INTERVISTA
"Il Pd è un sogno infranto, ma ora sono me stesso".
La Sinistra secondo Pier Luigi Bersani
L’addio
alla 'Ditta'. Il rapporto con Renzi 'burattinaio'.
La famiglia. Il futuro politico. Parla l’ex segretario del Partito Democratico a tre mesi dallo strappo e dalla fondazione, con Massimo D'Alema, del movimento Articolo 1 – Mdp
DI STEFANIA ROSSINI
05 giugno 2017
Invitare Pier Luigi Bersani a parlare di emozioni è insieme semplice e impegnativo. Semplice perché l’uomo è disponibile a rivelare debolezze e cedimenti. Impegnativo perché ogni suo sentimento è incarnato nella politica, radicato in una storia collettiva e proiettato in una visione personale e irriducibile del mondo. A tre mesi dallo strappo definitivo che lo ha portato fuori dal Pd, partito che amava chiamare “ditta” tanto lo sentiva suo, fondatore con Massimo D’Alema e altri di un movimento (Articolo1-Mdp) non ancora sottoposto all’esame di realtà, alle prese con uno scenario politico in movimento, Bersani si mostra convinto della sua scelta e del consenso che potrà riscuotere.
Lo ammetta, Bersani, le manca il Pd.
«Eccome se mi manca! È il sogno infranto di un grande partito di centrosinistra. Ma almeno ora mi sento me stesso, libero di dire quello che penso».
Diceva: “Mi porteranno via con l’esercito”.
«Lo dicevo quando mi sentivo ancora a casa, ma ormai di quella casa erano caduti i muri portanti. Quando vedi che si imbarcano parole d’ordine della destra, che in una situazione sociale come la nostra si racconta al Paese che è arrivato il bel tempo, che persino dopo una sconfitta come quella del referendum, si ribadisce un’idea di comando solipsistico, allora ti scatta il mollone».
Che cosa scatta?
«Glielo spiego con un pensiero di Abramo Lincoln in cui mi sono imbattuto quando avevo 15 anni: “Così come non accetterò mai di essere servo, non acconsentirò mai a essere padrone. Questa è la mia idea di libertà”. Non ho mai fatto il padrone quando è toccato a me dirigere, non faccio il servo quando tocca ad altri».
Ha visto molti servi in giro?
«Ho visto cose che noi umani... Purtroppo il conformismo è dilagato soprattutto nella nuova generazione. Forse perché è meno temprata di noi vecchi, non spera più che il mondo possa cambiare e ha della politica un’idea di galleggiamento. Ma c’è un limite a tutto. Quando si è trattato di eleggere il presidente della Repubblica e vedevo tutti quei giovani che correvano al telefonino ad aspettare sms, a sbirciare Facebook, ho gridato: “Basta! Siete dei deputati, accidenti!”».
La maggioranza di quei giovani in Parlamento ce li ha portati lei.
«È vero, puntavo sulla freschezza e ho sottovalutato la mancanza di formazione. Del resto non mi metto a contare gli autogol che mi sono fatto!».
Gliene propongo uno. Perché nel 2012 concesse a Matteo Renzi le primarie che chiedeva soltanto lui?
«Perché altrimenti si sarebbe spaccato il Pd. Ne approfitto per raccontare una cosa che non ho mai detto. Ho fatto quella scelta, sulla quale erano quasi tutti contrari, motivandola con la generosità, con la voglia di sfidare Renzi sul campo. Tutto vero, ma c’era anche dell’altro».
Che altro?
«La sensazione che uno come Renzi avrebbe strappato la tessera, organizzato il seguito che già aveva, raccolto le firme e partecipato ugualmente alle primarie, dato che il nostro statuto lo permetteva. Allora sì che il Pd sarebbe finito. Io quella volta l’ho salvato».
E adesso si torna a votare, con una legge elettorale nuova. Che ne pensa?
«Puro avventurismo del potere. Se davvero succederà, arriverà qualche sorpresa dal Paese. Renzi ha la sindrome del burattinaio, ma gli elettori non hanno i fili sulla testa».
Sul vostro movimento i sondaggi non sembrano ottimisti.
«Se cent’anni fa avessero fatto un sondaggio sulla tavola degli elementi, avrebbero trovato il 66 per cento di tungsteno, il 32 di cadmio, il 20 di berillio e appena il 3 per cento di uranio. Ma la bomba atomica è stata fatta con l’uranio. I sondaggi non leggono la dinamica».
Da ragazzo lei aveva fondato una sezione di Avanguardia operaia, gruppo extraparlamentare a sinistra del Pci, oggi è di nuovo in un gruppo dissidente. Un lungo giro per ritornare al punto di partenza?
«Perché no? Si può anche ricominciare. Non vorrei però che mi fosse attribuito un gusto minoritario. A me piace il governo delle cose e credo di averlo dimostrato più volte come ministro. Ma oggi è necessario impedire che si finisca in braccio a una destra regressiva o a una demagogia inconcludente. Dopo di che le cose possono andare bene o male».
E se vanno male?
«Io ho in testa l’ultimo fotogramma di “Edipo re” di Pasolini con la frase “La vita finisce dove comincia”. Lui la intendeva in senso freudiano, ma se uno mette in conto che la vita politica finisce sempre con un dispiacere, anche a novant’anni, l’unico scampo è quello di essere fedele agli ideali della gioventù».
Pier Luigi Bersani: dai banchi di scuola all'addio al Pd
È aver sfiorato quel dispiacere che l’ha fatta ammalare, a pochi mesi dal suo fallimento nel costruire una maggioranza di governo?
«Molti l’hanno pensato, e invece il coccolone mi è venuto in un momento in cui stavo bene, sentivo di aver fatto tutto il possibile e avevo passato la merce a Enrico Letta. Questi malanni possono venire anche quando vai a comprare il giornale».
Ha avuto molta paura?
«Sentivo che era una faccenda seria, ma in quei momenti le cose sono più semplici di quel che si crede. Un po’ perché l’unica cosa che vuoi è che ti passi il dolore, un po’ perché ti senti protagonista di un fatto eccezionale e scatta il senso di te. Io ci ho aggiunto la deformazione professionale. Sull’ambulanza che mi portava da Piacenza a Parma, pensavo: “Se ci lascio le penne faccio pure la figura del pirla, perché sono stato io a decidere che il polo di neurochirurgia fosse a Parma e a Piacenza solo il pronto soccorso”».
Davvero non ha temuto di morire?
«Con la morte ho una certa confidenza. Ho letto tutto quel che se ne è scritto e, una volta, quando ero assessore regionale, ho anche tentato di farne il tema di un convegno, “La morte e il morire dal corteggiamento all’umanizzazione”: Cesare Musatti, Cesare Zavattini e Tonino Guerra avrebbero risposto alle domande del pubblico».
Perché non l’ha fatto?
«La giunta me l’ha bocciato. Tutta gente brava e sveglia, intendiamoci, ma con l’idea radicata dell’Emilia gaudente. E io, che avevo solo 28 anni, li volevo far pensare alla morte!».
Bersani, sbaglio a dire che lei è un sentimentale? L’abbiamo visto piangere in pubblico più di una volta.
«Eh sì, non ho difficoltà ad ammettere che mi commuovo spesso, anche per cose di consumo».
Al cinema, immagino.
«Di più ascoltando musica, specialmente le canzoni di Vasco, come “Stupendo”, dove c’è tutta la delusione della generazione del Sessantotto. Ma mi commuovo anche quando Tarantino in “Kill Bill”, dopo cinque ore di film fantastico, ci svela che la storia era semplicemente quella di una madre che voleva ritrovare sua figlia. Poi capita che Vespa mi faccia rivedere in tv, senza preavviso, i miei genitori morti da tempo. Come si può non piangere?».
Che rapporto ha avuto con loro?
«Conflittuale e di stima profonda. La mia era una famiglia rigorosa, cattolica che mi ha dato l’impronta dell’onestà, ma che non capiva la mia scelta politica. Fu l’Ulivo, con l’incontro pubblico tra comunisti e cattolici, a riconciliarci».
Invece lei che padre è stato?
«Purtroppo sempre lontano. Ho tenuto testardamente la famiglia ferma e ho fatto il pendolare. Dicono che quello che importa non è la quantità, ma la qualità del tempo. Balle! Ho due bravissime figlie, ma resta la sensazione di aver perso qualcosa».
Però, nonostante il pendolarismo, il suo matrimonio dura da decenni.
«Forse proprio grazie al pendolarismo. Andare, tornare, ritrovare sempre tua moglie e casa tua. E poi aiuta anche il paese, il sistema di reti corte, dove conosci tutti, dove se parli di un macellaio ti viene in mente la stessa persona».
Lo stesso macellaio... Andiamo verso una delle sue metafore?
«No, quelle sono più complesse. E sono vere, non ne ho mai inventata una. Vengono tutte dal popolo, si levigano nella sua saggezza. Le ascolto al bar, al supermercato, tra la gente, perché a me la gente piace davvero. Sa qual è la cosa che mi diverte di più?».
Sentiamo.
«Fare il popolare, sparare metafore sempliciotte e poi quando arriva il professore, il cardinale, l’imprenditore che ti guardano dall’alto, stupirli con qualche citazione in latino. Fargli sospettare che non sono né incolto né rozzo».
Non la lascio senza tornare un momento alla politica. La sinistra nel mondo appare ormai disarmata. Abbiamo Trump, May, Macron, nel nostro piccolo, Renzi. Che ne sarà di quella grande idea?
«La sinistra è un fiore di campo. Prima o poi passa qualcuno e la prende. È un’idea ineliminabile di comune dignità, come è ineliminabile l’idea di destra, basata sulla gerarchia. Bisogna solo stare attenti che quel fiore vada nel mazzo giusto».
© Riproduzione riservata 05 giugno 2017
Da -
http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/06/05/news/la-sinistra-e-un-fiore-di-campo-1.303179?ref=RHRR-BE