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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 106916 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Marzo 12, 2013, 06:37:38 pm »

Il timore di un «piazzale Loreto» berlusconiano produce forte instabilità

di Stefano Folli

12 marzo 2013


È ormai lo stesso Berlusconi, a quanto pare, a temere per sé una riedizione (aggiornata ai tempi) di piazzale Loreto.
Forse non ha torto: la tenaglia giudiziaria si sta stringendo intorno a lui come mai in passato, da Milano a Napoli, e la prospettiva che sta prendendo corpo prevede anche il carcere, almeno sulla carta. Quanto meno il risultato finale potrà essere l'espulsione del leader del centrodestra dal dibattito politico, con la non inverosimile interdizione dai pubblici uffici.

Una lunga, drammatica storia sta quindi arrivando al capolinea. E le implicazioni sono enormi, la maggior parte delle quali ancora inesplorate. Intanto bisogna misurare le reazioni a breve termine. Che sono confuse e contraddittorie, specchio fedele del dramma psicologico in cui si trova l'uomo ricoverato, almeno fino a stamane, in una "suite" del San Raffaele. Non c'è una linea chiara. Falchi e colombe si fronteggiano e talvolta si mischiano.

Si diceva che i seguaci di Berlusconi avessero rinunciato a manifestare davanti al Palazzo di Giustizia e invece i parlamentari del Pdl hanno addirittura invaso l'edificio, sia pure alla spicciolata, e si sono appellati a Napolitano in nome di «un'emergenza democratica». Qualcuno poi adombra che venerdì deputati e senatori non si presenteranno all'apertura del Parlamento: e sarebbe un gesto clamoroso di sfida alle istituzioni.

Berlusconi, come è noto, sa essere un populista di razza durante le campagne elettorali, fino a promettere di rimborsare l'Imu di tasca propria. Ma poi, a urne chiuse, ha sempre preferito indossare abiti più composti, evitando errori grossolani, specie all'inizio della legislatura. Ma ora il quadro è cambiato: la preda si sente chiusa in un angolo e non si può prevedere quale sarà la sua reazione finale.
D'altra parte, lo scenario per lui non potrebbe essere peggiore. Questo Parlamento produce una maggioranza d'aula che non esiterebbe a concedere l'autorizzazione a procedere. Ieri i Cinque Stelle lo hanno detto senza mezzi termini e il Pd, salvo eccezioni, finirebbe per comportarsi allo stesso modo. Bersani e Grillo, divisi su molte cose, su Berlusconi trovano l'intesa. Soprattutto lungo la rotta che porta a nuove elezioni.
Quanto agli appelli rivolti al capo dello Stato, non si capisce (e non da oggi) quale possa essere il ruolo di Napolitano di fronte allo svolgersi delle inchieste giudiziarie. Non ci sono salvacondotti o zone franche possibili. È vero peraltro che l'attacco finale a Berlusconi ha forti risvolti politici. Non riguardano il Quirinale, quanto il complesso delle forze presenti in Parlamento.

Stiamo parlando del Pdl, terzo partito italiano, e di una coalizione di centrodestra che nel suo insieme sfiora il 30 per cento. È illusorio pensare che l'uscita di scena obbligata del leader, ammesso che ci si arrivi, comporti una dissoluzione di quest'area.

Per ora, anzi, è scattato il meccanismo della solidarietà al padre-fondatore, l'uomo a cui tanti devono tutto. Se qualcuno tace e attende nell'ombra, è comunque difficile che si palesi a breve scadenza. Come dire che se l'aspra tensione si protrarrà nei prossimi giorni, non ci sarà possibilità di dialogo nemmeno sulle cariche istituzionali: le presidenze delle Camere e il nodo del Colle. Il capitolo è ancora tutto da scrivere, ma la destabilizzazione del centrodestra introduce una variante senza precedenti.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

 da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-03-12/timore-piazzale-loreto-berlusconiano-072203.shtml?uuid=AblD2AdH
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« Risposta #106 inserito:: Marzo 13, 2013, 05:34:30 pm »

In attesa di un futuro piano B, Bersani e il Pd evitano gli ultimatum

di Stefano Folli

07 marzo 2013


Il dato politico, a ben vedere l'unico emerso dalla direzione del Partito Democratico, è l'accantonamento definitivo dell'alternativa secca "governo Bersani o elezioni anticipate". Può apparire poco e invece è molto. Si tratta del massimo del realismo che si può chiedere in questo momento a un gruppo dirigente sotto stress, il cui obiettivo prioritario è quello di tenere unito il partito ed evitare errori vistosi dalle conseguenze imprevedibili.

In fondo la stessa frase di Bersani («non abbiamo un piano B») va intesa alla lettera: oggi non abbiamo un piano B perché non ci abbiamo ancora pensato. E in ogni caso – ecco il sottinteso – il piano B dovrà essere definito con il presidente della Repubblica.
Così, alla fine di un lungo giro, il Pd riconosce al capo dello Stato il margine di manovra indispensabile per gestire la più drammatica crisi degli ultimi anni. Si dirà che era inevitabile, oltre che ovviamente corretto dal punto di vista costituzionale. Ma nulla era scontato, date le premesse dei giorni scorsi. La strategia degli Otto Punti, se portata alle estreme conseguenze, conduceva diritta al governo di minoranza destinato a essere battuto in Parlamento. Ovvero a una formidabile tensione con Napolitano se questi (come era lampante) si fosse rifiutato di assecondare l'operazione.
Ora lo scenario è mutato e certe contraddizioni interne ai "democratici" sono state messe da parte. Verrà presto il giorno in cui si dovrà affrontare il piano B, ma intanto la giornata si chiude senza morti e feriti. Certo, gli Otto Punti di Bersani, una volta capito che non costituiscono più il grimaldello per tornare alle urne, appaiono per quello che sono: un manifesto di buone intenzioni anche piuttosto vago e generico. Non proprio il carburante di un governo super-riformatore. Ma tant'è. Quel che conta, non ci sono "ultimatum" da parte del segretario del Pd. E c'è la volontà, almeno per ora, di procedere senza strappi.

Chiaro che molto resta ancora da fare, specie nel rapporto con il Quirinale. Il Pd non si è ancora davvero affidato a Napolitano, ha soltanto evitato di mettersi di traverso giusto ai primi passi della legislatura. Il resto si vedrà poi, quando i tentativi di restituire un governo al paese entreranno nel vivo. Si vedrà allora quanto sarà costruttivo il contributo del centrosinistra e degli altri sulla via del cosiddetto «governo del presidente».

È chiaro che il compito di Bersani non è invidiabile. Da un lato, deve tenere alta una bandiera un po' sfilacciata dal risultato del voto; dall'altro, deve guidare il partito lungo il passaggio più insidioso degli ultimi trent'anni, mentre Renzi rimane sullo sfondo come l'alternativa interna più convincente (ma non in tempi brevi). E verrà il giorno in cui si porrà il tema di votare o no con il centrodestra un programma di riforme. Quello sarà il momento della verità. Certo, potrebbe anche non arrivare mai. Grillo per ora se ne sta sulla riva del fiume in attesa di veder passare i cadaveri dei suoi nemici. E da Berlusconi-Alfano non sono giunte finora parole significative.
Il centrodestra potrebbe restare prigioniero del tatticismo e dei rancori. Ovvero potrebbe spiazzare i competitori, da Bersani a Monti, proponendo alcuni punti concreti su cui realizzare l'eventuale maggioranza «di scopo». Berlusconi rimarrebbe un alleato impossibile, ma il problema politico sarebbe sul tavolo. Lo vedremo. D'Alema, ad esempio, sta ragionando su questa e altre eventualità: perché l'unità nazionale – al netto dell'ingombro berlusconiano – non può essere sempre sacrificata ai tabù irrazionali. In ogni caso ora si pongono le scadenze istituzionali, l'elezione dei presidenti di Camera e Senato. Non si capisce come intende regolarsi il Pd. C'è da augurarsi che anche qui prevalga il realismo.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-07/guarda-napolitano-063615.shtml?uuid=AbvD8ebH
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« Risposta #107 inserito:: Marzo 15, 2013, 06:36:45 pm »

Un Parlamento in bianco

di Stefano Folli

15 marzo 2013


Quando stamane un diluvio di schede bianche – da sinistra e destra – finirà nelle urne della Camera e del Senato destinate a esprimere i presidenti delle assemblee, avremo la sensazione plastica del disastro che incombe sulla legislatura.
In teoria il ricorso all'astensione di massa è un'astuzia per favorire successive intese sui nomi: una tattica che vanta più di un precedente.

Ma nella sostanza, in questo Parlamento che presenta la novità assoluta dei tre blocchi inconciliabili, rischia di trasmettere all'esterno la drammatica immagine di un palazzo paralizzato e incapace di decidere. Due assemblee avvolte in un grande lenzuolo bianco. Tuttavia un gruppo ci sarà, pronto a votare i suoi candidati. E si tratterà, nemmeno a dirlo, del movimento Cinque Stelle. Non sarà facile poi spiegare all'opinione pubblica che chi vota scheda bianca difende le istituzioni, mentre chi sostiene un volto preciso, con un nome e un cognome, gioca allo sfascio... E in ogni caso, qual è la strategia degli astenuti? Allo stato delle cose è buio assoluto.
Bersani ha provato fino all'ultimo a sedurre i grillini, li ha seguiti persino nell'ipotesi di appoggiare l'arresto di Berlusconi; ma non sembra che abbia ottenuto molto. Grillo è persino irridente nei suoi confronti. Ha tirato fuori tutte le riserve sull'euro, argomento ovviamente inaccettabile per il Pd. E come se non bastasse insiste nel tormentone del finanziamento pubblico da abolire: tema di immediata presa nell'Italia di oggi, tale però da provocare sussulti dolorosi del partito bersaniano (quando in realtà non sarebbe difficile affrontarlo con spirito innovativo e capacità comunicativa, magari sulla base della proposta di Pellegrino Capaldo).

Si capisce dunque, per restare al Parlamento, che al momento la scheda bianca è un ponte verso il nulla. Nei confronti del Pdl i democratici hanno chiuso la porta e semmai sono gli emissari di Mario Monti a tenere in piedi una vaga prospettiva di mediazione. I centristi del premier manifestano in effetti in queste ore un'inedita attenzione verso la destra, ma c'è da dubitare che si spingeranno a votare con i berlusconiani un candidato alla presidenza del Senato. Quale, poi? L'unico candidato a cui Monti potrebbe pensare è se stesso, ma il repentino passaggio da Palazzo Chigi a Palazzo Madama, due cariche lievemente incompatibili, sarebbe un po' azzardato nella condizione attuale del paese.
Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che l'incertezza italiana comincia a pesare. È stata avvertita nel Consiglio europeo, se n'è fatto testimone il presidente dell'Europarlamento, Shulz, ed è affiorata sulle pagine del settimanale "Spiegel", dove Beppe Grillo è definito senz'altro «l'uomo più pericoloso d'Europa». Sembra di capire che il tempo comincia a scarseggiare, visto che le presidenze di Camera e Senato sono appena l'antipasto di una serie di passaggi oscuri, destinati a culminare con la battaglia per il Quirinale: il grande scontro nel quale il Pdl vuole a tutti i costi essere coinvolto, ma in cui tutti hanno interessi, ambizioni e personali strategie.

Per adesso siamo al Parlamento in bianco. S'intende che due presidenti entro domani dovranno comunque essere eletti. E forse ha ragione Calderoli, esponente di quella Lega che sta cercando a sua volta un margine di movimento e di autonomia: la soluzione migliore sarebbe un esponente del Pdl alla Camera e uno del Pd (Anna Finocchiaro) al Senato. Razionale ma complicato. Mentre l'ipotesi che alla fine le due presidenze finiscano tutte e due al partito di Bersani è irrazionale, ma più probabile.


©RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2013-03-15/parlamento-bianco-084133.shtml?uuid=Ab9r3HeH
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« Risposta #108 inserito:: Marzo 17, 2013, 11:26:01 pm »

Pd e Pdl, interesse convergente al voto anticipato

analisi di Stefano Folli

17 marzo 2013


La replica di Grillo? Molto debole. Se è vero che Bersani ha ottenuto un buon risultato tattico con i due presidenti delle Camere scelti al di fuori del partito, è anche vero che il giorno dopo la replica dello sconfitto, Beppe Grillo, è molto debole. Nel momento in cui tutto l'impianto retorico dei Cinque Stelle si disarticola e il leader tuona contro i dissidenti che hanno appoggiato Grasso, senza rendersi conto che così attacca una buona fetta dei suoi stessi elettori, ebbene in quel preciso momento l'argomento di Grillo è che Bersani ha fatto un'operazione di "maquillage", la stessa che lo ha portato a scegliere Doria a Genova e Ambrosoli in Lombardia. Li chiama con sprezzo "foglie di fico". E con questo? Certo che è così: è un ammiccamento all'anti-politica fatto da un segretario di partito. Alquanto spregiudicato. Ma è esattamente a questa strategia che i Cinque Stelle non sanno cosa replicare, se non frantumandosi come a Palazzo Madama.

Figure extra partito e l'auto-appannamento della politica
Grillo amerebbe che gli avversari stessero fermi, prigionieri dello schemino in cui l'ex comico li ha ingabbiati (il Pd come "pdmenoelle", sempre proteso ad accordi inconfessabili con i berlusconiani). Ma la realtà è sempre più complicata. Bersani ha scelto i presidenti delle Camere esattamente nella stessa logica individuata da Grillo: figure extra-partito, mediatiche, provenienti idealmente da "Ballarò" o da "Servizio Pubblico". Chi guarda allo sviluppo di una politica riformatrice, legata a una visione coerente delle istituzioni, ha diritto di essere molto perplesso di fronte a questo voluto auto-appannamento della politica, a questa evidente rinuncia ad esprimere un'identità.
Tuttavia, l'operazione si sta rivelando la più adatta a mettere nell'angolo Grillo. Il quale non dovrebbe reagire prendendosela con i suoi senatori, o magari con i suoi elettori, bensì interrogarsi sui limiti di una protesta anti-sistema che non riesce a reggere 24 ore alla prova dei fatti e delle sfide parlamentari. E che nello stesso lasso di tempo ha seppellito la propria retorica: tutti uguali, "uno vale uno", trasparenza via web, eccetera.

Il rebus del Quirinale
Su due punti il leader del M5S mostra di essere lucido. Primo, nell'aver individuato che l'elezione del prossimo presidente della Repubblica è la madre di tutte le battaglie, lo snodo intorno a cui passano le scelte decisive del prossimo futuro. Secondo, nella previsione che questa legislatura sarà breve. Ma questa lucidità non lo porta a conclusioni convincenti. Nell'estremo tentativo di riesumare la "teoria dell'inciucio" - che è la più confortante per lui, quella che gli garantirebbe una straordinaria rendita di posizione politica ed elettorale - egli elabora intorno all'ipotesi di D'Alema al Quirinale, eletto dal solito patto fra Berlusconi e il "Pdmenoelle". Paventa (ma sotto sotto si augura) "sette anni di compromessi" stipulati dai suoi avversari. In realtà, proprio la vicenda di Camera e Senato dimostra che Bersani si sta muovendo lungo un altro piano. Magari non riuscirà, ma è chiaro che il candidato ideale dei bersaniani per il Colle non è D'Alema, quanto un "mister X" che rispecchia piuttosto le caratteristiche dell'"uomo nuovo" Pietro Grasso o un altro personaggio con caratteri simili. Bersani vuole al Quirinale una persona su cui contare, ma sa di sicuro che non può essere un'espressione diretta del vecchio Pd, allo stesso modo per cui non ha voluto Anna Finocchiaro a Palazzo Madama o Franceschini a Montecitorio. Per Grillo questa non è una buona notizia. È pessima, perché vuol dire che in via del Nazareno qualcuno continua a lavorare per ridurre lo spazio dei Cinque Stelle, non certo per allargarlo.

Ritorno al voto molto probabile
Viceversa, è giusto dire che le probabilità di un rapido ritorno al voto sono molto alte. Ed è qui il vero fattore di convergenza (non chiamiamolo "inciucio") fra Pd e Pdl. È a questo che i "grillini" dovrebbero porre mente. Bersani è giocoforza proiettato verso le urne, quando risulterà chiaro che non c'è una maggioranza a supporto del governo suo o guidato da una figura da lui indicata. E il Pdl ha già fatto la stessa scelta, basta sentire ieri le parole di Berlusconi e oggi il commento di Alfano. Entrambi hanno capito che il Pd sta facendo il pieno dei consensi a sinistra e sta rinsaldando il rapporto con settori importanti della magistratura. Il fatto che la presidente della Camera Laura Boldrini sia «di estrema sinistra», come dice Alfano, è la prova di un percorso in atto. Quelle posizioni non saranno utili per governare l'Italia di oggi, o per rispettare i vincoli europei, ma possono essere utilissime per tentare di vincere le elezioni: recuperando parte del voto andato disperso con la lista Ingroia e risucchiando un po' dei consensi "in libera uscita" dalle parti di Grillo. Se la legislatura sarà breve, lo sarà perché c'è un interesse comune di Pd e Pdl a renderla così corta.

Il richiamo di Napolitano
In tutto questo il capo dello Stato lancia un estremo appello alle forze politiche (tutte, dal Pd al Pdl alle nuove formazioni) perché abbiano il coraggio di affrontare la riforma delle istituzioni. Alla vigilia delle consultazioni, è come se Napolitano dicesse: fermiamoci, non corriamo verso nuove elezioni (con il Parlamento che dovrebbe essere sciolto dal nuovo presidente), proviamo a dare all'Italia un governo di alto profilo, fondato su un patto istituzionale. Quante probabilità ci sono che un simile appello sarà accolto? Purtroppo poche, se non c'è la volontà di marciare in questa direzione. E non sembra proprio che ci sia. Bersani, per non lasciare dubbi, dice che «il compito di Napolitano è difficilissimo». Né lui né Berlusconi stanno facendo molto per facilitarlo. E intanto l'Italia resta senza governo, con immensi problemi concreti che nessuno sta affrontando. In Europa cresce il timore per la vittoria finale delle "forze euroscettiche", il che avrebbe conseguenze a cascata negli altri paesi dell'Unione. Ma questa drammatica preoccupazione, la stessa che spinge Napolitano a intervenire con tono accorato, non sembra interessare i partiti.

Obiettivo "governo efficiente" ancora lontano
L'operazione Camera-Senato è stata brillante dal punto di vista della tattica parlamentare, ma non ha avvicinato di un passo la formazione di un governo efficiente, di taglio europeo. Al contrario, il Pd si prepara realmente a giocare le sue carte in una chiave molto di sinistra. Quanto a Grillo, cercherà di uscire dalle difficoltà accentuando il tasso di populismo. E i berlusconiani, guidati o no dal loro leader storico, tenderanno anch'essi a radicalizzarsi perché non sanno far politica altrimenti. Quanto a Monti, che doveva rappresentare in Italia lo spirito del Partito Popolare europeo, può solo riflettere sugli errori commessi, che almeno in questa fase lo hanno emarginato. Resta Matteo Renzi, l'uomo nuovo, la promessa della politica. Non è uscito bene nemmeno lui dalle ultime vicende. Costretto ad applaudire la Boldrini, ottima persona ma di sicuro assai distante da quelle idee liberaldemocratiche e moderate a cui s'ispira il sindaco di Firenze. Forse il rinnovamento del Pd è in atto, ma lungo un sentiero assai diverso da quello a cui alludeva Renzi. Bersani sembra aver preso gli argomenti dei renziani, ma per girarli tutti a suo vantaggio. E anche questo deve suggerire quale considerazione, non solo al giovane sindaco.

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« Risposta #109 inserito:: Marzo 21, 2013, 04:34:31 pm »

Crescono i dubbi di Bersani sull'incarico ma il Quirinale chiede chiarezza

di Stefano Folli

21 marzo 2013


Lo scenario è in evoluzione. Fino a tre giorni fa Bersani era determinato a procedere lungo la via del «governo del cambiamento»: in modo più che legittimo, vedeva se stesso come il leader del partito di maggioranza relativa, quindi il più titolato a raccogliere intorno alla sua proposta un sufficiente consenso parlamentare. È la tesi che ancora ieri Nichi Vendola rilanciava. La realtà però si sta rivelando assai più complessa. E per motivi non sempre lineari.

Diciamo che Bersani ha in mano delle carte troppo deboli per organizzare al Senato una qualsiasi maggioranza intorno a sé: inconsistente il filo con la Lega, illusoria la sponda dei "grillini" dissidenti. Al tempo stesso, dal Pdl a Monti si allarga il fronte che sarebbe favorevole, almeno sulla carta, a un esecutivo delle «larghe intese». Berlusconi lo chiama «governissimo», ma potrebbe trattarsi di un'ipotesi più blanda: magari solo il primo passo verso quell'esecutivo cosiddetto istituzionale che i giornali chiamano anche governo «del presidente».

Di fronte a questo groviglio in apparenza inestricabile, Bersani ha messo parecchia acqua nel suo vino. Non dice più «o il mio governo o niente». Affiora invece una tentazione a guadagnare tempo. Detto con una frase cortese e un po' ambigua, ad «affidarsi al capo dello Stato». Traducendo, significa che se Napolitano fra un paio di giorni decidesse di affidare un mandato esplorativo a una personalità istituzionale (e ovviamente il pensiero corre al presidente del Senato Grasso, l'uomo che sta bruciando tutte le tappe della carriera interna al palazzo), Bersani potrebbe trarre un sospiro di sollievo.

Naturalmente il segretario del Pd negherà di essersi sottratto al mandato che in precedenza aveva rivendicato con foga. Dirà che si tratta di una scelta del presidente della Repubblica, come accadde con Franco Marini nel 2008. Tuttavia a questo punto la questione è duplice. Primo, nel colloquio che avrà oggi con Bersani, il capo dello Stato avrà tutto il diritto di esigere chiarezza sulle intenzioni politiche del leader di maggioranza. Secondo, ci si deve domandare se perdere tempo servirebbe a qualcosa. Oggi proprio i due presidenti delle Camere hanno detto che è «urgente dare un governo al paese». Questa è la priorità e i due neoeletti riflettevano alla perfezione il pensiero di Napolitano. Ne deriva che, se Bersani non si ritiene in grado di assumere l'incarico, il percorso immaginato dal Quirinale potrebbe volgersi subito verso l'ipotesi di un governo istituzionale. Affidato a una figura neutra, forse in grado di formare un esecutivo – garantito dal capo dello Stato – fondato su pochi, essenziali punti programmatici (il governo «di scopo»).

È questo che il Pd è disposto ad accettare? Al momento non si direbbe, almeno non al prezzo di una sconfitta politica. Ed è qui che la matassa s'ingarbuglia. Nel partito di Bersani c'è una pericolosa, benché minoritaria, tendenza a scaricare sul Quirinale la tensione indotta da un rebus irrisolvibile, che forse era stato sottovalutato. Si ritiene che il problema sia Napolitano e non il sostanziale isolamento del partito. Si vuol credere che la soluzione sia quella di affrettare i tempi della successione presidenziale (ma non si può, salvo dimissioni dell'interessato). E si disegna l'identikit del prossimo presidente, nella segreta speranza che sia più conciliante dell'attuale. Soprattutto meno propenso a immaginare esecutivi istituzionali o di «larghe intese».

Se questa è la strada, il Pd rischia di trovarsi chiuso in un vicolo cieco. Sarà difficile dire «no» a un governo del presidente che nasca prima della metà di aprile. O dare l'impressione di boicottarlo quando l'Italia ha bisogno di scelte chiare. Ma sarà ancora più spiacevole far uscire allo scoperto la frizione con il presidente uscente.

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« Risposta #110 inserito:: Marzo 24, 2013, 05:14:00 pm »

Alla ricerca della coesione nazionale

di Stefano Folli

23 marzo 2013


Un passaggio politico fra i più oscuri ha trovato ieri sera un Napolitano che ne ha illuminato gli angoli con un puntiglio di cui ci sono pochi precedenti nelle cronache quirinalesche. Dopo giorni abbastanza confusi, tutti hanno potuto capire con dovizia di dettagli quali sono i limiti e il profilo dell'incarico (o meglio pre-incarico) affidato al segretario del Pd in quanto leader della coalizione di maggioranza relativa. Un leader che arriva provato, ma non rassegnato, alla meta. Forse perché i numeri elettorali sono deludenti: abbastanza buoni per rivendicare il diritto di provare, non sufficienti però a garantirgli il successo.
I governi nascono con il voto di fiducia in Parlamento, ha spiegato con fare pedagogico il presidente della Repubblica. E per la verità Bersani oggi non sembra avere molte frecce al suo arco. La maggioranza certa richiesta dal Quirinale è piuttosto una chimera. Ne è consapevole, il segretario del Pd? Non è facile dirlo. In ogni caso si è conquistato l'autorizzazione a guardare le carte e tirare le somme. Certo, il proposito di cominciare le consultazioni con le parti sociali è un segnale ambivalente. Nel senso che da sindacati e imprenditori il presidente pre-incaricato apprenderà quello che senza dubbio già conosce: e cioè che la situazione economica del paese è drammatica. E che all'Italia serve un governo in grado di attuare misure straordinarie per il lavoro e le imprese.
Il problema è che per dare forma a questo governo bisogna sciogliere senza perdere tempo nodi politici in apparenza irrisolvibili. Se ha un'idea in proposito, Bersani dovrà presto metterla sul tavolo: perché il tempo a sua disposizione non è illimitato, come Napolitano gli ha fatto intendere senza mezzi termini.

Diciamo che entro la metà della prossima settimana, e comunque prima di Pasqua, il pre-incaricato dovrà tornare al Quirinale con una risposta in tasca.
E dunque quello che davvero interessa, a partire da oggi o domani, saranno i contatti e i colloqui con i vari soggetti politici. Specie quelli di confine, da cui in teoria potrebbe venire qualche consenso (la Lega, i gruppi minori, tutti coloro che sentono il richiamo alla «responsabilità»). Ma si corre sul filo dello scetticismo. È come se Bersani avesse cominciato una gara il cui risultato è già scritto sul tabellone. Può ribaltare la realtà avversa, ma gli occorre una novità, una moneta di scambio. Uno soffio di vento per uscire dalle secche e veleggiare in mare aperto.
Per essere chiari, la condizione del pre-incaricato si può riassumere così. Il suo interlocutore privilegiato, il movimento Cinque Stelle, non sembra avere alcuna intenzione di dargli una mano. Grillo si considera un avversario storico di Bersani e i suoi seguaci insistono nel porre la questione dei rimborsi elettorali come premessa di qualsiasi negoziato (peraltro da trasmettere in diretta "streaming").
Poi c'è Monti, il cui appoggio è nell'ordine delle cose prevedibili. E infine ci sono Berlusconi e il Pdl. Il presidente della Repubblica ha lasciato capire in una forma esplicita che la grande coalizione sarebbe la soluzione più idonea per affrontare l'emergenza e anche per mettere in cantiere le riforme istituzionali urgenti (costi della politica, snellimento operativo, tagli, nuova legge elettorale). Ma poiché tale soluzione non è a portata di mano, occorre agire come se ci si trovasse nonostante tutto in quella condizione e con analogo spirito. All'interno di una cornice di coesione nazionale che vuol dire condivisione dei provvedimenti riformatori e grande equilibrio complessivo.

Su questo terreno Bersani sembra voler procedere con cautela, ma senza troppe esitazioni. Il suo problema è non precipitare nella trappola berlusconiana (il «governissimo») che il Partito Democratico non accetterebbe: e invece fermarsi in una stazione intermedia, immaginabile come una ragnatela di misure condivise alle quali corrisponderebbe un minimo di appoggio parlamentare da parte del centrodestra, magari grazie ai leghisti di Maroni. Per Bersani questo scenario idilliaco rappresenta l'unica speranza. Anzi, data la situazione sarebbe un successo eccezionale: la differenza fra il fallimento dell'incarico e la nascita del governo Bersani. Niente larghe intese dichiarate, ma una tortuosa piattaforma a metà del guado. Qualcosa che ricorda la «strana maggioranza» che ha sostenuto Monti per più di un anno.
In questa ipotesi Bersani riuscirebbe a tenere unito il partito; e financo a riceverne l'applauso. Viceversa un insuccesso al termine del pre-incarico darebbe la stura a tutto il malcontento che nel Pd oggi cova sotto la cenere. In ogni caso è chiaro che Napolitano andrà avanti, ben deciso a giocare la partita istituzionale fino all'ultimo giorno utile. Se Bersani uscirà di scena, rinunciando saggiamente ad alimentare qualsiasi tensione con il Quirinale, il tema delle larghe intese rimarrà sul tavolo. Declinato però nella forma più neutra del «governo del presidente». Pochi punti programmatici chiari e una missione: evitare il rapido ritorno alle elezioni.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-23/alla-ricerca-coesione-nazionale-081034.shtml?uuid=Aba2JrgH
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« Risposta #111 inserito:: Marzo 28, 2013, 06:37:46 pm »

Le ultime carte sul tavolo, prima del «governo del Presidente»

di Stefano Folli

28 marzo 2013

Ora che Bersani si appresta a salire al Quirinale, ci si interroga sulla "convenzione" per le riforme, vale a dire la forma concreta di quel doppio binario o doppio registro parlamentare in cui fin dall'inizio si è cercato di vedere una delle chiavi risolutive della crisi. È l'unica proposta emersa nel corso delle consultazioni, l'unica a cui agganciare un'ipotesi di accordo a largo spettro. Che potrebbe, chissà, anche comprendere il nome del successore di Napolitano.

«Convenzione» è termine che allude a esperienze del passato, per la verità poco positive: la Bicamerale degli anni Novanta era a suo modo una "convenzione", ma sappiamo come è finita. Più volte si è parlato dell'opportunità di affiancare alla normale attività parlamentare un'assemblea costituente, incaricata di redigere in tempi stretti una bozza di riforma costituzionale.

L'organismo suggerito da Bersani, aperto anche a «personalità esterne», è parente stretto delle bicamerali del passato: destinato a mettere a punto in un anno un progetto riformatore che il Parlamento voterebbe in base al principio "prendere o lasciare". Ignorando i precedenti poco incoraggianti, lo schema sembra oggi l'unica carta ragionevole per tentar di sbloccare la paralisi. Fermo restando che a ieri sera il presidente pre-incaricato non disponeva di numeri affidabili per andare alle Camere. In apparenza quindi il suo tentativo parrebbe non avere sbocchi. Tuttavia il filo sottile della "convenzione" costituisce uno spicchio di novità. Soprattutto perché Maroni vi si è riconosciuto con una certa decisione. E la Lega è pur sempre la principale speranza di Bersani, dopo il fallimento del lungo sforzo di seduzione dei Cinque Stelle.

Maroni, che non vuole altri esecutivi tecnici, è un obiettivo alleato del segretario del Pd nella lotta contro il tempo per evitare il «governo del presidente», cioè lo scenario non politico ma istituzionale. Ma basta questo per trovare i fatidici numeri? O siamo in presenza di un andirivieni di corto respiro in cui manca la voce del principale giocatore, Berlusconi? Lo sapremo presto, anche perché la "convenzione" ha bisogno di precise condizioni per essere credibile. La prima: deve essere una strada per "legittimare" i vari gruppi parlamentari. L'assenso di Berlusconi è senza dubbio subordinato a questa prospettiva di legittimazione finale di se stesso. Senza un tale impegno non è verosimile che la convenzione possa lavorare in serenità e che le sue proposte siano recepite dalle Camere.

Ma è plausibile oggi questo salto verso la «coesione nazionale» tante volte chiesta dal capo dello Stato? Non è chiaro. Certo, Bersani è disposto a offrire tutte le assicurazioni del mondo pur di essere mandato in Parlamento da Napolitano. Ma forse occorrerebbe un più solenne e trasversale consenso intorno alla convenzione. Una solennità che dovrebbe fornire la cifra dell'operazione ed esprimere un primo gesto di riconciliazione. Per ora siamo lontani.

In secondo luogo, l'intesa dovrebbe portare con sé una stretta di mano fra le maggiori forze sul nome del presidente della Repubblica. Non è verosimile che da un lato si crei una mini-assemblea costituente e dall'altra ci si dilani sull'elezione del capo dello Stato. Ed è ovvio che l'accordo dovrebbe riguardare una figura con le stesse qualità di equilibrio e di sensibilità mostrate negli anni da Napolitano. Una figura da eleggere alla prima votazione. Anche qui finora molte parole e pochi fatti.

Terzo, una dichiarazione esplicita dovrebbe venire anche da quei gruppi (Lega o altri) che vogliono orientarsi all'astensione o all'appoggio esterno per consentire la nascita del governo Bersani. La soluzione è ardita e comunque debole, non può passare come un sotterfugio opaco. Non sarebbe il modo migliore per garantire la compattezza del Pd.
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« Risposta #112 inserito:: Marzo 30, 2013, 11:27:24 pm »

Elezioni più lontane, una cornice per il successore

di Stefano Folli

30 marzo 2013


Non è la fuoriuscita dallo stallo, bensì un colpo di fantasia all'interno di una condizione di stallo. Un modo per giocare al meglio le poche carte rimaste in mano nel tentativo di non arrendersi a una paralisi distruttiva. Il comunicato letto dal presidente della Repubblica sembra avere due destinatari, all'estero e in patria.

All'estero il messaggio di Napolitano vuole essere rassicurante, in vista della riapertura dei mercati martedì. In primo luogo, non ci sono le dimissioni del presidente della Repubblica, ventilate stamane da tutti gli organi di stampa come conseguenza del vicolo cieco. Ma un tale gesto avrebbe avuto l'effetto di gettare benzina sul fuoco, trasmettendo l'idea di un paese allo sbando. Napolitano lo ha evitato e ha messo in chiaro che resterà al suo posto "fino all'ultimo giorno del mandato". E' quello che tutti gli operatori economici si auguravano.

In secondo luogo, il capo dello Stato ha voluto rammentare che un governo in carica esiste ed è quello di Monti. Ha sorvolato sul fatto che tale esecutivo, a norma di Costituzione, si occupa solo dell'ordinaria amministrazione e ha invece sottolineato che si appresta a prendere importanti provvedimenti economici. C'è l'evidente volontà di valorizzare l'esperienza e la credibilità internazionale di Monti per far sapere al mondo che l'Italia non è esattamente senza governo. Uno c'è ed è in grado di operare. È un'interpretazione innovativa della prassi, ma siamo in emergenza e Napolitano non si tira indietro.

Verso l'interno il messaggio è più complesso. Da un lato, si coglie un notevole rispetto verso il Movimento Cinque Stelle, nel momento in cui il presidente ha riconosciuto di fatto che il Parlamento entro certi limiti può operare da subito, anche prima che siano definiti i ruoli di maggioranza e di opposizione, con tutte le conseguenze istituzionali che ne derivano. Ma il nocciolo della questione è un altro. I due comitati di "saggi" servono a creare una cornice condivisa sui temi programmatici. In sostanza è come se Napolitano dicesse: non avete voluto un governo di coesione nazionale, nemmeno nella versione "soft" del cosiddetto governo del presidente, E sta bene. Ma io non posso rinunciare a consegnare al Parlamento e anche al mio successore un equilibrio politico-istituzionale. Che è fatto di cose essenziali.

Primo, due grandi partiti, Pdl e Pd, che si parlano fra loro e, pur non condividendo l'esecutivo (ma votando insieme le misure del superstite esecutivo Monti), tuttavia cercano e trovano punti di convergenza programmatica Secondo, una scaletta di interventi riformatori plausibili e condivisi, in ordine al rinnovamento istituzionale e al risanamento economico (compreso il punto cruciale della legge elettorale). Terzo, un'indicazione precisa su quali sono gli uomini e le donne in grado di rappresentare al meglio questo equilibrio. E infatti nei due gruppi di saggi si può presumere di trovare l'identikit del prossimo primo ministro e soprattutto del prossimo presidente della Repubblica. Se la cornice tiene e se nessuno dei maggiori partiti la spezza, è chiaro che il doppio comitato diventa il substrato su cui ricostruire l'assetto istituzionale del paese. Non un governo di larghe intese, ma un nuovo clima politico.

Nel frattempo le elezioni anticipate sono rinviate in avanti, forse di parecchio. Sarebbero state probabili, e in un'atmosfera stile Weimar, se si fosse creato oggi un totale vuoto di potere. In tal modo, invece, il successore di Napolitano potrà ripartire dal lavoro dei saggi (lui stesso con ogni probabilità sarà uno di questi) e in ogni caso non ci saranno più i tempi per votare a giugno. Questo è il punto politico più stringente della mossa del capo dello Stato. Ma il più rilevante è proprio la volontà di creare un'architettura solida, partendo dai poveri materiali a disposizione, in grado di mettere sulla strada giusta il Parlamento e di non disperdere il patrimonio di equilibrio costituito in questi anni dall'istituto di garanzia del Quirinale. All'ombra di tale scenario, i partiti potranno riflettere sui loro errori. Tutti, a partire dal Partito Democratico.


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« Risposta #113 inserito:: Aprile 01, 2013, 06:12:19 pm »

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Nuovo governo: lo stallo conviene a tutti, anche a Grillo

di Stefano Feltri | 30 marzo 2013


Sorpresa: il nuovo governo non ci sarà. E quello di Mario Monti, ormai un esecutivo-zombie, un po’ morto ma non del tutto, durerà almeno fino a maggio. Ma più probabilmente fino a luglio, o addirittura a ottobre, chissà.

Il 15 aprile si comincia a scegliere il nuovo capo dello Stato. Che dovrebbe insediarsi dal 15 maggio. A quel punto il mister (o Mrs) X che sarà al Quirinale, riceverà Monti. Il premier rimetterà il mandato – di nuovo – e il capo dello Stato dovrà decidere che fare. Potrà nominare un “governo del Presidente” che abbia come programma quello minimo elaborato – si spera – dai saggi che Giorgio Napolitano ha indicato oggi. Oppure dovrà rassegnarsi a sciogliere le Camere. E i tecnici di Monti rimarranno nel frattempo ancora in carica per gli affari correnti, attraversando così tre legislature.

Sembra un disastro? In realtà questo scenario va bene a tutti. Vediamo perché.

Silvio Berlusconi. Si presenta come uomo di Stato, è lui il vero “responsabile” che è pronto a far nascere ogni governo, era disposto a votare perfino Bersani. Nel caos attuale, può presentarsi come l’usato sicuro, deludente, certo, ma sempre meglio dei pasticcioni apparsi in seguito alla sua dipartita (tanto gli italiani hanno memoria breve, non si ricordano già più il Bunga Bunga e il default imminente). In questa fase di negoziato permanente, il Cavaliere sa di essere un interlocutore per tutti, uno dei pochi punti fermi. E quindi, spera, le Procure non oseranno chiedere il suo arresto, i giudici saranno più miti, il Pd abbandonerà ogni intransigenza e archivierà sia il proposito di renderlo ineleggibile che quello di fare una vera legge sul conflitto di interessi.

Beppe Grillo. La sua è stata una profezia che si è auto-avverata: alla fine ci sarà la grande coalizione, o almeno questo è il tentativo, tra Pd e Pdl. Non per colpa della malasorte o per un disegno preciso del Pd, quanto per esclusiva responsabilità di Grillo. Il leader del Movimento a 5 stelle ha boicottato sia l’ipotesi di un accordo politico con i democratici perché, legittimamente, non poteva accordarsi con un avversario politico diretto come Pier Luigi Bersani. Ma ha affossato anche l’ipotesi del “governo dei migliori”, quello che sarebbe stato guidato da un Rodotà o Zagrebelsky e che avrebbe realizzato una buona parte del programma a Cinque Stelle. Ora Grillo è nella condizione che sperava: opposizione pura, anti-sistema, contro tutti, senza sfumature. Da lì spera di aumentare ancora i consensi, sempre che le gaffe e l’inadeguatezza manifestata finora dai suoi parlamentari, a cominciare dai capigruppo, non portino a una rapida disillusione degli elettori. Adesso il Movimento è sicuro che praticamente tutto il suo programma rimarrà su carta e che non si verificheranno più situazioni tipo quella che ha spinto alcuni deputati grillini a votare Pietro Grasso alla presidenza della Camera. Una vittoria tattica, al prezzo di una sconfitta strategica.

Mario Monti. Il premier in carica non ha più niente da perdere. Non si ricandiderà mai, il suo partito è nato morto, dopo un risultato elettorale pessimo. Al momento è fuori dalla corsa per il Quirinale. Quindi a lui va benissimo rimanere in carica e gestire il complesso avvio del “semestre europeo”, cioè definire di raccordo con Bruxelles il bilancio dell’Italia per il 2014. Rimane in carica, ri-legittimato dal Quirinale dopo che il ministro degli Esteri Giulio Terzi, probabilmente per ambizioni personali, si è dimesso per il caso marò creando un danno di immagine notevole. Il Professore è anche ministro degli Esteri ad interim, cosa che gli assicura il massimo della visibilità internazionale in questa fase. Può recuperare il suo ruolo di garante della politica italiana davanti a mercati e partner internazionali. Potrebbe guadagnarsi una riconferma nel prossimo governo, magari guidare lui un eventuale esecutivo del presidente (scelto dal prossimo capo dello Stato) o avere la presidenza del Consiglio europeo nel 2014.

Pier Luigi Bersani. Politicamente è morto. Ma poteva andare perfino peggio. Se Napolitano avesse provato subito con un governo del presidente, magari con un nome interessante, il Pd avrebbe potuto spaccarsi. Una parte a sostegno del governo, un’altra col segretario. Adesso Bersani guadagna tempo: può cercare di gestire la successione alla segreteria del Pd, tutelando il suo gruppo dirigente di fedelissimi (da sempre una priorità per Bersani). Ha anche la possibilità di accompagnare Renzi alla candidatura a premier o alla segreteria, evitando lacerazioni nel partito. Cosa che aiuterà il Pd a restare compatto ma ridurrà di molto l’appeal del rottamatore. Formalmente è ancora il premier incaricato, ma le probabilità che al termine del lavoro dei saggi e dopo il voto al Colle riesca davvero a diventare presidente del Consiglio sono molto vicine allo zero.

Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze temeva di bruciarsi in questa fase di transizione. Si è solo un po’ strinato, il suo nome è circolato troppo. Comunque sia, ora è considerato il salvatore (del Pd, del Paese, della democrazia…). E non solo dagli elettori del Pd. Potrebbe vincere per acclamazione, anche oltre i suoi meriti. Il protrarsi del vuoto di potere è la condizione ideale per rafforzare la presa sul partito e chiarirsi le idee sulla strategia da seguire per arrivare a palazzo Chigi senza ripetere gli stessi errori di Grillo (squadra non all’altezza, difficoltà di comunicazione, programma vago ecc.).

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« Risposta #114 inserito:: Aprile 01, 2013, 06:29:08 pm »

Un quadro per il governo del presidente (futuro)

di Stefano Folli

31 marzo 2013


Anche chi guarda con qualche scetticismo all'idea dei due gruppi di studio sulle riforme - soprattutto per i risultati pratici che ne possono derivare - ammette che Giorgio Napolitano ha dato prova una volta di più di fantasia politica.
Lo stallo in cui siamo immersi rimane tale, ma lo sforzo del Quirinale è un messaggio di ottimismo da parte di chi non si arrende alla paralisi.

Un messaggio che vale soprattutto per quello che sottintende.
Del resto, non dimentichiamo che la giornata era cominciata in un'atmosfera cupa. La sola ipotesi che il presidente pensasse a dimettersi (fa poca differenza se per scoramento o desiderio di esercitare pressione sulle forze politiche) aveva messo in agitazione il mondo dell'economia, agghiacciato al pensiero di cosa sarebbe successo martedì alla riapertura dei mercati. Quando si è capito, dalle battute iniziali del comunicato letto in prima persona dal capo dello Stato, che il rischio era svanito, tutti hanno tratto un sospiro di sollievo.
E quando Napolitano ha richiamato in vita il governo Monti (in fondo «mai sfiduciato dalle Camere») si è capito che stava mandando un segnale positivo all'Europa, sempre con l'intenzione di rabbonire a breve le Borse. Certo, non è una prova di forza del nostro sistema: nessuno poteva e può crederlo. Ma all'interno di una grave debolezza, cioè di uno stallo, Napolitano ha giocato fino in fondo le carte di cui disponeva. Non potendo formare un nuovo governo con un nuovo premier, causa il groviglio dei veti incrociati, ha evitato altri traumi e ha fatto ricorso alla fantasia istituzionale.

A quel punto dal cilindro presidenziale sono usciti i «saggi». Tutti uomini e nessuna donna, probabilmente per una svista che ci voleva poco a evitare. Saggi la cui funzione va misurata in termini politici più che di merito. Nel senso che non è troppo difficile fare l'elenco delle riforme urgenti (a cominciare da quella elettorale), mentre è pressoché impossibile individuare la cornice politica per trasformare quelle riforme in leggi. Difficile credere che, avendo fallito la ricerca di una maggioranza - politica o istituzionale -, i partiti accetterebbero di buon grado il lavoro dei saggi. Tuttavia i due comitati potrebbero giocarsi la loro partita sui tempi medi: nel giro di qualche mese potrebbero favorire un certo qual disgelo fra destra e sinistra. Per cui ciò che è stato impossibile all'ultimo Napolitano (restituire un governo al paese fondato su un progetto condiviso), potrebbe riuscire al suo successore.

È chiaro allora che l'idea del doppio comitato va decifrata sullo sfondo della battaglia per il Quirinale. In questi anni Napolitano ha svolto quel ruolo di equilibrio e di garanzia che gli viene largamente riconosciuto. Oggi il suo ultimo impegno consiste, come è evidente, nel salvare le condizioni affinché il prossimo inquilino del Colle possa muoversi in una linea di sostanziale continuità con il settennato che ora si conclude.
Il piano dei due gruppi di studio, quasi una mini-bicamerale costruita in tutta fretta sotto l'ombrello presidenziale, prevede, sì, un lavoro che sarà consegnato al Parlamento e al prossimo capo dello Stato. Ma è soprattutto il tentativo di puntellare un quadro politico-costituzionale fondato sulla speranza di un confronto rispettoso fra centrosinistra e centrodestra. È in quel quadro che sarà più facile (non scontato, ma più facile) individuare il volto del successore di Napolitano. E magari eleggerlo con una maggioranza più larga di quella da cui scaturì l'attuale presidente della Repubblica.

Era prevedibile che saremmo arrivati a questo: a mettere la scelta del capo dello Stato avanti a tutto, vero nodo politico preliminare a tutto. Il gioco è ancora in una fase tattica, eppure mai come stavolta l'elezione del presidente avrà effetti che si prolungheranno nel tempo e daranno l'impronta ai rapporti politici.

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« Risposta #115 inserito:: Aprile 04, 2013, 11:47:48 pm »

Dietro le inutili polemiche sui «saggi» si prepara la battaglia del Quirinale

di Stefano Folli

2 aprile 2013

Per quanto possa sembrare paradossale, la polemica sui cosiddetti "saggi" prosegue ed è ormai diventata la metafora del cortocircuito permanente in cui si avvita l'Italia politica. Peraltro la crisi, come è ovvio, stinge sulle istituzioni, amareggia le ultime settimane di Napolitano e rischia di rendere ancora più complicata per il Parlamento la scelta del successore. Sui "saggi" (in realtà figure con specifiche competenze, come è stato chiarito dal Quirinale) si sono scaricate tensioni che hanno cause politiche precise.

Esse nascono dallo stallo in cui ci troviamo, visto che al presidente non è stato permesso di superare la giostra dei veti provenienti da Pdl e Pd (e a suo modo, naturalmente, anche dal movimento di Grillo).
I dieci saggi sono solo un modo, non sappiamo quanto efficace, per guardare al domani. O meglio, come si detto, per creare un ponte offerto al prossimo presidente e fondato su punti di programma condivisi. Ma naturalmente questo non basta alla vigilia della seduta comune del Parlamento che dovrà eleggere il nuovo capo dello Stato. Non basta perché ad alcuni, a Berlusconi in primo luogo, sembra un'iniziativa al tempo stesso insufficiente e pericolosa. Insufficiente perché il leader del Pdl è ancorato alla sua alternativa secca "o grande coalizione o voto anticipato". E proprio in omaggio a tale aut-aut ha fatto saltare l'ipotesi più realistica che si era affacciata nei giorni scorsi: quel "governo del presidente" che non era un altro esecutivo "tecnico", bensì una soluzione a forte caratura istituzionale che avrebbe permesso un'alleanza morbida, priva di un vero e proprio patto politico, fra centrosinistra e centrodestra.

Il Pd alla fine si era piegato, una volta smaltita la delusione per il fallito tentativo di Bersani. Invece Berlusconi si è impuntato, senza dubbio perché la tentazione di un ritorno alle urne è in lui sempre più forte. Nonostante che i sondaggi, a dire il vero, non gli garantiscano affatto la ragionevole certezza di un successo in entrambe le Camere. Insomma, è alta la probabilità che ci si trovi poi nella stessa ingovernabilità di oggi. Uno scenario che comincia ad assomigliare in forme inquietanti a quello che accadde nella repubblica tedesca di Weimar. Quando si votava e si rivotava, e intanto si sprofondava nella palude dell'impotenza.
In ogni caso a Berlusconi e Alfano la mossa di Napolitano appare anche pericolosa, perché vi leggono un tentativo di guadagnare tempo, di allontanare le elezioni e magari di staccare la Lega dal partito berlusconiano. Quella Lega di cui è espressione Giorgetti, citato dal capo dello Stato come ispiratore - in parte - del doppio comitato di studio. Del resto, è facile immaginare che i leghisti di Maroni non siano affatto entusiasti dell'idea di precipitarsi di nuovo alle urne, in un eterno duello stile Ok Corral.

Alfano afferma che «la casa brucia» e quindi Napolitano dovrebbe riprendere le consultazioni. Tuttavia egli stesso, insieme alla controparte, ha dato il suo contributo affinché la crisi non trovasse alcuna soluzione. Oggi è facile prendersela con i saggi, ma il vero nodo è la sfida per la presidenza della Repubblica. Le attuali sono solo scaramucce in vista della battaglia che comincerà subito dopo il 15 aprile. E il rischio è che il Parlamento non riesca a scegliere. O a scegliere bene. Il ruolo di equilibrio del Quirinale nel cortocircuito italiano è troppo prezioso per comprometterlo con miopia politica.

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« Risposta #116 inserito:: Aprile 04, 2013, 11:54:11 pm »

Le impazienze di Renzi, i nodi di Grillo all'ombra della sfida per il Quirinale

il Punto di Stefano Folli

4 aprile 2013Commenta


Come è ovvio, la semi-paralisi dei due partiti maggiori offre il palcoscenico ad altri protagonisti. Non c'è dubbio che lo stallo determini una condizione favorevole a chi vuole usare il grimaldello (o l'apriscatole). Benché poi nella realtà ognuno di questi nuovi protagonisti deve a sua volta decidere quale parte recitare nella commedia.

Nemmeno Grillo sfugge alla regola. È evidente che la sua perorazione contro qualsiasi accordo di governo con il Pd di Bersani è lo specchio di una crescente difficoltà interna. Se il leader ha bisogno di alzare i toni e di minacciare in modo implicito i dissidenti pro-Pd, vuol dire che le incertezze fra i Cinque Stelle sono sempre più diffuse. La questione non si pone oggi, ma si porrà di sicuro all'indomani dell'elezione del nuovo capo dello Stato, quando si dovrà affrontare il destino della legislatura. È chiaro infatti che Grillo non sta parlando del Quirinale. Il suo anatema riguarda il piano del governo. Il capo carismatico vuole evitare che una buona fetta dei suoi parlamentari, specie a Palazzo Madama, corrano domani in soccorso al leader del Pd che non ha dismesso il piano di presentarsi in Parlamento, appena le circostanze lo favoriranno, in cerca di un voto di fiducia.

È a quell'appuntamento insidioso che guarda Grillo. Invece sul versante del Quirinale la partita è un'altra e i Cinque Stelle, se appena conservano un po' di razionalità, hanno tutto l'interesse a farsi coinvolgere nella scelta del presidente della Repubblica. Tanto più che essi hanno la possibilità di essere decisivi dalla quarta votazione in poi. Tuttavia è pur vero (e forse Grillo pensava anche a questo aspetto) che una cosa porta all'altra: far eleggere un capo dello Stato in "tandem" con Bersani crea le condizioni oggettive perché subito dopo si ponga il problema di votare insieme per il governo. Certo, si può dire «no» tenendo separate le due questioni, come vorrebbe il leader dei Cinque Stelle. Ma la questione in effetti si pone e non è di facile soluzione. Proprio perché tende ad approfondire tutte le divergenze dentro il movimento.

L'altro protagonista che sta rialzando la testa è Matteo Renzi. La sua analisi sulla politica che «perde tempo» non è nuovissima, ma oggi sembra inedita perché ha il sapore di una risposta alle inquietudini che serpeggiano nel Pd dopo la mezza delusione elettorale e il mancato successo di Bersani pre-incaricato. Peraltro Renzi tradisce anche un'ansia personale: forse è lui che teme di perdere tempo, o addirittura di perdere il treno del cambiamento. Da tutti invocato come il salvatore del centrosinistra, nessuno sa in realtà come dovrebbe avvenire la sua scalata al vertice del partito. Bersani non pare avere molta voglia di agevolarlo e il percorso delle future "primarie" è disseminato di mille ostacoli. Come l'altra volta.

Di sicuro anche il sindaco di Firenze terrà gli occhi aperti sulla sfida del Quirinale. È essenziale per lui capire con quale formula sarà eletto il capo dello Stato: perché da lì si capirà quante carte avrà ancora in mano Bersani. E non c'è da attendere molto, visto che il Parlamento voterà fra due settimane. Non a caso l'uscita della Carfagna, portavoce del Pdl alla Camera, a favore della candidatura di Emma Bonino ha tutta l'aria di un «ballon d'essai» con cui il centrodestra tenta di uscire dall'angolo. È un nome, quello dell'ex commissario europeo, su cui il Pd è costretto a riflettere con attenzione.

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« Risposta #117 inserito:: Aprile 10, 2013, 06:46:09 pm »

Tra Bersani e Berlusconi un filo sottile

di Stefano Folli con un articolo di Emilia Patta

10 aprile 2013


Il discorso sul metodo. Non quello di Cartesio, bensì quello di Bersani. Molto meno limpido del primo per l'opinione pubblica che vede trascorrere mestamente i giorni: senza governo e finora senza un nome certo per il Quirinale. Sotto questo aspetto il fatidico colloquio con Berlusconi non ha dato risultati definiti. È stato appunto interlocutorio e non poteva essere altrimenti. Un'analisi circa il metodo utile a eleggere in modo condiviso il capo dello Stato. Qualcosa su cui è difficile non essere d'accordo, ma poi servono i fatti.

I fatti per adesso sono che Bersani ha ripreso una parvenza d'iniziativa. Appariva chiuso in un angolo. Alle prese con un malessere interno al Pd che senza dubbio esiste, ma la cui unica cura consiste nel muoversi con dinamismo e una certa lungimiranza lungo la rotta del Quirinale. A un mese e mezzo dal risultato del voto è dura per il comune cittadino, per l'imprenditore e il lavoratore accettare come ineluttabile la mancanza di un esecutivo e persino di un'idea chiara sul capo dello Stato.

Inutile a questo punto caricare di significati eccessivi un colloquio che appartiene alle normali procedure istituzionali. E la cui lettura «politica» dipende dall'interesse di ciascuna parte. A Bersani serviva soprattutto rompere il ghiaccio, mostrarsi come colui che tesse il filo del negoziato (vero o apparente) in qualità di leader di maggioranza e naturalmente escludere il nesso diretto fra elezione del capo dello Stato e successiva formazione di una maggioranza parlamentare. E infatti dopo aver visto Berlusconi si è affrettato a precisare: «No al governissimo». Che nessuno coltivi strane idee nel centrosinistra: incontrare l'avversario storico non vuol dire prepararsi a condividere una piattaforma di governo.

Quanto a Berlusconi, l'incontro gli è servito più che altro per dimostrarsi razionale e conciliante. La linea "istituzionale" inaugurata da qualche settimana passa anche di qui. Del resto Berlusconi è il fautore della «grande coalizione» in stile tedesco e poco importa se pochi credono, forse nemmeno lui, alla reale praticabilità di un simile patto. La rotta politica del centrodestra sull'asse Quirinale-governo è chiara. E in fondo il consiglio venuto da Napolitano, quando ha evocato il «coraggio» di Dc e Pci nel 1976, può essere utile in questa fase più a Berlusconi che a Bersani. Perché suggerisce il modo per dare un governo al paese senza tradire lo spirito delle «larghe intese», ma senza legarsi le mani invocando il famoso «governissimo» che risulta irrealistico.

Il problema è cosa ottiene Berlusconi da un eventuale patto con il Pd. Vediamo. In primo luogo l'ex premier può ottenere di eleggere in condominio un presidente della Repubblica «garantista» nei suoi confronti come lo è stato Napolitano. Non è poco. Da questi non potrebbe attendersi, come è ovvio, alcuna forzatura costituzionale, ma si sentirebbe tutelato da una figura di equilibrio.

In secondo luogo, Berlusconi sarebbe coinvolto nel processo di rinnovamento costituzionale che tutti si augurano possibile. Bersani è prodigo di promesse al riguardo. Ma qui c'è un nodo da sciogliere. Il «cambiamento» più volte citato da Bersani non può consistere in un gioco di parole.
O magari in un governo malfermo sulle gambe, benché guidato dal leader del Pd. La garanzia sarebbe data invece da un vero patto sulle riforme. Con il Pdl e con tutte le forze parlamentari che vi si riconoscono. E il cambiamento deve comportare una riforma della legge elettorale, certo, accompagnata però da una revisione della Costituzione tale da rinforzare i poteri del capo dello Stato, fino a consentirne l'elezione popolare diretta. I tempi sono maturi, anche perché sarebbe questa la strada più lineare per avere il doppio turno elettorale come in Francia.


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« Risposta #118 inserito:: Aprile 11, 2013, 11:47:38 am »

Quirinale, manca una settimana all'ora della verità e il Pd tende a lacerarsi

di Stefano Folli. Con un articolo di Emilia Patta

11 aprile 2013

Ha ragione Romano Prodi: nella gara del Quirinale vince chi subisce meno veti. Non conta tanto l'ampiezza del consenso, quanto la capacità di ridurre l'area dei dissensi e delle inimicizie. È un punto cruciale e rappresenta un ulteriore fattore d'incertezza, oltre a quelli legati alla bonaccia generale in cui annaspiamo. Emma Bonino, ad esempio, è un nome stimato, il suo profilo istituzionale è ineccepibile.

Nei sondaggi dei giornali è sempre al primo posto, come dire che sul piano mediatico non ha rivali. Eppure, o forse proprio per questo, i partiti sono molto diffidenti nei suoi confronti: talvolta il nome affiora e resta nell'aria per qualche ora, poi svanisce. Viceversa resta ben saldo nell'opinione pubblica. Esempio significativo dello scollamento fra politica e senso comune, come corollario allo stallo delle decisioni.

Si dice: ma una trattativa sta correndo sotto traccia, non è poi vero che le distanze fra i due maggiori schieramenti, Pd e Pdl, siano tanto ampie. Sarà pure, ma l'impressione è desolante. Manca una settimana all'inizio delle votazioni e la questione di fondo si può riassumere così. Un paese che da un mese e mezzo è senza governo (salvo l'ordinaria amministrazione affidata a Monti) è in grado di affrontare il disordine parlamentare che potrebbe prolungarsi per giorni e che sarebbe inevitabile se si arrivasse al 18 aprile senza un'intesa?

Probabilmente no. Del resto, tale intesa non può riguardare solo i criteri complessivi dell'elezione e magari il generico identikit del candidato ideale. Entro il 18 un eventuale accordo deve per forza comprendere anche il nome e il volto della persona (donna o uomo) che si vuole portare al Quirinale. Perché il senso di questa lunga fase preparatoria, che in verità assomiglia a una stasi estenuante, contiene una secca alternativa: o il capo dello Stato viene eletto entro le prime tre votazioni con la maggioranza dei due terzi (quindi sulla base di un patto leale fra Pd e Pdl), ovvero si entra in un tunnel dove può accadere di tutto.

Ora la domanda è: un Partito Democratico profondamente lacerato, come dimostra l'esplosione del contrasto fra Renzi e il vertice bersaniano, è in grado di onorare un accordo con il centrodestra senza frantumarsi? Sotto questo aspetto l'esclusione del sindaco di Firenze dal terzetto dei grandi elettori della regione Toscana, è peggio che un errore. È una dimostrazione di miopia che può avere serie conseguenze in una situazione già arroventata.

A sua volta Berlusconi vorrà sedersi sulla riva del fiume e attendere? Ma il rischio è che si finisca nella "roulette" della quarta votazione (e successive), quando basterà la maggioranza assoluta. Nei primi tre scrutini il leader del centrodestra è in grado di eleggere un candidato di equilibrio a lui gradito, purché non insista troppo sulla richiesta di un governo di grande coalizione. In seguito il quadro cambia e i Cinque Stelle entreranno in campo per ribaltare i giochi e forse diventare decisivi nella scelta di un presidente "innovativo". Il che contribuirebbe senza dubbio a spaccare il Pd.

Per farla breve, manca ancora una settimana. L'abilità consiste nel trovare un candidato che non abbia un numero esagerato di nemici e non sia sommerso dai veti. Se poi sarà una donna (Bonino, Severino, Cancellieri, Finocchiaro), diventerà "ipso facto" l'emblema del cambiamento.

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« Risposta #119 inserito:: Aprile 17, 2013, 11:50:21 am »

Grillo ha una strategia ma Pd e Pdl possono chiudere la partita (se riescono)

di Stefano Folli

17 aprile 2013


Siamo arrivati al nocciolo della questione. Un sistema malandato, che Giorgio Napolitano ha tenuto in linea di galleggiamento solo grazie alla sua personalità e al suo prestigio, cerca un punto di equilibrio immaginando un "nuovo" Napolitano, qualcuno capace d'interpretare il medesimo ruolo svolto per sette anni dal capo dello Stato uscente. Nel frattempo la crisi è precipitata, le istituzioni sono sfibrate e tutto è molto più difficile che nel 2006.

Non a caso è fiorito il fenomeno anti-sistema di Beppe Grillo, il quale ora sta giocando le sue carte con una certa abilità e con l'obiettivo di scompaginare quel che resta di un vecchio assetto politico-istituzionale.

L'idea di puntare su Milena Gabanelli, eccellente giornalista televisiva d'inchiesta, facendo di lei la "bandiera" dei Cinque Stelle (anche se è persona estranea al movimento), contiene in sé un paio di evidenti significati. Il primo è che Grillo vuole marcare la distanza fra sé e l'asse del compromesso Pd-Pdl. Lui è l'unico puro rispetto alle sordide manovre dei politici. Lui presenta un nome fresco e innovativo rispetto ai personaggi "del passato", quali Amato, Marini o altri. Siamo alla ripresa in grande stile della campagna anti-casta e contro qualsiasi intesa che si proponga di gestire gli equilibri istituzionali. La potremmo definire la seconda fase della "rivoluzione" grillina, anche se nessuno sa bene cosa ci sia dietro l'angolo.

Secondo, la Gabanelli resta pur sempre un nome simbolico. All'occorrenza, magari dopo le prime votazioni, può lasciare il posto a un volto più adatto al Quirinale, assai meglio attrezzato dal punto di vista giuridico e dunque più capace di sedurre la vasta platea parlamentare del centrosinistra. In una parola, un nome eleggibile. Del resto, Stefano Rodotà è terzo nella peculiare graduatoria web dei Cinque Stelle.
E Rodotà è un nome che può incunearsi con una certa facilità nelle contraddizioni interne del Partito Democratico. Può dividerlo facendo intravedere che "un altro Quirinale è possibile", che non è obbligatorio scegliere il capo dello Stato attraverso un accordo più o meno misterioso con Berlusconi.

S'intende, questo messaggio è distruttivo per il Pd di Bersani. Difficile prevedere nel dettaglio quali sarebbero le conseguenze di una strategia grillina vittoriosa, ma c'è da aspettarsi che siano clamorose e destabilizzanti. Se Grillo vuole scardinare il centrosinistra, ha imboccato la strada giusta. Può offrire prima o poi ai "grandi elettori" un nome alternativo e confidare sulla scarsa compattezza dei gruppi parlamentari.
Come si reagisce a questo disegno? Intanto prendendo nota di quello che ha detto ieri Napolitano commentando la strage di Boston: l'Italia non può isolarsi, non può rinchiudersi in se stessa e nelle proprie inquietudini. Come dire che il sistema, se vuole sopravvivere, deve avere la forza di auto-riformarsi, di aggiornare la Costituzione, di emendarsi dai propri errori. Ma senza smarrire la rotta rispetto al mondo circostante. In secondo luogo, chi ha la responsabilità di eleggere un nome condiviso e autorevole attraverso un'intesa fra Pd e Pdl (Giuliano Amato?) deve dimostrarsi capace di farlo. Ci vuole tempra, volontà politica e capacità di mantenere la disciplina nei gruppi parlamentari.
Ci vuole in particolare tempismo: la finestra di opportunità è molto breve. Dalla quarta o quinta votazione lo scenario cambierà e la tattica potrebbe favorire le spinte anti-sistema.

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