motivazione della sentenza d’appello che condanna a pene ridicole gli imbroglioni (bidelli, mezzemaniche, agenti di custodia…) che con un’autocertificazione falsa dove giuravano d’aver fatto i magistrati o di avere una laurea, erano riusciti a farsi inserire nel Cda dell’Asi di Agrigento ottenendo così i preziosi trasferimenti vicino a casa e altri benefit ai danni dei colleghi. Due settimane di cella o 3.750 euro di multa. Il minimo del minimo del minimo. Testuale: «Tenuto conto del contesto in cui tale falsa dichiarazione venne sottoscritta, della pregressa situazione di acquiescenza da parte della Pubblica Amministrazione a una situazione caratterizzata da mancato rispetto delle fonti normative…».

Insomma, chi aveva mai rispettato la legge? In I° grado il Gip era andato oltre. Assolvendo gli impostori: non avevano dichiarato il falso con «scritture autonomamente predisposte dagli interessati, frutto di personale meditata elaborazione, ma previa sottoscrizione acritica di modelli prestampati». Disonesti, ma sovrappensiero. La Procura generale di Palermo ha fatto ricorso. Bene. Ma non basta. Quei verdetti, che con il loro lassismo stupefacente incoraggiano tutti i truffatori a provarci, sono solo l’ultima prova dell’assoluta necessità di cambiare le regole. E in fretta. Nata sotto i migliori auspici nel ’97 («Addio file negli uffici pubblici: autocertificazioni e meno burocrazia», titolò il Corriere), quella legge nelle intenzioni sacrosanta per sveltire pratiche affondate nelle scartoffie ha mostrato infatti negli anni, purtroppo, limiti enormi.

Ricordate? Quasi due universitari ogni tre beccati negli atenei romani per essersi dichiarati falsamente nullatenenti, tra i quali la figlia del proprietario d’una villa con piscina che girava in Ferrari. Illeciti di massa alla Bicocca dove, citiamo il direttore generale, «circa 5000 matricole nel 2012 non pagavano la seconda rata». L’anno dopo, saputo delle ispezioni, «il numero degli esenti è sceso a cinquecento: un crollo del 90%». E falsi medici al lavoro nelle strutture pubbliche con una laurea solo auto-certificata. E poi avvocati per anni ciondolanti in causa in causa nei tribunali senza esser mai diventati dottori in giurisprudenza.

Fino ai casi estremi come quello di Lesina, in Puglia, dove un paio di anni fa si scoprirono cinquantasei false «docenti di sostegno» sparpagliate come supplenti per mezza Italia a fare quel lavoro delicatissimo con bimbi e ragazzi disabili grazie a decine di autocertificazioni false accompagnate da altri documenti manomessi. Indimenticabile una deposizione: «Ero stanca di fare la pizzaiola... Così ho dato alla organizzatrice 14 mila euro e lei mi ha dato la laurea. I moduli? Erano già compilati, bastava presentarli».

Ma come dimenticare le autocertificazioni di decine di milanesi che nel 2014 per non pagar l’ingresso all’area C dichiararono nuove residenze anagrafiche in centro tra cui (spiritosoni…) piazza della Scala 2, cioè Palazzo Marino, sede del Comune? E gli allevatori sardi che dichiarando d’aver 910 cavalli (ne possedevano Fico riuscirono a farsi dare «in uso civico» 1.500 ettari di terreni pubblici? E le 73 palazzine senza fondamenta e totalmente abusive a Casalnuovo di Napoli vendute dal notaio sulla base di un’autocertificazione falsa che garantiva fosse tutto in ordine per il condono? E le migliaia di «buoni-bebè» (354 pratiche truffaldine su 430 solo a Voghera) date a chi non ne aveva diritto? E i 321 dipendenti comunali di Napoli (seguiti da tanti altri a Taranto) che si erano auto-aumentati la busta paga auto-certificando di avere a carico nonni, zie e cugini? E i 96 tassisti romani che dichiararono il falso per avere il rinnovo della licenza nonostante la fedina non candida?

Sono 906 i casi di autocertificazioni false ai quali l’Ansa ha dedicato, negli anni, articoli. Novecentosei. E in certi casi, come le esenzioni sui ticket sanitari, si citano centinaia di dichiarazioni truffaldine. Al punto che nel 2011 la stessa agenzia citava stime impressionanti: un miliardo di euro l’anno di evasione. Con casi indecenti come quello d’una padovana che viveva in una villa con piscina e aveva 14 immobili affittati in nero e aveva chiesto al Comune il sostegno per gli indigenti.

Lo stesso scandalo della «carica dei 104» (l’abuso d’una norma giusta come la legge 104 che offre agevolazioni ai parenti «per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti» dei disabili) ha origine spesso da dichiarazioni dove il furbo sostiene di essere costretto ad assistere un figlio, una sorella, un suocero non autosufficiente. Poi, come spiegò mesi fa l’inchiesta agrigentina aperta da Ignazio Fonzo arrestando dieci medici, seguono pratiche e complicità ulteriori. Il primo passo, però, è quella dichiarazione falsa.

E qui è il guaio: chi mente non viene mai punito in modo adeguato. Mai. Una prova? A dispetto delle inchieste e degli accertamenti, un comunicato degli «Insegnanti in movimento» accusava proprio ieri: nella provincia girgentina 53 su 53 degli spostamenti nelle «primarie», appena comunicati dalle autorità scolastiche, sono avvenuti usando ancora la 104. «Questa legge non è fatta per noi», dice uno dei protagonisti del racconto «La rivolta dei topi d’ufficio» scritto nel ‘99 da Andrea Camilleri che ironizzava sui burocrati proprio a sostegno dell’autocertificazione. «Può funzionare in Svezia o in Germania, dove se qualcuno dice una cosa, quella è Vangelo. Ma qui da noi, come fai a fidarti della parola di uno sconosciuto?»

Tema: l’autocertificazione va abolita? No. In un Paese dove il cittadino annaspa tra le scartoffie, va addirittura rilanciata. Purché, proprio per salvaguardare le persone perbene, gli imbroglioni vengano colpiti duro. Con pene esemplari. Sei secoli fa la «Carta de Logu» di Eleonora d’Arborea concedeva ai sudditi di presentare agli uffici giudiziari «carte bollate e non bollate» e «altre scritture autentiche, registrate o non registrate». Se una carta fosse risultata falsa e «usata fraudolentemente sapendo che è falsa», però, l’autore doveva essere «arrestato e messo in prigione». Quanto all'amanuense che aveva prodotto il documento, doveva pagare entro un mese una multa stratosferica. E se non la pagava? «Gli sia amputata la mano destra». Per carità, era troppo. Anche il lassismo però…

31 luglio 2016 (modifica il 31 luglio 2016 | 21:35)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_agosto_01/castigo-inesistente-9f47f5e4-5754-11e6-b924-e8992a1bb7b1.shtml
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« Risposta #282 inserito:: Agosto 05, 2016, 04:43:57 pm »

Il leader che manca ai 5 stelle

Di Gian Antonio Stella

Narra la leggenda che la Via Crucis del Venerdì Santo finisse un tempo in cima al «Mons Testaceum», il Monte dei Cocci, al Testaccio, la discarica di «testae», i laterizi buttati lì per secoli con i vecchi coppi, le anfore rotte, le terracotte usurate. Quello era, il Golgota. E ancora ai rifiuti è legata la Via Crucis di Virginia Raggi. Messa in croce sulla «monnezza» un attimo dopo l’elezione a sindaco di Roma. Se lo aspettava. Pochi giorni prima del ballottaggio, aveva detto: «Stiamo notando una serie di movimenti strani attorno alla gestione dei rifiuti: non si riesce a fare la raccolta né a smaltirli e gli impianti stanno diventando discariche. In Campidoglio dicono che si vogliono lasciare questi problemi “al prossimo sindaco” ...». È andata peggio del temuto.

Tutta colpa sua? Niente affatto. Da decenni il Comune sapeva di dover fare certe scelte. L’educazione dei cittadini, la differenziata, il riciclo di quanto si può riciclare. Incapace di decidere, ha preferito per decenni, con sindaci di destra e di sinistra, traccheggiare di proroga in proroga fino a fare di Malagrotta (nell’indifferenza generale, spesso: occhio non vede, naso non annusa...) una discarica mostruosa. Il tutto mentre l’Ama gonfiava a dismisura gli organici o si proponeva come «multinazionale della monnezza» firmando contratti per togliere il pattume al Cairo e in Polonia, in Bahrein e a Tegucigalpa fino a cacciarsi a Dakar in un’emergenza da incubo proprio nei giorni dello sgozzamento rituale di 400 mila agnelli.

Chiaro e tondo: errori e misfatti decennali non possono essere risolti in due mesi. Punto. Detto questo, colpisce nel cicaleccio di accuse pelose e di arringhe difensive di maniera, il silenzio assordante di Beppe Grillo. Certo, il fondatore del M5S ha deciso da tempo di fare un passo di lato per lasciare saggiamente spazio alla crescita dei suoi «ragazzi». Una nuova classe politica non nasce dall’oggi al domani. Mai come oggi, però, si avverte il vuoto di una leadership capace, se lo ritiene giusto e necessario, di ringhiare e azzannare in difesa della propria cucciolata.

Ma qui sta il punto. Il Re Leone del movimento è davvero convinto che, fatta la tara alla gioventù, alla inesperienza, alle ingenuità della debuttante, la «sua» cucciolata vada difesa a morsi e zampate? Non è chiaro. Incrociando Grillo col tema rifiuti nell’archivio Ansa, si trovano centinaia di interventi. Uno più duro e sferzante dell’altro. Non una parola su Roma, la «monnezza» e la figura contestatissima di Paola Muraro, da due mesi in qua. Non gli piace ciò che vede e preferisce starsene zitto? L’han ferito le stilettate arrivate da Parma, dove gli ex grillini non perdono occasione per chieder conto, sul tasso di purezza, dei due pesi e due misure?

Dirà: ho aperto il blog all’autodifesa dell’assessore. Sarà, ma al di là dell’harakiri sulle consulenze all’Ama (386 euro al giorno per dodici anni, ha calcolato Sergio Rizzo: non 76 come ha scritto) il «caso Muraro» sta seminando sconcerto nella base e nel movimento. Già inquieti, a dir poco, per la scelta della sindaca di prendere come vice capo di gabinetto Raffaele Marra, ex stretto collaboratore Alemanno, Polverini, Marino…

Se anche non ci fosse il conflitto di interessi o fosse secondario rispetto ad altri, era opportuno mettere all’assessorato che segue i rifiuti capitolini una storica collaboratrice dell’Ama che non segnalò mai le storture che notava alla magistratura (compresa «una truffa» agli impianti di Rocca Cencia) perché aveva «un obbligo contrattuale di riservatezza»? Avesse detto una frase simile un assessore berlusconiano o renziano, l’avrebbe passata liscia? E se questo assessore avesse scelto come legale lo stesso difensore di Nanni Fiscon, il direttore generale arrestato due anni fa nell’operazione Mondo di Mezzo?

Tutte domande che, presumibilmente, hanno agitato gli ultimi colloqui tra i notabili del movimento, compreso il vertice che l’altra sera si sarebbe riunito a casa di Di Battista. Tema: vale la pena di arroccarsi su Paola Muraro (accusata dagli ambientalisti di essere «una inceneritorista» e dai duri e puri di essere contaminata dalla «vecchia politica») col rischio di esporre la Raggi, cioè la grillina trionfalmente eletta per dimostrare la capacità di governo dei pentastellati, a un impensabile e rapidissimo logoramento?

Una cosa è certa: l’eredità che si è ritrovata la giovane sindaca è pesantissima. Ma la politica, soprattutto se gioca con la purezza, non fa sconti. Poche settimane, massimo pochi mesi, e se non vedranno una svolta netta tanti romani si daranno di gomito: «Aoh, so’ ttutti uguali». E quella sì, per Beppe Grillo e non solo per lui, sarebbe davvero la sconfitta più crudele.

3 agosto 2016 (modifica il 3 agosto 2016 | 22:09)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_agosto_04/leader-che-manca-5-stelle-dbb16ef8-59b5-11e6-9678-6c5e366d4cd4.shtml
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« Risposta #283 inserito:: Settembre 01, 2016, 07:40:04 pm »

Terremoti e norme
Palude di regole e regolette
Sette anni dopo il sisma dell’Aquila, i cittadini ancora faticano a districarsi nella cervellotica poltiglia burocratica.
Per ricostruire Amatrice, sarebbe meglio non ripetere gli stessi errori

  Di Gian Antonio Stella

I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata», spiegò Franz Kafka nelle sue Conversazioni con Gustav Janouch. Lo ricordino, quanti stanno per mettere mano alle norme che guideranno la rimozione delle macerie, la ricostruzione e il ritorno alla vita di Amatrice e gli altri paesi annientati dal terremoto. Lo ricordino perché i cittadini aquilani sono ancora oggi, sette anni dopo il sisma, impantanati in una poltiglia di regole e regolette così cervellotiche da rendere difficile la posa di un solo mattone senza l’aiuto non solo di un geometra ma di una équipe di azzeccagarbugli.
Ricordate il dossier di Gianfranco Ruggeri, l’ingegnere esasperato dalle demenze burocratiche che bloccavano i cantieri? Nei primi quattro anni dopo la scossa del 6 aprile 2009 erano piovuti sull’Aquila «5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato e 720 ordinanze del Comune». «Confesso però», ammise, «che nel casino qualche ordinanza municipale potrebbe essermi sfuggita». Totale: 1.109 lacci e lacciuoli. Aggiunte successive? Non si sa: «Mi sono stufato di contarle». Ma non si tratta solo di numeri esorbitanti. Il problema è quel che c’è dentro.
La «scheda parametrica» varata dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila per accelerare i lavori si auto-loda come «caratterizzata da norme innovative volte allo snellimento delle procedure» e garantisce «tempi rapidi di istruttoria». Bene: la sola «Scheda Progetto - Parte Prima» è corredata da un «Manuale istruzioni» con un indice di 114 capitoli per un totale di 258 pagine. Pagine che nel manuale per la «Scheda progetto parte prima aggiornato al Decreto n.4» salgono a 271. Auguri.
Un esempio di semplificazione? «Il Coefficiente topografico di amplificazione sismica St, per configurazioni superficiali semplici, è determinato in base alla seguente classificazione prevista da NTC 2008, 3.2.2. Categorie di sottosuolo e condizioni topografiche “Le su esposte categorie topografiche si riferiscono a configurazioni geometriche prevalentemente bidimensionali, creste o dorsali allungate, e devono essere considerate nella definizione dell’azione sismica se di altezza maggiore di 30 m.”»...
Un altro? «Ai sensi dell’art. 4 comma 8 del DPCM 4 febbraio 2013 il contributo deve ridurre la vulnerabilità e raggiungere un livello di sicurezza pari ad almeno il 60% di quello corrispondente ad una struttura adeguata ai sensi delle NTC2008 e successive modificazioni e integrazioni, fatta eccezione per gli edifici con vincolo diretto di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 Parte II…».
Aveva ragione, tre secoli fa, l’abate Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». Parole d’oro. Tanto da far sorgere il sospetto che proprio quella slavina di Leggi speciali, Direttive del Commissario Vicario, Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza e così via sia stata accolta a suo tempo non con preoccupazione ma con giubilo da chi dietro le rovine vedeva l’occasione per fare affari. Come l’imprenditore che la notte del terremoto del 2009 «rideva nel letto» o l’assessore aquilano che in un’intercettazione (volgarotta, scusate) diceva: «Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi…».
Perché sempre lì si torna: nella fanghiglia creata da un diluvio di regole, ammoniscono le cronache di questi anni, il cittadino perbene impossibilitato a destreggiarsi senza violare questa o quella norma affoga, tanto più dopo che la sua vita è già stata devastata da un trauma spaventoso quale il terremoto. Al contrario, in quella fanghiglia, il faccendiere con le amicizie giuste e magari un retroterra mafioso sguazza come nell’oro.
Oro alla portata degli imprenditori più spregiudicati. Al punto che nel caos generale, come denunciarono Don Luigi Ciotti e Libera, ci fu chi riuscì a piazzare all’Aquila perfino una quantità così esagerata di Wc chimici (34 milioni di euro!) che nelle tendopoli ogni sfollato avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». Molto più di un elefante adulto.
Anche ad Amatrice, in parallelo a una consolante efficienza e ad una straordinaria generosità dimostrate da tutti gli uomini dello Stato arrivati in soccorso alle popolazioni colpite, non è che la burocrazia sia ancora riuscita a cambiar passo. La prima ordinanza 388 della Presidenza del Consiglio, prima di arrivare al nocciolo, conteneva 7 «visto» e «vista», 1 «considerato», 1 «ritenuto», 1 «rilevato», 1 «ravvisata», 1 «atteso», 1 «acquisite» … Nella seconda i «visto» sono saliti a 9 più 1 «ritenuto», 1 «sentito», 1 «acquisite». Vecchi vizi.
Per carità, amen. Non si può chiedere ai burosauri di cambiare di colpo in piena emergenza. Ma le regole per consentire ai cittadini rimasti senza casa di tornare a progettare il loro futuro devono essere radicalmente diverse da quelle elaborate in questi anni per altri sfollati. Devono essere chiare, severe nel pretendere il rispetto delle norme antisismiche, attente a evitare gli abusi del passato. Guai, però, se fossero così astruse da intimidire. E da aggiungere nuovi tormenti a questa nostra umanità tormentata.

30 agosto 2016 (modifica il 30 agosto 2016 | 21:59)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_agosto_31/terremoti-norme-palude-regole-regolette-67e53018-6eeb-11e6-adac-6265fc60f93f.shtml
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« Risposta #284 inserito:: Febbraio 14, 2017, 05:45:47 pm »

La voglia di rilancio e la proposta che ancora non c’è
Renzi e il suo destino politico

Di Gian Antonio Stella

«Se perdo c’è la vita, fuori, ed è fantastica! Vorrei gridarlo a tutti i politici: uscite dal Palazzo, godetevi la vita!». Quattro anni dopo aver sventolato quel proclama alle primarie del centrosinistra perse al ballottaggio con Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi pare non avere alcuna voglia di cogliere quella (apparentemente) agognata opportunità. Anzi. Ha perso male, quindi rilancia.

Ma «come» rilanciare? Coltivando l’anima del giocatore d’azzardo pareva ieri che fosse deciso a tagliar corto per andare prima possibile al congresso a far la conta dei propri fedelissimi e fare i conti con gli avversari interni. Avversari peraltro uniti nell’ostilità e nel rancore contro l’aspirante asfaltatore asfaltato ma divisi su tutto il resto non meno dei nostri anarchici che un secolo fa a Paterson, nel New Jersey, arrivarono ad avere una dozzina di giornali portatori ciascuno della propria verità: «L’Agitazione», «Agitatevi per il Socialismo Anarchico», «Agitiamoci per il Socialismo» …

Non è detto però che vada così. Allo scontro. All’ultimo istante l’ex premier potrebbe cambiare strategia per imboccare un’altra «#svolta». Certo, la scelta non è facile. Lo sbocco di una accelerazione sulla conta congressuale, da più parti sconsigliata al segretario dopo la botta del referendum perso il 4 dicembre, non è chiaro

Stando a sondaggi riservati il leader attuale del partito sembrerebbe oggi poter vincere largo, tra il 65 e il 70 per cento, contro ogni contendente. Oggi, però. E solo sulla carta. Perché ogni giorno che passa fa emergere nuovi dubbi, distinguo, insofferenze. E nel cozzo di una contesa vera, la storia insegna, può succedere di tutto…

Perfino fedelissimi come Ermete Realacci, che su linkiesta.it si sono spinti a canzonare il titolo dell’Unità sulla fiducia alla Camera a Gentiloni («Finalmente il Pd non si spacca») scrivendo d’un «trionfo dell’onanismo», spiegano che sì, va bene «l’assunzione piena e coraggiosa di responsabilità per la sconfitta della riforma costituzionale» ma senza una riflessione sugli errori (dall’ambiente alla lotta alle diseguaglianze) «rischia di essere troppo e troppo poco» e «non è da qui che può ripartire una rinnovata proposta politica al Paese». Men che meno da una «nuova» segreteria renziana al posto dell’attuale renzianamente imbastita a fine 2013 con la prima riunione alle 7 di mattina («ci diamo questa linea: le segreterie si fanno dalle 7.30 alle 9») ma poi abbandonata nel dimenticatoio tanto che «l’ultima è del luglio 2015, un anno e mezzo fa».

Il punto, spiegano gli amici, è che dopo essersi sentito così forte da lanciare sfide spavalde (si ricordi il discorso agli ambasciatori: «La mia tesi molto arrogante è che siamo in presenza di una stagione di riforme inedita nella storia del Paese») Matteo Renzi ha patito nel profondo lo sfilacciamento d’un consenso enorme. Sfilacciamento che addossa, a ragione o a torto, al quotidiano logorio delle sue svelte promesse elettorali. Ed è assillato dal timore di fare, per dirla alla veneta, la fine del «bovoeto». La lumachina che va lasciata nell’acqua fredda finché si rilassa e esce dal guscio per accorgersi del fuoco acceso sotto quando ormai è bollita.

Da lì la tentazione sullo sfondo: meglio giocarsi tutto subito. Oggi. In direzione. Per poi giocarsela al congresso e infine alle elezioni il più possibile anticipate. Nella speranza di riuscire là, nella gara in campo aperto e senza la «scomodità» dei contestatori interni (ammesso restino) a recuperare quella trasversalità che agli esordi gli procurò slanci di fervore inimmaginabili. Uno per tutti, quello d’un berlusconiano come Carlo Rossella: «Renzi? Oh, beh, personaggio formidabile: un magnifico incrocio tra Pico della Mirandola e Niccolò Machiavelli». Tempi passati…

Ma anche ammesso che l’ammaccato giovane leader, forzando, spezzi una volta per tutte le catene della minoranza cui attribuisce buona parte dei suoi recenti rovesci, non rischierà di dare consapevolmente o no il «morso dello scorpione» (il copyright è di Giuliano Ferrara quando parlava di Massimo D’Alema) al «suo» secondo presidente del Consiglio? Ma soprattutto: quale sarebbe la proposta nuova intorno alla quale pensa di poter recuperare i consensi via via perduti? Rottamata la rottamazione, cosa intende proporre agli italiani delusi che in troppi lo hanno voluto castigare?

Certo, la storia delle democrazie racconta di rimonte straordinarie. Di uomini sconfitti che parevano finiti e al contrario sono riusciti a recuperare. Si pensi a François Mitterrand che prese l’Eliseo per restarci due mandati dopo essere stato battuto per ben due volte prima da Charles De Gaulle e poi da Valéry Giscard d’Estaing. O a Richard Nixon che vinse le presidenziali americane del ‘68 e del ‘72 dopo aver perso non solo la sfida con John Kennedy nel 1960 ma addirittura le elezioni per il governatore della California del 1962.

Ci vollero anni, però. E come loro (lasciamo stare la «lunga marcia» di Mao: altra faccenda) hanno saputo riprendersi da sconfitte pesanti, da noi, Amintore Fanfani, Silvio Berlusconi e altri. Lo stesso ex-Cavaliere però parlò di una «lunga marcia nel deserto». E aveva dalla sua un partito compatto che lo seguiva come una specie di messia azzurro, larghi mezzi finanziari, le televisioni. Riuscirebbe Matteo Renzi a vincere la sua sfida assai più complicata in un sistema tripolare e senza una legge elettorale amica? Auguri.

Sarebbe bene, però, che non dimenticasse il match per il titolo tra l’immenso Primo Carnera e Max Baer. Il gigante friulano andò al tappeto undici volte, prima di arrendersi. Max lo buttava giù e lui subito, roso dall’orgoglio, si tirava su e partiva a testa bassa per finire di nuovo abbattuto. Eroico, ma perse. Chissà, se si fosse fermato a riprendere fiato e lucidità…

12 febbraio 2017 (modifica il 12 febbraio 2017 | 22:51)
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