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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 107538 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Agosto 14, 2013, 11:15:43 pm »


Commenti&Inchieste Italia

L'unico percorso possibile

di Stefano Folli
14 agosto 2013


Fin dall'inizio era chiaro che la grazia presidenziale non ci sarebbe stata. Nell'idea di certi personaggi vicini a Berlusconi, doveva essere una specie di sconfessione della magistratura da parte del Quirinale. Ma il solo chiederlo era del tutto insensato e infatti nessuno ha avuto questo coraggio, al di là dei furori mediatici. Le sentenze divenute definitive si applicano, dice Giorgio Napolitano. Magari si dissente da quello che la Cassazione ha deciso e anche questo è legittimo; e tuttavia non si butta all'aria il Governo, non si fa pagare al Paese un prezzo inaccettabile. Si accetta il verdetto con rispetto e senso delle istituzioni.

Il presidente della Repubblica è molto chiaro nella sua nota: la più attesa, la più politica, quella da cui può dipendere il futuro di una legislatura cominciata da pochi mesi.

Ma egli non si limita a sottolineare che Berlusconi oggi può solo scontare la sua pena, sentendosi emarginato dalla dialettica democratica. In realtà il capo dello Stato risponde alla domanda di fondo che è arrivata dal Pdl: come consentire a Berlusconi un certo grado di "agibilità politica", espressione oscura che significa permettere al leader di restare in qualche forma nell'agone politico. Qui la risposta di Napolitano, che si è trovato a interpretare in solitudine quasi un quarto grado di giudizio, è complessa nella forma, ma molto esplicita nella sostanza.

Si riconosce a Berlusconi di essere stato un protagonista innegabile della scena nazionale e di essere ancora il capo incontrastato di una forza "importante", tanto importante che da essa discende la stabilità del Governo. Quindi il leader del Pdl ha nelle mani un grande responsabilità, al di là dei casi che riguardano la sua persona: egli resterà alla guida del suo partito nelle forme che saranno possibili e opportune. Continuerà a svolgere un ruolo politico, ma commetterebbe un errore imperdonabile se distruggesse l'equilibrio attuale, quello che si riassume nel Governo Letta e che egli stesso ha contribuito a costruire.

Non solo. Fra le righe il presidente sembra suggerire a Berlusconi di accettare l'affidamento ai servizi sociali. Per meglio dire, gli suggerisce di avere fiducia e di avviarsi lungo un percorso virtuoso di riabilitazione per il periodo, circa un anno, in cui dovrà scontare la pena. È l'opposto esatto della linea, pressoché eversiva, di chi ha consigliato all'ex premier condannato di correre l'avventura delle elezioni anticipate. Eppure la storia di Berlusconi è fatta di mosse d'azzardo, ma anche di gesti di forte realismo. Tutto lascia pensare che stavolta, giunto al momento più difficile della sua vita pubblica, egli sceglierà ancora una volta il realismo. Del resto, la nota solenne di Napolitano è il frutto di un lavoro preparatorio e non è certo destinata a cadere nel vuoto delle polemiche. Serve a chiudere la vicenda, per quanto è possibile, salvando il Governo e l'assetto delle larghe intese faticosamente messo in piedi. Non è un caso se il punto politico - la preoccupazione per la sorte del Governo - apre e chiude la nota scritta di suo pugno dal capo dello Stato.

Quanto a Berlusconi, egli può persino vedere la luce in fondo al suo personale tunnel. Non quella che avrebbe desiderato in base a una bizzarra concezione dello Stato di diritto e dei poteri del Quirinale. Ma la luce di un sentiero che potrebbe portarlo in futuro anche alla grazia. Purché, sia chiaro, si seguano tutte le procedure, si lasci al presidente il compito costituzionale di valutare e soprattutto, nel frattempo, si proceda con l'espiazione della pena. Poi, se le circostanze saranno propizie e soprattutto se nessuno avrà scassato l'equilibrio politico per vendetta o ritorsione, si vedrà. Senza alcuna forzatura istituzionale. Questo significa che il leader del Pdl è in grado di costruirsi la propria "agibilità politica". Immediata per quanto riguarda il destino del Pdl o di Forza Italia, come di nuovo si chiamerà: formazioni di cui egli continuerà a essere il capo. Ma c'è un'agibilità più sostanziale, più idonea a un uomo che è stato per tanti anni presidente del Consiglio di questo Paese: ed è quella che discende dal pagare per i propri errori accettando il verdetto della magistratura, garantendo al tempo stesso la necessaria stabilità.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-08-14/lunico-percorso-possibile-063619.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Settembre 17, 2013, 11:10:54 pm »

Come Papa Francesco colma il vuoto della politica.

Il Punto di Folli


E' impressionante come in queste settimane, mentre la politica italiana è ridotta all'ossessivo braccio di ferro intorno a Berlusconi, le sue condanne e la sua uscita dal Parlamento, quasi tutti gli altri spazi siano stati occupati dal Papa Francesco e dalle sue iniziative.

La nostra politica rotola in un tunnel sempre più cieco, la politica del pontefice allarga i suoi orizzonti e conquista le prime pagine dei giornali del mondo. Non è solo un fatto mediatico, ma di sostanza.

La posizione sulla Siria, sugli immigrati, i cambiamenti al vertice della Chiesa e infine la lettera a Eugenio Scalfari che tende a impostare in modo nuovo il rapporto con il mondo laico, tra fede e ragione.

In modo sempre più deciso il nuovo Papa occupa nelle coscienze il vuoto lasciato da una politica fallita. Con un rispetto speciale, ed è la novità, verso la posizione dei laici. Non è più un'ingerenza, è una semplice sostituzione. Una presa di possesso degli edifici sguarniti. Le conseguenze a lungo termine saranno profonde.

da - http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/punto/2013-09-13/come-papa-francesco-colma-155404.php?idpuntata=gSLAYOZOV&date=2013-09-13
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« Risposta #137 inserito:: Settembre 20, 2013, 04:52:00 pm »

Berlusconi: l'epilogo più tormentato

di Stefano Folli
18 settembre 2013


La domanda che correva ieri sera nei giornali e nei palazzi politici era quasi ovvia: quanto influirà l'ultimo atto della questione Mondadori sulle mosse di Berlusconi? Quanto peseranno quei 494 milioni su un uomo già molto stressato? La risposta è: in termini politici assai poco.

È difficile immaginare che il super-indennizzo a Carlo De Benedetti possa modificare la decisione sofferta e obbligata di non aprire la crisi. Vorrebbe dire che Berlusconi ha ancora la possibilità di fare delle scelte e di rovesciare il tavolo. In passato accadeva, certo, ma allora il capo della destra era nella sua età dell'oro. Oggi è un uomo provato e schiacciato dalle avversità che scandiscono il suo tramonto. Se alla caduta del governo preferisce un discorso su nastro registrato non è per generosità, ma per il buon motivo che non può fare altro. Mostrare senso di responsabilità o addirittura senso delle istituzioni è l'unica carta seria che gli resta da giocare. Guai a sprecarla per compiacere gli stati d'animo in ebollizione.

Peraltro è abbastanza evidente. Rancore, rabbia, frustrazione sono i sentimenti tutt'altro che mascherati che si agitano nel suo animo.
Ma la faccenda Mondadori può esasperarlo solo sul piano psicologico. È irrealistico che Berlusconi, giunto all'ultimo passaggio della sua storia parlamentare, possa fare altro che aggiungere un paragrafo al discorso registrato. Sarà un'occasione in più per attaccare la magistratura e presentarsi come vittima designata di una supposta persecuzione che si accanisce contro di lui anche per mezzo di una tenace e peculiare tempistica. Quasi una tenaglia.

La verità è che il leader del centrodestra è ormai consapevole che il suo futuro è fuori del Parlamento. L'epilogo è già scritto e ci si arriverà in un modo o nell'altro entro due, tre settimane. Attraverso una serie di traumi e di colpi all'"ego" berlusconiano, i primi dei quali arriveranno già domani sera con il voto della Giunta di Palazzo Madama. Un voto il cui esito sembra talmente scontato da non suscitare alcuna "suspence".
La vera questione quindi è un'altra: Berlusconi accetterà questa lunga e definitiva mortificazione - a meno di colpi di scena davvero poco prevedibili - o preferirà tagliar corto e dimettersi dal Senato prima di subire il voto finale dell'aula?

Il buonsenso suggerisce dimissioni anticipate e poi via con i nove mesi ai servizi sociali o in alternativa agli arresti domiciliari.
Per il resto sentiremo cosa dirà nell'arringa televisiva. Non dovrebbe essere un testamento politico, cosa di cui l'uomo non sente il bisogno. Semmai sarà un tentativo di rilancio al di fuori del Parlamento: una promessa ai suoi che un nuovo '94 è ancora possibile. Non è vero, naturalmente. Il tempo è passato in modo inesorabile e ricominciare oggi daccapo, con una nuova Forza Italia, rischia di essere un'impresa temeraria.
D'altra parte oggi la forza di Berlusconi è ancora in grado di destabilizzare qualsiasi scenario politico. Almeno sulla carta.
Ma abbiamo detto che l'uomo non ha tale convenienza, anche per non rischiare di essere smentito da una fetta dei suoi seguaci.

Ci sarà l'appoggio al governo Letta, ma sarà avaro e ambiguo, carico di rabbia repressa a fatica. Nella prima Repubblica si parlava di «governo amico» quando un partito sosteneva l'esecutivo ma da lontano, senza impegnarsi più di tanto. Forse accadrà lo stesso. Un «governo amico», quello di Enrico Letta. E mai espressione è apparsa intrisa di così sottile ipocrisia. Spetterà al premier riuscire ad allargare un sentiero che si è fatto stretto e infido.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-18/lepilogo-tormentato-064357.shtml?uuid=AbLEuvXI
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« Risposta #138 inserito:: Settembre 29, 2013, 11:10:03 am »

L'errore di Berlusconi e l'urgenza di ripartire dal Parlamento

di Stefano Folli
29 settembre 2013


L'errore di Berlusconi e l'urgenza di ripartire dal Parlamento

Ora che il filo si è spezzato, non serve farsi prendere dal panico. Che la situazione sia pessima è evidente a tutti e non da oggi. Per questo chi ha un po' di buonsenso ha il dovere di metterlo sul tavolo.

Il pericolo incombente è che la crisi di governo sia solo il segmento di un dramma più profondo che investe il quadro istituzionale e lo sconvolge. Non a caso il Quirinale era da giorni sotto attacco da parte del centrodestra. L'accusa rivolta a Napolitano, in modo più o meno subdolo, è di non aver voluto salvare Berlusconi dalle forche caudine giudiziarie. Il che tradisce una visione deformata dei rapporti costituzionali, ma al tempo stesso espone il capo dello Stato a una guerriglia assai insidiosa.

Sono pochi gli italiani, anche fra i seguaci del Pdl, che credono ciecamente alla tesi di una crisi aperta per protestare contro il blocco del decreto sull'Iva. Tutti sanno bene che l'Iva in questo caso vale molto meno della pistola di Sarajevo da cui ebbe origine la prima guerra mondiale. La vera causa è la questione della decadenza dal Senato, l'impossibilità per Berlusconi di accettare le norme della legge Severino (peraltro votata da tutti i parlamentari del Pdl, gli stessi che oggi fingono di dimettersi per protesta contro quelle norme), la volontà di proseguire in ogni modo la guerra contro i magistrati, quali che siano i danni che ne derivano.

C'è in questo modo schizofrenico di procedere, ormai privo di razionalità, una spinta auto-distruttiva. Un uomo che sente di essere giunto al termine della sua parabola pubblica, si ribella alla realtà e alla perdita del vecchio smalto. E tenta di cancellare tutto (gli ostacoli, le sconfitte patite, il tempo trascorso) con un gran colpo di dadi. In passato il gioco gli riuscì - si pensi alla Bicamerale buttata all'aria nel 1998 - ma adesso la mossa risulta incomprensibile, per un verso, e parecchio auto-lesionista, dall'altro. Un errore che potrebbe segnare l'epilogo ventennale di Forza Italia nelle sue varie incarnazioni.

A meno di un repentino cambio di rotta, con i ministri che ritirano le dimissioni (e niente ieri sera lo lasciava presagire), Berlusconi porterà il suo partito all'opposizione, con tutti i rischi connessi. A lui convengono le elezioni, da giocare a questo punto su una piattaforma massimalista e populista. Ma nessuno crede che Napolitano gliele concederà come se si trattasse di un bicchier d'acqua. Più facile immaginare un governo "del presidente" per fare due o tre cose prima del voto (la legge di stabilità, in primo luogo, ma anche uno sforzo in vista della riforma elettorale). Quale sarà allora il vantaggio di Berlusconi? Si ritroverà isolato e privo delle leve di governo e potrebbe finire per rimpiangere le larghe intese di cui era uno dei maggiori azionisti, certo il più capace di farsi valere.

D'altra parte, le mosse di Enrico Letta sono obbligate dalle circostanze. In primo luogo la crisi va portata in Parlamento. Proprio perché non si tratta di una crisi tradizionale, ma c'è in essa un elemento torbido e devastante in grado di minacciare l'assetto istituzionale, è opportuno che lo psicodramma si compia lì dove lo sfortunato governo di "grande coalizione" aveva avuto origine pochi mesi fa fra Camera e Senato. Sarà in quelle aule che Letta dovrà spiegare in modo molto chiaro, rivolgendosi agli italiani e anche agli europei, quale grave responsabilità si assume chi apre questa finestra sull'ignoto. Magari dirà anche se era proprio necessario - pur in presenza di uno smottamento del quadro politico - bloccare il decreto sull'Iva. Qualcuno pensa che non sia stata una mossa felice, se non altro per l'occasione offerta a Berlusconi.

In ogni caso, bisogna ripartire dal Parlamento. Proprio perché si coglie il sottinteso istituzionale di questa brutta vicenda, sarà opportuno tessere il nuovo filo partendo dall'istituzione parlamentare. Per la formula politica si vedrà. Ma fin da ora vien da chiedersi se esiste davvero la famosa ala moderata e dialogante del Pdl. Se non sono un'invenzione, questo è il momento in cui le fatidiche colombe dovrebbero prendere il volo.


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da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-29/lerrore-berlusconi-urgenza-ripartire-091703.shtml
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« Risposta #139 inserito:: Ottobre 28, 2013, 10:37:02 am »

Renzi, Sulla giustizia rotto il tabù della sinistra (di S.Folli)

Analisi di Stefano Folli, con un articolo da Firenze di Emilia Patta
27 ottobre 2013

La novità più interessante uscita dalla Leopolda non riguarda la legge elettorale, bensì la proposta di affrontare la riforma della giustizia. Qui Renzi ha davvero infranto un tabù della sinistra. Ufficialmente il tema non è mai stato affrontato perché dall'altra parte c'era Berlusconi, con il quale – in base al generale convincimento – non si voleva e non si poteva affrontare il tema nemmeno alla lontana.

In realtà l'impressione è sempre stata un'altra: la questione giustizia è rimasta fuori dall'agenda dei vari governi di centrosinistra perché la corporazione dei magistrati è sempre stata più forte delle volontà politiche. Oggi invece Renzi, cioè il prossimo, anzi imminente segretario del Pd, spezza l'incantesimo. E promettendo che la riforma della giustizia sarà prioritaria egli rende un omaggio indiretto anche al presidente della Repubblica che ha sempre propugnato tale riforma, anche a costo di attirarsi gli strali degli ambienti cosiddetti "giustizialisti".

Non solo. Rompendo il tabù, Renzi getta un ponte verso il centrodestra, sia nella versione Alfano sia in quella berlusconian-oltranzista. Infatti non sembra realistico che una riforma di questa portata, se mai sarà definita, possa essere approvata da una sola parte politica. Fra l'altro, non ci sarebbero i numeri, almeno nell'attuale Parlamento. Vedremo comunque se adesso il giovane sindaco di Firenze saprà tener testa all'offensiva di cui sarà il bersaglio. Se resterà impavido a prendersi le contumelie del partito anti-riforma, egli avrà fatto un passo avanti rilevante. E quel che più conta, lo avrà fatto fare alla coscienza di sé di cui il centrosinistra deve dar prova.

La frase "a effetto" più efficace è forse quella in cui Renzi ha attaccato il conservatorismo: «Una sinistra che non cambia mai diventa una destra». Semplice ma convincente per suggerire maggiore coraggio e un po' di voglia di rischiare.

Del resto, sembra proprio che il sindaco abbia capito che le elezioni non sono dietro l'angolo. Berlusconi farà quello che vuole con il suo "giocattolo", cioè la nuova Forza Italia, ma è chiaro che in Parlamento esiste una corrente governativa del Pdl in grado di sostenere il governo Letta e ben determinato a farlo. Renzi perciò deve cambiare qualcosa nella sua strategia se non vuole passare lui per l'affondatore dell'esecutivo.

E un conto è non amare le "larghe intese", come il fiorentino ripete a ogni pié sospinto, e un altro è affossare subito gli assetti politici per far correre al paese un'avventura elettorale. Forse Renzi ha capito che in un primo tempo la sua missione consiste nel ricostruire il centrosinistra, nel dargli una rotta e una visione, e solo in un secondo tempo guidarlo nello scontro elettorale.

Che ci sia tanto da fare lo dimostra anche l'intervento di Epifani, riflesso di un'idea troppo timida e difensiva del centrosinistra. Quella di Renzi è all'opposto un'idea fin troppo temeraria, ma oggi serve anche questo, oltre a una certa dose di ottimismo. Adesso però tocca a lui, a Renzi, dimostrare qualcosa. Cioè di essere capace di rinnovare il gruppo dirigente del partito, per non presentarsi sempre e in ogni caso come l'"uomo solo al comando". C'è tanto da fare e Renzi dovrà cominciare subito.

Resta il punto della legge elettorale. La richiesta di un maggioritario che permetta di individuare subito una maggioranza sicura e stabile è sacrosanta. Ma anche qui bisogna essere realisti. Per il doppio turno francese non esiste una maggioranza in Parlamento, nemmeno con l'apporto dei "ministeriali" del centrodestra (in questo caso Alfano e gli altri non hanno interesse a sostenere una legge che li schiaccerebbe, togliendo loro il ruolo). Sulla carta è vero che il modello dei comuni, quello che elegge i sindaci, ha dimostrato di funzionare, ma la realtà nazionale è un'altra, resa vischiosa dalle mille paure dei parlamentari e dalla logica dei palazzi romani. L'ideale sarebbe legare la riforma in senso maggioritario alla più generale riforma delle istituzioni. Ma i tempi sono sfalsati. L'imminente pronuncia della Consulta obbliga le Camere a intervenire ed è vero che oggi i proporzionalisti appaiono più agguerriti. Renzi dovrà affrontare questo difficile passaggio riuscendo a coniugare le sue opinioni con la complessità del quadro politico. Questo fa un leader politico, a meno che non voglia solo affermare "un principio identitario", come ha scritto Panebianco sul Corriere per inquadrare la battaglia pro-maggioritario del sindaco. Non si tratta di ammainare quella bandiera, ma di conciliarla oggi con i dati della realtà. Proprio per non perdere la guerra.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-10-27/sulla-giustizia-rotto-tabu-sinistra-174855.shtml?uuid=ABd4egZ
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« Risposta #140 inserito:: Gennaio 08, 2014, 10:28:50 pm »

Il rischio dei vecchi rituali

di Stefano Folli
8 gennaio 2014

Non sarebbe giusto far torto all'intelligenza politica di Renzi accreditando l'idea che egli voglia correre alle urne in modo frettoloso e disordinato. Il neosegretario del Pd è irruento e persino spregiudicato, ma finora ha sempre dimostrato un istinto sicuro nelle scelte di fondo. Gli piace coltivare la sua immagine che non è quella del «grigio burocrate», come ripete spesso. Adora scuotere l'albero della vecchia politica e raccogliere consensi come l'uomo nuovo che in effetti egli è.

Tuttavia ci sono i sogni e c'è la realtà. Per meglio dire, ci sono le parole e i fatti. Le prime riguardano la propaganda, o se si vuole la costruzione di un'originale identità (si spera non solo televisiva) per il Pd rinnovato.
Opera faticosa e non istantanea, il cui risultato ultimo è tutt'altro che scontato. I secondi, i fatti, toccano l'agire quotidiano, le scelte concrete e in definitiva il rapporto con il governo Letta. Che tale rapporto sia intriso di ambiguità, lo hanno capito tutti da un pezzo. Ma che Renzi pensi sul serio di sbarazzarsene da un giorno all'altro, magari con l'aiuto di Berlusconi e Grillo, è un'approssimazione che viaggia sul web e su qualche foglio cartaceo, priva però di credibilità. Certo, la situazione potrebbe sempre sfuggire di mano e dar luogo a un corto circuito istituzionale.

Ma sarebbe, appunto, un esito involontario anziché l'obiettivo di una lucida strategia.

S'intende che la partita fra i due, Letta e Renzi, è appena agli inizi, mentre la tensione è destinata a crescere. Il fatto che il sindaco di Firenze sia nella sostanza più prudente di quanto appaia ai suoi sostenitori, non deve tranquillizzare il presidente del Consiglio: anzi, dovrebbe semmai stimolarlo ad accelerare il profilo riformatore del governo.

Ora si attende che entro dieci giorni il «patto di coalizione» sia al centro di incontri fra i capi della maggioranza. Ma è senza dubbio un errore ripetere lo schema dei vecchi «vertici» stile Prima Repubblica. Se si vuole «ingabbiare» Renzi intorno a un tavolo, per trasmettere l'idea che si tratta di un partner come gli altri, al pari di Alfano e del segretario di Scelta Civica, si rischia di ottenere l'effetto opposto. Il sindaco di Firenze è abbastanza astuto da sottrarsi in fretta a queste trappole e peraltro egli è portatore di una novità politica che non può essere mortificata in uno stanco rituale. Sarebbe un atto di autolesionismo da parte dell'intera classe politica.

In ogni caso la mossa di Enrico Letta, volta ad aprire senza altre esitazioni la trattativa sul governo, sembra più che opportuna. Ma a condizione di trasmettere all'opinione pubblica il senso di un effettivo dinamismo.
Proprio per questo la riscrittura del patto di maggioranza non può assomigliare a una riedizione delle «verifiche» che un tempo scandivano, più che il rilancio, il declino delle coalizioni.

Il pericolo maggiore è che alla fine non emerga né un nuovo patto di medio termine né un'esplicita rottura, preliminare alle elezioni anticipate. Sarebbe la soluzione peggiore, capace di produrre solo un crescente logoramento: sia del governo sia dell'innovatore Renzi. Soprattutto se la matassa della riforma elettorale tornasse ad ingarbugliarsi. Perchè non basta certo l'asse preferenziale fra Renzi e Berlusconi per delineare un modello in grado di fotografare la complessità del quadro italiano.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-01-08/il-rischio-vecchi-rituali-082436.shtml?uuid=ABVLcHo
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« Risposta #141 inserito:: Febbraio 01, 2014, 10:47:20 am »

Le istituzioni come poker

di Stefano Folli
31 gennaio 2014

I grandi leader populisti adorano la solitudine, essere unici contro tutti gli altri. A maggior ragione quelli che disprezzano le istituzioni nelle quali, per una contingenza storica, si sono trovati a operare. O quelli che ignorano il significato del termine mediazione.

Per anni in Francia Jean-Marie Le Pen, nostalgico di Vichy e nemico della Repubblica gollista, usò il proprio isolamento come straordinaria arma politica, al pari del suo mentore Poujade.

Più gli altri erano coalizzati contro di lui, più il messaggio del suo Fronte Nazionale arrivava nitido ai militanti e agli elettori. Di solito questo non bastava per andare oltre una certa soglia (fino a quasi il 18 per cento nel secondo turno dell'elezione presidenziale del 2002), ma era più che sufficiente per garantire a un abile politicante un ruolo pubblico di primo piano. Ovviamente Le Pen non si sognò mai di mettere sotto accusa il presidente della Repubblica, che a Parigi è anche il capo dell'esecutivo. Un conto era la polemica politica feroce, un altro il sostanziale rispetto per le istituzioni.

Beppe Grillo invece ha scalato di corsa tutti i gradini di un conflitto senza respiro in cui la politica e le istituzioni si miscelano senza una logica che non sia l'affermazione perentoria, brutale, di una supposta diversità integrale dei parlamentari Cinque Stelle e del loro leader indiscusso. Si dirà che non è la prima volta che le aule parlamentari sono teatro di scontri violenti, anche fisici, tra le fazioni. Lo stesso Quirinale in passato è stato tirato nell'arena, basti pensare al caso Leone negli anni Settanta. Ma era un'altra Italia e un altro mondo. Oggi il Parlamento è svuotato e immiserito, la politica è debole, la stabilità è una pianta preziosa che richiede molte cure e la presidenza della Repubblica costituisce il baricentro di un equilibrio e di un sistema di garanzie al momento irrinunciabili.

Ovviamente Grillo non è Le Pen (padre o figlia) e non è nemmeno Poujade, i quali si sono mossi nel solco di una certa idea della Francia. La cultura dei Cinque Stelle è l'eterno presente del "web" e il loro modo di stare nelle istituzioni riflette la violenza dei "blog". Per loro fare ostruzionismo alla Camera e mettere sotto accusa Napolitano sono iniziative intercambiabili, due facce della stessa medaglia. Non credono nelle istituzioni di cui pure sono parte, non concepiscono il compromesso, il passo indietro. L'isolamento è la loro fede e quando si è soli bisogna puntare sempre verso l'alto perchè ogni incertezza è una sconfitta.

La domanda é: ora che Grillo ha aperto il fuoco contro il capo dello Stato, pur senza alcuna prospettiva di vedere approvato l'"impeachment" dal Parlamento, cos'altro può fare? Ha usato l'arma letale, ma quello che ottiene è solo una grande copertura di stampa. Dopodiché il salto in alto diventa salto nel vuoto.

In ogni caso si capisce quale sia la logica. L'accordo sulla riforma elettorale ha spaventato Grillo, gli ha fatto capire che il suo spazio potrebbe rapidamente restringersi. Renzi punta a inglobare almeno una parte dei consensi "stellati" e il leader populista se ne preoccupa. Nel suo schema il Pd e Forza Italia possono e anzi devono accordarsi (il famoso "PdmenoElle"), ma a patto che non escano mai dall'immobilismo. La sola ipotesi che le riforme facciano un passo avanti lo mette in allarme. Così ha dato fuoco alle polveri. Caos in Parlamento (aiutato dagli errori della maggioranza e della presidenza di Montecitorio), attacco frontale al Quirinale. La scelta del momento è cinica, connessa alle novità sul fronte riformatore. E all'apertura della campagna per il voto europeo.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-01-31/le-istituzioni-come-poker-064349.shtml?uuid=ABlj6Ut
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« Risposta #142 inserito:: Febbraio 14, 2014, 06:33:17 pm »

L'ultimo atto di Letta è uno schiaffo a Renzi

di Stefano Folli
13 febbraio 2014

Se Enrico Letta ha voluto rivendicare la propria dignità e difendere la bontà del lavoro svolto, non si può che rispettare la sua scelta. Se ha voluto far capire quanto si senta tradito da Renzi e dal Pd, anche questo è comprensibile. Ma se ha voluto aprire una sfida per restare a Palazzo Chigi, questo sarebbe irrealistico.

E infatti non sembra proprio che il presidente del Consiglio abbia gettato il guanto nel campo dei renziani. Per quanto ferito e irritato, il suo tono è sempre stato misurato. Si è definito più volte «uomo delle istituzioni» e ha reso omaggio a Napolitano, del cui consiglio non ha mai fatto a meno in questi nove mesi di governo. Ha ricordato che un governo è tale fin quando ha una maggioranza parlamentare, ma è sembrato soprattutto in attesa di quello che deciderà oggi la Direzione del suo partito.
Non c'è alcuna volontà di usare le istituzioni per una resa dei conti personale (peraltro il Quirinale non lo permetterebbe). C'è invece il desiderio di mostrare il lato oscuro della scalata di Matteo Renzi, descritto fra le righe quasi come un giocatore di poker costretto ad alzare sempre la posta nella speranza che nessuno veda il bluff. Il sottinteso è evidente. È come se Letta dicesse: vedete, io sono serio e prudente, ma realizzo quello che prometto, procedendo senza inutili «protagonismi»; altri invece vogliono accantonare il mio governo per condurvi sul terreno dell'avventura con tutti i rischi connessi.
È fuori della realtà che questa uscita possa cambiare il corso delle cose e convincere la maggioranza del Pd. In termini tecnici l'iniziativa di Letta, le proposte e i punti programmatici di "Impegno 2014" arrivano fuori tempo massimo, fra l'altro quando le agenzie hanno appena diffuso un'aspra dichiarazione di Alfano, il fedele centrista, che sancisce il passaggio dell'Ncd nell'accampamento di Renzi (dichiarazione smentita pro-forma due ore dopo).

Tuttavia il presidente del Consiglio qualcosa ha ottenuto con la sua conferenza stampa. Ha complicato la vita del suo competitore. Ha, come si dice, alzato l'asticella oltre la quale Renzi deve saltare. Lo ha sfidato – in questo senso, sì – a dire chiaro e tondo quali sono le sue intenzioni. A sfiduciarlo a viso aperto nella Direzione di oggi. Perché un capo di governo non si dimette in base alle «dicerie» e ai «mormorii». Soluzione, quest'ultima, che forse sarebbe gradita a Renzi perché eviterebbe ulteriori lacerazioni in un partito che sta offrendo il consueto spettacolo paradossale, dilaniato com'è dalla rivalità interna.

Letta insomma si è preso i titoli dei giornali di stamane. E oggi pomeriggio Renzi, l'uomo nuovo, non potrà non affondare il colpo fratricida sotto l'occhio delle telecamere. Dovrà farlo in base alle stesse attese da lui alimentate nei giorni scorsi. Ed è bene che tutto si chiuda entro stasera, pena un grave, forse irrimediabile appannamento dell'immagine renziana.

Ma non basta. Il segretario del Pd dovrà motivare in modo articolato una decisione certo non di ordinaria amministrazione. Il vero argomento a sua disposizione riguarda l'orizzonte del nuovo esecutivo. Un orizzonte di legislatura, l'unico in grado di garantire quegli interventi strutturali sull'economia e le istituzioni di cui il paese ha urgenza. Ma un tale impegno non potrà ridursi a una tattica, un gioco di prestigio che sfocia nelle elezioni anticipate alla prima difficoltà.

Se Renzi va a Palazzo Chigi, dovrà essere per cominciare un serio cammino riformatore. In fondo, con la sua uscita di scena Letta ha gettato qualche mina sul percorso del suo successore, ma gli permette anche di dimostrare di quale stoffa è fatto.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-13/l-ultimo-atto-letta-e-schiaffo-renzi-064056.shtml?uuid=ABH5sFw&cmpid=nl_7%2Boggi_sole24ore_com
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« Risposta #143 inserito:: Febbraio 15, 2014, 11:49:40 am »

Governo di legislatura? C'è molto scetticismo

di Stefano Folli
15 febbraio 2014

Nel suo inarrestabile incedere verso Palazzo Chigi Renzi è giunto ormai a pochi passi dal traguardo, ma finora non è riuscito a unire il Paese dietro di sé. È riuscito a unire, più o meno, la Direzione del Pd ma non l'opinione pubblica che ha bisogno di capire meglio cosa succede. Si avverte in giro una sottile diffidenza, tipica di quando c'è nell'aria l'odore dell'operazione di palazzo. Viceversa, il sindaco ha unito i mercati: Borsa gagliarda e operatori finanziari contenti del cambio, da cui si aspettano vigore, "sprint" e soprattutto tempi fulminei quando ci sarà da prendere decisioni.

Questo doppio registro (dubbi a livello popolare, soddisfazione fra gli investitori) è la fotografia dell'ambiguità in cui nasce il nuovo governo. Ma su questo, e del colpo di pugnale inferto a Enrico Letta, si è già scritto tutto. La solitudine del presidente del Consiglio, mentre saliva ieri al Quirinale per dimettersi, non ha bisogno di commenti. Il caso vuole che Letta esca di scena proprio quando torna il segno "più", sia pure assai risicato, accanto alle cifre della produzione industriale; e addirittura l'agenzia Moody's decide di migliorare la prospettiva dell'Italia. Pura coincidenza, certo.

Ma l'amarezza dell'uscente è giustificata. Del resto, Napoleone diceva di volere al suo fianco generali che fossero non solo bravi, ma soprattutto fortunati. E Renzi sta dimostrando di essere un generale fortunato, come dimostra l'esempio di Moody's. Un generale fortunato che spera di guadagnarsi i galloni del nuovo Napoleone, visto che l'ambizione non manca.

Per il momento sappiamo che il sindaco non perde un secondo né lo fa perdere all'Italia. Quando Napolitano avrà concluso le rapide consultazioni cominciate ieri e gli darà l'incarico (forse già stasera oppure domattina), c'è da scommettere che Renzi vorrà battere tutti i record nella presentazione dei ministri. Su quel terreno sarà giudicato per la prima volta: cioè sul valore e il profilo della squadra ministeriale. Subito dopo sarà valutato per la qualità del programma e degli impegni riformatori che esporrà davanti al Parlamento: perché non si è ancora capito con chiarezza se il premier che viene da Firenze sarà l'uomo della grande concretezza ovvero il re delle promesse generiche.

Questo aspetto va chiarito al più presto perché di giudici ce ne sono anche e soprattutto al di là dei confini. L'Unione europea guarda con simpatia all'uomo nuovo, benché rimpianga la competenza e la serietà di Letta. Ma il dinamismo renziano, un po' ruspante, incuriosisce e l'idea che l'Italia esca dal suo torpore è stimolante per tutti. In fondo anche Angela Merkel si è limitata ad auspicare che Roma chiuda in fretta la sua crisi di governo. Non proprio un'interferenza, come qualcuno ha voluto subito vedere.

In sostanza, c'è solo da attendere, ben sapendo che i tempi saranno brevi. Il clima politico in cui nasce il governo Renzi non è disteso né tanto meno sereno, come si è capito quando la Lega (dopo il M5S) ha deciso di non salire al Quirinale e ha mancato di rispetto al capo dello Stato. Peraltro un minimo di negoziato con i soci della coalizione, a cominciare dal gruppo di Alfano, il premier incaricato dovrà svolgerlo. E poi dovrà fare del suo meglio per dissipare la sottile e diffusa patina di diffidenza di cui si è detto.

La verità è che pochi, nel palazzo e nell'opinione pubblica, credono alla super-promessa fatta dal leader alla direzione del Pd e destinata a essere reiterata in Parlamento: l'impegno cioè a concludere la legislatura allargando l'orizzonte dell'esecutivo fino al 2018. È quello che tanti vogliono sentirsi dire e Renzi li ha accontentati. Ma queste promesse richiedono tali e tante circostanze favorevoli da non essere molto credibili. In fondo Renzi non è riuscito a essere coerente con quello che egli stesso diceva del governo Letta appena dieci giorni fa. Difficile credergli a scatola chiusa quando garantisce un governo di quattro anni.

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« Risposta #144 inserito:: Febbraio 16, 2014, 11:05:48 pm »

Il paradosso italiano nel ritorno di Berlusconi al Quirinale

di Stefano Folli
16 febbraio 2014

Il paradosso italiano è anche questo. Nei giorni in cui prende forma il governo dell'uomo nuovo, il "pié veloce" Renzi, al Quirinale si presenta per le consultazioni il simbolo del ventennio passato. Berlusconi non solo è un condannato in attesa di scontare i nove mesi della pena, ma è stato anche espulso dal Senato. Eppure egli è e resta il leader di Forza Italia, dimostra di sapere ancora come si raccoglie il consenso e da poco è diventato l'interlocutore privilegiato di Renzi sulle riforme istituzionali e la legge elettorale.

Perciò guidava la delegazione del suo partito ed era legittimato a esser lì. Se non si coglie il paradosso, non si capisce il mistero italiano. Passato e presente s'intrecciano in forme insondabili. Il nuovo deve farsi strada scavando un tunnel nella complessità del sistema e le istituzioni sono un caleidoscopio che riflette questa "realtà romanzesca".

Chi ha mancato di rispetto al capo dello Stato non salendo al Quirinale e chi è salito per mostrare al mondo di essere ancora in sella. Un tempo le consultazioni servivano a offrire aiuto e sostegno al Presidente della Repubblica. Oggi servono ad altro.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-16/il-paradosso-italiano-ritorno-berlusconi-quirinale--092407.shtml?uuid=ABejcvw
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« Risposta #145 inserito:: Febbraio 17, 2014, 07:21:11 pm »

La partenza e i dubbi. Quattro nodi da chiarire

di Stefano Folli17 febbraio 2014

Stamane comincia dunque l'era di Matteo Renzi. Se sarà lunga o effimera, destinata a cambiare l'Italia o a risolversi in un mero gioco di potere, non lo sappiamo. Quel che sappiamo è che Giorgio Napolitano non metterà vincoli temporali al giovane incaricato, non gli chiederà di affrettarsi per essere fedele al suo personaggio "veni, vidi, vici". Gli chiederà semmai di lavorare intorno a pochi ma essenziali punti di programma, in modo da costruirvi intorno una cornice politica credibile, senza farsi risucchiare nella famosa palude. Quella palude che Renzi vede come pericolo, ma che ora è costretto ad attraversare.

In ogni caso non ci sono ostacoli insuperabili sulla via del sindaco, tali da bloccare la sua ascesa; però ce ne sono abbastanza per determinare il profilo del governo e il suo spessore politico. Perché quando l'incaricato tornerà al Quirinale con la lista dei ministri, forse tra mercoledì e giovedì, non è detto che sarà riuscito a sciogliere tutti i nodi. Alcuni potrebbero essere stati solo accantonati o aggirati, con quel tanto di ambiguità che finora è l'impronta della fase politica in cui stiamo entrando.

Proviamo a riassumere i punti in attesa di chiarimento.
1) Il primo riguarda, come è ormai noto, il rapporto con Alfano e il suo partito di centro. È questione tipica di ogni trattativa. Il governo è fondato su una coalizione, la stessa a cui si era affidato Enrico Letta. Renzi talvolta ragiona come se si preparasse a guidare un monocolore, un governo a forte «vocazione maggioritaria». Ma non è così e quindi non ha molto senso gridare «nessuno mi metterà le briglie...». Se il Nuovo Centrodestra sarà decisivo a Palazzo Madama, dato il sistema bicamerale che non è stato ancora riformato, difficile rispondere «no» alle richieste di Alfano, specie se riguarderanno tre ministeri di peso.

2) C'è tuttavia un "non detto" nella posizione di Alfano, testimoniata dal duro scambio polemico fra lui e Berlusconi nelle ultime ore. È come se i centristi temessero un legame di potere sotterraneo ma tenace fra Renzi e il capo di Forza Italia. Un legame di cui si conosce la punta (l'accordo sulla legge elettorale e sul "pacchetto" delle riforme costituzionali), ma non il resto. E che potrebbe anche contenere qualche risvolto scomodo: per esempio la volontà di dare una mano a Renzi in Parlamento, in vista di rendere meno cruciale o addirittura ininfluente la posizione degli alfaniani. Se n'è scritto e sono arrivate le smentite. Se qualcuno ci ha pensato, è arduo credere che il progetto sia oggi in grado di andare in porto. È vero tuttavia che esiste una zona grigia. Da un lato la "maggioranza per le riforme" sottoscritta da Renzi con Berlusconi; dall'altro la "maggioranza per il governo" che esclude Berlusconi e ha in Renzi il nuovo punto di riferimento. I due piani tendono a incrociarsi e l'esito non è del tutto prevedibile.

3) La legge elettorale. È essenziale per dare senso al rinnovamento, ma si lega al complesso delle riforme, fra cui quella molto importante che ridefinisce i compiti del Senato. Per Renzi il modello maggioritario equivale ad avere alla cintura una pistola carica, perché potrebbe minacciare lo scioglimento delle Camere di fronte alle difficoltà quotidiane. Viceversa oggi la pistola è scarica perché elezioni fatte con il proporzionale imposto dalla Corte Costituzionale sarebbero un fallimento proprio del progetto Renzi.
4) Le priorità. È evidente che il governo Renzi dovrà darsi come obiettivo prioritario la ripresa della crescita economica. Ma dovrà collocarla, almeno in partenza, nel quadro europeo e nei vincoli che ne derivano. Riuscire a conciliare i due aspetti sarà la prova di maturità del nuovo premier e il segno del suo governo. Della legge elettorale potrà occuparsi il Parlamento, ma sulla politica economica dovrà impegnarsi il presidente del Consiglio senza intermediari. Ecco perché la scelta del responsabile di via XX Settembre è la più qualificante.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-02-17/la-partenza-e-dubbi-quattro-nodi-chiarire-085115.shtml?uuid=ABN9X4w
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« Risposta #146 inserito:: Febbraio 24, 2014, 07:09:58 pm »

Svolta nuovista, più interrogativi che certezze

di Stefano Folli
22 febbraio 2014

Il nuovo presidente del Consiglio voleva dare la sua impronta al governo, chiara e netta. Ci è riuscito, nonostante che qualcuno ieri sera parlasse di «eccesso di continuità», di compromesso al ribasso e di "renzismo" annacquato. Non sembra che sia così. La spinta nuovista è evidente e va proprio nel senso auspicato dal sindaco-premier: molti giovani, molte donne, una lista di ministri fatta per colpire la fantasia degli elettori e partecipare con successo a qualche "talk show" televisivo. Certo, il nuovo gabinetto deve tener conto degli equilibri nella maggioranza e ancor più della frastagliata realtà del Partito Democratico, nel quale non tutti sono renziani, come è noto, specie nei gruppi parlamentari. Ma nel complesso il leader ha ottenuto quello che voleva, come si conviene a un giovane molto determinato che non arretra facilmente davanti agli ostacoli.

Quel lungo colloquio con il presidente della Repubblica di sicuro non è stato facile, ma alla fine è servito a sottolineare un dato di fondo: il destino ha cambiato cavallo, come scriveva Longanesi al tempo di un altro passaggio epocale. Renzi si è assunto la responsabilità delle sue scelte e in termini politici aveva il diritto di farlo, nonché la spregiudicatezza che in certe situazioni è sempre utile, come ha sperimentato sulla sua pelle Enrico Letta. A proposito: il premier poteva risparmiarsi quelle parole di stima fuori tempo massimo spese per il suo predecessore. Ronald Reagan diceva che non è importante essere sinceri, ma è essenziale sembrarlo: una piccola lezione che Renzi dovrebbe meditare.

In conclusione, ieri sera non è nato un Letta-bis, come "twittavano" i soliti buontemponi, bensì un esecutivo di impianto radicalmente diverso, al di là della conferma dei tre "alfaniani" e di un paio di altri rappresentanti centristi (ma stranamente nessun Popolare per l'Italia, gruppo piuttosto nutrito). Una compagine che riflette nel suo complesso, salvo poche eccezioni, l'investimento totale che il neo premier ha fatto su se stesso. Alcuni ministri e ministre sembrano chiamati solo a fare da corona al leader, a dimostrarne la modernità, a testimoniare l'avvenuto salto generazionale. Ed è qui che nascono le maggiori perplessità. In apparenza c'è un deficit di esperienza e di solidità nel concerto renziano. Nulla che non possa essere smentito nei fatti e nella fatica quotidiana del governo. Eppure al momento i dubbi restano. La scelta migliore è senza dubbio quella di Padoan, scelta che per fortuna il premier ha avuto la saggezza di condividere dopo le iniziali perplessità. Padoan è un tecnico con riconosciuta sensibilità politica, apprezzato e stimato in Europa e nei fori internazionali. A lui viene affidata quasi interamente la credibilità italiana, rappresentando insieme la novità del governo Renzi, ma anche la continuità delle cose che contano.

Viceversa, l'errore più grave sembra l'allontanamento di Emma Bonino dagli Affari Esteri. Nel pieno della crisi ucraina, proprio quando l'Europa è chiamata a dare un segno di vita, e con la vicenda dei marò ancora irrisolta, la Farnesina viene trattata alla stregua di un dicastero minore, anziché di uno dei luoghi privilegiati in cui si costruisce l'immagine dell'Italia nel mondo. Fra l'altro la Bonino figurava costantemente in testa nei vari sondaggi dedicati al gradimento dei ministri del governo uscente. Si è voluto rimarcare che una pagina è stata voltata, ma forse era meglio riflettere sul costo di questo colpo a effetto. Tanto più che è scomparso anche il ministero delle Politiche Comunitarie, affidato a un eccellente esperto quale è Moavero. Cancellare con un colpo di spugna la sua competenza non sembra essere un'ottima idea, giusto alla vigilia del semestre italiano di presidenza dell'Unione.

Sta di fatto che tutti hanno capito l'urgenza per Renzi di presentarsi alla testa della giovane generazione. La fotografia di un'Italia nuova che si afferma nel solco di un premier di appena 39 anni. Il problema è che tutta questa freschezza non può bastare a rispondere a tutti gli interrogativi che certe scelte sollecitano. Il presidente del Consiglio insiste nel dire che questo governo è nato con un po' di sforzo perché la sua prospettiva è quella di durare l'intera legislatura. Senza dubbio è nei suoi auspici, ma il "mantra" è poco convincente. L'impressione è che il Renzi Uno sia soprattutto un esecutivo fatto per piacere, grazie soprattutto ai volti di alcuni ministri (o ministre), pronto però a trasformarsi in uno strumento elettorale alla prima difficoltà. Del resto, Berlusconi - interlocutore non secondario del nuovo governo - non fa mistero di volersi preparare alle elezioni entro un anno, forse meno. E Renzi ha il piglio di uno che è in campagna elettorale permanente.

Vedremo. Di certo lunedì il governo sarà giudicato sull'agenda del programma. Gli italiani si attendono riforme e non solo bei sorrisi.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-22/svolta-nuovista-piu-interrogativi-che-certezze-081556.shtml?uuid=ABSljLy
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« Risposta #147 inserito:: Febbraio 25, 2014, 05:17:42 pm »

Più sindaco che premier

di Stefano Folli
25 febbraio 2014

Giunto quasi al termine del suo lungo discorso pronunciato quasi tutto a braccio, Matteo Renzi si è assunto le sue responsabilità. Se non riesco, ha detto in sostanza, la colpa sarà solo mia e lascerò il campo. Frase da non sottovalutare, in linea con il personaggio e il suo spirito un po' guascone. In ogni caso, frase credibile perché l'intera avventura cominciata ieri è all'insegna del più classico "o la va o la spacca".

Si può apprezzare o no il premier-segretario-sindaco. Si può dare un giudizio scettico sul suo intervento a Palazzo Madama ovvero valutarne il profilo innovativo, la capacità di rivolgersi ai cittadini-elettori piuttosto che ai senatori che lo ascoltavano senza particolare trasporto (e si capisce, visto che sono destinati tutti all'estinzione, come il presidente del Consiglio ha ricordato loro senza mezzi termini).

Si può in altri termini esprimere delusione oppure mantenere inalterata la fiducia nell'uomo nuovo della politica italiana. Un punto tuttavia va riconosciuto. Ieri a prendere la parola era Renzi, il personaggio insieme spregiudicato e sognatore che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi con i suoi pregi e i suoi difetti. Non ha parlato un premier ormai calato nel suo ruolo istituzionale e capace di descrivere un convincente orizzonte programmatico a sostegno della sua ambizione. Un orizzonte fatto di annunci, sì, ma soprattutto di soluzioni. Niente politica estera, ad esempio: una mancanza piuttosto grave.

Coerente con se stesso, Renzi lo è. Non ci sono dubbi al riguardo. Ma anche rimasto idealmente a Palazzo Vecchio. Da sindaco di Firenze a sindaco d'Italia. Molti sostengono che questa è la sua forza: l'attitudine a rivolgersi ai mercati rionali invece che ai mercati finanziari (frase più volte ripetuta dall'interessato, nel segno di quel populismo "morbido" che è un po' la sua cifra, o se si preferisce il grimaldello con cui spera di entrare nel fortino dei Cinque Stelle e recuperare parecchi voti).

Il fatto è che ci si aspettava qualcosa di più da lui. Magari meno narcisismo, meno ammiccamenti e più concretezza. Meno fuochi mediatici e qualche cifra solida. Quanto costano le riforme annunciate e gli interventi promessi? Qui Renzi aveva il dovere di essere chiaro proprio per rivelarsi credibile. Viceversa è apparso evasivo. Un sito, l'Huffington Post, calcolava in cento miliardi di euro il costo di tutte le promesse contenute nel discorso programmatico. Magari non è il calcolo giusto, eppure sarebbe stato auspicabile che il premier fosse meno vago sul nodo delle risorse e dei conseguenti tagli alla spesa. Anche per non dare l'impressione che la nuova Italia annunciata sarà tutta a costo zero. Una rivoluzione indolore che non incide sul consenso elettorale, non provoca aree di scontento, non divide il paese.

In fondo ieri il giovane presidente era chiamato a dare l'esatta misura di se stesso. Si trattava per lui di affrontare il discorso più importante della sua breve ma tumultuosa vita politica. Il discorso che lo avrebbe consacrato da segretario di partito a uomo delle istituzioni. Invece il tentativo è rimasto a mezz'aria. O forse Renzi stesso, l'eterno sindaco, non ha compreso l'importanza della posta in gioco. Ha parlato a Palazzo Madama quasi fosse l'ospite di una trasmissione televisiva. Uno stile giustificabile se fossimo alla vigilia delle elezioni politiche. Invece no, anche se la durata di questa legislatura, che Renzi promette lunga, è legata a fattori oggi imprevedibili.

Oggi e domani il nuovo governo otterrà la fiducia senza la minima inquietudine. Subito dopo il sentiero è destinato a inerpicarsi. Si vedrà quanto peseranno gli annunci di queste ore. E si capirà se il premier-sindaco predilige girare l'Italia in un permanente "tour" elettorale, come ha adombrato. Oppure se intende rimboccarsi le maniche a Palazzo Chigi.

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« Risposta #148 inserito:: Marzo 03, 2014, 05:26:03 pm »

Patti ambigui verso il 2015

di Stefano Folli
02 marzo 2014

Il punto di ambiguità su cui è nato del governo Renzi resta tale. Si riassume così: è più forte il sodalizio fra il premier e la sua maggioranza, compresi Alfano e la minoranza del Pd; oppure il vero asse strategico è quello che lega sotto traccia Renzi e Berlusconi, quest'ultimo solo in apparenza capo dell'opposizione? A seconda della risposta avremo anche la chiave dell'altro quesito: questa legislatura finisce in pochi mesi o durerà due o tre anni?

Il neo premier è stato molto bravo finora a tenere coperte le sue carte. Nessuno può rivendicare, allo stato delle cose, di conoscere il suo pensiero recondito. Per cui l'astuto fiorentino sta con ogni probabilità giocando su due tavoli. Da un lato tenta di strumentalizzare Berlusconi (sarebbe il primo a riuscirci...) con l'idea di mandare avanti la legislatura e il piano di riforme anche costituzionali (Senato, titolo V, eccetera). Dall'altro invece finge di rassicurare Alfano, ma è pronto ad andare alle elezioni il più presto possibile, con il pieno accordo di Forza Italia, non appena ottenuta la riforma elettorale.

Inutile spremersi troppo le meningi. Una prospettiva certa ancora non c'è e il giovane presidente del Consiglio non ha deciso in modo definitivo quale strada imboccare. Per la verità Renzi ha l'aria di uno che ha dato affidamenti contraddittori un po' a tutti, dai centristi ai berlusconiani, essendo il prezzo da pagare per entrare a Palazzo Chigi. Poi vedremo. Dipenderà dalle circostanze, dallo stato dell'economia, dal grado di popolarità che il leader sarà riuscito a mantenere nei prossimi non facili mesi. E anche dalla congiuntura internazionale: la crisi in Ucraina, nella sua imprevedibile drammaticità, potrebbe diventare uno di quei "cigni neri" che talvolta appaiono all'orizzonte, del tutto imprevisti, e cambiano in radice gli scenari.

Aspettiamo, allora. Senza sottovalutare gli indizi che si presentano. Ieri Ugo Magri, sulla "Stampa", accreditava l'idea del patto segreto fra il leader del Pd e il partito di Berlusconi e lasciava intendere che "i fuochi artificiali di settembre", adombrati in ambienti di Forza Italia ma non specificati, potrebbero coincidere con la corsa alle elezioni. In fondo anche ieri Berlusconi è tornato sul tema e ha parlato di votare nel 2015.

Difficile credere che il premier sia insensibile a questa sirena. Tuttavia il problema di Renzi, l'hanno scritto molti osservatori, riguarda la riforma elettorale. Senza avere in mano la pistola carica di una legge iper-maggioritaria (e, aggiungiamo, senza la ragionevole certezza che nessuno dei suoi competitori raggiungerà la soglia del 37 per cento al primo turno, permettendogli così di giocare le sue carte al ballottaggio) l'uomo del "veni, vidi, vici" non ha interesse a bruciare le tappe. O meglio: questo è quello che dice ad Alfano, per il quale una lunga legislatura e il castello governativo nel quale si è rifugiato sono la vera garanzia di sopravvivenza.

C'è un modo sicuro per capire dove risiede la verità. Verificare l'iter della riforma elettorale, i tempi, ma soprattutto gli accordi per modificare questo o quel punto dell'impianto già approvato senza entusiasmo in commissione. I centristi delle varie confessioni sono sul sentiero di guerra e si preparano a un conflitto parlamentare per ottenere significative modifiche della legge. Renzi non li sconfessa, ma chiede che la riforma sia approvata in tempi certi e brevi. Lo scontro sarà duro e senza dubbio decisivo per capire se voteremo fra un anno oppure se questa legislatura ha un futuro. Berlusconi attende sulla riva del fiume. E il giovane, brillante toscano dovrà decidere presto da che parte stare. Altrimenti avranno ragione quanti si dichiarano certi che l'ipotesi A è quella giusta. Quindi riforma elettorale e poi di corsa al voto, al limite anche in autunno, cioè prima del 2015, facendo leva sulle prime, inevitabili difficoltà del governo.

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« Risposta #149 inserito:: Marzo 06, 2014, 12:08:13 pm »

Sulla riforma Renzi imbrigliato dai centristi e «salvato» da Berlusconi

di Stefano Folli
05 marzo 2014

Non è la prima volta che Berlusconi si diverte a cambiare le carte in tavola in modo imprevisto (soprattutto dai suoi collaboratori). Ai primi di ottobre Sandro Bondi fu mandato a pronunciare un veemente discorso in Senato contro Alfano e soci, dal quale discendeva il voto di sfiducia al governo Letta. Cinque minuti dopo si alzò Berlusconi: pochi secondi per annunciare il contrario, cioè la conferma della fiducia.

Ieri lo schema si è ripetuto alla lettera. Su "Repubblica" è apparsa un'intervista al consigliere politico Toti in cui si ammoniva Renzi: «Se salta l'accordo sulla legge elettorale per Silvio cambia tutto». Poche ore ed ecco di nuovo Berlusconi in campo. Pronto a far proprio il nuovo scenario: ossia riforma elettorale valida solo per la Camera, secondo l'emendamento D'Attorre. Il Senato congelato in attesa che sia approvata la riforma costituzionale che dovrà modificarne le funzioni; e fino ad allora per i senatori resta valido il modello elettorale disegnato dalla Corte Costituzionale.

Bisogna riconoscere che Berlusconi non si cura delle contraddizioni. Anche perché egli segue il filo coerente dei suoi interessi. Non solo politici. In ottobre riteneva che continuare a far parte della maggioranza delle "larghe intese" fosse per lui essenziale in vista dell'epilogo giudiziario su cui di lì a poco sarebbe intervenuta la Consulta. Poi le cose sono andate male, come è noto.

Adesso Berlusconi è all'opposizione, ma ci si trova a disagio. La nuova linea è all'insegna del «senso di responsabilità». Vuol dire che il capo di Forza Italia non intende perdere il contatto con Matteo Renzi. Non tanto con il centrosinistra nel suo complesso, è ovvio: proprio con Renzi. Da lui, dal giovane fiorentino, Berlusconi si sente garantito. Oggi e domani. E per mantenere viva la garanzia è disposto a dargli una mano a costo di sconcertare i suoi e apparire sconfitto da Alfano.

Sulla riforma elettorale, al punto a cui eravamo arrivati, la mediazione era quasi impossibile. Delle due, l'una. O si approvava subito il nuovo testo iper-maggioritario sganciato dalle riforme istituzionali; e in quel caso il premier non sarebbe stato in grado di tenere in piedi la sua maggioranza. Lo sbocco? Probabile voto anticipato e collasso dell'investimento sul presidente del Consiglio "amico". Seconda ipotesi: si accettava il legame fra legge elettorale e revisione costituzionale del Senato, regalando ai centristi "traditori" un successo e allungando di parecchio la vita della legislatura.

L'unico che poteva salvare Renzi, sottraendolo in parte alla trappola in cui si era cacciato per aver giocato su due tavoli, era Berlusconi. E Berlusconi si è mosso, consapevole di dover pagare anch'egli un prezzo, visto che l'originario patto a due si è sbriciolato. Si dimostra così che il vero interesse berlusconiano consiste nel conservare Renzi a Palazzo Chigi il più a lungo possibile, proteggendolo dai suoi stessi errori.
Conclusione. Avremo fra poco due differenti sistemi elettorali per Camera e Senato. Il che non è certo di buon auspicio nel caso in cui, nonostante tutto, le due assemblee dovessero essere sciolte. Sul piano politico Renzi ha dovuto piegarsi ai centristi e ora deve essere grato a Berlusconi che gli ha gettato una ciambella di salvataggio. Quanto alla riforma costituzionale del Senato, essa è nelle mani del Parlamento. Dove i conservatori, si sa, sono molto numerosi.

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