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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 161809 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Giugno 05, 2014, 09:15:33 am »

Basta sdegno e chiacchiere
Trentuno anni e costi quadruplicati
Quando diremo basta alle mazzette?
Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai


Di Gian Antonio Stella

«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta.

La finta emergenza
L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan.
C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento.

La scadenza del 1995
C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli?
C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza».

Doveva costare 1,3 miliardi: ne costerà sei
E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei.

C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio.

C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette.

I soldi dei cittadini
E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri.

E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei».

Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti.


Tanti scandali, pochi in carcere
L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva...

Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari!

L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

5 giugno 2014 | 07:50
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/14_giugno_05/trentuno-anni-costi-quadriplicati-quando-diremo-basta-mazzette-ca7293c2-ec6d-11e3-9d13-7cdece27bf31.shtml
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« Risposta #226 inserito:: Luglio 18, 2014, 09:01:03 am »

Regione
L’invenzione calabrese per bloccare le elezioni
Alfano ha dato per scontato che a novembre si voti, oltre che in Emilia e in vari comuni, anche dal Pollino all’Aspromonte.
Ma c’è chi è pronto a scommettere che non sarà così

di GIAN ANTONIO STELLA

Il «Porcellissimum» elettorale calabrese era ancora più zozzo di quanto pareva. Non era solo un obbrobrio «dal sen fuggito», con quella soglia minima fissata al 15%: era studiato apposta per essere bocciato. Così da finire davanti alla Corte Costituzionale. Obiettivo: rinviare le elezioni per mesi e mesi e mesi...

Perfino chi osserva da anni le furbizie levantine, i cavilli imbroglioncelli, i colpi bassi della cattiva politica c’era cascato come un baccalà. Pensavamo che la nuova legge elettorale votata dalla maggioranza di destra che governa la Calabria anche «dopo» le dimissioni imposte al governatore Giuseppe Scopelliti in seguito alla condanna a sei anni di galera per reati commessi ai tempi in cui era sindaco di Reggio, fosse «solo» una prepotenza di sconfitti. Decisi a tentare con ogni mezzo di restare al potere o almeno intralciare la marcia ai possibili vincitori.

Occhio alle date: condannato il 27 marzo e sospeso automaticamente in base alla legge Severino, Scopelliti si dimette un buon mese dopo, il 29 aprile. Dieci giorni più tardi il presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico, assicura che «nessun consigliere è abbarbicato alla poltrona» ma che la legge «prevede che i Consigli rimangono comunque in carica» e fissa la seduta per discutere il nuovo statuto, la nuova legge elettorale e le dimissioni del governatore per il mese dopo, 3 giugno. Quando il consiglio regionale, cinque settimane dopo, viene infine «informato delle dimissioni». Evviva.

All’arrivo del giorno fissato, la destra calabrese è sotto choc: la settimana prima, alle Europee, è crollata fragorosamente. Arrivando a malapena, tutta insieme, compresi i partiti che si fanno la guerra come il Nuovo centrodestra e Forza Italia, al 34,6%: meno del Pd (35,8%) da solo. Una sconfitta epocale. Ma più ancora impressiona l’emorragia di voti: 259.163. Duecentomila in meno che alle Europee 2009. Quattrocentomila in meno che alle Regionali del 2010.

E da lì che nasce il «Porcellissimum», con l’oscenità di quella soglia minima del 4% per i partitini disposti a entrare in una coalizione e addirittura del 15% per chi, come l’odiatissimo Movimento 5 Stelle, di coalizioni non vuol sentir parlare. E ancora da lì nasce l’istituzione del «consigliere regionale supplente» (pronto ad entrare al posto di chi fosse nominato assessore) per limitare i danni della dieta imposta da Roma, col taglio dei consiglieri da 50 a 30.

Tema: come poteva una coalizione cosciente di avere perso larga parte del suo bacino elettorale e di avere oggi il consenso solo di un calabrese su sette, cambiare per proprio conto le regole «pro domo sua» ignorando le opposizioni? Possibile che dopo aver varato all’ultimo istante utile nel dicembre 2005 il «Porcellum» per arginare la temuta ondata di centrosinistra, la destra insistesse a livello regionale con un «Porcellissimum»? Non bastasse, si aggiungeva un mistero: come mai la sinistra, fatta eccezione per il pd Mimmo Talarico e l’ex rifondarolo Damiano Guagliardi, non aveva votato compattamente contro preferendo astenersi?

In realtà, come avrebbe spiegato Adriano Mollo sul Quotidiano della Calabria, il giochino era più sottile. La destra calabrese, senza quello Scopelliti disarcionato che per anni era riuscito a vincere un po’ tutte le elezioni a Reggio e in Regione, ha il fiato corto e vuol guadagnare tempo, costi quel che costi, per non andare incontro alle prossime Regionali a una nuova batosta. Dove lo trovano, un altro candidato forte?

Ma anche certi pezzi della sinistra, che magari si sono gettati prontamente tra le braccia di Renzi ma sanno di essere a rischio, non hanno alcuna intenzione di accelerare la corsa al voto. Tanto più che il partito, come dimostrano le polemiche tra i candidati alle primarie, dove i renziani vorrebbero chiuderla lì buttando in pista il quarantenne avvocato Massimo Canale, è spaccatissimo.

A farla corta: con il taglio dei seggi e i nuovi equilibri politici, pochissimi dei cinquanta deputati regionali attuali (quindici dei quali medici e altri quindici che, scrive il Corriere della Calabria, «non hanno mai presentato alcun reddito da lavoro dipendente e mai conosciuto, neanche per un giorno, la dimensione del lavoro» se non come «calciatori in categorie dilettanti e semiprofessionistiche») possono sognare la rielezione. La stragrande maggioranza sa che, una volta finita la legislatura, addio.

Ed ecco il senso del «Porcellissimum»: doveva essere così indecente da andare con la massima certezza incontro alla bocciatura del governo. Una specie di «Porcello di Troia» che avesse un certo aspetto proprio per nascondere al suo interno le armi indispensabili per resistere, resistere, resistere.

Resistere per distribuire poltrone (l’altro giorno la finanziaria regionale Fincalabra, appetita macchina clientelare, è stata affidata al tesoriere di Forza Italia Luca Mannarino a suo tempo escluso per mancanza di requisiti) anche se la giunta dovrebbe limitarsi solo al disbrigo degli affari correnti. Resistere per arrivare al vitalizio, che dalla prossima legislatura non ci sarà più. Ma resistere il più possibile soprattutto per gestire da novembre i nuovi bandi europei 2014-2020, formidabile occasione per accalappiare elettori con appalti, consulenze, progettazioni...

Fatto sta che appena l’esecutivo Renzi, su pressione soprattutto della calabrese Maria Carmela Lanzetta, ministro agli Affari Regionali, ha deciso di impugnare (del resto, non aveva alternative) la legge elettorale per le soglie d’accesso e i consiglieri supplenti, i vecchi volponi della politica calabrese si sono dati di gomito. Un istante dopo, il presidente dell’assemblea regionale Franco Talarico dichiarava: «Difenderemo, senza esitazioni, le nostre ragioni dinanzi alla Corte Costituzionale. Abbiamo riformato lo Statuto della Regione, reintroducendo la figura del consigliere supplente, avendo ben chiaro il contenuto degli articoli 67 e 122 della Costituzione». Vada come vada, qualche settimana o qualche mese in più, con le ferie di mezzo, sono già nel cassetto. In Piemonte, dalla decadenza di Roberto Cota alle elezioni, sono passati solo tre mesi? Chissenefrega di questi confronti...
Angelino Alfano, proprio ieri, ha dato per scontato che a novembre si voti, oltre che in Emilia e in vari comuni, anche dal Pollino all’Aspromonte. Ma c’è chi è pronto a scommettere che non sarà così. Mica facile, mandare a casa quel parlamentino di medici, calciatori e navigatori...

16 luglio 2014 | 17:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_16/invenzione-calabrese-bloccare-elezioni-06b9435e-0cfc-11e4-b4c9-656e12985e4f.shtml
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« Risposta #227 inserito:: Luglio 26, 2014, 10:11:43 am »

Il destino del decreto Franceschini
Beni culturali malvezzi italici

di GIAN ANTONIO STELLA

«Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che? Sovrintendente, sottintendente, mezzintendente...».

Bastano queste parole sferzanti, scritte nel suo libro Stil novo, a riassumere l’opinione che Matteo Renzi ha di quella che chiama «casta delle sacerdotesse e dei sacerdoti delle sovrintendenze», visti come «persone in genere molto perbene, molto preparate, molto qualificate» però sorde all’idea che «la cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria. Ma anche una scommessa economica in grado di creare posti di lavoro, di far crescere la platea di utenti...». Insomma, più un intralcio talebano a ogni iniziativa dal vago odorino di «modernità» che una preziosa fonte di collaborazione sull’obiettivo di custodire con amore i tesori artistici e monumentali e insieme aprire il Paese, con giudizio, al boom del turismo mondiale. E ricavarne quelle risorse utili proprio per conservare, scavare, riparare, restaurare ...

Quanto abbia pesato questa sua allergia alla sacralità di tanti lacci e lacciuoli sullo stop alla riforma dei Beni culturali portata in Consiglio dei ministri da Dario Franceschini, riforma che non sarebbe sufficientemente netta nel limitare i «poteri di interdizione» dei funzionari delegati a tutelare il nostro patrimonio, non si sa. Né è chiaro se possa aver davvero pesato sul premier, come ammiccano gli antipatizzanti, l’impressione d’una riforma «non renziana» (come ha scritto tessendo qualche elogio Tomaso Montanari) e di un «eccesso d’autonomia» dello stesso Franceschini. Lui, si capisce, minimizza: è normale che quando si porta un progetto all’esame di un organo collegiale ci si prenda il tempo di parlarne insieme. Vedremo...

Fatto sta che, dopo essere stato rinviato dal dicembre scorso ad oggi a causa della caduta del governo Letta e della rimozione di Bray quando il suo progetto era quasi pronto, il riordino dei Beni culturali imposto dalla spending review rischia ora, con l’accavallarsi di altre urgenze e altre risse e con l’incombere del Generale Agosto, di slittare all’autunno. Dopo di che, chissà...

Guai, se accadesse. Sia gli uni sia gli altri, infatti, su un punto devono essere d’accordo: dopo rimaneggiamenti che non hanno portato a una maggiore efficienza della macchina ma al contrario ne hanno ulteriormente ingrippato i meccanismi, il ministero dei Beni culturali dev’essere assolutamente sistemato.


Quello, per noi, è un ministero chiave. Con l’ingresso delle Langhe, abbiamo rafforzato la nostra leadership assoluta tra i Paesi con più siti protetti dall’Unesco. Il Mezzogiorno, col nuovo arrivo delle grandi processioni rituali, ne ha da solo 17. Quanti la Grecia, la nazione madre europea. Il doppio dell’Austria o dell’Argentina.

È una fortuna, ma anche una responsabilità: non si tiene così Pompei, non si spreca così la Reggia di Caserta dai visitatori dimezzati, non si lasciano a terra per mesi le macerie del castello di Frinco. Essere i primi ci impone di trovare il modo di tenere insieme la bellezza, la piena e premurosa tutela di queste ricchezze e una corretta gestione anche economica di un’eredità che non può essere un peso ma deve essere anche una risorsa. Servono nuove professionalità? Nuove freschezze? Nuove idee? Avanti! Purché siamo d’accordo su una cosa: non siamo i «padroni» dei nostri tesori. Siamo solo i custodi. E l’obiettivo principale non può essere quello di fare cassa. Neppure con questi chiari di luna...

26 luglio 2014 | 07:31
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_luglio_26/beni-culturali-malvezzi-italici-4f990d76-1485-11e4-9885-7f95b7ef9983.shtml
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« Risposta #228 inserito:: Agosto 02, 2014, 11:05:04 pm »

Tuttifrutti
L’Inps e il no surreale a una donna (defunta)
«Lei è morta, niente pensione. Ma può fare ricorso sul nostro portale»

Di Gian Antonio Stella

«Gentile signora, la sua pensione di invalidità non può essere erogata in quanto lei è morta». Quando ha avuto tra le mani la lettera dell’Inps, Giuliano Strofaldi, che vive in provincia di Brescia, non sapeva se ridere istericamente o piangere a dirotto. La lettera, infatti, non era indirizzata a lui in quanto vedovo ma proprio a sua moglie, Concetta Corcione. Morta il 4 maggio 2012.

Poco prima di andarsene poco più che cinquantenne, la sfortunata signora aveva infatti firmato una domanda all’Istituto di previdenza per avere una «pensione ordinaria di inabilità», protocollata il 23 marzo di quel 2012. Due anni e mezzo di attesa ed ecco la risposta che il postino, racconta amaro Strofaldi, ha consegnato dopo qualche perplessità all’indirizzo che fu della donna «benché sapesse che si era (ahimè) trasferita altrove. Ora, siamo tutti disposti ad ammettere che sono lettere automatiche e il software non prevede evidentemente l’aggiunta, quando occorra, dell’intestazione “Agli eredi di...”. Resta il cruccio che non esista alcun presidio umano per umanizzare le comunicazioni, che oscillano quindi tra lo sgradevole e il ridicolo».

Dice dunque quella lettera indirizzata a Concetta: «Le comunico che non è stato possibile accogliere la domanda in oggetto, presentata il 23/03/2012 per il seguente motivo: la domanda di pensione di inabilità è stata accolta secondo i criteri medico-legali ma non viene erogata in quanto la cessazione dell’attività lavorativa è avvenuta con il decesso». Testuale.

Dopo di che l’Inps prosegue rendendo edotta la defunta di cosa può fare: «La informiamo che, nel caso volesse impugnare il presente provvedimento, potrà presentare un ricorso amministrativo esclusivamente online attraverso il portale www.inps.it nello spazio riservato ai Servizi Online» oppure «tramite i patronati e tutti gli intermediari autorizzati dell’Istituto...». «Le ricordiamo che in ogni caso potrà presentare il ricorso entro e non oltre novanta giorni dalla data di ricevimento di questa comunicazione», prosegue la lettera alla morta. «Qualora non intervenga alcuna decisione nei successivi novanta giorni, potrà proporre un’azione giudiziaria da notificare direttamente a questa Sede. Insieme al ricorso è necessario che lei presenti i documenti e fornisca le notizie che ritiene utili. (...) Se il ricorso non sarà deciso entro 90 giorni dalla data di presentazione, Lei potrà proporre azione giudiziaria entro tre anni dalla data di scadenza del termine previsto per la decisione del ricorso stesso. L’eventuale azione giudiziaria contro il presente provvedimento dovrà essere notificata presso questa agenzia...». L’ufficio, chiude la surreale missiva, «è a sua disposizione per ogni ulteriore chiarimento». Segue la firma di un funzionario, Giorgio Calegari. A sua insaputa, probabilmente.

Il computer, si sa, può essere assolutamente idiota. Ma ti chiedi: possibile che chi lo ha programmato non si sia posto il problema di questi infortuni così offensivi per i parenti di chi non c’è più?

30 luglio 2014 | 18:53
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_luglio_30/inps-no-surreale-una-donna-defunta-e32723da-1808-11e4-a7a2-42657e4dcc3b.shtml
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« Risposta #229 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:53:06 pm »

L’arretratezza digitale italiana
Quei sorpassi subiti in Rete

Di Gian Antonio Stella

Ci ha spezzato le reni, per dirla ironicamente col Duce, anche la Grecia. Da ieri, sentenzia il sito netindex.com che misura la velocità di download domestica sulla base di cinque milioni di test al giorno, siamo novantottesimi al mondo. Dopo l’amata e malmessa Ellade e davanti al Kenya. Nel dicembre 2010 eravamo al 70º posto. Nel dicembre 2012 all’84º. Sempre più giù, giù, giù...

Coi nostri mediocri 8,51 megabyte mediamente scaricabili al secondo siamo ultimi tra i Paesi del G8 (penultimo è il Canada che svetta dal 23,09: il triplo), penultimi tra quelli europei davanti alla Croazia e ultimissimi tra i 34 dell’Ocse. Abissalmente lontani dalla velocità con cui scaricano dal Web i cinesi di Hong Kong, quasi undici volte la nostra, ma anche i sudcoreani, gli svedesi, gli svizzeri. C’è chi dirà: si tratta di realtà disomogenee e in qualche modo eccentriche rispetto alle realtà economiche, tanto da vedere ai primi posti per eccellenza della Rete la Romania, dove però i cittadini dialogano ancor peggio di noi con gli sportelli informatici pubblici.

Vero. Resta il fatto che in classifica siamo staccati di 58 gradini dalla Cina, 65 dalla Spagna, 69 dalla Germania, 71 dalla Gran Bretagna, 76 dalla Francia con la quale fino a una dozzina di anni fa eravamo sostanzialmente alla pari. Per non dire della velocità di upload, cioè del tempo che si impiega per caricare un documento in Rete: quattro anni fa eravamo ottantaseiesimi. Oggi siamo al 157º posto. Molto ma molto più distanti dalla Francia che dal Congo o dal Burkina Faso.

Ora, se il Web servisse solo ai ragazzini per dibattere dei tatuaggi preferiti o alle amanti della tisana per consigliare la menta piperita, poco male. Il nodo, come dimostra un’analisi di MM-One Group su dati Eurostat, è che la Rete è sempre più un volano per l’economia. Il fatturato delle imprese europee ricavato dal Web nel 2013 è stato in media del 14%. Ma la Gran Bretagna e la Slovacchia sono già al 18, la Repubblica ceca al 26, l’Irlanda al 31%: quasi un euro su tre, a Dublino e dintorni, arriva via Internet. Noi siamo al 7%: la metà o meno delle altre europotenze. Per non dire del turismo, che vive un boom spropositato a livello planetario ma che solo parzialmente ci sfiora nonostante il nostro immenso patrimonio culturale, paesaggistico ed enogastronomico.

Il business vacanziero europeo dipende per un quarto dal Web ma la quota si impenna fino al 39% nel Regno Unito. Noi siamo al 17%: nettamente sotto la Francia e la Spagna, le concorrenti dirette. Quanto al rapporto fra cittadini e pubblici sportelli, un’altra ricerca MM-One sui Paesi che sfruttano meglio le potenzialità della Rete dice che, se la Danimarca sta a 100, noi siamo a 9. Umiliante. Come se mancasse la consapevolezza, al centro e in periferia, di quanto il settore sia centrale. Come se nessuno si fosse accorto che perfino qui da noi, negli ultimi anni, come spiega l’Agenda digitale italiana, il Web ha creato 700 mila posti di lavoro: sei volte più degli addetti di un settore storico quale la chimica.

Eppure, davanti a un quadro così, lo stesso governo del primo premier incessantemente affaccendato tra Facebook e Twitter, WhatsApp ed Instagram pare aver deciso, stando alle bozze dello Sblocca Italia, di limitare gli aiuti per l’estensione della banda larga, sulla quale siamo in angoscioso ritardo sulla tabella di marcia europea, agli sgravi fiscali (sostanziosi o meno non si sa) per chi investirà sulle «aree a fallimento di mercato», quelle dove gli operatori non mettono soldi per paura di perderci. Che dire? #inboccaallupo.

2 settembre 2014 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_02/quei-sorpassi-subiti-rete-9254bd90-3262-11e4-8a37-758af3cd4875.shtml
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« Risposta #230 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:47:27 pm »

Tuttifrutti
Bambini parcheggiati in attesa di adozione
Sono tre anni che la nuova legge non riesce ad arrivare in Aula per l’approvazione

Di Gian Antonio Stella

«È una vittoria dei bambini», hanno detto le due madri omosessuali romane dopo il riconoscimento, da parte del Tribunale per i minorenni capitolino, del loro diritto all’adozione. Cori di esultanza delle associazioni gay, cori di indignazione della destra. Il tema spacca. E possiamo scommettere che continuerà a dividere per mesi, anni, decenni. Sia a chi esulta sia a chi si indigna, tuttavia, pare esser sfuggito un punto: la contraddizione del tribunale romano tra la sentenza in favore della coppia omosessuale ed altre ostili ai «genitori usa e getta», quei padri e quelle madri che accettano di farsi carico, per un certo periodo, di bambini destinati all’adozione e poi se li vedono togliere brutalmente anche nel caso quei bambini siano ormai così legati alla famiglia affidataria da subire nel «trasloco» presso i genitori adottivi un nuovo trauma. A volte gravissimo.

Dice infatti il verdetto contestato dai tradizionalisti che in base all’articolo 44 della legge l’adozione può esser concessa «in casi particolari... nel superiore e preminente interesse del minore a mantenere con l’adulto, in questo caso genitore “sociale”, quel rapporto affettivo e di convivenza già positivamente consolidatosi nel tempo».

Bene: la piccola Anna (il nome, ovvio, è di fantasia) fu data in affidamento alcuni anni fa insieme a due fratellini di 2 e di 4 anni alla «casa famiglia» di due coniugi reatini che avevano già cinque figli loro e che da anni offrono la loro ospitalità e la loro esperienza ai giudici minorili quando questi devono «parcheggiare» un bambino in attesa che torni nella famiglia d’origine o sia dato in adozione.

Dicono le norme che questo periodo di affidamento può durare al massimo 24 mesi. Spiega tuttavia la deputata democratica Francesca Puglisi, nel disegno di legge teso a cambiare alcune regole rigide fino all’ottusità, che «i bambini e gli adolescenti in affidamento familiare da oltre due anni costituiscono la maggioranza degli accolti risultando pari a poco meno del 60 per cento» e l’adozione può rivelarsi un nuovo dramma. Capita infatti «non di rado che un bambino o una bambina, già provati da una prima separazione, siano sottoposti ad una seconda dolorosa frattura e “trasferiti” a una terza famiglia».

Anna, ad esempio. «Quando ce la diedero aveva solo quaranta giorni», racconta il padre affidatario. «Noi le abbiamo dato il biberon, noi le abbiamo visto spuntare il primo dentino, noi le abbiamo insegnato a camminare, parlare, disegnare... Dopo tre anni e mezzo si sentiva figlia nostra. Non bastasse aveva problemi di epilessia. Insomma, quando fu il momento di consegnarli alle famiglie adottive, i due fratellini mostrarono di potersi inserire senza problemi. Lei no. Tanto che io e mia moglie chiedemmo al giudice di dare la precedenza alla bambina e di lasciarla a noi. Niente da fare».

«Abbiamo perso in primo grado, in secondo e anche in Cassazione», spiega l’avvocato Lucrezia Mollica, da anni impegnata su questo fronte, «adesso il giudizio spetta a Strasburgo. «Il superiore e preminente interesse del minore», in questo caso, non è stato considerato affatto.

Sono tre anni che la nuova legge non riesce ad arrivare in Aula per l’approvazione. Tre anni. E intanto chissà quanti bambini sono stati strappati alle famiglie che li avevano cresciuti...

3 settembre 2014 | 12:46
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_settembre_03/bambini-parcheggiati-attesa-adozione-9f9aed0e-3356-11e4-9d48-ef4163c6635c.shtml
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« Risposta #231 inserito:: Settembre 10, 2014, 11:16:41 pm »

La Sicilia simbolo della disfatta turistica
Nessuna protesta significativa per i voli tagliati nell’isola
Di Gian Antonio Stella

E la Sicilia? «’tu culu la Sicilia!», risponderebbe Antonio Albanese nei panni del leggendario Cetto Laqualunque, la cui volgarità, come dire, è ancella della sintesi. Spiega infatti Tony Zermo su La Sicilia di Catania che, grazie alla nuova strategia Alitalia-Etihad, dal prossimo 1° ottobre AirOne ha deciso non solo di chiudere la propria sede di Catania ma anche di cancellare i «voli diretti per Monaco, Mosca, Berlino, Amsterdam, Parigi, San Pietroburgo, Dusseldorf, Praga. È rimasta Londra, assorbita da Alitalia, ma con una sola cadenza, quella del sabato. Per i nazionali sono stati cancellati Bologna, Torino, Venezia, Verona. C’è ancora il Pisa assorbito da Alitalia. Restano Roma e Milano operati da Alitalia. Lo stesso discorso in parallelo vale per l’aeroporto palermitano di Punta Raisi». Il tutto, accusa il quotidiano, senza particolare proteste tranne quella dell’assessore regionale al Turismo Michela Stancheris, «che quantomeno ha scritto a Matteo Renzi». Per il resto, al contrario di quanto avvenuto a Torino (dove contro i tagli ai voli si sono levate le voci di Sergio Chiamparino e Pietro Fassino), il silenzio: «Il governatore Crocetta è alle prese con gli avversari interni del Pd, il sindaco di Catania Enzo Bianco è a Istanbul assieme al cantautore Franco Battiato, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando agisce per i fatti suoi». Insomma: nonostante l’isola non abbia treni veloci né autostrade all’altezza del terzo millennio, insiste il giornale, «sembra che il problema non li tocchi».

Spiegano gli esperti che come ogni vuoto anche questo da qualcuno sarà riempito. E che ad esempio sono già aumentati i voli su Istanbul e sono in arrivo quelli della Finnair su Helsinki. Speriamo. La scelta della nuova compagnia italo-araba che ha assorbito la nostra storica compagnia di bandiera, però, conferma una volta di più una cosa. E cioè che il degrado progressivo dei trasporti e dei collegamenti nord-sud sono la dimostrazione plastica di come la questione meridionale esista ancora e non interessi granché a chi governa, decide, fa accordi. Sono anni, infatti, che tutti si riempiono la bocca sulla necessità che il Sud investa massicciamente sul turismo. Il quale sta vivendo il più spettacolare boom mondiale di tutti i tempi senza che il Meridione riesca a intercettare qualche viaggiatore in più. Anni di proclami, promesse, bla bla... Basti ricordare che con 17 siti Unesco e tre quarti delle coste italiane, il Mezzogiorno fatica ad arrivare a un ottavo dei ricavi dal turismo straniero e tutto insieme raccoglie, secondo il Touring Club, molto meno degli arrivi e delle presenze del solo Veneto.

La Sicilia è il simbolo di questa disfatta turistica: con sei siti Unesco che rappresentano quasi un ottavo del patrimonio nazionale, raccoglie un trentunesimo dei soldi del turismo straniero. Domanda: che sia anche perché appare lontanissima a chi cerca di arrivarci in macchina (sulla Salerno-Reggio!), in treno (ve le raccomando, certe littorine...) o in aereo? In un mese tipo (luglio) di due anni fa, dice Boston Consulting, i voli charter sulle Baleari furono 14 volte superiori a quelli su Palermo, Catania, Trapani o Comiso. C’è da stupirsi se poi l’arcipelago spagnolo ha 11 volte più turisti e un reddito pro capite molto più alto?

10 settembre 2014 | 10:03
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_settembre_10/sicilia-simbolo-disfatta-turistica-fe7fb6bc-38b3-11e4-ba01-a3638c813bce.shtml
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« Risposta #232 inserito:: Settembre 24, 2014, 06:30:42 pm »

Vitalizi esagerati come diritti acquisiti
Costano 170 milioni alle Regioni i privilegi di presidenti e consiglieri pensionati a 50 anni o anche prima, ma le nuove leggi per ridurre i redditi nascono con il trucco perché gli stessi soldi vengono pagati in anticipo

Di Gian Antonio Stella

«Non accetto espropri». Alla richiesta di restituire parte dei (tantissimi) soldi in eccesso ricevuti come anticipo sul vitalizio, Franz Pahl, falco della Svp e presidente degli ex consiglieri regionali trentini e sudtirolesi, ha risposto alla napoletana: chi ha dato ha dato, chi ha avuto. Errore o non errore, dice che ormai quello spropositato «acconto» è un diritto acquisito. E si offre di guidare lui i colleghi rivoltosi, di ricorso in ricorso. Tedeschi e italiani uniti nella lotta. Per la pagnotta. D’oro.

Non passa giorno senza che i cittadini scoprano che dietro questa o quella riforma dei vitalizi regionali, magari sbandierata come una svolta virtuosa, c’era un trucco. Ed ecco saltar fuori che nel Lazio, grazie ad un emendamento bipartisan, ci sono ancora 44 consiglieri che aspettano di aggiungersi ai 270 pensionati d’oro al compimento dei cinquant’anni. Ecco che in Sardegna l’ex presidente del consiglio Claudia Lombardo se ne va in quiescenza a 41 anni, l’età di Cameron Diaz, con 5100 euro netti al mese. E via così. Per una spesa complessiva delle Regioni di 170 milioni di euro. Così spropositata che il sottosegretario Enrico ha presentato una proposta di legge costituzionale proprio per prendere di petto questi «privilegi acquisiti».

Tra i vari scandali quello trentino-sudtirolese è particolarmente offensivo. Perché a rivendicare il proprio diritto acquisito è anche chi, due anni fa, faceva parte della larga maggioranza che votò la legge che donava a tutti la sontuosa prebenda. Un esempio? Mauro Delladio, che in base alla generosissima leggina e ai calcoli sballati ha ricevuto un milione e 322 mila euro. E cioè, secondo i nuovi conti, almeno 462 mila di troppo, da restituire.

Breve riassunto? Nell’estate 2012 il Consiglio regionale annuncia di aver deciso di abolire i vitalizi per le legislature a venire e di ridurre quelli già avviati. Una scelta imposta dal governo Monti. Ma sventolata dal Pd come una prova luminosa: «I consiglieri provinciali e regionali del Trentino Alto Adige - Sud Tirolo avranno a partire dal 2013 le indennità più contenute rispetto ad ogni altra regione italiana, oltre ad essere l’unica Regione ad aver già esecutiva l’abolizione dei vitalizi».

In realtà, la «pensione» viene sì ridotta, al massimo, a 2.750 euro. Ma i «deputatini» ed ex «deputatini» sono invogliati ad accettare il «sacrificio» con l’offerta di avere subito i soldi che avrebbero avuto nel corso degli anni. Parte accantonati in un fondo «family» (nome interpretato da molti come una iniziativa in favore delle famiglie alpine…) e parte in contanti. Cash.

Un’offerta che non si poteva rifiutare. Tanto più dopo la rivelazione dei dettagli, resi noti mesi dopo dalla presidente Rosa Thaler, già nel mirino della Neue Südtiroler Tageszeitung per la busta paga di 21.300 euro, cinquemila più del presidente del Bundestag. Le condizioni erano infatti talmente munifiche da essere impensabili per qualunque altro pensionato al mondo.


Per cominciare, quel pacchetto partiva dall’idea che i consiglieri regionali sarebbero mediamente vissuti fino a 85 anni: sei in più, per gli uomini, dell’aspettativa di vita. E in base di questa calcolava l’anticipo dei vitalizi. Come spiegò una denuncia dei Verdi, «tale calcolo si fondava sulla fissazione di un “tasso d’interesse prevedibile” nel corso del periodo previsto». In pratica «quando si tratta di somme anticipate su pagamenti futuri, dal totale va tolto ciò che una persona investendo a un normale tasso d’interesse questi soldi può ricavare negli anni».

Nel ventaglio di consulenze fu scelto il parere del professor Gottfried Tappeiner (che successivamente si sarebbe dissociato) che fissò questo tasso di sconto, cioè la percentuale da sottrarre via via all’anticipo, allo 0,81%. Molto ma molto più favorevole del 3% ipotizzato da altre consulenze. Per non dire di altri trattamenti di favore sull’età pensionabile…

Risultato: tolti un ottantenne e un novantenne che preferirono continuare a ricevere il vitalizio mensile, tutti i consiglieri ed ex consiglieri hanno scelto entusiasti di incassare i soldi subito. Tanto più che per avere delle somme simili, volendo comprare una casa o un paio di appartamenti da affittare, avrebbero dovuto implorare in banca mutui immensamente più costosi.

Fatto sta che, dopo la selva di polemiche e l’intervento dei giudici, il nuovo consiglio regionale è stato obbligato a rivedere tutti i conti. E a chiedere ad alcune decine di privilegiati (20 su 87, per cominciare) di restituire una parte dei soldi ricevuti. Fino all’annuncio del presidente Diego Moltrer: «Andiamo a risparmiare 45 milioni di euro». Di cui 29 di restituzioni.

Ma quanti restituiranno sul serio quei soldi di troppo già incassati e magari già spesi? Pochi, a naso. Molti hanno già fatto sapere che daranno battaglia. Primo fra tutti, appunto, Franz Pahl: «Sì, il decreto l’ho ricevuto. Mi chiedono di restituire 323 mila euro. Ma non ci penso neppure. L’ho detto e lo ripeto: non mi lascio espropriare. Moltrer da me non vedrà neppure una vecchia lira ». E perché: «Siamo di fronte a una evidente violazione di principi costituzionali: la certezza del diritto relativa alla firma di un contratto». Insomma, i diritti acquisiti, come è successo mille volte, possono anche essere toccati. Ma solo se riguardano gli altri…

24 settembre 2014 | 16:36
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_24/vitalizi-esagerati-come-diritti-acquisiti-8db83f6c-43b7-11e4-bbc2-282fa2f68a02.shtml
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« Risposta #233 inserito:: Ottobre 07, 2014, 11:36:38 am »

Sassari, la direttrice dell’Asl cacciata perché non voleva truccare i conti
Secondo i pm il commissario dell’Azienda di Sassari chiese di creare il buco
La sua mail: «I soldi della Regione vanno a chi è in perdita, non in pareggio»

Di Gian Antonio Stella

U n bilancio quasi sano? Ma per l’amor di Dio! Meglio un buco, una voragine, un abisso. Più profondo possibile. «Tanto paga la Regione». Era questa, dice un’inchiesta della magistratura, la filosofia dell’Asl di Sassari. Una storia abnorme e paradossale. Che aiuta a capire perché la nostra Sanità, come spiegava ieri l’inchiesta di Simona Ravizza, sia sommersa dai debiti. Dice tutto una e-mail finita nelle tremila pagine del fascicolo giudiziario. Dove Marcello Giannico, messo lì come commissario dall’allora governatore berlusconiano Ugo Cappellacci, scrive al direttore amministrativo dell’Asl Angela Cavazzuti (che denuncerà tutto ai giudici) raccomandandole come priorità «l’approvazione del bilancio 2010 con le rettifiche che le ho suggerito. Le ricordo che in Regione ci sono 120 milioni LIQUIDI disponibili per ripianare le perdite del 2010 di tutte le Asl sarde. Le sottolineo che questi denari vanno alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di bilancio». Traduzione: quel bilancio improntato al virtuoso contenimento dei costi non va bene perché è troppo poco in rosso.

Ma come: il pareggio nei conti non è forse l’obiettivo di ogni buon amministratore dalla Patagonia alla Kamchatka? Il bilancio dell’Asl di Sassari, che serve 336.632 cittadini di 66 Comuni sparsi su un territorio grande come tutto il Molise, aveva chiuso quel 2010 con 877 mila euro di passivo su un «fatturato» di oltre mezzo miliardo: esattamente 528 milioni e 567 mila. Per capirci: uno sforamento dell’1,16%. Ventisei volte più basso di quello dell’anno prima. Oro colato, per la Sardegna che spende per la Sanità più o meno tre miliardi l’anno, la metà del proprio bilancio, e sfora ogni anno i budget di previsione di tre o quattrocento milioni. Buchi ripianati dalla Regione, per anni, senza troppe puzze sotto il naso.

Il guaio è che, da qualche tempo, le nuove norme dicono che se i direttori generali ottengono un risultato peggiore rispetto all’anno prima, non possono essere confermati. Un problema serio, per il commissario Giannico arrivato nel gennaio 2011: come poteva far meglio del predecessore, esautorato secondo i più maliziosi perché politicamente poco «affidabile»? L’unica soluzione, accusa il sostituto procuratore Gianni Caria, che ha chiuso le indagini preliminari chiedendo il rinvio a giudizio di Marcello Giannico e dei quattro suoi collaboratori principali, era far figurare peggiore il bilancio 2010.

Bilancio che, tra le proteste della direttrice amministrativa, fu riaperto (per legge doveva esser chiuso al massimo entro il 30 giugno 2011) e stravolto per arrivare, aggiungi questo e aggiungi quello (ad esempio 7 milioni di debiti nei confronti dei dipendenti mai reclamati né da loro né dai sindacati) a 11 milioni e mezzo di buco. Era il 3 novembre 2011.

Macché, il «ritocco» non bastava. Cinque giorni dopo Giannico riceveva da Gian Michele Cappai, il responsabile del Servizio Programmazione preso infischiandosene delle contestazioni interne (un documento-oroscopo sindacale era arrivato a predire in anticipo le generalità dell’assunto: «le sue iniziali saranno G.M.C.»), una e-mail preoccupatissima: «Dal preconsuntivo 2011 emerge “una perdita tendenziale pesante”». Traduzione: il primo intervento per peggiorare il bilancio 2010 non bastava davanti al resoconto 2011 che si profilava. E che avrebbe visto un buco di 13 milioni.

Che fare? I vertici dell’Asl sassarese decidono un nuovo intervento sul bilancio chiuso e riaperto. Il baratro nei conti 2010 viene inabissato fino a 18 milioni e mezzo. Ventuno volte più profondo del modesto «rosso» iniziale. In realtà, scriverà La Nuova Sardegna , «gonfiare i debiti» fu per la Procura «un gioco di prestigio contabile per consentire a Giannico di evitare la revoca dell’incarico. E siccome Angela Cavazzuti si era messa di traverso, ostacolando l’operazione, sempre secondo questa ipotesi accusatoria Marcello Giannico le creò prima il vuoto intorno e nel 2012 la licenziò in tronco».

Di più: il licenziamento della dirigente che rifiutava di sottoscrivere i giochi di prestigio fu corredato dalla diffusione di motivazioni così «ingiuriose» da configurare, dice il magistrato, il reato di diffamazione aggravata. Col risultato che il commissario pidiellino rimasto al suo posto nonostante la vittoria del centrosinistra alle ultime regionali e nonostante le indagini sul bilancio, si ritrova con la richiesta di una imputazione in più.
Come andrà a finire? Lo dirà, se ci sarà, il processo. E fino all’eventuale condanna, si capisce, Marcello Giannico e i suoi sodali (che grazie a quel lifting ai conti son riusciti a farsi dare l’anno dopo dalla Regione 40 milioni in più e addirittura 47 nel 2012 fino a far segnare un miracoloso sia pur minimo attivo di bilancio) sono innocentissimi. Auguri.

Vada come vada, resta quella e-mail strabiliante che chiede alla funzionaria ribelle di ritoccare i numeri perché i soldi della Regione «vanno alle Aziende che hanno prodotto perdite e non pareggi di bilancio». Per non dire di una e-mail di Gianfranco Manca, responsabile del Bilancio, al commissario che l’aveva scelto: «Come sai le rettifiche non saranno prese bene dalla Cavazzuti che farà di tutto per crearmi problemi. Il fatto di non essere un esperto di bilancio non sarà certamente un vantaggio per l’espletamento dell’incarico». Confessione ribadita nell’interrogatorio giudiziario: «Non avevo prima esperienza nel settore bilancio...». L’avevano scelto apposta per gestire mezzo miliardo di euro l’anno...

7 ottobre 2014 | 07:32
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« Risposta #234 inserito:: Ottobre 13, 2014, 03:05:36 pm »

Genova dopo l’alluvione
Il pasticcio dei lavori sul torrente fermi da 4 anni. Chi paga l’incuria?
Nel 1974 l’allora ministro dell’Industria Ciriaco De Mita, definì il Bisagno «emergenza nazionale».
Quattro decenni dopo siamo ancora qui


Di Gian Antonio Stella

D al fango di Genova escono due mani che reggono due plichi di ingiunzioni avvocatizie. La prima intima a Claudio Burlando di affidare immediatamente i lavori alle imprese che hanno vinto l’ultimo ricorso. La seconda, dei legali di chi ha perso l’ultima battaglia giudiziaria, diffida il governatore stesso dall’affidare quei lavori in attesa delle motivazioni della sentenza: è in arrivo una nuova raffica di eccezioni.

E in quelle due diffide contrapposte, mentre amici e parenti piangono Antonio Campanella, l’ultimo dei genovesi uccisi in questi anni da quel Bisagno che di tanto in tanto lascia esplodere la sua collera come se volesse vendicarsi di chi nei decenni ha immaginato di poterlo domare stringendolo e rinsecchendolo e seppellendolo dentro un budello di cemento, c’è la sintesi di una storia scellerata. Dove le carte bollate, un attimo dopo la fine di ogni emergenza, un attimo dopo i funerali dei morti di turno, un attimo dopo le furenti proteste e le accorate promesse («Mai più! Mai più!»), tornano a impossessarsi di un problema che da decenni è lì, sotto gli occhi di tutti. Occhi gonfi di lacrime nelle ore del pianto, distratti appena le prime pagine sono dedicate ad altro. Il solo elenco delle alluvioni genovesi dell’ultimo mezzo secolo dice quanto sia serio il problema. Dieci morti nel 1953, quarantaquattro nel 1970, due nel 1992, tre nel 1993, uno nel 2010, sei nel 2011, un altro ieri... Ed è una triste scommessa prevedere, se non cambia qualcosa, nuovi morti domani, dopodomani, dopodomani l’altro. Ed è del tutto inutile invocare San Giovanni Nepomuceno, il patrono contro le frane e le alluvioni. Non può star dietro a tutto: il nostro, come ricorda una relazione al Parlamento della «Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico» affidata da Renzi a Erasmo D’Angelis, è un Paese a rischio: «486.000 delle 700.000 frane in tutta l’Ue sono in 5.708 comuni italiani». Quasi il 69%.

Più esposta tra gli esposti, Genova: «Il tratto terminale del torrente Bisagno, che sottende un’area fortemente antropizzata nella quale gravitano oltre 100.000 persone, e in cui sono presenti una serie di strutture e infrastrutture di valore strategico e logistico per l’intero assetto urbanistico della città», dice un rapporto della Regione al governo, «presenta condizioni di elevatissima criticità idraulica dovute alla grave insufficienza al deflusso dell’alveo attuale e in particolare del tratto terminale coperto». Non basta: «Detta area rappresenta inoltre un nodo infrastrutturale particolarmente complesso, dal momento che vi si concentrano flussi di traffico - sia viabilistico sia ferroviario - già notevoli e ulteriormente destinati ad aumentare».

Come spiegava qualche mese fa su queste pagine Marco Imarisio, raccontando di anni perduti, lettere smarrite, tormentoni giudiziari, commissari a girandola, quando nel 1928 studiò come ingabbiare il Bisagno che scende Passo della Scoffera e solca il centro del capoluogo ligure, il progettista incaricato dal Duce di interrare il torrente calcolò che nei momenti di piena potesse rovesciarsi a valle portando al massimo 500 metri cubi d’acqua al secondo.
Sarà perché è stato sconvolto il territorio alle spalle della città, sarà perché è cambiato il clima, certo è che sbagliava i conti. Quando si gonfia sotto improvvise piogge torrenziali con l’apporto di altri sei torrenti, il Bisagno irrompe furibondo in città portandone, di litri, il triplo: 1.450.

Era il 1974 quando dopo l’ennesimo spavento quella volta senza morti, l’allora ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato, Ciriaco De Mita, definì il Bisagno una «emergenza nazionale». Quattro decenni dopo siamo ancora qui. A rileggere documenti della struttura d’emergenza di Palazzo Chigi intitolati: «Come e perché da 3 anni sul Bisagno lavorano avvocati e magistrati ma non operai».

A chiederci come sia possibile che la «rimozione del tappo» nel tratto terminale del fiume, tappo che ogni tanto salta, sia bloccata da anni dalle risse intorno agli appalti nonostante fosse stata riconosciuta come una criticità a livello nazionale ed europeo almeno da quando fu inserita nel «Piano degli interventi strutturali per la riduzione del rischio idrogeologico in aree urbane ad altissima vulnerabilità» redatto nel luglio 2001.

Chi abbia ragione tra i due consorzi di imprese che si scannano intorno all’appalto per 35.730.000 euro stanziati l’11 ottobre 2010, con tutto il rispetto per le ragioni dei contendenti, non può interessare più di tanto i cittadini italiani. Che scoprono basiti come a distanza di anni dai lutti, dalle lacrime, dalle promesse, dai solenni giuramenti del 2011 praticamente nulla sia stato fatto. Per ragioni di carte. Solo di carte. E non vale solo per Genova, dove oggi piangiamo l’ultimo degli oltre cinquemila morti uccisi negli ultimi decenni da frane e alluvioni che spesso si potevano evitare.

La stessa «Struttura di missione» di Palazzo Chigi denuncia i ritardi nei lavori per mettere in sicurezza altre aree ad alto rischio. Da quella del Seveso a quella dell’Arno, da quella del Tagliamento («Si discute sulle soluzioni da 48 anni, con 41 milioni da spendere») a quella di Sarno e di Quindici. Dove nel maggio 1998 morirono, travolte dal fango, 160 persone.

Spiega una relazione che «il “grande progetto Sarno” consiste nell’apertura di uno scolmatore che sfocia a Torre Annunziata sfruttando il percorso del “canale Conte di Sarno” realizzato negli anni 70 e mai utilizzato» e che è prevista anche «la realizzazione di vasche e aree ad esondazione controllata per una superficie complessiva di 100 ettari circa» per mettere al sicuro almeno «i 44.000 abitanti più a rischio in caso di piena» dato che «allo stato attuale l’insufficienza idraulica del fiume provoca esondazioni praticamente a ogni pioggia».

Bene: l’intero progetto, rifinito in tutti i dettagli dai tecnici della Autorità di Bacino e dell’Agenzia regionale Arcadis, con 23 interventi suddivisi in 5 lotti, è però fermo. E restano così in sospeso i 247,4 milioni di euro stanziati per l’opera. Quasi tutti fondi europei. Anche sul Sarno, accusano da Palazzo Chigi, «sono in corso guerre legali tra Comuni e tra Comuni e Regione». Un ammasso di conflitti a volte anche giustificati: molti cittadini si pongono ad esempio il problema delle vasche: il Sarno è inquinatissimo, non sarà il caso, prima, di procedere col disinquinamento?

Fatto sta che decine di migliaia di persone, che vivono in un’area sei volte più popolata rispetto alla media nazionale, restano lì, tre lustri dopo la catastrofe, a rileggere quei dati che spiegano come Sarno sia stata colpita da 5 frane nel secolo dal 1841 al 1939 e da 36 (trentasei!) dopo la seconda guerra mondiale. E a sperare che il buon Dio e la natura perdonino i loro sventurati ritardi.

11 ottobre 2014 | 08:21
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_11/pasticcio-lavori-torrente-fermi-4-anni-chi-paga-l-incuria-b070574e-510c-11e4-8503-0b64997709c2.shtml
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« Risposta #235 inserito:: Ottobre 21, 2014, 11:12:15 pm »

Italia.it, un’occasione persa costata venti milioni di euro
Doveva essere la vetrina del Paese sul web e invece ha infilato una serie di gaffe. Se ne va anche il direttore per gli stipendi non pagati ai dipendenti

Di Gian Antonio Stella

La ricetta del «cunigghiu a’ stimpirata» proposta solo in italiano e senza sottotitoli anche ai turisti tedeschi, meno male, è sparita. E così tanti altri svarioni che fecero ridere il pianeta. Ma il tormentone di Italia.it, il sito che doveva «vendere» il nostro Paese sul mercato mondiale non è finito. Ieri ha sbattuto la porta il direttore, Arturo Di Corinto. Ritiene «poco dignitoso», a ragione, che lui e i pochi dipendenti rimasti lavorino da mesi senza essere pagati. Per un sito costato una cifra mostruosa: venti milioni di euro.

In realtà, come ha confermato il governo rispondendo a un’interrogazione grillina, i milioni stanziati per il progetto dal ministro berlusconiano Lucio Stanca nel lontano 2004 erano addirittura 45. Incrementati più avanti da altri 10. Si trattava, però, di «fantastilioni di triliardi», per dirla in moneta di Paperon de’ Paperoni: mai visti, tutti quei soldi. Erano solo sulla carta. In realtà, tra un rifacimento e l’altro (resta indimenticabile il primo logo, dove la «t» verde di Italia pareva un cetriolo) la costruzione del portale è durata quanto quella, assai più complicata, del tunnel sotto la Manica. Colpa del solito interminabile contenzioso su uno degli appalti, delle indecisioni della politica, di un assurdo sballottamento di competenze tra queste e quella società, di risse da comari interne finite con scambi di querele, di alcuni misteri che dovranno essere chiariti dalla magistratura che già sta indagando (la lettera di Di Corinto accenna addirittura a «fatti delinquenziali») ma più ancora di una lista di errori così lunga da riempire settanta pagine di un rapporto al ministero. Dagli strafalcioni nelle traduzioni fatte con translate.google. it per risparmiare sugli interpreti alle foto sbagliate, dalle citazioni errate ai link che portavano da tutta un’altra parte. Risultato, un disastro. Tale da far precipitare Italia.it al 184.594° posto fra i siti web più visitati del Pianeta. Per non dire delle pagine rivolte ai cinesi: nelle quattro grandi foto che riassumevano l’Italia c’erano una Ferrari, una Ducati, un pezzo di parmigiano e un prosciutto di Parma. In mezzo: Bologna. Come fosse la capitale d’Italia: per risparmiare, dopo aver buttato via pacchi di quattrini, avevano fatto un copia-incolla dal sito cinese della Regione Emilia-Romagna! Ci sono voluti due anni, dal giugno 2012 in qua, per restituire un po’ di decoro alla nostra «vetrina» sul web.

Vetrina che oggi, nonostante la redazione della società «Unicity», composta da giornalisti, social media manager, traduttori, storici dell’arte, fotografi e videomaker si sia via via ridotta dalle venti del progetto iniziale a quattro persone e nonostante sia stato necessario chiudere il portale in cinese per poter tornare in Rete con qualcosa di più serio, spiega nella sua lettera a Matteo Renzi e a Dario Franceschini Arturo Di Corinto (subito convocato al ministero, pare, nel tentativo di mettere una toppa allo scandalo), si compone di 259 mila pagine web.

Per non dire di Facebook (da zero a 229 mila fans) e di Twitter (da zero a 67 mila follower), che hanno obbligato i ragazzi della redazione a una rimonta febbrile per recuperare anni di ritardi. E costretti a supplire con l’impegno e la fantasia al pressoché totale disinteresse della politica. Pochi dati dicono tutto: per la «campagna turistica d’autunno» l’Irlanda del Nord ha stanziato un mese fa 9 milioni e mezzo di sterline.


La Croazia, sulla campagna di quest’anno «Visit Croatia, Share Croatia», ha messo 7 milioni e mezzo. La Gran Bretagna, soltanto sui social network considerati fondamentali per la politica turistica in questi anni ha investito 25 milioni di sterline. E noi? Zero carbonella. Anzi, sui diversi strumenti offerti dal Web per agganciare i turisti, non è stato sganciato un solo euro dal 2010. Peggio: dal marzo di quest’anno non arrivano più, accusano i dipendenti del portale, neppure i 30 mila euro al mese dovuti per pagare gli stipendi. Eppure mai si era visto nella storia un boom quanto quello del turismo negli ultimi anni.

Basti dire che nel 2004, quando il governo di Silvio Berlusconi avviò (sia pure con grave ritardo e coi capitomboli che abbiamo detto) il progetto del portale Italia.it, gli abitanti del Pianeta che viaggiavano per vacanze erano 765 milioni. Dieci anni dopo, cioè nel 2013, sono stati un miliardo e 87 milioni. Con un aumento complessivo del 42%. Per contro l’Italia, nonostante sia in cima ai desideri dei turisti di tutto il mondo (che però devono fare i conti, purtroppo, con una serie di handicap pesanti a partire dal costo degli hotel, che secondo Eurostat sono da noi nettamente più cari che in Spagna, in Grecia, in Croazia, in Portogallo, in Germania, in Turchia, in Austria e in Gran Bretagna), ha visto i suoi visitatori passare in dieci anni da 37 a 47 milioni, con un aumento molto più basso di quello mondiale.

Peggio ancora negli ultimissimi anni: dando ragione a Jeremy Rifkin («L’espressione più potente e visibile della nuova economia dell’esperienza è il turismo globale: una forma di produzione culturale emersa, ai margini della vita economica appena mezzo secolo fa, per diventare rapidamente una delle più importanti industrie del mondo ») il boom planetario ha visto dal 2009 a oggi crescere i turisti mondiali di oltre duecento milioni. Un diluvio. Del quale ci è arrivata solo una pioggerella. Anzi, nel 2013 l’Italia, nonostante sia saldamente la quinta al mondo per numero di visitatori (e pensare che fino a trent’anni fa eravamo i primi...) ha subito addirittura, nelle presenze, un calo del 4,5%. Il guaio è che mancano solo pochi mesi all’Expo. E come dimostrano centinaia di grafici e tabelle e report sull’e-commerce, il turismo nel terzo millennio si muove sempre di più seguendo i percorsi della Rete. O ci diamo una mossa o rischiamo davvero una figuraccia.

21 ottobre 2014 | 07:50
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« Risposta #236 inserito:: Novembre 09, 2014, 12:06:48 pm »

La storia

Via da Siracusa i sovrintendenti che non volevano il mega porto
Si erano opposti alla costruzione di ville e di un approdo nell’area protetta. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto

Di Gian Antonio Stella

Festa grande, brindisi e «urrah!» tra i cementieri di Siracusa. Ricordate Rosa Lanteri e gli altri due soprintendenti che si videro chiedere 100 milioni di danni, poi saliti a 423, per aver bloccato speculazioni in zone archeologiche? Li hanno rimossi. Via. Sciò. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto.

Ma partiamo dall’inizio. Cioè dalla decisione dei tre funzionari della Soprintendenza Rosa Lanteri (beni archeologici) Alessandra Trigilia (paesaggistici) e Aldo Spataro (architettonici) di mettersi di traverso ad alcuni pesanti interventi in alcune delle aree più importanti ed esposte della città di Dionisio. Rileggiamo il decreto del 1988 intitolato «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Dice che poiché «lungo la costa che dal castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l’area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, dall’altopiano dell’Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e poiché questo «spettacolo di mare , oltre ad essere ricordato da Tucidide, Diodoro e Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza» il bacino va considerato «un insieme unico al mondo». Quindi va vincolato.

Eppure, da anni c’è chi vorrebbe piazzarci dei porti turistici. Come il «Marina di Archimede» (un nome che suoni «storico» è vitale, se metti cemento) che «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000» per 500 posti barca. O il «Marina di Siracusa», che avrebbe addirittura un’isola artificiale di 40mila metri quadri e usando i ruderi d’una vecchia fabbrica di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.

Il primo dei due porti, passato ai tempi di Totò Cuffaro grazie ad un accordo di programma e a soprintendenti poco battaglieri, è ormai arduo da fermare. Il secondo è stato stoppato. Così come sono stati stoppati 71 villini e due centri direzionali sul Pianoro dell’Epipoli, in zona di inedificabilità assoluta. E un mega-piano per 501 abitazioni ai piedi dell’Epipoli. E un impianto di «co-combustione» in un’area vincolata a ridosso di Megara Eblea. E altro ancora.

Un argine in controtendenza con certe gestioni del passato. Come quella di Mariella Muti, la soprintendente moglie di un architetto progettista di un condominio di lusso poi stoppato sulla Balza Acradina, soprintendente che a un certo punto, dato il via libera al piano regolatore che consentiva una concentrazione volumetrica nell’area tutelata dell’Epipoli, si pensionò usando la legge 104 (assistenza a familiari disabili) per giurare cinque giorni dopo come assessore comunale.

Va da sé che i costruttori, abituati a «vigilanti» di manica così larga, accolsero i «no» dei tre funzionari della nuova Soprintendenza, motivati dal rispetto dei vincoli ribaditi successivamente da varie sentenze del Tar, come una sorta di insubordinazione. Peggio: come un ostacolo al «progresso» cementizio. Al punto di pretendere dalla Lanteri, dalla Trigilia e da Spataro, rei di aver imposto il rispetto delle tutele, 268 milioni di euro per lo stop al porto e altri 155 per il blocco alle villette e ai centri direzionali. Per un totale, come dicevamo, di 423 milioni. Una somma così spropositata che i tre dipendenti pubblici, non arrivando ciascuno a tremila euro al mese i, impiegherebbero a pagare tre millenni e mezzo.

Una intimidazione. Davanti alla quale uno Stato serio e una Regione seria avrebbero dovuto schierarsi a muso duro dalla parte dei dirigenti. Mettendo loro a disposizione i migliori avvocati su piazza. Macché: le difese, i tre, hanno dovuto prepararsele quasi da soli. Contando sull’appoggio di tutti gli ambientalisti, di destra e di sinistra, del giornale on-line «la Civetta» e soprattutto di Italia Nostra, che un anno fa assegnò a Rosa Lanteri (e idealmente ai suoi colleghi) il «Premio Zanotti Bianco» per la difesa del «patrimonio culturale e paesaggistico in particolare nei territori del Sud, contro mille difficoltà, tra cui criminalità e malaffare».

In questo contesto, sui tre dirigenti siracusani lo Stato avrebbe dovuto dire: questi non si toccano. Macché, saltate prima l’assessore Maria Rita Sgarlata e poi la soprintendente Beatrice Basile, i tre sono stati infine tolti di mezzo. Normale avvicendamento, ha spiegato la Regione. Non dice forse la legge regionale che «nell’ambito delle misure dirette a prevenire il rischio di corruzione, assume particolare rilievo l’applicazione del principio di rotazione del personale»?
Giusto. La norma dice però che «la durata dell’incarico dovrebbe essere fissata in cinque anni rinnovabili preferibilmente una sola volta». Traduzione: massimo dieci anni. E la Lanteri, la Trigilia e Spataro, i primi spostati a svernare in questo o quel museo, non arrivano a cinque: le soprintendenti di Caltanissetta e Trapani sono lì da dieci e a Messina e a Palermo ci sono dirigenti imbullonati da dodici... E allora? Come la mettiamo? Qual è, il messaggio, a chi combatte il cemento nelle aree archeologiche protette?

8 novembre 2014 | 07:45
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« Risposta #237 inserito:: Novembre 12, 2014, 04:16:01 pm »

PENSIONI
Un comma sparito cancella il tetto alle pensioni d’oro
Abolito il tetto alle pensioni alte. Un miliardo e mezzo in 10 anni. Vitalizi fino al 115 per cento dell’ultima paga

Di Gian Antonio Stella

Avete presente la leggenda di Sissa Nassir, l’inventore degli scacchi che chiese allo Shah un chicco di grano nella prima casella, 2 nella seconda, 4 nella terza e via raddoppiando? Una misteriosa manina ha ideato un giochino simile, facendo sparire alcune parole chiave per le pensioni più ricche. Nel 2014 il giochino costerà 2 milioni di euro: nel 2024 addirittura 493. In un anno. Per un totale nel decennio di 2 miliardi e 603 milioni di euro. A godere di questo regalo, calcola l’Inps, saranno circa 160 mila persone. Quelle che, pur avendo raggiunto nel dicembre 2011 i quarant’anni di anzianità, hanno potuto scegliere di restare in servizio fino ai 70 o addirittura ai 75 anni. In gran parte docenti universitari, magistrati, alti burocrati dello Stato...

Il regalo agli «eletti» è frutto della cancellazione di quattro righe. La legge 214 del 2011 voluta dal ministro Elsa Fornero, che si riprometteva di «togliere ai ricchi per dare ai poveri», diceva infatti all’articolo 24 che dal primo gennaio 2012 anche i nuovi contributi dei dipendenti che avevano costruito la loro pensione tutta col vecchio sistema retributivo, perché avevano già più di 18 anni di anzianità al momento della riforma Dini del ‘95, dovevano esser calcolati con il sistema contributivo.

«In ogni caso per i soggetti di cui al presente comma», aggiungeva però il testo originario suggerito dall’Inps, «il complessivo importo della pensione alla liquidazione non può risultare comunque superiore a quello derivante dall’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima dell’entrata in vigore del presente comma».

Arabo, per chi non conosce il linguaggio burocratico. Proviamo a tradurlo senza entrare nei tecnicismi: quelli che potevano andarsene con il vitalizio più alto (40 anni di contributi) ma restavano in servizio potevano sì incrementare ancora la futura pensione (più soldi guadagni più soldi versi di contributi quindi più alta è la rendita: ovvio) ma non sfondare l’unico argine che esisteva per le pensioni costruite col vecchio sistema: l’80 per cento dell’ultimo stipendio. Poteva pure essere una pensione stratosferica, ma l’80 per cento della media delle ultime buste paga non poteva superarlo.

Quelle quattro righe della «clausola di salvaguardia» che doveva mantenere l’argine, però, sparirono. E senza quell’argine, i fortunati di cui dicevamo possono ora aggiungere, restando in servizio con stipendi sempre più alti, di anno in anno, nuovi incrementi: più 2 per cento, più 2 per cento, più 2 per cento...

 Al punto che qualcuno (facendo «marameo» alla maggioranza dei cittadini italiani chiamati in questi anni a enormi sacrifici) potrà andarsene fra qualche tempo in pensione col 110 o il 115% dell’ultimo stipendio. Per tradurlo in cifre: il signor Tizio Caio che già potrebbe andare in pensione con 33.937 euro al mese potrà riceverne invece, grazie a questa «quota D», 36.318.

Chi le fece sparire, quelle righe, non si sa. E certo non era facile accorgersi del taglio in un testo logorroico di quasi 18 mila parole più tabelle. Un testo cioè lungo quasi il doppio del «Manifesto del partito comunista» di Marx ed Engels, il doppio esatto della Carta Costituzionale, cinque volte di più del discorso di inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per non dire del delirio burocratese. Con l’apparizione ad esempio dei commi 13-quinquies e 13-sexies e 13-septies e 13-octies e 13-novies e perfino 13-decies. Ciascuno dei quali impenetrabile per chiunque non sia vaccinato contro la burocratite acuta.

«Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare», diceva tre secoli fa l’abate Ludovico Muratori. Parole d’oro: la rimozione di quelle poche righe che arginavano abnormi aumenti delle pensioni d’oro, come ha scoperto l’Inps, hanno prodotto l’effetto perverso che il misterioso autore del taglio doveva aver diabolicamente calcolato.

Secondo una tabella riservata fornita al governo dai vertici dell’Istituto di previdenza, infatti, tabella che pubblichiamo, 160 mila persone circa potranno godere sia dei vantaggi del vecchio sistema retributivo sia di quelli del «nuovo» sistema contributivo. E tutto ciò, se non sarà immediatamente ripristinata quella clausola di salvaguardia, causerà un buco supplementare nelle pubbliche casse di 2 milioni quest’anno, 11 l’anno prossimo, 44 fra due anni, 93 fra quattro e così via. Fino a una voragine fra nove anni di 493 milioni di euro. Per un totale complessivo, come dicevamo, di oltre due miliardi e mezzo da qui al 2024. Per capirci: una somma dieci volte superiore ai soldi necessari a mettere in sicurezza una volta per tutte Genova dal rischio idrogeologico e dalle continue alluvioni.

Dello stupefacente meccanismo ideato da Sissa Nassir per farsi dare un’enormità dallo Shah di Persia sorrise anche Dante Alighieri che nella Divina Commedia, per spiegare quanto il numero degli angeli crescesse a dismisura, scrisse «L’incendio suo seguiva ogne scintilla / ed eran tante, che ‘l numero loro / più che ‘l doppiar de li scacchi s’immilla».

I cittadini italiani, però, tanta voglia di poetare oggi non hanno. E forse sarebbe il caso che il governo prendesse subito sul serio l’allarme dell’Inps. Andando a ripristinare quelle righette vergognosamente fatte sparire.

11 novembre 2014 | 08:48
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Da - http://www.corriere.it/economia/14_novembre_11/comma-sparito-cancella-tetto-pensioni-d-oro-3a774e62-6976-11e4-96be-d4ee9121ff4d.shtml
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« Risposta #238 inserito:: Novembre 12, 2014, 04:18:25 pm »

La storia

Rimosso l’ingegnere che voleva salvare Messina: «Edifici a rischio»
Gaetano Sciacca, da capo del Genio civile, bloccò palazzi di 8 piani su crinali a rischio.
«Da anni ripeto che l’autostrada potrebbe crollare. Dicono che porto iella? Pazienza»


di Gian Antonio Stella

L’ingegner Gaetano Sciacca porta iella? Gli schiavi della scaramanzia se ne vadano pure a comprar cornetti e amuleti. Ma un Paese serio dovrebbe ascoltare le urla d’allarme dell’uomo che a Messina ha fatto, dopo le frane assassine del 2009, ciò che non è stato fatto a Genova. E che denuncia i rischi incombenti su una città fragilissima la quale, a causa dell’assalto dei cementieri, è esposta a nuovi disastri alla prima botta di terremoto o al primo nubifragio. Un uomo che anche per questi allarmi è stato fatto fuori.

«Ci saranno sempre terremoti in California» dice l’elenco telefonico di Los Angeles. E spiega come tenersi pronti. Dopo di che ogni californiano può anche pregare sant’Emidio: la prevenzione, però, viene prima. A Messina, denuncia da tempo l’ingegnere Sciacca, il viadotto Ritiro su cui passa l’autostrada Messina-Palermo è in condizioni pessime: «Lo hanno costruito col cemento depotenziato e già due anni fa una commissione di esperti ha detto che rischiava di crollare. È ancora li. Solo un po’ alleggerito: auto e camion passano su una sola corsia. Se viene giù quel viadotto, si abbatterà su un’area dove vivono migliaia di persone. Se ne parlo porto “scutra”? Me ne infischio. Non parlarne: questo è criminale. Aspettiamo il disastro?».

Sono anni che Sciacca, ingegnere capo del Genio civile finché Crocetta l’ha spostato un mese fa tra gli «urrah!» dei palazzinari e lo sconcerto di gran parte della città, si sgola a spiegare che Messina è in pericolo. Nel maggio 2010 mostrò a Tito Cavaleri della Gazzetta del Sud una foto: «Lo vede questo cartello con scritto “rischio frane”? Bene, ecco cosa vorrebbero far sorgere». E spianò sul tavolo il progetto di un complesso mostruoso. Come mostruoso era un altro progetto bloccato: la trasformazione su un crinale a rischio di una villetta a due piani in un palazzo di otto piani più seminterrato e garage. E altro ancora...

Il nodo è questo: Sciacca ha sempre rifiutato di applicare meccanicamente una leggina regionale del 2003 firmata da Cuffaro che permette, un attimo dopo il deposito di un progetto, di iniziare a costruire prima ancora che il Genio civile possa aprir bocca. Caso mai, se violasse le norme di sicurezza antisismica e idrogeologica, dice la leggina, l’edificio può essere abbattuto. Ma dai! Ci vogliono decenni, da noi, per buttar giù un fabbricato. E come fai a rimediare a uno sbancamento che magari ha compromesso un’area già franosa? Infatti la Cassazione ha chiarito: leggi simili non valgono nelle aree a rischio.

E cos’è più a rischio di Messina, colpita nel 1908 dal più disastroso dei terremoti italiani e successivamente da decine di frane, dovute alla presenza in città di ben 52 fiumare per la metà intubate e a una cementificazione che lo stesso giornale locale definisce «criminale»? Dice il rapporto Ispra 2008: «L’intensa urbanizzazione rende concreta la possibilità che una nuova calamità naturale possa essere ancora più disastrosa di quella di cento anni fa». Eppure han continuato a presentare progetti folli. Come quello di due centri commerciali e palazzine per oltre tremila abitanti nella valletta del torrente Trapani. Bloccato da Sciacca come decine di altre proposte da brivido in una cinquantina di aree a rischio. Fino a tirarsi addosso le ire di una miriade di ingegneri, costruttori e politici compatti nelle accuse: «Quel funzionario paralizza lo sviluppo di Messina!»

Bollato come un «Signor No», l’ex capo del Genio civile è intervenuto in realtà sulle aree di maggior pericolo come Scaletta Marina o Giampilieri, devastate dalle alluvioni con 37 morti del 2009, con rara efficienza. Ha scritto sulla Gazzetta Francesco Celi: «79 appalti completati, 24 in corso di realizzazione e vicini o quasi al traguardo» per un totale di 155 milioni «e c’è da andarne orgogliosi, perché per una volta alle nostre latitudini ha prevalso la politica del fare».

Non solo, spiega Sciacca: «I lavori sono stati fatti nei tempi giusti, tutte le imprese sono state pagate e non abbiamo avuto alcuna perizia di variante con aumenti dei costi pretestuosi. Anzi, le imprese hanno donato ai paesi opere supplementari». Allora, direte, cosa vogliono di più da un funzionario pubblico? Lasciamo rispondere a Celi: l’ex capo del Genio civile è accusato di «non aver coinvolto nella scelta dei professionisti cui affidare progettazioni e procedimenti Ordini professionali e segreterie politiche che non possono rinunciare a indicare professionisti...». Insomma, ha rotto il giocattolo degli amici e degli amici degli amici.

Non gli perdonano, soprattutto, di aver detto verità scomodissime. Che Messina non può continuare a costruire, ignorando i rischi sismici idrogeologici, palazzi di cemento armato ammucchiati «senza una via di fuga, né uno straccio di progettino che preveda un minimo di alternativa sostenibile». Che «costruiscono ville sul mare o in località a rischio e poi pretendono opere pubbliche a difesa dell’indifendibile». «Ho le imprese alle calcagna. Sono dietro la porta. Ingegnere, mi gridano, teniamo famiglia... Ma insomma, come diavolo posso autorizzare simili scempi? Non è bastato Giampilieri?». Parole prese malissimo dall’Ordine degli ingegneri, tirati in ballo con architetti e geometri per tanti progetti insensati: «Valuteremo provvedimenti disciplinari: ha screditato e offeso la nostra categoria».

Fatto sta che l’ingegnere è stato «promosso» a un nuovo incarico nell’iperuranio e tolto di mezzo. Nonostante una lettera del Wwf e di Italia Nostra che lo benedicono per avere portato a termine «tutte le opere per la messa in sicurezza di Giampilieri» in modo «estremamente esemplare». Nonostante la difesa della Gazzetta: «Se questa città si fosse ritrovata un drappello di professionisti come Sciacca oggi sarebbe ben altra cosa». Nonostante un appello a lasciare l’ingegnere dove stava firmato da 23 associazioni ambientaliste e da vari sindaci, in testa quello messinese, Renato Accorinti: «Questo territorio saccheggiato nel tempo, che ha pagato con la vita di cittadini innocenti scelte spesso irresponsabili, non può permettersi...». Macché...

20 ottobre 2014 | 09:20
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_20/rimosso-l-ingegnere-che-voleva-salvare-messina-edifici-rischio-c4e42dc8-5827-11e4-9d12-161d65536dad.shtml
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« Risposta #239 inserito:: Novembre 16, 2014, 05:58:14 pm »

L’editoriale

Un piano speciale per ricominciare
Il disastro dovuto al maltempo era già tutto scritto. Lo scrisse Indro Montanelli, raccontando la cecità con cui stavano seppellendo la Liguria sotto il calcestruzzo

Di Gian Antonio Stella


«Meno sentimentalismo sterile e più cemento!». Così urlavano gli incoscienti che mezzo secolo fa accolsero un gruppo di studiosi scesi a Montemarcello per opporsi alla lottizzazione degli stupendi declivi. Lo scrisse Indro Montanelli, raccontando furente la cecità con cui stavano seppellendo la Liguria sotto il calcestruzzo. E condannandola ai rischi di oggi. Toglie il fiato rileggere, nel ribollio di notizie su nuove esondazioni e nuove frane e nuovi lutti e nuovi incubi, i reportage dei grandi cronisti che allora descrissero inorriditi lo scempio di quella terra flagellata oggi dal maltempo e dallo strascico di errori antichi. Stanno venendo al pettine nodi lasciati per decenni irrisolti. Sul fronte economico e sindacale. Sul fronte delle periferie, bruttissime e progettate, per dirla con Antonio Cederna, come «case-canili». Sul fronte dell’ambiente dato che, come scrisse il nobiluomo modenese Luigi F. Valdrighi, «la barbarie è sgoverno permanente e, fra le caratteristiche degli sgoverni sono anche le inondazioni».

Per troppo tempo il nostro Paese, nel rapporto con la natura, è stato «sgovernato». Ignorando quanto già avvertiva Leonardo da Vinci: «L’acqua disfa li monti e riempie le valli, e vorrebbe ridurre la terra in perfetta sfericità, s’ella potessi». Dando la colpa delle alluvioni alla malasorte o addirittura alle streghe, come nel 1493 quando i mantovani bruciarono viva una poveretta accusata di una piena del Po. Scacciando come mosche fastidiose i ricordi delle tragedie che dovevano essere di monito. Pretendendo di imprigionare le acque come a Messina dove i 52 torrenti del territorio comunale sono stati per la metà intubati. E tagliando via via i fondi per il rischio idrogeologico. Ridotti l’anno scorso a 30 milioni di miserabili euro. Briciole.

È da qui che bisogna ripartire. Dobbiamo tornare a governare la nostra terra. Proprio perché è bellissima e fragile. Perché è unica al mondo. Perché riparare i suoi guasti con un grande progetto e grandi investimenti potrebbe essere l’occasione per sfilarci dal collo il nodo scorsoio della crisi. Come potrebbe l’Europa sbatterci i suoi No in faccia su un tema come questo? Per essere credibili in questa svolta e in questa pretesa che anche i Paesi europei più diffidenti ci assecondino in uno sforzo che sarebbe immane, però, dobbiamo essere consapevoli fino in fondo delle responsabilità che abbiamo. E degli errori, qua e là irrimediabili, purtroppo, che abbiamo commesso ai danni di un patrimonio universale. Non basta vantarci di avere più siti Unesco di tutti: abbiamo l’obbligo di meritarceli.

E se dal nostro passato migliore abbiamo l’opportunità di trarre la forza per ripartire, dal passato peggiore dobbiamo assolutamente ricavare la lezione per non ripetere sempre gli stessi, maledetti, criminali errori. Basti rileggere un passaggio del libro La colata di Sansa, Garibaldi, Massari, Preve e Salvaggiulo dove si racconta ad esempio di come una notte, a Sanremo, «una zona di 72 ettari che era stata classificata come “frana attiva” da Alfonso Bellini, uno dei geologi più noti d’Italia, con un tratto di colore diventa edificabile» con un voto quasi all’unanimità nonostante tutti avessero ancora «negli occhi le immagini di via Goethe, a due passi dal municipio, trasformata dalle piogge in un fiume di fango e pietre». Restò indimenticabile, allora, il commento dell’udc Luigi Patrone: «Io voto sì, ma da quelle parti i bambini non ce li porto a giocare».

Era già tutto scritto. Tutto. Fin dagli Anni 60, quando Giorgio Bocca coniò espressioni quali «Lambrate sul Tigullio» e Leonardo Vergani narrò di come «arrivati a Rapallo sull’onda di un nome una volta famoso, un nome quasi mitico negli inverni padani, i milanesi con un conticino in banca» avevano «dato la scalata al mutuo, fatto economie, firmato rogiti lasciandosi allegramente spolpare pur di diventare proprietari del loro fazzoletto piastrellato, scala B interno 14». Una corsa pazza. E «i pentimenti, al punto in cui siamo, sono liquidi come le lacrime dei coccodrilli». «Su oltre 8.000 chilometri di coste», denunciava nel ‘66 Antonio Cederna, «più della metà sono da considerarsi perduti in quanto ridotti ad agglomerati lineari semi urbani, squallidi e ininterrotti, che riproducono sulla riva del mare gli aspetti peggiori delle concentrazioni cittadine, stroncano ogni continuità fra mare e risorse naturali dell’entroterra, e distruggono praticamente la stessa potenzialità turistica delle zone investite».

Il caso limite, spiegava, era proprio la Riviera ligure, «dove località già famose per i loro parchi e giardini sono ridotte ad avere venti centimetri quadrati di verde per abitante “estivo”, e dove l’indice di affollamento supera d’estate quello del centro di Londra. Nella Riviera di Ponente, su 175 chilometri di costa restano soltanto 900 metri di spiaggia libera». Certo, la Liguria veniva soprattutto nell’entroterra da secoli di miseria, fame, emigrazione. Basti ricordare i «birbanti» che partivano dalle montagne alle spalle di Chiavari per guadagnarsi la «birba», cioè il tozzo di pane, quotidiana. Il turismo, lo sviluppo, il boom furono accolti come una manna sulla quale non bisognava fare gli schizzinosi.

Egisto Corradi, scandalizzato dalla costruzione a Rapallo di «diecimila vani all’anno» fino a farne in certe parti «una periferia di grande città» e dalle masse esagerate di turisti ingolfati sulla «spiaggia formato francobollo», raccolse l’ottuso entusiasmo di un rapallese: «Tutto vero, ma è anche vero che a 3.000 lire a testa fanno più di 10 milioni di lire lasciati a Rapallo. Siamo nell’era della produttività e dell’automazione? Se i tempi lo vogliono, Rapallo diventi pure una macchina per villeggiare!». Ma valeva davvero la pena di avventarsi in quel modo ad arraffare ogni occasione di business? Lasciamo rispondere a Indro Montanelli, che in quel lontano ‘66, decenni prima che esplodessero insieme i torrenti intubati e le contraddizioni, scriveva: «Gli anni del boom passeranno alla storia come quelli della sistematica distruzione dell’ex giardino di Europa, perché i miliardi in mano agl’italiani sono più pericolosi delle bombe atomiche in mano ai bantu. E la prova la fornisce la Liguria dove i miliardi sono affluiti con più alluvionale intensità. Da Bocca di Magra al confine francese, per trecento chilometri, è un bagnasciuga di cemento».

E concludeva amaro: «Evidentemente il buon Dio fece il «giardino d’Europa» in un momento d’indulgenza e di abbandono. Poi si accorse della propria parzialità e la corresse mettendoci come giardinieri gl’italiani».

16 novembre 2014 | 09:18
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_16/piano-speciale-ricominciare-1ff7172a-6d68-11e4-a925-1745c90ecb18.shtml
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