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Autore Discussione: Federico FUBINI.  (Letto 38320 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Aprile 08, 2016, 08:54:40 pm »

Finanza pubblica

La sfida del Def e l'incognita debito
Le previsioni del governo sull’economia (secondo alcuni troppo «ottimistiche») all'esame di Bruxelles

Di Federico Fubini

Il presupposto del Documento di economia e finanza (Def) che approda in Consiglio dei ministri è che un’altra stretta di bilancio sarebbe, letteralmente, «controproducente». Lo si legge nel Def e lo dicono quasi tutti: l’amministrazione americana, il Fondo monetario internazionale del «World Economic Outlook» in arrivo la prossima settimana; lo dice persino il Giappone e lo sussurra la Commissione europea. Il fatto che la Germania resti sulle posizioni rigoriste in materia di finanza pubblica non significa che la scelta del governo italiano di posporre il risanamento sia, in sé, sbagliata.

Poi però restano domande più concrete, e più vicine alle circostanze specifiche del Paese. Le previsioni di crescita e di inflazione nel Def, sulle quali si fonda la prospettiva di una discesa del debito nel 2016 e nel 2017, appaiono generose; non irrealistiche, ma senz’altro più ottimistiche rispetto alle stime della stragrande maggioranza degli analisti indipendenti. Bisogna dunque da capire cosa succederebbe al deficit e soprattutto al debito se le previsioni del governo sulla tenuta dell’economia si rivelassero ancora una volta sbagliate per eccesso.

C’è poi una questione specifica che riguarda i saldi di finanza pubblica: il deficit per l’anno prossimo viene indicato al 1,8% del Pil. È più dell’obiettivo di 1,1% iscritto nella nota di aggiornamento al Def di settembre scorso, ma è poco rispetto ai tagli delle tasse promessi. È poco anche di fronte all’elevata probabilità che il governo non faccia scattare le cosiddette «clausole di salvaguardia» di aumento delle imposte indirette nel 2017.

Quell’obiettivo di deficit implica dunque che la prossima Legge di stabilità contenga anche tagli di spesa. Resta da vedere quanto tutto questo impianto sia credibile, quanto ci creda il governo stesso, e quanto verrà creduto a Bruxelles.

Del resto la strategia del Def ricalca quella raccomandata anche dal Fmi per favorire ripresa in tutto l’Occidente: meno sacrifici, più sostegno alla domanda tramite il bilancio pubblico. Ma questo non vuol dire che tutti i Paesi possano permetterselo nella stessa misura; né che ogni euro di tagli alle tasse o di spesa pubblica in più rafforzi la competitività dell’Italia nello stesso modo. Poiché le risorse a disposizione non sono molte, usarle con la massima efficienza diventa vitale come non mai. Ma questa sfida il governo di Matteo Renzi non l’ha ancora vinta.

8 aprile 2016 (modifica il 8 aprile 2016 | 16:07)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_aprile_08/sfida-def-incognita-debito-1a94f904-fd91-11e5-9289-66f52007845c.shtml
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« Risposta #61 inserito:: Maggio 13, 2016, 06:15:38 pm »

I tagli dell’Europa uccidono la Grecia: «Io neurochirurgo non posso operare i malati di tumore»
«Non abbiamo i soldi per i letti della terapia intensiva. La spesa sanitaria è scesa di oltre il 60%. Carenze così marcate hanno un costo in vite umane».
Lo stipendio del dottore è di meno di 2000 euro al mese, 700 il salario degli infermieri

Di Federico Fubini-inviato ad Atene

La dichiarazione sul carbone e l’acciaio. I popoli da riconciliare. Un’unione sempre più stretta. Panagiotis Papanikolaou ieri non ha trovato cinque minuti per riflettere che altrove il 9 maggio significa tutto questo. Per lui l’Europa equivale a liste d’attesa di quaranta giorni per operare di tumore cerebrale e un ascensore in cui i piani sono stati marcati a pennarello blu per risparmiare pochi euro. Si sale così per arrivare al suo decrepito, minuscolo ufficio di neurochirurgo. È nell’ospedale nazionale di Nicea, a occidente della capitale di un club di Paesi che ha realizzato uno degli esperimenti più visionari della storia: l’Unione europea. La dichiarazione sul carbone e l’acciaio. I popoli da riconciliare. Un’unione sempre più stretta. Panagiotis Papanikolaou ieri non ha trovato cinque minuti per riflettere che altrove il 9 maggio significa tutto questo. Per lui l’Europa equivale a liste d’attesa di quaranta giorni per operare di tumore cerebrale e un ascensore in cui i piani sono stati marcati a pennarello blu per risparmiare pochi euro. Si sale così per arrivare al suo decrepito, minuscolo ufficio di neurochirurgo. È nell’ospedale nazionale di Nicea, a occidente della capitale di un club di Paesi che ha realizzato uno degli esperimenti più visionari della storia: l’Unione europea.

Vista da qui, suona come un’utopia distante. Sessantasei anni fa esatti il ministro degli esteri francese Robert Schuman gettava il seme della comunità che avrebbe portato a generazioni di pace, crescita e frontiere aperte. Oggi nel suo piccolo ufficio, il dottor Papanikolaou pensa all’Europa e si lascia sfuggire i segni di un esaurimento nervoso. Cerca di guardare i suoi ospiti ma tiene gli occhi fissi sul pavimento; credendo di parlare, urla. A lui la parola «Bruxelles» fa pensare ai cantieri stradali del suo quartiere di Atene, Pateli, e l’idea lo manda in bestia. «Spendiamo decine di milioni dei fondi europei per ricostruire i marciapiedi a prezzi criminali – dice – ma non abbiamo soldi per tenere aperti i letti di terapia intensiva”. Vista da qui, suona come un’utopia distante. Sessantasei anni fa esatti il ministro degli esteri francese Robert Schuman gettava il seme della comunità che avrebbe portato a generazioni di pace, crescita e frontiere aperte. Oggi nel suo piccolo ufficio, il dottor Papanikolaou pensa all’Europa e si lascia sfuggire i segni di un esaurimento nervoso. Cerca di guardare i suoi ospiti ma tiene gli occhi fissi sul pavimento; credendo di parlare, urla. A lui la parola «Bruxelles» fa pensare ai cantieri stradali del suo quartiere di Atene, Pateli, e l’idea lo manda in bestia. «Spendiamo decine di milioni dei fondi europei per ricostruire i marciapiedi a prezzi criminali – dice – ma non abbiamo soldi per tenere aperti i letti di terapia intensiva».

All’ospedale di Nicea al Pireo, come in tutta la Grecia, la contabilità è controversa quanto tragica. Per tenere aperti i quindici letti di terapia intensiva di questo ospedale servirebbero almeno venti infermieri e dieci medici, ma oggi l’ospedale ne ha rispettivamente dieci e tre. Da anni non è più stato sostituito il personale andato in pensione e questa è solo una parte di una catastrofe più vasta: preferendo salvare altre clientele, i vari governi di Atene hanno tagliato il bilancio del ministero della Salute ben oltre gli obiettivi già durissimi indicati dai governi creditori a Bruxelles. Durante una caduta dell’economia del 29,6% dal 2008, la spesa sanitaria per abitante è crollata il doppio.

A Nicea, questo significa qualcosa di preciso: i letti in terapia intensiva sono rimasti solo undici e si spiegano così alcune delle esperienze recenti del dottor Papanikolaou. Una malata di tumore al cervello ha dovuto aspettare tre mesi per curarsi. Un paziente già operato con successo resta ricoverato da due mesi perché ha preso a sanguinare dal cervello, dopo aver contratto in terapia intensiva un raro batterio: lo trasmettono le infermiere, a quanto pare, troppo poche e dunque costrette a curare e toccare più ricoverati in ogni turno. Da anni lavorano sette giorni la settimana. Servirebbe un paramedico per ogni postazione, in Grecia oggi ce ne sono uno ogni tre e resta chiuso oltre un quarto dei letti disponibili in terapia intensiva.

Una carenza di queste dimensioni sta sicuramente costando vite umane. Il 4 febbraio scorso una donna di 55 anni è morta d’influenza nell’ospedale Sotiria («Salvezza») aspettando invano un letto: quel giorno la lista d’attesa per la terapia intensiva ad Atene era di 75 persone. L’associazione dei medici di Atene sostiene – su basi imprecisate - che riaprire duecento letti chiusi salverebbe duemila vite l’anno e la procura proprio ieri ha annunciato «inchiesta di massima urgenza» dal sapore e clamore decisamente italiani. Non che le radici del problema siano un mistero: per riaprire duecento letti in terapia intensiva in Grecia lo Stato deve assumere cento medici e quattrocento paramedici, al costo di quindici milioni l’anno. Non può. I creditori, i governi europei guidati dalla Germania e il Fondo monetario internazionale, non autorizzano il governo greco ad assumere un solo statale: temono il ritorno del clientelismo, oltre a quello della spesa.

Proprio ieri a Bruxelles gli europei hanno preso atto che il governo di Alexis Tsipras imporrà, su loro richiesta, nuovi tagli e un altro aumento delle tasse. Sulla scala dell’Italia, equivarrebbe a un pacchetto di sacrifici da 48 miliardi di euro. La sola differenza è che l’economia ellenica è già crollata di quasi un terzo rispetto in otto anni, nel frattempo ha ridotto il deficit pubblico dell’11% del Pil e – secondo il sito PubMed – è salita al primo posto in Europa per frequenza delle infezioni in terapia intensiva. Papanikolaou, il neurochirurgo, sa già che le misure porteranno nuove tasse per lui, dopo un taglio di oltre metà dello stipendio dal 2011. Da domani opererà il cervello per meno di duemila euro al mese, mentre la migrazione dei nuovi laureati verso la Germania e la Gran Bretagna non potrà che accelerare: già oggi l’ospedale di Nicea fatica a trovare praticanti da formare, perché tutti si precipitano all’estero. «Abbiamo perso una generazione di medici», dice Papanikolaou.

In una lettera ai governi europei, la direttrice dell’Fmi Christine Lagarde ha definito tutto questo insensato. Gli obiettivi di bilancio imposti alla Grecia, un attivo del 3,5% del Pil sul futuro prevedibile, secondo lei non hanno più senso: «Più di quanto economicamente e socialmente sostenibile», ha scritto Lagarde. «Controproducente». Il governo di Atene finge di adeguarsi tagliando e tassando là dove è meno difficile, non dove servirebbe. Ma Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco all’origine di queste richieste, non deflette: il suo partito conservatore a Berlino non intende scoprire il fianco destro all’ascesa dei nazionalisti di Alternative für Deutschland. Così, sessantasei anni dopo la dichiarazione di Schuman, le scelte vitali di una nazione vengono determinate dall’agenda di partito di un altro governo in Europa e non da un minimo di logica o di umanità. Il bilancio della Grecia al 2018 prevede già nuovi tagli sui farmaci. In ufficio a Nicea, Papanikolaou continua a guardare per terra. I suoi strumenti di microchirurgia sono obsoleti, le macchine mobili dei raggi X bloccate. Come fate? Il dottore alza gli occhi e si capisce che il vecchio bisturi vorrebbe finirlo sull’ospite.

(Ha collaborato Nikolas Leontopoulos)

10 maggio 2016 | 10:58
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Da - http://www.corriere.it/video-articoli/2016/05/10/negli-ospedali-atene-rimasti-senza-bisturi/e1fa3d12-168a-11e6-a3a2-ca09c5452a5d.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 12, 2016, 12:03:15 pm »

«Il salvataggio? I paletti della Ue sono già scattati in altri Paesi»
L’economista di Bruegel, Nicolas Véron: le svalutazioni possono funzionare.
Abbiamo già avuto perdite sui bond subordinati, non è stato destabilizzante


Di Federico Fubini

Nel 2012 il francese Nicolas Véron è stato incluso da Bloomberg Markets nella sua lista delle 50 persone più influenti. La ragione: è uno dei padri intellettuali dell’Unione bancaria in Europa, una strada che è stato fra i primi a indicare dall’inizio della crisi finanziaria. Economista ai centri studi Bruegel di Bruxelles e al Peterson Institute di Washington, Véron ha un messaggio per quanti in Italia non vogliono affrontare alcun colpo di forbice sui creditori delle banche in crisi: si è fatto così molte volte in Europa, e ha funzionato.

In caso di aiuti di Stato a Mps, la Commissione Ue chiede che vengano diluiti almeno gli investitori professionali che hanno bond subordinati. Ha senso?
«Da anni la Commissione lavora nel suo mandato di controllo degli aiuti di Stato per accrescere la sostenibilità dei sistemi bancari in Europa, la disciplina di mercato e la parità delle condizioni competitive. Ci sono stati molti episodi. I primi salvataggi, per esempio la tedesca Ikb nel luglio 2007, sono stati fatti senza far pagare i creditori. Nei casi di Dexia o di Rbs nel 2008 sono stati tutelati in buona parte anche gli azionisti. Poi l’approccio si è riequilibrato. La prima volta in cui sono stati coinvolti i detentori professionali di bond subordinati è stata nel 2010, con alcune banche danesi. Per altro non su iniziativa della direzione generale Concorrenza della Commissione europea. Ma quel tipo di investitori deve conoscere i rischi».

In quali altri casi è successo?
«Perdite degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati si sono avute negli anni a Cipro, in Portogallo, Spagna, Olanda, Irlanda, Austria e Slovenia. Il caso della tedesca Hsh è aperto e forse succederà anche lì».

Che sia successo altrove dà una logica economica al fatto che debba avvenire anche in Italia?
«La Commissione è vincolata dalla proprio giurisprudenza e da quella della Corte di giustizia europea».

Insomma, può subire ricorsi da altri governi se Roma ottiene un trattamento speciale?
«Anche da investitori in altre banche europee, che sono stati coinvolti. Poi c’è la nuova direttiva sulla gestione delle crisi bancarie tramite il salvataggio interno, frutto dell’impeto politico dominante: i salvataggi sono cattivi, le perdite di azionisti, creditori e depositanti sono buone. Questa è più rigida: prevede di coinvolgere fino all’8% delle passività, con un paio di scappatoie nel caso di particolari stress di mercato».

È la deroga invocata dall’Italia. È giusto che la ottenga?
«Sappiamo che ci sono situazioni in cui l’intervento pubblico è necessario. Nella crisi finanziaria del 2008 e 2009 negli Stati Uniti, applicare il fondamentalismo di mercato non avrebbe migliorato la situazione. Ma penso che gli italiani in questo esagerino».

Perché?
«Lasciamo da parte le conseguenze politiche: non è compito della Commissione Ue gestire la tattica politica nei vari Paesi. Abbiamo già avuto perdite degli investitori professionali sui bond subordinati altrove, e non è mai stato destabilizzante in modo sistemico».

Il governo sostiene che punire gli investitori renderà difficile poi attrarne altri per aumenti di capitale.
«Trovo soprattutto che sia l’Italia, inclusa la Banca d’Italia, che la Banca centrale europea abbiano posposto troppo a lungo questi problemi nel 2014 e 2015. Di gran lunga, è l’ultima questione aperta».

8 luglio 2016 (modifica il 9 luglio 2016 | 10:18)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_luglio_08/salvataggio-paletti-ue-sono-gia-scattati-altri-paesi-00e784de-4541-11e6-888b-7573a5147368.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Settembre 01, 2016, 07:41:21 pm »

A Berlino adesso cambiano le priorità
I dubbi sui conti restano ma pesa più la politica
La cancelliera è convinta che Renzi rappresenti la migliore speranza che ha l’Italia — dunque anche l’Europa — di non scivolare in uno stato di caos politico e istituzionale

Di Federico Fubini

Non capita spesso che il leader di un Paese regolarmente accusato di ogni problema da un collega straniero, visiti quest’ultimo fra mille sorrisi ogni dieci giorni. Ma questa è l’Europa. E questa è Angela Merkel di fronte a quel rebus avvolto in un mistero dentro un enigma che per lei si chiama Matteo Renzi. Probabilmente la cancelliera fin qui ha tratto con certezza non più di due conclusioni quanto al presidente del Consiglio italiano. La prima è che di lui non ci si può fidare, se ci si preoccupa che l’Italia mantenga una rotta di stabilità finanziaria nei prossimi anni; ma la seconda, anche più pressante oggi, è che adesso Renzi va aiutato perché rappresenta la migliore speranza che ha l’Italia — dunque anche l’Europa — di non scivolare in uno stato di caos politico e istituzionale.

Non era molto tempo fa quando Renzi metteva tutta la sua energia in una sfida con Merkel nel Consiglio europeo: «Non diteci che date il sangue per l’Europa». Seguivano osservazioni anche irrituali del premier su Deutsche Bank o su un progetto di gasdotto dalla Russia alla Germania del Nord. In pubblico la cancelliera non ha mai risposto. In privato, in un incontro di Berlino di fine gennaio seguito a un vertice di Bruxelles particolarmente teso, Merkel trattò Renzi con un’aria di superiorità così accondiscendente che non fece che acuire la diffidenza fra i due. Sembrano passati anni, ma sono solo otto mesi. Da allora non è cambiata a Berlino — si è solo radicata — la convinzione che l’Italia non sia su una traiettoria molto sicura con il suo deficit e soprattutto con il debito. Il Patto di stabilità e la Commissione Ue non sembrano al governo tedesco in grado di risolvere questi problemi. In Germania, a torto o a ragione, è molto avvertito il problema di come proteggere i contribuenti tedeschi e l’integrità dell’euro se una delle sette grandi economie avanzate del mondo dovesse tornare in crisi finanziaria.

Ciò che invece è cambiato a Berlino negli ultimi mesi è la riflessione politica sull’Italia. Renzi sta guidando il Paese verso il referendum costituzionale sullo sfondo di un’Europa messa alla prova dalla Brexit, dal terrorismo, dalle ondate di migranti e dalla lunga paralisi politica di Parigi. Per Merkel, l’Italia e il suo premier oggi sono il solo interlocutore possibile e sono da aiutare ad ogni costo a superare il percorso dei prossimi mesi. Uno dei segnali in questo senso è stata l’apertura del ministro dell’Interno, Thomas de Maizière, al suo collega Angelino Alfano al Meeting di Rimini dieci giorni fa: la Germania per la prima volta fa scattare gli accordi europei e accoglierà «centinaia» di migranti sbarcati in Italia ogni mese.

Le concessioni e la cordialità di Merkel a Ventotene pochi giorni fa e ieri a Maranello sono altri tasselli della stessa tattica. L’errore più grande, in Italia, sarebbe prendere tutto questo come un via libera incondizionato, su tutto e per sempre. Se e quando Renzi supererà il referendum, si accorgerà che non sarà bastato quello a dissolvere i timori diffusi a Berlino sulla direzione verso cui sta viaggiando l’Italia.

31 agosto 2016 (modifica il 31 agosto 2016 | 23:27)
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DA - http://www.corriere.it/
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« Risposta #64 inserito:: Settembre 07, 2016, 11:18:44 am »

L’INTERVISTA

Spesa pubblica, Perotti: «Dalle partecipate ai troppi sussidi, ecco perché le riforme hanno fallito»
Perotti, ex commissario alla spending review: «Tagliati 25 miliardi, ma sono state aumentate altre spese per la stessa cifra. E i costi della politica non sono scesi»


  Di Federico Fubini

Roberto Perotti, economista, ex commissario alla spending review (Imagoeconomica) Roberto Perotti, economista, ex commissario alla spending review (Imagoeconomica) shadow

Perché ha scelto di lasciare il suo incarico a Palazzo Chigi?
«Perché io ero andato lì, e vi ero stato chiamato, per ridurre la spesa pubblica. Mi sono reso conto che, per decisioni politiche che rispetto, è stato deciso di non ridurla seriamente. A quel punto a me non interessava star lì a lavorare su come ridurre una detrazione da dieci milioni e aumentarne un’altra. A quel punto mi sono reso conto che non c’era la volontà di ridurre la spesa pubblica, e ho considerato il mio mandato inutile»
Il presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia e il commissario alla “spending review” ripetono che la spesa pubblica è stata ridotta dal 2014 di 25 miliardi. Non è una cifra banale, è quasi 2% del Pil
«Questa non è un’affermazione inesatta ma è altamente ingannevole, nel senso i capitoli che sono stati ridotti, se si mettono insieme, lo sono stati per circa 25 miliardi. Poi ce ne sono stati altri che sono stati aumentati in maniera equivalente. Quindi, al netto, la spesa pubblica non è diminuita. Poi si può discutere se la riduzione da 25 miliardi sia stata una buona cosa per fare spazio a misure più utili. Su quello ognuno ha la sua opinione».
La sua qual è? Pensa che la qualità della spesa almeno sia migliorata?
«Non particolarmente. Anche perché è difficile migliorare la qualità della spesa se non c’è un intervento un po’ pianificato e pensato bene all’inizio. Sono stati dati interventi soprattutto nel campo del welfare, piccoli e non strutturati, non coordinati. Che si sono succeduti nel tempo per accumulazione. Non c’è stato dietro un disegno, che non è facile fare. Ma appunto perché non è facile andava, pensato sull’arco dei due o tre anni che questo governo aveva a disposizione»
Sta parlando di bonus di vario tipo, o degli sgravi contributivi sui contratti permanenti?
«È inutile negarlo: nonostante la retorica politica, associare il bonus ai 18enni a un aumento della spesa per la difesa contro il terrorismo non ha alcuna motivazione. Il fatto Le Monde abbia inneggiato a questo non significa niente. Il bonus ai 18enni è una mossa non necessariamente elettorale o demagogica, ma senza alcuna ratio economica sociale. Anzi. Invece molti dei i programmi di cui si sta parlando attualmente, la quattordicesima, l’aumento delle pensioni minime, il bonus fertilità, e via elencando, sono tutte misure quantitativamente piccole, ma molto spesso elettorali, e soprattutto pensate in modo estemporaneo: disperdono risorse preziose che potrebbero essere usate meglio, in base a un disegno organico, per raggiungere chi ha veramente bisogno»
Si riferisce anche al bonus per le forze di polizia?
«Non voglio nascondermi dietro un dito, quello era una forma di adeguamento salariale sotto altro nome, che ci può stare. In tutto il mondo i governi sono sottoposti a queste pressioni. Ma quando si prendono queste misure così piccole, una di qua, una di là, e non coordinate nel tempo, be’, necessariamente poi la qualità della spesa peggiora. E sono tutti programmi che lasciano eredità al futuro, perché poi una volta lanciati, è molto difficile toglierli»
Invece i 25 miliardi di tagli vengono da razionalizzazioni di acquisti, centrali di acquisto aggregate?
«Quelle per adesso non sono ancora apparse a bilancio, sono cose che nel bilancio 2016 non si vedranno ancora perché è un processo un po’ lungo. Si spera che alla fine porteranno altri 4 o 5 miliardi. Sul 2016 ne appare appena una minima parte»
Allora quei 25 miliardi di tagli da dove vengono?
«Sono stati tagliati trasferimenti alle regioni e agli enti locali, anche se poi non è detto si manifestino come riduzioni di spesa: potrebbero anche diventare aumenti delle tasse a livello decentrato. Poi ci sono due miliardi di tagli ai ministeri, 5 di tagli al fondo per la riduzione del cuneo fiscale, e altri interventi»
Sembra di capire che il governo stia chiedendo nuovamente della flessibilità sul deficit. Gli equilibri di finanza pubblica le sembrano stabilizzati?
«Una premessa: secondo me c’è un punto di partenza di questo governo su cui si può essere d’accordo, o in ogni caso si può capire: il governo chiaramente pensa che ci sia stato un eccesso di tecnicismo a livello della Commissione europea. Le regole, inutile negarlo, sono complicate e un po’ cervellotiche. C’è un motivo perché siano cervellotiche: si voleva evitare che qualcuno facesse il furbo»
Ma al netto della regole, anche se non esistesse il Patto di stabilità, le pare che la finanza pubblica italiana sia su un sentiero ragionevolmente stabile?
«La mia impressione è che ci sia un elemento di discontinuità con il passato: la riforma delle pensioni; ovviamente se ne può discutere quanto si vuole in termini di equità, ma dal punto di vista puramente finanziario è stato un elemento di discontinuità ed è stata una svolta nei rapporti con il resto del mondo. È stato il fattore che ha permesso che all’estero si cambiasse opinione sull’Italia. La correzione apportata dal governo Renzi con l’APE, l’anticipo pensionistico, è a mio avviso una soluzione intelligente a un problema reale, dopo oltre un anno di false partenze e di annunci estemporanei e poco ponderati. Al netto di questo però non vedo una grande differenza con il passato. Anzi ho l’impressione che, come spesso succede in politica, ci si sia un po’ seduti sugli allori»
La preoccupa che il deficit rischi di aumentare?
«Devo anche dire la decisione del governo di aumentare il disavanzo di circa l’1% del Pil rispetto agli impegni presi con la Commissione poteva aver senso. Personalmente penso che sarebbe stato importante rispettare gli impegni di riduzione della spesa, perché da un punto di visto economico era giusto farlo e simultaneamente ridurre le tasse ancora più di quanto si riduceva la spesa. Non scordiamoci che si può aumentare il disavanzo anche così, diminuendo le tasse anche più della spesa. Io lo avrei fatto, perché bisognava dare un segnale che c’è la volontà di controllare la spesa inutile e la capacità di tagliare le tasse. Ma per tagliare le tasse permanentemente, bisogna tagliare anche la spesa pubblica. Mentre annunciare un taglio di tasse è facilissimo - sapeva farlo anche Berlusconi - tagliare la spesa pubblica è maledettamente difficile, e non si fa in tre mesi»
Per voi esperti è facile dire cosa fare. Poi però non siete voi a dovervi prendere la responsabilità politica e sociale delle conseguenze. Qualunque taglio di spesa è un taglio a commesse su imprese o a trasferimenti sociali. Questo vuol dire distribuire oneri e sacrifici. Non trova?
«Assolutamente. È proprio per questo che l’unico modo per affrontare questo problema è farlo da un punto di vista complessivo. Non si può farlo in tre mesi, non si può farlo in sei mesi, bisogna guardare a tutta la spesa e avere un’idea di quali sono i propri fini ultimi»
Cioè farlo in maniera complessiva perché tutti devono vedere che non tocca solo loro, ma è un impegno complessivo che tocca tutti?
«Esatto. In questo modo puoi dire di aver toccato questo, ma anche quello. Il nostro fine ultimo dovrebbe essere la lotta alla povertà, la lotta alla disoccupazione giovanile. Se hai qualcosa da mostrare, se fai vedere che stai tagliando la spesa, ma stai liberando risorse per povertà e disoccupazione giovanile non in modo frammentario e improvvisato, ma complessivo, allora diventa più facile. Se lo fai in modo disorganizzato e diluito nel tempo, è difficile. Devi farlo tutto insieme, nel tempo e su tutti gli articoli di spesa non in linea con le priorità che ti sei dato. Soprattutto è fondamentale far vedere che si interviene sui privilegiati, sia da un punto di vista economico che politico. È per questo che aggredire i costi della politica è fondamentale»
Cioè è politicamente accettabile fare un programma di riduzione di spesa solo se si fa vedere che le élite, l’establishment sono coinvolti?
«Sì»
Renzi dice che lo ha già fatto, perché ha ridotto i costi della politica e ha limitato i compensi dei dirigenti pubblici a 240 mila. Dunque non è che non è successo.
«Ha ulteriormente esteso la limitazione ai compensi che era stata introdotta da Monti e da Letta. Però non c’è stato quel programma organico di lotta ai costi della politica che si sarebbe potuto fare, e che presuppone a sua volta una ricognizione organica. Facile prendersela con questo o quell’altro ente, magari sulla spinta di qualche dato eclatante uscito recentemente sui giornali. Quello di cui hai bisogno è una ricognizione organica di tutto. Tutti i comparti statali, la giustizia, le regioni, gli enti locali. Tutti i livelli ministeriali. Se non fai un confronto con gli altri Paesi, come fai a dire che questa o quella figura guadagnano troppo o troppo poco?»
Sulla dirigenza pubblica qualcosa è stato fatto, anche con la riforma Madia.
«A livello economico non mi risulta che sia stato fatto molto. Anzi, a mio avviso c’è il rischio concreto che la riforma Madia addirittura porti a un passo indietro. Con l’abolizione delle fasce retributive dirigenziali, ci sarà una omogeneizzazione delle retribuzioni. Ma sarà inevitabilmente verso l’alto. Quando mai si è vista una omogeneizzazione delle retribuzioni verso il basso? Io aumento la tua retribuzione, tu aumenti la mia…. Bisogna tenere presente un dato non molto noto: i dirigenti pubblici italiani a tutti livelli, ma soprattutto a livelli apicali, sono già molto ben pagati, più per esempio i degli omologhi inglesi. Sia a livello ministeriale che a livello locale e anche nel campo della giustizia. E lì non mi risulta che sia stato fatto niente. Poi c’è la riforma Madia sugli incarichi a termine e i dirigenti che possono essere valutati: però lì secondo me è stato un enorme specchietto per le allodole. Intanto perché i criteri di valutazione sono incredibilmente astratti, come è inevitabile che sia. E poi nell’università pubblica è già stato introdotto questo sistema, i docenti dovrebbero essere valutati ogni tre anni e lo sono. E in teoria è previsto che alla fine potresti perdere il posto. Nella storia dell’università italiana non è mai successo che una volta un ordinario o associato o un ricercatore sia stato rimosso. È successo due o tre volte che dei ricercatori non sono stati confermati, sono andati al Tar e sono stati reintegrati. Cane non mangia cane. Ma questo non è colpa necessariamente del governo, perché è molto difficile in un sistema pubblico fare una valutazione. Anche in Gran Bretagna è da 30 anni che ci stanno pensando ma non hanno trovato la soluzione. Ma questa idea che cambierà tutto secondo me è un’illusione»
Sulle partecipate pubbliche si è molto legiferato. Che ne pensa?
«Lì purtroppo c’è un’illusione collettiva ancora più forte che nel caso della dirigenza pubblica. Quasi niente della riforma Madia è nuovo. Sono tutti criteri formali, aggirabili e soprattutto non mordono»
Sta parlando del fatto che le partecipate devono occuparsi solo di attività proprie della funzione pubblica?
«Sì, è un criterio talmente generale che qualunque partecipata potrà sempre dire che lo sta facendo. La riforma Madia inizia dicendo che da ora in poi le amministrazioni pubbliche non potranno partecipare in società ‘non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali’»
Ma questo non c’era già dalle riforme degli anni precedenti?
«Sì. Ed è una frase talmente ovvia e generica che qualunque partecipata potrà sempre dire che sta svolgendo quel tipo di funzioni»
Dunque anche questa riforma rischia di creare esiti gattopardeschi?
«Sì, anche perché è una riforma fatta con criteri amministrativistici, tutta basata da un lato su pompose enunciazioni generali che non hanno alcun mordente, dall’altro su un elenco infinito di casi e sottocasi, ognuno ovviamente con la sua deroga. Per esempio, la riforma dice che l’ente partecipante non possa ripianare le perdite di una partecipata, ‘a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale’. Quindi tutto quello che si deve fare è assumere un consulente e farsi fare un piano di ristrutturazione aziendale. Altri soldi che partono. Oppure, la riforma prevede che ‘in caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell’amministratore, la parte variabile della sua remunerazione non può essere corrisposta’. Ma qualcuno ha mai pensato come si fa a dimostrare che un risultato negativo è attribuibile alla responsabilità di un amministratore? Facciamo una causa che si chiuderà tra venti anni con un’assoluzione? Oppure ancora, se la partecipata ha avuto un risultato economico negativo per tre anni di fila, si procede alla riduzione del 30 per cento del compenso degli amministratori; ed è persino una giusta causa ai fini della revoca degli amministratori. A meno che, ovviamente, ‘il risultato economico, benché negativo, sia coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante’. Altri piani di risanamento, altre consulenze. Invece di tutti questi bizantinismi, c’era un modo semplicissimo per tagliare le poltrone: eliminare l’organismo interno di vigilanza, che non serve a niente, e attribuirne i compiti al collegio sindacale. Si sarebbero tagliate oltre 10.000 poltrone in un colpo solo. E legalmente non c’è nessun ostacolo a farlo. L’impatto sul risparmio di spesa sarebbe stato limitato. Ma ovviamente qualcuno non sarebbe stato contento»
Questi aspetti sono frutto di una volontà di cambiare tutto per non cambiare niente?
«No. In questo caso sono convinto che ci fosse buona fede e la volontà di fare»
E allora perché non ha funzionato?
«Perché la riforma è stata scritta tutta da amministrativisti, che ragionano solo in funzione di enunciazioni formali e di elenchi di cose permesse e proibite, e pensano che basti scrivere che una cosa è proibita perché non avvenga più»
Un po’ napoleonico, no?
«Molto latino. Tutto questo l’ho visto in azione, ed è terribile. La tradizione amministrativista in azione. L’illusione che da 8.000 si passi a 1.000 partecipate, usando criteri che sono già in teoria attivi da dieci anni, è destinata a rimanere tale. Il risveglio sarà amaro»
Serviva un manager?
«Non necessariamente. Serviva il buon senso. Ogni volta che si scrive un provvedimento, ci si dovrebbe fare quattro domande: In pratica, che effetti avrà? Come può essere aggirato? Il gioco vale la candela? Si può attuare senza dover fare ricorso a un contenzioso giuridico infinito che si risolverà in un nulla di fatto tra quindici anni? Anzitutto si sarebbe dovuto fare una ricognizione definitiva e fatta bene delle partecipate: ci sono almeno quattro elenchi ufficiali, ma in gran parte inutilizzabili per gli scopi della riforma. Ancora oggi il governo non sa esattamente quante e dove sono, cosa fanno, quanto spendono per ogni dipendente, e via dicendo. E poi ci sono aziende da prendere una per una. Per gestire un cimitero non serve una partecipata, bisogna solo scavare delle fosse. Si dica che se ne occupa una divisione del comune. Ci sono Comuni di diecimila abitanti con holding finanziarie. Ci sono regioni con decine di società di startup, anche a livello comunale: una follia. Ci sono persino Comuni con partecipate che si occupano della semplificazione dei rapporti con il pubblico! Si prendono una per una e si dice: chiudetele. Hai il foglio excel con tutte le partecipate, metti una X di fianco a quelle che in base a questi criteri verranno eliminate. Il comune, la regione non le chiude? Gli taglio i trasferimenti: vediamo chi vince»
Anche sulla Rai ha lavorato molto. Cosa ne pensa?
«Sulla Rai sono rimasto molto stupito dagli sviluppi. Il problema della Rai è che ha troppi soldi. Se si compara alla Bbc, i costi unitari sono molto più alti. Parlo di costo del lavoro unitario, il costo medio del lavoro per ogni unità di valore aggiunto. E soprattutto come sempre in Italia sono molto pagati i dirigenti. Perché l’Italia, che si vanta di essere un Paese molto egualitario, nel settore pubblico sono molto pagati i dirigenti, rispetto agli altri Paesi, e sono meno pagati invece quelli a livello più basso»
Cioè ai livelli più bassi dell’amministrazione sono sotto le medie europee?
«Per esempio un insegnante o un maestro guadagnano meno che nelle medie europee. Già un dirigente scolastico guadagna più di un dirigente scolastico in Gran Bretagna, per esempio. Però gli esempi più eclatanti sono nella dirigenza ministeriale e regionale, riguardo a questa disparità. La Rai incorpora tutti questi problemi, più il fatto che rispetto alla Bbc ha un bilancio enormemente più alto, per ore di produzione. Ha una percentuale altissima di dirigenti tra i giornalisti, sono 600 su 1.600, una percentuale pazzesca. Quindi era ovvio che una riforma dovesse affrontare questo problema»
Cosa vuol dire, mandarli via?
«No, ma porre la basi per cambiare le cose poco a poco. Al limite con dei prepensionamenti. Però qualcosa andava fatto, se non nell’immediato almeno qualcosa che affrontasse il problema nel lungo periodo. Invece la riforma che è passata nei mesi scorsi è esclusivamente legalistico-formale e di corporate governance: tratta di chi nomina chi. Però poi non è cambiato niente perché di fatto in maggioranza erano e sono di nomina politica. Dal punto di visto dei costi non è cambiato niente, anzi gli sono stati dati più soldi perché il canone in bolletta ha aumentato enormemente le entrate della Rai»
Il canone in bolletta è una forma di lotta capillare e efficace all’evasione. Si è sempre detto che i proventi della lotta all’evasione dovevano finanziare un calo del prelievo. Ma perché il canone è sceso così poco?
«È per quello che sulla retorica della lotta all’evasione bisogna stare molto attenti. Se tu recuperi un miliardo e ti serve per ridurre le tasse sugli altri che prima pagavano un miliardo, è un’ottima cosa. Ma se recuperi un miliardo e lo usi per dare un miliardo in più a dei dirigenti statali o per rimpinguare la RAI, allora cosa serve recuperare l’evasione? Il caso della Rai con il canone in bolletta è l’esempio perfetto di questo: il canone è stato diminuito di soli dieci euro, in compenso molti che prima lo evadevano adesso pagano, quindi in aggregato le risorse che vanno alla Rai sono aumentate. Esattamente il contrario di quello che bisognava fare, perché la Rai è già la più finanziata di tutte le televisioni pubbliche. Quindi non capisco questa riforma, esclusivamente di tipo formalistico e legalistico. Un esempio classico di riforme del tipo di quelle delle partecipate: solo formali e legali»
Sta dicendo che Renzi è partito con certe premesse di riforma di certi snodi che la vedevano molto convinto e poi ha fatto un passo indietro verso una politica più tradizionale?
«Non so se sia stato intenzionale. Non credo lo sia stato. È un esempio del fatto che le riforme non basta farle scrivere in un pomeriggio a un amministrativista, o a un funzionario con la stessa formazione. Le riforme bisogna pensarle, fare confronti con gli altri Paesi, cercare di capire la ratio dell’esistente. L’esistente non va giustificato semplicemente perché c’è. Se la Rai ha il doppio del bilancio degli altri Paesi, significa che o tutti gli altri Paesi sbagliano, oppure siamo noi. Allora dobbiamo cercare di intervenire. Però queste cose non si fanno in tre giorni. Non si fanno solo da un punto di vista legale e formale. Io non credo ci fosse malafede, c’è stata semplicemente superficialità. Per esempio, un caso eclatante di superficialità è che il precedente direttore generale della Rai si era già ridotto il compenso a 240 mila euro; ma insieme alla riforma della Rai, quando è arrivato il nuovo direttore generale, se lo è ri-aumentato a 650 mila euro. Negli ultimi anni il compenso del direttore generale della BBC, che è molto più grande ed è vista in tutto il mondo, è stato ridotto da 750.000 a 500.000 euro. Quello che è successo alla Rai non credo fosse intenzionale, ma mi sembra insensato anche se è una piccola cosa. Non credo che sia stato fatto intenzionalmente da parte della politica, è stato solo un approccio superficiale alle cose»
Queste sono tutte spese importanti e non piccole, circa due o tre miliardi di spesa se ci mettiamo anche le partecipate. Ma tre miliardi non cambiano niente alla pressione fiscale. Qual è l’altra parte, quella che colpisce una platea più ampia, su cui lei interverrebbe?
«Qui entriamo ovviamente in un campo minato e mi rendo conto che tutto quello che dirò è politicamente difficile. Però per esempio ci sono tantissimi sussidi alle imprese, per cui nessuno sa esattamente quanti siano. Molti sono fuori bilancio, ricordiamocelo, molti»
Non sono nella famosa lista delle 814 deduzioni o detrazioni esistenti?
«No, no. Molti trasferimenti diretti non lo sono. Adesso Enrico Bondi sta facendo la ricognizione. Quindi lì, nessuno sa esattamente quanto ci sia da tagliare. In termini di valore attualizzato di flussi futuri (‘present discounted value terms’) sono miliardi e miliardi. A partire per esempio dalle energie rinnovabili. Poi le pensioni sono un terreno minato, ma sono ancora convinto della proposta di Tito Boeri - che è stato sottoposto a una vera e propria character assassination appena l’ha avanzata - fare cioè il ricalcolo contributivo sulle pensioni più alte e tagliare non tutta la differenza ma anche solo il 30% o il 40%. La gente ha completamente distorto, intenzionalmente, quello che proponeva Boeri. Secondo me quella è ancora una via possibile che porta due o tre miliardi, di cui alcuni si possono utilizzare per il welfare. Ma è inutile illudersi, non c’è niente che ti dia 15 miliardi di risparmi di colpo. È un lavoro da certosini. Prendiamo i sussidi al cinema, che valgono ‘solo’ 500 milioni. Io continuo a sostenere che i sussidi al cinema, che sono stati più che raddoppiati in gennaio, sono uno scandalo. Il cinema italiano è il più sussidiato del mondo per euro di valore aggiunto prodotto. Molto più dei francesi, che già ne fanno una fissazione. Tutti dicono che i sussidi italiani sono meno di quelli francesi o inglesi, ma dimenticano di dire che l’industria francese o inglese è cinque volte quella italiana. E poi cerca di farglielo capire… A gennaio i sussidi al cinema sono stati portati da 200 milioni o 500 milioni. Tutti contenti, strette di mano, giornali che inneggiano sai nuovi finanziamenti per la cultura... Ma perché il povero disoccupato del Sud deve sussidiare i cinepanettoni? Quando sollevavo il problema, tutti mi parlavano dell’indotto. Ma l’indotto c’è dappertutto: se parliamo di indotto, non si finisce più. Bisogna dimostrarmi che ha più indotto quello di un’altra spesa»
In questo quadro si è aperto in Italia un dibattito accesissimo sulle Olimpiadi. Che ne pensa?
«Se viene un marziano a Roma, vede una città allo sbando. Con periferie in condizioni difficilissime. Ad amici che dovevano andare a Tor Bella Monaca la polizia ha consigliato di non fermarsi ai semafori rossi con il motorino, per sicurezza. Hai una città nell'occhio del ciclone da anni per diecimila motivi. L’ultima cosa di cui hai bisogno sono le Olimpiadi. Il problema è che i politici pensano sempre di risolvere i problemi con il mattone, perché è la cosa più semplice. È molto più difficile sedersi a tavolino e cercare di risolvere i problemi di un quartiere deteriorato. La gente lì ha bisogno di verde, di scuole o di chiudere le buche. Non ha bisogno di una nuova piscina olimpionica che il giorno dopo non usa più nessuno. Ha bisogno di tante piscine per far fare sport ai ragazzi. L’Italia è il paese con meno piscine per abitante d’Europa e lo sport è importante. Hai bisogno di tante piscine non faraoniche, semplici, per far fare sport ai ragazzi e toglierli dalla strada. Le Olimpiadi sono l’esatto opposto di questa idea e distolgono le energie non solo finanziarie, ma anche politiche, amministrative, intellettuali. Per anni e anni si pensa a una sola cosa, che durerà due settimane. Mentre Roma ha bisogno di tornare all'ordinaria amministrazione, ma questa è molto meno redditizia per un politico, nell'immediato. Perché un politico va alla cerimonia di inaugurazione dell’Expo o delle Olimpiadi, non va all'inaugurazione di un campetto di calcio di un quartiere disastrato. Anche se poi magari quello è socialmente molto più redditizio nel lungo termine»
Al referendum costituzionale come voterà?
«Voterò sì perché penso che abolire il bicameralismo sia importante. Il bicameralismo perfetto è stato un disastro per l’Italia. Anche se era meglio abolire del tutto il Senato. Ma c’è uno sviluppo degli ultimi mesi che non mi è piaciuto. Ho l’impressione che Renzi abbia capito che non riuscirà a vendere la riforma all'opinione pubblica perché è troppo complessa, e quindi ha deciso di puntare sui suoi presunti effetti per i costi della politica. Il marketing del governo è che si ridurranno di un terzo le poltrone, e di 500 milioni i costi della politica. Sono affermazioni un po’ birichine. La riforma riduce di un terzo le poltrone dei parlamentari, che sono una minima parte delle poltrone della politica. Nei 500 milioni, sono inclusi 350 milioni di risparmi dall'abolizione definitiva delle provincie che il referendum consentirebbe, che però sono già stati conteggiati nell’abolizione di fatto che è già in gran parte avvenuta. Secondo i miei calcoli il risparmio è dunque al massimo di 150 milioni, ma solo ammesso che il Senato faccia molto downsizing. Purtroppo questo governo, per ragioni che posso comprendere ma che non condivido, ha fatto pochissimo sui costi della politica, e ora cerca di recuperare distorcendo il contenuto del referendum, che non ha quasi niente a che fare con i costi della politica»

3 settembre 2016 (modifica il 4 settembre 2016 | 17:38)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_settembre_03/spesa-pubblica-perotti-dalle-partecipate-troppi-sussidi-ecco-perche-riforme-hanno-fallito-7998c5de-7217-11e6-a5ab-6335286216cb.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Settembre 07, 2016, 12:06:30 pm »

L’intervista
Il Commissario Ue, Dombrovskis
«L’ l’Italia ora faccia le riforme: grazie alla Bce il tempo c’è, non va sprecato»
Il commissario Ue: flessibilità? Pochi margini, fuori dal deficit solo le spese d’emergenza per il sisma che ha colpito l’Italia centrale


Di Federico Fubini

Valdis Dombrovskis, 45 anni, condivide con Angela Merkel origini da scienziato e una tremenda volontà nascosta dietro un contegno laconico. In vita sua ha visto da Riga la dissoluzione sovietica, lavorato nei laboratori di fisica di Germania e Stati Uniti, guidato da premier la Lettonia attraverso un piano di sacrifici durissimo e di successo; oggi è il vicepresidente della Commissione Ue e sarà determinante nel decidere se questa volta l’Italia esagera con le sue revisioni al rialzo di deficit e debito. Lo si vedrà presto. Uno scambio di lettere fra Dombrovskis e il ministro Pier Carlo Padoan a maggio impegna l’Italia a un deficit dell’1,8% del Pil nel 2017 e a una riduzione «strutturale», cioè senza tener conto delle fluttuazioni dell’economia e delle misure una tantum. Da settimane però nel governo italiano si sente parlare di nuove richieste di «flessibilità».

L’Italia vuole rinegoziare. Che impressione le fa?
«Riguardo al bilancio per il 2017, potremo dare un qualche giudizio quando vediamo la bozza di Legge di stabilità. Ovviamente ci aspettiamo che il governo si attenga gli impegni e prepari il bilancio 2017 in linea con la raccomandazione-Paese inviata all’Italia. Al primo punto prevede un miglioramento del saldo di bilancio di 0,6% del Pil».

In termini strutturali?
«Sì. Per quanto riguarda la flessibilità in generale, lo spazio è molto limitato perché l’Italia nel complesso ha esaurito nel 2015 e 2016 tutta la flessibilità che era disponibile».

Non ne può invocare altra?
«In caso di disastri naturali, si può considerare che ci siano misure una tantum di cui non tenere conto quando si valuta lo sforzo strutturale di un Paese».

Parla delle spese di ricostruzione e emergenza?
«Esattamente: i costi direttamente legati al sisma».

Ma altre forme di flessibilità? Dopotutto la ripresa si è fermata e rispettare l’obiettivo di deficit a 1,8% con meno crescita significa più tagli o più tasse.
«Per questo ci concentriamo sempre sugli sforzi strutturali dei Paesi. Quanto alla crescita, in primavera prevedevamo 1,1% quest’anno e 1,3% il prossimo, ma adesso dovremo considerare l’impatto della Brexit e altri fattori di rischio al ribasso per l’economia».

Se una parte di deficit in più è dovuta a minore crescita, è accettabile?
«È così».

Lei sa che Matteo Renzi sta affrontando un referendum costituzionale al quale i mercati e le altre capitali guardano con timore. Non è un fattore attenuante sui conti?
«Lei sa che la Commissione cerca di stare fuori dalla politica interna dei vari Paesi. Certo apprezziamo gli sforzi di riforma del governo, nel mercato del lavoro, nell’amministrazione e adesso sulla Costituzione in modo da rendere il processo legislativo più lineare e sostenere la stabilità degli assetti. Ma la Commissione ne resta fuori. Non prendiamo decisioni in base a questi argomenti».

Quanto al debito, sembrerebbe che possa di nuovo aumentare quest’anno e forse anche il prossimo. Che ne pensa?
«In effetti è un freno per la crescita. È ben noto che il Paese ha il secondo livello più alto di debito dopo la Grecia, attualmente al 133%. Davvero alto. Quando ne parliamo con le autorità italiane, sottolineiamo che va posto su una traiettoria discendente, ce lo siamo scritti anche nello scambio di lettere dello scorso maggio. Rifaremo una valutazione insieme a quella sul bilancio per il 2017. E certo sappiamo che ci sono fattori che rendono la situazione più complicata: crescita e inflazione basse, e altri di cui abbiamo tenuto conto quando in passato abbiamo deciso di non avviare una procedura sull’Italia. Ma certo questa questione è ancora lì, ed è rilevante».

La vostra prossima valutazione avverrà nel contesto di un debito in aumento...
«Avverrà nel contesto di un debito che è sopra al 60% del Pil e non si sta riducendo a un tasso del 5% della differenza dal 60% come prevede la regola».

Ma guardi ai surplus di bilancio prima di pagare gli interessi: da vent’anni l’Italia fa come o meglio della Germania, eppure il debito sale perché l’economia non va. Se volete usare le vostre procedure, non è meglio farlo per ottenere riforme per crescita?
«Davvero. Questo è un punto importante. La ripresa dell’Italia è molto lenta e sotto alla media europea e un punto di fondo è la crescita della produttività, che ristagna da due decenni ed è molto sotto la media dell’area euro. È stata pro capite a zero contro circa l’1% l’anno nell’area. Devo dire che l’Italia sta facendo progressi nel mettere in pratica le nostre raccomandazioni. Li definirei progressi “medi”, ma anche così sempre più della media degli altri!».

In Germania c’è poca fiducia nella vostra capacità di garantire disciplina sui conti, tanto che avanzano proposte di procedure d’insolvenza sui titoli di Stato. E il suo stesso ex capo staff Taneli Lahti si è dimesso perché, dice, la Commissione Ue fa troppi compromessi “politici”.
«Non commento mai i commenti. Ho lavorato bene con lui e ora ha deciso di prendersi una pausa principalmente per ragioni personali. Quanto a queste proposte che emergono non solo in Germania, sarei cauto. E’ importante non creare dubbi sulla capacità e volontà dei Paesi di onorare il loro debito. Anche per non complicare loro la vita quando devono finanziarsi».

Per ora la Bce sta aiutando con i suoi acquisti di titoli pubblici. Non teme che l’Italia sprechi l’occasione di mettersi a posto finché questi interventi durano, e dopo sarà più dura?
«Mario Draghi dice sempre che gli strumenti di politica monetaria non possono risolvere i problemi strutturali nell’economia. Concordo. La politica monetaria può far guadagnare tempo per gli Stati perché facciano le riforme strutturali necessarie. Per questo è importante che i Paesi usino questo tempo saggiamente e mettano in pratica le riforme. Il mandato della Bce è la stabilità dei prezzi. Oggi l’inflazione è molto bassa, ma a un certo punto si vedrà che non sarà più così e lo spazio di manovra della Bce diventerà molto minore. È importante che questo tempo sia usato saggiamente».

2 settembre 2016 (modifica il 2 settembre 2016 | 23:24)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_settembre_02/dombrovskis-l-italia-ora-faccia-riforme-grazie-bce-tempo-c-non-va-sprecato-9d051992-714e-11e6-82b3-437d6c137c18.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Novembre 05, 2016, 11:06:42 am »

DOPO IL VERDETTO DELL’ALTA CORTE
Brexit: Ivo, Gina e il team di avvocati che ha sfidato il Parlamento inglese
Ma i nomi dei «registi» sono segreti
Chi sono i legali che hanno impostato la sfida legale affinché sia il Parlamento a votare l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue

  Di Federico Fubini

Ivo Ilic Gabara ha capito che lui e i suoi potevano vincere quando davanti all’Alta Corte, di colpo, la questione è diventata personale. A inizio ottobre il Procuratore generale dell’Inghilterra e del Galles Jeremy Wright ha aggredito verbalmente Gina Miller, invece di rifarsi alla legge: secondo l’avvocato del governo di Londra, questa manager della finanza etica nata in Guyana stava cercando di sovvertire la volontà del popolo espressa nel referendum sul divorzio dall’Unione europea.
Gli attacchi personali al posto degli argomenti giuridici sono sempre una spia che questi ultimi scarseggiano. Sono tic tipici più di un regime autoritario, che delle battaglie davanti alle parrucche bianche dell’Alta Corte dei Lord. Ivo Gabara, 56 anni, italiano trasferitosi a Londra nel 2008, non li aveva messi in conto quando all’inizio dell’estate con un piccolo gruppo di alleati ha gettato il seme della svolta di ieri. Era il mercoledì dopo il referendum sulla Brexit, 29 giugno. In una saletta di Mishcon de Reya, uno dei grandi studi di avvocati d’affari della City, Miller, Gabara e pochi altri si ritrovano per impostare la sfida legale che ieri avrebbe segnato una prima vittoria.

«Non abbiamo mai cercato di rovesciare l’esito del referendum né di impedire la Brexit», dice Gabara, presidente e proprietario di una società di comunicazione con clienti come i governi del Bangladesh e delle Mauritius o grandi gruppi, da Exxon Mobil a Telia Sonera. «Volevamo ristabilire il principio che nel Regno Unito il Parlamento è la sede della sovranità e non lo si può accantonare in un corto circuito fra un referendum consultivo e l’azione incontrastata del governo. Sarebbe stato uno stravolgimento della Costituzione formatasi in secoli di common law, quasi un colpo di Stato».
Rapidamente Miller, Gabara e una decina di altri, in buona parte soci di Mishcon de Reya, hanno formato un «comitato d’indirizzo» che avrebbe portato al duello di questo autunno nei tribunali. Lo studio legale fondato dallo scomparso Victor Mishcon, figlio di un rabbino polacco che aveva trovato la salvezza a Londra, presto avrebbe pagato per la sua scelta di esporsi: in luglio davanti alle sue finestre hanno iniziato a formarsi proteste e picchetti di fautori più radicali della Brexit. Da allora molti dei nomi dei registi del ricorso sono rimasti gelosamente custoditi nei computer dello studio. Per rappresentare Miller all’Alta Corte Mishcon de Reya ha ingaggiato Lord (David) Pannick, un «Queen’s Council», ossia uno degli avvocati da dibattimento più celebri della nazione. A Gabara tocca il compito di parlare a nome del gruppo e gestire la comunicazione di Miller. Quanto agli altri sostenitori della causa, si sa solo che fra di essi si trovano figure di punta del mondo degli affari e dell’industria. «Non solo soci di Mishcon de Reya — si limita a dire Gabara —.
Ci sono anche clienti dello studio, come la stessa Miller. Non posso aggiungere altro per non dare adito a inesistenti teorie del complotto», aggiunge l’italiano. «Se tirassimo fuori i nomi, saremmo tacciati di essere l’élite di Londra che vuole rovesciare la volontà del popolo».

Questa cortina di segreto rischia di alimentare i sospetti dei fautori della Brexit. A Gabara preme sottolineare il coraggio della donna che ha messo il suo nome sulla battaglia legale: «Nel clima di aggressione seguito al referendum non si è mai tirata indietro». Fare di lei il volto della sfida nelle Corti è stata una decisione presa a fine luglio, dopo il primo dibattimento: allora divenne chiaro che sarebbe bastato avere un unico ricorrente ufficiale. Gabara però sa bene che la vittoria non è ancora assicurata. Da tempo la Corte Suprema aveva riservato il 7 e 8 dicembre per l’appello che sarebbe sicuramente seguito. Ma un primo segnale c’è già, nota l’italiano: «Abbiamo dimostrato che il Regno Unito resta la patria dello Stato di diritto. Non si possono privare milioni di britannici della possibilità di vivere gli anni della pensione in Spagna o di aprire un conto in Germania, senza prima ascoltare il Parlamento». L’Alta Corte in realtà non precisa se la Camera dei Comuni dovrà votare un mandato preciso al governo per i negoziati di secessione dalla Ue, oppure alla premier Theresa May basterà una rapida consultazione. In ogni caso il Parlamento non oserà esprimersi contro la Brexit. «Ma il referendum non ha mai decretato che dovrà esserci la rottura radicale che il governo persegue. Non ha mai dato mandato al premier di portare il Paese fuori dal mercato unico, danneggiando l’industria dell’auto, della farmaceutica e della finanza — nota Gabara —. Ora grazie a noi i moderati tornano in gioco».

3 novembre 2016 (modifica il 3 novembre 2016 | 22:42)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_novembre_04/01-esteri-dxcorriere-web-sezioni-aeb8508e-a207-11e6-9c60-ebb37c98c030.shtml
 
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« Risposta #67 inserito:: Dicembre 17, 2016, 03:07:41 pm »

L’INTERVISTA
Fuest: «Se l’Italia non cresce, valuti l’uscita dall’euro Berlino è preoccupata»
L’economista tedesco: «Il timore è che altri Paesi finiscano per sopportare il costo del debito di Roma. Renzi era considerato una speranza per la modernizzazione»

  Di Federico Fubini

Clemens Fuest, 48 anni
Clemens Fuest, presidente dell’Istituto Ifo di Monaco, non è niente di ciò che si immagina dei tedeschi quando criticano l’Italia. Non è antieuropeo: fa parte con i commissari Ue Frans Timmermans e Pierre Moscovici del «gruppo di alto livello» guidato da Mario Monti, incaricato di ridisegnare parte del bilancio dell’Unione. Né fa parte della generazione nostalgica del marco, perché ha 48 anni. A maggior ragione l’uomo che guida il più influente centro di studi economici in Germania riflette idee ramificate in profondità, e in silenzio, nei palazzi di Berlino.
Il risultato del referendum costituzionale ha cambiato la percezione sull’Italia nell’establishment tedesco?
«Matteo Renzi era considerato una speranza per le riforme. La bocciatura del suo progetto e di lui stesso viene letta come un segnale di resistenza alla riforme e alla modernizzazione. Anche se il contenuto di quella proposta costituzionale non era molto ben compreso in Germania».

Il governo di Paolo Gentiloni probabilmente coincide con l’ultima fase intensa di interventi della Banca centrale europea. Sarà possibile farne a meno?
«Che il governo italiano resti in funzione o meno non dovrebbe dipendere dalle operazioni della Bce. Se la stabilità dell’economia italiana dipendesse da questo, anche se l’inflazione risale, vorrebbe dire che in essa c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Qualcosa da affrontare con strumenti diversi dalla politica monetaria».

Perché lei parla di «fuga di capitali dall’Italia» in riferimento al deficit crescente del Paese in Target 2, il sistema dei pagamenti interbancario dell’area euro?
«A luglio il saldo negativo dell’Italia in Target 2 era di meno di 292 miliardi di euro, ma in ottobre era salito a 355».
È un deficit del 22% del Pil, mentre in Spagna supera il 30% e, correttamente, non ci si preoccupa.

«In Spagna l’aumento è stato da 293 a 313 miliardi».
Eppure sulla Spagna non si parla di «fuga di capitali». Sono effetti degli interventi Bce. In più in Italia i depositi bancari salgono del 3,5%. Come fa a dire cose del genere?
«È un fatto che la liquidità sta lasciando l’Italia, l’aumento dei saldi di Target 2 ne è la prova. I venditori esteri di titoli di Stato italiani alla Banca d’Italia potrebbero comprare altro nel vostro Paese ma non lo fanno. Questa la chiamo una fuga di capitali. Lo stesso accade in Spagna ma a velocità molto minore. Non c’è modo di provare che i timori legati al referendum abbiano determinato queste scelte, ma quali altre spiegazioni esistono?»

Lei dice anche che se l’Italia lasciasse l’euro ci sarebbe un’altra crisi, ma sarebbe sempre meglio di una stagnazione permanente e di «una continua dipendenza dai trasferimenti da altri Paesi». Pensa che l’Italia debba valutare l’uscita dall’euro, se non riesce a crescere?
«Sì. C’è un forte interesse dell’Europa nel suo complesso nel tenere l’Italia nell’euro, ma questo è accettabile per la popolazione italiana solo se il Paese riesce a tornare a livelli soddisfacenti di crescita. L’Italia deve riuscirci attraverso miglioramenti della competitività e riforme. Se poi risulta che l’euro è un ostacolo alla crescita in Italia, sembra preferibile che il Paese lasci l’euro. Certo, è una decisione che deve prendere il governo italiano».

Quanto sono presenti idee del genere negli ambienti di politica economica in Germania oggi?
«Le preoccupazioni per la stabilità dell’euro sono molto presenti e c’è un’opinione diffusa che l’alto livello di debito pubblico e la bassa crescita sollevino interrogativi sul fatto che l’Italia voglia restare nell’area euro. C’è anche la preoccupazione che, se l’Italia avesse bisogno di finanziamenti dall’esterno, altri Paesi dovrebbero sopportare il costo del debito italiano. Come per la Grecia».

Dal 1991, come dal 1998, o dal 2010, il surplus di bilancio italiano prima di pagare gli interessi supera sempre quello della Germania. Non è sbagliata l’idea del Paese-cicala?
«No. Un Paese con un debito al 140% del Pil e crescita cronicamente bassa deve avere surplus molto più alti di un Paese con meno debito».

Perché gli investimenti in Germania sono scesi addirittura del 5% del Pil dal 2008, benché il Paese accumuli risparmi in eccesso per 300 miliardi l’anno?
«Perché si considera più redditizio l’investimento all’estero. Non sorprende, in un Paese che invecchia rapidamente».

16 dicembre 2016 (modifica il 16 dicembre 2016 | 02:40)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_dicembre_16/clemens-fuest-se-l-italia-non-cresce-valuti-l-uscita-dall-euro-berlino-preoccupata-8f8d963a-c32f-11e6-a6a9-813fa40c3688.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 05, 2017, 10:55:48 am »

SCENARIO
La crisi economica dietro lo scontento europeo
Ciò che accade in Germania, Spagna, Gran Bretagna o Usa rappresenta il segnale che nell’attuale contesto tutto è più complesso di come sembra

  Di Federico Fubini

Superata la grande recessione dell’economia, i leader europei potrebbero chiedersi se non siamo entrati in una seconda recessione, più strisciante, dei sistemi politici. Questi fenomeni non sono dissoluzioni di ciò che prosperava fino a poco tempo prima. Una recessione è una reversibilissima fase di arretramento, che è possibile mettere alle spalle declinando in modo nuovo il vecchio consiglio di John Foster Dulles, il segretario di Stato americano degli anni 50: «Non stare fermo, fai qualcosa!».

I sintomi dell’arretramento non sono difficili da leggere quasi ovunque nelle democrazie occidentali. In Germania un centinaio di deputati di estrema destra farà il proprio ingresso in parlamento, quello dalla cupola di cristallo ricostruita dopo le distruzioni della guerra. In Catalogna gli indipendentisti e la polizia si sono contesi il controllo dei cosiddetti seggi di un tentativo di referendum popolare che comunque lascerà ferite brucianti. In Francia ha vinto le elezioni un giovane presidente aperto e ottimista, ma lo ha fatto ottenendo al primo turno il voto di non più di un francese su cinque, sulle macerie dei partiti tradizionali. Dell’Italia, vista dall’estero, ciò che colpisce è che non riesca ancora a darsi una legge elettorale degna di questo nome e non si vedano maggioranze omogenee plausibili; vista dall’estero, la campagna elettorale che sta partendo sembra una sorta di ballo in maschera.

Inutile poi parlare della Brexit, quando in una piovosa domenica di giugno un pugno di voti in una confusa consultazione ha determinato lo status costituzionale di un Paese profondamente diviso, senza possibilità di ripensarci. O della vittoria di Donald Trump, che si è imposto non solo contro la maggioranza degli elettori ma — per la prima volta negli Stati Uniti — contro il suo stesso partito.

Negli ultimi dieci anni l’economia internazionale ha affrontato due infarti, Lehman e la crisi dell’euro, ma anche la politica non si sente tanto bene. Ovviamente per questo malessere esistono molte ragioni che non hanno niente a che fare con quei terremoti finanziari: problemi di identità di fronte al carattere multietnico delle nazioni moderne, terrorismo e molto altro ancora.

Eppure quanto sta accadendo in Germania, Spagna, Gran Bretagna o negli Stati Uniti dovrebbe suonare come il segnale che in un’economia del ventunesimo secolo tutto è più complesso di come sembra. L’idolatria dei numeri semplici, la pagellina macroeconomica che un nuovo ceto di sacerdoti predica ogni giorno, può illudere. Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno prodotto il voto più spiazzante del dopoguerra mentre viaggiavano a piena occupazione (la Repubblica federale con appena un 3,8% di disoccupati). Della Spagna si sono passati gli ultimi anni a spiegare che cresceva di più del 3% perché aveva «fatto le riforme».

L’Italia naturalmente è molto più indietro e di riforme deve farne sul serio tante di più, dunque gioire in segreto dei problemi altrui sarebbe solo patetico. Eppure quei Paesi sembravano risolti e non lo erano. Forse meritavano un’analisi più libera e profonda di quella proposta dalle solite letture di superficie dei dati di un’economia, che rischiano di diventare una forma contemporanea di superstizione. Si guarda appena sotto, e si scopre che la crescita media per abitante in Germania — quella che ogni singolo elettore sente sulla propria pelle — negli ultimi cinque anni è stata dello 0,9% e negli ultimi due anni è stata persino inferiore a quella dell’Italia (il resto della crescita tedesca è venuto dall’aumento della popolazione straniera). Si guarda sotto la superficie, e si nota che le economie di Stati Uniti e Gran Bretagna sono tornate presto ai livelli pre-crisi solo perché gran parte dei nuovi redditi è andata al 10% più ricco degli abitanti. Si guarda appena sotto alla ripresa spagnola e non si scorge solo la continua deflazione dei salari. Si vede anche che la rivolta secessionista catalana affonda le radici direttamente nella crisi dell’euro: in pieno dissesto, rimasto senza fondi, il governo locale di Barcellona nel 2011 ha scelto di fare di quello di Madrid il capro espiatorio delle proprie miserie. In realtà entrambi erano vittime di una crisi europea all’inizio gestita malissimo, imponendo tagli e tasse al momento meno opportuno. In Catalogna, hanno finito per dare vita a una forma peculiare di populismo.

Tutto questo segnala che camminiamo ancora su ghiaccio sottile. A dieci anni dal crac di Lehman, a otto dallo choc della Grecia, il terreno sotto i nostri piedi non si è ancora ricompattato. I numeri semplici sulla disoccupazione o sul tasso generale di crescita non devono ingannare, anche perché in fondo siamo già passati da qua. Anche a metà del 1937, a otto anni dal Grande Crash di Wall Street, l’economia americana era tornata sopra ai livelli del 1929. Gli Stati Uniti attiravano fiumi d’oro dal resto del mondo, un po’ l’equivalente della attuale creazione di moneta da parte delle banche centrali per comprare titoli. La Federal Reserve reagì con una stretta monetaria e il presidente Franklin Roosevelt varò un bilancio di austerità. Nel giro di poche settimane da quel momento, l’America stava vivendo il crollo economico più fulmineo della sua storia: la Grande Depressione non era superata e durò fino al ’39.

Oggi la fragilità dei sistemi e il rischio di recessione sono evidenti soprattutto nella politica. Siamo in ripresa economica, rischiamo ancora una recessione democratica. E anche oggi le grandi banche centrali e i governi pensano di tornare ad assetti meno espansivi. Magari Foster Dulles avrebbe consigliato: «Fai qualcosa, ma fallo con il massimo di intelligenza possibile».

2 ottobre 2017 (modifica il 2 ottobre 2017 | 21:37)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_ottobre_03/crisi-economica-dietro-scontento-europeo-96933c9e-a7a1-11e7-8b29-3c19760df94c.shtml
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