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Autore Discussione: Federico FUBINI.  (Letto 34592 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 11, 2013, 05:23:20 pm »

SEGNALI DI TENUTA DEI CONTI MA NON BASTA

L'illusione di avere tempo


Nel 1992, oberata dai debiti, l'Italia fu costretta a uscire dall'accordo di cambio europeo e svalutare la lira del 30%. Gli investitori esteri, che avevano comprato i Btp sulla base dell'impegno del Paese a restare nel sistema monetario, si ritrovarono con una perdita effettiva di un terzo del capitale. Fra loro c'è stato senz'altro chi si sarà sentito tradito, ma gli italiani non ebbero mai la percezione di non aver mantenuto i propri impegni. Al contrario, con i loro sforzi e grazie alla scelta politica del resto d'Europa, sei anni dopo erano già nell'euro: mai un Paese è passato così in fretta dalle stalle alle stelle dell'affidabilità finanziaria, da tassi argentini a tassi tedeschi.

Questa manna non può tornare, ma devono essere stati episodi così ad aver convinto qualcuno che lo stellone ci assisterà sempre. Anche questi giorni stanno consegnando agli italiani due racconti diversi sul loro Paese. Lo spread , la detestata spia del costo del debito, continua a sgonfiarsi fino a sotto i livelli di prima delle elezioni dall'esito più surreale nella storia repubblicana. La Borsa nel frattempo sta registrando segnali di ottimismo. Nell'ultimo anno, mentre il lavoro e le imprese vivevano la più grande devastazione registrata in tempo di pace, il principale listino di Milano è positivo: chi avesse investito un anno fa, oggi starebbe guadagnando un invidiabile 6,7%.

Anche i conti pubblici sembrano dare segni di tenuta, a leggere il Documento di economia e finanza presentato ieri dal governo.
L'Italia spera di tenere il suo deficit sotto il 3% del Pil, la soglia oggetto di vent'anni di idolatria a Bruxelles che non ha impedito a certi Paesi a lungo in regola - Spagna, Irlanda - di sprofondare. Soprattutto, il saldo attivo dei conti prima di pagare gli interessi risulta fra i migliori d'Europa. In base a questo il Tesoro stima che il debito pubblico dovrebbe scendere dall'anno prossimo, benché simili annunci negli ultimi anni non abbiano mai portato bene.

Poi però si può svolgere anche il secondo racconto sull'Italia. I mercati sembrano sospinti dalla liquidità sprigionata dalle grandi banche centrali, da Tokyo a Washington, più che da un calcolo razionale. Il deficit dovrà fare i conti con la recessione e con tante voci poco discusse, dal finanziamento della cassa integrazione in deroga, alle missioni all'estero, a 150 mila statali precari e in scadenza. E il debito sta superando il 130% del Pil: ieri la Commissione europea ha confermato che l'Italia e le sue banche restano fragili, al punto da rappresentare un rischio di contagio per il resto d'Europa. E non è solo questione di tassi, di spread o della Germania che amiamo tanto descrivere come avara perché non si accolla i nostri debiti. Persino l'export, il meglio dell'economia, mostra segni di fatica. Sono questi gli indici di competitività declinante che le agenzie di rating stanno guardando da vicino. Moody's e Standard & Poor's saranno discutibili, ma ora aspettano di vedere se il prossimo governo capisce e affronta l'incapacità del Paese di crescere: se scettiche, potrebbero declassarci (molto presto) a un soffio dal livello «spazzatura».

L'idea che ci sia ancora tempo e qualcosa o qualcuno che alla fine ci salverà forse aveva un senso nel '92, quando Maastricht era il futuro. Vent'anni dopo la sola Maastricht che può salvarci è qui, in Italia, nella sua capacità di cambiare le proprie istituzioni economiche per prosperare. Bersani e Berlusconi ne staranno urgentemente parlando. O no?

FEDERICO FUBINI

11 aprile 2013 | 9:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_11/illusione-di-avere-tempo_580232c2-a261-11e2-b92e-cf915efd17c3.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 07, 2013, 11:17:23 pm »

Solo una tregua con la Germania renderà possibile la crescita


Adottiamo una finzione: nell'area euro si svolge una corsa agli armamenti o, secondo le fasi, un negoziato per il disarmo. Vederla così è parziale e scorretto, non c'è dubbio, eppure può offrire delle indicazioni alle classi politiche in Italia (e non solo) che discutono sulla dose «giusta» di austerità da perseguire.

Come accade fra veri nemici, anche dentro Eurolandia i momenti di distensione e disarmo si alternano a ritorsioni più o meno esplicite. Disarmo per esempio fu la scelta di Angela Merkel di non opporsi quando nel 2012 la Bce decise che avrebbe potuto comprare senza limiti titoli di Stato dei Paesi in crisi. Per la cancelliera fu un investimento costoso, perché in Germania la scelta della Bce era e resta impopolare. Ma Merkel decise di «disarmare» perché anche l'altra parte lo stava facendo. L'Italia di Mario Monti prometteva di comportarsi in un modo che, visto da Berlino, era cooperativo: ammissione dei propri problemi, risanamento, promessa di riforme. Quell'equilibrio ha permesso oggi allo spread Bund-Btp di essere dov'è e non a 500 punti, dov'era.

Ma per Merkel le elezioni italiane hanno segnato una sconfitta, la prova che - secondo alcuni a Berlino - dell'Italia non bisogna fidarsi. Una maggioranza degli italiani ha votato contro il «disarmo». Ne è seguita una fase di ritorsioni: la Germania frena sull'unione bancaria e su nuovi interventi della Bce per il credito alle imprese, una Corte portoghese dichiara illegale l'austerità, fra i socialisti di una Francia ormai alle corde monta la retorica anti Merkel, in Italia si parla di ridurre le tasse ma non le spese.

Per quanto può continuare? Con l'economia nel suo stato attuale, l'Italia per stabilizzare il debito avrebbe bisogno di tassi a livelli tedeschi. E i canali del credito sono paralizzati, quindi lo è anche la ripresa. Come un anno fa il Paese ha bisogno del «disarmo» tedesco (per esempio, sulle mosse della Bce per i prestiti alle imprese) ma arriverà solo se noi italiani sceglieremo di cooperare. Le riforme per crescere sarebbero nel nostro interesse. Ma anche se non ci crediamo, paradossalmente sono l'unica tattica che può permetterci di allentare l'austerità, tornare a una fase di distensione, ed evitare che il futuro sia un'incognita.

Federico Fubini
@federicofubini

7 maggio 2013 | 16:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/economia/13_maggio_07/tregua-germania-possibile-crescita_92763746-b6cf-11e2-8651-352f50bc2572.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:16:11 am »

Fmi: "Italia periferia d'Europa"

Protesta Ue ma il Fondo non si corregge

Tracciata una netta divisione tra nazioni "core" (Germania, Austria, Olanda, Belgio e Francia) e "periphery", parola usata più volte (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, i piigs). Dossier bloccato per 48 ore

di FEDERICO FUBINI


ROMA - Se con la crisi finanziaria un'altra cortina è calata sull'Europa e la divide in due, centro e periferia, allora l'Italia da che parte sta? Abituati a lavorare sui dati di bilancio o del Pil, è probabile che i tecnocrati del Fondo monetario internazionale non avessero messo in conto questioni del genere. Vanno dunque scusati se, curiosamente, una settimana fa sono rimasti a lungo in silenzio.

In teoria non avrebbero dovuto: il 23 luglio il consiglio dell'Fmi aveva approvato il rapporto annuale dello staff sull'area euro, che sembrava pronto per la pubblicazione; eppure, a causa di un passaggio a vuoto del tutto irrituale, il mondo non ha potuto leggere quel testo per altri due giorni. Stavolta però le lungaggini della burocrazia non c'entrano. Secondo vari osservatori, dentro il palazzo del Fmi in quelle 48 ore si è consumata una disputa di sapore inedito attorno a una domanda più politica che tecnica: è corretto definire certi paesi "periferia", magari inserendo nel novero l'Italia e la Spagna, con tutta la loro storia e il loro peso in Europa e per l'economia globale?

A leggerlo così com'è uscito, il rapporto sull'area euro conclude che sì, è giusto. L'Italia, la Spagna e gli altri sono in effetti "periphery".
Il documento non lesina l'uso di quel termine un po' sprezzante (secondo alcuni) quando parla delle economie europee più colpite dalla recessione.
In certi passaggi l'Fmi formalizza persino la sua definizione, precisando i nuovi confini d'Europa nelle didascalie di qualche grafico. Secondo il rapporto del Fondo, per esempio a pagina 5, "periferia" sono Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna. Invece "core", cioè centro o nucleo duro dell'area euro, sono Austria, Francia, Germania, Olanda e Belgio.

Non tutti hanno apprezzato. Al contrario: la settimana scorsa nel palazzo all'angolo fra Pennsylvania Avenue e la 19esima strada, sede dell'Fmi a Washington, la partita diplomatica su chi e cosa ha senso derubricare al rango di "periferia" è durata vari giorni e ha creato più di un'irritazione nella diplomazia finanziaria. Tutto è iniziato questo mese con la riunione dei direttori esecutivi del Fmi che rappresentano le "circoscrizioni", ossia i paesi, dell'Unione europea. L'Italia per esempio parla (e vota) nel consiglio dell'Fmi per se stessa e anche in nome di altri Stati fra cui la Grecia, il Portogallo e Malta. Proprio nel coordinamento fra europei alla vigilia della pubblicazione del rapporto che li riguardava, vari direttori esecutivi hanno sollevato il problema geopolitico: non esiste un'Europa di seconda classe, è stato detto; e non sono chiare le basi economiche, storiche o culturali per decretare che certi paesi sono "periferia" mentre altri sono il "centro". A maggior ragione non sarebbe corretto farlo per quanto riguarda l'Italia, paese fondatore della Comunità europea e tuttora parte del G7 delle grandi economie industriali.

Non che classificazioni del genere siano del tutto inedite. Prima ancora che partisse l'euro, nel 1997, la stampa e buona parte della classe politica in Germania avevano già iniziato a definire "Club Med" tutto il Sud Europa, l'area che molti tedeschi avrebbero preferito escludere dalla moneta unica.
A conferma che qui la geografia conta poco, all'epoca ne faceva parte anche una nazione affacciata sull'Atlantico come il Portogallo. Poi le formule si sono fatte più sprezzanti. Nel 2008 la crisi dell'euro fu anticipata da quel nomignolo "Pigs" che nella lingua di Shakespeare significa ovviamente "maiali" ma, secondo i giornali di Londra, era la sigla di un gruppo di paesi deboli: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna.

Stavolta però al Fondo monetario la questione è diventata più seria. In gioco non erano più solo dei nomignoli informali: era il più importante organismo finanziario internazionale che formalizzava ancora una volta quella linea di faglia. Come se l'Europa fosse divisa davvero da una nuova cortina di ferro, questa volta misurata dai tassi d'interesse. Andrea Montanino, il direttore inviato dal Tesoro, ha insistito su questo punto e altrettanto hanno fatto sia il direttore francese Hervé Jodon de Villeroche e il suo collega tedesco Hubert Temmeyer. Alla fine tutti insieme hanno dato mandato all'olandese Menno Snel di presentare le rimostranze di tutta la Ue al consiglio d'amministrazione dell'Fmi.

L'Europa conta per più del 30% nel board del Fondo e all'inizio sembrava prevalesse. Il direttore generale, la francese Christine Lagarde, era d'accordo. Il brasiliano Paulo Nogueira Batista si è persino spinto a dire che l'Italia non può essere periferica, "perché in Italia abita il Papa".
Il board dunque ha suggerito allo staff tecnico dell'Fmi, il responsabile indipendente del rapporto, di evitare la separazione dei paesi in ranghi diversi. Detto fatto: "Il costo dei prestiti alle imprese resta alto nella periferia", si legge nel comunicato curato dai due responsabili del dipartimento europeo a Washington: l'iraniano Reza Moghadam e l'indiano Mahmood Prahan.

(30 luglio 2013) © Riproduzione riservata
   
   
DA - http://www.repubblica.it/economia/2013/07/30/news/fmi_italia_periferia-63962258/?ref=HREC1-8
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 22, 2013, 10:59:45 pm »

Italia all'esame del Fondo monetario.

Test sulle banche e allarme deficit

Domani al board i report sullo stato dell’economia e sul credito. I tecnici della Lagarde prevedono una ripresa più debole rispetto alle stime del governo.

Gli economisti di Washington non tengono contro della service tax: mancano i dettagli.
E al setaccio ci sono le stime sulle perdite del settore bancario basate sulle rilevazioni della Banca d'Italia

di FEDERICO FUBINI


ROMA - Domani all'Fmi, Christine Lagarde presiederà una discussione che rischia rivelarsi tra le più spinose degli ultimi tempi. Il consiglio del Fondo parla di una grande economia del pianeta, l'Italia. E sul tavolo dei 24 direttori esecutivi, ciascuno in rappresentanza di uno o di un gruppo di paesi, saranno squadernati due documenti pronti per essere pubblicati. Il primo, il cosiddetto "article 4 report", si concentra sullo stato generale dell'economia italiana. Ma sarà probabilmente il secondo ad impegnare di più quel piccolo parlamento della economia globale che è il consiglio dell'Fmi, perché sarà dedicato alle banche: è il "Financial sector assessment program", un quadro d'insieme della tenuta del settore finanziario nel paese.

Sono entrambi rapporti tecnici dello staff, sui quali i rappresentanti dei governi in teoria non possono nulla. Ma ancora prima che la discussione inizi, nessuno è in dubbio sulla posta in gioco. Si parlerà del maggiore paese europeo colpito dalla crisi, il terzo più grande debitore al mondo, il solo governo di rilievo ad attraversare anni di choc sui mercati senza chiedere aiuti vincolati a un piano di riforme. L'Italia è il solo paese in profonda recessione ad aver tenuto le mani libere, dunque anche una dose di imprevedibilità sulle prossime mosse. Facile capire perché quei rapporti dell'Fmi stiano diventando un termometro della fiducia che il paese riscuote nel mondo.

Finora non è emerso quasi niente dei contenuti, se non una certa atmosfera di diffidenza. Prima ancora che uscissero le ultime stime del governo, l'Fmi aveva già scritto nelle bozze dell'"article 4" che il deficit avrebbe superato il 3% del Pil. Secondo il Fondo quest'anno il disavanzo sta salendo fra il 3,1% e il 3,2%, più o meno come riconosciuto anche dal Tesoro. Già per l'anno prossimo invece si registra la prima divergenza, perché l'Fmi è più pessimista. Il rapporto dello staff di Washington, redatto dall'americano Kenneth Kang, indica che anche nel 2014 il deficit dell'Italia dovrebbe superare il limite europeo del 3% del Pil; il governo invece mette in programma un indebitamento al 2,5%.

Non è difficile capire perché Washington e Roma vedano la dinamica dei conti pubblici in modo diverso. In primo luogo, l'Fmi conta su un andamento del Pil nel 2013 e 2014 un po' peggiore di quello previsto dal governo. Dunque meno entrate e più spesa pubblica. L'altra incomprensione riguarda poi l'Imu, o meglio il prelievo sulla prima casa abolito a inizio mese. Il governo ha fatto sapere che sarà sostituito nel 2014 da una "service tax", un'imposta comunale sui servizi, ma l'Fmi non ne tiene conto: per gli economisti di Washington, non esiste alcuna nuova entrata almeno finché non ci saranno dettagli precisi e misurabili sulla futura tassa.
Non è dunque in un clima di comprensione reciproca che arriva l'altro rapporto, quello sulla stabilità finanziaria. Il capo missione su questo fronte è Dimitri Demekas, un economista greco dotato di sito web personale, formatosi a New York ma capace di parlare un buon italiano. Demekas aveva il compito più difficile, perché spettava a lui valutare i danni che un crollo del Pil dall'8,9% dal 2008 ad oggi ha lasciato nei bilanci delle banche. Il suo punto di partenza è stato l'ultimo bollettino statistico della Banca d'Italia; secondo quel documento a marzo di quest'anno gli istituti avevano in bilancio 248 miliardi di euro di crediti deteriorati. A questo valore si arriva sommando quelle che Bankitalia definisce le varie "categorie di default": sofferenze, incagli, esposizioni ristrutturate e scadute o sconfinanti.

È difficile prevedere le perdite effettive nei bilanci delle banche che Demekas stima sulla base di quei 248 miliardi, un valore che da marzo a oggi è senz'altro salito. Dipenderà molto dai (robusti) accantonamenti già fatti dalle grandi banche su spinta di Bankitalia, dalla loro capacità di vendere gli immobili pignorati ora che il mercato del mattone è in calo; ma soprattutto, dipenderà dalla fiducia di fondo dell'Fmi verso l'Italia, le sue istituzioni e la sua capacità di agganciare la ripresa.

Quel rapporto e il Global Financial Stability Report di ottobre diventano così la misura di quanto l'Fmi crede davvero alla tenuta del paese. Sei mesi fa le banche ricevettero dal Fondo un disco verde, non senza sfumature di giallo. Ora se l'Fmi indicasse (a torto o a ragione) che il buco nelle banche è molto ampio, qualcuno penserebbe alla Spagna. Per anni Madrid raccontò che i suoi istituti erano solidi, fino a quando chiese un prestito europeo per ricapitalizzarli. In contropartita, la Spagna si impegnò a cambiare le regole del mondo del lavoro, ha messo mano alla pubblica amministrazione e ora sta recuperando capacità di competere nel mondo. Proprio ciò che, a credere all'Fmi, l'Italia non riesce a fare.

(22 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/09/22/news/italia_all_esame_del_fondo_monetario_test_sulle_banche_e_allarme_deficit-67005462/?ref=HREC2-3
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 02, 2014, 10:28:16 pm »

La "sindrome giapponese" può costare 15 miliardi all'Italia

L'ANALISI.

Nonostante il taglio dei tassi bancari il peso reale per chi ha debiti da pagare è aumentato. L'effetto combinato di crollo dei prezzi e fiscal compact rischia di far saltare i conti pubblici

di FEDERICO FUBINI

Non si era mai vista in Europa una banca centrale che porta i tassi d'interesse quasi a zero, annunciando che non li alzerà per un pezzo. Sotto la guida di Mario Draghi, la Bce nell'ultimo anno l'ha fatto. Eppure sul fronte monetario le buone notizie e la voglia di esplorare soluzioni nuove finiscono qua: invece di scendere, il costo reale del denaro per chi ha un debito è salito. E mentre l'Eurotower richiama di continuo i governi a ridurre il debito, essa stessa rischia di complicare loro il compito: se non verrà contrastata in fretta la minaccia di una caduta dei prezzi, alle condizioni di oggi l'Italia sarà presto costretta a trovare dieci-quindici miliardi l'anno di tasse o tagli di spesa in più (su base permanente) per rispettare il Fiscal Compact europeo.

Se suona paradossale, forse è perché non corrono tempi ordinari. Ad accezione dei mesi seguiti alla caduta di Lehman Brothers, non era mai successo nell'Europa del dopoguerra che l'indice generali dei prezzi cadesse a questa velocità. All'inizio del 2013 l'inflazione della zona euro era attorno al 2%, praticamente in linea con l'obiettivo di stabilità dei prezzi che la Bce è stata creata per assicurare. Ancora un anno fa l'inflazione dell'area viaggiava all'1,7%, mentre l'Italia era appena al di sotto.

Avanti veloce di dodici mesi e il panorama diventa irriconoscibile: a marzo il valore è crollato allo 0,5% in Eurolandia e allo 0,4% in Italia. Cinque Paesi su diciotto - Slovacchia, Portogallo, Grecia, Cipro e adesso anche
la Spagna - sono già scivolati in deflazione: invece di salire i prezzi scendono, rallentando consumi e investimenti perché le famiglie e le imprese rinviano ogni spesa nell'idea che domani costerà di meno. Sull'Europa sembra scendere la stessa cappa che per tanti anni ha cloroformizzato l'economia giapponese.

Durante questo ultimo anno, per la verità, la Bce non è rimasta con le mani in mano. Ha tagliato i tassi di 0,25% a maggio scorso, poi ha replicato in novembre. A luglio nel frattempo aveva anche promesso che il costo del denaro non sarebbe più salito per molto tempo a venire, senza precisare per quanto. Oggi il tasso principale al quale le banche commerciali europee prendono in prestito il denaro presso gli sportelli dell'Eurotower è allo 0,25%, un minimo che né la Bundesbank, né la Banca d'Italia avevano mai esplorato.

Purtroppo però l'inflazione si è mossa più in fretta della Bce, nella direzione sbagliata. La caduta del costo del denaro è stata di 0,5% in dodici mesi, ma quella dell'indice dei prezzi è stata dell'1,2%. Con le sue ultime stime dello staff, l'Eurotower ha informato che fallirà al ribasso il suo obiettivo di stabilità dei prezzi (aumento del costo della vita vicino ma sotto al 2%) per quattro anni di seguito. Ammesso che sia possibile vedere così lontano, Francoforte dice che forse solo alla fine del 2016 l'indice dei prezzi tornerà dove dovrebbe già stare. Come nella depressione degli anni '30, queste sono ottime notizie per chi vive di rendita, perché l'inflazione non erode un capitale investito. Ma sono terribili notizie per chi ha un debito: i tassi d'interesse tendono a farlo aumentare di continuo, mentre il carovita controbilancia erodendone il valore reale e rendendo più facile ripagarlo in euro un po' inflazionati.

Il caso del debito pubblico italiano è probabilmente quello più rilevante. Ogni anno il Tesoro emette oltre 450 miliardi di nuovi bond per finanziarsi, pagando in media un interesse vicino a quello di un Btp a cinque anni. Il rendimento di quel titolo è sceso, dal 2,8% di un anno fa all'1,9% di ieri sera. Nel frattempo però l'inflazione è scesa di più, dunque il costo di ogni euro di nuovo debito pubblico dell'Italia sale in termini reali anche quando lo spread fra Bund tedeschi e Btp scende. Per ogni euro degli oltre duemila miliardi di vecchio debito pubblico l'onere da bassa inflazione poi è ancora più forte, perché i tassi d'interesse sui vecchi titoli sono più alti. In queste condizioni il debito pubblico non scenderà mai. Proiettando l'inflazione, la crescita, le cedole su Bot o Btp e il surplus di bilancio di oggi fra vent'anni, la situazione diverrebbe insostenibile: il debito pubblico sarebbe al 148% e in aumento. Invece con un'inflazione anche com'era un anno fa, il debito sarebbe di quasi 30 punti più basso e in calo.

E' per questo che il crollo del carovita e l'apparente rinuncia della Bce a difendere il suo stesso obiettivo di stabilità dei prezzi appaiono sempre più in conflitto con un'altra regola europea: il Fiscal Compact. Rispettare quell'impegno a ridurre ogni anno il rapporto fra debito e Pil di più del 3% è quasi impossibile se nel frattempo l'Europa ignora la sua stessa regola d'inflazione. Per farcela, l'Italia dovrebbe aumentare stabilmente il suo surplus primario di 15 miliardi, con nuovi tagli e tasse. Ce n'è abbastanza perché il tessuto sociale e la vita politica italiani non reggano allo sforzo. Ma non è affatto scritto che le cose andranno così. Giovedì c'è il consiglio dei governatori della Bce. La palla è (anche) nel campo di Draghi.

(01 aprile 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/04/01/news/crollo_prezzi_fiscal_compact-82429657/?ref=HRER2-1
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« Risposta #20 inserito:: Giugno 22, 2014, 05:50:36 pm »

La Corte dei Conti brucia 313 milioni. È la sentinella più cara d’Europa
Il bilancio dei magistrati contabili, pubblicato ieri in gazzetta ufficiale.
L'equivalente inglese ha garantito risparmi alla collettività per un miliardo.
Da noi invece le cose vanno diversamente


Di FEDERICO FUBINI

C’È un passaggio nel bilancio della Corte dei conti uscito in Gazzetta Ufficiale in queste ore che rivela più di un’intera relazione: "Lo stanziamento dei fondi da parte del ministero dell’Economia si presentava adeguato alle esigenze manifestate, in più occasioni, dai vertici della Amministrazione". Tradotto, i magistrati contabili hanno bussato a soldi e hanno avuto piena soddisfazione. Al punto che non esiste in Europa un organismo simile che costi altrettanto. Di solito la magistratura contabile fa parlare di sé per i suoi richiami sugli sprechi, rivolti a tutti gli organi dello Stato. L’espressione “monito della Corte dei conti” su Google produce 363 mila risultati: un pilastro della lingua italiana. La relazione annuale di quell’organismo è un vademecum essenziale per capire il bilancio pubblico e ciò che là dentro non va. Sarebbe interessante capire se il prossimo rapporto della Corte dei conti conterrà anche solo un capoverso sulle sue stesse spese.

Il consuntivo uscito ieri in Gazzetta Ufficiale lascia pochi dubbi: la magistratura contabile costa cara ai contribuenti. In termini di cassa, nel 2013 ha avuto uscite (“titoli di pagamento emessi”) per 313 milioni. Il Tesoro le ha trasferito 280 milioni, quindi la Corte ha messo al lavoro il suo cospicuo bilancio che aveva un “avanzo di amministrazione” di 65 milioni.

Che 313 milioni di spese siano pochi o molti è per definizione discutibile. Un fatto certo è però che siano molto più di quanto spendono simili istituzioni in giro per l’Europa. Qualche esempio? In Gran Bretagna, un Paese con un bilancio pubblico e un prodotto lordo simili a quelli dell’Italia, il National Audit Office l’anno scorso ha ricevuto dal Parlamento 66 milioni di sterline (circa 80 milioni di euro), inclusi 4 per spese una tantum. E il lavoro dei revisori pubblici di Londra ha prodotto per il contribuente risparmi provati di spesa per oltre un miliardo. Ma i magistrati italiani, con il quadruplo delle risorse, non hanno mai dimostrato dati alla mano risultati del genere. In Francia invece la Cour des Comptes nel 2013 è costata 206 milioni, un terzo meno che in Italia, e i portavoce di Parigi sembrano persino scusarsi per l’enormità della cifra. Essa include, si spiega, venti organi decentrati che controllano la spesa delle Regioni: come in Italia. La Corte dei conti europea a Lussemburgo l’anno scorso ha speso invece 142 milioni, benché controlli bilanci in ognuno dei 28 Paesi dell’Unione. E il Bundesrechnungshof costa 127 milioni: non sono inclusi gli impegni di 16 organi regionali, ma anche con quelli l’onere totale resterebbe molto inferiore all’Italia.

Sarebbe dunque utile capire dal suo prossimo rapporto, sempre pieno di “moniti”, come mai la Corte dei conti di Roma deve costare più di tutte le pari grado in Europa. E perché fatichi tanto a indovinare i suoi stessi conti: dall’ufficio di presidenza al segretariato generale, dagli uffici regionali alle risorse umane, il consuntivo presenta una lunga serie di sforamenti sulle spese previste. In tutto 13 milioni in più, circa il 4% di sfondamento sul preventivo. Un’enormità per un organo le cui condizioni di lavoro non sono cambiate durante l’anno. Con un dubbio in più: si sta formando in questi giorni l’Ufficio parlamentare di bilancio, previsto dal Fiscal Compact europeo. Per non sprecare altri soldi nell’ennesimo doppione istituzionale, non sarebbe ora di spostare lì almeno qualche (costoso) esperto della Corte dei conti? Giusto, per una volta, per farli tornare.

(22 giugno 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/06/22/news/la_corte_dei_conti_brucia_313_milioni_la_sentinella_pi_cara_deuropa-89682962/?ref=HREC1-1
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 06, 2014, 11:50:21 am »

Troppi sprechi negli acquisti, ecco gli enti sotto accusa: dal Viminale alle università. Lettera di Cottarelli e Cantone
Richieste di chiarimenti alle prime 200 amministrazioni pubbliche. Elettricità, gas, telefonia: si sarebbe dovuto passare attraverso una centrale unica e invece ognuno ha proceduto per conto proprio. Perugia, record di spese. Aeronautica militare, un contratto al mese

Di FEDERICO FUBINI

C'è un colpevole seriale di malagestione come il comune di Roma, insieme a giunte del Centro e del Nord come Perugia, Pesaro e Urbino, Verona, Udine, Sondrio, Trieste o Bolzano. Spunta anche la Statale di Milano, con l'università di Genova. Ci sono aziende sanitarie dalle procedure d'appalto singolari, in Sardegna o Campania. E non mancano neanche coloro che dovrebbero tenere al rispetto della legge più di ogni altro ramo dello Stato: i carabinieri, la polizia, il ministero della Difesa. Tutti destinatari delle lettere di Raffaele Cantone e Carlo Cottarelli alle amministrazioni che - è il sospetto - hanno violato le norme sugli appalti da tenere solo ai prezzi più convenienti per il contribuente. Cottarelli e Cantone sono, rispettivamente, commissario straordinario alla revisione della spesa e presidente dell'Autorità anti-corruzione. Già solo i loro ruoli rendono la lettera partita a giugno un atto pieno di significato.

E, potenzialmente, pieno di conseguenze per chi non sta alle regole. Non solo perché i due minacciano sanzioni ai funzionari che esitano a rispondere (25 mila euro) e a quelli che "forniscono dati non veritieri" (51 mila). Quell'intervento di Cottarelli e Cantone è soprattutto il segnale di una svolta che può arrivare se solo si rispettassero le leggi esistenti. Una serie di decreti approvati fra il 2006 e il 2012 obbliga infatti gli uffici dello Stato e le società "in house", controllate al 100%, a non sprecare un centesimo quando comprano sette categorie
di beni e servizi essenziali: elettricità, gas, carburanti, combustibili da riscaldamento e contratti di telefonia fissa, cellulare o per traffico dati. Per ordinare da questo menu, tutti dovrebbero servirsi della centrale nazionale degli acquisti Consip o delle centrali regionali. Facile capire perché: i grandi acquirenti hanno le competenze e sono in grado di spuntare i prezzi migliori. La legge tollera eccezioni, cioè amministrazioni che fanno shopping da sole, solo se un ufficio compra a meno dei prezzi garantiti da Consip....

Prima cento, poi cresciuti a duecento, i sospetti.... E si ipotizza che l'elenco possa estendersi fino a tremila amministrazioni....

C'è il ministero dell'Interno.... per il pingue contratto di telefonia mobile da 4,4 milioni di euro della Polizia di Stato.... per i cellulari dei Carabinieri (3,1 milioni) e per il traffico dati dell'Arma (2,2)....

C'è l'Aeronautica militare, cioè il ministero della Difesa, per l'energia elettrica per illuminare l'aeroporto di Pratica di Mare: dal gennaio del 2012 a quello del 2013 conclude la bellezza di 12 contratti d'appalto, uno al mese. Nel complesso finisce per spendere circa 2,5 milioni di euro....

Il record nella lista dei primi cento sospetti spetta però tutto al comune di Perugia: la bellezza di 10,5 milioni di euro pagati per dare luce alla città, con gara scaduta a luglio 2013....

E c'è l'Università degli Studi di Milano che, a quanto pare disinteressandosi della legge, ha concluso di propria iniziativa un contratto da 7,5 milioni per le forniture elettriche dell'anno conclusosi a giugno scorso....

L'articolo integrale su Repubblica in edicola e su Repubblica+

(06 agosto 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/08/06/news/spending_review_sprechi_enti_sotto_accusa-93215052/?ref=HREA-1
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:50:55 pm »

Euro debole, ultima carta di super-Mario. Aiuta l'export e blocca la deflazione
La Bce cerca di riempire le falle di Eurolandia e il vuoto politico dei governi. I mercati hanno preso posizione su un possibile, imminente taglio dei tassi d'interesse

Di FEDERICO FUBINI

La visita di Matteo Renzi in elicottero alla sua casa delle vacanze in Umbria in pieno agosto. Le telefonate con Angela Merkel, sicuramente frequenti e solo in questo caso rese pubbliche. Poi ieri la visita all'Eliseo dal capo dello Stato francese François Hollande. Piuttosto che quella di un normale banchiere centrale, l'agenda di Mario Draghi ricorda sempre di più quella di un operatore delle istituzioni che ha davanti a sé un grande vuoto politico da colmare. Anche i discorsi pubblici iniziano a rivelare sfumature del genere.

Come quando il 22 agosto a Jackson Hole il presidente della Bce ha proposto un compromesso ai principali governi europei. Ma se ieri Hollande all'Eliseo ha detto in privato ciò che spesso ripete in pubblico, Draghi sarà tornato subito nei panni, da lui preferiti, di banchiere centrale. Il capo dello Stato francese pensa che l'euro - a 1,3133 sul dollaro ieri sera - resti di gran lunga troppo forte. Dalla tarda primavera, è vero la moneta unica ha iniziato a dirigersi verso sud nei grafici. Ma alla Francia e agli esportatori italiani non può bastare il calo del 5,3% dai picchi di 1,39 di inizio maggio.

Come Hollande, Draghi sa benissimo che un altro, robusto tratto sulla strada del deprezzamento risolverebbe vari problemi senza troppi costi politici. Gli esportatori in Francia, Italia, ma anche in Germania, avrebbero un'arma di più per contrastare la frenata degli ordini dall'estero legata anche alla guerra in Ucraina. E beni e servizi all'import costerebbero un po' di più, aiutando la Bce a alzare il tasso d'inflazione.

Di sicuro questo tema peserà sul tavolo del consiglio direttivo della Bce che, giovedì a Francoforte, discuterà se e cosa decidere. Ma anche nella gestione del tasso di cambio Draghi e gli altri 22 membri del consiglio hanno sempre lo stesso problema: le falle politiche di Eurolandia, che la Bce cerca di riempire supplendo il vuoto politico dei governi. Il livello dell'euro rispetto alle altri grandi valute sarebbe una competenza condivisa fra la Bce e i leader dei Paesi dell'area, ma questi ultimi sembrano incapaci di esprimere un orientamento: hanno posizioni troppo diverse fra loro. Allo stesso tempo, la Bce ha difficoltà a condurre la campagna che sarebbe senz'altro più logica ed efficace: vendite dirette di euro in cambio di dollari. La storia dell'euro, in realtà, ha già conosciuto interventi delle banche centrali per influenzare il cambio. Nel novembre del duemila l'Eurotower, la Fed ed altre banche centrali irruppero insieme sui mercati per comprare euro, caduto a 0,82 sul dollaro, e far capire che non ne avrebbero più tollerato un'ulteriore scivolata. Ora però se la Bce si muovesse da sola, senza l'assenso della Fed, verrebbe accusata di violare il patto (informale) fra banche centrali del G7 di non interferire mai con le monete degli altri.

Draghi però sa che questi interventi sarebbero esattamente ciò di cui Eurolandia ha bisogno. Non è dunque escluso che la Bce cerchi di far compiere al mercato il lavoro che lei stessa non può fare: vendere euro e comprare dollari, o altre valute. È per questo che in questi giorni il mercato ha preso posizione sullo scenario di un imminente taglio dei tassi della Bce. Quello principale scenderebbe da 0,15% a 0,05% e per il tasso di cambio farebbe una differenza importante.

Poiché i prestiti sono così a buon mercato, molte grandi private sarebbero spinte a finanziarsi in Bce e poi a vendere euro per investire a rendimenti più alti in dollari, in sterline, in real brasiliani o in rand sudafricani. È quello che i tecnici chiamano "carry trade": indebitarsi in una valuta che richiede bassi tassi d'interesse e investire in titoli a reddito fisso in un'altra valute che offre più interessi più alti. Puntualmente, l'effetto netto del "carry trade" è che la valuta di finanziamento perde valore perché viene venduta in modo sistematico. In passato è toccato allo yen e al dollaro: questa volta potrebbe toccare all'euro.

Resta da vedere se basterà a bloccare la scivolata verso la deflazione. Draghi non persegue un obiettivo nel tasso di cambio, perché non è nello statuto della Bce. Senz'altro però anche nell'Eurotower saranno stati fatti i conti: basta un ulteriore 7% o 8% di svalutazione dell'euro sul dollaro, verso quota 1,20, per dare un po' di fiato all'export e contenere le spinte alla caduta dei prezzi al consumo. E né Draghi, né Hollande, né una Germania in piena perdita di velocità sull'export si opporrebbero a questo scenario. 

(02 settembre 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/09/02/news/euro_debole_ultima_carta_di_super-mario_aiuta_l_export_e_blocca_la_deflazione-94846249/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_02-09-2014
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 16, 2014, 06:13:59 pm »

Disoccupati nascosti e produttività a terra: così il Paese perde colpi
Le regole del mercato del lavoro in Italia sono contraddittorie e i risultati ottenuti sono scarsi.
Ecco le principali anomalie di un sistema che produce un tasso di occupazione tra i più bassi d'Europa


Di FEDERICO FUBINI

ROMA - Uno dei più bassi livelli di occupazione al mondo, dentro uno dei sistemi che protegge di più il posto di chi un impiego permanente lo ha. Una disoccupazione giovanile senza paragoni con qualunque altro Paese, in proporzione alla quota generale dei disoccupati. Un aumento di stipendi e salari più rapido che in Germania, unito a un crollo dei consumi che invece in Germania continuano ad aumentare.

Più che un mercato del lavoro, lo si potrebbe definire un suk di contraddizioni. Gli obiettivi e gli esiti delle norme che governano l'impiego sembrano procedere in direzioni opposte: all'impegno all'equità e al benessere iscritto nelle leggi corrisponde una fabbrica di esclusione, inattività e impoverimento chiamata oggi Repubblica italiana. Certo non è solo colpa delle regole, ma a sei mesi da quando il governo varò la legge delega sul lavoro uno dei suoi obiettivi è chiaro: arrivare a una situazione diversa da questa. I dati dell'Ocse sull'occupazione e quelli di Eurostat sull'andamento sulle remunerazioni fanno sospettare che dev'esserci qualcosa di profondamente sbagliato in Italia. Difficile altrimenti capire perché il quadro sia peggiore anche rispetto ad altri Paesi colpiti dalla crisi. O perché risultino false alcune delle credenze che, in questo Paese, molti considerano semplicemente ovvie.

Una di queste è che l'Italia ha una disoccupazione elevata, ma molto meno della Spagna e semmai come la Francia. Questa opinione deriva dal fatto che in Spagna la disoccupazione ufficiale è al 24,5%, in Italia al 12,6% e in Francia al 10,3%. Benché non venga mai detto, però, questi dati non sono paragonabili perché non lo sono le istituzioni alla loro base: in Spagna tutti i disoccupati godono di un sussidio e dunque hanno interesse a dichiararsi tali, mentre in Italia spetta quasi solo ai cassaintegrati, i quali però per le statistiche sono "occupati". Gli altri, il grosso dei senza lavoro, spesso non si iscrivono agli uffici per l'impiego perché lo considerano inutile.

Un quadro più realistico viene dai dati dell'Ocse sulla popolazione attiva in proporzione al totale dei residenti: Italia e Spagna sono entrambe appena al 36%, cioè lavora uno su tre e fra solo la Grecia è di poco sotto; la Francia è molto sopra, al 45%. Se poi si guarda alla popolazione attiva fra quella in età da lavoro (fra i 15 e i 64), la Spagna è al 74%, la Grecia al 67,3% e l'Italia è staccata al 63,5%. In altri termini, questi numeri dicono che i dati dell'Istat presentano un quadro della disoccupazione più roseo rispetto alla realtà. La popolazione attiva in Italia è pari o persino minore rispetto a Paesi con tassi di disoccupazione doppia o più. Il sistema produce più esclusi di quanto non raccontino i numeri ufficiali.

Disattenzione c'è spesso su un altro aspetto nel quale l'Italia spicca per il risultato peggiore al mondo: la sproporzione, a sfavore dei giovani, fra la quota totale dei senza lavoro e quelli delle nuove generazioni. In nessun altro Paese la percentuale dei disoccupati giovani (fino a 25 anni) è così alta rispetto al totale: nessun altro Paese penalizza tanto, in proporzione, le ultime generazioni. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è 3,4 volte più alto di quello generale, più del triplo; in qualunque altro Paese Ocse, Spagna, Grecia, Portogallo inclusi, tende invece ad essere il doppio o poco più.

Altrettanto falsa (e diffusa) del resto è la credenza che spiega il recente successo della Spagna nel creare molti più posti dell'Italia con il fatto che quelli iberici sono soprattutto precari. È vero il contrario: la Spagna ha sì un'incidenza più alta di contratti a tempo, il 23% contro il 13% dell'Italia, ma dall'anno duemila non fanno che diminuire sul totale dei contratti mentre è proprio in Italia che da allora sono sempre in aumento, anno dopo anno.

C'è poi un'ultima "verità" italiana, che i dati di Eurostat non confermano: maggiori aumenti di salari e stipendi sostengono i consumi, dunque giovano all'economia. Il confronto con la Germania sembra indicare che non è così. Nei sedici anni da quando nel 1997 furono fissate le parità di cambio in vista dell'euro, i salari nell'industria manifatturiera in Italia sono saliti del 54,5% e in Germania del 39,8%; gli statali italiani hanno avuto aumenti del 48,6% e i tedeschi del 30%. Nel frattempo però la produttività in Germania è cresciuta del 50%, mentre in Italia solo del 10%.

Il risultato è che le imprese italiane hanno reagito a questa pressione sui costi chiudendo o espellendo dipendenti, al punto che in questo Paese ormai lavora appena una persona su tre. In Germania invece lavora più di una persona su due, perché le imprese hanno assunto, e lì dal 2008 i consumi sono saliti del 6% mentre qui sono crollati del 13%. Se vuole davvero riformare il lavoro, questo governo avrà molto da fare.

(16 settembre 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/09/16/news/disoccupati_nascosti-95849776/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_16-09-2014
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 16, 2014, 06:18:00 pm »

L’agenda sbagliata del premier

14/09/2014

Luca Ricolfi

Dice il nostro premier che il suo governo va giudicato fra 1000 giorni, anziché dopo i primi 200, quanti ne sono passati dal suo insediamento a Palazzo Chigi. Ha ovviamente ragione, se si riferisce al corpo elettorale, che potrà esprimersi solo al momento del voto (a proposito: quando si voterà? La legislatura non scade fra 1000 giorni, bensì un anno più in là…). Ma non ha ragione se si riferisce all’opinione pubblica, che ha tutto il diritto di discutere e giudicare il suo governo «passo dopo passo». Un governo si promuove o si boccia con le elezioni politiche, ma si discute e si giudica giorno per giorno. 

Sette mesi non sono tanti, ma non sono neppure pochissimi per valutare l’azione di un governo. Dopotutto, la domanda che quasi tutti ci facciamo è una sola: Renzi ce la farà a «cambiare verso» all’Italia, interrompendo un regime di stagnazione e recessione che dura da troppo tempo?
E’ il caso di notare, per cominciare, che un successo di Renzi se lo augurano non solo i renziani, ma anche buona parte degli italiani che non hanno votato Pd nel 2013 (alle Politiche), o non hanno votato Renzi nel 2014 (alle Europee). Nessun governo precedente, della prima o della seconda Repubblica, ha mai goduto di aspettative così diffuse e trasversali agli schieramenti. Nessun premier ha beneficiato di un’apertura di credito così ampia e convinta. Nessun governo, tranne forse il governo di solidarietà nazionale ai tempi del terrorismo, ha mai goduto di un appoggio esterno benevolo come quello che Forza Italia sta fornendo al governo Renzi. Altroché gufi, nessun premier ha avuto mai così tanti tifosi! 

Dunque le possibilità di Renzi, sulla carta, sono decisamente buone.
Nonostante tutte queste condizioni favorevoli, nelle ultime settimane è cominciato a serpeggiare il dubbio che Renzi possa non farcela o, stando ai critici più severi, che la sua volontà di cambiare l’Italia sia più gattopardesca di quel che era sembrata all’inizio. 

Come mai?
Alcune ragioni sono evidenti: l’inflazione degli annunci (la cosiddetta «annuncite»), il mancato rispetto delle scadenze spavaldamente fissate per le varie riforme epocali (legge elettorale, lavoro, fisco, giustizia, pubblica amministrazione), la litigiosità dei parlamentari del Pd, la natura pasticciata di alcuni provvedimenti, l’incertezza in materia di tasse, compreso il tormentone del rinnovo del bonus di 80 euro, per il quale ancora oggi nessuna legge stabilisce le coperture nel 2015. 

 C’è una ragione, tuttavia, che a me pare più influente di tutte le altre. Da qualche settimana anche gli osservatori più benevoli cominciano a sospettare che Renzi abbia completamente sbagliato le priorità e, soprattutto, che ormai sia troppo tardi per recuperare. Il ragionamento, in breve, è questo: se vuoi far ripartire la crescita, come tutti i politici affermano di voler fare, devi prendere alcune decisioni impopolari in campo economico-sociale (tagli di spesa pubblica, liberalizzazione del mercato del lavoro); ma quelle decisioni le puoi prendere solo quando il tuo consenso è al massimo, ovvero durante i primi mesi di governo (la cosiddetta luna di miele); e se lasci passare quella finestra di opportunità, tutto diventa più difficile, se non impossibile.

Ora il punto è che la luna di miele pare stia già tramontando. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato, condotto da Demos & Pi e presentato da Ilvo Diamanti su Repubblica, fra giugno e settembre il Pd ha perso 4 punti, ma la popolarità di Renzi è scesa di ben 14 punti, ossia 10 punti di più. E’ vero che la rilevazione di giugno era drogata dal successo alle Europee, ma resta il fatto che il consenso di Renzi risulta in diminuzione anche rispetto a marzo e a maggio.

La fine della luna di miele, un fatto fisiologico dopo 200 giorni di governo, sembra dare ragione a quanti, da mesi, non si stancano di ripetere che è stato un grandissimo errore dare la precedenza, mediatica e parlamentare, al cambiamento della legge elettorale della Costituzione, e rimandare tutte le riforme economico-sociali più importanti, a partire dal Jobs Act. Il cambiamento delle regole, infatti, produrrà effetti solo fra qualche anno, e comunque non incontra alcun serio ostacolo da parte dell’opinione pubblica, che ha ben altre priorità. Alcune riforme economico-sociali, invece, possono produrre effetti molto più rapidamente, ma richiedono il massimo di consenso dell’opinione pubblica, per vincere le inevitabili resistenze delle mille lobby che temono di perdere i loro privilegi. Secondo questi critici Renzi doveva dare assoluta priorità al mercato del lavoro, ai tagli di spesa e alla riduzione del costo del lavoro per le imprese, lasciando che le riforme delle regole elettorali e istituzionali facessero tranquillamente il loro corso parlamentare, senza ritardare le assai più urgenti e vitali riforme economico-sociali.

Il fatto curioso è che questa mancanza di coraggio (ma forse sarebbe meglio dire: questa mancanza di tempismo) in campo economico-sociale si sta già ritorcendo contro il governo. Renzi ha deciso da tempo di non rispettare l’obiettivo del 2.6% di deficit che egli stesso aveva imprudentemente fissato a primavera, e si appresta a negoziare con l’Europa un’interpretazione flessibile degli impegni assunti. Ma le sue possibilità di riuscire nell’intento, e soprattutto di evitare la reazione negativa dei mercati di fronte all’ennesimo ritardo nel percorso di risanamento dei conti pubblici, sono state enormemente ridotte precisamente dalla scelta, fatta a marzo, di posticipare le riforme difficili, che sono quelle economico-sociali, e di trastullarsi con quelle facili, legge elettorale e svuotamento del Senato, il cui percorso parlamentare è garantito dall’accordo con Silvio Berlusconi. 

Si potrebbe pensare, o meglio sperare, che le «riforme strutturali», a partire da quella del mercato del lavoro (cui tuttora mancano i tre tasselli fondamentali: codice semplificato, contratto a tutele crescenti, ammortizzatori sociali universali), siano solo un’ossessione degli studiosi, i detestati «esperti» da cui il nostro suscettibile premier «non accetta lezioni». Sfortunatamente non è così. I mercati finanziari si sono già accorti della nostra lentezza, anche se i politici preferiscono non vedere il segnale che essi ci mandano. Eppure quel segnale è chiaro e forte: fra gennaio e oggi la diminuzione dello spread, che ha coinvolto un po’ tutti i Paesi dell’eurozona, è stata in Italia minore che negli altri Pigs, ossia Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Segno che i mercati percepiscono la differenza fra le velocità con cui i Paesi più indebitati ristrutturano le loro economie.

In concreto, tutto ciò significa che aver rimandato le riforme che contano potrebbe costarci caro. Subito, sotto forma di minore disponibilità dell’Europa a concedere sconti ai soliti inaffidabili italiani. In prospettiva, sotto forma di rischio sui mercati finanziari: se un’altra crisi dovesse scuotere l’euro, l’Italia non ne sarebbe al riparo, perché troppo poco ha fatto e sta facendo per fermare il proprio declino.

Da - http://lastampa.it/2014/09/14/cultura/opinioni/editoriali/lagenda-sbagliata-del-premier-h8mgkTgYInQqaTOzRuw1KO/pagina.html
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:30:33 pm »

Atene riaccende l'allarme: l'Europa è più debole per poter reggere a un altro terremoto
La Germania si è opposta a sostenere ancora una volta l'economia greca e ora rischia di far travolgere l'euro

di FEDERICO FUBINI
17 ottobre 2014
   
ROMA - Ognuno ha il suo subprime, la piccola zavorra dimenticata che può affondare il transatlantico, e l'Europa ha trovato il proprio in Grecia. Il Paese da cui cinque anni fa partì il contagio del debito sovrano, sta riportando un'ondata di instabilità sull'intera area monetaria. Questa volta però è diverso: economie come Cipro, il Portogallo o la stessa Italia sono più esauste e meno resistenti a un ennesimo terremoto, altre come la Francia possono trovarsi investite in pieno per la prima volta: l'evoluzione stessa del mercato dei titoli di Stato ieri ha confermato uno per uno questi timori.

L'ennesimo dramma della Grecia ha una trama politica emerso alla luce del sole e un intreccio diplomatico-finanziario rimasto troppo a lungo nell'ombra. La vicenda politica riguarda l'incapacità del governo di trovare un nome plausibile, entro gennaio prossimo, per la presidenza della Repubblica.

Alla maggioranza mancano 29 voti in parlamento per il quorum. Il premier Antonis Samaras si è ridotto a pensare alla candidatura di Vangelis Marinakis, presidente dell'Olympiakos, solo perché guida il club di calcio più popolare del Paese: quando si arriva a tanto, lo stallo è di certo a un passo e le elezioni anticipate imminenti. In quel caso, a giudicare dai sondaggi che la danno di 5 punti in vantaggio, può vincere la sinistra radicale di Syriza. La Grecia è tentata da una svolta radicale della sua politica europea.

Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, in pubblico promette l'addio al programma della troika e una conferenza internazionale per liberare la Grecia del suo debito tramite un default definitivo. In privato invece, con altri leader europei, minaccia di portare il Paese direttamente fuori dall'euro: non è un caso se i mercati, con i crolli di questi giorni, hanno iniziato a dare un prezzo all'ipotesi che l'Italia o il Portogallo a quel punto possano trovarsi costrette a seguire a ruota. L'Europa e l'Fmi hanno investito 280 miliardi di euro in Grecia in questi anni, solo per dimostrare che non esiste una porta d'uscita dall'euro. Se Atene la smentisse, gli investitori crederebbero che altri lasceranno la moneta, dunque porterebbero i tassi sui titoli italiani alle stelle e anche Roma può essere costretta a tornare a una moneta nazionale.

Samaras, il premier di centro-destra, di fronte agli elettori non intende lasciarsi scavalcare da Tsipras. Di qui la sua richiesta attuale di liberarsi anzitempo della troika, benché la Grecia non sia in grado di stare finanziariamente in piedi da sola.



Fin qui il dramma politico alla luce del sole, ma sottotraccia lo sta alimentando l'ordito diplomatico-finanziario. Lontano dai riflettori, nel silenzio di tutti, quest'anno i governi europei hanno mancato un appuntamento che rischiano di rimpiangere: all'inizio del 2014 avevano iniziato a discutere l'ipotesi di dare altro sollievo alla Grecia sul debito.

Niente di diverso dal trattamento che la Gran Bretagna ha ricevuto dopo la Grande Guerra o la Germania dopo la caduta del nazismo: il debito pubblico verso gli altri governi - dopo i salvataggi, 173 miliardi nel caso della Grecia - viene spalmato su molti decenni a interessi quasi zero. Sarebbe una forma mascherata di default, già sperimentata da altri Paesi nel '900, e capace di disinnescare lo choc politico che ora minaccia di nuovo l'Europa. Ma quell'ipotesi su Atene si è arenata: il governo tedesco si è opposto, asserendo che una Grecia in deflazione, con un'economia crollata del 25%, una disoccupazione al 27%, potesse realmente ripagare un debito al 175% del Pil.

Come già troppe volte in questa crisi, la tattica tedesca si è dimostrata sbagliata. La Grecia oggi dà (o dava) segni di ripresa, più della stessa Italia, ma la tensione sociale e la pressione finanziaria rischiano di trasformarla in un detonatore per l'Europa. Una concessione sul debito sarebbe costata circa lo 0,7% del Pil europeo, un piccolo pezzo del mercato come lo erano in America i subprime. Negarla, può provocare una catastrofe decine di volte più devastante.

La lezione di ieri però è che non tutti sono uguali quando si alza la tempesta. La Spagna ha distanziato l'Italia per i rendimenti dei titoli di Stato, ormai più bassi di 37 punti per Madrid, perché lì la crescita è più alta e il debito più basso. E i bond sovrani francesi ieri hanno perso più terreno degli iberici, allontanandosi di 13 punti base in più dai Bund tedeschi. Ce n'è abbastanza perché il mercato decida di mettere concretamente alla prova la promessa di Mario Draghi, il presidente della Bce, di fare "qualunque cosa per preservare l'euro". Ma neanche un'onda infinita di liquidità può riempire il vuoto della politica, né quello del buon senso quando non c'è.

© Riproduzione riservata 17 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/10/17/news/atene_riaccende_l_allarme_l_europa_pi_debole_per_poter_reggere_a_un_altro_terremoto-98297444/?ref=HREA-1
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 29, 2014, 06:57:31 pm »

Anonimi per la vergogna
Di FEDERICO FUBINI

Se c'è qualcosa fra le molte che colpisce in modo particolare in questa bellissima e sconcertante inchiesta a più voci dai territori d'Italia, sono i nomi. Quelli dei protagonisti, i giovani in cerca di lavoro. Colpiscono perché non sono quasi mai accompagnati dai cognomi: perlopiù gli intervistati accettano che appaia solo l'iniziale del cognome, oppure neppure quella.

Di solito questo tipo di richiesta - non essere identificabili - arriva ai cronisti da giovani vittime di stupri, tossicodipendenti, persone coinvolte a qualche titolo in un crimine o in una vicenda in cui qualcuno, da qualche parte, ha qualcosa di cui si deve vergognare. Ma questa inchiesta parla di un fenomeno che colpisce milioni di giovani italiani che si affacciano al mondo del lavoro. La loro richiesta di anonimato dice molto, purtroppo, del disagio e della vergogna che si prova per una condizione di cui non si è responsabili ma riguarda una sezione intera della popolazione per molti anni. Queste persone porteranno con sé il loro stress per molti anni, anche quando l'avranno superato, ed esso sarà un fattore della vita politica italiana per molti anni a venire.

Il fatto che l'enorme gruppo sociale dei disoccupati giovani scelga di restare senza volto, senza nomi, obbliga però anche a una lettura più ampia. Da almeno 80 anni, o forse dai tempi delle corporazioni medievali delle arti e dei mestieri, l'Italia è il Paese delle lobby, dei gruppi d'interesse, degli ordini professionali organizzati che contano più di gran parte dei partiti politici. Si è cittadini non in virtù del passaporto, o della contribuzione fiscale, ma dell'appartenenza a una corporazione.

Il messaggio implicito nella scelta dell'anonimato è che quella che parla in questa inchiesta non è una lobby. Non è un gruppo organizzato. È minoritaria in un Paese di età media elevata e tende ad andare alle urne meno dei loro padri o dei loro nonni. È una sezione di italiani che la politica si è potuta permettere di ignorare senza rischiare di perdere il potere.

La speranza è che i giovani non debbano trasformarsi anche loro in una lobby vecchio stile. Non debba diventare una corporazione come quelle di cui i governi cui comprano l'amicizia generando debito pubblico, per poter finalmente mettere, senza vergogna, i cognomi accanto ai nomi.

Da - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/10/27/news/il_lavoro_di_cercare_lavoro-97979059/?ref=HREC1-9#anonimi
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:20:57 am »

Misure anti-recessione, resa dei conti per Draghi assediato nell’Eurotower
Dopo la fronda dei “falchi”. Oggi il board della banca centrale europea

Di FEDERICO FUBINI

06 novembre 2014

ROMA - All'inizio del mese è stata varcata una soglia che nessuno all'avvento dell'euro aveva immaginato. Deutsche Skatbank, un piccolo istituto della Turingia, è diventato il primo in zona euro a praticare con i propri clienti al dettaglio ciò che da tre mesi la Banca centrale europea fa con le banche commerciali: tassa i loro depositi. Chiunque abbia un conto presso Skatbank di oltre mezzo milione di euro dovrà pagare ogni anno lo 0,25% a Skatbank stessa.

Il rendimento del denaro, se tenuto inerte, sta diventando negativo in termini nominali. Non poteva esserci espressione più dura della deflazione che incombe sull'Europa e di come la Bce rischi di trovarsi in un vicolo cieco nel suo tentativo di arrestarla. Le vie ortodosse come il taglio dei tassi sono esaurite sul limite dello zero, quelle non troppo anti-convenzionali come gli interessi negativi sui depositi non sono più percorribili oltre. All'Eurotower non resta che espandere la dimensione del bilancio, cioè creare moneta e immetterla nell'economia comprando titoli sul mercato.

È su questo punto che a Francoforte si sta consumando il conflitto più violento della storia della Bce. Non che sia il primo, anzi quello in corso ne ripete in parte altri del passato recente. La svolta del 2011 che spinse Mario Draghi verso la presidenza ricorda per esempio, in parte, ciò che sta accadendo in queste ore. Ieri sera la minoranza di dissidenti nell'Eurotower, secondo Reuters , si sarebbe preparata per esprimere in consiglio direttivo il malumore per il modo poco consensuale in cui Draghi guida la banca. C'è un parallelo dal passato: quasi quattro anni fa, nel febbraio del 2011, Axel Weber fece sapere che si dimetteva dalla presidenza della Bundesbank. "Ragioni personali", disse. In realtà aveva perso un confronto aperto in Bce sugli acquisti di titoli di Stato e non intendeva restare in minoranza, mentre l'istituzione andava in direzione opposta alla sua.

I peggiori conflitti fra la maggioranza pragmatica dell'Eurotower e una minoranza di sei o sette componenti (su 24) raccolta intorno alla Bundesbank sono di questi giorni. Ma in passato sono andate in scena varie prove generali. Sei mesi dopo Weber si dimise anche Juergen Stark, il capoeconomista tedesco della Bce in rotta con la scelta di comprare titoli di Italia e Spagna. Jean-Claude Trichet, il predecessore di Draghi, aveva affrontato le obiezioni di Weber e Stark e li aveva disinnescati. Oggi però la storia si ripete con una sfumatura diversa: le presunte fughe di notizie sui media internazionali non prendono più di mira solo la linea della Bce, ma il suo presidente italiano. Non si attaccano più le scelte, ma la reputazione della persona. Su questo sfondo oggi il consiglio direttivo darà senz'altro uno spunto su cui misurare i rapporti di forza. La minoranza raccolta attorno a Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, conta banchieri centrali con passaporto tedesco, lussemburghese, olandese, estone e lettone.


Tutti si oppongono all'idea, formulata in pubblico da Draghi, che il bilancio della Bce debba crescere dai circa duemila miliardi di euro di oggi fino ad almeno 2.700 miliardi. La minoranza sostiene che Draghi abbia indicato questo obiettivo senza concordarlo prima con nessuno. La posta in gioco è evidente: per creare circa 700 miliardi di nuova moneta, prima o poi può diventare necessario comprare titoli di Stato.

Si capirà dunque oggi se la Bce indicherà l'obiettivo di una forte espansione del bilancio nella dichiarazione scritta del presidente dopo il consiglio. Probabilmente comparirà un accenno, ma senza cifre: l'ultima cosa che Draghi vorrà fare adesso, nel suo stile di sempre, è esacerbare il conflitto mettendo la Bundesbank di nuovo in minoranza con un voto.

© Riproduzione riservata 06 novembre 2014
Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/11/06/news/misure_anti-recessione_resa_dei_conti_per_draghi_assediato_nelleurotower-99873856/?ref=HREA-1
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« Risposta #28 inserito:: Novembre 16, 2014, 05:44:37 pm »

Lavoro, pronti indennizzi esentasse se licenziati non fanno causa
Palazzo Chigi prepara un secondo provvedimento per favorire i patti integrativi rispetto a quelli collettivi

di FEDERICO FUBINI
15 novembre 2014

ROMA - A questo punto, nove mesi dopo il giuramento di Matteo Renzi al Quirinale, non c'è più un solo banchiere centrale, esponente di governo europeo o investitore estero che non presenti quella domanda. Giunti al cuore di ogni incontro privato, è sempre la stessa: cosa c'è dentro la scatola della riforma del lavoro, e quando quell'oggetto salterà fuori. Più che sui decimali di deficit, è sui dettagli e la portata della revisione delle regole sul lavoro che si gioca la posizione politica dell'Italia in Europa e la sua tenuta finanziaria sui mercati nel 2015. A Palazzo Chigi questa pressione si avverte ed è anche per questo che in questi giorni si lavora per precisare gli ingranaggi del Jobs Act, e gettare le basi di quella che, nei piani, dovrebbe essere la fase due della riforma del lavoro. Il Jobs Act, con il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti, partirà da zero e riguarderà circa 1,5 milioni di dipendenti in più ogni anno su 23 milioni circa di occupati: è un intervento che per ora cambia solo al margine il mondo del lavoro. La seconda fase invece interessa la grande maggioranza, perché riguarda la contrattazione collettiva.

Prima di avviarla, probabilmente in gennaio, il governo deve chiudere sui nuovi contratti del Jobs Act e l'intenzione è di farlo introducendo una novità: forti incentivi economici al datore di lavoro e al dipendente a chiudere gli accordi su un licenziamento economico sulla base di un pagamento deciso entro pochi giorni fra le due parti. La misura riguarderebbe solo i contratti permanenti di nuovo tipo, quelli firmati a partire dal 2015. L'indennizzo può arrivare gradualmente fino ai 24 mesi di salario ordinario, a crescere con l'anzianità di servizio sulla base di griglie fissate per legge. Ma soprattutto, nelle intenzioni del governo, l'accordo senza giudice chiamato "conciliazione espressa " dovrebbe essere interessante per entrambe le parti. Per il datore di lavoro, lo sarebbe per due ragioni: l'indennizzo concordato entro cinque giorni con il dipendente è meno oneroso di quello che può decidere il giudice dopo un ricorso, e il lavoratore che lo accetta rinuncia al diritto di andare poi in giustizia. Anche per il dipendente licenziato ci sarebbero due motivi per accettare una transazione con l'impresa. In primo luogo, con il nuovo contratto permanente, l'indennizzo che gli viene versato sarebbe tutto o in buona parte esentasse: il governo sta studiando il modo di far sì che quella somma, fino a due anni di salario, sia intascata per intero o quasi dal lavoratore senza pesare nella denuncia dei redditi. Inoltre il lavoratore licenziato saprebbe già, dall'inizio della trattativa con l'impresa, che in caso di ricorso ha sì la possibilità di avere un indennizzo più alto, ma con l'onere delle spese legali e senza lo sgravio fiscale.

Così il governo punta a creare incentivi per alleggerire le procedure e sgravare i tribunali, lavorando sui dettagli dei decreti attuativi del Jobs Act. Le cause di licenziamento per ragioni economiche o organizzative saranno definite con fattispecie precise: si va dal cattivo andamento dell'impresa, alle difficoltà del mercato, al cambiamento organizzativo, fino al rendimento insufficiente del singolo. Anche i motivi di un licenziamento disciplinare saranno precisi nei dettagli, in modo da definire per legge i vari scenari e lasciarli il meno possibile all'interpretazione del giudice. Per le imprese fino a 15 dipendenti, l'indennizzo potrà poi arrivare a un massimo di sei mensilità e non di 24 come per le altre.

A gennaio poi il governo punta a far partire la fase due della riforma: quella che potenzialmente riguarda gran parte dei dipendenti, non solo i nuovi assunti. Per allora, Palazzo Chigi intende aver pronto e distribuito alle parti sociali un "libro bianco " di proposte per rafforzare di molto la contrattazione decentrata a livello di azienda, distretto o filiera produttiva, rendendola prevalente sui contratti nazionali uguali per tutte le imprese. L'obiettivo è chiudere su questo a giugno. Questo sistema è praticato quasi ovunque in Europa: le aziende fissano gli orari, i turni o i salari in base alle proprie necessità specifiche e alle condizioni per stare sul mercato. Molti datori di lavoro in Germania hanno salvato così l'occupazione durante la crisi del 2009. Ma in un'Italia a inflazione zero, ciò comporterebbe un'ulteriore scivolata verso la deflazione. Solo la Bce a quel punto potrebbe aprire la rete di sicurezza per evitare un'esplosione dei livelli di debito.

© Riproduzione riservata 15 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/11/15/news/lavoro_via_alla_fase_due_pronti_indennizzi_esentasse_se_licenziati_non_fanno_causa_e_largo_ai_contratti_aziendali-100600536/?ref=HREC1-14
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:43:17 pm »

Ilva, sì al supercommissario: tra un anno Stato al 49% e Mittal-Marcegaglia al 51%
La decisione sull’acciaieria prima di Natale I privati investirebbero 2,5-3 miliardi di euro

di FEDERICO FUBINI
13 dicembre 2014

ROMA - Mentre si avvicina la fine dell'anno e dei fondi di cassa, per l'Ilva di Taranto la domanda più urgente ormai non è più se lo Stato entrerà come azionista. È quante volte lo farà. Negli ultimi giorni è emersa una risposta nei colloqui fra azienda, governo e potenziali investitori: probabilmente lo Stato entrerà due volte. Una quasi subito e l'altra fra un anno. La prima dovrebbe avvenire sotto forma di un nuovo commissario straordinario di nomina governativa, sulla base della legge che regola i dissesti dei grandi gruppi. La seconda -  sempre che tutto vada secondo i piani di queste ore -  quando un fondo d'investimento controllato indirettamente dal ministero dell'Economia si unirà a due grandi soggetti privati, gli anglo-francesi di Arcelor-Mittal e il gruppo Marcegaglia, per riacquistare l'azienda dopo una prima fase di risanamento.

Il tempo stringe per trovare una soluzione che garantisca la continuità delle operazioni all'Ilva, il gruppo dell'acciaio che occupa 11.000 persone e mantiene un indotto almeno altrettanto vasto. Forse già il 22 dicembre, secondo un'ipotesi di lavoro a Palazzo Chigi, il consiglio dei ministri approverà il prossimo provvedimento: il passaggio allo Stato del gruppo, oggi formalmente di proprietà della famiglia Riva, attraverso l'amministrazione straordinaria prevista per le imprese in dissesto dalla Legge Marzano. Quella procedura è già stata applicata per mantenere in attività grandi aziende fallite, a partire dalla Parmalat.

Ma l'Ilva è un caso diverso. Non è formalmente insolvente, dunque la stessa legge Marzano dovrà forse essere adattata. È quattro volte più grande del maggiore gruppo italiano che sia mai finito in amministrazione straordinaria, e presenta problemi industriali quasi insolubili. Ha 350 milioni di euro di debiti verso i fornitori e 35 miliardi di richieste per danni ambientali da parte della comunità di Taranto: negli ultimi anni in città si è misurato un aumento del 30% dei tumori fra gli uomini e del 20% fra le donne. In più, Ilva deve affrontare una bonifica degli impianti da 1,8 miliardi e poi rispettare nuovi vincoli di tutela dell'ambiente così costosi che la metterebbero fuori mercato. Del caso si occupano a Palazzo Chigi due consiglieri di Matteo Renzi, l'ex amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra e l'economista della London School of Economics Marco Simoni. Li segue dal ministero dello Sviluppo anche la titolare, Federica Guidi, e l'attuale commissario dell'Ilva, Piero Gnudi.

Ma è ormai chiaro che l'acciaieria di Taranto sta diventando per Renzi ciò che la crisi dell'auto fu per Barack Obama nel 2009: il banco di prova su cui si misura la capacità del leader di salvare una parte vitale del sistema industriale, prima nazionalizzandola, poi risanando per rivenderla a prezzo di mercato. Ma il fatto che sia riuscito a Obama con Chrysler o Gm non significa che riesca a Palazzo Chigi con l'acciaio. Già il prossimo passo sarà difficile. In queste ore il governo sta cercando un commissario straordinario che sappia gestire un gruppo colossale e conosca l'industria dell'acciaio meglio di Gnudi. A questo "zar dell'acciaio" andrà affiancata in tempi brevi  -  altra incognita  -  una squadra di 50 manager di primo livello. E subito il nuovo gruppo dirigente dell'Ilva, strappata alla proprietà dei Riva e nazionalizzata nel dissesto ambientale, troverà davanti a sé un formidabile ostacolo tecnico: a marzo dovrà chiudere l'altoforno 5 di Taranto, origine di metà della produzione, e investire 320 milioni per ricostruirlo.

Nel frattempo il governo si prepara, con cautela, a gestire il problema dei vincoli ambientali. L'attuale autorizzazione a operare del ministero dell'Ambiente è così restrittiva che supera le prescrizioni dell'Unione europea e obbligherebbe a costi di manutenzione giudicati insostenibili. L'intenzione del governo è di correggere al ribasso le regole sulle emissioni, portandole in linea con i parametri europei. Sarà un'operazione delicata: Renzi non dimentica che a maggio si vota in Puglia per le regionali e per allora vuole mantenere in funzione l'Ilva nazionalizzata, senza provocare proteste a Taranto per l'inquinamento degli impianti. Ammesso che riesca, l'intero processo dovrebbe poi preparare il passaggio successivo. L'idea sulla quale si lavora nel governo prevede la vendita del gruppo fra un anno a una cordata con tre attori forse uniti in una società-veicolo ad hoc. Il 51% dell'acquirente dovrebbe essere composto da Marcegaglia e Arcelor-Mittal, il primo gruppo mondiale dell'acciaio. Il 49% spetterebbe invece al Fondo strategico italiano, di proprietà della Cassa depositi e prestiti, per l'80% controllata dal Tesoro.

Per Mittal, Ilva può diventare il primo impianto europeo, sede di un quinto della sua produzione del continente, e per questo gli indiani sarebbero disponibili a investire 2,5 o 3 miliardi in cinque anni per completare la bonifica. La presenza del fondo di Cdp servirebbe invece a rassicurare i regolatori, in modo che la magistratura tolga il sequestro ancora in vigore sull'impianto. In un secondo tempo poi Cdp uscirebbe, lasciando l'Ilva risanata ai soli azionisti privati. Fin qui il disegno del governo, sul quale gravano delle incognite. Difficilmente per esempio Arcelor-Mittal e Marcegaglia prenderanno impegni prima di aver valutato il lavoro del commissario straordinario. Per l'Italia, non solo per Renzi, è l'ultimo esame d'appello per capire se il Paese è ancora in grado di difendere la sua base industriale.

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Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/13/news/ilva_s_al_supercommissario_tra_un_anno_stato_al_49_e_mittal-marcegaglia_al_51_-102771473/?ref=HRER2-1
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