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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 107938 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:37:10 pm »

Il labirinto di Berlusconi

di Stefano Folli

12 dicembre 2012


Con la campagna elettorale appena cominciata il bilancio di Silvio Berlusconi è già molto negativo, per non dire disastroso. L'isolamento dell'ex premier è totale in Europa, in forme mai sperimentate in passato.
Non ci sono solo i toni sferzanti della stampa e l'ostilità unanime delle cancellerie: c'è soprattutto la condanna arrivata dal Partito Popolare Europeo, la formazione sovranazionale di cui Berlusconi un tempo era un socio autorevole e che oggi di fatto lo ha disconosciuto.
Ancora. Il Pdl è frantumato e sull'orlo della scissione, non solo in Italia ma soprattutto al Parlamento di Bruxelles, dopo l'addio del capogruppo Mauro. A loro volta la Chiesa e il mondo cattolico hanno assunto una posizione di totale chiusura verso questo bizzarro «ritorno in campo»: lo confermano al di là di ogni dubbio le dichiarazioni del presidente della Cei, Bagnasco, e i commenti di «Avvenire». Ma anche gli ambienti di Comunione e Liberazione, un tempo alfieri del berlusconismo, oggi sono spietati. Come ha detto il direttore di «Tempi», Amicone, il solo nome dell'ex premier evoca «delusione e rabbia» in tutti coloro che un tempo avevano creduto in lui. La frattura non potrebbe essere più profonda.

Si potrebbe continuare. L'intesa con la Lega, asso nella manica berlusconiana, è in alto mare. Maroni non ha voglia di farsi ingabbiare in un patto di Arcore se il candidato premier fosse davvero lui, il vecchio leader che sogna un altro, irrealistico 1994. Il capo leghista è pronto ad allearsi di nuovo con il Pdl, in Lombardia e altrove, ma chiede un volto nuovo per Palazzo Chigi.
E dunque: l'Europa, il Ppe, gli scissionisti del Pdl, la Lega. Non c'è un solo fronte che sia favorevole a Berlusconi. Come se non bastasse, la sua strategia in vista delle elezioni fa acqua da tutte le parti. Per sfuggire al peso dell'isolamento, è indotto a scivolare sempre di più lungo la china di un populismo deteriore. La frase sullo "spread" («ma cosa ce ne importa?») non è una battuta sbagliata: è un'uscita obbligata dalle circostanze perché solo così Berlusconi può trovare il consenso di un certo tipo di elettorato. Lo stesso che in Francia può votare Marine Le Pen o in Gran Bretagna il nazionalista Nigel Farage. Entrambi esponenti di correnti minoritarie e, peraltro, nessuno dei due gravato dai conflitti d'interesse che il loro omologo italiano si porta dietro.

La domanda è se Berlusconi è in grado di reggere il ruolo che egli stesso si è scelto nella campagna. Certo, il suo obiettivo non è vincere, è ovvio, bensì garantirsi un potere contrattuale nella prossima legislatura. Ma a quale prezzo? Man mano che Monti occupa il centro della scena e interpreta la posizione europeista, Berlusconi sarà costretto ad andare a destra, assumendo toni sempre più nettamente contrari all'Europa. Siamo già al complotto tedesco ai danni dell'Italia e magari alla denuncia dei poteri forti finanziari che tramano contro il leader carismatico pronto a smascherarli.
La risposta molto dura che il governo di Berlino ha riservato ieri a Berlusconi dimostra che per lui non esiste più una via di ritorno. L'Europa ha cancellato l'ex premier italiano, lo vede solo come un elemento di disturbo e d'inquinamento. In altri tempi Berlusconi avrebbe tratto vantaggio, in termini elettorali, dall'essere attaccato con tanta virulenza dai governi stranieri. Ma oggi non è più così. Sulla scena c'è solo un uomo isolato e disperato. La logica e il buonsenso dovrebbero suggerirgli di ritirarsi, passare la mano e ricollocare il suo partito nel solco del Ppe. Non è ancora troppo tardi per un gesto realistico e risolutivo.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-12/labirinto-berlusconi-063601.shtml?uuid=AbJxcEBH
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« Risposta #91 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:59:38 pm »

La «lista Monti» tiene in ansia destra e sinistra

di Stefano Folli

11 dicembre 2012


Non desta meraviglia che Bersani sia irritato per l'ipotesi di un Monti impegnato nella campagna elettorale. Glielo ha fatto sapere con una certa chiarezza: «si tenga fuori dalla contesa». Se lo farà, ha aggiunto a mo' di consolazione, «si potrà collaborare insieme nel nome dell'Italia». Frase generica nella quale si può leggere di tutto, anche la promessa del Quirinale. Così in poche ore il premier dimissionario ha potuto misurare tutta la diffidenza che lo circonda: da un Berlusconi furioso contro le capitali europee che lo irridono a un Bersani che vede scricchiolare la sua architettura elettorale.

Tutto questo serve a valutare la difficoltà del compito che è davanti al presidente del Consiglio se davvero prenderà parte alla battaglia politica. I duellanti principali, Berlusconi e Bersani, sono uniti su un punto: non vogliono il terzo incomodo. Soprattutto se si chiama Monti, con il profilo di un uomo di governo credibile all'estero e stimato in Italia quale che sia la durezza della politica economica (il sondaggio de La7 gli dava ieri sera un 45 per cento d'indice di popolarità).

Se andrà avanti per la sua strada, Monti dovrà prepararsi a subire attacchi e anche colpi bassi. Del resto, con la sola mossa delle dimissioni ha spinto a destra Berlusconi, imprigionandolo nelle sue contraddizioni populiste e rendendo ancora più anacronistica la reiterata candidatura; ma ha messo in ansia anche il centrosinistra, dove soprattutto i più "centristi" temono di essere schiacciati sulle posizioni di Vendola e di un certo sindacalismo. In altre parole, ci vuole coraggio e molta fiducia in se stessi per sfidare insieme il centrodestra e il centrosinistra. Tanto più che il tempo per organizzarsi è poco (meno di dieci settimane) e una decisione definitiva dovrà essere presa da Monti in fretta, comunque prima di Natale e subito dopo le dimissioni formali da Palazzo Chigi. Altrimenti si trasmetterà un messaggio ambiguo all'opinione pubblica. E si darà agli schieramenti politici che sono già in campagna elettorale un'idea di debolezza, anzichè di forza e determinazione come è stato nelle ultime ore.

Senza dubbio il premier è consapevole di queste difficoltà. Per adesso si muove con cautela e astuzia, lasciando parlare i fatti. Non a caso i mercati ieri hanno lanciato l'allarme instabilità per l'Italia. La responsabilità è stata attribuita tutta al ritorno in campo di Berlusconi, con ciò dimostrando che si è aperto un grande spazio vuoto nell'area moderata ed europeista. Quella che un tempo era la tipica area democristiana e liberaldemocratica e che oggi è sottorappresentata.
Ma il problema del premier uscente non è solo organizzativo. C'è anche il tema decisivo del rapporto con partiti e movimenti del cosiddetto «terzo polo» (che non ha mai visto la luce): da Casini a Fini, da Montezemolo ai delusi del Pdl. Monti può diventare - e in parte lo è già - il punto di riferimento di costoro, può lasciare che essi usino il suo nome per dare senso a una proposta elettorale. Ma il risultato non sarebbe clamoroso. Ridarebbe slancio, è vero, a formazioni che rischiavano un declino irreparabile. Ma forse non basterebbe a cambiare in modo drastico l'equilibrio delle forze nel prossimo Parlamento.

Caso diverso sarebbe se Monti, una volta sciolto il Parlamento, si rivolgesse direttamente agli italiani. Un appello esplicito in nome dell'Europa e della necessità di non disperdere il lavoro fatto nell'ultimo anno. Parole chiare in grado di colpire la mente e il cuore degli italiani. In tale ipotesi i partiti sarebbero costretti ad accodarsi, dovendo accontentarsi di gestire le candidature (e nemmeno tutte). Sarebbe la nascita di una vera leadership, votata a proseguire nel governo del paese. Ma per farlo occorre saper comunicare con l'abilità e la limpidezza dei grandi statisti del passato: Roosevelt per un verso, De Gaulle per un altro. La sfida sarebbe molto alta, ma anche i risultati potrebbero esserlo.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-11/lista-monti-tiene-ansia-063536.shtml?uuid=AbYL0vAH
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« Risposta #92 inserito:: Dicembre 14, 2012, 10:20:41 pm »

Ora Monti guida il Ppe in Italia. Con un ruolo politico ed elettorale

di Stefano Folli

14 dicembre 2012

La partecipazione di Mario Monti al vertice del Partito Popolare europeo a Bruxelles è uno di quei dettagli suscettibili di cambiare la storia politica di una nazione. In fondo Monti non è titolare (non ancora) di un partito o di un raggruppamento aderente alla famiglia dei popolari.

In passato ha manifestato la sua simpatia verso il Ppe, ma fino a ieri il suo profilo è stato quello che sappiamo: un "tecnico" autorevole, molto stimato in Europa, che governa da un anno su chiamata del capo dello Stato in una situazione di grave emergenza. Non una figura politica nel senso classico del termine.

Ora il quadro è mutato e ci sono due momenti che scandiscono tale mutamento. Il primo è l'annuncio delle dimissioni del governo, presentate da Monti al Quirinale dopo la sfiducia subita da Alfano su mandato di Berlusconi. È lì che prende forma il "nuovo" Monti come soggetto politico definito: un leader moderato, ancorché senza partito, che si qualifica lungo una linea di rottura con il berlusconismo morente, ma all'interno della cornice dei popolari europei.

Il secondo momento è appunto l'invito rivolto al premier italiano dal presidente Martens a partecipare al summit. Invito con uno scopo preciso: dimostrare a tutti che in Italia i popolari europei hanno un punto di riferimento che ovviamente non è Berlusconi, personaggio ormai messo ai margini. Il riferimento che colma il vuoto si chiama Monti ed è a lui che il più grande partito trasversale presente nel Parlamento di Bruxelles e Strasburgo chiede di fare del suo meglio per governare l'Italia anche in futuro. Con il consenso degli elettori, è ovvio. S'intende che questa mossa non sarebbe stata possibile senza il beneplacito, o meglio la spinta propulsiva della Germania di Angela Merkel. Perché il Ppe non sarebbe quel potente gruppo politico che oggi è se la sua spina dorsale non fosse costituita dai popolari tedeschi.
Così il cerchio si chiude. In una settimana scarsa Berlusconi ha messo in crisi il governo, ha accusato Monti di essere l'emissario dell'Europa "germanocentrica", ha tentato di sollevare un'ondata di euroscetticismo. E poi, in rapida successione, ha candidato Monti a leader dei moderati e si è presentato ieri a Bruxelles per essere mortificato dai popolari, lui che ha fondato uno dei partiti più forti del Ppe, nonchè per assistere al trionfo dell'uomo che si avvia a essere il capo dell'area moderata in Italia. In sostanza Berlusconi ha dovuto accettare e sottoscrivere la propria stessa uscita di scena.

Negli stessi giorni si è compiuta anche la trasformazione di Monti da "tecnico", si fa per dire, a politico a tutto tondo. Da ieri sera insignito del compito di rapprresentare in Italia le istanze del popolarismo europeo. Come dire che il dibattito sul futuro ruolo politico del professore è superato dai fatti. L'Europa, o almeno l'Europa che si è riunita a Bruxelles, vuole che in Italia si crei e si consolidi un'area ispirata ai valori del popolarismo. Un'area così in sintonia con il Ppe da noi non è mai esistita. Monti ora dovrà darle un'anima in tempi molto stretti, visto che le elezioni sono il 17 febbraio: per riuscirci dovrà volare alto, sopra i limiti e i vincoli dei partiti centristi esistenti. È chiaro in ogni caso che i popolari di Angela Merkel vogliono che il vuoto sia colmato. In nome della stabilità, certo; e sprattutto perché non desiderano che tutto il gioco in Italia sia determinato dalle sinistre di Bersani.
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« Risposta #93 inserito:: Dicembre 19, 2012, 05:39:02 pm »

Il dramma di Pannella è nella sordità di un sistema politico ormai inerte

di Stefano Folli

19 dicembre 2012

Marco Pannella si sta spegnendo in una clinica romana, combattendo con gli strumenti di sempre, in modo irriducibile, la sua battaglia civile. E gli strumenti sono la tortura inflitta al suo corpo, simbolo in questo caso delle torture carcerarie e più in generale della richiesta di giustizia per la quale il leader radicale, a 82 anni, non cessa di fare udire una voce sempre più debole.

È una tragedia che si avvicina al suo esito fatale. Ieri i medici curanti hanno parlato di «danni renali irreversibili». L'impressione è che manchi davvero poco prima che accada quello che la ragione si rifiuta di accettare. Può un uomo politico nel senso più fiero del termine, un protagonista di cinquant'anni di storia civile del Paese, concludere la sua esistenza nell'Italia del 2012 con uno sciopero della fame e della sete quasi fosse un militante indipendentista nell'India coloniale? O un irredentista di Dublino nel pieno di una guerra civile?
C'è qualcosa di assurdo e di terribile in questa vicenda. È chiaro che Pannella considera la consunzione alla quale ha condannato il suo corpo una sorta di metafora della condizione di illegalità - e di sordità di fronte all'ingiustizia - in cui egli vede sprofondata l'Italia di oggi, dove la politica ha cessato di corrispondere a un ideale. Il lento, inesorabile suicidio del vecchio combattente diventa quindi una severa condanna della democrazia malata in uno dei suoi snodi cruciali: il rispetto dei diritti umani.

Rispetto a questa tragedia personale, il silenzio del mondo politico e in buona misura della stampa è quanto meno una prova di cattiva coscienza. Nel corso degli anni troppi hanno fatto della mediocre ironia sugli scioperi della fame di Pannella. Troppi si sono risentiti per gli attacchi, certo aspri, ricevuti da lui. Ma questo sarebbe il momento di dare un segno non retorico e non furbesco che la «grande ragione» di Pannella, come l'ha definita Furio Colombo, viene fatta propria da un sistema politico sfilacciato, sì, ma ancora capace di una scossa, di un moto di riscatto.
Ieri Mario Monti ha compiuto un gesto simbolico importante recandosi a far visita all'infermo. Qualche ora prima il ministro della Giustizia, Paola Severino, aveva auspicato che «la legislatura si concludesse con l'approvazione del provvedimento sulle pene alternative». Peccato che si tratti di un disegno di legge, anziché di un decreto, il che offre ulteriori alibi al disinteresse del Parlamento ormai in procinto di correre la campagna elettorale.

L'altra sera al Quirinale, nel salone affollato per la cerimonia degli auguri, un applauso a scena aperta ha salutato le parole di Napolitano sulla gravità della condizione carceraria. Il capo dello Stato non ha citato Pannella, ma quell'applauso voleva essere un tributo al leader radicale. Purtroppo assomigliava un po' troppo all'omaggio che il vizio rende alla virtù, secondo un vecchio detto piuttosto calzante.
A questo punto è indispensabile un segno da parte delle forze politiche. Magari non risolutivo, ma emblematico. Se il dramma di Pannella è la morte fisica incombente, il dramma del sistema è l'inerzia. La stessa per la quale le riforme sono sempre impossibili, mentre si accetta l'idea che una macchina carceraria indegna sia la normalità. Tanto che il tema non costituisce nemmeno un paragrafo del dibattito elettorale.

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« Risposta #94 inserito:: Dicembre 25, 2012, 07:10:28 pm »

Monti è disponibile, ma tocca alle forze politiche guadagnarsi la sua leadership

analisi di Stefano Folli

23 dicembre 2012


Mario Monti ha fatto di tutto per convincere i giornalisti che il tema della sua candidatura a Palazzo Chigi non è così centrale come molta stampa ritiene. E infatti è sempre lì, un po' sullo sfondo. Lo era prima della conferenza stampa di fine anno e continua a esserlo dopo, mentre ci si avvia alla campagna elettorale. Certo, Monti si considera (ed è) un soggetto politico: lo è dall'inizio del suo incarico "tecnico" e a maggior ragione lo è oggi. Certo, egli accetterebbe di tornare a guidare il governo del paese, se i numeri lo consentissero e il programma proposto fosse per lui convincente. Perché non dovrebbe? L'intera vicenda italiana negli ultimi mesi va in questa direzione.

Ma qui le certezze si fermano. Il resto lo devono fare le forze politiche. È questo il vero messaggio emerso stamane. Tocca a loro farsi carico dell'"agenda Monti", cioè dei punti del manifesto europeo che vuole anche essere una solida piafforma riformatrice. Tocca a loro dimostrarsi all'altezza, potremmo dire, del candidato premier a cui si rivolgono; anche nella composizione delle liste che dovranno essere trasparenti e innovative nelle persone (si chiamano "garanzie di credibilità" nel linguaggio montiano). Se queste condizioni ci saranno, il professore accetterà forse la candidatura a premier, senza che questo comporti in alcun modo una partecipazione attiva e dinamica, di tipo classico, alla campagna elettorale: manterrà il suo relativo riserbo come si conviene a un premier istituzionale che non rinuncia al suo profilo extra-partitico; un premier che rimane tuttora a Palazzo Chigi per gli "affari correnti" e che ha recepito i suggerimenti di Giorgio Napolitano al riguardo.

Dopo il voto saranno valutati gli equilibri e i rapporti di forza e si vedrà in che modo prenderà forma l'impegno di Monti. Il quale senza dubbio intende continuare a essere il garante europeo della prossima legislatura e delle scelte dei governi politici che verranno. Non c'è di più e non c'è di meno. La candidatura di Monti è nei fatti e sarà proposta dalla coalizione centrista Casini-Montezemolo-Riccardi, se appena essa riuscirà a presentarsi non solo come un segmento del passato, bensì come un'interprete della fase nuova che il paese sta attraversando. Se pure Monti dirà di sì (e lo dirà quasi certamente), egli preciserà che il suo messaggio è rivolto a tutti, a sinistra e anche a destra (al di là del populismo berlusconiano). E farà in modo che l'uso politico del suo nome non sia lacerante, non diventi un fattore di frammentazione in vista del dopo.

Ma questo non risolve ancora i problemi. Che si presenteranno in gran numero la sera del 25 febbraio, quando si conteranno i voti del Pd di Bersani, alleato con Vendola. Quel centrosinistra costituirà con ogni probabilità la maggioranza relativa, ma dovrà trovare un baricentro programmatico. Le contraddizioni non mancano e il caso Ichino, ad esempio, dimostra che ci sono parecchi problemi nel partito bersaniano proprio in relazione all'"agenda Monti". Del resto è proprio il presidente del Consiglio a indicare i limiti delle posizioni di Vendola, ma anche di Fassina. Quindi sarà utile, forse essenziale per Bersani una convergenza con la piattaforma centrista.

Ma il tasso di europeismo e anche di slancio riformatore di questa convergenza sarà determinato dai "pesi" parlamentari. E dunque dal risultato elettorale non solo dei centristi, bensì di tutti coloro che, magari sparpagliati nei vari settori dello schieramento, s'ispirano alla linea Monti. Il che richiederebbe non solo l'indicazione di una serie di punti programmatici, ma anche una battaglia politica per affermarli nello scontro politico. Come fece a suo tempo, con tremendo sforzo personale, il De Gasperi più volte citato dal premier nella sua conferenza stampa.
Monti è molto chiaro quando parla delle sue idee ed è ovviamente estremamente autorevole quando fa riferimento all'Europa. Tuttavia il suo progetto richiede una vera e propria scomposizione del vecchio bipolarismo. Con la nascita conseguente di un nuovo soggetto capace di rovesciare la politica tradizionale. Monti parla a questa Italia che cerca una nuova rappresentanza. Ma è da capire se egli vorrà o potrà o saprà creare le condizioni politico-elettorali per dare una scossa decisiva al sistema. Se la preoccupazione è di muoversi senza strappi e lacerazioni, si rischia di non riuscire a risolvere in modo conclusivo le contraddizioni dei partiti. Sotto questo aspetto le attese per i passi politici di Monti non sono ancora soddisfatte dalle sue risposte.

È chiaro che il grande nemico del montismo europeo è proprio Berlusconi in questa sua ultima incarnazione populista. Ma non basta accusare l'ex premier per spostare una massa di voti sufficiente ad accreditare il nuovo polo moderato. Si possono spostare singoli nomi: Mauro, Frattini, Pecorella, Pisanu, Cazzola, eccetera. Ma der cambiare l'Italia occorre fare di più, cioè una battaglia politica vera e propria, anche molto aspra. Con forze concrete in campo. Vedremo nei prossimi giorni perché non tutto è perfettamente chiaro nel percorso politico di Monti. Benchè egli abbia ben descritto l'approdo finale: una "grande coalizione" in stile tedesco, costituita in nome dell'Europa fra un centrosinistra capace di sottrarsi al conservatorismo politico e sociale di Vendola e della Cgil; e un centrodestra che si riconosce, appunto, nelle posizioni montiane e si distacca in forme perentorie dal populismo un po' "lepenista" dell'ultimo Berlusconi. Sarà questo il tema della campagna elettorale.


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« Risposta #95 inserito:: Dicembre 28, 2012, 11:50:40 pm »

Il rebus dell'«agenda»: c'è il tema (l'Europa), non ancora il partito

di Stefano Folli

28 dicembre 2012

Si può discutere sulla sostanza della fatidica "agenda", ma di sicuro Mario Monti un risultato politico lo ha già ottenuto: ha messo se stesso e il suo manifesto al centro del dibattito pre-elettorale. Ai suoi tempi Ugo La Malfa seguiva un sentiero abbastanza simile quando predicava con tenacia: «Prima i contenuti, poi gli schieramenti». Il che non voleva dire sottovalutare il tema delle alleanze, bensì metterlo tra parentesi, nasconderlo ad amici e avversari fin quando non diventava conveniente parlarne; nel frattempo l'opinione pubblica doveva concentrarsi sui "contenuti", cioè sul programma.

Gli addetti ai lavori sapevano bene che tali "contenuti" sarebbero poi stati adattati, entro certi limiti, ai rapporti politici emersi dalle elezioni. Così, nella Prima Repubblica, il piccolo partito repubblicano riusciva a contare molto nel gioco delle alleanze.
Oggi che l'Italia è cambiata, Monti sembra seguire quell'esempio, sia pure rimodellato sul profilo della nascente, almeno si spera, Terza Repubblica. S'intende che le differenze non mancano e anche i protagonisti non sono quelli di un tempo. Resta il fatto che l'insistenza sull'"agenda" equivale a una carta politica giocata con abilità, il cui primo effetto consiste nel mettere gli altri sulla difensiva. Non parliamo di Berlusconi, costretto a radicalizzare sempre più i toni, trascinando il Pdl ai margini delle posizioni espresse dal Partito popolare europeo, come ha rilevato al momento del congedo il suo ex ministro degli Esteri, Frattini. Ma chi soprattutto è in difficoltà è Bersani, cioè il possibile, probabile partner di governo del Monti post-elettorale.

Si potrebbe dire: oggi avversari, domani alleati. Ma il percorso non è semplice né banale. I due mesi da qui al 24 febbraio saranno ricchi di insidie: soprattutto perché il leader del Pd non può permettersi di perdere il voto dell'opinione pubblica più europeista, consapevole che la necessità dell'Unione implica una strada obbligata, fatta anche di sacrifici. Questo voto Bersani se lo sarebbe aggiudicato con facilità in assenza di una "lista Monti". Oggi invece torna in ballo, obbligando il segretario a destreggiarsi fra posizioni non coerenti. In fondo, senza Monti in campo sarebbe possibile sfumare le differenze fra, ad esempio, un Enrico Letta e un Fassina. Con Monti sulla scena, e con Ichino che lo segue, gli alibi vengono meno e la via è in salita.

È vero, come ricorda D'Alema, che i sondaggi danno il Pd saldamente in testa, spesso oltre il 30 per cento dei consensi. Ma non è vero che l'opzione Monti sia irrilevante, quasi una distrazione della politica. Al contrario, essa può diventare molto dolorosa per il Pd. A patto, si capisce, che si sciolgano i nodi irrisolti intorno al premier. Il quale non potrà rinunciare a una lista di riferimento che sia realmente innovativa nelle persone e nel messaggio: una lista magari federata ai centristi tradizionali, ma capace di interpretare la novità. Si potrebbe dire che Monti ha afferrato il tema (l'Europa), ma non ha ancora dietro di sé un partito adeguato a sorreggere un'ambizione politica molto alta. E poi, naturalmente, egli stesso deve trovare le forme comunicative più adatte a farsi capire dalla grande massa degli elettori. Non sarà semplice, però il terreno della sfida è delineato. E non è un caso che Bersani cerchi spazio su altri versanti. Ad esempio candidando il procuratore anti-mafia, Grasso. Il che per la verità suscita più polemiche che consensi. Un altro segnale di quanto la campagna sarà complessa.
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« Risposta #96 inserito:: Gennaio 03, 2013, 12:45:50 am »

Tra amarezza e speranza

di Stefano Folli

02 gennaio 2013


L'ultimo messaggio di Capodanno del presidente della Repubblica va letto su piani diversi. Non è ancora un congedo dagli italiani, ma è già un bilancio del settennato. È un intervento pieno di speranza per l'Italia di domani, l'Italia dei giovani; ma è anche percorso da un'evidente amarezza per la decadenza della politica e le debolezze di un sistema che non ha saputo rinnovarsi.

Si può immaginare che il capo dello Stato, sei anni dopo il primo messaggio del 2006, avrebbe preferito rivolgersi a un'Italia diversa.
Non a un paese in recessione in cui la "questione sociale" è tornata d'attualità in forme drammatiche. E in cui le classi dirigenti hanno fallito nel tentativo di rilegittimarsi attraverso le riforme che non hanno saputo realizzare.
Il 15 maggio Giorgio Napolitano lascerà il Quirinale e lo farà con la coscienza di chi ha ben meritato dalle istituzioni.
La sua interpretazione del ruolo presidenziale è stata molto dinamica, soprattutto negli ultimi due-tre anni, e la sua difesa della Costituzione non è apparsa mai statica, meramente difensiva. "Garante", sì, ma non in panchina ai bordi del campo: Napolitano è stato un garante che non si è mai tirato indietro, a costo di esporsi a polemiche e veleni.

Aver voluto Mario Monti a Palazzo Chigi, nel novembre del 2011, rimane un atto di coraggio che ha salvato l'Italia dal disastro finanziario, ma per il quale Napolitano ha pagato un prezzo anche personale. Non è un caso se fra i protagonisti e i comprimari di questa stagione elettorale ci sono diversi personaggi che si sono ritagliati una visibilità proprio attaccando il Quirinale con un'asprezza inusitata: da Di Pietro a Grillo a Ingroia, senza trascurare Berlusconi che addirittura vagheggia una commissione d'inchiesta.
Questo spiega un certo tono disilluso del presidente che quasi sollecita l'indignazione dei giovani e certo non fa molto per nascondere quanto lo preoccupi l'eterno scontro fra una cattiva politica e una pericolosa anti-politica. Non c'è stato ovviamente alcun sostegno indiretto alla "lista Monti", come tentano di dire i leghisti e Di Pietro. Al contrario, Napolitano è sembrato molto attento nel pesare le parole quando ha sottolineato che Monti aveva il diritto di compiere una scelta politica (pur senza una candidatura al Parlamento), ma lasciando intendere che il senatore a vita si è assunto una responsabilità che non lo esime dal mantenere il suo profilo quale presidente del Consiglio in carica per l'ordinaria amministrazione durante la fase delle elezioni.

In fondo il capo dello Stato si è sempre sforzato di collocare la crisi italiana dentro una cornice di sicurezza: le istituzioni, il richiamo alla coesione nazionale e all'unità, l'Europa. Ma le cornici tendono a sfilacciarsi e vanno di continuo ripensate.
La vicenda delle intercettazioni, su cui si è poi pronunciata la Corte Costituzionale, era in modo palese un tentativo di delegittimare il presidente della Repubblica. E peraltro i rischi d'instabilità non mancano, specie se il risultato del voto non sarà chiaro.
Napolitano ha ricordato tra le righe che sarà lui a conferire l'incarico al nuovo premier; e che nel nostro ordinamento non esiste l'elezione diretta. Ma la vera cornice, quella da cui non si può e non si deve fuoriuscire, è quella dell'Europa.

Su questo sfondo saranno giudicate le proposte politiche e dovrà essere individuato il nuovo presidente della Repubblica. Le cui responsabilità non saranno inferiori a quelle a cui ha dovuto far fronte Napolitano, nei chiaroscuri di una Seconda Repubblica mai nata.

La citazione finale di Benedetto Croce, il filosofo della libertà, è il miglior suggello di un settennato a cui le istituzioni devono molto. E che non è ancora terminato.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-02/amarezza-speranza-063612.shtml?uuid=AbLgvhGH
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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 03, 2013, 06:16:08 pm »


A Berlusconi resta il passo indietro per salvare l'asse con la Lega

di Stefano Folli

03 gennaio 2013

Tutto si tiene, in una campagna elettorale che ha preso il via in forme molto aggressive. Ognuno gioca le sue carte in un sistema che pretende ancora di essere bipolare, ma che nella sostanza sta diventando quadripolare: al centrosinistra e alla vecchia area Pdl-Lega (oggi in frantumi), si aggiunge il terzo polo di Monti e il vasto spazio dell'antagonismo, da Grillo a Ingroia. Ognuno ha problemi da risolvere in fretta perché si avvicina il momento di presentare i simboli e poi le liste dei candidati.

La maggiore urgenza è senz'altro quella di Berlusconi. Il vecchio leader ha pochissimi giorni per salvare l'alleanza con la Lega maroniana. E se questo obiettivo è per lui irrinunciabile, come tutto lascia credere, non c'è che un passo da compiere. La mossa del cavallo, come si dice in gergo: rinunciare alla candidatura a premier e presentarsi alle elezioni solo come capo politico della coalizione. In fondo Berlusconi ha cominciato a preparare il terreno ieri, quando ha detto: «potrei anche non tornare a Palazzo Chigi». Affermazione che difficilmente basterà al Carroccio, o meglio a una base leghista che oggi non ha alcuna voglia di fare la campagna elettorale avvinta all'antico e ormai inviso alleato.

Ma il patto con Maroni si può salvare se Berlusconi mette un freno al suo orgoglio, accetta il veto e manda avanti una figura terza come candidato premier. Alfano lo ha quasi ammesso, affermando che quel che conta è la leadership politica e non la «formalità» di una candidatura a Palazzo Chigi che non ha rilievo costituzionale ed è imposta da un articolo della legge elettorale. È probabile che questa sarà la conclusione della storia, benché sul nome del "terzo uomo" ci sia ancora da discutere. Poco probabile il ritorno ad Alfano stesso, problematica l'indicazione di Tremonti (gradito ai leghisti, ma non altrettanto a una parte del Pdl). Si vedrà.

Di certo l'alleanza con la Lega è indispensabile per tenere la Lombardia. Non tanto per conquistare la regione, considerando la presenza in campo di un altro terzo uomo, Albertini, sostenuto in modo esplicito da Monti. Quanto per bloccare i seggi senatoriali che potrebbero decidere gli equilibri a Palazzo Madama e con essi il profilo del prossimo governo.

Casini lo ha detto in un'intervista ad "Avvenire" con indubbia franchezza: se Bersani non avrà la maggioranza anche al Senato, potrà scordarsi di fare il presidente del Consiglio. Quindi è intorno alla Camera alta che si combatte la battaglia delle Ardenne. Sui due fronti su cui è impegnato senza mezzi termini il presidente del Consiglio. Anche lui usa argomenti piuttosto netti: «destra e sinistra sono superate. Esiste chi vuole le riforme e chi vuole conservare». La tesi è riferita all'Italia e sembra fatta su misura per accendere gli animi, soprattutto nel campo di Bersani, ma obbedisce a una logica. Scuotendo l'albero, Monti, più che abolire il bipolarismo, vuole sconfiggere il centrodestra berlusconiano e ridimensionare il Pd. Ne deriverebbe un nuovo assetto del sistema, in cui sarà possibile sia negoziare con i democratici un patto di governo, sia contrapporsi a essi e dipingerli come vincolati al carro di Vendola e Fassina.

Si deciderà in base ai rapporti di forza emersi dalle urne. Per questo è cruciale la contesa per il Senato. Ed è indispensabile anche prendere un voto più di Berlusconi (o di chi per lui) su scala nazionale.

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« Risposta #98 inserito:: Gennaio 07, 2013, 07:09:57 pm »

L'antipolitica lascia il segno ma non per tutti

di Stefano Folli

07 gennaio 2013


Anche quest'anno il sondaggio di Ipr Marketing sul consenso ai sindaci e ai presidenti di regione insegna qualcosa. Forse più di altre volte perché la crisi economica ha colpito duro gli enti locali, ha messo in discussione antichi equilibri, ha obbligato a riconsiderare numerosi criteri amministrativi. Come se non bastasse, il vento degli scandali ha investito le regioni e ha scoperchiato parecchi tabernacoli. Due amministrazioni sono state travolte, nel Lazio e in Lombardia, una terza (il Molise) dovrà tornare alle urne.

Una classe dirigente territoriale è sotto pressione, come se non più dei politici che agiscono a livello nazionale. E allora ecco le cifre che devono confermare o smentire giudizi e pregiudizi su come vengono ammministrate le nostre città e le nostre regioni. Al solito, la domanda del sondaggio è semplice e diretta: votereste di nuovo questo sindaco e/o questo presidente di regione? Il paragone è con il punteggio realizzato il giorno dell'elezione. Si può restare ai piani alti della graduatoria anche se si è perso qualche punto nel favore della popolazione, ma solo se si era stati eletti con una percentuale rilevante.
Ebbene, cominciando dalle regioni, un'occhiata ai tabelloni ci dice che la crisi di credibilità successiva agli scandali non ha delegittimato né il personale politico né l'istituto in se stesso. È chiaro che la tempesta ha lasciato il segno e l'intero impianto del decentramento regionale andrà rivisto nella prossima legislatura: non già per annichilirlo e ritornare a un brutale centralismo, bensì per renderlo più vicino alcittadino e più in grado di erogare servizi a un costo contenuto, cancellando la vergogna degli sprechi palesi e occulti.

E tuttavia l'istituto regge, così come la fiducia in una buona parte degli eletti. Il sondaggio dice che a metà circa della legislatura regionale otto presidenti godono ancora di una soglia di fiducia che garantirebbe loro la rielezione, se si votasse oggi. Sono i "governatori" di Toscana, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Liguria, Basilicata, Umbria, Campania e Puglia. Il consenso maggiore va al toscano Rossi, che mantiene (salvo una lieve limatura) il 59% di gradimento realizzato nel voto del 201o. Al secondo posto c'è un leghista pragmatico come il veneto Zaia, che ottiene il 58% e perde poco rispetto al 60,2 dell'elezione. Chiude questo ventaglio degli otto rieleggibili il pugliese Vendola, che agguanta un utile 50%, incrementando il 48,7 del 2010.
Nel complesso sei presidenti di centrosinistra e due di centrodestra (oltre a Zaia, fra i primi otto c'è il campano Caldoro). Sotto la soglia critica del 50% ci sono Calabria, Friuli V.G., Piemonte, Abruzzo e Sardegna: tutte regioni amministrate dal centrodestra. Nel complesso possiamo dedurne che gli italiani vogliono che le regioni continuino a esistere, purchè sappiano innovarsi e anche correggere i propri gravi errori. Non è più tempo di un federalismo retorico e mal costruito, utile più a consolidare centri di potere antagonisti che a corrispondere alle esigenze dei cittadini. Speriamo che questo pro-memoria, ora che siamo alla vigilia delle elezioni politiche, giunga ad orecchie attente.

Quanto agli amministratori comunali, i risultati sono ovviamente dettati da fatti, persone e circostanze che variano da luogo a luogo. In linea generale si può dire che chi, pur essendo al secondo mandato, riesce a mantenere un livello di consenso alto, merita una particolare menzione. È il caso del primo classificato, il salernitano De Luca, che realizza ben il 72 per cento. Ma non è da meno Flavio Tosi, sindaco di Verona, che al secondo mandato incrementa di un 8,7% (!) il dato del giorno in cui è stato rieletto nel 2012.
Sono cifre rilevanti che testimoniano una verità: viene premiato chi è affezionato alla sua città, chi se ne occupa attraverso un duro lavoro sul territorio. Questa sembra anche la situazione di Giuliano Pisapia, peraltro al suo primo mandato, che a Milano risulta più popolare oggi del giorno in cui i suoi concittadini lo hanno eletto: più 4,9 per cento. Mentre Graziano Delrio, secondo mandato a Reggio Emilia, sale al 54,5 nonostante le fatiche del suo contemporaneo incarico come presidente dell'Anci, l'associazione dei Comuni.

Ci sono anche esempi contrari che acquistano un valore politico che non si può non sottolineare. A Parma, ad esempio, impressiona la caduta di Pizzarotti, il sindaco eletto a sorpresa nel 2012 nella lista di Beppe Grillo. Tante attese, tante promesse di un nuovo modo di governare e oggi meno 7,2 nel consenso dei cittadini. Pizzarotti è ancora al 53%, ma l'impatto con la realtà è stato devastante. E poi c'è il caso di Palazzo Vecchio. Come è noto, uno dei nomi nuovi della politica italiana, il fiorentino Matteo Renzi, si è ritagliato un posto nel cuore dei "media" grazie ai brillanti risultati del duello con Bersani alle primarie del Pd: sconfitto con onore al secondo turno dopo un successo smagliante al primo. Eppure Renzi come sindaco di Firenze è stato retrocesso: dal 59,5% il giorno del voto all'attuale 52. Abbastanza per essere virtualmente rieletto, ma ben 7,5 punti persi per strada.
Come mai? Molti sospettano che le ambizioni nazionali abbiano distratto - a dir poco - Renzi dagli impegni come amministratore comunale. Per lui è un campanello d'allarme da non sottovalutare. Al contrario il romano Alemanno, da tanti considerato sconfitto in partenza se si presenterà di nuovo per il Campidoglio, riesce a conquistare un 50% (meno 3,7) che non è poi male dopo le tragicomiche vicende della nevicata, lo scorso inverno.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-07/lantipolitica-lascia-segno-tutti-064630.shtml?uuid=Ab6sysHH
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« Risposta #99 inserito:: Gennaio 10, 2013, 07:47:18 pm »

La questione carceri irrompe nella campagna e impegna la politica

di Stefano Folli

9 gennaio 2013

La questione della condizione carceraria in Italia irrompe nella campagna elettorale, ma con quali esiti concreti nessuno può dirlo. Certo, la dura condanna espressa dalla Corte di Strasburgo per i diritti umani non stupisce nessuno. Lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino, che si dichiara «avvilita», se l'aspettava. È una macchia per il nostro paese e le parole di Napolitano sono fra le più dure pronunciate dal capo dello Stato in questi ultimi anni: la sentenza «è una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena».

Una frase drammatica se a pronunciarla è il presidente della Repubblica. Il quale peraltro ha le carte in regola perché più volte nel corso del suo mandato che si avvia a conclusione ha richiamato il tema e lo ha sottoposto all'attenzione distratta delle forze politiche. Ma un verdetto così aspro da parte della Corte europea toglie qualsiasi alibi e mette in evidenza l'inconcludenza retorica del sistema.

Qualcuno obietterà che la condizione dei carcerati non è una priorità; in realtà lo è, come testimoniano le battaglie civili di coloro che in questi anni non si sono stancati di impegnarsi per cambiare le cose, a cominciare dai radicali di Pannella (il comitato Calamandrei ha assistito tre dei sette detenuti che hanno provocato il pronunciamento di Strasburgo).

In ogni caso la priorità della questione carceraria è imposta dalla nostra appartenenza all'Unione europea che prescrive precisi standard in tema di diritti umani. Non è un problema di "lassismo" bensì di civiltà giuridica. E adesso che i ritardi e le inadempienze non sono più ammessi, al punto che l'Italia ha solo un anno di tempo per correggere la situazione, l'aspetto politico diventa centrale.

Si può immaginare che il nodo delle carceri diventi qualcosa di più di un breve paragrafo nei programmi dei partiti? Dopo il commento del capo dello Stato, così dovrebbe essere. C'è il rischio invece che l'intera vicenda si esaurisca in un bengala polemico acceso nella notte e che subito dopo si torni all'ordinaria paralisi. Un anno tuttavia fa presto a passare e una condanna così drastica e perentoria, che accumuna l'Italia a paesi come la Russia, l'Ucraina, la Moldova, la Bulgaria e altri, non potrà non interpellare la responsabilità del prossimo governo politico. La riforma che prevede in molti casi pene alternative al carcere, nonché nuovi fondi per l'edilizia penitenziaria, non potrà restare nel cassetto. Quale che sia la maggioranza parlamentare che s'insedierà dopo il 24 febbrario.

Anche sotto questo aspetto c'è da augurarsi che nelle nuove Camere siano rappresentati deputati e senatori di ogni schieramento sensibili ai diritti civili. Se è vero che l'Europa non può essere solo "spread" e vincoli di bilancio, è altrettanto vero che bisogna dimostrare con lo slancio politico e con l'iniziativa legislativa che esiste nell'Unione uno spazio comune fatto di diritti e di sensibilità civile di cui l'Italia fa parte e non alla retroguardia.

In fondo l'avviso ricevuto dalla Corte giunge alla fine di una legislatura sfortunata, ma anche alla vigilia di una svolta politica. Una magnifica occasione per le forze politiche vecchie e nuove che vogliono dimostrarsi all'altezza della sfida.


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« Risposta #100 inserito:: Gennaio 16, 2013, 04:22:55 pm »

Nella partita a tre del 24 febbraio le carte sono ormai in tavola

di Stefano Folli

15 gennaio 2013


A quaranta giorni dalle elezioni i temi centrali sono tre e s'intrecciano in modi imprevedibili.
Primo tema, il più intrigante soprattutto per gli osservatori stranieri. Berlusconi è davvero in grado di portare a termine una mirabolante rimonta, fino a insidiare la vittoria del centrosinistra? I sondaggi dicono che no, non è possibile.

La prova è che dopo lo "show" da Santoro il capo politico del centrodestra ha riguadagnato due, massimo tre punti. E sono punti piuttosto friabili, legati al clamore suscitato dall'esibizione televisiva. Ieri sera alla Sette Mentana spiegava, dati alla mano, che la forbice fra le due coalizioni maggiori resta ragguardevole, appena sotto i dieci punti. Ciò significa che, per raggiungere Bersani, Berlusconi dovrebbe recuperare circa due punti alla settimana di qui al 24 febbraio. Difficile.
Del resto, c'è un elemento extra-politico che incombe ed è il processo Ruby a Milano. In prossimità del voto potremmo trovarci con una drammatica condanna per sfruttamento della prostituzione minorile inflitta a un ex premier. Eventualità destinata ad avvelenare la campagna, è ovvio, ma anche a rendere impraticabile l'ultima battaglia del vecchio combattente.

Secondo tema, il ruolo e lo spazio di Mario Monti. Il leader della terza forza si è reso conto che qualcosa nella sua campagna e nella sua cifra comunicativa meritava di essere registrato meglio; altrimenti il gioco, come è inevitabile, favorisce i due poli maggiori che tendono a soffocare i partiti intermedi. Monti usa adesso un linguaggio piuttosto ruvido e diretto - lo si è visto ieri sera a "Porta a Porta" - e sceglie con cura i suoi bersagli. Nei giorni scorsi si era contrapposto a Bersani, più con i fatti (la candidatura Albertini in Lombardia) che con le parole. Ora è tornato ad attaccare Berlusconi, il «pifferaio magico».
Si capisce perché. È lì, nel profondo serbatoio del centrodestra, che il "montismo" può mettere radici: fra i delusi vecchi e nuovi o gli scettici dell'ultimora. Sul piano strategico Monti deve impedire che il centrodestra, pur ridimensionato, esca dalle urne ancora in grado di condizionare il Parlamento. L'opposto esatto di quello che vuole Berlusconi. A sinistra invece il premier si distingue da Bersani, sì, eppure è evidente che l'«incontro dei riformisti», cioè il patto con il Pd, è plausibile, anzi probabile. A quali condizioni non si sa ancora. Si è capito che Monti non vorrebbe una nuova tassa sul patrimonio o un'altra manovra.

Terzo tema, la prospettiva di Bersani. Il segretario del Pd deve rassicurare l'opinione internazionale e le cancellerie. Lo fa con l'argomento della "stabilità". L'ipotesi di un'intesa con il Centro affiora negli interventi sui grandi giornali esteri. Ma è chiaro che Bersani vuole, certo, coinvolgere Monti, però desidera pagare il prezzo meno oneroso possibile al patto di governo. Ecco allora la battuta acida sulla «polvere sotto il tappeto», conseguenza di certe scelte dell'esecutivo tecnico. Ed ecco l'attenzione al voto nelle regioni. Lombardia, Sicilia, Campania: è lì che il centrosinistra può perdere la partita. Bersani vorrebbe recuperare i voti di Ingroia, che lo disturbano sul fianco sinistro: magari attraverso un complicato accordo di "desistenza". Ma in particolare vorrebbe che Monti non si presentasse la sera del 25 febbraio con la "golden share" del prossimo governo in tasca.

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-01-15/nella-partita-febbraio-carte-063905.shtml?uuid=AbzQ8PKH
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« Risposta #101 inserito:: Gennaio 19, 2013, 04:25:27 pm »

Grillo è tornato e vuole contendere l'elettorato a Berlusconi

Stefano Folli

19 gennaio 2013


Una mossa a effetto di Beppe Grillo era attesa come inevitabile ormai da qualche settimana. Da quando le cinque stelle dell'ex comico si erano alquanto appannate. Colpa di un certo numero di problemi interni al movimento, ma soprattutto del clima elettorale che tende a riportare l'attenzione del pubblico sui partiti tradizionali o comunque sulle forze con "vocazione" di governo.
In altre parole, Grillo aveva avuto tutto il palcoscenico a sua disposizione nei mesi scorsi, quando eravamo lontani dalle elezioni e i partiti avevano toccato il picco negativo del discredito. Ora il quadro è cambiato e le forze politiche sono in grado di mettere in moto le loro macchine propagandistiche. Di conseguenza Grillo stava scivolando, se non proprio nell'amgolo, certo un po' in disparte.
Non solo. Sul terreno che si definisce in modo approssimativo dell'«antipolitica», il capo del M5S trova dei concorrenti agguerriti. Ora infatti deve condividere il palcoscenico con un Ingroia il cui seguito sembra più cospicuo di quanto si potesse prevedere. E poi naturalmente c'è la Lega in cerca di resurrezione: la proposta di mantenere al Nord il 75 per cento delle entrate fiscali è un'astuzia suscettibile di riguadagnare alla causa del Carroccio il consenso di quei militanti, tanti o pochi, tentati dal "grillismo".
Ma c'è di più. Il vero problema di Grillo si chiama Berlusconi. Quanto più il vecchio leader del centrodestra, battendosi senza risparmio, riesce a riportare a casa una fetta dei suoi voti andati dispersi, tanto più l'ex comico vede accorciarsi la coperta. C'è un rapporto inversamente proporzionale fra i due serbatoi elettorali: se Grillo guadagna, Berlusconi perde. E viceversa.
Ecco allora la riscossa grillina. I colpi di ieri sono studiati con cura per colpire la fantasia dell'elettorato di centrodestra. In realtà non è la prima volta che Grillo attacca i sindacati come l'altra faccia della «casta» parassitaria, ma non c'è dubbio che in campagna elettorale l'effetto di certe frasi è dirompente. E il risultato scontato: da oggi il grande populista genovese è di nuovo sulle pagine dei giornali, avendo creato scandalo. Lui solo contro tutti. Ha offerto un miscuglio destra/sinistra in cui ci sono suggestioni a 360 gradi: i sindacati da «eliminare», certo, ma anche l'auspicio di uno Stato forte; e poi una «banca di Stato» a difesa dei più deboli.
Sono idee che non vanno valutate nel merito (chi pensa che in una democrazia occidentale si possano liquidare le forze sindacali?), ma che servono a mettere nuovo carburante nel motore elettorale del movimento. Grillo fa sapere di essere tornato e di volersi giocare la partita.
Le sue reti pescano in ogni direzione. Si intuisce la preoccupazione per l'espansione della «rivoluzione civile» di Ingroia, ma soprattutto la volontà di contenere la rimonta di Berlusconi. È come se egli dicesse ai simpatizzanti berlusconiani che hanno guardato a lui con interesse: attenti, non tornate a casa, restate con me che vi darò pane per i vostri denti. E così, nel giorno in cui il governatore della Banca d'Italia adombra nuovi interventi sui conti pubblici e chiede alla politica il massimo di responsabilità, Grillo si ripropone come il re dei populisti. In evidente e serrata competizione con l'altro sovrano della materia.

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« Risposta #102 inserito:: Gennaio 29, 2013, 11:00:02 pm »

Il timore di Bersani: che Monti riesca a essere l'ago della bilancia

di Stefano Folli

29 gennaio 2013Commenti (3)


Che cosa irrita in modo così palese Bersani a proposito della campagna elettorale di Monti? L'improvvisa promessa di ridurre le tasse dopo i mesi del rigore? Le battute sulla vicenda del Monte dei Paschi e sugli intrecci fra politica (leggi Pd) e banche? Forse sì, ma non è solo quello. E non è nemmeno la "querelle" sull'eventuale, nuova manovra economica.

La verità è che come sempre la campagna elettorale non è il momento migliore per entrare nel merito dei problemi. Anche chi lamenta l'assenza di «temi concreti», è consapevole che le priorità sono altre. Questa campagna non fa eccezione ed è improbabile che un politico esperto come Bersani si sia risentito solo per il crescente attivismo di Monti, per quel tono non più tanto austero con cui il premier uscente annuncia di voler ridurre l'Imu o l'Irpef.

L'irritazione di Bersani non riguarda solo il merito delle cose dette. Anche perché, ad esempio, è impossibile stabilire oggi se il futuro governo dovrà mettere mano entro giugno a una manovra economica integrativa e di quale entità. Dipenderà da molti fattori tecnici e non solo da chi vincerà le elezioni, come ha lasciato intendere il presidente del Consiglio. In altri termini, le schermaglie in periodo elettorale costituiscono il pane quotidiano e non sorprendono nessuno.

Ma ci sono altre questioni su cui i politici sono molto sensibili. In questo caso ciò che realmente disturba il segretario del Pd è il timore che la coalizione di Monti abbia in mano la «golden share» della maggioranza. Che sia il premier, magari con un 14-15 per cento dei voti, l'uomo in grado di condizionare gli equilibri e i programmi del nuovo esecutivo.

Ora, è vero che proprio ieri il sondaggio Tecné per Sky indicava, un po' a sorpresa, che al Senato il centrosinistra è appena un seggio sotto la soglia utile per essere autosufficiente. Ma altri istituti sono meno ottimisti e di sicuro Bersani li studia tutti. Ai suoi occhi - e a quelli di altri dirigenti del Pd - la colpa imperdonabile del leader centrista è quella di voler «impedire» ai democratici una piena vittoria anche a Palazzo Madama. Vittoria che li metterebbe al riparo da qualsiasi condizionamento.

Si avverte nelle parole del segretario del Pd la sorpresa per un "centro" meno rassegnato e statico di altre volte; nonché la strenua volontà di riaffermare la logica di un bipolarismo che negli anni non ha dato molto al paese, ma ha garantito ampie rendite di posizione ai due maggiori schieramenti. Il che spiega molte cose, a cominciare dal fatto che si è tornati a votare con il "Porcellum", grazie alla convergenza di fatto fra Pd e Pdl nel dire "no" a qualsiasi riforma.

Il timore di Bersani, come egli stesso dichiara, è che Monti si ritrovi la sera del 25 febbraio a essere «l'ago della bilancia». Né più né meno. Un soggetto in grado di negoziare da posizioni di forza l'appoggio e l'eventuale partecipazione al nuovo governo. Capace persino di rendere credibile e gestire un'ipotesi di grande coalizione, sia pure in forma tattica. Incalzato com'è da sinistra, dalla lista di Ingroia e dal movimento trasversale di Beppe Grillo, il Pd fatica ad accettare una sfida al centro. Una sfida che tende a delegittimarlo come forza riformista. Ma è vero un punto: se l'operazione Monti riesce, i democratici dovranno scendere a patti su tutto.
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« Risposta #103 inserito:: Gennaio 30, 2013, 11:31:54 pm »

Nell'Europa integrata non ha senso indignarsi per le ingerenze elettorali

di Stefano Folli

30 gennaio 2013


Il vice-presidente della Commissione europea, Olli Rehn, si è affrettato a precisare nella serata di ieri che non era sua intenzione interferire con la nostra campagna elettorale. Segno che qualcosa del costume italico ha varcato le Alpi. Questo dire e poi smentire è tipico della politica romana, ma di solito non attenua il messaggio: serve in genere a salvare le forme.

È quello che ha fatto Rehn: pur salvando la forma, ha fatto capire con chiarezza qual è il risultato delle elezioni più gradito in Europa. Dovrà essere un esito in grado di tenere Berlusconi lontano dall'area del governo, visto che all'ex premier l'esponente della Commissione fa carico di aver tradito gli impegni presi nel 2011 con l'Unione, esponendo di conseguenza l'Italia al rischio del collasso finanziario.

S'intende che nel partito di Berlusconi ci si è indignati. Brunetta ha chiesto le dimissioni di Rehn e Berlusconi, forse non a caso, ha scelto la giornata di ieri per affermare che lui cerca «il consenso degli italiani, non quello della signora Merkel». Aggiungendo che, in caso di vittoria del centrodestra, «la musica cambierà». Come dire che l'Italia inaugurerà una sua politica autonoma dall'influenza di Berlino.

Cosa significhi in concreto non è chiaro, visto che i vincoli di bilancio varranno, nel caso, anche per Berlusconi. È vero però che le parole di Rehn hanno gettato un grosso sasso nelle acque già agitate del dibattito elettorale. Hanno eccitato un vago sentimento nazionalista che Berlusconi a tratti incoraggia. E in effetti nel centrodestra si sono stracciati le vesti in tanti, come testimonia la reazione di Alfano e di altri: tutti indignati per l'«ingerenza» della Commissione. Eppure l'intervento del vice-presidente può essere inopportuno sul piano politico, ma non è certo illegittimo.

Nell'Europa senza più frontiere della moneta unica e del «fiscal compact» non circolano liberamente solo le persone, ma anche le opinioni. Comprese quella dei commissari-guardiani dell'Ue, la cui attività non a caso scandisce la vita economica dei Paesi membri in ogni stagione dell'anno. Che queste voci debbano tacere in campagna elettorale è una tesi a cui nessuno crede, ma che si preferisce sostenere con una certa dose di ipocrisia quando è conveniente farlo. In realtà quello che accade in Francia e in Germania interessa agli italiani come mai in passato; per contro a Parigi e a Berlino si guarda con attenzione alle scelte del nostro Paese. E non potrebbe essere altrimenti.

Certo, non si può dar torto a Mario Mauro, storico parlamentare europeo, prima con il Pdl e oggi candidato con la lista Monti. Dice Mauro di avvertire un senso di fastidio quando sente «parlare male dell'Italia in Europa e dell'Europa in Italia». Sotto questo profilo si può persino dubitare che l'intervento di Rehn ottenga il risultato auspicato. Potrebbe addirittura innescare un moto di irritazione verso l'Europa e le sue ricette impopolari. C'è da augurarsi che non sia l'inizio di qualcosa di peggio, come farebbero pensare le frasi berlusconiane contro l'Europa tedesca e la necessità di suonare un'altra musica. In ogni caso Rehn fa capire che a Bruxelles e nelle maggiori capitali si farà di tutto per tenere l'Italia agganciata a una cornice di stabilità politica. E sappiamo, del resto, che il Ppe ha già compiuto da tempo la sua scelta pro-Monti.

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« Risposta #104 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:55:31 pm »

L'obiettivo della stabilità

di Stefano Folli

28 febbraio 2013


La crisi italiana si svolge su due livelli. Quello politico fotografa la stasi e l'incertezza e autorizza tutti i timori sul prossimo futuro. Quello istituzionale segnala invece la determinazione di cui ha voluto dar prova il presidente della Repubblica in Germania, quando ha chiuso in faccia al socialdemocratico Steinbrück, reo di aver mancato di rispetto all'Italia.
Il gesto di Napolitano ha un valore sostanziale ma anche simbolico. Sostanziale perché il capo dello Stato ha difeso senza esitazioni la dignità nazionale di fronte a un personaggio non secondario del palcoscenico tedesco, candidato socialdemocratico alla Cancelleria. Simbolico perché il messaggio di Napolitano è chiaro: l'Italia si fa rispettare. Ed è rivolto al partner tedesco, certo, ma anche ai protagonisti della scena politica interna. Il Quirinale fa sapere in definitiva che intende svolgere con decisione, financo con durezza, il proprio ruolo nella soluzione della crisi. Non esistono "clown" nella politica italiana, bensì soggetti tutti egualmente legittimati che devono dar prova di senso di responsabilità, concorrendo al governo del paese.

È quindi opportuno che i partiti «riflettano» in queste ore, ma poi è necessario che si presentino davanti al capo dello Stato con le idee chiare su come intendono garantire la stabilità politica. Questo è il valore ineludibile su cui non si può transigere: il rischio di un vuoto prolungato di potere è infatti altissimo.

A questo punto sappiamo che Napolitano non si tirerà indietro e gestirà la crisi post-elettorale come se egli fosse all'inizio e non alla conclusione del suo settennato. Tuttavia, se ci inoltriamo nei territori della politica, ci rendiamo subito conto del groviglio ancora inestricabile in cui si aggirano vincitori e sconfitti del 25 febbraio. Le "tre grandi minoranze impotenti" di cui ha parlato Michele Ainis per ora restano tali.

L'idea, accarezzata da Bersani e da altri nel Pd, che fosse possibile aprire un negoziato con Grillo e magari arrivare a un accordo in tempi brevi, è durata poche ore. Come era prevedibile, il leader dei Cinque Stelle non ha alcun interesse a farsi fagocitare in una logica tradizionale a pochi giorni dalle elezioni. Tanto meno a votare la fiducia a un governo altrui. Al massimo sarà disponibile a sostenere i provvedimenti che gli piacciono, scelti fior da fiore.

E allora? Nei prossimi giorni il Pd, se vuole mantenere l'iniziativa, dovrà essere molto più realista e coraggioso. Realista perché non può intestardirsi nella ricerca di un'intesa esclusiva con i grillini, in base alla considerazione – espressa da Vendola – che i Cinque Stelle costituiscono in fondo una costola della sinistra. Peraltro la sola ipotesi di un rapido ritorno alle urne sarebbe drammatica. Coraggioso perché una sintesi politica oggi non può ignorare il centrodestra. Bersani ha già detto no alla «grande coalizione», ma si tratta d'intendersi sui termini.

Un accordo in Parlamento su poche riforme essenziali (compresa la modifica della legge elettorale) avrebbe un significato circoscritto nel tempo (un anno?). Ci vuole coraggio, appunto. Ma la «strana maggioranza» con Berlusconi e il "centro" è già esistita, solo che non ha dato risultati sul piano del rinnovamento della politica e delle istituzioni. C'è la capacità oggi di ripetere quell'esperienza, riempiendola però dei contenuti che nel recente passato sono mancati? Lo vedremo presto. È vero, nulla è facile. Né possono essere ignorate le istanze di moralità imposte dal movimento di Grillo. Ma l'esigenza prioritaria, quella su cui il Quirinale è impegnato, consiste nel ricostruire un quadro di stabilità. La sola ipotesi di un rapido ritorno alle urne sarebbe drammatica.

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