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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 122299 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Maggio 12, 2014, 11:20:37 am »

Michele Ainis
Legge e Libertà

Sport nazionale: la caccia al vecchio

Dopo decenni di gerontocrazia siamo passati all’estremo opposto. Così gli anziani sono diventati vittime di un furore senza pietà. E di autentiche discriminazioni. Mentre in altri paesi si fa tutto l’opposto

C’erano un tempo la destra e la sinistra, sempre in baruffa come cani e gatti. Adesso quella contrapposizione non va più di moda: in politica, lo scontro si consuma ormai fra vecchio e nuovo. E ovviamente il nuovo è cool, è giovane per definizione. L’aria che tira è questa: addosso agli anziani. Discriminati, cacciati, rottamati in ogni ufficio pubblico o privato. E chissenefrega se l’anagrafe non costituisce un merito, né più né meno del colore degli occhi, o della statura che il Padreterno ci ha donato in sorte. Chissenefrega del passato, delle sue lezioni. «Giovinezza, primavera di bellezza»: era l’inno del fascismo, ma oggi trionferebbe pure a Sanremo.

In quest'astio verso i capelli bianchi si riflette senza dubbio una reazione (comprensibile, anzi sacrosanta) contro la gerontocrazia che ci ha dominato negli ultimi vent’anni. Politici immarcescibili: durante la seconda Repubblica sono cambiate vorticosamente le sigle dei partiti, mai le facce dei signori di partito. Classi dirigenti immobili, nella burocrazia, nelle banche, all’università, nel mondo delle imprese. Promozioni per anzianità, anziché per merito. Favori di legge agli ultrasessantenni, dalla pensione sociale all’assegnazione degli alloggi nell’edilizia pubblica, dalle detrazioni fiscali alle tariffe agevolate in treno o sulla bolletta del gas (grazie a due delibere delle authority: 237 e 314 del 2000).

E ora? Dalla carezza alla monnezza. Ma noi italiani siamo fatti così: detestiamo le mezze misure. Da qui l’idea della (giovane) ministra Marianna Madia: staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Tre dirigenti in pensione anticipata, un giovane funzionario assunto. Anche se magari quei tre sono pure bravi, il nuovo non si sa. Anche a costo di passare dagli esodati agli staffettati. Da qui, già in precedenza, un decreto del governo Letta: nel giugno 2013 decise incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani sotto i trent’anni. E chi di anni ne ha 31? E i cinquantenni che perdono il lavoro, troppo giovani per andare in pensione, troppo vecchi per trovarne un altro?

Ma non è solo la politica, a dichiarare guerra agli attempati. Un’inchiesta della “Stampa” (marzo 2013) ha rivelato il caso degli annunci di posti di lavoro alla Camera e al Senato, dove quasi sempre viene indicata un’età massima. Idem in tv, per fare un altro esempio; in Italia come nel Regno Unito, dove le donne over 50 rappresentano il 7 per cento appena fra i lavoratori della Bbc. A sua volta la Bocconi (febbraio 2012) attesta che gli ultraquarantenni sono carne morta, per i selezionatori di risorse umane nelle aziende: non li considerano. Mentre il Tribunale di Milano (luglio 2010) ha giustificato la discriminazione anagrafica sancita in un bando d’assunzione per gli autisti. Chissà perché, dal momento che l’esperienza casomai migliora le capacità di guida. E chissà se un tribunale si ribellerà una volta o l’altra alle persecuzioni e vessazioni che colpiscono gli ultrasettantenni, per esempio nell’assistenza sanitaria: uno studio di “eCancer Medical Science” (novembre 2013) dimostra che non ricevono cure oncologiche adeguate, perché i trattamenti all’avanguardia sono riservati ai giovani.

C'è una parolina che denomina questa forma di discriminazione: “ageism”. Si traduce come “ageismo” oppure “anzianismo”, ma non a caso la parolina ha un conio americano. Negli Usa l’Employment Act del 1967 protegge chi ha almeno 40 anni; fanno altrettanto il codice dell’Ontario e la legge sui diritti umani dello Stato di New York, con un lungo elenco di divieti. Fa lo stesso il Regno Unito, con l’Employment Equality Age Regulations del 2006. Viceversa in Italia non c’è legge, a eccezione d’un decreto legislativo del 2003, di cui nessuno (neppure il governo) conosce l’esistenza. Sicché la caccia è aperta, senza pietà per le anziane prede. Però, attenzione: siamo stati tutti più giovani in passato.

michele.ainis@uniroma3.it
30 aprile 2014 © Riproduzione riservata
   
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/04/23/news/sport-nazionale-la-caccia-al-vecchio-1.162483
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« Risposta #166 inserito:: Maggio 18, 2014, 06:05:15 pm »

Il nuovo Pauperismo

Il cittadino perfetto e il cittadino sospetto

Di MICHELE AINIS

Ogni stagione della storia genera uno spiritello che le soffia nell’orecchio. Si chiama Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Ma nel nostro tempo è una creatura secca e allampanata come uno spaventapasseri, come la dottrina che propaga a destra e a manca: il pauperismo. Significa che la povertà non è più una sciagura, bensì un modello, un esempio, un ideale. Se negli anni Ottanta Deng Xiaoping cambiò la Cina con il messaggio opposto (Arricchitevi!),se negli anni Novanta in Italia Berlusconi celebrò le sue fortune promettendo a tutti la fortuna, ora uno stigma sociale perseguita chiunque abbia un ruolo pubblico o privato, e dunque un portafoglio senza buchi. Da qui la nuova frattura che divide gli italiani: da un lato, il cittadino sospetto; dall’altro, il cittadino perfetto (povero, e ancora meglio se nullatenente).

Le prove? Basta accendere in un’ora qualunque la tv, dove ogni dibattito si trasforma in un alterco, ogni alterco erutta una domanda: «E tu, quanto guadagni? Troppo, allora zitto, non hai diritto di parola». O altrimenti basta tendere l’orecchio nelle strade. L’unica eccezione investe la gente di spettacolo: cantanti, calciatori, anchor men, soubrette, piloti, attori. Sicché lo stesso benpensante che non perdona al segretario comunale i suoi 3 mila euro in busta paga, è pronto a maledire il presidente della squadra per cui tifa, se lascia scappare il centravanti anziché accordargli un ingaggio di almeno 3 milioni.

In questo clima c’entrano assai poco i teorici della decrescita felice: Georgescu-Roegen, Latouche, Pallante. Intanto, le loro idee girano presso un pubblico ristretto. E soprattutto il desiderio dominante - qui e oggi - non è la (mia) felicità, bensì la (tua) infelicità. Non un sentimento ma un risentimento, un rancore collettivo. Come se anni di crisi economica e morale ci avessero lasciato in dote una cifra di disperazione, l’incapacità di volgere lo sguardo sul futuro, d’immaginarlo più propizio. E allora l’unico risarcimento consiste nel tirare dentro gli altri, tutti gli altri, nella miseria che inghiotte il nostro orizzonte esistenziale.

Infine questo malumore si trasforma in energia politica, in un vento che soffia sulle urne. Destinatario e interprete ufficiale: il Movimento 5 Stelle. Dove uno vale uno, ed è un’idea potente, il paradiso dell’eguaglianza nella terra più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Ma quell’eguaglianza declina verso il basso, verso l’appiattimento dei destini individuali, e allora il paradiso diviene la porta dell’inferno. Un inferno sempre più affollato, perché ormai ciascun partito ambisce al ruolo di Caronte. Chi in nome dell’antica avversione dei cattolici nei riguardi del denaro («lo sterco del diavolo»), chi attraverso un’eco lontana del marxismo. Anche il presidente del Consiglio, sì: pure lui. Non per nulla ha esordito facendo dimagrire gli stipendi pubblici più alti, senza tuttavia sfilare ai grillini un solo voto. Nessuno può riuscirci: se il modello è questo, meglio l’originale della copia.

Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo. Certo, alcuni dirigenti si erano trasformati in dirigibili, gonfi d’oro anziché d’aria. Ma in primo luogo ogni correzione dovrebbe rispettare il principio di proporzionalità, elaborato sin dalla giurisprudenza prussiana di fine Ottocento: oggi Scilipoti guadagna più di un giudice costituzionale, e questo non va bene. In secondo luogo, se abbassi troppo le retribuzioni alzi le corruzioni; accadde già durante Tangentopoli, ammesso che sia mai finita. In terzo luogo, uno Stato debole, dove trovano alloggio soltanto le professionalità senza mercato, non saprà più opporre una trincea contro i poteri forti.

Da un malinteso ideale di giustizia deriva quindi la massima ingiustizia, ecco la lezione. E dall’ideologia del pauperismo sgorga un veleno che può uccidere le stesse istituzioni democratiche. Perché non c’è democrazia senza ceto medio, come ci ha spiegato in lungo e in largo Amartya Sen. C’è soltanto l’America Latina, con i poveri nelle favelas, i ricchi blindati nei propri quartieri, e un Caudillo che regna incontrastato. O sbagliava Sen, o stiamo sbagliando tutto noi italiani.

17 maggio 2014 | 08:06
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_17/cittadino-perfetto-cittadino-sospetto-259b495e-dd89-11e3-9bca-c6f1cdc28cdd.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Maggio 24, 2014, 06:16:43 pm »

Le ragioni dimenticate dell’Europa - Smemorati e distratti

Di Michele Ainis

Domani votiamo, però senza sapere bene per che cosa. Pare ci sia di mezzo il governo presieduto da Renzi: i suoi avversari (e molti suoi compagni di partito) non aspettano che un flop per buttarlo giù dal trono. Secondo altre indiscrezioni la posta in palio è invece il Quirinale: Grillo e Casaleggio sono pronti a chiamare una ditta di traslochi, se il loro movimento verrà benedetto dalle urne. Berlusconi no, lui è in una botte di ferro. Ma se perde di brutto, perde pure la legge elettorale: come fai a timbrare il ballottaggio previsto dall’Italicum, quando al ballottaggio balleranno soltanto i tuoi nemici? E il Pd, avrà ancora voglia di cambiare il Senato, se tracolla alle elezioni? Non si sa, non si capisce, anche perché c’è un tale baccano! Durante questa campagna elettorale abbiamo sentito rimbombare minacce ed improperi, chi ha evocato Stalin, chi Hitler, chi il fumo nero che saliva al cielo dalle fornaci di Auschwitz.

Eppure è proprio su Auschwitz che si vota. Perché l’Europa è nata lì, da quell’orrore senza precedenti. È nata per bandire il genocidio, e siccome il genocidio aveva celebrato la massima potenza dello Stato, l’idea europea coltivò fin dall’inizio il genocidio degli Stati. Da qui trattati e protocolli, in un processo federativo sempre più esteso, in nome d’una solidarietà sempre più stretta fra i popoli europei. Solo che, strada facendo, alla solidarietà si è sostituito l’egoismo. Davanti ai morti di Lampedusa così come rispetto alla crisi finanziaria della Grecia, l’Europa guarda altrove. Sicché i partiti antieuropei hanno buon gioco, mentre gli europeisti si trincerano in un atteggiamento puramente difensivo. Sperano così di salvare l’esistente, ma intanto hanno rinunziato a ogni progetto, a ogni utopia costituzionale.

Ecco, la Costituzione europea. C’è qualcuno che ne ha più sentito parlare? Dopo il fallimento del 2005 (quando un doppio referendum in Olanda e in Francia bocciò il testo firmato l’anno prima a Roma), questa parola è ormai tabù, vietato pronunziarla. Ed è un errore, perché gli europei non otterranno mai un’identità comune senza una Costituzione in comune. Errore doppio, perché tutta la storia dell’integrazione europea è scandita da eventi e da incidenti, da salti in avanti e da passi del gambero all’indietro. La prima doccia fredda cadde nel 1954, dopo che Francia e Italia respinsero il trattato sulla difesa comune siglato dai 6 Stati fondatori nel 1952. Ma nel 1957 venne alla luce la Comunità economica europea, capostipite di tutti gli sviluppi successivi.

Nel frattempo, tuttavia, si va modificando la Costituzione «materiale» dell’Europa. Questa volta i 300 milioni di cittadini disseminati in 28 Paesi voteranno per eleggere un leader, oltre che un parlamentare. Juncker, Schulz, Tsipras, Bové e Ska Keller, Verhofstadt: il prossimo presidente della Commissione sarà uno di loro. È l’effetto d’un accordo fra i partiti europei, che finalmente hanno cominciato a ragionare su un unico popolo europeo. Rivendicando così anche il primato democratico del Parlamento sulle altre istituzioni dell’Unione, anche se quel Parlamento è assurdamente dislocato in tre sedi (Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo), anche se all’Unione manca un programma fiscale comune e una politica estera condivisa. Ma non c’è via d’uscita, oggi come ieri: o tutto o niente, o l’Europa saprà guardare avanti o finirà accecata come Polifemo. E questo sguardo - lo sguardo sul futuro - prima o poi dovrà fissarsi su una Costituzione.

24 maggio 2014 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_24/smemorati-distratti-21e7c594-e301-11e3-a0b2-0f0bd7a1f5dc.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Giugno 10, 2014, 07:37:44 pm »

Umori e tendenze
Le vittime di un’elezione imprevedibile e radicale

di MICHELE AINIS

Il caro estinto avrà anche lasciato qualche vedova. Non molte, a giudicare dagli ultimi risultati elettorali, dove i funerali del Centro si sono consumati in una chiesa vuota di fedeli. Tracollo dei centristi e dei centrini, astensionismo record (50,5%); e i due fenomeni sono indubbiamente collegati. Però sul primo non abbiamo letto neppure un necrologio, mentre il secondo riceve per lo più letture minimali, quando non venga addirittura sventolato come un indice di maturità della democrazia italiana. Difficile da credere, se c’è da credere alla verità dei numeri. Mettiamo pure in un cassetto i ricordi della nonna, dimentichiamoci le prime otto elezioni generali (1948-1979), con un’affluenza mai inferiore al 90% del corpo elettorale. Ma sta di fatto che le Politiche dell’anno scorso hanno segnato il minimo storico in Italia (75%). E sta di fatto inoltre che, fra il primo e il secondo turno di queste Amministrative, si è dileguato un elettore su cinque (21% in meno di votanti). Se è il passaggio alla maturità, suona fin troppo repentino: nessun adolescente imberbe si sveglia con la barba lunga dalla sera alla mattina.

Ma è altrettanto fulminante - di più: brutale - la scomparsa dei partiti di centro, equidistanti fra la destra e la sinistra. Perché non è affatto vero che quello spazio politico sia stato risucchiato dai gorghi della Prima Repubblica. Non è vero che la Democrazia cristiana morì senza lasciare eredi. E non è vero che la Seconda Repubblica abbia poi allevato un bipolarismo duro e puro. In questi vent’anni si sono sempre fronteggiati un centro-destra e un centro-sinistra, ecco com’è andata. Alleandosi ora con l’uno ora con l’altro, Casini, Mastella, Dini, Segni, Follini, Buttiglione ne hanno determinato le fortune. Marciavano divisi, ma le loro truppe non erano affatto esigue: per dirne una, alle amministrative del 1998 le formazioni di centro raccolsero il 25% dei consensi. Ciascuna fiera della propria identità centrista, come testimonia per esempio lo slogan elettorale dell’Udc nel 2006 e nel 2008 («Io c’entro»).

Semmai la differenza con mamma Dc stava negli atteggiamenti, nelle strategie politiche. La prima - per usare le categorie di Norberto Bobbio - formava un centro «includente», con la pretesa d’assorbire la Destra e la Sinistra, d’annullarle in una sintesi superiore. Mentre i suoi nipotini hanno rappresentato un Centro «incluso», cercando il loro spazio fra le ali, senza però negarne la legittima esistenza. Ma adesso?

L’ultima incarnazione del Centro - quella tecnocratica di Monti - ha rastrellato alle Europee un misero 0,71%, passando in un anno da 3 milioni a meno di 200 mila voti. Ormai Scelta civica ha più eletti che elettori. E in generale il Centro incluso è stato escluso, il Centro includente è diventato inconcludente.

Sicché la domanda è una soltanto: perché? Quale virus letale ha sterminato quest’antica dinastia politica? Può darsi sia lo stesso virus che in Italia sta uccidendo il ceto medio, tradizionale serbatoio di voti per i partiti moderati. Può darsi che agisca il disincanto rispetto ai troppi fallimenti dei politici centristi nel passato. O può darsi che la colpa sia dei pensionati, dato che alle nostre latitudini ospitiamo la popolazione più vecchia del pianeta (ci supera soltanto il Giappone). È la diagnosi di Grillo per spiegare il suo deludente risultato, anche se lui non è di centro: la Dc praticava la politica dei due forni, Grillo invece cuocerebbe i suoi avversari al forno. Però è indubbio che i vecchi dovrebbero essere assennati, mentre i nostri vecchi sono disperati. Ed è altrettanto indubbio che nel corpaccione della società italiana circola una rabbia livida, impaziente, che erompe nelle urne attraverso scelte estreme.

Da qui un umore instabile e nevrotico, che ad ogni elezione ci consegna una sorpresa. A sinistra cade Livorno dopo settant’anni, espugnata dal Movimento 5 Stelle. A destra cade Pavia, ma in tutto i ribaltoni sono stati 13 nei principali capoluoghi. Ormai la sorpresa sarebbe l’assenza di sorprese. Non è più troppo sorprendente, tuttavia, la direzione del voto, o anche del non voto. L’uno e l’altro esprimono una furia iconoclasta, un anelito alla rottamazione universale, per usare la parola più alla moda. Gli italiani sono diventati radicali, ecco perché il Centro non trova più seguaci. Di conseguenza sono diventati radicali anche i politici italiani, senza più mezze misure.

Magari è meglio così, la nostra crisi non si cura con il misurino. Tutto sta a non perdere il senso della misura.

( michele.ainis@uniroma3.it )

10 giugno 2014 | 07:54
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Da - www.corrier.it/politica/14_giugno_10/vittime-un-elezione-imprevedibile-radicale-43e50476-f063-11e3-9b46-42b86b424ff1.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:14:32 pm »

IL DIBATTITO SULLA LEGGE
Tra fine vita e ipocrisie di Stato
Di Michele Ainis

Fra i troppi ministeri ospitati dal nostro troppo Stato, ce n’è invece uno di cui s’avverte la mancanza: il ministero della Sincerità. Se mai venisse istituito, ecco il nome giusto per dirigerlo: Giuseppe Saba. Non è giovane (87 anni), non è donna, ha perfino un titolo di studio (era ordinario di Anestesiologia). Peccati imperdonabili, alle nostre latitudini. Ma il peccato più grave l’ha commesso qualche giorno fa, rilasciando un’intervista a L’Unione Sarda. Dove candidamente ammette d’avere aiutato un centinaio di malati terminali, per farli morire senza sofferenze. Dove pronunzia a voce alta la parola tabù: eutanasia. Dove denuncia l’ipocrisia verbale di chi la chiama «desistenza terapeutica», come se non ci fosse in ogni caso una spina da staccare. E dove infine racconta che la dolce morte costituisce una pratica diffusa, diffusissima, nei nostri ospedali. Si fa, ma non si dice. Lui invece l’ha detto.

Non che la notizia ci colga alla sprovvista. Lo sapevamo già, lo sa chiunque abbia assistito all’agonia di un amico o d’un parente, con i medici che armeggiano dentro una stanza chiusa. E i pochi dati in circolo ne offrono la prova. Secondo un’indagine condotta nel 2002 su venti ospedali di Milano, l’80 per cento dei camici bianchi pratica l’eutanasia passiva (ovvero l’interruzione delle cure), il 4 per cento quella attiva (con l’uso di un farmaco letale). Mentre la ricerca più nota — quella imbastita nel 2007 dall’Istituto Mario Negri — stima 20 mila casi l’anno di pratiche eutanasiche. Ma questa è l’esperienza, non la giurisprudenza. Per i nostri codici, se raccogli l’estremo appello di chi non ne può più, rischi la galera. «Omicidio del consenziente», così viene definito. Anche se il tentato suicidio, di per sé, non è reato. Dunque puoi ucciderti soltanto se stai bene, se ne hai la forza fisica. Non se sei inchiodato a un letto come Eluana, come Welby, come tanti povericristi di cui non abbiamo visto mai la croce.

Per carità, parliamone. Ma sta di fatto che il nostro legislatore è muto come un pesce. Aprì bocca nella legislatura scorsa, però avrebbe fatto meglio a stare zitto. Con il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, che definiva l’alimentazione e l’idratazione forzata «forme di sostegno vitale», quindi irrinunciabili. Come se le cure mediche fossero invece sostegni mortali. E comunque quel disegno di legge non si è mai tradotto in legge. Né più né meno dell’iniziativa popolare depositata in questa legislatura dall’associazione Coscioni, che giace da trecento giorni nei cassetti della Camera. Sulle volontà del fine vita in Italia c’è un buco normativo, che ci distingue dagli altri Paesi occidentali (Usa, Germania, Francia, Inghilterra e via elencando). Nonostante i moniti dei nostri grandi vecchi, da Montanelli a Veronesi. O di Napolitano, che tre mesi fa ha sollecitato (invano) il Parlamento.

Sicché il diritto alla salute si è tramutato nel dovere di soffrire. A meno che non incontri un medico pietoso, e soprattutto silenzioso. Di qua il diritto, anche se è un legno storto; di là la compassione, che tuttavia prova soltanto chi ha passione. Ecco, è questa la frattura che ci separa dal resto del pianeta. È il solco che divide il dover essere dall’essere, la realtà dalla sua immagine legale. È la discrezionalità che in ultimo circonda l’operato di ciascuno, o perché le leggi sono troppe (da qui la corruzione), o perché non c’è nessuna legge in questa giungla. Ed è infine l’ipocrisia di Stato, con le sue doppie leggi, con la sua doppia morale. Ci salverà, forse, un bambino. Oppure un vegliardo, come Giuseppe Saba.

michele.ainis@uniroma3.it
12 giugno 2014 | 16:52
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_12/tra-fine-vita-ipocrisie-stato-f89ba090-f1fe-11e3-9d0d-44dc1b5aab8c.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Giugno 16, 2014, 07:24:47 pm »

SCELTE FORTI NELLA GIUNGLA LEGISLATIVA
Le troppe norme aiutano i furbi

Di Michele Ainis

Un grosso paio di forbici volteggia sulle nostre chiome. Le impugna il presidente del Consiglio, che ne ha fatto ancora uso lo scorso venerdì. Tagli alle prefetture (da 106 a 40). Tagli alle camere di commercio (ne sopravvivranno una ventina). Tagli alle sezioni distaccate dei Tar (amputazione totale). E poi sforbiciate sui permessi sindacali. Sulle propine degli avvocati dello Stato. Sui gettoni dei segretari comunali. Sui doppi incarichi dei magistrati. Sulle 5 scuole della pubblica amministrazione. Sui ruoli dirigenziali. Su ogni ufficio locale, centrale, interstellare. Risultato: ci era cresciuta sulla testa una zazzera leonina, rischiamo di finire pelati come un uovo.

Però l’Italia aveva bisogno d’un barbiere. Non solo perché troppi capelli non riesci a pettinarli, e infatti il nostro Stato è fin troppo arruffato. Anche perché sotto ogni ricciolo può ben nascondersi la pulce della corruzione. Quella che negli ultimi vent’anni ci ha fatto precipitare dal 33º al 69º posto nella classifica di Transparency International anche in virtù di scandali come quelli del Mose e dell’Expo. Non a caso la seconda lama della forbice s’infila proprio lì, rafforzando i poteri di Cantone sugli appalti. Quali? Soprattutto uno: l’Autorità nazionale anticorruzione potrà sospendere rami d’attività delle aziende, commissariarli, avviarne una contabilità separata.

Funzionerà? Lo sapremo presto. Anche se è lecito nutrire qualche dubbio - in termini economici, prima ancora che giuridici - sulla possibilità che un’impresa riesca a camminare con un piede o una caviglia congelati. Anche se bisogna sempre soppesare i costi sociali di ogni misura repressiva, a partire dall’occupazione: ricordiamoci dell’Ilva. Anche se l’eccesso di controlli può risultare altrettanto pernicioso rispetto al vuoto di controlli, contraddicendo le istanze di semplificazione che sorreggono quest’ultima manovra del governo Renzi.

Ma un intervento era comunque necessario. Magari per renderlo ancora più efficace servirebbe allungare i tempi della prescrizione, che mandano in fumo 130 mila processi l’anno. E ripristinare il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal governo Berlusconi. Però nessuna norma, nessuna authority, nessun gendarme ci potrà salvare l’anima se noi italiani non sapremo riconciliarci con la cosa pubblica, con l’etica pubblica. Anzi: c’è il rischio che la legge diventi un mantello che copre i malfattori. L’ha osservato, d’altronde, anche Cantone: gli appalti truccati sono sempre costruiti sul rispetto formale delle regole, come un abito cucito su misura per questo o quell’imprenditore. E quando le regole si contano a migliaia, il sarto non ha che da scegliere la stoffa migliore per accontentare i suoi clienti.

Ecco, qui entra in scena l’ossimoro, il paradosso della semplificazione. Sta di fatto che le forbici di Renzi fendono l’aria con due decreti legge omnibus (vietati dalla Consulta) e un disegno di legge delega. Totale: 120 articoli, un centinaio di pagine. Il solo comunicato stampa diramato da Palazzo Chigi inanellava 2.287 parole. Parole che reclamano altre parole di legge per ricevere attuazione (non prima del 2015). E del resto sono quasi 500 i provvedimenti attuativi fin qui rimasti in mezzo al guado. Il governo lo sa, e infatti aveva predisposto un meccanismo per rendere in futuro certa l’attuazione delle leggi. Dopodiché i meccanici (le burocrazie ministeriali) hanno bloccato il meccanismo, depennandolo dal testo approvato in Consiglio dei ministri.

Ma che cos’è l’attuazione, se non altro diritto che va ad aggiungersi al boccale del diritto? Nella legislatura in corso abbiamo già inghiottito 3.917 commi, 55 leggi, 41 decreti. E il gabinetto Renzi (con una media di 3,33 decreti al mese) ha superato di gran lunga i 4 esecutivi precedenti. È insomma la loro quantità che stroppia, non soltanto la loro qualità, non solo la collezione di norme astruse o strampalate di cui racconta Gian Antonio Stella nel suo ultimo volume (Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli). Da qui la conclusione: per semplificarci l’esistenza, nonché per liberarci dai corrotti, serve una legge in meno, non un decreto in più.

michele.ainis@uniroma3.it

© RIPRODUZIONE RISERVATA
16 giugno 2014 | 08:34

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_16/troppe-norme-aiutano-furbi-576e0df0-f516-11e3-ac9a-521682d84f63.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Giugno 21, 2014, 10:45:53 am »

L’orticello delle Regioni

Di Michele Ainis

Evviva la riforma, purché non sia una controriforma. Attenzione: sta per succederci con la revisione del Titolo V. Dove il governo Renzi era partito lancia in resta, recuperando lo spazio perduto dello Stato, allargando quello dei Comuni, e per conseguenza sottoponendo a una bella cura dimagrante le Regioni. Con il sostegno dell’opinione pubblica (6 italiani su 10 le detestano, dice l’Istat). Ma soprattutto con il conforto dei fatti, o meglio dei misfatti. Perché la spesa regionale è un’idrovora che ha succhiato 90 miliardi in più nell’arco di un decennio. Perché specularmente sono cresciute a dismisura le tasse locali (del 138% fra il 1995 e il 2010, secondo la Cgia di Mestre). E perché non ne abbiamo ricevuto in cambio maggiori servizi, bensì piuttosto disservizi. Oltre che una marea di scandali, dato che negli ultimi tempi le inchieste giudiziarie hanno chiamato in causa 17 Regioni (su 20) e più di 300 consiglieri regionali. Al confronto, le Province sono verginelle. Noi invece abbiamo deciso di mandare al patibolo le vergini, santificando le matrone.

Questione di gusti, per carità. Ma prima di riportare la matrona all’onore degli altari, bisognerà cambiarle l’abito. Quello che le cucì addosso la riforma del 2001, giacché è da quel momento che le Regioni hanno perso la ragione. Tutta colpa di un’ubriacatura di competenze e di poteri, anche su argomenti d’interesse nazionale, come l’energia, la scuola, l’ambiente, la rete dei trasporti, il commercio estero, la comunicazione. Da qui lo scialo, da qui un estenuante tira e molla davanti alla Consulta, per disputarsi palmi di terreno con lo Stato.

Anche perché quella riforma era chiara quanto una notte invernale. Prendiamo il caso delle attribuzioni regionali sul lavoro, questione che interessa tutti gli italiani. Nel 1947 l’unica materia lavoristica assegnata dai costituenti alle Regioni fu l’istruzione artigiana e professionale. Nel 2001 i ri-costituenti aggiunsero la «tutela e sicurezza del lavoro», e vattelappesca dov’è la differenza fra queste due parole. Oltretutto il lavoro non esprime una materia, come quelle che si studiano agli esami. No, è l’oggetto d’una politica pubblica. Ma le politiche del lavoro, per essere efficaci, devono comprendere gli ambiti più vari, dal regime fiscale delle imprese alla tutela dei brevetti, dalla semplificazione burocratica alla promozione dell’export, dalla ricerca tecnologica al costo del lavoro. Se invece costruisco steccati fra lo Stato e le Regioni, ciascuno con il suo orticello da curare, la pianta del lavoro non può crescere, crescerà soltanto il contenzioso.

Opportunamente, il testo diffuso dal governo a fine marzo affiancava al concetto di materia regionale quello di «funzione». Introduceva la clausola di supremazia in favore dello Stato. Si sbarazzava della potestà legislativa concorrente, fonte di pasticci e di bisticci. Restituiva interi settori alla compagine statale. Modellava il Senato con una rappresentanza paritaria delle Regioni e dei Comuni. Ma è ancora così? Nel nuovo Senato, a quanto pare, i sindaci saranno appena un quarto del totale. E a leggere i sorrisi che distribuisce Calderoli, le competenze delle Regioni - da residuali - tornano centrali. Vero, nessuno può riscrivere la Costituzione in solitudine. Da qui l’esigenza d’annacquare il proprio vino per soddisfare il palato degli altri commensali. Purché il vino non diventi acqua colorata.

20 giugno 2014 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_20/orticello-regioni-45bbcdf0-f83a-11e3-8b47-5fd177f63c37.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Giugno 28, 2014, 11:46:12 am »

Stato di diritto e falsi miti
L’ingannevole uguaglianza

Di Michele Ainis

Uno vale uno, senza un centesimo di resto. È lo slogan del Movimento 5 Stelle, ma è ormai diventato l’inno che intonano tutti gli italiani. Dopo un ventennio di crisi economica e morale, circola difatti un sentimento nuovo, o forse antico quanto il principio d’eguaglianza, che ne prospetta tuttavia la versione più estrema e radicale. Quella che a suo tempo si riflesse nel Manifesto degli eguali di Gracco Babeuf, ghigliottinato nel 1797. O nella formula di Bentham: «Ognuno deve contare per uno, e nessuno per più di uno». Sicché guai a chiunque eserciti un potere d’influenza, un’autorità giuridica o politica. Se siamo tutti uguali, quel potere è un abuso, un privilegio. Sbarazziamocene, e metteremo un piede in Paradiso.

Le prove? Per esempio il tormentone sull’immunità dei senatori. Cancellata nel progetto del governo, riesumata da un emendamento Calderoli-Finocchiaro: apriti cielo. Come si permette, questo nuovo Senato non eletto, a rivendicare una protezione negata ai comuni cittadini? Poi, certo, possiamo ragionarci sopra, anche a costo d’ottenerne in cambio fischi e pomodori. Osservando che l’immunità non s’accompagna all’elezione, bensì piuttosto alla funzione; altrimenti perché mai ne godrebbero i giudici costituzionali, orfani d’un voto popolare? Ma questi argomenti suonano ormai come sofismi, acrobazie verbali. D’altronde sembra un orpello anche lo Stato di diritto, di cui è figlia la separazione dei poteri, e nipotina la stessa immunità. Brevettata, guarda caso, dai profeti più intransigenti del principio d’eguaglianza: dai giacobini, nel 1790, dopo l’incriminazione del deputato Lautrec.

Perché se il Parlamento non può annullare una sentenza, nessuna sentenza può annullare il Parlamento. E a sua volta il Parlamento non è l’unico organo dello Stato di diritto, benché sia l’unico legittimato dalle urne. In una democrazia costituzionale s’aprono altri canali di legittimazione, che investono per esempio la Consulta. O almeno: era così una volta, domani non si sa. Se uno vale uno, quell’uno dev’essere eletto dal popolo votante. Le polemiche sull’elezione del Senato trovano qui la loro scaturigine. Come del resto il sentimento di ripulsa verso l’immunità, l’indennità, l’autorità medesima di chi ci rappresenta. Se vuole il nostro voto, dovrà lavorare gratis, senza protezioni, e con un megafono che registri tutti i nostri umori.

Errore: nessuna società umana, neanche la più egualitaria, è mai riuscita a bandire il potere dai suoi ranghi. C’è sempre stato chi governa e chi viene governato. E quando i governanti hanno promesso l’assoluta parità fra gli individui, si sono presto trasformati in dittatori. Lenin immaginava che una cuoca potesse reggere lo Stato, ma intanto fucilava i suoi avversari. Da quegli avvenimenti è ormai trascorso un secolo, sarà per questo che ce ne siamo un po’ dimenticati. Invece dovremmo ripassarne la lezione: non si tratta di disarmare il potere, si tratta semmai di controllarlo. Per esempio attraverso la rotazione delle cariche, con un limite di mandati in Parlamento e nel governo. O attraverso il recall, la revoca anticipata degli eletti immeritevoli. Ecco, il merito. Rappresenta l’unica giustificazione del potere, e rappresenta al contempo la cerniera fra eguaglianza e libertà: l’eguale libertà di diventare diseguali, in base ai propri sforzi, nonché ai talenti che ciascuno ha ricevuto in sorte. Ma l’eguaglianza radicale di cui ci stiamo innamorando noi italiani ne è l’antitesi, il rovescio. Perché appiattisce i meriti, e perciò salva i demeriti.

michele.ainis@uniroma3.it
28 giugno 2014 | 07:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_28/ingannevole-uguaglianza-a1df620c-fe81-11e3-8a2a-88aba4066e9e.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Luglio 03, 2014, 06:33:07 pm »

Buone domande cattivi pensieri

Di Michele Ainis

Diceva Craxi: quando non è possibile risolvere un problema, si nomina una bella commissione. Oggi invece s’indice una consultazione. È più trendy, e almeno in apparenza trasforma ogni elettore in un legislatore. Sarà per questo che gli ultimi tre governi ne hanno profittato a mani basse. Con la consultazione di Monti, nel 2012, sul valore legale della laurea. Con quella battezzata nel 2013 da Letta su «Destinazione Italia», per attrarre investimenti dall’estero. O dal suo ministro Quagliariello sulle riforme costituzionali (131 mila risposte online). Infine con le consultazioni promosse da Renzi sul Terzo settore (che ha incassato meno di 800 email), nonché sulla riforma della pubblica amministrazione.

Adesso tocca alla giustizia: 12 punti sottoposti al verdetto telematico, che spaziano dal divorzio breve al processo lungo, dalla carriera dei giudici a quella dei cancellieri, e via via intercettazioni, prescrizioni, informatizzazioni, buone intenzioni. E allora, dove sta il problema? Non nel metodo, ci mancherebbe: è sempre cosa santa e giusta testare gli umori del popolo votante. Dopotutto, in Francia la legge Barnier del 1995 stimola il giudizio dei cittadini sulle grandi opere pubbliche, e così succede in varie altre contrade, su varie altre materie. In Italia però non c’è nessuna legge che regoli queste forme di consultazione, sicché ciascun governo fa un po’ come gli pare. E questo sì, è un guaio. Specie se c’è di mezzo la giustizia, che è forse la più grave emergenza nazionale.

Da qui un problema di merito sul metodo, mettiamola così. Perché in primo luogo, se ci chiedete un’opinione, dovete poi tenerne conto. Per esempio: a Bologna, nel maggio 2013, si è celebrato un referendum consultivo sui fondi alle scuole private. Hanno vinto i no, ma il Consiglio comunale ha detto sì. Ovvio che poi ti senti buggerato. Ma in secondo luogo un’opinione pesa quando è libera, ed è libera quando ha di fronte alternative chiare, specifiche, puntuali. Meglio ancora se poste in successione progressiva, come hanno fatto i grillini con il loro progetto di legge elettorale. Lì, semmai, il limite era nel limite d’accesso, consentito a pochi congiurati.

Le domande, quindi. In ogni referendum (elettronico o cartaceo) contano più delle risposte, come osservò a suo tempo Bobbio. Perché le orientano, e spesso le prefigurano. Ma in questo caso, quali domande ci domanda il domandante? Per esempio, se intendiamo premiare i meriti nel cursus honorum dei magistrati. Certo che sì, ma come? Silenzio tombale: più che una domanda, è un quiz. Oppure se siamo o no d’accordo sulla riforma delle intercettazioni; tuttavia l’esecutivo confessa di non avere alcuna idea circa il da farsi. Ancora: le correnti giudiziarie, chi le compra? Probabilmente nessuno; ma il problema, di nuovo, è come venderle, come liberare il Csm dalle loro unghie rapaci. E la separazione delle carriere? Qui manca del tutto il quesito, magari per un eccesso di discrezione, di bon ton.

Diceva Oscar Wilde che le domande non sono mai indiscrete; però lo sono, talvolta, le risposte. Ecco perciò la nostra domanda: qual è la linea del governo in materia di giustizia? Perché il silenzio, si sa, alimenta i cattivi pensieri. Come il sospetto d’una trattativa sottobanco con l’Anm; e sarebbe imbarazzante la concertazione con il sindacato giudiziario, dopo averla bandita con gli altri sindacati sul lavoro. Ma si fa presto a sbarazzarsi dei sospetti. Basta che la prima consultazione il governo la faccia con se stesso.
michele.ainis@uniroma3.it

2 luglio 2014 | 07:31
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_02/buone-domande-cattivi-pensieri-7cf64360-01a7-11e4-b194-79c20406c0ad.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Luglio 13, 2014, 10:45:08 am »

Ritocchi necessari
C'è un cuoco un po' miope nella cucina delle riforme

Di Michele Ainis

La legge elettorale? A bagnomaria, cucinata a fuoco lento. E il Senato? Al forno, ma attenti alle ustioni. Intanto, mentre le pietanze cuociono, c’è già chi accusa un mal di pancia. Colpa degli ingredienti, anche se nessuno li ha ancora assaggiati. Oppure colpa delle pance.

D’altronde non ce n’è una uguale all’altra: per saziarle, servirebbero mille menu per i nostri mille parlamentari. Le soglie di sbarramento, per esempio: Bersani le trova troppo basse, Berlusconi troppo alte. O le immunità: sì da Alfano, sì da Forza Italia in coro, no da Grillo e Vendola, Pd non pervenuto. L’elezione diretta del Senato: a favore la minoranza della maggioranza (da Chiti a Minzolini), però stavolta la maggioranza rischia d’andare in minoranza. E le preferenze? Bersani le vuole, Berlusconi le disvuole, Renzi forse le rivuole, Grillo preferisce le spreferenze (un voto per promuovere, un voto per bocciare).

Troppi cuochi, verrebbe da obiettare. E troppa carne al fuoco. Ma per ottenere un piatto commestibile, bisogna anzitutto scegliere un'unica ricetta. È questo il nostro problema culinario: pencoliamo dalla nouvelle cuisine (il doppio turno in salsa francese) ai crauti (un Senato che scimmiotta il Bundesrat tedesco). Senza un'idea precisa, senza un progetto consapevole. Eppure in questi casi gli ingredienti sono solo due: rappresentanza e governabilità. Si tratta perciò di miscelarli per cavarne un buon sapore. Facile a dirsi, un po' meno a farsi. Specie in Italia, dove manca persino la bilancia. Come d’altronde testimonia la nostra stessa storia.

Durante la Prima Repubblica c’era una legge elettorale superproporzionale. Risultato: il massimo di rappresentatività del Parlamento (aperto a tutti, dai radicali ai neofascisti), il minimo di stabilità (i governi duravano in media 10 mesi). Ma anche il massimo di garanzie costituzionali, nella scelta dei custodi così come delle regole; difatti in 45 anni furono appena 6 le revisioni della Carta, peraltro su aspetti marginali. Dopo di che l’avvento del maggioritario battezza la Seconda Repubblica, e qui i pesi s’invertono. Diventa fin troppo facile emendare la Costituzione (10 interventi in vent’anni, senza contare la maxiriforma del 2005, bocciata poi da un referendum). I presidenti delle Camere perdono il loro abito neutrale, perché la maggioranza se li accaparra entrambi. Fino alla tragedia nazionale andata in scena l’anno scorso, durante i 5 voti nulli per eleggere il capo dello Stato. Perché ormai ci eravamo abituati a scelte rapide, sonore, muscolari. Eppure Scalfaro e Pertini vennero eletti al 16º scrutinio, Saragat al 21º, Leone dopo 23 votazioni.

Morale della favola: urge trovare un equilibrio fra rappresentanza e governabilità. Per esempio: il combinato disposto fra l’Italicum e il nuovo Senato permette al vincitore di mettere il cappello sul Quirinale. Non va bene, ma basta diminuire i deputati. E magari aumentare i collegi, per consentire all’elettore di conoscere il faccione dell’eletto. Abbassare le soglie di sbarramento, perché l’8% è una montagna. Innalzare il 37% con cui scatta la tombola elettorale: siccome un italiano su 2 marina ormai le urne, quella maggioranza è fin troppo presunta, e dunque presuntuosa. Ecco, la presunzione. È il nemico più temibile, perché nessuno può cucinare le riforme in solitudine. Mentre i 5 Stelle aprono al Pd, mentre Berlusconi offre collaborazione, sarebbe un delitto se il governo vedesse solo il proprio ombelico. Ma dopotutto, basta regalare al cuoco un paio d’occhiali.

7 luglio 2014 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_07/c-cuoco-po-miope-cucina-riforme-96f2545e-059c-11e4-9ae2-2d514cff7f8f.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Luglio 26, 2014, 11:00:41 am »

Il labirinto delle garanzie
Le riforme rischiano di naufragare per una serie di ostacoli, ecco quali

Di MICHELE AINIS

Il Titanic delle riforme rischia d’affondare sbattendo contro un doppio iceberg. L’elezione diretta del Senato, in primo luogo: respinta dal governo, però caldeggiata da Grillo, auspicata da Alfano, bramata da un fronte eterogeneo del dissenso tra le file del Pd e di Forza Italia. E in secondo luogo le preferenze per eleggere i nuovi deputati, negate anch’esse dall’ Italicum, ma agognate anch’esse come il primo amore. Errore: non è su questi ostacoli che può interrompersi la navigazione. Dopotutto, «Batman» Fiorito ottenne 26 mila voti di preferenza. E un Senato non elettivo costituisce la regola in Europa: funziona così in Francia, Germania, Austria, Olanda, Regno Unito, e almeno parzialmente in Belgio e in Spagna.

Dov’è allora lo scoglio? Sott’acqua: c’è, ma non si vede. Come la trama impercettibile di relazioni e di reciproche influenze tra i poteri dello Stato, come il gioco di pesi e contrappesi che garantiscono la tenuta del sistema. Ecco, le garanzie. Il bicameralismo paritario rispondeva a quest’ultima funzione, nel bene e nel male. Se ce ne sbarazziamo, se al contempo iniettiamo vitamine nelle vene del governo, dobbiamo giocoforza individuare altri presidi della legalità costituzionale. Perché vale pur sempre l’antidoto del vecchio Montesquieu contro ogni deriva autoritaria: «Il potere arresti il potere». E quale potere dovrà armarsi d’un fischietto? Non il nuovo Senato: per come si va configurando, diventerà un raccordo fra lo Stato e gli enti decentrati, non un organo di garanzia. Nemmeno un’altra authority, come se le 14 esistenti non fossero abbastanza. Ma è sufficiente rafforzare i garanti già indicati dalla Costituzione, a partire dal capo dello Stato.

Qui però sbuca l’inghippo. Con un Senato di 100 componenti, e senza più il concorso dei delegati regionali, il presidente verrà eletto da un collegio di 730 parlamentari. Ergo, al partito che incassa il premio di maggioranza nell’aula di Montecitorio basteranno 26 senatori per spedire un proprio fiduciario al Quirinale. E il fiduciario nominerà a sua volta 5 persone di fiducia alla Consulta, dispenserà grazie e medaglie ai fedeli del partito, ne eseguirà ogni ordine da uomo fidato. E no, non ci fidiamo. Ma il rimedio è già nero su bianco: l’emendamento Gotor-Casini, che allarga la platea dei grandi elettori ai 73 europarlamentari, votati con il proporzionale. D’altronde, non è forse vero che l’Italia è ormai una cellula dell’Unione Europea? E non è vero che il presidente assorbe varie competenze in questo campo, sia in politica estera che in materia di difesa?

Dopo di che c’è ancora qualche pezza da cucire. Per esempio attribuendogli il potere di rinviare le leggi una seconda volta, con un veto superabile soltanto a maggioranza assoluta. Innalzando il quorum per eleggere il presidente della Camera, in modo da affiancare all’arbitro un guardalinee più autorevole. Permettendo l’accesso delle minoranze parlamentari alla Consulta. Disinnescando i conflitti d’interesse, e quindi sottraendo ai deputati il potere di decidere sulla validità della propria elezione, sulle immunità, sulla paga di Stato. Potenziando gli istituti di democrazia diretta, l’unica pistola che hanno in tasca i cittadini. Rendendo obbligatorio il referendum confermativo su ogni riforma costituzionale, compresa quella in cantiere. Del resto, proposte analoghe possono già leggersi fra i 7.850 emendamenti depositati in Senato, anche se è un po’ come cercare l’ago nel pagliaio. Ma basta dotarsi d’una lente, e avere voglia di guardare.

23 luglio 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_23/labirinto-garanzie-5d237230-1226-11e4-a6a9-5bc06a2e2d1a.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:18:35 pm »

LA FIDUCIA NELLE ISTITUZIONI
Un sentimento impalpabile
Una ricerca dell’istituto tedesco Iw mostra come in Europa la povertà reale sia di gran lunga minore rispetto a quella percepita.

di Michele Ainis

Ti guardi attorno e incontri facce rattristate, umori torvi, occhi disillusi. Il futuro non è più quello d’una volta, diceva Valery; specialmente qui in Italia. Una ricerca dell’istituto tedesco Iw, appena diffusa, mostra come in Europa la povertà reale sia di gran lunga minore rispetto a quella percepita; e gli italiani (al 73%) si percepiscono poverissimi, molto più degli altri popoli europei. Perché sono poveri di speranze, d’ottimismo, di fiducia. Ecco, la fiducia. Quel sentimento volubile e impalpabile come volo di farfalla che nutre l’economia non meno della politica, non meno delle istituzioni. Se pensi che il peggio arriverà domani, non spenderai un centesimo dei tuoi pochi risparmi, neanche gli 80 euro che t’ha messo in tasca il governo; e il crollo dei consumi farà inabissare il sistema produttivo. Se vedi tutto nero, qualsiasi inquilino di Palazzo Chigi indosserà ai tuoi occhi una camicia nera, meglio combatterlo, con le buone o con le cattive.

C’è un farmaco per curare questa malattia? A suo tempo Berlusconi dispensò sorrisi e buoni auspici, raccontò di ristoranti pieni e aerei con i posti in piedi, promise di soffiare in cielo per scacciarne via le nuvole. Renzi rischia di ripeterne l’errore, se alle sue tante promesse non seguiranno presto i fatti. Perché una promessa mancata è un tradimento, e nessun tradimento si dimentica. Vale nelle relazioni amorose: se lo fai una volta, non riavrai mai più quella fiducia vergine e incondizionata che t’accompagnava durante i primi passi della tua vicenda di coppia. E vale, ahimè, nei rapporti con lo Stato. Che ci ha buggerato troppe volte, e ancora ce ne ricordiamo. Nella memoria nazionale campeggia, per esempio, il prelievo del 6 per mille sui depositi bancari deciso nottetempo dal governo Amato, fra il 9 e il 10 luglio 1992. Fruttò 11.500 miliardi di lire, una manna per i nostri conti perennemente in rosso; ma «’l modo ancor m’offende», direbbe il poeta. E l’offesa si traduce in un riflesso di paura ormai diventato atavico, che si gonfia a ogni crisi. Le cassette di sicurezza delle banche sono piene di contanti, lo sanno tutti, e la ragione sta proprio in quel remoto precedente.

Adesso, a quanto pare, tocca alle pensioni. Come se non fossero bastati gli esodati, gente mandata in pensione senza pensione dallo Stato: un’altra truffa, e 3 anni dopo non sappiamo nemmeno quanti siano. Speriamo almeno che l’esecutivo sappia d’una sentenza costituzionale (n. 116 del 2013) che ha già bocciato il prelievo introdotto dal governo Berlusconi, perché colpiva i pensionati, lasciando indenni le altre categorie di cittadini. L’ennesimo colpo alla fiducia collettiva, come le bugie di Stato, come le rapine fiscali, come le leggi ingannevoli che parlano ostrogoto per non farsi capire, neanche dai parlamentari che le votano. Eppure è la fiducia, è l’affidamento nella lealtà delle istituzioni, che dà benzina alle democrazie: non a caso il primo termine conta 485 ricorrenze nelle decisioni della Consulta, il secondo 500. Mentre il diritto civile tutela l’«aspettativa» circa la soddisfazione dei propri legittimi interessi. E in effetti un’aspettativa ce l’avremmo, per ritrovare qualche grammo di fiducia. Ci aspettiamo dal governo - quale che sia il governo - il linguaggio della verità, non le favole che si raccontano ai bambini. E ci aspettiamo che ogni sua decisione sia leale, affinché sia legale.

20 agosto 2014 | 08:00
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_20/sentimento-impalpabile-9815be06-282a-11e4-abf5-0984ba3542bc.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Agosto 31, 2014, 11:56:11 am »

Il governo e la semplificazione
Un naufrago tra i decreti

di Michele Ainis

Dall’evoluzione alla rivoluzione della specie. Neppure Lenin usava così spesso questo termine. Ma in che consiste il finimondo annunciato e rilanciato (19.400 volte, stando alle news di Google) dal nostro rivoluzionario premier? Semplice: rivoluzione fa rima con semplificazione. Applicata di volta in volta alla giustizia (il Tribunale della famiglia), agli appalti (vietando il goldplating), alle ristrutturazioni edilizie (la super Scia), ai beni culturali (meno sovrintendenze), e via semplificando.

Diciamolo: l’idea non è del tutto originale. La prima Commissione per la semplificazione burocratica venne istituita nel febbraio 1918; era presieduta da Giovanni Villa, e da lì a poco le succedettero le Commissioni Schanzer e Cassis. Invece la prima legge di semplificazione fu battezzata da Bonomi nel 1921. Ma negli ultimi anni è diventata una parola d’ordine, anche se per lo più genera disordine. Così, ci è toccato in sorte un ministro per la Semplificazione (Calderoli), a sua volta circondato da una Commissione parlamentare, un Comitato interministeriale e un’Unità governativa con la medesima funzione. Nel 1997 è stata introdotta la legge annuale di semplificazione, peraltro approvata soltanto 4 volte (nel 1999, nel 2000, nel 2003, nel 2005). E intanto un treno d’interventi viaggiava sui binari del decreto: per esempio il semplifica Italia, varato da Monti nel 2012.

Insomma, una rivoluzione di seconda mano. Ma con qualche tratto inedito, come no. Specie nel ginepraio della giustizia, dove l’esecutivo ha brevettato la semplificazione privatizzante (tu paghi l’avvocato difensore, poi paghi l’avvocato arbitro, poi magari paghi tutto il resto, perché perdi la causa). La semplificazione rinviante (sul processo penale, dove ogni partito ragiona per partito preso; e allora meglio una delega che un de profundis, meglio una legge futura che la morte prematura della coalizione di governo). Infine la semplificazione consultante: dei cittadini (a proposito, dove sono finiti i questionari?), dei direttori di giornale (sulle intercettazioni, ma nessuno li ha ancora intercettati), del nuovo Csm (che non c’è, dato che la maggioranza non lo elegge: 3 fumate nere).

Il rischio è d’aggiungervi la semplificazione blaterante, sia pure in tweet di 140 caratteri. Perché il nostro ordinamento è ingarbugliato come tela di ragno, e perché il garbuglio è colpa di norme improvvisate, ma anche di semplificazioni improvvide. La Scia, per dirne una: inventata da una legge nel 2010, poi corretta da altre leggi nel 2011, nel 2012 (due volte), infine adesso; e ogni intervento è stato foriero d’incertezze, rendendo necessario l’intervento successivo. O la normativa sugli appalti: 6 riforme per semplificarla tra il 2008 e il 2012, con Renzi siamo a 7. Da qui una lezione per il premier, ammesso che abbia voglia d’ascoltarla. La semplificazione promessa è sempre una scommessa. E la semplificazione fallita è una complicazione riuscita.

michele.ainis@uniroma3.it
31 agosto 2014 | 08:45
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_31/naufrago-decreti-755f1354-30d5-11e4-9629-425a3e33b602.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:20:45 pm »

CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
La solitudine al potere

Di MICHELE AINIS

La democrazia è un cantiere sempre aperto. Ogni giorno si forma e si trasforma, anche se per lo più non ci facciamo caso. La folla dei muratori nasconde l’opificio, la polvere di calcinacci ci impedisce di vedere. Eppure sta cambiando, qui, adesso. E la cifra della sua metamorfosi si riassume in una parola: solitudine. Dei leader, dei cittadini, delle istituzioni. Ne è prova il confronto tra l’uomo che ha segnato gli ultimi vent’anni e quello che forse dominerà il prossimo ventennio. Berlusconi inventò il partito personale, schiacciato e soggiogato dal suo capo. Ma un partito c’era, con i suoi gonfaloni, con i suoi colonnelli. Invece Renzi è un leader apartitico, senza partito. Ha successo nonostante il Pd, talvolta contro il Pd. Il suo colore è il bianco, come la camicia sfoggiata a Bologna insieme agli altri leader della sinistra europea. E il bianco è un non colore, non esprime alcuna appartenenza.

D’altronde tutti i soggetti associativi sono in crisi, perciò sarebbe folle legarsi mani e piedi alle loro sventure. La fiducia nei partiti vola rasoterra dagli anni Novanta; adesso è sottoterra, al 6,5%. Nelle associazioni degli imprenditori credono ancora 3 italiani su 10, e appena 2 nei sindacati. È in difficoltà pure la Chiesa, ma papa Francesco riscuote il 91% delle simpatie popolari. Come peraltro Renzi, che surclassa la popolarità del suo governo (64%). Perché contano i singoli, non gli organismi collettivi. Contano i sindaci, non i consigli comunali. Conta il governatore, non l’assemblea della Regione: se il primo inciampa, cadono tutti i consiglieri. Mentre il Parlamento nazionale è già caduto, è un fantasma senza linfa: per Eurispes, se ne fida il 16% degli italiani. Invece il presidente della Repubblica, sia pure in calo, rispetto al Parlamento triplica i consensi.

E allora viva le istituzioni monocratiche, abbasso la democrazia rappresentativa. Come sostituirla? Con un tweet , nuova fonte oracolare del diritto. O con una fonte orale: ne ha appena fatto uso il ministro Orlando, annunziando un emendamento al decreto sulla giustizia. Anche se quel testo nessuno lo conosce, anche se Napolitano non l’ha ancora timbrato, anche se la competenza ad emendarlo spetterebbe semmai all’intero Consiglio dei ministri. Ma quest’ultimo è l’ennesimo organismo collegiale caduto ormai in disgrazia, sicché ciascun ministro fa come gli pare. Sempre che sia d’accordo poi il primo ministro, dinanzi al quale tutti gli altri non sono che sottoministri.

E lui, l’uomo solo al comando, come comanda? Berlusconi seguiva l’onda dei sondaggi, a costo di cambiare idea tre volte al giorno, se gli piovevano sul tavolo tre rilevazioni differenti; Renzi non sonda, consulta. Il 15 settembre s’aprirà la grande consultazione sulla scuola, dopo quella sullo sblocca Italia, sulla giustizia, sulla burocrazia, sul Terzo settore. Anche la riforma costituzionale (art. 71) fa spazio a nuove «forme di consultazione».

Nel 1992 fu l’utopia di Ross Perot, outsider alle presidenziali americane: una società atomistica, in cui ciascuno potesse promuovere o bocciare qualunque decisione di governo, schiacciando un tasto sul computer mentre fa colazione. Non è l’utopia di Renzi, anche perché in Italia i consultati non decidono alcunché. Ma la consultazione è diventata lo strumento per stabilire un rapporto verticale con il leader, nel vuoto di rapporti che segue l’eclissi di ogni aggregazione collettiva. Il risultato? Parafrasando Gaber: l’incontro di due solitudini, in un Paese solo.
michele.ainis@uniroma3.it

11 settembre 2014 | 08:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_11/solitudine-potere-8e1abf2e-3972-11e4-99d9-a50cd0173d5f.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Settembre 23, 2014, 05:04:37 pm »

L’anagrafe che divide
Di MICHELE AINIS

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.

E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori - di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo - fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act ), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.
michele.ainis@uniroma3.it

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23 settembre 2014 | 07:37

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_23/anagrafe-che-divide-e4f20c6e-42df-11e4-9734-3f5cd619d2f5.shtml
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