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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 129431 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Novembre 12, 2011, 09:50:53 am »

L’ultimo gioco illusionistico di B.

di Michele Ainis, dal Corriere della Sera, 11 novembre 2011


C'è un che di surreale nella condizione che stanno attraversando le nostre istituzioni. Tutto comincia con le pre-dimissioni del presidente del Consiglio: un inedito costituzionale. Eppure ne abbiamo viste tante, ai tempi fulgidi della Prima Repubblica. Governi di minoranza (come quello Zoli nel 1957). Governi lampo (Andreotti nel 1972: durò per 9 giorni). Governi a tempo (Craxi nel 1986, dopo il «patto della staffetta» con De Mita). Governi balneari (i due gabinetti presieduti da Leone nel 1963 e nel 1968). Governi elettorali, ossia formati al solo scopo di gestire le elezioni (Fanfani nel 1987). Governi della non sfiducia, che stavano a galla in virtù di un ampio fronte d'astensioni (Andreotti nel 1976). Ora siamo all'ultima stazione: il quarto gabinetto Berlusconi si è trasformato in un governo della non fiducia, o della pre-sfiducia. Ma intanto governa, e domani è pur sempre un altro giorno.

Un ossimoro costituzionale, che a sua volta si alleva in seno una litania di paradossi. Che avrebbe dovuto fare il capo dello Stato, davanti alle pre-dimissioni del presidente del Consiglio? Avviare pre-consultazioni con i partiti, conferire un preincarico a un pre-premier, chiamare gli italiani a pre-elezioni? In qualche modo, è quello che è avvenuto. Nominando Mario Monti senatore a vita, Napolitano — senza sforare d'un millimetro le sue prerogative — ha insediato di fatto un pre-governo. Doveva farlo, doveva mostrare al mondo che l'Italia ha in tasca una soluzione di riserva. E infatti i mercati ci stanno dando tregua, dopo giorni di tragedia permanente.

Ma nel frattempo c'è un governo nel pieno dei poteri: Berlusconi non si è dimesso, non è stato rovesciato da una mozione di sfiducia, e anzi nell'ultimo voto sul rendiconto dello Stato ha incassato il 99% dei consensi (l'opposizione si era assentata a bella posta).
E c'è un pre-governo sul quale si concentra tutta l'attenzione dei partiti, mentre il totoministri tiene banco (digitando sulle news di Google «ministri governo Monti» si ottengono 360 risultati). Da qui un teatro dell'assurdo. Perché la liturgia costituzionale contempla il governo in attesa di fiducia (dopo il giuramento), non quello in attesa di autosfiducia (le dimissioni). E perché il presidente della Repubblica non ha poteri per costringere il premier a mettersi da parte. Napolitano non può revocare Berlusconi, così come Berlusconi non può licenziare i suoi ministri (altrimenti Tremonti avrebbe già dovuto lasciare la poltrona).

D'altronde — a prenderla alla lettera — suona paradossale pure la promessa del presidente del Consiglio, l'impegno a dimettersi dopo il varo della legge di Stabilità. Intanto, se il Parlamento bocciasse la legge (tocchiamo ferro) lui non si dimetterebbe, proprio per mantenere la parola: l'apertura della crisi di governo dipende quindi dal buon esito del provvedimento che può allontanarci dalla crisi.
E in secondo luogo, l'evento che condiziona le dimissioni del governo dipende dal medesimo governo. Quantomeno sui tempi, dato che spetta all'esecutivo in carica presentare, maxiemendare, superaccelerare la legge di Stabilità. Sicché più s'allunga il brodo più s'allunga la vita del governo: un altro caso di conflitto d'interessi, tanto per cambiare.

È l'ultimo gioco illusionistico di Silvio Berlusconi, l'acchiappasogni. Cominciò promettendo un milione di posti di lavoro, nel 1994. Ha continuato nel 2001, promettendo meno tasse per tutti. E adesso, siccome gli italiani sperano che il suo governo si tolga di mezzo, lui ha promesso di realizzare pure questo sogno. Ma i mercati non chiedono sogni, reclamano chiarezza. Può ottenersi attraverso elezioni anticipate, come in Spagna. Con un governo d'unità nazionale, come in Grecia. Non con un annuncio di dimissioni a data incerta: in apparenza schiarisce l'orizzonte, in realtà lo ha reso più opaco e più confuso.

(11 novembre 2011)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/lultimo-gioco-illusionistico-di-b/
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« Risposta #106 inserito:: Novembre 14, 2011, 07:30:18 pm »

Opinione

Quattro idee contro il degrado

di Michele Ainis

Ineleggibilità per i voltagabbana. Divieto di candidare i propri figli. Obbligo di dimissioni almeno una volta nella vita.

E nessun partito può proporre per una carica pubblica un proprio iscritto. Provocazioni? Fino a un certo punto...

(07 novembre 2011)

Un ministro (Saverio Romano) resta inchiodato alla poltrona nonostante il rinvio a giudizio per associazione mafiosa. Un altro ministro (Umberto Bossi) spernacchia a giorni alterni l'unità degli italiani. Il presidente della Camera (Gianfranco Fini) recita da attore politico pur indossando la casacca dell'arbitro. Un banchiere centrale (Lorenzo Bini Smaghi) rifiuta di dimettersi innescando un incidente diplomatico con la Francia. Il manager dell'olio Cuore (Giulio Malgara) viene nominato alla presidenza della Biennale di Venezia, la nostra istituzione culturale più importante. Il figlio di Bossi, come quello di Antonio Di Pietro, fa politica nel partito fondato da papà. E nel frattempo sciami di parlamentari volano da uno schieramento all'altro. Il loro eroe è Domenico Scilipoti: eletto per contrastare Berlusconi, ne è diventato la più fedele sentinella.
 
In tutti questi casi manca una regola giuridica che vieti i comportamenti in voga presso i santuari del potere. O altrimenti, se c'è, suona al contrario, come la regola che protegge la libertà dei parlamentari, l'indipendenza della Bce, l'autonomia di chi presiede un'assemblea legislativa, la discrezionalità nelle nomine di sottogoverno. Eppure l'altra regola, quella non scritta, altrove viene spontaneamente rispettata. L'ultimo episodio reca il nome di Liam Fox, ex ministro della Difesa britannico: accusato d'essersi portato dietro un amico personale nei suoi viaggi di Stato, a ottobre si è dimesso. Una questione di opportunità, di correttezza. O al limite di buona creanza, categoria che un tempo trovava estimatori anche alle nostre latitudini.

Come quando in Parlamento fu indetta una votazione sul cappello: succedeva durante la prima seduta della Camera a Roma, in un'aula ancora senza termosifoni, sicché alcuni deputati avevano chiesto di derogare al protocollo per proteggersi dal freddo con un berretto di lana.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quattro-idee-contro-il-degrado/2165464
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« Risposta #107 inserito:: Gennaio 13, 2012, 05:07:59 pm »

La polemica

Meno armi e più pensioni

di Michele Ainis

L'emergenza finanziaria non può uccidere i diritti sociali. Che sono tutelati dalla Costituzione. E sono la precondizione dei diritti civili. Quindi a un certo punto, se mancano soldi, bisogna per forza guardare altrove

(11 gennaio 2012)

C'è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. D'altronde se non liberi il terreno dagli avanzi del passato, non hai spazio per edificare il nuovo. E infatti questo è un tempo di ruspe, di bombe, di picconi. Con che bersaglio? Perforano il paesaggio dei diritti fabbricato durante il Novecento. A partire dai diritti sociali, il cui seme fu deposto nella Costituzione di Weimar del 1919, poi nel New Deal di Roosevelt lungo gli anni Trenta, infine nelle Carte costituzionali del secondo dopoguerra. Diritto all'istruzione, alla sanità gratuita, al lavoro, alla casa, alla pensione. Ormai ne restano macerie. Ma in questo caso è dubbio che ai vecchi diritti subentreranno nuove forme di protezione collettiva.

Da qui, imperiosa, la domanda: possono farlo? Possono spogliarci del nostro patrimonio di diritti, sia pure in nome dell'emergenza finanziaria? E fino a che punto può spingersi questa svestizione? Come ha osservato Habermas, i diritti sociali sono la precondizione per l'esercizio dei diritti civili. Perché soddisfano un'istanza di eguaglianza, e perché non c'è libertà senza eguaglianza. I diritti o sono di tutti o rappresentano altrettanti privilegi. Dunque amputando le garanzie in soccorso dei più deboli si menoma il concetto stesso di diritto, oltre a violare la legalità costituzionale.

Del resto la legge serve per i deboli; i forti non ne hanno alcun vantaggio, loro si difendono da sé.
Sennonché i diritti sociali dipendono, a conti fatti, dalla borsa della spesa. Sono diritti condizionati, ossia sottoposti all'eventualità che lo Stato disponga dei quattrini per renderli effettivi. E' la formula della "riserva del possibile", coniata in Germania dalla Corte di Karlsruhe, e da lì esportata dappertutto.

Però, attenzione: questa riserva non significa che i diritti sociali siano altrettante suppliche al sovrano. Ogni diritto racchiude infatti una pretesa, e se i governi fossero liberi d'accettarla o di respingerla, allora la pretesa - diceva Carl Schmitt - sarebbe un trucco, una finzione. Diciamo piuttosto che lo Stato può decidere sui tempi d'attuazione del diritto, sulla velocità, sulla direzione della corsa; ma gli è vietato fare retromarcia. Perché a quel punto l'attuazione (poca o molta che sia) s'incorpora con la norma costituzionale: se per esempio tagli il pronto soccorso gratis, dopo averlo erogato per decenni, offendi l'art. 32 della Costituzione.

Da qui lo statuto dei diritti sociali: sono irrevocabili, come la Consulta ha dichiarato a più riprese. Vale per il diritto alla salute (sentenza n. 992 del 1988), per quello all'abitazione (sentenza n. 19 del 1994), per il lavoro (sentenza n. 108 del 1994), per ogni altra fattispecie. Tanto che se una legge ne disponga l'abrogazione, sopprimendo - per dirne una - l'assegno di accompagnamento per gli invalidi, la Corte costituzionale provvede ad annullarla (sentenza n. 106 del 1992).

Ma la legge non può nemmeno prosciugare l'entità della prestazione sociale, non almeno fino al punto da renderla irrisoria. Un caso esemplare investì la normativa che fissava l'indennità di disoccupazione in 800 misere lire al giorno, per giunta senza meccanismi di rivalutazione; e infatti la Consulta (sentenza n. 497 del 1988) accese il rosso del semaforo.

C'è insomma il cadavere dell'eguaglianza, sotto le ruspe che stanno sventrando i diritti sociali. Poi, certo, l'eguaglianza puoi garantirla in due modi: parificando verso l'alto oppure verso il basso. Se il tuo vicino svolge il tuo medesimo lavoro, ma con una busta paga che pesa la metà, la legge può raddoppiare il suo stipendio, o viceversa dimezzare il tuo. Tuttavia soltanto la prima alternativa è in linea con la Costituzione: perché i diritti sono progressivi, e perché una guerra fra poveri è l'ultima cosa che ci serve. Mancano i quattrini? Pazienza: vuol dire che compreremo un carro armato in meno, per ottenere una pensione in più.

michele.ainis@uniroma3.it

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-armi-e-pi%C3%A3%C2%B9-pensioni/2170922
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« Risposta #108 inserito:: Gennaio 14, 2012, 03:36:39 pm »

LEGGE ELETTORALE - DOPO LA BOCCIATURA DELLA CONSULTA

Ora cambiatela. E in fretta

Nessun miracolo, Lazzaro non è resuscitato; sicché rimane in vita il Lazzarone. Ossia la nostra pessima legge elettorale, che i referendari avrebbero voluto cancellare riesumando il Mattarellum . Reviviscenza, è questo il nome in codice del marchingegno giuridico sottoposto alla Consulta. Ma la giurisprudenza costituzionale ha sempre escluso le resurrezioni (sentenze n. 40 del 1997, 31 del 2000, 24 del 2011); anche perché altrimenti, se un referendum sancisse l'abrogazione dell'ergastolo, otterrebbe il paradossale effetto di ripristinare la pena capitale. E in secondo luogo la Consulta, fin dalla sentenza n. 29 del 1987, ha sempre acceso il rosso del semaforo contro i referendum totalmente abrogativi d'una legge elettorale: in caso contrario ogni legislatura durerebbe un secolo, se il Parlamento non colmasse la lacuna.

Insomma l'inammissibilità di questo referendum (diagnosticata da chi scrive lo scorso 16 settembre, sul Corriere ) era un po' a rime obbligate. Chissà come abbia poi preso corpo l'opposta sensazione, misteri della fede. E tuttavia, nonostante la legittima amarezza di quanti avrebbero voluto disfarsi del Porcellum , il rispetto dei propri precedenti da parte delle Corti rimane un valore irrinunziabile. Perché restituisce certezza al nostro orizzonte collettivo, e perché la certezza - diceva Lopez de Oñate, un giovane filosofo cui la sorte non concesse d'invecchiare - rappresenta la specifica eticità del diritto.

Sennonché questo no incondizionato al referendum non era senza alternative, altrimenti i giudici costituzionali non ci avrebbero messo due giorni per decidere. E fra i precedenti che la Consulta ha via via collezionato c'è pur sempre la sentenza n. 16 del 2008, dove si leva l'indice contro gli «aspetti problematici» della (ahimè) vigente legge elettorale. Come coniugare dunque la certezza e la giustizia? Rifiutando il referendum, ma al contempo impugnando l'incostituzionalità della legge timbrata dall'ex ministro Calderoli. Se la Consulta avesse imboccato questa strada, i partiti avrebbero avuto qualche mese per licenziarne la riforma; in caso contrario sarebbe scattata la mannaia. Tuttavia la nostra Corte non l'ha fatto, probabilmente le è mancato qualche grammo di coraggio. E il coraggio - mormorava don Abbondio - chi non ce l'ha, non se lo può dare.

Che cosa resta allora di questo referendum? Restano un milione e 200 mila firme raccolte in un battito di ciglia, a testimoniare l'odio popolare verso una legge che sancisce il divorzio dei rappresentanti dai rappresentati. Resta l'esigenza di non frustrare più in futuro gli sforzi del comitato promotore, magari anticipando il verdetto della Corte costituzionale al giorno precedente la raccolta delle firme, anziché al giorno successivo. O meglio ancora facendo spazio nelle nostre istituzioni al referendum propositivo, accanto a quello abrogativo: e allora sì, la reviviscenza non sarebbe più vietata. Infine resta la domanda di coinvolgere gli elettori nelle faccende che riguardano gli eletti, a partire dal modo con cui vengono eletti.

E c'è poi, alla fine della giostra, un imperativo categorico che si rivolge alla giostra dei partiti. Cambiate questa legge elettorale, risparmiateci lo strazio del terzo Parlamento nominato anziché eletto. Spazzate via le liste bloccate, e già che ci siete anche questo premio di maggioranza senza soglia minima, un espediente che non aveva osato neppure Mussolini. Rimpiazzatela con un maggioritario puro, con un proporzionale distillato, o se vi pare con un maggiorzionale . Ma fatelo, non foss'altro che per dare senso al vostro ruolo in Parlamento, mentre il governo Monti tira avanti da solo la baracca. Dopotutto l'ozio è il padre dei vizi.

Michele Ainis

13 gennaio 2012 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_13/ainis-legge-elettorale_ec83727a-3daf-11e1-86c1-1066f4abcff8.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Gennaio 30, 2012, 04:14:31 pm »

La polemica

Meno armi e più pensioni

di Michele Ainis

L'emergenza finanziaria non può uccidere i diritti sociali. Che sono tutelati dalla Costituzione.

E sono la precondizione dei diritti civili. Quindi a un certo punto, se mancano soldi, bisogna per forza guardare altrove

(11 gennaio 2012)

C'è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. D'altronde se non liberi il terreno dagli avanzi del passato, non hai spazio per edificare il nuovo. E infatti questo è un tempo di ruspe, di bombe, di picconi. Con che bersaglio? Perforano il paesaggio dei diritti fabbricato durante il Novecento. A partire dai diritti sociali, il cui seme fu deposto nella Costituzione di Weimar del 1919, poi nel New Deal di Roosevelt lungo gli anni Trenta, infine nelle Carte costituzionali del secondo dopoguerra. Diritto all'istruzione, alla sanità gratuita, al lavoro, alla casa, alla pensione. Ormai ne restano macerie. Ma in questo caso è dubbio che ai vecchi diritti subentreranno nuove forme di protezione collettiva.

Da qui, imperiosa, la domanda: possono farlo? Possono spogliarci del nostro patrimonio di diritti, sia pure in nome dell'emergenza finanziaria? E fino a che punto può spingersi questa svestizione? Come ha osservato Habermas, i diritti sociali sono la precondizione per l'esercizio dei diritti civili. Perché soddisfano un'istanza di eguaglianza, e perché non c'è libertà senza eguaglianza. I diritti o sono di tutti o rappresentano altrettanti privilegi. Dunque amputando le garanzie in soccorso dei più deboli si menoma il concetto stesso di diritto, oltre a violare la legalità costituzionale.

Del resto la legge serve per i deboli; i forti non ne hanno alcun vantaggio, loro si difendono da sé.
Sennonché i diritti sociali dipendono, a conti fatti, dalla borsa della spesa. Sono diritti condizionati, ossia sottoposti all'eventualità che lo Stato disponga dei quattrini per renderli effettivi. E' la formula della "riserva del possibile", coniata in Germania dalla Corte di Karlsruhe, e da lì esportata dappertutto.

Però, attenzione: questa riserva non significa che i diritti sociali siano altrettante suppliche al sovrano. Ogni diritto racchiude infatti una pretesa, e se i governi fossero liberi d'accettarla o di respingerla, allora la pretesa - diceva Carl Schmitt - sarebbe un trucco, una finzione. Diciamo piuttosto che lo Stato può decidere sui tempi d'attuazione del diritto, sulla velocità, sulla direzione della corsa; ma gli è vietato fare retromarcia. Perché a quel punto l'attuazione (poca o molta che sia) s'incorpora con la norma costituzionale: se per esempio tagli il pronto soccorso gratis, dopo averlo erogato per decenni, offendi l'art. 32 della Costituzione.

Da qui lo statuto dei diritti sociali: sono irrevocabili, come la Consulta ha dichiarato a più riprese. Vale per il diritto alla salute (sentenza n. 992 del 1988), per quello all'abitazione (sentenza n. 19 del 1994), per il lavoro (sentenza n. 108 del 1994), per ogni altra fattispecie. Tanto che se una legge ne disponga l'abrogazione, sopprimendo - per dirne una - l'assegno di accompagnamento per gli invalidi, la Corte costituzionale provvede ad annullarla (sentenza n. 106 del 1992).

Ma la legge non può nemmeno prosciugare l'entità della prestazione sociale, non almeno fino al punto da renderla irrisoria. Un caso esemplare investì la normativa che fissava l'indennità di disoccupazione in 800 misere lire al giorno, per giunta senza meccanismi di rivalutazione; e infatti la Consulta (sentenza n. 497 del 1988) accese il rosso del semaforo.

C'è insomma il cadavere dell'eguaglianza, sotto le ruspe che stanno sventrando i diritti sociali. Poi, certo, l'eguaglianza puoi garantirla in due modi: parificando verso l'alto oppure verso il basso. Se il tuo vicino svolge il tuo medesimo lavoro, ma con una busta paga che pesa la metà, la legge può raddoppiare il suo stipendio, o viceversa dimezzare il tuo. Tuttavia soltanto la prima alternativa è in linea con la Costituzione: perché i diritti sono progressivi, e perché una guerra fra poveri è l'ultima cosa che ci serve. Mancano i quattrini? Pazienza: vuol dire che compreremo un carro armato in meno, per ottenere una pensione in più.

michele.ainis@uniroma3.it

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-armi-e-pi%C3%A3%C2%B9-pensioni/2170922
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« Risposta #110 inserito:: Febbraio 11, 2012, 11:13:06 pm »

PARTITI, SINDACATI E COSTITUZIONE

Protagonisti indispensabili

Nella Penisola dei privilegi ogni corporazione ha la sua legge. Ma il vero privilegio è di chi nuota in una zona franca del diritto, dove l'unica legge è quella del più forte. O del più furbo, del più lesto di mano. Serviva davvero il caso Lusi per scoprire l'urgenza di una legge sui partiti? In realtà il Far West non riguarda loro soltanto. Manca altresì una legge sui sindacati. E in entrambi i casi questo vuoto esprime un tradimento della Carta costituzionale. Rispetto ai primi, risuona ancora la domanda che Calamandrei sollevò in Assemblea costituente: come può respirare una democrazia, se i suoi attori principali non sono a loro volta democratici? Ecco perché - aggiunse Mortati - una legge sui partiti sarebbe stata «consona a tutto lo spirito della Costituzione». Per costringerli a osservare il «metodo democratico» di cui parla l'art. 49 della Carta, traducendolo in una griglia di diritti e di doveri. E perché, in sua assenza, i partiti fanno un po' come gli pare.

Le prove? Basta rievocare il battesimo dei due protagonisti sulla scena politica italiana, Pdl e Pd. Il primo, sorto nel 2008 dalla fusione di Alleanza nazionale e Forza Italia, ne ha al contempo violato gli statuti. Lo scioglimento di An venne deliberato infatti dall'assemblea nazionale anziché dal congresso; quello di Forza Italia fu deciso in solitudine dal suo presidente davanti alla folla di San Babila. Dopo di che i due gruppi dirigenti firmarono accordi segreti alla presenza d'un notaio: 70% dei posti (e dei soldi) a Forza Italia, 30% per gli orfani di An. Quanto al Pd, venne al mondo nel 2007 dal ventre di un'assemblea elettiva (2.858 delegati). Tuttavia, quando nel giugno 2008 questo pletorico organismo si riunì di nuovo per modificare lo statuto, l'80% dei suoi membri lasciò la sedia vuota. Riunione invalida, per difetto del numero legale. Ma l'assemblea emendò ugualmente lo statuto, nonostante qualcuno protestasse ad alta voce. Chi? Arturo Parisi, lo stesso (unico) uomo che a suo tempo ebbe da ridire sui bilanci della Margherita. Evidentemente è un vizio.

E i sindacati? In questo caso la legge viene prescritta nero su bianco dalla Costituzione: art. 39. Devono dotarsi infatti di «un ordinamento interno a base democratica», altrimenti i contratti collettivi di lavoro non possono spiegare effetti vincolanti. Ma la legge sulla democrazia sindacale non è mai uscita dal libro dei desideri dei costituenti, perché i sindacati si sono sempre ribellati all'idea che qualcuno ficchi il naso in casa loro. Ciò nonostante, ai contratti collettivi viene riconosciuta ormai da tempo efficacia obbligatoria, con l'avallo della giurisprudenza. Una frode alla Costituzione.

È in questo vuoto che prospera il potere delle oligarchie, mentre gli iscritti ai partiti e ai sindacati sono senza voce. L'esperienza, d'altronde, è fin troppo eloquente: votazioni truccate, espulsioni contrarie allo statuto, congressi fantasma, iscrizioni fittizie. Non a caso il primo progetto di legge sui partiti fu depositato da don Sturzo nella I legislatura. Ma non è nemmeno un caso che nessun progetto sia mai approdato in porto: quando i riformatori coincidono con i riformati, ogni riforma naviga sempre in mare aperto. Ed è un bel guaio, perché l'autorità delle democrazie si regge sull'autorevolezza dei partiti politici. Sennonché dopo il caso Lusi, e il caso Penati, e i cento altri casi ancora nascosti sotto un'onda compiacente, la nave dei partiti adesso viaggia fra Scilla e Cariddi. O l'autoriforma, la riforma impossibile; o il naufragio elettorale.

Michele Ainis
michele.ainis@uniroma3.it

11 febbraio 2012 | 7:50

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_11/protagonisti%20indispensabili-michele-ainins_862bf2e2-5478-11e1-b05f-5be01557028e.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Marzo 09, 2012, 11:25:33 am »

QUEL DISTACCO TRA PARTITI E CITTADINI

Il processo democratico

L'Italia protesta contro i privilegi della Casta


L'Italia brontola, protesta, rumoreggia. Contro i privilegi della Casta, quella dei politici. Contro le altre caste che divorano gli avanzi del nostro patrimonio pubblico, a partire dai grand commis di Stato. Contro la legge elettorale, chiedendo la macellazione del Porcellum. Contro Equitalia, e più in generale contro l'eccessivo carico fiscale. Contro l'abolizione dell'articolo 18, in nome del diritto al lavoro. È un Paese contro, questo di cui siamo inquilini. Trasuda livore, odio politico e sociale. E una faglia sotterranea divide ormai le istituzioni e i cittadini.

Per ricucire il nostro tessuto connettivo serve un'opera di pacificazione nazionale. Ma è un'impresa impossibile, se non vengono al più presto riattivati i canali di comunicazione fra società politica e società civile. Perché ogni protesta incattivisce, quando non ha spazi per diventare una proposta. Un tempo questa cinghia di trasmissione era rappresentata dai partiti, che restano comunque necessari. La politica si fa con i partiti. Ma oggi sono colpiti dal discredito, e in più non sanno mai che pesci prendere: sulle questioni controverse ognuno tira fuori almeno due soluzioni opposte. È insomma il pessimo rendimento del nostro processo democratico, che ci fa vivere da separati in casa. È la crisi di legittimazione che dai partiti si estende al Parlamento, ossia al domicilio elettivo dei partiti. È il vuoto d'alternative alla democrazia parlamentare, dato che la democrazia referendaria in Italia è sempre stata malaticcia.

Un processo democratico inceppato diventa un gioco a somma zero: ci rimettono tutti i giocatori. Questa regola vale anche ai piani alti del Palazzo, nelle stanze dell'esecutivo. Come governa Monti? Come prima di lui Prodi e Berlusconi: decreti, fiducie, maxiemendamenti. Nel solo mese di febbraio il Parlamento ha convertito 4 decreti legge del governo, che a sua volta ne ha sfornati altri 4. E in ciascuna occasione via con il maxiemendamento, anche a costo di trasformare i singoli provvedimenti normativi in altrettanti scioglilingua, incomprensibili per i comuni mortali. Via con la questione di fiducia, e pazienza se questa doppia procedura in ultimo sequestra le assemblee legislative. Tanto le Camere non sono buone a nulla, nemmeno a scrivere le leggi. Ma delegittimando il Parlamento ogni governo sega il ramo sul quale sta seduto. Delegittima se stesso, perché i suoi poteri sono derivati, dipendono da un'investitura espressa proprio da quell'Aula. Specie quando l'esecutivo ha un timbro tecnico, quando è orfano di mandati elettorali.

Per ricucire questo filo spezzato occorre che l'ago sia in mano ai cittadini. Se non si riflettono più nel Parlamento, se nemmeno il governo vi si specchia, allora è il Parlamento che d'ora in poi dovrà riflettersi in una diretta decisione popolare. Servono più referendum, ecco la terapia. Servono consultazioni popolari, come quelle che il governo Monti ha già messo in cantiere sul valore legale della laurea. Ne otterremmo, se non altro, un po' di pace: se perdi il referendum, non puoi più prendertela con il governo di Roma. E d'altronde c'è un solo modo per riabilitare il nostro Stato: a questo punto i cittadini devono farsi Stato.

Michele Ainis

9 marzo 2012 | 7:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_09/il-processo-democratico-michele-ainis_f4660a80-69af-11e1-b42a-aa1beb6952a8.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Aprile 12, 2012, 03:33:25 pm »

Il finanziamento pubblico ai partiti

Gesti seri, non scorciatoie

Il finanziamento pubblico ai partiti fu brevettato da una legge del 1974, dopo lo scandalo dei contributi in nero versati alle forze di governo dall'Unione petrolifera. Quarant'anni dopo, è diventato esso stesso uno scandalo. Per due ragioni: la quantità di denaro che l'erario succhia dalle nostre tasche per risputarlo nelle casse di ciascun partito; le modalità allegre della spesa, all'infuori da regole e controlli. Oltre che in spregio al comune senso del pudore, come mostra la simmetrica vicenda di Lusi e Belsito, i due tesorieri della Margherita e della Lega. Adesso, a quanto pare, un soprassalto di decenza sta inducendo i partiti a metterci rimedio. Bene, anzi male: potevano anche farlo prima. Ma affinché il rimedio non si risolva in un inganno, è necessario tamponare entrambe le falle del sistema.

Primo: gli importi. Li ha misurati la Corte dei Conti: 2 miliardi e 253 milioni di euro, dal 1994 a oggi. Se avessimo da mantenere l'harem d'un sultano, lo pagheremmo meno caro. Anche perché di questo fiume di quattrini soltanto un quarto (579 milioni) ha coperto le spese elettorali, come viceversa prometteva il marchingegno inventato da un'altra legge nel 1999. Dunque usate le forbici, please . E risparmiateci il trucchetto di postergare in un futuro imprecisato la riforma. I politici fanno sempre così, quando c'è da prendere una decisione scomoda: per esempio il taglio ai benefit di cui godono gli ex presidenti della Camera, ma solo dal 2023. O la riforma del Senato, che i senatori accettano purché riguardi i loro nipotini (quella approvata - e bocciata poi da un referendum - nel 2005 sarebbe entrata in vigore nel 2016). No, la nuova legge deve avere efficacia retroattiva. Deve applicarsi alle forze politiche che ci sono adesso, non a quelle che verranno. Deve perciò azzerare la rata di 100 milioni che i partiti incasseranno a luglio. Azzerarla, non rinviarla. Dopotutto, qualche mese di digiuno servirà a smaltire le troppe abbuffate precedenti.

Secondo: le regole. Possono condensarsi in una sola: se il cittadino paga, è il cittadino che decide. Quindi meglio la via dei contributi volontari, alla stregua del 5 per mille. Anche perché in passato il finanziamento pubblico ha premiato liste esoteriche come Ual, Patt, Ppst, Fortza Paris. Dicono: ma in questo modo gli italiani ci manderanno sul lastrico, dal momento che i partiti sono sommamente impopolari. E allora datevi da fare per diventare più simpatici. C'è una semplice ricetta per riuscirvi: restituendo quote di potere agli elettori.
La disgrazia dei partiti dipende da un sentimento di frustrazione e d'impotenza, quello che ti monta in gola quando l'onorevole Calearo si vanta di non mettere più piede in Parlamento. Quando Scilipoti viene eletto con i voti degli antiberlusconiani, per poi trasformarsi nella più fedele sentinella di Silvio Berlusconi. O quando Rosi Mauro rifiuta di dimettersi, e tu non puoi farci nulla. Potrà venire espulsa dalla Lega, non dal Senato, di cui è pure vicepresidente. Avessimo in circolo il recall - la revoca anticipata degli eletti - come negli Usa, sarebbe tutta un'altra musica. Perché allora sì, saremmo armati d'uno strumento di controllo; e peggio per noi se non lo usiamo.
Ecco, i controlli. Dopo Tangentopoli, una riforma battezzata dal ministro Cassese nel 1993 ridusse l'ambito del controllo preventivo di legittimità, sostituendovi un controllo successivo sull'efficienza delle amministrazioni pubbliche. Dunque sull'attività, anziché sui singoli atti. Motivo: le verifiche formali non avevano impedito che la corruzione troneggiasse sulla nostra vita pubblica. Ma sta di fatto che il nuovo tipo di controlli non ha impedito Partitopoli. Significa che c'è bisogno d'inaugurare una terza stagione, quella del controllo popolare. D'altronde, in tutto il mondo le esperienze sono innumerevoli. Per esempio il blogger russo più famoso, Alexej Navalny, ha acceso un faro sugli appalti, cucendo il lavoro d'esperti volontari con le denunce dei cittadini; e il governatore del Daghestan ha dovuto rinunziare a un'auto blu da 300 mila dollari. Fantapolitica? Se è così, il Jules Verne dei partiti fu Costantino Mortati. In Assemblea costituente, nella seduta del 29 luglio 1946, s'espresse in favore d'un sistema di azioni popolari, «dando ai cittadini la consapevolezza che da essi stessi dipende la buona amministrazione e quindi la tutela dei loro interessi». Forse per volgere lo sguardo sul futuro dobbiamo rovesciarlo sul passato.

Michele Ainis

12 aprile 2012 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_12/ainis-gesti-seri_7570e7ac-845f-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Maggio 16, 2012, 05:02:57 pm »

RIFORME, UN MESE DECISIVO

Meglio poche cose che un altro rinvio


I partiti politici, per recuperare credibilità e consensi elettorali, hanno tutto l'interesse a battere un colpo sulla riforma dello Stato. E gli italiani vivrebbero assai meglio se fossero inquilini d'uno Stato meno arcaico, meno distante, meno astruso. E allora perché ogni progetto di riforma rimane sempre fermo al palo? In questa legislatura è già successo con la bozza Calderoli; se adesso va in malora pure il testo all'esame del Senato, mancherà il tempo per correre ai ripari. E la legge elettorale? Votare per la terza volta col Porcellum, formare un altro Parlamento non d'eletti bensì di nominati sarebbe una tragedia democratica. Sentirsi dire dal prossimo presidente del Consiglio, come ha già detto Berlusconi, che l'architettura dei poteri gli sequestra ogni potere, girerebbe la tragedia in farsa.


È la maledizione delle riforme costituzionali all'italiana: una tela di Penelope. Oppure una guerra dei trent'anni, fate voi. Però senza vinti, senza vincitori. Ma sono per l'appunto tre decenni che ci giriamo attorno a vuoto. C'è bisogno di rievocarne gli episodi? Una giostra di ministri deputati alle riforme (da Maccanico nel 1988 a Bossi dal 2008 al 2011). Un profluvio di progetti, a cominciare dal Rapporto Giannini nel 1979. Testi votati dagli eletti ma bocciati poi dagli elettori (con il referendum del 2006 sulla riforma del centrodestra). Tre Bicamerali (nel 1983, nel 1992, nel 1997). Governi costituenti, come si definì il gabinetto presieduto da De Mita nel 1988. Dibattiti parlamentari tanto solenni quanto improduttivi (per esempio nel luglio 1991 o nell'agosto 1995). E ovviamente intese, lodi, decaloghi, bozze di riforma (da quella timbrata da Boato nel 1997 alla bozza Violante del 2007).


Sarà per questo che adesso siamo stanchi, sfiduciati. Perché trent'anni di chiacchiericcio sterile hanno finito per sporcare l'abito della Carta costituzionale, senza confezionare un vestito di ricambio. E perché invece basterebbe qualche toppa. Come d'altronde dichiararono i partiti quando ha giurato Monti: a te l'economia, a noi le riforme di sistema. Siccome nel frattempo non hanno cavato un ragno dal buco, ora è il governo che prova a offrire un contributo. Mentre Napolitano cerca di svegliare la Bella addormentata, a costo d'esporsi a un insuccesso. Alibi, però, non ce ne sono. Non ci faremo ingannare dal giochino di mettere troppa carne al fuoco - dalla legge sulla corruzione a quella sui partiti, dalle Province alla riforma della Rai - all'unico scopo di bruciare l'arrosto. Non potranno raccontarci che non hanno fatto l'uovo (la legge elettorale) perché prima dovevano generare la gallina (cambiando la Costituzione). La Carta del 1947 non parla affatto dei sistemi d'elezione, ed è sopravvissuta sia al proporzionale sia al maggioritario. Dunque questa scusa non regge.


Insomma fate poche cose, ma fatele. Il meglio è nemico del bene. E d'altronde due Camere servono anche a questo, a smaltire il traffico. Sicché la Prima commissione del Senato può approvare alcune correzioni alla forma di governo; quella della Camera può cucinare almeno un paio di leggi ordinarie, sul sistema elettorale e sul finanziamento dei partiti. Le priorità sono queste. Anzi no, ce ne sarebbe pure un'altra: per i partiti è urgente decidere di decidere.

Michele Ainis

14 maggio 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_14/meglio-poche-cose-che-un-altro-rinvio-michele-ainis_022fc60a-9d82-11e1-99ad-758cf3da80f7.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Maggio 31, 2012, 04:31:20 pm »

Vedere le carte, senza pregiudizi
 
Lì per lì fai un salto sulla sedia. Ma come, ora che la legislatura sta per esalare l'ultimo respiro, mentre anche i partiti politici italiani hanno una flebo incollata all'avambraccio, il partito più ammalato se n'esce con un'idea potente come adrenalina? Il presidenzialismo, addirittura; e sia pure in salsa francese. Quando l'hanno concepita? E dove?
Ma la notizia è che non c'è notizia. Sulla conversione della nostra forma di governo parlamentare in una di stampo presidenziale esistono tonnellate di libri, articoli, convegni. Vi si espressero con accenti favorevoli alcuni fra i maggiori costituzionalisti italiani, in un dibattito pubblicato dalla rivista «Gli Stati» nei primi anni Settanta: Crisafulli, Galeotti, Jemolo, Sandulli. Perfino Mortati, fra i padri della Carta del 1947. E soprattutto l'idea presidenzialista ha un vissuto politico che dura ormai da mezzo secolo. Anche se i primi a suggerire l'elezione diretta del capo dello Stato furono i monarchici, nel 1957. E a seguire i missini, all'alba degli anni Sessanta. Incrociando tuttavia il consenso di alcuni eminenti intellettuali: Salvemini a sinistra, Pacciardi e Maranini a destra.
 
Insomma non è vero che la proposta di Berlusconi e Alfano sbuchi fuori come un coniglio dal cilindro del prestigiatore. Il coniglio razzola ormai da tempo nel nostro orticello pubblico. Nessuno può obiettare che manchi un'adeguata riflessione. Se è per questo, alla Camera c'è anche un progetto di legge, depositato dal Pdl il 16 dicembre 2011. Ma i testi sono tanti, come le iniziative fin qui regolarmente naufragate. Per esempio il documento presentato nel 1969 all'XI congresso della Democrazia cristiana, dalla corrente che aveva come capofila Zamberletti. Il congresso di Rimini del 1987, in cui i socialisti di Craxi sposarono il modello presidenziale. La Bicamerale di D'Alema, che nel giugno 1997 scelse la via semipresidenziale, con il voto decisivo della Lega.
Sicché il punto di domanda è un altro: c'è davvero una volontà politica dietro quest'ultima proposta? O non sarà soltanto un bluff per alzare la posta, mettendo in fuga gli altri giocatori? Se è così, non resta che vedere le carte. Laicamente, senza pregiudizi. Ma soprattutto in tempi rapidi, perché di tempo non ne abbiamo. In teoria, l'offerta del Pdl coniuga un tema da sempre caro alla destra (l'elezione popolare di chi ha le chiavi del governo) con la legge elettorale che predilige la sinistra (il doppio turno). Dunque uno scambio che potrebbe convincere i partiti, e magari pure gli italiani. In caso contrario, tuttavia, il disaccordo non può trasformarsi in alibi per lasciare le cose come stanno. A cominciare dal Porcellum, una legge che è diventata una vergogna.
 
Poi, certo, ci sarà da ragionare. Non è detto che l'abito francese calzi a puntino indosso agli italiani. Loro hanno fatto la Rivoluzione del 1789, noi la Controriforma. E negli anni Venti abbiamo consegnato il potere a un dittatore. Queste cose contano. Significa che in Italia c'è urgenza di governi forti ma anche di controlli, d'anticorpi per difendere la democrazia. Bisogna solo mettersi d'accordo sui dosaggi.
 michele.ainis@uniroma3.it
 
Michele Ainis

26 maggio 2012 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_26/vedere-carte-ainis_7f867e48-a6f4-11e1-84cc-01e2a07cd5bc.shtml
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« Risposta #115 inserito:: Luglio 13, 2012, 10:22:38 am »

QUALE LEGGE PER IL VOTO

Il labirinto elettorale

Se pensi alla legge elettorale, t'assale un moto di disperazione. Ne è rimasto vittima perfino Napolitano, tanto da scrivere una lettera ai presidenti delle Camere per sollecitarne la riforma. Risultato? I leader di partito si sono dichiarati pronti a votarla l'indomani; ma i giorni passano, senza che il Parlamento cavi un ragno dal buco. D'altronde sono già scadute invano le tre settimane entro cui Bersani e Alfano (l'8 giugno) avevano promesso di raggiungere l'accordo.

Nel frattempo ogni forza politica cavalca almeno un paio di soluzioni contrapposte, sicché il primo problema è di capire da che parte sta il partito. Valga per tutti l'esempio del Pd: la linea ufficiale è per il doppio turno, la bozza Violante punta al proporzionale, i veltroniani spingono per il modello spagnolo, i prodiani vorrebbero riesumare il Mattarellum . Da qui lo stallo. La Camera sta ferma, perché in prima battuta deve occuparsene il Senato. I senatori giacciono a loro volta immobili, perché la riforma costituzionale (fissata il 17 luglio) ha la precedenza su quella elettorale. Nel complesso ricordano quei due signori troppo cerimoniosi: prego s'accomodi, no dopo di lei, e intanto nessuno varca l'uscio del portone.

Davanti a questa scena, hai voglia a dire che la peggiore decisione è non decidere. È vano osservare che una buona legge elettorale va scritta dietro un velo d'ignoranza, senza l'abbaglio del tornaconto di partito. Niente da fare, ciascuno pensa al proprio utile immediato; perfino Grillo ha scoperto le virtù del Porcellum , da quando i sondaggi lo danno in forte ascesa. Anche se spesso i calcoli si rivelano sbagliati. Vale per le riforme della Costituzione approvate alla vigilia d'un turno elettorale, all'unico scopo di guadagnare voti: come quella del governo Amato nel marzo 2001 (due mesi dopo vinse il centrodestra); o come la devolution di Bossi nel 2005 (ma nel 2006 vinse il centrosinistra). E vale per la legge elettorale. D'altronde, anche il Porcellum nacque dall'intenzione - fallita - di tirare uno sgambetto all'avversario.

C'è allora modo di venirne a capo? Forse sì, ma a una doppia condizione: di merito e di metodo. Innanzitutto rammentando che i congegni elettorali non sono fedi, ma strumenti. La loro qualità dipende dalle stagioni della storia, tuttavia non esiste uno strumento perfetto, non c'è una superiorità assoluta del maggioritario o del proporzionale. Esistono però strumenti imperfetti, e noi italiani ne sappiamo qualcosa. Cominciamo dunque a sbarazzarci dalle tentazioni più peccaminose: un premio di maggioranza troppo alto, tale da distorcere il risultato elettorale; l'idea di trasmigrare dalle liste bloccate a un sistema tutto imperniato sulle preferenze (cadremmo dalla padella alla brace); una soglia di sbarramento impervia, o al contrario ridicolmente bassa.

Quanto al metodo, non c'è che da seguire il suggerimento di Napolitano: si voti a maggioranza, al limite con maggioranze alterne sui singoli capitoli. Ma per non generare un Ippocervo, sarebbe bene votare in primo luogo sugli indirizzi generali, dalla scelta dei collegi (sì o no all'uninominale), fino al vincolo di coalizione e a tutto il resto. Poi toccherà agli sherpa tradurre i principi in regole. Sapendo tuttavia che il tempo stringe, ormai è come una corda al collo dei partiti.

Michele Ainis

12 luglio 2012 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_12/labirinto-elettorale-ainis_ff017354-cbe2-11e1-b65b-6f476fc4c4c1.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:23:10 pm »

 LA SCELTA DEL PRESIDENTE


Le istituzioni e le persone

Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi. Eppure c'è un che d'eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato - a differenza del suo predecessore - rischia d'incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.

Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l'impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall'ufficio; quando intervenga un'autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d'accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.

Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea. Primo: nessuna intercettazione diretta sull'utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l'ex ministro Mancino. Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti. Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l'udienza stralcio regolata dal codice di rito.

Deciderà, com'è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell'intercettazione. Perché delle due l'una: o quest'ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione. Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell'occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell'istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.

Michele Ainis

17 luglio 2012 | 14:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_17/istituzioni-persone-michele-ainis_1f7459d8-cfcd-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Agosto 22, 2012, 10:09:16 pm »

COSA SI PUÒ FARE PRIMA DELLE ELEZIONI

Il grande alibi del tempo scaduto

Dalle elezioni ci separano all'incirca nove mesi, quanto basta per mettere al mondo una creatura; ma l'attesa della vita si è trasformata in una morte prematura. Zero riforme, zero leggi in Parlamento. Sicché in questo finale di partita va in scena il Grande Imbroglio, l'alibi usato dai partiti per sabotare qualunque iniziativa.

La legge sulle intercettazioni? Troppo tardi, dichiara all'unisono il Pd. Quella sulla corruzione? Non c'è più tempo, replica a brutto muso il Pdl. Idem per il semipresidenzialismo licenziato dal Senato. Per la responsabilità dei giudici, approvata dalla Camera in febbraio. Per la riforma del fisco, abbozzata in aprile dal governo. Per la revisione dei regolamenti parlamentari, in modo da rendere più impervio il salto della quaglia degli eletti. Per la disciplina dei partiti. Per i temi etici, a cominciare dai diritti delle coppie di fatto. L'unica legge promessa a destra e a manca è quella elettorale: più che una legge, l'estrema unzione della legislatura, e chissà se le verrà mai impartita.
C'è una ragione giuridica dietro questo stallo? Nessuna: le Camere funzionano a pieno regime fino alla scadenza. O anche dopo, finché non si riunisca il nuovo Parlamento (articolo 61 della Costituzione). Difatti per i parlamentari non vale la regola del semestre bianco, come per il capo dello Stato. E la legislatura dura cinque anni, non quattro anni e mezzo. Ma ormai il suo cuore batte piano, il respiro è quasi un rantolo. Nei primi diciotto mesi della legislatura in corso vennero approvate 119 leggi; negli ultimi otto mesi, da quando è scoccato il Capodanno del 2012, sono soltanto 11 i progetti di legge d'iniziativa parlamentare arrivati in porto. Supplisce, per lo più, l'esecutivo (38 provvedimenti). Ma il governo Monti si tiene alla larga dalle materie dove infuriano i contrasti. Un po' perché ha un mandato circoscritto alle questioni dell'economia; un po' perché sa bene che altrimenti può rimetterci le penne.

E allora sbuca fuori l'alibi, la scusa recitata in coro dai partiti: per ogni accordo politico servirebbe tempo, e tempo non ce n'è. Vero? No, falso. Il progetto di Costituzione, ovvero l'ossatura della Carta del 1947, fu scritto e votato in appena sei mesi. Più di recente, il disegno di legge costituzionale che ha introdotto il pareggio di bilancio è stato timbrato in sette mesi. Quanto alle leggi ordinarie, quella di stabilità ha occupato due sole sedute parlamentari (11-12 novembre 2011). A luglio la Campania ha varato una normativa contro la violenza sulle donne, pochi giorni dopo l'ennesimo assassinio. Mentre a suo tempo la legge che appose un titoletto ai referendum venne siglata da Camera e Senato fra la mattina e il pomeriggio del 17 maggio 1995.

Ma in realtà non c'è bisogno di vestirsi da Speedy Gonzales. Non occorrono né accelerazioni né improvvisazioni. Basta raccogliere il lavoro parlamentare già espletato, per mettere a profitto quest'ultimo scorcio della legislatura. Quantomeno sui capitoli della giustizia, della legalità ferita. Urgenze che non possono aspettare. Oltretutto un Parlamento incanutito dovrebbe avere in dote l'esperienza. Invece il nostro Parlamento preferisce un funerale da fanciullo, senza mai essere cresciuto.

Michele Ainis

22 agosto 2012 | 9:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_22/il-grande-alibi-del-tempo-scaduto-michele-ainis_ff047636-ec16-11e1-9004-4e22268e2993.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Agosto 25, 2012, 05:47:38 pm »

LA NECESSITÀ DI UNA NUOVA LEGGE SUL VOTO

Quel filo spezzato con gli elettori

Abbiamo letto fin qui anticipazioni, dichiarazioni, indiscrezioni. Talvolta farneticazioni. Ma a quanto pare la nuova legge elettorale sta per arrivare: meglio tardi che mai. Anche perché il Porcellum è diventato nel frattempo la disciplina normativa più odiata dal popolo italiano. Perché nell'ultimo anno Napolitano è intervenuto nove volte per sollecitarne invano la riforma. E perché, se i partiti ci obbligassero a votare nuovamente con un sistema che confisca il nostro voto, andrebbero alle urne soltanto i loro militanti.

Ma quali sembianze sfoggia il nascituro? L'ecografia non lascia dubbi: sarà un meticcio, un sangue misto. Né un maggioritario puro all'inglese, né un proporzionale puro alla tedesca. Dunque un maggiorzionale, mettiamola così. Come d'altronde è tradizione nella Seconda Repubblica. Il Mattarellum - in vigore dal 1993 al 2005 - era maggioritario per tre quarti, proporzionale per un quarto. Il Porcellum - ahimè, tuttora in vigore - ha un impianto proporzionale, ma drogato da un premio di maggioranza senza eguali nella storia italiana. Adesso si profila una soluzione salomonica: metà collegi uninominali (vince il candidato più votato), metà liste bloccate (vince il candidato nominato, se ha un buon posto nella lista e se la lista trova posto nel cuore degli elettori).

Ma gli incroci razziali non sono affatto una sciagura. Tutto sta a non trafficare troppo con gli alambicchi del laboratorio, altrimenti sbuca fuori Frankenstein. A occhio e croce, il rischio è proprio questo. Collegi piccoli, però non troppo piccoli (e allora sono grandi). Indicazione del futuro premier sulla scheda elettorale, quando la nomina spetta pur sempre al capo dello Stato. Soglia di sbarramento al 5%, ma con una deroga per chi la superi in almeno tre regioni, restando sotto a livello nazionale. Sarà contento Maroni, sorriderà Lombardo, però in questo modo la soglia si trasforma in una sogliola. I partiti locali possono ottenere seggi attraverso i collegi uninominali; tuttavia sarebbe una stortura rappresentarli a scapito di formazioni presenti in tutto il territorio, che magari non valicano lo sbarramento per lo 0,1% (nel 2001 capitò a Di Pietro).

E il premio? Al primo partito, anziché alla coalizione. Giusto così, ci risparmieremo alleanze ballerine, matrimoni d'interesse che finiscono un minuto dopo lo scambio degli anelli. Ma il 15% di cui si va parlando convertirebbe il premio in una tombola. Perché la governabilità non deve soffocare la rappresentatività del Parlamento. E perché d'altronde nessun bonus può mai garantire governi di legislatura, come sa bene Berlusconi. La garanzia sta nella politica, non nei marchingegni elettorali.

È infatti questa l'urgenza prioritaria: riannodare il filo spezzato fra eletti ed elettori, restaurare la perduta autorità del Parlamento. Per riuscirvi, sarebbe meglio dialogare con ogni partito ospitato dalle assemblee legislative, senza tenere fuori dalla porta Italia dei valori, la Lega, i Radicali. Si fa così, quando c'è da scrivere le regole del gioco. Dopo di che non serve l'unanimità: anche la Carta del 1947 incassò 62 voti contrari. Serve piuttosto mettersi alle spalle il doppio vizio del Porcellum: premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto. Questo sistema scellerato ha frustrato gli elettori, ha mortificato gli eletti. Non lo rimpiangeremo.

Michele Ainis

25 agosto 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_25/editoriale-filo-spezzato-elettori-ainis_e8b6ed72-ee74-11e1-b570-4318918e88d8.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Settembre 15, 2012, 11:14:53 am »

LEGGE ELETTORALE, IL TEMPO SCADE

La lunga notte di una riforma

La tela di Penelope si cuce di giorno, si disfa nottetempo. Ora è di nuovo notte, e nulla ci assicura che la legge elettorale vedrà mai le luci del mattino. I partiti di maggioranza ne avevano promesso il battesimo entro giugno, poi a luglio, poi a settembre; però anche questo mese sta volando via, come una rondine davanti ai primi freddi. E allora meglio prepararci al peggio, meglio attrezzarci per resistere all'inverno della democrazia italiana.

Perché è questa la stagione che ci attende, se i partiti ci costringeranno a votare per la terza volta col Porcellum . In assenza del popolo, ne prenderà le veci il populismo. Avremo due Camere amputate (nell'autorità, non nei posti a sedere: la riduzione dei parlamentari è l'ennesima promessa tradita dai politici). Questo Parlamento dimezzato ospiterà tuttavia un partito raddoppiato, grazie al superpremio di maggioranza: 55% dei seggi, quando attualmente nessuna forza politica supera il 25% dei consensi. Infine verrà delegittimato anche il prossimo capo dello Stato, eletto da un Parlamento ormai negletto.

C'è modo di sventare la sciagura? Uno soltanto: che sia il governo Monti, per decreto, a scrivere la nuova legge elettorale. Una soluzione disperata, ma di speranze ormai ne abbiamo poche. Sicché non resta che la dottrina del male minore, teorizzata da Spinoza come da Sant'Agostino. È un male scavalcare le assemblee legislative? Certo che sì, anche se alle Camere spetta pur sempre la conversione del decreto: e a quel punto niente più gioco del cerino, chi vi s'oppone ne risponde agli elettori. Ma è un male minore, giacché il male maggiore rimane la crisi democratica in cui siamo avvitati. Ed è un male evitabile: se gruppi di cittadini e di parlamentari sosterranno questa stessa soluzione; se l'esecutivo ne verrà corroborato per metterla poi nero su bianco; se i partiti, vista la malaparata, riusciranno infine a scongiurare la mossa del governo, siglando un testo condiviso. Talvolta una minaccia serve più di tanti bei sermoni.

Resta però una duplice obiezione: di forma e di sostanza. La prima chiama in causa l'ammissibilità dei decreti in materia elettorale, negata dall'art. 15 della legge n. 400 del 1988. Che tuttavia è una legge ordinaria, e dunque non può vincolare le leggi successive, né i decreti con forza di legge; tant'è che in questo campo non si contano i provvedimenti del governo, dalla disciplina delle campagne elettorali alle modalità di selezione delle candidature. Senza dire che ogni decreto legge si giustifica - Costituzione alla mano - in nome dell'emergenza, della necessità. Necessitas non habet legem , dicevano i latini: quando la società corre un pericolo, l'unica legge è la salvezza collettiva.

Già, ma spetta a un governo tecnico la più politica delle decisioni? Come potranno Monti e i suoi ministri scegliere fra maggioritario e proporzionale, fra collegi e preferenze? Difatti non possono, non devono. Possono soltanto estrarre dai cassetti l'unico modello già incartato: il Mattarellum . Anche perché dal 1994 al 2001 lo abbiamo usato per tre volte, senza eccessivi danni; l'anno scorso un referendum che intendeva riesumarlo raccolse un milione e 200 mila firme in pochi giorni; ed è la prima scelta per vari dirigenti di partito (Parisi, Vendola, Di Pietro). Poi, certo, si può fare di meglio. Anche di peggio, tuttavia. E in questo caso il peggio coincide col non fare.
michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

14 settembre 2012 | 10:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

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