L’Europa perde Londra, il mondo ora è in bilico
Arginare il contagio diventa la priorità di Bruxelles.
Intanto il Regno Unito cerca una nuova identità, tra la relazione con gli Usa e i rischi finanziari
25/06/2016
Francesco Guerrera
Si dice che nei giorni prima dello storico referendum britannico, la regina Elisabetta chiedesse a tutti gli invitati a Buckingham Palace: «Mi dia tre ragioni perché la Gran Bretagna deve rimanere in Europa».
Ma nel segreto dell’urna, di ragioni i sudditi della regina non ne hanno volute sentire. Hanno votato con la pancia e non con la testa, scioccando il mondo, sconvolgendo i mercati e rivoluzionando il sistema politico britannico.
«Non posso credere che l’abbiano fatto. Non posso credere che l’abbiano fatto», continuava a ripetere un amico banchiere alle quattro e mezzo di mattina di ieri, quando è diventato chiaro che la Brexit aveva vinto non solo su chi voleva rimanere in Europa ma anche sui sondaggi, gli scommettitori e gli strapagati trader della City.
«All change», come si dice sui treni inglesi arrivati al capolinea. Scendete tutti, qui si cambia. Il mondo non sarà più lo stesso. Lo ha detto Angela Merkel con tipica sincerità: «Non ci stiamo a raccontare storie: il voto inglese è uno spartiacque per l’Europa». E non solo per l’Europa. Le scosse del terremoto innescato dal fuggi fuggi di milioni di britannici dall’Unione Europea si risentiranno a Washington e New York a Pechino e in Australia.
Ma incominciamo da Bruxelles e le grandi capitali europee, che nelle prossime ore dovranno decidere come reagire a questo schiaffo pesante da parte della Gran Bretagna.
Porgere l’altra guancia, in questo caso, non sembra un’opzione. Nei corridoi del potere europeo la più grande preoccupazione in questo momento è evitare il contagio di Brexit. E il modo migliore per farlo è far vedere che chi esce dall’Ue soffre. Che la Gran Bretagna non si merita nessuna concessione speciale.
Già Marine Le Pen ha chiesto un referendum su «Frexit». In paesi come l’Italia, la Spagna che va alle urne domenica, e la stessa Germania, si respira un tossico mix di rabbia delle classi medie che si sentono «derubate» dalla crisi economica, paura dell’immigrazione, e profondo malcontento nei confronti di un’élite politica considerata incapace, insensibile o corrotta (o tutte e tre).
Il problema per Bruxelles e la Merkel, per Renzi e Rajoy è che le strutture istituzionali europee sono così distanti dai cittadini che sarà difficilissimo cambiare le opinioni della gente. Quando i richiami alla democrazia e al «sogno» di una federazione europea vengono dai palazzoni del quartiere europeo di Bruxelles, dai ministeri di Roma o dalle cancellerie federali tedesche, non è sorprendente che la gente guardi altrove.
«I burocrati e i leader politici sanno quello che devono fare ma non riescono a farlo. Non sono in contatto con la popolazione», mi ha detto un diplomatico britannico ieri.
Almeno da oggi i politici europei ormai sanno la fine che faranno se continuano a ignorare le proteste che vengono dalle strade delle città più povere, dalle periferie delle metropoli e dalle fabbriche in crisi.
Faranno la fine di David Cameron, il primo ministro britannico, anzi, ex primo ministro britannico, il cui mandato è finito di fronte al Numero 10 di Downing Street in un bagno d’ignominia. Alla fine la colpa è sua, per aver scommesso sul referendum e perso. Per non aver capito da che parte tirava il vento politico del suo paese.
UN PAESE ALLA DERIVA
Cameron se n’è andato lasciando il galeone britannico senza timoniere. Per i prossimi tre mesi, assisteremo a uno scontro feroce tra varie fazioni del partito conservatore per prendere il comando del partito e del Paese.
E mentre le «grandi belve» del partito conservatore, come i vari Boris Johnson, Theresa May e Michael Gove amano chiamarsi, si scannano, il paese andrà alla deriva. «L’evento più disastroso nella storia della Gran Bretagna dalla fine della seconda guerra mondiale», lo ha chiamato il mio vecchio collega Martin Wolf, di solito un pacato commentatore economico per il Financial Times.
UN NUOVO RUOLO
La posizione della Gran Bretagna nel mondo cambierà. Per secoli, il paese è stato ancorato a qualcosa di molto concreto: prima l’Impero, poi il Commonwealth delle colonie e, più di recente, l’Ue. Ora è in balia di se stesso. Ammiccherà agli Stati Uniti ma Obama ha già detto che la famosa «relazione speciale» non si estende a preferenze tariffarie o di commercio. E non credo che una presidente Clinton, e nemmeno un presidente Trump, possa cambiare idea, soprattutto se gli europei mettono pressione.
Per non scivolare in un circolo vizioso di protezionismo la Gran Bretagna potrebbe appoggiarsi alle vecchie colonie del Commonwealth ma l’India, l’Australia e compagnia vogliono esportare prodotti e persone nel Regno Unito, non certo rimpiazzare il mercato unico europeo, quel mare di 500 milioni di persone e 19 triliardi di dollari di Pil pronto a comprare beni e, soprattutto, servizi dai britannici.
Già, la grande economia britannica fondata sui servizi, un epitome del capitalismo moderno, digitale e non «appesantito» da industrie vecchio-stampo. Che succederà a questi venditori di servizi una volta che l’Europa erige barriere economiche e tariffarie? Bastava farsi un giro nella City, il fornitore principale dei servizi made in Britain, ieri per toccare con mano la paura.
Gli alti funzionari delle banche già sussurrano che dovranno spostare migliaia di posti di lavoro da Londra a Dublino, Francoforte o Parigi perché l’Ue non gli permetterà di operare in Europa se non sono nell’Ue. Il ragionamento non fa una grinza ma farà malissimo a un’economia inglese che deriva quasi il 10% del Pil dai signori e dalle signore del denaro. Un amico banchiere a New York già pronosticava ieri, a meno di 12 ore dai risultati del voto, che la Grande Mela avrebbe fregato a Londra «la corona di capitale mondiale della finanza».
Parlando di mele, però, attenzione perché l’America non è senza peccato. Il successore di Obama dovrà prendere una decisione che nessun Presidente americano ha dovuto prendere nell’era moderna: scegliere tra l’Europa e la Gran Bretagna come «alleato favorito». Da una parte c’è la relazione militare con uno dei pochi paesi che ha un esercito forte e la voglia di usarlo. Che è stato a fianco degli americani in tutte le guerre e gli interventi esteri del passato recente, anche quando ne ha pagato molto in termini di vite umane e carriere politiche (basta chiedere a Tony Blair sull’Iraq).
Nell’altro angolo, c’è il partner commerciale più importante per gli Usa, un’Unione Europea che ha il potere economico per trainare l’economia mondiale e un mercato per assorbire prodotti e servizi fatti negli Stati Uniti: dalla tecnologia di Google alle turbine nucleari della General Electric.
Alla fine, e lì che si giocherà la partita: sulla relazione di amore e odio tra l’Ue che è stata snobbata e la «nuova» Gran Bretagna in cerca d’identità e amici nel mondo. Gli Azzeccagarbugli della burocrazia di Bruxelles dicono che ci vorranno almeno due anni per negoziare i dettagli della Brexit. Per scrivere da capo una nuova storia economica, geopolitica e sociale tra 27 paesi che tenteranno di stare insieme e un’isola che ha deciso di andarsene per conto suo senza pensare tanto alle conseguenze.
IN CERCA DEL LIETO FINE
Saranno mesi e anni di passione. La storia potrebbe avere un lieto fine: un mondo «multipolare» in cui l’«Anglosfera» Gran Bretagna-Usa convive in maniera proficua con una rinvigorita Ue e le forze emergenti dell’Est e del Sud del mondo.
Ma potrebbe anche finire male. «Io e te vedremo la guerra durante le nostre vite», mi ha detto il mio amico banchiere ieri mattina dopo essere atterrato alla fine di un lungo volo. Al momento, ho attribuito il commento al fuso orario, alla confusione del dopo-voto, alle emozioni di una notte referendaria incredibile. Ma dopo Brexit, il mondo è in bilico.
La mappa del Telegraph che mostra la spaccatura del voto: nelle zone blu ha vinto il “remain”, in quelle rosse il “leave”
Francesco Guerrera è il condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe
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