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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 106872 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Settembre 09, 2012, 10:09:35 am »

Dietro lo psicodramma della legge elettorale i nodi politici irrisolti

di Stefano Folli

06 settembre 2012


Dietro lo psicodramma della riforma elettorale, in cui si consuma da mesi quel che resta della politica italiana, c'è un nodo politico ben preciso. Riguarda il destino dei due maggiori partiti, il Pd e il Pdl.
Se fosse una partita di calcio, si potrebbe dire che Bersani dispone di due risultati utili: può andargli bene lo stallo definitivo con la conferma dell'attuale "Porecellum" (magari con qualche ritocco minore); ovvero un accordo che recepisca lo schema che sembrava idoneo fino a poche settimane fa e che all'improvviso è evaporato. Viceversa il centrodestra deve stare attento a dove mette i piedi.

La vecchia intesa tecnica Verdini-Migliavacca era un'ipotesi di soluzione che mancava di un contesto politico adeguato. In altre parole, Berlusconi non sa ancora dove pilotare il suo partito, quale abito confezionargli in vista delle elezioni, quale obiettivo porsi, se conservare il timone della leadership nelle sue mani o affidarlo a un nome nuovo, se possibile di forte richiamo.

Tutte queste incertezze determinano infiniti ritardi. Se fosse chiara la prospettiva politica del centrodestra, si costruirebbe intorno ad essa una legge elettorale su misura e c'è da credere che in quel caso si troverebbe in fretta una convergenza con l'altro grande partito, il Pd. Ma la destra vive da tempo una crisi d'identità che le rende difficile qualsiasi scelta e questo spiega anche i lunghi silenzi di Berlusconi, a cui corrispondono gli interventi generici dei suoi collaboratori.

A parte gli attacchi a Casini, è arduo cogliere di questi tempi un tema politico elaborato dalle parti del Pdl.

È vero che il centrosinistra va sui giornali più che altro per le mine innescate da Renzi, con la lotta generazionale che ne deriva, nonchè per le incognite dell'alleanza con Vendola. Ma in questa fase dà l'impressione di avere le idee molto più chiare del centrodestra. In fondo Bersani ha confermato ieri che le primarie per la scelta del candidato saranno «aperte»: un gesto di coraggio, benchè atteso, e una garanzia offerta a Renzi. A Palazzo Grazioli, viceversa, si vive aspettando le intuizioni del capo carismatico. Il quale però è lungi dal ritrovare il «tocco magico» del passato.

Così il palcoscenico è deserto e la commedia langue. La paralisi della legge elettorale nasce di qui. La settimana prossima, in assenza di accordo, si tornerà in commissione e poi si andrà in aula. Tutti contro tutti. Il rischio che alla fine si resti con il "Porcellum" un po' aggiustato è reale.

Del resto anche il premier Monti, sulla scia di Napolitano, ha sollecitato i partiti a trovare l'intesa su «una buona legge». S'intende che non ci sono segnali circa un intervento diretto del governo in materia elettorale: intervento che sarebbe sulla carta possibile e del tutto legittimo, ma assai inopportuno in termini politici.

Al dunque, si aspetta. Se certi nodi saranno sciolti, soprattutto a destra, la legge si farà, giusto in tempo per andare a votare tra febbraio e marzo. Altrimenti si voterà lo stesso, ma i partiti avranno perso un'altra occasione. Il vero pericolo è che il prossimo Parlamento nasca con gli stessi vizi e gli stessi squilibri del vecchio. Sarebbe un salto nell'ignoto quando invece l'Europa ci chiede certezze. Non a caso il tema della campagna elettorale dovrebbe essere la continuità del governo Monti, sia pure in una nuova cornice politica. Ma anche su questo siamo in alto mare.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-06/dietro-psicodramma-legge-elettorale-064000.shtml?uuid=Abhw19YG
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« Risposta #76 inserito:: Settembre 20, 2012, 04:54:53 pm »

Gli scandali quotidiani e l'Europa come garanzia di serietà

di Stefano Folli

19 settembre 2012Commenta


Sembra che i politici italiani siano preda di un «cupio dissolvi» che ricorda il suicidio di massa dei piccoli "lemming" canadesi. Con la differenza che in quel caso sembra trattarsi di una leggenda, mentre le nostre vicende domestiche sono purtroppo tutte vere.

L'opinione pubblica non si è ancora riavuta dopo aver respirato i miasmi che si sprigionano dalla regione Lazio ed ecco che la Camera riesce a darsi ancora la zappa sui piedi. È stupefacente il rifiuto opposto nella Giunta del regolamento alla proposta del presidente Fini di introdurre una forma di controllo "esterno" e indipendente sui bilanci dei gruppi parlamentari.
L'argomento addotto riguarda l'autonomia del Parlamento, ma la verità è che a Montecitorio qualcuno ha perso un'altra occasione per dimostrare un po' di sensibilità istituzionale. Nonostante gli infiniti segnali di allarme, il muro fra i cittadini e i loro rappresentanti resta insuperabile. Tanto è vero che solo pochi o pochissimi fra i parlamentari si rendono conto di quanto sia urgente l'esigenza di maggiore trasparenza. Ci si fa scudo con un tema rispettabile (l'autonomia delle assemblee legislative) e lo si trasforma in un formalismo destinato a bloccare un'operazione verità sui conti dei partiti. Ogni commento è superfluo.

Nel frattempo a Roma si attende con impazienza che la presidente Polverini dia seguito alle sue promesse di massimo rigore. L'impressione è che la riscossa arrivi comunque in grave ritardo rispetto alla corruzione conclamata e "sistemica". Tuttavia giunti a questo punto sarebbe imperdonabile se alle parole non seguissero fatti risolutivi e non si procedesse sul serio alla pulizia emblematica annunciata dalla governatrice del Lazio.
Intanto, come si è detto, la marcia dei "lemming" procede. Capita sempre più spesso che la politica vada sui giornali quasi soltanto per notizie relative a scandali. Eppure il sistema è in via di trasformazione, sia pure in forme ancora imprevedibili. Il vincitore sarà ovviamente chi riuscirà a governare il cambiamento.

Il successo mediatico di Renzi si spiega con la capacità d'interpretare una speranza. Ma la fatica di governare è incarnata da Monti. Il messaggio del premier non è meno efficace di quello di altri personaggi che si affacciano sulla scena. Con la differenza che Monti è a Palazzo Chigi, ma non è in campo. Se lo fosse, sarebbe senza dubbio il naturale federatore di un'Italia che oggi è ansiosa di cambiare, ma non si sente rappresentata.
Berlusconi, in questa estrema stagione della sua vita politica, dimostra di aver compreso il punto anche se non sa sfuggire alle sue contraddizioni. Da un lato vorrebbe riunire i moderati, perché si rende conto che l'unica strada è quella di stare in Europa. E oggi in Italia il terreno europeo è delimitato meglio di altri dai Napolitano e dai Monti. Tuttavia dall'altro lato Berlusconi cerca come al solito facili applausi parlando contro l'Imu e il "fiscal compact" (votati dal Pdl). È chiaro che le due cose non stanno insieme e il capo dello Stato ieri lo ha ribadito senza mezze misure. Il partito europeo di domani può nascere se il Pdl - segmento italiano del partito popolare europeo - accetta la sfida della serietà e decide cosa vuole essere. Ma c'è da essere scettici.


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« Risposta #77 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:38:54 pm »

C'è del metodo a sinistra: Vendola, le primarie, il congresso Pd (in corso)

di Stefano Folli

22 settembre 2012

Non è strano che le primarie del Pd assomiglino a una sorta di congresso che si svolge in piazza, nei gazebo e in televisione. Era nella logica delle cose da quando Bersani, non senza coraggio, ha accettato di mettere in gioco la sua leadership, anzichè pretendere un plebiscito su decisioni prese altrove. Quindi, primarie uguale congresso. Tanto più che al momento i candidati sono tutti del Pd, con Vendola che ha molta voglia di restare fuori e Tabacci unico rappresentante esterno in campo.
Peraltro, se è vero che il congresso è già cominciato, il giovane Renzi in un certo senso lo ha già vinto, almeno dal punto di vista mediatico. Ha dato una scossa all'albero del Pd come non si vedeva dai tempi della Bolognina, la «svolta» che fra la fine del 1989 e il febbraio del 1991 portò a un congresso (vero) e al cambio del nome del Pci. Sono bastate poche settimane per mettere in drammatica difficoltà il gruppo dirigente del partito, che si sente sfidato come mai in passato.

D'altra parte Bersani è ancora in grado di controllare la situazione, specie se le regole delle primarie, tuttora misteriose, metteranno qualche paletto volto a favorire la partecipazione dei militanti del centrosinistra a scapito di quei «delusi da Berlusconi» (cioè voto d'opinione lontano dal Pd) a cui si è rivolto l'intraprendente sindaco fiorentino. In fondo ha ragione il manager Gori, che al quotidiano «Pubblico» ha detto: «Fra Bersani e Berlusconi, Renzi potrebbe battere più facilmente il secondo». Analisi corretta.
Intanto però l'attualità accende le luci su Vendola, l'Amleto delle primarie che a Vasto si è ritrovato accanto a Di Pietro, insieme al quale ha appena chiesto il referendum sulla riforma del lavoro e ora reclama «il ribaltamento dell'agenda Monti» nonché il rifiuto di un'alleanza estesa a Casini. Si può sottovalutare la circostanza e concludere che si tratta solo di campagna elettorale. Ma non è così. La posizione vendoliana obbliga Bersani a un chiarimento. E infatti ieri sera il segretario del Pd ha difeso l'«agenda Monti», precisando che essa sarà «integrata» dopo le elezioni con misure sulla crescita economica.

Se bastasse questo, non ci sarebbe da preoccuparsi. Ma la realtà dice che una coalizione da Casini a Vendola richiederà incredibili giochi di equilibrismo e si annuncia fin d'ora a rischio di paralisi. Vedremo. Certo è che il governatore della Puglia, se da un lato punta i piedi sullo scenario politico, dall'altro qualcosa concede. E non poco. La sua mancata partecipazione alle primarie, se sarà confermata, permetterà a Bersani di coprirsi sul lato sinistro, in modo da concentrarsi nello scontro con i renziani. Difatti il sindaco di Firenze è l'unico realmente danneggiato dal ritiro di Vendola.
Diciamo che Bersani procede, elettori permettendo, secondo il suo schema preferito: inglobare il Sel vendoliano come ala sinistra dell'alleanza (e forse anche Di Pietro); tentare di vincere le elezioni, conquistando il premio di maggioranza; subito dopo rivolgersi al centrista Casini per stipulare un patto di governo. Ma quel giorno emergeranno tutte le contraddizioni nascoste sotto il tappeto durante la campagna elettorale. Il «filo della stabilità» su cui insiste Napolitano come patrimonio da preservare sarà a rischio. E con esso, inutile dirlo, anche la fatidica «agenda Monti».

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-22/metodo-sinistra-vendola-primarie-081420.shtml?uuid=Ab9erihG
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« Risposta #78 inserito:: Ottobre 01, 2012, 02:55:28 pm »

Con l'ipotesi Monti-bis quadro politico più chiaro.

Ora i partiti facciano i conti con la realtà

Il Punto di Stefano Folli

30 settembre 2012


Monti-bis, fattore di chiarezza
Il dato positivo è che il solo parlare di un'ipotesi di Monti-bis all'inizio della prossima legislatura rappresenta un elemento di chiarezza. Di più: è una spinta alla concretezza di un dibattito che altrimenti sarebbe fatto solo di scandali e di polemiche intorno agli sprechi (o alle malversazioni) a livello regionale. Viceversa, misurarsi sull'idea di un nuovo esecutivo guidato da Monti obbliga i partiti – i favorevoli come i contrari – a fare i conti con la realtà. Perchè discutere di Monti significa discutere anche di Europa, di relazioni con le grandi cancellerie europee; vuol dire porsi il problema delle riforme (non solo in forma retorica e mediatica) e capire veramente quale sia il "che fare" nei prossimi mesi. Anche e soprattutto per ridare slancio all'economia e in prospettiva ridurre il carico fiscale.

Pro e contro: a favore di Monti
S'intravedono già i due schieramenti. A favore di Monti già oggi ci sono le forze del centro. Il partito di Casini, naturalmente, ma nella sua versione allargata: Fini, i partecipanti al recente convegno di Chianciano, imprenditori e professionisti, pezzi del mondo cattolico alcuni dei quali già presenti nell'attuale governo "tecnico". È una forza che ruota intorno al 9-10 per cento dei sondaggi, ma che può crescere. Soprattutto ora che l'enigma Montezemolo si è finalmente chiarito. Con poca sorpresa di quanti avevano già previsto da tempo l'epilogo. Il presidente della Ferrari non si candiderà in prima persona, ma userà la sua influenza e il peso della sua Fondazione per sostenere l'ipotesi Monti. In questo modo la rete si allarga e comincia a prendere la fisionomia di una novità politica. Non è solo l'Udc, il partito di Casini, a sostenere il Monti-bis. Per la prima volta la prospettiva di una grande lista civica nazionale che spezzi le barriere partitiche acquista una parvenza di verosimiglianza. Non solo un'operazione di palazzo o di semplice cosmesi, bensì uno sforzo per uscire dai vecchi confini e cominciare a parlare a quella larga fetta di opinione pubblica (il 40 e più per cento) che vede in Monti la persona giusta per il domani. Tuttavia, è bene dirlo, la lista civica richiede molta fatica e molto lavoro per essere credibile. Non bastano un convegno e un paio di interviste. Occorrerà darsi parecchio da fare per essere credibili, imparando a mettere in campo qualche faccia nuova. Per ora i sostenitori di Monti sono al punto di partenza.

Chi sono i diffidenti o i nettamente contrari al Monti-bis? Lasciamo da parte gli oppositori dichiarati e quindi a loro modo coerenti: i Vendola, i Di Pietro, i Maroni, ovviamente i movimenti anti-sistema che peraltro entreranno nel prossimo Parlamento. La vera diffidenza e anzi contrarietà riguarda il Pd e il Pdl. Bersani vede il rischio che la sua vittoria politica sfumi negli ultimi metri. Vittoria politica, non elettorale. Perchè sul piano dei numeri il Pd vincerà le elezioni, ma se il leader non potrà varcare la soglia di Palazzo Chigi, la sconfitta sarà tutta politica e molto dolorosa. Tuttavia Bersani dovrebbe fare i conti con la realtà. Correre i prossimi mesi di campagna elettorale limitandosi a dire "no" a Monti finirebbe per essere logorante. Specie se si accompagnasse all'illusione che poi, per risolvere la grana, basterà dirottare Monti verso la presidenza della Repubblica. Non sarà così agevole. Comunque sia, limitarsi al "no" equivale a un non-argomento che schiaccerebbe sempre di più il partito democratico sulla sinistra sindacale o vendoliana, a seconda delle circostanze, e approfondirebbe il solco con il folto gruppo dei pro-Monti che sono nel partito.

Parliamo dei centristi post-democristiani che potrebbero anche decidere di raggiungere la famosa "lista civica" di centro, se mai vedrà la luce e se sarà una cosa seria. Bersani sente il pericolo, ma il problema è che finora lo aveva sottovalutato. E inoltre dovrebbe sapere, il segretario del Pd, che l'ipotesi Monti non è una trappola dei "poteri forti" internazionali, come qualcuno mostra di credere, bensì la logica conseguenza della drammatica difficoltà in cui si trova l'Italia. Se da qui alla prossima primavera dovremo chiedere gli aiuti alla comunità internazionale, chi condurrebbe meglio la trattativa: Monti è un presidente del Consiglio "politico" ma senza esperienza?

Pro e contro: il debole "no" del Pdl
Molto fragile e poco convincente il "no" di Alfano che riflette i dubbi di Berlusconi. Cosa vuol dire che Monti per avere l'investitura si deve candidare? Il segretario del centrodestra dimentica che il premier è già in campo. È un senatore a vita che ha dato la sua disponibilità a guidare ancora il governo. E sta prendendo forma un'alleanza eterogenea che condivide tale scelta. Il vecchio centrodestra berlusconiano rischia di essere sorpassato dagli eventi propri sul fronte moderato. Sarà opportuno che Berlusconi e Alfano ci riflettano prima che sia troppo tardi. Per non ritrovarsi a scegliere fra due strade ugualmente scomode: o fare la campagna contro la moneta unica e contro l'Europa, inseguendo il populismo; oppure allinearsi agli altri nel sostegno dell'ultimora a Monti. Il tempo delle scelte e della serietà si avvicina per tutti. Anche perchè sia il Pdl sia il Pd possono mettere in campo le loro proposte programmatiche e dare un contributo serio alla ripresa del paese. Purchè abbiano sufficiente fantasia e umiltà per giocare questa che è la vera partita del 2013.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-30/ipotesi-montibis-quadro-politico-170933.shtml?uuid=AbOWCEmG
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« Risposta #79 inserito:: Ottobre 02, 2012, 11:14:08 pm »

Luci e qualche ombra intorno al Monti-bis

di Stefano Folli

2 ottobre 2012

Il dibattito intorno all'ipotesi di un nuovo governo guidato da Mario Monti dopo le elezioni ha preso il via da pochi giorni e già sta assumendo un tono vagamente surreale. Eppure non dovrebbe essere difficile fare chiarezza su alcuni passaggi cruciali. Ad esempio, è evidente che il prossimo esecutivo dovrà essere fondato su una maggioranza politica, su di un patto scaturito dal risultato del voto.

Non avrebbe alcun senso dar vita a un'altra compagine «tecnica» dopo aver portato gli italiani alle urne. Qualcuno ritiene invece che richiamare Monti a Palazzo Chigi equivarrebbe a proseguire con i tecnici. Non è così. D'altra parte nulla esclude che Monti, peraltro già insignito della carica di senatore a vita, possa essere convocato per formare un governo politico se le circostanze parlamentari lo consiglieranno. Con quale maggioranza, si vedrà al momento: dipenderà, è ovvio, dalle forze politiche.

Secondo aspetto. Il premier si è limitato a offrire la propria disponibilità, ma ha anche precisato che se altri vorranno formare il nuovo governo politico, questo sarebbe nella logica della democrazia. C'è forse un pizzico di malizia in queste affermazioni? Magari sì. È come se Monti dicesse ai partiti: se siete in grado di mettere in piedi un governo, accomodatevi; se siete capaci di essere presi sul serio dalle cancellerie internazionali, non esitate a prendere il mio posto.

Quel che è certo, Monti non è e non vorrà essere nei prossimi mesi un uomo «di parte». Non lo vedremo alla testa di uno schieramento. Il che non significa che il premier non faccia politica attraverso gli atti e le parole: ad esempio con la simpatia ostentata verso il Partito popolare europeo o con le iniziative volte a contrastare il «populismo» nelle sue varie forme.
Terzo. Se Monti resta in disparte rispetto alla competizione elettorale, è evidente che egli non può essere il candidato di Casini e Fini. Tuttavia si possono biasimare questi due politici di lungo corso per aver annunciato il loro appoggio al Monti-bis? Anche questo è un controsenso. Esiste una larga fetta di opinione pubblica che giudica in modo positivo l'operato del presidente del Consiglio ed è comprensibile che un partito, o anche un movimento come quello di Montezemolo, voglia interpretare questo sentimento. Obiezione: lo fanno per guadagnare voti, strumentalizzando il premier. Ma in politica questo è del tutto normale, tanto più che i centristi hanno fin qui sostenuto Monti con lealtà.

Quarto punto. C'è un'altra obiezione più seria: il Monti-bis difficilmente prenderà forma se il gioco politico resta ingessato come è oggi. «Berlusconi, Casini e Bersani sono tutti e tre parte del sistema» scriveva ieri su queste colonne Luigi Zingales con estremo scetticismo. Ed è vero: se il sistema politico non cambia, avrebbe poco senso parlare di un nuovo esecutivo affidato al premier che sa interloquire con l'Europa. In altri termini, Monti non può essere altro che «super partes» rispetto ad aggregati politici che non riescono a cambiare passo e per i quali è quasi impossibile rivolgersi al paese in uno spirito di unità nazionale.

In definitiva servirebbe un'autentica novità in grado di scuotere l'albero della politica. Il Monti-bis non può nascere da un'operazione di palazzo o da una pur legittima manovra elettorale. I maggiori partiti, dal Pd al Pdl (se non si disgrega), avrebbero facile gioco a mettersi di traverso. Forse occorre creare quello che i francesi chiamano un «rassemblement pour la République», qualcosa che prende forma fuori dei partiti e li obbliga a rifondersi. In Francia il tentativo riuscì e nacque la Quinta Repubblica. Da noi sarebbe sufficiente restituire una speranza e una rappresentanza politica agli italiani che credono nell'Europa.


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« Risposta #80 inserito:: Ottobre 07, 2012, 11:23:07 pm »

Renzi non è sconfitto, ma su di lui ora il cerchio si stringe

analisi di Stefano Folli

7 ottobre 2012

Chi ha vinto e chi ha perso nel Pd? Dopo l'assemblea di sabato, molti ritengono che Matteo Renzi sia stato sconfitto nella lunga partita a scacchi sul regolamento delle primarie che lo ha opposto alla nomenklatura del Pd ben guidata dal segretario Bersani (partita che forse non è ancora conclusa). Qualcuno pensa che lo spregiudicato sindaco fiorentino abbia esaurito le frecce al suo arco e che non abbia più speranze di prevalere nelle urne, specie al secondo turno dove si salderà la tenaglia Bersani-Vendola. E c'è chi arriva a considerare chiusa la parabola del "rottamatore" che ha tentato di rovesciare l'assetto di potere del Pd e alla fine ne è stato stritolato.

Ma qual è l'alternativa che i critici di Renzi propongono? Essi vorrebbero (o avrebbero voluto) che il sindaco uscisse dal Pd sbattendo la porta e si decidesse a mettere in piedi un'alleanza trasversale sinistra/destra capace di sfidare a viso aperto il vecchio partito e magari l'intero sistema politico fatiscente, sì, ma non ancora sgominato. Agli occhi di questi critici Renzi ha deluso, ma essi sottovalutano il fatto che il giovane politico toscano si sarebbe ritrovato in completo isolamento nel giro di un paio di settimane. Se avesse seguito i suggerimenti di qualcuno più rottamatore di lui, avrebbe ottenuto grandi titoli sui giornali e alcuni giorni di sovraesposizione mediatica. Ma di sicuro non lo avrebbero seguito molti di coloro che adesso lo spingono a spezzare i legami. Certo non lo avrebbero aiutato i berlusconiani del Pdl e ancor meno i centristi che lo hanno sempre guardato con sospetto,

Evitato l'errore del "dannunzianesimo". Il sindaco in realtà ha dimostrato di essere un realista. Non ha voluto essere il nuovo D'Annunzio della politica italiana, a costo di indispettire qualcuno dei suoi seguaci. Al "bel gesto" fine a se stesso e in ultima analisi impolitico, ha opposto la decisione di restare nel Pd nonostante le sirene che lo chiamavano fuori. E il messaggio che manda all'opinione pubblica non è di resa, ma certo abbraccia una prospettiva di medio-lungo termine. Il "veni, vidi, vici" delle prime settimane oggi è un ricordo. Nessuno può escludere che Renzi riesca ugualmente a vincere le primarie, ma è assai più probabile che egli abbia messo in conto una sconfitta onorevole suscettibile di rimandare la battaglia finale per il rinnovamento a un futuro indistinto: magari non lontano, ma oggi non prevedibile. Gli impazienti sono scontenti, eppure il sindaco ha mostrato con questa scelta di avere la stoffa dell'uomo politico, la cui prima virtù è saper aspettare il momento opportuno. Dalla sua ha l'età, le qualità di buon comunicatore, una notevole franchezza. Sull'altro piatto della bilancia c'è un leader (Bersani) che si prepara a vincere le elezioni senza una convincente coalizione dietro le spalle. Il suo vero, grande alleato è Vendola. E questo suscita più di un interrogativo nel paese e nel resto d'Europa.

Gli attacchi da sinistra al sindaco di Firenze. A ben vedere, l'offensiva polemica contro Renzi che il governatore della Puglia ha scatenato in queste ore ha una sua logica, che non è solo quella di realizzare un buon punteggio alle primarie. Vendola attacca con l'argomento che il sindaco è un corpo estraneo. E' un "liberista" nelle parole del capo di Sel: quasi un insulto. È come se a sinistra del Pd fosse partito l'attacco finale per mettere alle corde il "rottamatore". Ma in questo modo tutto il centrosinistra scivola a sinistra, anzi su posizioni di una vecchia sinistra classista e ideologica.

Cosa ne pensa Bersani? Probabilmente non dirà nulla, perchè non ha alcun interesse a difendere il suo competitore fiorentino. Ma una vittoria del segretario sull'onda di una campagna dominata sul piano culturale da Vendola sarebbe una grossa incognita per il Bersani candidato a Palazzo Chigi. Perchè di sicuro egli non può permettersi che si crei nell'opinione pubblica l'idea di una sua sudditanza anche solo psicologica nei confronti del governatore pugliese. Qui Renzi non c'entra, è fuori dai giochi. Quel che conta è che Bersani non può scivolare troppo a ridosso di Vendola. Ma la dura contesa di questi giorni contro il corpo estraneo "liberista" potrebbe avere questo esito fatale.

E intorno a Renzi il cerchio si stringe. Detto tutto questo e fatto l'elogio del realismo renziano, resta un punto. Il momento magico del sindaco potrebbe essere passato e le prossime settimane potrebbero rivelarsi meno facili delle precedenti. La mossa di restare nel Pd e di giocare a più lunga scadenza, smentisce tutte le calunnie sul Renzi che voleva spaccare il Pd perchè "quinta colonna" di Berlusconi. Tuttavia ora il cerchio si stringe intorno a lui. Vendola, i pezzi di vecchia nomenklatura che si sono spaventati a morte, lo stesso Bersani in forme più morbide: la strada di Renzi ora è in salita e lo sarà ancor di più nel caso di un'affermazione del segretario alle primarie. Ma Renzi ha scelto di correre la maratona, non i cento metri, e ora dovrà essere conseguente. Il tempo è dalla sua, ma spetta a lui costruire – per ora all'interno del Pd – una seria prospettiva politica.


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« Risposta #81 inserito:: Ottobre 17, 2012, 04:24:33 pm »

Veltroni ha spiazzato tanti, ma forse Renzi persino più di altri

di Stefano Folli

16 ottobre 2012


Matteo Renzi non resiste alla tentazione di attribuirsi in pubblico il merito della rinuncia di Veltroni a candidarsi.
È comprensibile, s'intende, visto che è lui l'inventore del termine «rottamazione», peraltro orribile, ed è sempre lui ad avere impostato tutta la campagna delle primarie sull'esigenza di pensionare buona parte del gruppo dirigente del Pd.

Tuttavia in cuor suo il sindaco di Firenze non deve essere altrettanto compiaciuto. Ai fini pratici, se l'obiettivo è la vittoria nel duello contro Bersani, gli avrebbe fatto più comodo un Partito Democratico chiuso a riccio, sordo a qualsiasi richiesta di rinnovare la classe dirigente. Una simile condizione avrebbe costituito il migliore «spot» per la campagna dissacrante dello sfidante.
Ora invece la mossa di Veltroni spiazza un po' tutti: i nomi noti del vecchio gruppo di vertice, è logico, perché non sanno cosa fare; ma in fondo anche il giovane rottamatore fiorentino.

Si dimostra che in un modo o nell'altro, attraverso vie imprevedibili, il «cambiamento» invocato da Bersani comincia a manifestarsi persino all'interno delle mura poco permeabili del partito. E in fondo il segretario-candidato si trova al crocevia giusto per ricavarne qualche vantaggio politico, più e meglio di Renzi. Certo, a quest'ultimo resta la palma del profeta. Senza di lui e senza il suo urticante messaggio non sarebbe successo niente: né Veltroni né altri avrebbero fatto il fatidico passo indietro. Tuttavia è noto che in politica con le soddisfazioni morali si va poco lontano. Nella vecchia Urss Boris Eltsin vince quando si dimostra che lo Stato sovietico è irriformabile e che Gorbaciov è un illuso. Se viceversa l'ultimo segretario del Pcus fosse riuscito ad avviare un programma di riforme e a rinnovare sul serio l'immagine della patria del socialismo, forse la storia sarebbe stata diversa.

In fondo oggi Bersani può dimostrare che le riforme interne e il rinnovamento del partito non sono "slogan" vuoti. Per un verso anche lui è spiazzato dalla mossa veltroniana; ma per un altro è vero che da oggi i suoi spazi di manovra sono cresciuti. Purchè, sia chiaro, egli riesca a tenere in mano tutti i fili della matassa.

In altre parole, se il ricambio del gruppo dirigente avverrà con calma, senza strappi e senza prendere il sapore dell'epurazione, Bersani potrà gestirlo a proprio totale favore. Proprio quando il sindaco di Firenze si troverà espropriato del suo principale cavallo di battaglia.
Del resto i voti si catturano sull'attesa di un risultato, sulla speranza di combattere una battaglia vittoriosa. Se invece la battaglia si vince senza nemmeno bisogno di combatterla, c'è il forte rischio che la tensione venga meno e il popolo dei "fedeli" si distragga.

È presto per dire come finirà, ma a Renzi converrebbe che nessuno o quasi seguisse l'esempio di Veltroni. Tutto quello che invece serve a promuovere il ricambio del gruppo dirigente in luogo della «rottamazione» pura e semplice, riduce lo spazio del sindaco. L'opposto di quello che può accadere - almeno sulla carta - a Bersani. Anche perché la campagna dello sfidante non può essere mono-tematica.
L'inizio è stato sfolgorante, ma ora all'improvviso il tema dei pensionamenti eccellenti potrebbe non essere più così trainante.

E al sindaco difettano altri argomenti di così sicuro impatto.

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« Risposta #82 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:05:10 pm »

Al congresso Ppe di Bucarest va in scena la paralisi dell'area moderata

di Stefano Folli

18 ottobre 2012Commenta

È una sfortuna che Silvio Berlusconi abbia l'influenza e quindi non possa prendere parte al congresso dei Popolari Europei a Bucarest. Avrebbe potuto, fra l'altro, incontrare la cancelliera Angela Merkel con la quale ancora di recente ha fatto sapere di aver avuto e di mantenere ottimi rapporti personali (con il sottinteso che certe interpretazioni malevole erano solo il frutto di una cattiva informazione).

Eppure la realtà dice che proprio il rapporto tormentato e tutt'altro che positivo fra l'ex premier e la cancelliera tedesca descrive in modo chiaro e anche simbolico il dramma politico in cui si agita il centrodestra italiano.
Angela Merkel è di fatto il capo dei Popolari Europei. Berlusconi è stato per anni il leader del Pdl, forza di maggioranza relativa in Italia, aderente al Ppe: anzi, uno dei partiti più consistenti della famiglia dei Popolari, almeno negli anni d'oro. Ebbene, è stata la Merkel a esercitare una pressione forse decisiva per sostituire il governo Berlusconi con l'esecutivo guidato da Monti. Ecco un caso in cui la comune adesione al Ppe non si traduce in un'armonia d'intenti.
Se poi si guarda agli avvenimenti dell'ultimo anno, dalla caduta di Berlusconi in poi, alcuni indizi sono significativi. Il Pdl è in via di dissoluzione, nonostante gli sforzi del suo segretario Alfano. Berlusconi si trova in una sorta di limbo, attacco influenzale a parte: forse si è ritirato o è tentato di farlo; al tempo stesso però aspetta il risultato del voto in Sicilia e intanto osserva il collasso della giunta Formigoni in Lombardia, senza trascurare l'ipotesi di agganciare la Lega di Maroni in una nuova alleanza. E come è noto non ha accantonato l'idea di promuovere una lista personale, magari senza guidarla in modo diretto.

Stando così le cose, quale valore hanno le richieste rivolte a Casini, a Bucarest, per stringere al più presto una nuova alleanza? Alfano e Frattini sono molto insistenti e dal loro punto di vista si capisce: sotto il profilo tattico è meglio giocare questa modesta carta piuttosto che condannarsi all'immobilismo più assoluto. Ma nella sostanza la proposta non significa molto e infatti non viene presa in considerazione dall'Udc. Il problema è che il Pdl non è credibile, dal momento in cui la sua forza politica risulta frammentata. Ma soprattutto è evidente che il suo leader storico sta mettendo in atto una serie di giochi tattici in cui tutto o quasi è intercambiabile.
Ad esempio. La linea pro-Monti, favorevole a proseguire con l'attuale presidente del Consiglio anche dopo le elezioni, è ben rappresentata sia da Alfano sia da Frattini. Ma Berlusconi, l'uomo che la Merkel (e non solo) ha considerato del tutto inaffidabile per svolgere un ruolo in Europa, più di una volta ha ammiccato alle posizioni euro-scettiche perché in cuor suo vorrebbe riuscire ad assorbire anche questa fetta di opinione pubblica.

Ne deriva che per mille ragioni a Bucarest risulta in modo palese la paralisi dell'area moderata italiana: quella che nel corso del dopoguerra è stata sempre maggioritaria sul terreno elettorale e che oggi sembra alla deriva. Al punto che una porzione consistente guarda con interesse all'esperimento di Matteo Renzi. Alfano e Frattini appartengono in forma ideale al «partito di Monti» (e a sua volta il premier parla sempre con rispetto del Ppe). Ma chi c'è dietro di loro? Solo una grande confusione.


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« Risposta #83 inserito:: Ottobre 30, 2012, 05:44:40 pm »

Sabbie mobili e partiti inconsapevoli

di Stefano Folli

30 ottobre 2012


Essere nelle sabbie mobili e non accorgersene: è un po' questa la condizione delle forze politiche tradizionali dopo il voto in Sicilia. Le reazioni sono singolari, soprattutto quelle di chi ritiene di aver vinto. Sono reazioni tipiche di un ceto politico troppo ripiegato su se stesso per riuscire a leggere la realtà.

L'astensione al 53%, evento senza precedenti? Le liste anti-sistema di Grillo primo partito nell'isola in cui quasi non esistevano fino a due mesi fa? Domande irrilevanti a cui dedicare al massimo un commentino di maniera. Pierluigi Bersani, che pure è un realista, esprime tutta la sua gioia per «un risultato storico». Certo, il Pd, alleato con Casini, varca la soglia del Palazzo dei Normanni con il suo candidato Rosario Crocetta destinato a sedersi sulla poltrona di presidente. Ma è evidente che i voti sono troppo scarsi per governare e quindi occorrerà stringere nuovi patti di potere: ad esempio, con l'ex governatore Raffaele Lombardo e il suo partner Micciché. Il che cambia non poco l'equazione del «risultato storico» e rende assai più incerta la scommessa sulla governabilità.
In una Sicilia frammentata fino all'inverosimile, si potrebbe dire balcanizzata, il Pd insieme alla lista apparentata pro-Crocetta raccoglie un risultato inferiore di circa due punti a quello delle precedenti regionali: il 20,1. Il che un poco offusca la portata storica della vittoria, tenendo conto del tasso straordinario di astensione e del contemporaneo crollo delle liste di centro-destra.

Le quali si sono dilaniate pagando anche il prezzo delle convulsioni romane in cui il partito berlusconiano (forse ormai ex berlusconiano) sta sprofondando. E va riconosciuto al segretario Alfano di aver gestito la crisi con dignità, resistendo alle pressioni degli ultimi giorni: fino alla coraggiosa presa di posizione espressa ieri con la conferma del sostegno parlamentare al governo Monti.
Nel centrodestra, tutti lo vedono, c'è un nesso inevitabile fra il risultato siciliano e quello che sta avvenendo a Roma. La disgregazione di un'area politica così rilevante, unita ai furori improvvisi di Berlusconi, rischia di avere un impatto destabilizzante tutt'altro che secondario. Ed è stato abile il presidente del Consiglio a Madrid a ostentare un algido distacco di fronte all'evocazione di un simile pericolo.

Il problema è che il laboratorio della Sicilia offre molte suggestioni, ma poche soluzioni. Disegna uno scenario in cui le forze tradizionali vengono bastonate dagli elettori e di fatto indebolite, quasi delegittimate. Offre al contrario lo spettacolo del "grillismo" marciante, carico di indignazione contro le ruberie e gli scandali, ma anche di rancore verso l'Europa come supposta causa della recessione. E comunque voglioso di ritornare sul continente per cogliere un successo ancora più clamoroso nel voto politico di primavera. Magari misurandosi prima nelle regionali del Lazio e della Lombardia, terreni propizi al messaggio anti-sistema più di quanto sia stata la Sicilia (ed è tutto dire).
È vero, l'isola oggi rappresenta lo specchio delle contraddizioni politiche nazionali. Ma proprio questo dato è inquietante alla luce dell'inerzia di cui danno prova i partiti e i loro leader. Il sistema sembra volersi suicidare, mentre appena fuori della porta si affollano i ribelli in numero sempre maggiore, prodotto dell'infinita serie di errori commessi da chi ha avuto il potere e lo ha mal gestito. Da dove può nascere la riscossa, visto che ci attendono ancora alcuni mesi di agonia prima delle elezioni? Mesi in cui Beppe Grillo e i suoi avranno facile gioco perchè non c'è nulla che chiami il successo come il successo medesimo: quello che gli americani chiamano effetto "band-wagon".

Certo, la rivincita può nascere da un vero rinnovamento dei partiti: negli uomini e nei programmi. Ma è poco credibile, siamo quasi fuori tempo massimo. Può nascere dalla serietà di una campagna elettorale in cui i temi del Governo Monti (la serietà amministrativa, l'equilibrio dei conti pubblici, l'Europa) diventano motivo di coesione e non di polemica. Ed è complicato. Peraltro l'anticipo del voto per ora è un'ipotesi non contemplata, anche perché le forze politiche hanno fallito nella revisione della legge elettorale: obiettivo a cui li ha spronati negli ultimi mesi il presidente della Repubblica con un'insistenza che avrebbe dovuto insegnare qualcosa.
Gli ottimisti pensano che nonostante tutto un punto politico importante sia emerso dal voto siciliano: la buona salute dell'asse Bersani-Casini che sosteneva Crocetta, accompagnato dal collasso delle liste "estremiste". Vendola e Di Pietro non riescono a entrare all'Assemblea di Palermo. E ci si chiede se non sarebbe possibile replicare questa alleanza "centrista" alle prossime politiche. Si può, certo, se Bersani avesse l'interesse e la determinazione a escludere Vendola e i suoi dall'intesa generale con il Pd. Non sembra che sia possibile, almeno nei prossimi tempi. E poi Casini dovrà essere molto persuasivo per ottenere dal Pd non solo belle parole, ma una serie di scelte politiche adeguate. Al momento non c'è da farsi molte illusioni sul fatto che nascerà in tempi brevi un centro-sinistra di tipo europeo. Siamo all'anno zero di una repubblica che ancora deve nascere.


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« Risposta #84 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:22:20 pm »

Un punto per la politica

di Stefano Folli

13 novembre 2012


Bel colpo mediatico di Sky e tutto sommato bel colpo politico per il centrosinistra. In via del Nazareno sono stati i primi in Italia a organizzare delle primarie per la scelta dei candidati, i primi ad aver applicato il modello per individuare un candidato premier (in passato ci sono state primarie "plebiscitarie" che non erano certo la stessa cosa).

È merito di Bersani e gliene va dato atto perché ha saputo correre non pochi rischi.
A guardare la sostanza del dibattito, la sorpresa positiva è stato Bruno Tabacci: concreto, competente, moderno pur avendo un passato importante nell'Italia democristiana dell'altroieri (ma era la Dc di Marcora, interprete della Lombardia produttiva). In fondo ci si aspettava qualcosa di più da Matteo Renzi. Era la sua occasione per staccarsi dal gruppo e imporsi con quel linguaggio scanzonato che lo ha reso famoso, ma il sindaco lo ha usato solo a tratti, anche nei contrasti con Vendola.

A qualcuno è apparso un po' sottotono, ma in realtà è stato preciso nel rispondere alle varie domande del conduttore. Il problema è che la sua campagna ha sollevato attese quasi miracolistiche. Messo a confronto con gli altri candidati, le sue ricette sono corrette ma assai meno dirompenti del primo e autentico tema che gli ha dato la celebrità: il rinnovamento della classe dirigente, volgarmente riassunto in quel termine tremendo, la "rottamazione".

Bersani è apparso nei suoi panni: autorevole, concreto a sua volta, in grado di proporre qualche novità (sulle società partecipate), ma non si sa quanto capace di affascinare un'opinione pubblica esterna ai confini del Pd. Del resto, il segretario è molto attento a tenersi "coperto" a sinistra. Vendola ha incarnato il suo personaggio, sempre piuttosto verboso. Ma ha badato a essere fino in fondo l'ala sinistra di un mondo, il centrosinistra, nel quale peraltro risulta sempre più integrato. E Laura Puppato, dal canto suo, ha tenuto la scena con simpatia e passione.

Nel complesso una rappresentazione interessante dentro una scenografia che si è sforzata di offrire un'immagine meno stantìa e ingessata del rapporto fra politica e cittadini. S'intende, ci vorrà del tempo prima che i nostri politici possano essere percepiti come "americani", ammesso che sia questo il traguardo da raggiungere. Anche perché l'America, lo ha dimostrato Obama, nel frattempo è andata avanti nell'uso dei nuovi strumenti, come il web e i "social network". La domanda da farsi è se sarebbe possibile immaginare la stessa messa in scena con le primarie del Pdl. Anche con lo stesso discreto livello del confronto. Forse si organizzerà qualcosa di simile in dicembre, ma è tutto da dimostrare che si otterrà lo stesso risultato. O magari sì, ma occorrerà che a destra lavorino molto sui problemi e sulle soluzioni. Oggi il centrosinistra ha segnato un punto nella prospettiva delle elezioni, mentre il Pdl è ancora alle prese con le proprie frustrazioni e con l'eredità del berlusconismo.

C'è un altro punto che si preferisce mettere fra parentesi, ma che ha la sua rilevanza. Si dice che le primarie servono a scegliere il candidato alla presidenza del Consiglio, ma si dovrebbe precisare che con la riforma elettorale che si va delineando (l'unica possibile in questo momento) il premier sarà individuato dopo le elezioni in base alle alleanze che verranno stipulate. Il gioco delle primarie sotto questo aspetto rischia di essere a somma zero. E tuttavia è un messaggio positivo che si manda all'opinione pubblica.

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« Risposta #85 inserito:: Novembre 23, 2012, 01:34:32 am »

Pdl in bilico, il confine è sempre più fra chi guarda a Monti e chi lo rifiuta

di Stefano Folli

22 novembre 2012


Nel Pdl che naviga alla cieca verso primarie talmente sovraffollate da apparire quasi grottesche, è sempre più chiaro che la vera discriminante riguarda il sì o il no al governo Monti post-elettorale. Governo fondato su una maggioranza politica, s'intende, ma pur sempre affidato con convinzione all'attuale premier, visto come l'unico leader possibile, in questa fase storica, del centrodestra.
Accettare questa prospettiva o rifiutarla è il vero tema politico che s'intuisce al fondo di un contrasto sulle primarie altrimenti in buona misura incomprensibile. È chiaro che il partito che fu berlusconiano sta vivendo le premesse di una scissione. Magari si potrà evitarla strada facendo, ma le probabilità che invece si consumi sono alte. In un certo senso è già avvenuta, benchè non in modo ufficiale, e proprio sulla questione Monti. Nel Pdl c'è un largo spettro che ormai guarda a Palazzo Chigi per ritrovare un punto di riferimento e un orizzonte, se non proprio una guida.

Certo, il segretario Alfano insiste nel dire che prima "Monti deve candidarsi", in vista di ottenere poi il consenso del centrodestra. Ma è lo scudo di un uomo che deve pur tenere insieme quel che resta del vecchio esercito. Alfano è convinto da tempo (e non è il solo) che l'unico futuro per i reduci moderati del berlusconismo sia nel Partito Popolare europeo: è lì che bisogna rifugiarsi per trovare riparo alla tempesta distruttiva in atto. Chi meglio di Monti può garantire una transizione credibile verso quell'approdo?
S'intende, questo è l'interesse di tutti coloro che guardano al presidente del Consiglio come alla zattera della salvezza. Ma è tutto da verificare se Monti sia interessato a un ruolo di "federatore" che, almeno secondo un certo punto di vista, finisce per sovrapporsi a quello di salvatore di un ceto politico. Resta il fatto che di giorno in giorno aumenta il numero di coloro che vorrebbero il premier nelle vesti di "aggregatore" di un'ampia e ancora parecchio confusa area moderata. Le difficoltà di una simile impresa sono intuibili, ma qui è interessante vedere come si sta organizzando la corrente "montiana" del Pdl. La sua consistenza era già tutt'altro che irrisoria, ma adesso si sta ampliando, in parallelo con una lotta di potere senza quartiere.

Berlusconi, avendo compreso che la sua stagione è finita, si comporta come un novello Saturno e tenta di mangiare i suoi figli. La sua battaglia contro le primarie ieri ha conosciuto un momento di stasi, ma c'è da credere che il sabotaggio continuerà. E questo perché Berlusconi ha compreso benissimo che la legittimazione di un nuovo gruppo dirigente porta in modo inevitabile a fare di Monti il personaggio di riferimento. A tale ipotesi in passato aveva pensato anche lui, Berlusconi, ma oggi è evidente che l'operazione non sarebbe gestita da Arcore. Le primarie, se appena dovessero avere un minimo di successo popolare (il che è tutto da vedere), segnerebbero l'esordio di una nuova leadership e di nuovi scenari.
In ogni caso la linea del fronte è lì: fra chi è pro-Monti (Frattini, la Gelmini, persino alcuni ex An, numerosi parlamentari timorosi di non essere rieletti, in sostanza lo stesso Alfano) e chi è anti-Monti (molti di coloro che si sono candidati alle primarie contro il segretario, Brunetta, una buona porzione di ex An e ovviamente il fondatore Berlusconi). Le primarie sono il campo di battaglia, ma la posta in gioco è la ridefinizione del centrodestra nell'era post-berlusconiana.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-11-22/bilico-confine-sempre-guarda-064017.shtml?uuid=Ab8gYH5G
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« Risposta #86 inserito:: Novembre 23, 2012, 01:37:30 am »

Con tatto ma decisione Napolitano sfiora il tema cruciale del dopo-voto

di Stefano Folli

20 novembre 2012


Emerge con sempre maggiore evidenza il tema centrale delle prossime elezioni: le linee di fondo del governo Monti saranno o no confermate dalla maggioranza che si formerà nel nuovo Parlamento? È un tema molto delicato che si lega al rapporto fra l'Italia e i suoi partner internazionali e che ruota intorno alla figura fisica del presidente del Consiglio. La frase di Monti in Kuwait, poi corretta, suonava qualcosa come "non posso garantire per il futuro". Ne è nata una polemica pretestuosa, ma comprensibile nel clima elettorale. Del resto, il punto è proprio questo.
Giorgio Napolitano se ne è reso conto e ha affrontato la questione con il tatto necessario. Le sue affermazioni di ieri sono un piccolo capolavoro per quello che dicono, ma soprattutto per quello che lasciano intendere: "sono convinto che si è segnato (con il governo Monti, n.d.r.) un cammino da cui l'Italia non potrà discostarsi. I partiti dicono che vogliono aggiungere qualcosa, non distruggere. Mi pare che questo sia un elemento che possa dare fiducia e tranquillità ai nostri amici per il futuro dell'Italia". Se in queste parole c'è una preoccupazione, è ben dissimulata. Il capo dello Stato ha scelto di puntare sulla virtù dei partiti e non sui loro vizi. Del resto nel suo ruolo istituzionale non potrebbe fare altrimenti: ha il dovere di rassicurare il mondo esterno sul senso di responsabilità dei suoi concittadini; peraltro egli si affretta a far sapere ai "nostri amici" d'oltre confine (la Merkel, Obama, eccetera) che le elezioni contengono sempre qualche elemento di rischio, ma che non esiste una ricetta migliore, visto che "non si può non votare".

In altri termini il problema del "dopo" esiste, ma si pensa - o si vuole credere - che sia gestibile. E se Monti ha avuto un momento in cui le parole hanno forse tradito il suo pensiero più intimo, l'asse con il Quirinale è servito a rimettere le cose in ordine. Tutto a posto, quindi? Non proprio. Per due ragioni. La prima è che i "nostri amici", come li definisce Napolitano, non sono per nulla convinti che la strada sia spianata. La diffidenza verso un governo di partiti si taglia con il coltello. Ed è un po' vero quello che fa intendere fra le righe il presidente; e cioè che qualcuno all'estero gradirebbe, se appena non fosse assurdo, che l'Italia rinviasse le elezioni a data da destinarsi. Ma come è ovvio non si può, fa sapere garbatamente il capo dello Stato.
La seconda ragione riguarda la vera e propria gestione del dopo-voto. Dice ancora Napolitano, parlando della fase successiva alle elezioni: "vedremo e cercheremo la soluzione più idonea per governare stabilmente il paese mettendo a frutto il lavoro del governo Monti". Questo è di sicuro quello che vogliono sentirsi dire le fatidiche cancellerie "amiche", dall'Europa agli Stati Uniti. Il punto è che al Quirinale non ci sarà più Napolitano, il cui mandato scade a maggio. E finora il presidente è stato fermo nel precisare che il governo post-elettorale sarà costituito sotto il controllo del suo successore, a cui spetterà di dare l'incarico al futuro presidente del Consiglio "in pectore". Tuttavia è anche vero che l'ipotesi di votare il 10 marzo cambia un po' il quadro: rappresenta un anticipo di circa un mese rispetto alla data a cui si era pensato in precedenza (il 7 aprile). Quattro settimane in più per evitare che il lavoro di Monti sia disperso da qualche coalizione avventurosa. "Vedremo" afferma Napolitano. E di più per ora non si può dire.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-11-20/tatto-decisione-napolitano-sfiora-080452.shtml?uuid=Abyare4G
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« Risposta #87 inserito:: Novembre 26, 2012, 12:08:31 pm »

Bersani avanti, Renzi protagonista, il Pd sta cambiando

di Stefano Folli

25 novembre 2012.

Alla fine è ballottaggio. Bersani è avanti, ma il risultato di Renzi è al di là di ogni aspettativa. Il sindaco di Firenze ha già vinto la sua battaglia, anche se perderà la guerra. E in ogni caso non sarà un secondo turno convenzionale: un Renzi oggi al 37% e fra una settimana al 40 per cento vuol dire che il Pd non potrà continuare a essere quello che è stato fino a oggi, dovrà aprirsi e ammodernarsi. Vuol dire anche che Bersani, pur vittorioso, si troverà a essere imbrigliato al ballottaggio dai voti di Vendola, di cui avrà bisogno. E questo rischia di dare un'impronta di estrema sinistra alla coalizione, l'opposto di quello di cui il segretario avrebbe necessità per rassicurare i partner internazionali e sedurre l'elettorato d'opinione in vista delle elezioni politiche. Per Renzi è una giornata quasi trionfale. Un perdente di successo, si potrebbe definirlo. E intanto si possono fissare alcuni punti.

Primo: una giornata storica per il centrosinistra. Essere riuscito a costringere il segretario al ballottaggio, e con un punteggio di tutto riguardo, è un successo quasi clamoroso del Pd e di chi ha voluto le primarie. Ma all'interno di questa cornice Renzi è riuscito a incarnare il desiderio di tanti italiani, anche estranei ai riti di partito, o ex votanti della destra berlusconiana, di tornare a partecipare trovando punti di riferimento in partiti trasparenti e capaci di dar corpo a un'idea dello sviluppo, a una visione del paese.

Secondo: Bersani prevale, ma il vincitore morale è Renzi. Il segretario è costretto a malincuore ad acconciarsi al secondo turno. Ci arriverà con una percentuale importante, ma inferiore alle attese, e nel ballottaggio non avrà problemi a raccogliere i consensi di un largo segmento dei tre esclusi: Vendola, in primo luogo, e poi Laura Puppato e forse anche qualche sostenitore di Tabacci. Ma il sentiero sembra tracciato: Bersani sarà candidato premier con un sostegno considerevole, avendo però alle spalle un partito diviso in cui l'impronta "renziana" è il vero fatto nuovo. Il sindaco di Firenze ottiene più di quello che voleva. Ora è lui il leader dell'area "modernizzante" del Pd, è lui che ne interpreterà, se sarà capace, l'istinto liberale. Renzi voleva essere il piccolo Tony Blair italiano e c'è riuscito. Dipenderà anche dalla sua abilità e dal suo equilibrio se avrà modo di contare nel domani del centrosinistra in proporzione a quello che è stato il suo relativo successo in queste primarie.

Terzo: il futuro immediato del Pd. Per il partito bersaniano ora il problema sarà non disperdere il piccolo patrimonio di credibilità nell'opinione pubblica che questo tormentato processo ha costruito. Il vantaggio elettorale per il Pd ci sarà, come effetto trascinamento. Ma guai a credere che tutti i problemi siano risolti. I partiti - tutti i partiti, compreso il Pd - devono ancora scalare una montagna per tornare ad essere accettabili agli occhi degli italiani. E non è detto che ci riescano. Il tema adesso, in vista del secondo turno, è quale uso farà Bersani della vittoria, specie se non sarà un trionfo, ma dovrà tener conto delle percentuali renziane. Dal punto di vista del "dopo", colpisce l'apertura a Di Pietro, e ai reduci dell'Italia dei Valori. Dopo mesi di chiusure, questa improvvisa mano tesa che significato ha? Qualcuno vi ha letto un sintomo di debolezza e d'incertezza. È facile invece intuire che sia un messaggio di relativa forza. Bersani si sente abbastanza saldo da ricomporre l'area della sinistra allargata.

Quarto: la tentazione dell'Unione prodiana. È la solita linea, quella che finisce per tornare alla vecchia Unione prodiana. Tanto più che passano i giorni e la legge elettorale attuale, il "Porcellum", è sempre lì: la tentazione per il Pd di andare alle urne con questo schema, pur a lungo esecrato, aumenta. Ma c'è anche il desiderio di non regalare a Grillo i voti dipietristi. D'altra parte, è vero che questa mossa allontana Bersani, almeno in parte, dal "centro" (Casini e altri) con cui occorrerà fare accordi dopo le elezioni.

Quinto: anche Renzi di fronte al bivio. Il sindaco di Firenze ha vinto solo sotto il profilo morale, ma già così il suo successo induce la politica italiana a cambiare volto. Renzi dovrà decidere cosa fare in una vita politica che non si conclude oggi. La logica vorrebbe che tornasse a fare il sindaco di Firenze, possibilmente bene, e si mettesse in attesa. Di cosa? Delle prospettive della gestione Bersani. Ci sono le elezioni alle porte, subito dopo ci sarà da mettere in piedi un governo e forse guidarlo da Palazzo Chigi: un'agenda piena e persino drammatica per Bersani. Da come andranno le cose, si capirà se questa sinistra, la sinistra riformista bersaniana, ha un futuro in Italia. Renzi sarà tentato di starsene sulla riva del fiume a osservare quel che accade. Ma farebbe meglio a "compartecipare", cioè a farsi coinvolgere nel Pd di domani. Bersani lo ha un po' detto: «Renzi è un'energia per il partito». Anche questa è un'apertura, che andrebbe declinata in termini di idee nuove da far circolare, non solo di seggi da distribuire. Il "renzismo" è un oggetto un po' misterioso, ma contiene in sé l'idea di una sinistra moderna e liberale. Sarebbe grave se stasera i vincitori, i bersaniani, si chiudessero a riccio; ma sarebbe un errore se anche Renzi, sconfitto con onore, si ritirasse da tutto sperando nel peggio.

Ultimo punto: comunque voltare pagina. È in ogni caso evidente che l'alleanza è troppo spostata a sinistra. Bersani pensa che sia facile ottenere alla fine un appoggio dai "centristi" (dopo il voto), ai quali si prepara a offrire una fetta di potere o di sottopotere. Eppure proprio il grande caos nel centrodestra, nel Pdl disastrato, dimostra che non tutto oggi è prevedibile. Meglio sarebbe per il Pd e per il governo del paese se il partito che si avvia a conquistare la maggioranza relativa facesse fin d'ora un po' di chiarezza su quello che vuole e su con chi lo vuole. Legge elettorale, programmi economici, rapporti con l'Europa.... Forse è il momento di uscire dagli slogan. Vincere le primarie può essere confortante, ma da domani si deve voltare pagina.


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« Risposta #88 inserito:: Dicembre 07, 2012, 03:47:22 pm »

Pdl, il dramma dei moderati

di Stefano Folli

6 dicembre 2012

Ci sono in politica dei momenti cruciali in cui è necessario decidere. Se si esita e si rinvia, si ottiene solo di essere travolti dagli eventi. Lo psicodramma del Pdl è giunto a uno di questi passaggi cruciali.

Il problema di decidere riguarda tutta la classe dirigente moderata di quel partito: il segretario Alfano, in primo luogo, ma via via tutti gli altri: gli Schifani, i Frattini, le Gelmini, i Quagliariello, i Cicchitto, i Sacconi e molti altri. Sono loro che rischiano di essere scompaginati dall'ultima carica berlusconiana. Ex democristiani, ex socialisti, qualche laico: erano gli esponenti di quel «pentapartito» ideale che Berlusconi aveva raccolto intorno a sé negli anni Novanta. Oggi sono davanti al bivio: o stanno con il vecchio leader e lo seguono a occhi chiusi o perdono tutto.

Lo stallo del centrodestra infatti è solo apparente perché in realtà Berlusconi sembra avere le idee chiare su quale strada imboccare. È la stessa che da anni il suo temperamento gli suggerisce: nessun accordo sulla riforma elettorale; nessuna intesa con il governo sulle date delle elezioni (a meno che Monti non accetti il diktat: voto congiunto per le regionali e le politiche in febbraio o ai primi di marzo, ma in ogni caso accorpato); forte irritazione, a dir poco, sulla norma governativa che prevede i casi in cui non si è candidabili.

In sostanza Berlusconi ripete lo schema del '98, quando buttò all'aria la commissione Bicamerale. E i suoi fedeli ripetono la parola d'ordine: «Lo spirito del '94 e di Forza Italia non è morto». E qui, in questa illusione di ricreare per magìa lo slancio di diciotto anni fa, c'è tutto l'equivoco in cui si sta consumando il Pdl. Quanto alla paralisi interna di cui si mormora, a margine degli incontri inconcludenti dell'ex premier con i maggiorenti, essa riguarda in realtà il vecchio stato maggiore del Pdl, capigruppo ed ex ministri.
Sono loro che vedono esaurito ogni spazio di manoivra. E infatti la domanda è: dove andranno a collocarsi? Per anni hanno rappresentato il volto istituzionale del centrodestra di governo. Si sono ispirati al Partito Popolare europeo, in seguito hanno guardato con molta attenzione a Mario Monti, anche criticandolo, perché sentono una naturale affinità con il professore bocconiano, esponente della Milano europeista. Poi naturalmente si sono piegati a Berlusconi per necessità e opportunismo. Ma si capisce che da tempo si sentono estranei o quasi nella «casa della libertà». E allora?

La prospettiva per loro è assai grigia. Sia che Berlusconi si candidi in prima persona, sia che incarichi un suo fiduciario o addirittura ritorni all'ipotesi Alfano, è evidente che la linea politica sarà dettata da Arcore, come si conviene alla personalità dell'ex premier e alla sua idea monarchica del partito. E non potrà non essere una linea anti-Monti e anti-europea (declinata in chiave anti-Merkel). Sarà una linea di destra populista nel vero senso del termine. Magari ammiccante ai nemici della moneta unica.

Forse è legittimo per raccogliere voti, anche se non è proprio il ruolo adatto a un ex presidente del Consiglio che quando era in carica ha seguito, volente o nolente, la strada opposta. Potrebbe piacere a un Jean-Marie Le Pen, che però non è mai stato primo ministro nel suo paese. In ogni caso è la distruzione dell'area moderata come l'abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, dalla Dc al primo Berlusconi. E sono in tanti, fra i dirigenti e gli elettori, che devono decidere in fretta cosa fare. Hanno la forza e il coraggio di andarsene per ricostruire altrove uno spazio politico? Ne sono capaci? Lo sapremo presto.

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« Risposta #89 inserito:: Dicembre 10, 2012, 07:28:00 pm »

Il peso politico di un atto, le risposte che attende il Paese

di Stefano Folli

09 dicembre 2012


È la risposta di Mario Monti a Berlusconi. Alla sfida del Pdl il presidente del Consiglio ha replicato alzando un vessillo su cui c'è scritto: non mi faccio logorare. Quindi legge di stabilità, certo: ma da approvare al più presto, prima di Natale, senza temporeggiare e senza mercanteggiare. Ognuno in Parlamento dovrà assumersi le sue responsabilità, se si vuole evitare l'esercizio provvisorio.

Subito dopo le dimissioni del governo, senza ulteriori attese di altri passaggi che non verranno.
La legge elettorale è una chimera buona solo per allungare il brodo di una legislatura che ormai è finita. Ed è finita in questo modo poco glorioso soprattutto per gli scossoni provocati dal ritorno di Berlusconi. Il Quirinale ha tentato in ogni modo di individuare un sentiero non traumatico per congedare con dignità il Parlamento. E c'è riuscito dal punto di vista istituzionale.

Tuttavia è ormai evidente una dinamica politica ed elettorale lacerante. Berlusconi dice di essere tornato «per vincere». Che creda o no alle sue stesse parole è irrilevante. Quel che conta è che l'ultima crociata berlusconiana si traduce in un elemento di forte destabilizzazione del quadro politico.

Non è tanto Berlusconi a far paura ai suoi avversari, quanto la minaccia di una campagna tutta costruita contro l'Europa, la Germania, l'austerità economica e quant'altro. Tre mesi di questa medicina rischiano di essere troppo per un sistema comunque fragile e per la nostra stessa capacità di stare nell'Unione in modo credibile, con le finanze pubbliche a posto. Ora, è chiaro che le dimissioni annunciate da Monti avranno l'effetto di accelerare i tempi della crisi e probabilmente dello scioglimento. Deciderà, s'intende, il capo dello Stato. Tuttavia da ieri sera c'è un fatto nuovo di cui tener conto. L'ipotesi che le elezioni siano anticipate di qualche settimana, rispetto all'ipotesi del 10 marzo, diventa assai realistica. La nuova ipotesi parla del 10 febbraio.

Il gesto del premier, peraltro, non ha solo conseguenze istituzionali. Ne ha alcune politiche e ben delineate. Contro i tre mesi di logoramento si era pronunciato il Pd, pur rispettoso del sentiero tracciato dal Quirinale. Tre mesi in cui i democratici avrebbero dovuto consumarsi nel difendere Palazzo Chigi dalla prevedibile offensiva di Berlusconi (posizione obbligata, ma scomoda sul piano elettorale). E la convergenza di interessi era inevitabile, dal momento che il diretto interessato, il premier, non intendeva a sua volta farsi logorare.

Del resto, l'attacco a tutto campo di Berlusconi ha cambiato il quadro. La campagna elettorale si delinea come uno scontro pro o contro l'Europa. Fra chi crede nel futuro delle politiche europeiste, nonostante i sacrifici che queste comportano, e nella prospettiva dell'integrazione non solo economica, ma anche politica. E chi ne diffida e non crede nell'Unione e forse nemmeno nella moneta comune. Ieri Monti aveva replicato a Berlusconi, senza nominarlo ma in modo trasparente. Aveva accusato il "populismo" e chi lo agita considerandolo una "scorciatoia" verso il consenso. Era una risposta politica a un'offensiva politica. L'Europa contro l'anti-Europa.

In serata l'annuncio delle dimissioni sono state quindi un altro passaggio politico. Si potrebbe dire che il presidente del Consiglio "tecnico" è uscito di scena ed è nato il Monti uomo politico. Perché quel gesto, per il modo in cui è stato formalizzato e per il contesto in cui è maturato, è senza dubbio carico di significati politici. Consolida il centrosinistra, si è detto, contro il pericolo di logorarsi davanti al berlusconismo "lepenista". Ma crea anche le condizioni perché Monti resti sulla scena a interpretare, forse anche a guidare, l'area moderata che Berlusconi ha abbandonato seguendo la propria deriva estremista. È l'area che fa riferimento al Partito Popolare europeo e che oggi appare in cerca d'autore, ossia di una leadership.

I nomi si conoscono: Casini, Montezemolo, Fini, Riccardi, i dissidenti europeisti del Pdl (Frattini e gli altri). Un mondo variegato, con una forte componente cattolica, che cerca una proiezione politica perché avverte il vuoto. Per cui fra il "populismo" berlusconiano e un centrosinistra in cui Bersani deve faticare non poco per assorbire le posizioni di Vendola, ben sapendo della diffidenza internazionale nei suoi confronti, esiste sulla carta un largo spazio. Si tratta di individuarlo, riempirlo e dargli un senso politico.

Monti ne sarà capace? Lo vedremo nelle prossime settimane. Per ora sappiamo che l'unica leadership possibile in quest'area è la sua. Se riuscirà in una forma o nell'altra a darle voce e rappresentanza, può darsi che il presidente del Consiglio oggi dimissionario possa ritagliarsi un ruolo nella prossima legislatura, i cui equilibri dovranno comunque fondarsi su un forte mandato popolare. Di certo si può dire che le dimissioni annunciate ieri sera e da collocare all'indomani della legge di stabilità sono un gesto di dignità che fa bene alla politica e che servono a ripulire il terreno di gioco da tante scorie.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-12-09/peso-politico-atto-risposte-081050.shtml
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