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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 125113 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Marzo 05, 2017, 10:55:00 pm »

Gentiloni, l’operazione-simpatia del premier “rassicurante”
Cambio di passo nell’ intervista con Pippo Baudo: “sdoganato” un profilo anti-ansiogeno, pragmatico, non finalizzato alla “popolarità” a tutti i costi

Pubblicato il 05/03/2017 - Ultima modifica il 05/03/2017 alle ore 19:50
FABIO MARTINI

Dopo tre mesi felpati, Paolo Gentiloni ha cambiato passo. Nel salotto nazionalpopolare di “Domenica in”, intervistato per 47 minuti da Pippo Baudo, il presidente del Consiglio per la prima volta non è stato timido nell’autodefinirsi: «Se dovessi scegliere un aggettivo per il governo, direi: rassicurante». Può sembrare un dettaglio insignificante, anche a fronte degli impegni assunti, come la possibile diminuzione delle tasse sul lavoro. Ma un capo del governo che non è più costretto a nascondere la sua principale caratteristica – la rassicurazione rispetto all’ansia trasmessa dal suo predecessore a palazzo Chigi – significa che Paolo Gentiloni non teme più reazioni temperamentali da parte di Matteo Renzi e soprattutto vede per il proprio governo un orizzonte più lungo rispetto a quello immaginabile fino a qualche settimana fa. E dunque, senza mai venir meno alla lealtà verso Renzi, più volte citato, il presidente del Consiglio ha deciso che oramai non aveva più senso «nascondersi» e ha conferito un’identità al suo governo: fare le cose il meglio possibile, con una “moderazione” che è da considerarsi un pregio, se intesa come «rispetto» e non come attitudine a «non decidere».

E infatti, dal punto di vista dell’operazione-simpatia, il passaggio decisivo della lunga intervista è stato lo scambio di battute che era iniziato con Gentiloni: «Al governo serve un’agenda di riforme, anche per togliere un’idea di provvisorietà…». A questo punto, Baudo lo ha interrotto: «Lei è felpato, felpato, ma cammina forte!». E dallo studio si è alzato un applauso da parte del pubblico, che più tardi Baudo ha enfatizzato, con Gentiloni che ha lasciato cadere. Ben consapevole che l’effetto era stato raggiunto. Con una serie di battute soft, ma salutate da significativi battimani. Sul fatto che lui lavora molto, ma comunque fa «un lavoro bellissimo»; sull’ottimismo non della volontà, ma «di un grande Paese», «invidiato nel mondo»; sulle misure anti-furbetti, «per salvare l’onore» di chi lavora seriamente; sulla necessità di assicurare «la responsabilità di chi decide» anche se la discontinuità più forte, pur nella continuità politica con Renzi, Gentiloni l’ha data sui governi: non devono cercare «la popolarità» a tutti i costi. Ma «risolvere, se possibile, i problemi dei cittadini».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/05/italia/politica/gentiloni-loperazionesimpatia-del-premier-rassicurante-qgg5jJlNHSWx5qh5EO9E8O/pagina.html
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« Risposta #166 inserito:: Marzo 09, 2017, 12:02:05 pm »

La ricetta di Gentiloni per la svolta: giustizia sociale e difesa rafforzata
Il premier: siamo una potenza commerciale, rilanciamo gli scambi

Pubblicato il 07/03/2017
FABIO MARTINI
INVIATO A VERSAILLES

Il crepuscolo di Hollande, il presidente «normale» che non si è ricandidato, produce proprio in extremis un ultimo bagliore in un luogo carico di storia come la reggia di Versailles, gioiello della monarchia al suo apogeo: il Capo dello Stato francese, affiancato da Merkel, Gentiloni e Rajoy, pronuncia un discorso «alto» sul futuro dell’Europa, facendo esplicito riferimento a una via d’uscita per l’impasse che paralizza il Vecchio Continente.

 
LEGGI ANCHE - Da Parigi parte l’Europa a più velocità. Merkel: “Se ci fermiamo, crolla tutto” 
 
Una Unione europea a più velocità, nella quale chi vuole andare avanti con cooperazioni rafforzate, non soltanto possa farlo, ma sia incoraggiato su questa strada. E il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dopo che anche Angela Merkel aveva fatto un discorso analogo, ha pronunciato un intervento nel quale per la prima volta, un capo di governo italiano abbraccia una prospettiva di questo tipo come possibile via per salvare quel che resta dell’Unione. Per Gentiloni serve un’Unione europea «più integrata ma che possa consentire diversi livelli di integrazione. È giusto e normale che i Paesi possano avere ambizioni diverse e che a queste ambizioni ci siano risposte diverse, mantenendo il progetto comune». E ha indicato due strade per il riscatto: saper costruire un’Europa sociale per rispondere alla sfida delle diseguaglianze e al tempo stesso un’Europa della Difesa, più compatta e organizzata davanti alla minaccia del terrorismo islamico. 
 
LEGGI ANCHE - Hollande: “Per non morire l’Europa deve essere a geometrie variabili” 
 
È presto per capire se novità così ambiziose si concretizzeranno, ma i quattro Paesi-guida dell’Unione hanno indicato una strada che è tutta dentro le regole dei trattati e che al tempo stesso richiede una forte volontà politica. Quella che i quattro hanno fatto aleggiare tra le mura della reggia di Versailles. Con un messaggio forte: o ci muoviamo, o crolla tutto. A tre settimane dalle celebrazioni del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957, l’appello arriva dai leader di Italia, Francia, Germania e Spagna, le prime quattro potenze demografiche ed economiche del continente, unite nel dire all’unisono che lo status quo dell’Unione non è più accettabile. 
 
Davvero originale lo scenario nel quale si è consumato un passaggio, che è prematuro definire storico, ma che ha fatto segnare novità nei toni e nelle parole. Il programma prevedeva che i quattro capi di Stato e di governo di Francia, Germania, Italia e Spagna pronunciassero altrettante dichiarazioni poco prima di vedersi a cena, negli splendidi saloni del palazzo di Versailles. Ma come scenario per le dichiarazioni, il protocollo francese aveva scelto un’angusta sala stampa, di rara bruttezza, tra laminati dorati, cavi e cartongessi.
 
A dispetto del contesto Paolo Gentiloni ha pronunciato un breve intervento, sei minuti, col quale si è candidato nel ruolo di «regista» in vista delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, celebrazioni che si svolgeranno il 25 marzo in uno scenario, il Campidoglio, carico di storia persino più di Versailles. 
 
Il presidente del Consiglio, che già da ministro degli Esteri aveva insistito sulla strada delle più velocità, nel suo discorso ha detto: «Abbiamo bisogno di un’Europa sociale, che guardi alla crescita e agli investimenti. Un’Europa in cui chi rimane indietro non consideri l’Ue come una fonte di difficoltà ma come una risposta alle proprie difficoltà. E non siamo ancora a questo livello». E al tempo stesso, ma sullo stesso piano, «servono passi avanti nella difesa comune» per «proteggere la nostra sicurezza» dalla minaccia terrorista. 
 
Unico tra i quattro a parlare a braccio, Gentiloni ha pronunciato una frase che più di altre ha suscitato il muto consenso degli altri con sguardi di approvazione: «L’Europa - ha detto il presidente del Consiglio - è la più grande superpotenza commerciale, e quindi bisogna avere la capacità di promuovere gli scambi in un momento in cui questo sembra passato di moda». E ancora: «Un eccesso di sovranità concepita in modo ostile produce disastri» ed in questa fase «all’Europa si aprono spazi imprevisti e maggiori». E ha chiuso così: «L’Unione riparte dal popolo europeo».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/07/esteri/la-ricetta-di-gentiloni-per-la-svolta-giustizia-sociale-e-difesa-rafforzata-t
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« Risposta #167 inserito:: Marzo 13, 2017, 12:36:40 pm »

Alla corte di Matteo torna una figura antica: l’intellettuale organico, schierato col leader
Grandi applausi della platea del Lingotto per gli interventi schieratissimi di Beppe Vacca, Biagio De Giovanni e Massimo Recalcati

Pubblicato il 12/03/2017
Ultima modifica il 12/03/2017 alle ore 13:04

Fabio Martini
Torino

Il più appassionato di tutti è stato Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, fine storico di cultura togliattiana, che nel passato aveva pronunciato autentici anatemi nei confronti di Matteo Renzi, ma un notevole pathos è stato dispiegato anche dal filosofo napoletano Biagio De Giovanni e dallo psicoanalista Massimo Recalcati. 

Nell’appuntamento del Lingotto - che corrisponde al lancio della campagna congressuale di un singolo esponente del Pd, Matteo Renzi - è tornata a materializzarsi una figura antica nella tradizione politica italiana: l’intellettuale organico. Figura significativa, a partire dagli anni della guerra fredda e che trovò “ospitalità” nel rigidissimo Pci di osservanza sovietica e anche nel Pci più aperto degli anni Settanta-Ottanta, con modalità che diventavano evidenti al grande pubblico con gli appelli a votare il partito in occasione delle elezioni. 

L’originalità di quella stagione non consisteva tanto nella partecipazione alla contesa politica, ma nell’approccio spesso acritico di quegli intellettuali. Una stagione che sembrava tramontata, ma che al Lingotto ha trovato una fiammata di ritorno. Protagonisti tre intellettuali tra loro diversi. Biagio De Giovanni, filosofo napoletano, già europarlamentare del Pci, è l’unico che abbia salutato come salutare l’avvento di Matteo Renzi sin dal 2014. Più tormentato il cammino di Beppe Vacca, storico apprezzato e tradotto anche all’estero e che ha sempre accompagnato la lettura e le successive riletture dei grandi personaggi della storia comunista, in particolare Antonio Gramsci, alla luce dell’attualità politica. 

Già da tempo vicino a Matteo Renzi è invece lo psicoanalista Massimo Recalcati, che nell’ultima Leopolda si rivolse con intimità al leader, «Matteo...», con una interpretazione personale della disciplina psicoanalitica, che nella tradizione italiana dei pionieri (Musatti, Perrotti, Servadio) ha sempre dovuto subire un rapporto molto conflittuale con il potere: dal fascismo alla Chiesa cattolica, dal Pci al mondo accademico.
 
Fassino: “Il Pd disponibile a lavorare con chi condivide le nostre idee”

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/12/italia/politica/alla-corte-di-matteo-torna-una-figura-antica-lintellettuale-organico-schierato-col-leader-UkS0Og6NpQnEfqHMLFViOL/pagina.html
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« Risposta #168 inserito:: Marzo 16, 2017, 12:33:51 pm »

Dall’Olanda alla Francia, dalla Grecia alla Spagna, il carisma perduto della sinistra europea
Nel risultato delle elezioni olandesi c’è un dato che interpella la sinistra europea e la sua crescente difficoltà a interpretare le istanze progressiste e anti-populiste.
Come mai?


Pubblicato il 16/03/2017 - Ultima modifica il 16/03/2017 alle ore 10:35

FABIO MARTINI
Nel risultato delle elezioni olandesi c’è un dato che interpella la sinistra europea e la sua crescente difficoltà ad interpretare le istanze progressiste e anti-populiste. Una delle sorprese del voto olandese si chiama Jesse Klaver: 30 anni, padre di origine marocchina, madre metà olandese e metà indonesiana. Europeista, Klaver quadruplica i voti dei suoi Verdi, che diventano la prima forza progressista in Olanda, grazie allo slogan «Voglio indietro la mia Olanda». Quindi un’Olanda più tollerante, ma anche attenta ai valori sociali, un tempo salvaguardati, lì e altrove, dai socialisti. 

Anche in altri grandi Paesi europei i socialisti arrancano. In Francia quasi certamente non arriveranno al ballottaggio alle Presidenziali in programma a cavallo tra aprile e maggio; in Spagna il vecchio e glorioso Psoe, reduce da ripetuti ridimensionamenti elettorali, è costretto a far da stampella esterna al governo di Mariano Rajoy; in Italia il Pd, che era alle ultime elezioni europee del 2014, il primo partito dell’Unione, si è frantumato; in Grecia, oramai da anni il Pasok dei Papandreu è stato spazzato via dall’effetto-Tsipras; nel Regno Unito la leadership radicale di Jeremy Corbin resiste ma senza prospettive a breve di riscatto; in Austria l’alternativa ai populisti è stata incarnata, non dai socialisti (anche lì eredi di una solida tradizione) ma da un presidente Verde. 
 
L’unico Paese nel quale la tradizione socialdemocratica fa segnare un risveglio è la Germania dove l’apparizione sulla scena di Martin Schulz ha riportato la Spd su livelli competitivi rispetto alla Cdu di Angela Merkel. Un’eccezione spiegata da un mix – la “novità” in Germania della figura di Schulz e il richiamo a valori più tradizionali del partito – che al tempo stesso indica l’importanza di leadership credibili. Da questo punto di vista è eloquente l’abisso di carisma che separa i leader forti del socialismo europeo degli anni Ottanta-Novanta (Brandt, Mitterrand, Gonzalez, Soares, Palme, Craxi, Blair, Papandreu, fino a Gerard Schroeder) e quelli attuali. Ma la vicenda olandese fa capire che l’interclassismo popolare del socialismo tradizionale non basta più e altre forze, almeno per ora, sono più attrezzate nell’intercettare valori immateriali da contrapporre a quelli delle forze populiste.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/16/esteri/dallolanda-alla-francia-dalla-grecia-alla-spagna-il-carisma-perduto-della-sinistra-europea-TT263BeE0EiH7vgfqjIphI/pagina.html
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« Risposta #169 inserito:: Marzo 16, 2017, 05:11:57 pm »

L’allarme di Gentiloni: il vertice di Roma può diventare un flop
Il premier italiano avverte la Commissione: “A giudicare la politica si crea dissenso”

Pubblicato il 11/03/2017 - Ultima modifica il 11/03/2017 alle ore 07:19

Fabio Martini
Inviato a Bruxelles

A Bruxelles, con Paolo Gentiloni, è arrivata un’altra Italia rispetto a quella di Matteo Renzi. Un fatto di stile, e da queste parti, certe cose contano. Due giorni fa, durante la discussione preliminare tra i 28 capi di Stato e di governo, il presidente del Consiglio italiano si è rivolto indirettamente a Jean-Claude Juncker, lamentandosi di quanto la Commissione europea aveva scritto nel suo ultimo report circa i «rischi politici» che correrebbe l’Italia in questo frangente: «Sono questioni che vanno affrontate con una certa sensibilità», ha detto Gentiloni e in ogni caso «le elezioni non sono sinonimo di instabilità, ma di democrazia». Comunque, attenzione, perché certi report di Bruxelles, se non ben calibrati, «hanno un impatto sull’opinione pubblica». Di queste parole, certo garbate ma proprio per questo più penetranti in un consesso come quello europeo, nulla è trapelato, nulla è stato fatto filtrare da Palazzo Chigi, mentre nel passato le sortite di Renzi durante questi summit avevano un impatto esterno in «diretta» e almeno pari al fuoco polemico realmente espresso.

I timori 
Ma il Consiglio europeo si è chiuso con qualche pensiero per il capo del governo italiano in vista delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma del 1957. Un vertice che si può raccontare partendo dall’ultima «istantanea». Nel gran salone del Consiglio, la signora Beata Szydlo, primo ministro della Polonia, si avvicina a Paolo Gentiloni e si congeda con un sorriso: «Ci vediamo a Roma...». 

Certo, i polacchi sono affezionati alla capitale del cattolicesimo e d’altra parte, la Szdylo non ha del tutto tirato giù la saracinesca, nel corso della discussione tra i 27 capi di governo, sul (controverso) Documento col quale, il 25 marzo, l’Italia intende suggellare le celebrazioni per i Trattati di Roma. Una sorpresa l’atteggiamento non ostruzionistico della Szdylo, soprattutto dopo quel che era accaduto nelle 24 ore precedenti e che sembrava potesse compromettere in modo rovinoso il Vertice celebrativo di Roma. 

Un esito infelice che peraltro non si può del tutto escludere dopo quanto accaduto nella prima giornata di questo Consiglio. Nel pomeriggio del 9, si era consumata la brusca rottura tra tutta l’Unione e i polacchi che, da soli, hanno votato contro la rielezione del loro connazionale Donald Tusk come presidente del Consiglio europeo. 

Proprio perché così irritati i polacchi - e con loro gli altri Paesi di Visegrad - saranno un osso durissimo per Paolo Gentiloni. Il presidente del Consiglio, in perfetta continuità con Matteo Renzi, ha deciso di trasformare la celebrazione in un evento diverso dalla consueta passerella che va in scena di queste occasioni. L’ambizione del governo italiano è quella di dare un senso, un’impronta all’evento. 

L’obiettivo 
Un obiettivo che il presidente del Consiglio intende raggiungere attraverso due passaggi: inserire nella Dichiarazione finale alcuni concetti qualificanti, in particolare sulle «due velocità» e al tempo stesso ottenere la firma di tutti e 27 i capi governo in calce al documento e non limitarsi ad una generica adesione da parte dei rappresentanti delle istituzioni europee. Ma il muro dell’Est rischia di inficiare l’ambizione di Roma. E dunque, l’appuntamento del 25 marzo in Campidoglio, quello che un anno fa Matteo Renzi aveva immaginato come un «arco di trionfo» per la propria immagine e per la propria leadership, rischia di trasformarsi nel primo passaggio critico per Paolo Gentiloni, che è arrivato alla vigilia dei suoi primi 100 giorni con un invidiabile score: nessun incidente politico.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/11/italia/politica/lallarme-di-gentiloni-il-vertice-di-roma-pu-diventare-un-flop-JVCFip8Hk5FbMqVYgjJzGK/pagina.html
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« Risposta #170 inserito:: Marzo 16, 2017, 05:38:49 pm »


Il vero obiettivo di Pisapia: federare tutti i progressisti che non stanno con Renzi
Prodi, Bersani e Cuperlo seguono con simpatia il battesimo del Movimento dell’ex sindaco, che si rivolge ai tanti elettori “senza casa”
Pubblicato il 10/03/2017 - Ultima modifica il 10/03/2017 alle ore 14:06

Fabio Martini

Nel Brancaccio, il grande teatro romano che dopo la caduta del fascismo ospitò i primi, memorabili comizi di Alcide De Gasperi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, sabato 11 marzo prende il via un’operazione politica molto più ambiziosa di quanto finora sia apparso: l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia battezza il suo “Campo progressista”, un movimento che intende rivolgersi a quell’elettorato di centro-sinistra che nel passato ha seguito con speranza le vicende dell’Ulivo e del primo Pd, ma che ora si sente senza “casa”. L’obiettivo, non dichiarabile in modo esplicito, è quello di dar vita ad una “fusione” calda tra ambienti e tradizioni culturali che in gran parte si erano ritrovati nel progetto originario del Pd (e anche alla sua sinistra) e che in questa fase faticano a ritrovarsi sia in Matteo Renzi che negli scissionisti di Bersani.

A Pisapia guardano con simpatia, grazie a contatti informali, personaggi diversi ma non distanti tra loro come Romano Prodi, Pierlugi Bersani, Gianni Cuperlo, Susanna Camusso. Con una idea che potrebbe prendere corpo: fare di Pisapia il federatore di tutta l’area progressista che non si riconosce in Matteo Renzi. E infatti alla manifestazione del Brancaccio, Pisapia ha invitato personalità che appartengono ad aree diverse: prodiani (come Sandra Zampa e Franco Monaco), democratici del Pd (come il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti che parlerà), democratici-progressisti, come Roberto Speranza, mentre tra i consiglieri di Pisapia c’è Bruno Tabacci, già assessore della giunta milanese e già presidente della Regione Lombardia quando apparteneva alla sinistra Dc.

Ma la parola d’ordine di Pisapia sarà «autonomia», un bene che l’ex sindaco ritiene prezioso, soprattutto nei confronti dei soggetti più strutturati che si collocano alla sinistra del Pd ma anche dentro al partito di Renzi. Alla manifestazione parlerà soltanto Pisapia, ben consapevole di potersi giocare tre carte: pur non essendo “nuovo”, l’ex sindaco di Milano è l’unico personaggio a sinistra non usurato; è personalmente inattaccabile. Ma soprattutto - e questo è il suo vero asso - il modello Milano si è rivelato l’unico concorrenziale rispetto alla predicazione dei Cinque Stelle, nella città meneghina confinati ad un 10% che li rende politicamente e culturalmente marginali.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/10/italia/politica/il-vero-obiettivo-di-pisapia-federare-tutti-i-progressisti-che-non-stanno-con-renzi-pzPkeskPSKiYjvqqVSWI0O/pagina.html
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« Risposta #171 inserito:: Marzo 23, 2017, 11:03:05 am »


Gentiloni rassicurante al giro di boa dei 100 giorni: “Ora avanti con le riforme”
Tra decisioni impopolari e bisogno di apparire stabile, il premier dovrà sciogliere il nodo del rapporto con Renzi
Nonostante il governo sia un’edizione fotocopia di quello di Matteo Renzi, con Gentiloni ne è cambiato lo stile

Pubblicato il 20/03/2017
Fabio Martini
Roma

È la sua indole. Nei primi tre mesi di leadership di governo, Paolo Gentiloni ha puntualmente spento ogni focolaio di enfasi e ogni tentazione all’auto-elogio. Ma alla vigilia di un evento spartiacque come i primi cento giorni del suo esecutivo, il presidente del Consiglio è disposto a a riconoscere la sua soddisfazione: «Era doveroso in questa fase impegnarsi a rassicurare e a dare stabilità. Ma lo abbiamo fatto senza rallentamenti, abbiamo proseguito l’impegno riformatore, prendendo decisioni cruciali in campi importanti: la tutela del risparmio, l’immigrazione, la sicurezza urbana, la povertà, gli interventi per il terremoto». E davanti alla prospettiva dei prossimi cento giorni, sulla carta assai più complicati dei primi, Paolo «il calmo» (definizione di Romano Prodi), dimostra di crederci: «Avanti tutta con le riforme», dice il presidente del Consiglio, con una prima concessione all’ottimismo della volontà.

Decisionismo soft 
Dopodomani scadono i primi cento giorni di un governo che quando nacque, il 12 dicembre scorso, oltre ad un palese deficit di legittimazione popolare, sembrava dovesse restare sotto tutela. Matteo Renzi ammise di aver «straperso» il referendum, ma - dimettendosi da capo del governo ottenne un esecutivo-fotocopia rispetto al proprio. Eppure, nei suoi primi cento giorni il nuovo governo - senza venir meno alla lealtà verso Renzi - ha assunto una propria fisionomia: disegnata dalle decisioni assunte e dallo stile del suo leader.

Gentiloni non oserebbe mai usare una parola tabù in Italia come decisionismo, che oltretutto evoca una caratteristica attribuita al suo predecessore. Ma è pur vero che nei primi cento giorni il governo ha preso due decisioni che il precedente esecutivo, iper-sensibile al consenso, aveva rimosso: il 23 dicembre il governo - mettendo nel conto le critiche per il «soccorso ai banchieri», vara il decreto salva-risparmio per salvaguardare i correntisti più esposti e le banche a rischio bancarotta. Erano trascorsi appena 9 giorni dalla fiducia in Parlamento e quella decisione fulminea era stata imposta da un imperativo finanziario: non si poteva attendere oltre, dopo i ripetuti rinvii da parte del governo precedente. Il 10 febbraio il Consiglio dei ministri, in questo caso sfidando i detrattori dei Cie, approva le linee guide dei provvedimenti sui migranti voluti dal ministro dell’Interno Marco Minniti. 

Il potere di Renzi 
E alla stessa categoria - il decisionismo soft e senza proclami - appartiene la più recente decisione “contropelo” di Gentiloni: abolire per decreto voucher e codice appalti in modo da evitare i referendum della Cgil. Una linea fortemente consigliata da Renzi («in vista dei ballottaggi alle amministrative non possiamo rompere con le forze alla nostra sinistra»), ma poi è toccato a Gentiloni fare un decreto legge che - come aveva immaginato - gli ha procurato critiche corali da tutte le associazioni imprenditoriali e artigianali. E proprio il rapporto con Matteo Renzi, per il governo è un punto dolente, che chiama in causa altre due parole-chiave dei cento giorni: lealtà con Renzi, ma anche dipendenza dal segretario del Pd. Il quale, coerente con la sua «dottrina», nei contatti riservati con Gentiloni e con Padoan nelle settimane scorse li ha invitati a vendere cara la pelle con Bruxelles, un atteggiamento che ha finito per irritare il ministro dell’Economia, che ha tenuto per sé il proprio malumore. Ma proprio questo fronte - Gentiloni lo sa bene - è quello destinato a creare in futuro le maggior turbolenze, se è vero che si sta ragionando attorno ad una manovra che in autunno potrebbe toccare quota 25 miliardi.

Un premier rassicurante 
Uno scenario pieno di incognite che potrebbe mettere in crisi il sentimento più forte suscitato dal presidente del Consiglio: apparire rassicurante e al tempo stesso rassicurare l’opinione pubblica. Un messaggio evocato in un passaggio chiave nella storia del governo: domenica 5 marzo, il presidente del Consiglio si fa intervistare da Pippo Baudo a Domenica In, il talk show nazionalpopolare. Archiviato lo spettro di elezioni anticipate a giugno, in 47 minuti di intervista, Gentiloni vara la sua «operazione-simpatia», esce dalla dimensione «protetta» dei primi mesi e dimostra di voler affrontare la nuova stagione con un profilo più personale, che lo porta a «sdoganare» la parola chiave: «Se dovessi scegliere un aggettivo per il governo, direi: rassicurante». Evocando quella virtù, indirettamente contrapposta all’ansia trasmessa dal suo predecessore - significa che Paolo Gentiloni non teme più reazioni temperamentali da parte di Matteo Renzi.

I prossimi 200 giorni 
Eppure i prossimi duecento giorni potrebbero rivelarsi più complicati dei primi cento. Il perché lo spiega Giorgio Tonini, presidente della Commissione Bilancio del Senato, una delle «teste pensanti» del mondo renziano: «Questo governo ricorda quello di fine legislatura di Amato nel 2000: guida autorevole, manovra un po’ cedevole, rinvio dei nodi più importanti. In assenza di un chiaro mandato popolare ad inizio legislatura, la vittoria di Renzi alle Europee aveva consentito una simulazione di quel mandato. Ma ora siamo tornati al dualismo partito-governo, il potere si sposta sul partito e, come nella Prima Repubblica, i governi mediano... Gentiloni fa un lavoro egregio, equilibrato, saggio, ma persistendo l’assenza di un chiaro mandato popolare, non sarà semplice gestire la fine della legislatura».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/20/italia/politica/gentiloni-rassicurante-al-giro-di-boa-dei-giorni-ora-avanti-con-le-riforme-kTNGIlzHfOYb3MRy5KNEcO/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170320.
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« Risposta #172 inserito:: Marzo 29, 2017, 08:12:49 am »

Il pressing di Matteo Renzi sul premier. Obiettivo: sconto da dieci miliardi

Dal Def dovrebbe restare fuori il rialzo dell’Iva nel 2018.
Ma la Commissione chiede impegni precisi sulle riforme

Il primo passaggio per il governo Gentiloni è quello del Def (10 aprile).
Il secondo è la correzione di bilancio da 3,4 miliardi (in realtà un miliardo sarà scomputato per il terremoto), da “calare” dopo Pasqua

Pubblicato il 28/03/2017 - Ultima modifica il 28/03/2017 alle ore 08:02

ALESSANDRO BARBERA, FABIO MARTINI

Oramai ci siamo. Le prime, vere Forche Caudine del governo Gentiloni si stanno avvicinando: mancano due settimane alla presentazione in Parlamento del Documento di economia e finanza, che prefigurerà la mega-manovra autunnale per il 2018, e il presidente del Consiglio ha cominciato a calare le sue carte. E lo ha fatto, tenendo conto del pressing di colui che quasi certamente sarà confermato segretario del Pd: Matteo Renzi e che in vista delle elezioni del 2018 non vuole mettere la “faccia” su misure impopolari. Parlando ai presidenti delle Regioni, Paolo Gentiloni ha detto: «Ci sono norme e vincoli europei che non dobbiamo dare per intoccabili, c’è un margine di negoziato. Certamente da qui all’autunno la discussione con Bruxelles sarà aperta e potrà produrre risultati, sapendo che da un lato dobbiamo mantenere gli equilibri, dall’altro dobbiamo ottenere una cornice europea più realistica». 

Lessico gentiloniano, ma sostanza “renziana”: cara Bruxelles ci prepariamo ad un lungo e duro negoziato per strappare nuova e necessaria flessibilità. A Bruxelles la discussione è aperta, e non da oggi, ma il governo italiano - questa ò l’inconfessabile scommessa - immagina che un vero scongelamento della “dottrina” dell’austerity sia destinato a concretizzarsi nel caso in cui le elezioni in Francia e Germania dovessero confermare la leadership delle forze europeiste. A quel punto - concordano in via informale Gentiloni, Padoan e Renzi - sono destinati ad aprirsi margini, di entità al momento imponderabile, ma tali da consentire una manovra che non strozzi in culla i primi sintomi di ripresina italiana.
 
Ecco perché Gentiloni proietta il “redde rationem” all’autunno, ben sapendo però che prima di allora si preparano passaggi molto delicati. Arrivare all’autunno - confidano a palazzo Chigi - non sarà una passeggiata di salute. Ma invece una “via crucis” in tre stazioni di passione. Il primo passaggio è quello del Def (10 aprile). Il secondo è la correzione di bilancio da 3,4 miliardi (in realtà un miliardo sarà scomputato per il terremoto), da “calare” dopo Pasqua e il terzo è la preparazione della manovra per il 2018, la cui entità è ancora tutta da determinare. Passaggi sui quali Matteo Renzi, dopo i primi congressi di Circolo del Pd, sentendosi di nuovo l’azionista di maggioranza del governo, ha chiesto una correzione di bilancio senza aumenti di imposte dirette o indirette, anche perché - ha avvisato l’ex premier - la “manovrina” dovrà essere presentata in Parlamento attorno al 20 aprile e una decina di giorni prima delle Primarie del Pd è “vietato” rendere malmostosi gli elettori. Ma prima ancora della “manovrina” arriverà il Def, sul quale Renzi ha chiesto garanzie precise: si può arrivare a fine legislatura - ha spiegato - «se eviteremo di parlarci addosso» e «sarebbe un errore politico aumentare l’Iva». 
 
Ecco perché, dopo il pressing renziano, nel Def dovrebbe restare fuori il rialzo dell’Iva nel 2018 e invece compreso un quasi obbligo di fatturazione elettronica, misura destinata a rendere plastica - e subito esigibile - l’azione anti-evasione del governo. E soprattutto dovrebbe essere previsto un deficit nominale all’1,8%, dunque più alto rispetto all’1,2% già promesso a Bruxelles con le tabelle dello scorso anno, ma comunque di nuovo in calo rispetto all’attuale 2,2%. Un marchingegno capace di recuperare circa 10 miliardi di flessibilità che però la Commissione concederà solo in cambio di impegni precisi sulle riforme: il via libera alla legge sulla Concorrenza, nuove privatizzazioni, maggiore impegno sul fronte produttività. Se si evitasse in autunno una legge di Bilancio troppo pesante, potrebbe sfumare la tentazione di elezioni anticipate in giugno o in settembre: in pubblico Renzi continua a traguardare la legislatura alla scadenza naturale e in privato confida che «sarà molto difficile andare ad elezioni anticipate», soprattutto per la volontà del Capo dello Stato, contrario a pericolosi “vuoti d’aria”. L’unica incognita che Renzi contempla non riguarda il Pd: «Certo, davanti ad un serio incidente parlamentare provocato da altri...».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/28/italia/politica/il-pressing-di-matteo-renzi-sul-premier-obiettivo-sconto-da-dieci-miliardi-BVusUwWAJKnmHF1wMM8XtM/pagina.html
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« Risposta #173 inserito:: Aprile 05, 2017, 05:05:17 pm »

Un politologo anticonformista che fustigava la politica

Pubblicato il 04/04/2017 - Ultima modifica il 04/04/2017 alle ore 19:08

FABIO MARTINI

Giovanni Sartori aveva fondato la scienza politica in Italia a metà degli anni Cinquanta, ma soprattutto l’aveva indirizzata su un binario molto poco italiano: quello della ricerca empirica e non ideologica, dunque mantenendo la politologia su un terreno sempre distinto e distante da quello della politica. Un tratto originale per la politologia italiana che, a parte alcune recenti eccezioni, ha sempre mantenuto tratti di indipendenza dalla politica. 

Uomo fuori dagli schemi 
Fiorentino, sanguigno, uomo fuori dagli schemi, da tutti gli schemi, Sartori aveva contribuito a questa connotazione «autonomistica» sia nella stagione iniziale, quando a Firenze riuscì a far istituire la prima cattedra di Scienza politica in forte polemica con l’establishment accademico di scuola idealistico-crociana, sia nella stagione più divulgativa, quando pubblicò per diversi anni editoriali per Il Corriere della Sera, commenti mai prevedibili, mai schematizzabili. Sue tante definizioni fulminanti, che hanno fatto scuola, come il Mattarellum, ma anche alcuni ritratti di personalità della politica italiana. 
 
Quel ritratto di Renzi 
Profetico, in particolare, il suo ritratto di Matteo Renzi. Proprio nei giorni nei quali, all’inizio del 2014, il segretario del Pd era diventato presidente del Consiglio, Sartori pennellò un ritratto che si sarebbe rivelato anticipatore. Disse allora: «Renzi vende velocità che non può rispettare. Sono cose che incantano il pubblico: un mese faccio questo, un mese faccio quello. Fa ridere, io ho molti dubbi. L’uomo è molto contento di se stesso e questo gli dà forza, ma si sgonfierà rapidamente nel fare. Mi dispiace, perché abbiamo bisogno di uno bravo». E ancora: «Il giovane è un peso piuma. Parla molto e parla bene, è svelto, è sveglio, è intelligente. Si muove con velocità, ma dietro manca quello che i latini chiamavano gravitas».
 
Gli allievi 
Importante il contributo di Sartori, raccolto da tanti suoi allievi - a cominciare dai più significativi come Gianfranco Pasquino e Domenico Fisichella - della scienza politica intesa, non solo come scienza empirica che produce conoscenza ma anche come scienza che si può applicare alla realtà politica.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/04/italia/politica/un-politologo-anticonformista-che-fustigava-la-politica-F6cx6vNugvZYzZ5Kl4o69J/pagina.html
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« Risposta #174 inserito:: Aprile 11, 2017, 06:28:26 pm »

Dai sondaggi sui Comuni l’incubo dei grillini: stare fuori dai ballottaggi
Nelle città un bipolarismo centrosinistra-centrodestra
I sondaggi via via commissionati localmente a istituti come Ipsos ed Euromedia, restituiscono un quadro nazionale diverso dalle aspettative

Pubblicato il 10/04/2017 - Ultima modifica il 10/04/2017 alle ore 07:55

FABIO MARTINI
ROMA

Mancano 30 giorni alla presentazione dei candidati-sindaco per le Comunali dell’11 giugno, ma i sondaggi commissionati localmente a istituti come Ipsos ed Euromedia, restituiscono un quadro nazionale diverso dalle aspettative: il Pd soffre in diverse città - e si sapeva - ma il Movimento Cinque Stelle per ora resta al palo in tutto il Nord e al Centro.
 
Mentre il centrodestra sembra poter andare ai ballottaggi quasi ovunque. Certo le elezioni locali (almeno fino a Roma e Torino) sono quelle nelle quali i Cinque Stelle si sono sempre mossi con maggiore difficoltà. Ma se davvero i seguaci di Grillo entrassero in pochi ballottaggi - frenando la loro irresistibile ascesa - a quel punto la «rinascita» di un dualismo tra centro-sinistra e centro-destra potrebbe avere certo un «effetto». Un effetto politico? O almeno psicologico? 
 
LEGGI ANCHE - I 5 stelle e il partito dei giudici 
 
Di certo, quello di giugno è un test, come sempre accade in Italia, interessante perché coinvolge città spalmate su tutto il territorio nazionale. Otto sono sopra i centomila abitanti (Genova, Monza, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Taranto e Verona), due sono capoluoghi di regione (L’Aquila e Catanzaro), ci sono città politicamente interessanti come la Parma dell’ex pentastellato Federico Pinzarotti, la Piacenza di Pierluigi Bersani, la Taranto dell’Ilva; città toscane come Lucca, Pistoia e Carrara; oltre a città come Alessandria, Asti, Cuneo, La Spezia, Lecce, Trapani. 
 
È curioso: in vista di un test così sfaccettato convergono le analisi-previsioni di due personaggi che seguono la vicenda da ottiche molto diverse. Dice Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e responsabile enti locali del Pd: «Diciamo la verità. Dopo il 4 dicembre si poteva temere una frantumazione in vista delle amministrative e invece, senza andare sui giornali per le polemiche locali, riusciremo a presentare il centro-sinistra unito quasi ovunque e pensiamo di potercela giocare. La sorpresa potrebbe essere che quasi dappertutto la sfida si preannuncia tra centro-sinistra e centro-destra». Dice Pippo Civati, leader di «Possibile» e battitore libero della sinistra: «Si va verso queste amministrative senza alcuna sperimentazione, senza nessuna scommessa ambiziosa, con Articolo 1 alleato quasi ovunque del Pd al primo turno, in un contesto che potrebbe finire per riproporre un bipolarismo centro-sinistra e centro-destra».
 
Riflessioni a freddo che, nel prevedere uno stallo (locale) dei Cinque Stelle, coincidono con i tanti sondaggi realizzati a livello locale. Ad esempio in due importanti città venete come Padova e Verona: in entrambe i sondaggisti quotano i Cinque Stelle sotto il 20 per cento. Dice Paolo Giaretta, che è stato uno dei sindaci più longevi nella storia di Padova: «Qui, ma anche a Verona, i Cinque Stelle non sfondano. Da una parte la Lega ha coperto quell’area del dissenso populistico di “destra”, quello di “sinistra” non è mai stato forte e il tessuto politico e sociale è meno deteriorato che altrove».
 
Il test politicamente più importante è Genova. La città di Beppe Grillo; la città nella quale il centrodestra (in occasione delle Regionali) ha ritrovato un’insperata unità sull’asse Salvini-Toti; la città medaglia d’oro della Resistenza dove la sinistra (comunista, socialista e «piddina») ha lasciato sempre poco spazio agli altri. Il Pd dopo faticosa trattativa ha scelto un indipendente (spostato a sinistra), l’assessore Gianni Crivello, che dovrà vedersela con il candidato del centro-destra, un manager agguerrito come Marco Bucci che ha rimesso in sesto Liguria Digitale. I Cinque Stelle quanto saranno competitivi dopo la guerra al loro interno? E nella Parma del «ribelle» Pizzarotti? «Il sindaco - riconosce Albertina Soliani, già sottosegretaria nel governo Prodi - si presenta con un discreto consuntivo e il centrosinistra con un candidato che si muove con equilibrio. Un clima di confronto positivo. I Cinque Stelle? Non si sa ancora se si presenteranno...». E se i sondaggi suggeriscono l’M5S in corsa a Carrara, secondo Rocco Palese, già sfidante di Vendola alle Regionali pugliesi, «anche a Taranto, città segnata dalla vicenda-Ilva, è certo che andranno al secondo turno, mentre a Lecce sarà di nuovo scontro tra il Pd e il centrodestra, che qui può vincere al primo turno». E il Pd, oltre a rischiare a Genova, Piacenza e Monza? Renzi - dopo aver già perso nella sua Toscana Livorno, Arezzo, Grosseto, Sesto Fiorentino, Orbetello, Montevarchi - ha rinunciato a candidati renziani a Lucca, Pistoia e Carrara: pur di spuntarla si contenterà di tre personalità molto lontani dal giro renziano.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/10/italia/politica/dai-sondaggi-sui-comuni-lincubo-dei-grillini-stare-fuori-dai-ballottaggi-DfkI7o5fjHZhUbP586CEYK/pagina.html
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« Risposta #175 inserito:: Aprile 21, 2017, 11:41:51 pm »

Aereo di Stato, svelato il mistero: l’Airbus “nascosto” da Renzi è un jet senza effetti speciali
Racconto dall'interno dell’A340, diretto a Washington e a lungo congelato dall’ex premier per paura delle polemiche anti-casta.
Gentiloni lo ha sdoganato, ponendo fine ad una vicenda paradossale: dotazioni da volo di linea, senza accessori o allestimenti particolari

Pubblicato il 19/04/2017 - Ultima modifica il 19/04/2017 alle ore 14:59

FABIO MARTINI
IN VOLO VERSO WASHINGTON
Alla fine si potrebbe dire: tanto rumore per nulla. A mezzogiorno del 19 aprile 2017, le porte del chiacchieratissimo aereo di Stato si sono aperte ai giornalisti al seguito del presidente del Consiglio in viaggio verso Washington ed ecco la sorpresa: l’Airbus 340 della Etihad è un normale volo di linea, con le poltrone in tessuto, il corridoio né piccolo né grande, i consueti teleschermi della classe turistica mentre per le “autorità” non è previsto né letto né doccia, come nel vecchio A319. 
 
Per la prima volta i giornalisti che seguono palazzo Chigi hanno avuto accesso al nuovo aereo, nell’estate 2015 annunciato da Matteo Renzi e successivamente “nascosto” in un hangar per timore delle polemiche anti-casta. Ma alla prova dei fatti il chiacchieratissimo super-jet non ha nulla di speciale: è un A340, della stessa categoria degli aerei di Stato utilizzati dai principali capi di governo europei. 
 
Nessun effetto speciale o allestimento “personalizzato” 
La storia del jet è a suo modo esemplare. Dimostra quanto importante per Matteo Renzi sia stata (e su altre questioni ancora sia) la sfida-concorrenza con i Cinque Stelle per la conquista di un’opinione pubblica sensibile agli “sprechi” o presunti tali. Al punto che, anziché rivendicare la legittimità della scelta di un jet simile a quello di altri Stati, fino all’arrivo di Gentiloni, si è preferito congelare per più di un anno l’aereo in un hangar. Tutto era iniziato nel luglio del 2015, quando Renzi aveva annunciato ai giornalisti: «Ad ottobre andremo in Sudamerica con un aereo più grande, l’abbiamo già ordinato…». Sensibile agli status symbol, Renzi aveva fatto l’annuncio con un filo d’orgoglio, anche perché il nuovo jet andava a sostituire il vecchio A319 (in servizio dal 1999, governo D’Alema) che sulle tratte più lunghe costringeva a fastidiose pause per rifornimento. Nel giro di qualche settimana si scoprì che l’aereo scelto da palazzo Chigi era l’A340, un grande jet preso in leasing da Etihad. Una capienza di più di 300 passeggeri, una larghezza di 60 metri, con prestazioni al livello degli aerei a disposizione dei principali capi di governo del G20.
 
La paura della Casta 
Ma in tempi di grande sensibilità per tutto quello che riguarda Casta e spese facili, l’annuncio del premier aveva alimentato retroscena giornalistici e politici, alcuni dei quali dal sapore scandalistico, sulla grandeur di Renzi: tanto era bastato per congelare l’uso del mega-jet. Certo, al blocco avevano contribuito anche problemi legati all’equipaggio e al contratto di leasing, sta di fatto che da allora Renzi ha continuato ad usare il vecchio aereo. Nulla era bastato a far cambiare idea al presidente del Consiglio, neppure un incidente (del quale nulla si è saputo) nel quale era incorso l’anziano A319, al quale si era rotto in volo un finestrino della cabina di pilotaggio. Le ragioni del ricovero forzato in un capannone per la verità non hanno mai avuto una spiegazione ufficiale, ma il risultato di tanta “timidezza” è stata una prolungata immobilizzazione del super-jet con molteplici inconvenienti funzionali ed finanziari, a cominciare dal fatto che nel frattempo il contratto con Etihad continuava a correre. All’inizio del suo mandato, Gentiloni ha deciso di sbloccare l’aereo sfruttandone a pieno gli standard tecnologici e di sicurezza. A quel punto anche il Capo dello Stato ha iniziato ad utilizzarlo, con giornalisti al seguito. Ora è caduto l’ultimo tabù: anche i giornalisti che seguono il presidente del Consiglio sono stati ammessi a bordo. Previo pagamento. Secondo il regolamento a suo tempo voluto dal governo Prodi.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/19/italia/politica/aereo-di-stato-svelato-il-mistero-lairbus-voluto-da-renzi-un-jet-senza-effetti-speciali-zVMWjEaRlCVqPFnFj4qf5M/pagina.html
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« Risposta #176 inserito:: Aprile 29, 2017, 12:43:33 pm »

La svolta di Pisapia: se Matteo rifiuta l’alleanza noi saremo concorrenziali al Pd
L’ex sindaco: “No al modello Melenchon, la nostra sarà una sinistra ragionevole”


Pubblicato il 29/04/2017 - Ultima modifica il 29/04/2017 alle ore 07:31

FABIO MARTINI
ROMA

Giuliano Pisapia è un uomo mite, lento e meditativo davanti alle decisioni più importanti della sua vita. Capitò quando si candidò sindaco di Milano, ma anche quando decise di non ricandidarsi. Lunghi ed interiori «stop and go», ma poi una volta deciso, non è più tornato indietro. È capitato anche in questi giorni, quando è stato chiamato a prendere una decisione che potrebbe cambiare la storia della sinistra italiana. Il ragionamento che Pisapia ha fatto in una riunione con i tanti segmenti che si muovono a sinistra e che lui stesso ripete in queste ore è questo: se Matteo Renzi continuerà a rifiutare la proposta di costruire una coalizione e di stringere un’alleanza con le altre forze di centrosinistra, a quel punto sarà inevitabile che nasca un nuovo soggetto, destinato a fare «concorrenza» al Pd. In altre parole, potrebbe prendere forma il partito della «sinistra ragionevole», come Pisapia chiama l’area politica e sociale alla quale pensa.

 
Una grossa novità nella «postura» politica dell’ex sindaco. A Pisapia non interessa fare l’indipendente eletto nelle liste del Pd, come gli propone Renzi. Ma non gli interessa neppure - e questa è una novità - fare il Melenchon italiano e cioè il portavoce di un’area grintosa e minoritaria. Il suo progetto è più ambizioso ed è quello di creare una forza di centrosinistra, che al suo interno sia capace di integrare le personalità riformatrici della stagione del primo Ulivo (Romano Prodi e Pier Luigi Bersani e quella parte del mondo comunista che allora collaborò), l’associazionismo progressista, cattolici e laici, «voci civiche, moderate, ambientaliste», quella parte del Pd destinata ad entrare in sofferenza dopo che Renzi avrà guadagnato la leadership per altri quattro anni.
 
Si va verso un «altro» Pd? Pisapia non lo chiamerà mai così ma, al di là delle etichette, il progetto potrebbe risultare insidioso per Renzi. In principio l’idea di Pisapia era quella di coagulare l’area critica alla sinistra del Pd ma con cultura di governo. Sembrava che dopo la scissione di «Articolo 1», lo spazio politico del suo «Campo progressista» si fosse prosciugato. 
 
E invece una riuscita manifestazione al teatro Brancaccio di Roma l’11 marzo e un’abile tessitura con tutta l’area di sinistra ha rimesso in corsa Pisapia. Pierluigi Bersani, capofila degli scissionisti, ha fatto sapere all’ex sindaco che - se davvero deciderà di scendere in campo con un progetto condiviso - da parte sua è pronto a riconoscerne la leadership. Romano Prodi segue con simpatia le mosse di Pisapia e il Professore ha parlato del dopo-Primarie con Andrea Orlando, dopo averlo invitato a pranzo nella sua casa bolognese. Susanna Camusso è una vecchia amica di Pisapia. 
 
La sfida con Renzi nelle prossime settimane sarà tutta sulla legge elettorale. Per l’ex sindaco serve una legge che «dia un premio non alla lista ma alla coalizione, che consentirebbe in campo un’alleanza larga di centrosinistra». Renzi per ora resiste, ma se dovesse accedere a questa impostazione, a quel punto - ragiona a voce alta l’ex sindaco -«sarebbero coerenti Primarie di tutto il centrosinistra». Con una sfida ineluttabile: Renzi-Pisapia. Ma il (quasi) segretario del Pd non vuole il premio alla coalizione forse perché ha paura di perdere le Primarie di centrosinistra? Per ora si tratta di processi alle intenzioni e infatti Pisapia non si lancia su questo terreno.
 
Certo, il suo progetto è ancora pieno di incognite. I possibili grandi sponsor non mancano ma sono ancora alla finestra, da Romano Prodi fino a Pietro Grasso. Sul piano pratico l’ex sindaco può contare su personaggi di grande affidabilità come Bruno Tabacci, già presidente della Regione Lombardia e «archetipo» degli interlocutori moderati e competenti ai quali Pisapia pensa. Ma la strada da fare è ancora tanta. Renzi ha intuito che il progetto va delegittimato sul nascere e l’altro giorno ha detto che è impossibile allearsi con chi, come D’Alema, ha promosso una scissione. Raccontano che Pisapia abbia sorriso, ricordando che la scissione di Rifondazione non impedì a Bertinotti e Cossutta di far nascere il primo governo progressista della storia repubblicana. E a Prodi di accettarne e contrattarne i voti.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/29/italia/politica/la-svolta-di-pisapia-se-matteo-rifiuta-lalleanza-noi-saremo-concorrenziali-al-pd-J3ZJKRe9vvIGagGbpIDHoN/pagina.html
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« Risposta #177 inserito:: Maggio 01, 2017, 05:32:34 pm »

E ora Gentiloni chiede una decisione chiara sulla legislatura
Le preoccupazioni di Padoan sulla “tenuta” del sistema
Pubblicato il 01/05/2017 - Ultima modifica il 01/05/2017 alle ore 07:22

FABIO MARTINI
ROMA

Quando Matteo Renzi era presidente del Consiglio e si ritrovava a dover commentare a caldo vicende sulle quali preferiva glissare, per due volte preferì partire in missione all’estero. Difficile interpretare se anche questo intento ci sia nella trasferta in Kuwait di Paolo Gentiloni, partito ieri sera per una visita all’emiro Sabah al-Ahmad e al principe ereditario Nawaf Al-Ahmad. Ieri sera il premier si è complimentato pubblicamente con Renzi per la vittoria («Una bella giornata») ma prima di partire, il presidente del Consiglio ha depositato un messaggio ai naviganti, passato sotto silenzio, eppur significativo. 

Venerdì sera, intervenendo alla manifestazione di chiusura del Comitato Renzi, le parole di Paolo Gentiloni sono state queste: «Dobbiamo proseguire nel cammino delle riforme avviate e non perdere l’occasione di una ripresa che c’è. Sarebbe irresponsabile da parte nostra disperdere queste potenzialità, questo lavoro che è stato fatto». Gentiloni è un professionista del lessico politico e l’aggettivo da lui usato (irresponsabile) va inteso come un caldo invito - rivolto a tutti - ad assumere un atteggiamento responsabile. Ai partiti, ai ministri di punta del suo governo, anche a due ministri col quale intrattiene un rapporto di forte stima personale, Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda. Ma in qualche modo è un messaggio diretto anche a Matteo Renzi. Perché dopo le Primarie, a palazzo Chigi si attendono una parola chiara e definitiva - quale che sia - sulle due questioni essenziali per il futuro politico del Paese: la legislatura si chiude in anticipo o a scadenza naturale? E se si va avanti, quale legge di Stabilità nel prossimo autunno?
 
Certo, il presidente del Consiglio ha sempre riconosciuto al Pd e a Renzi non soltanto il ruolo di azionista di maggioranza, ma anche il diritto di tracciare le scelte fondamentali della legislatura. Paolo Gentiloni, anche di recente, ha ribadito a tu per tu con Renzi che per nessuna ragione cambierà atteggiamento. E il presidente del Consiglio sa pure, proprio perchè parla spesso con Renzi, che il leader del Pd non ha ancora deciso cosa sia meglio fare. Conosce le ragioni di Renzi e sa che a lui non dispiace la “finestra” del 27 settembre, lo stesso giorno delle elezioni in Germania. Ma una decisione non è presa. E per prenderla Renzi dovrà convincere i “notabili” del Pd - Dario Franceschini, Graziano Delrio in primis - ma anche le principali forze di opposizione. 
 
Ma a questo punto, a palazzo Chigi sperano che nel giro di qualche settimana si decidano le sorti della legge elettorale e della legislatura. Perché Paolo Gentiloni - ma pure al Quirinale - conoscono le preoccupazioni sulla “tenuta” del sistema economico-finanziario in particolare da parte di Pier Carlo Padoan. In tre anni e mezzo il ministro dell’Economia non hai lasciato affiorare in pubblico dissensi o incertezze, interpretando il proprio ruolo con una riservatezza e uno spirito di squadra che un tempo era proprio dei professionisti della politica. 
 
Nelle ultime settimane Padoan continua a coltivare, nel più assoluto riserbo, preoccupazioni per la manovra d’autunno. E al tempo stesso osserva con qualche perplessità le punture di spillo che gli dedica Matteo Renzi. L’altro giorno il leader in pectore del Pd, aveva detto a “Porta a Porta”: «Ho sempre nutrito una stima profonda per Pier Carlo Padoan. Ma i manuali di economia ignorano quello che è l’Italia di oggi». Come dire: il ministro è un teorico, ogni tanto privo di senso pratico e politico. Una “carezza” che Padoan ha puntualmente lasciato cadere, convinto, come sempre, che quel che conta è il dialogo a tu per tu. 
 
Con Gentiloni e con Renzi, al quale il ministro riconosce il ruolo di decisore primo della maggioranza. Su due cose Gentiloni e Padoan sono d’accordo: le decisioni strategiche le prende il Pd, ora con un leader rilegittimato, ma al tempo stesso sarebbe un errore interrompere il cammino dei due ultimi governi. Il presidente del Consiglio, l’altro giorno, è stato molto esplicito, più del solito: «Vorremmo tutti una crescita più forte. E tuttavia finalmente il Paese è tornato a crescere, la disoccupazione è tornata a calare e abbiamo una spinta nei consumi e in generale nel sentimento delle famiglie e delle imprese. I dati di oggi confermano questo percorso positivo». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/01/italia/cronache/e-ora-gentiloni-chiede-una-decisione-chiara-sulla-legislatura-TXZzwpbVsVAbRSTqmd39jL/pagina.html
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« Risposta #178 inserito:: Maggio 24, 2017, 11:39:09 am »


Ecco come cambierà l’agenda del G7 di Taormina dopo Manchester
Il summit in programma il 26 e 27 maggio non verterà soltanto sul tema migranti come era previsto ma si concentrerà inevitabilmente sul terrorismo

Pubblicato il 23/05/2017 - Ultima modifica il 23/05/2017 alle ore 12:10

Fabio Martini

L’ agenda di un G7 non ha la rigidità di un’Assemblea delle Nazioni Unite o di un Consiglio europeo e anche per questo motivo, in queste ore, la presidenza italiana sta contattando gli altri sei Paesi che parteciperanno al summit di Taormina, il 26 e il 27 maggio, per valutare in che termini la questione del terrorismo vada trattata ed enfatizzata, alla luce dell’attentato di Manchester.

In attesa che il «giro d’orizzonte» sia completato una cosa è già acclarata: l’agenda del G7 cambierà. Naturalmente non saranno oscurati gli altri temi all’ordine del giorno, a cominciare dalla questione migranti, ma l’agenda cambierà. 

Cambierà la discussione tra i leader. E cambierà la dichiarazione finale. Obiettivo: trasmettere un messaggio forte e univoco da parte dei leader dei Sette Grandi dell’Occidente. 

Ovviamente cambierà anche l’atteggiamento dei leader e i messaggi alle rispettive opinione pubbliche: a Taormina saranno presenti i capi di Stato o di governo di Paesi che, in modo diverso, hanno subito attacchi durissimi da parte del terrorismo jhaidista. 
Su sette Paesi presenti, cinque hanno dovuto sopportare attentati molto gravi. Saranno infatti presenti, oltre al presidente del Consiglio italiano e al capo del governo giapponese, la premier inglese Teresa May, il presidente americano Donald Trump, il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera Angela Merkel, il primo ministro canadese Justin Trudeau. Cinque Paesi che, anche in tempi recenti, hanno subito attacchi molto pesanti e i cui leader porteranno contributi significativi nella messa a punto di una strategia capace di contenere azioni come quella di Manchester.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/23/esteri/ecco-come-cambier-lagenda-del-g-di-taormina-dopo-manchester-bHtTxiCRp0wcTmlQhvMXNI/pagina.html
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« Risposta #179 inserito:: Maggio 29, 2017, 09:03:14 pm »


Gentiloni torna indebolito e senza truppe da muovere
Inizia il conto alla rovescia
Lealtà a Renzi: “In Consiglio dei ministri non si fa politica”

Pubblicato il 28/05/2017 - Ultima modifica il 28/05/2017 alle ore 07:11

Fabio Martini
INVIATO A TAORMINA

Sull'aereo di Stato che dai «fasti» di Taormina lo fa planare a 700 chilometri all'ora verso gli «intrighi» di Roma, Paolo Gentiloni di tante cose chiacchiera con la moglie Manù, col capo staff Antonio Funiciello e col portavoce Filippo Sensi, tranne che della più grande novità che è apparsa sulla politica nazionale nelle ultime ore: il virtuale conto alla rovescia che si è ormai aperto sulla durata del suo governo.

Reduce da un G7 importante, «che ha fatto segnare differenze, ma dopo discussioni vere», in privato Gentiloni preferisce non parlare di quel che lo attende a partire da lunedì e si limita a sorridere, quando qualcuno - scherzando e parafrasando una celebre lamentazione del cardinale Pappalardo - butta lì una battuta: «Dum Taorminae consulitur, Roma expugnatur!» (Mentre a Taormina si discute, Roma viene espugnata. Sorride ma non entra nel vortice delle elucubrazioni o delle recriminazioni. E così sarà nelle prossime settimane.

La spirale senza ritorno 
Ma nelle ore precedenti, nelle pause di un G7 molto denso, Paolo Gentiloni ha capito e preso atto della doppia novità che si è consumata nelle ultime ore: prima c’è stato il patto Letta-Lotti sulla riforma elettorale alla tedesca e sullo scioglimento anticipato delle Camere, una massa critica importante ma non ancora decisiva. 

E qui si incastra la seconda novità: l’iscrizione dei Cinque Stelle al «partito» del tedesco-elezioni subito, una novità doppia che - se dovesse consolidarsi nel giro delle prossime ore - somiglia ad una spirale senza ritorno: la svolta che potrebbe portare allo scioglimento anticipato delle Camere. Con voto in autunno. Come vuole Renzi da diversi mesi e come sembrano volere, ecco la novità da scacco matto, anche Berlusconi e Grillo.

Lo scenario 
Uno scenario che Paolo Gentiloni ha già deciso come affrontare: se la maggioranza delle forze parlamentari approveranno una riforma elettorale e subito dopo decideranno che la legislatura può essere sciolta anticipatamente, il presidente del Consiglio non resisterà, ma non farà obiezioni. 

La frase topica 
Ai suoi, per fare capire come la pensa, ripete una frase: «In Consiglio dei ministri, non si fa politica». Come dire: le decisioni politiche strategiche le decide chi ha il «potere» politico. E anche stavolta Gentiloni si uniformerà al suo imperativo categorico: l’azionista di maggioranza è il Pd, il leader del Pd è Matteo Renzi e dunque è presto fatto.

Bandiera bianca? 
Certo, non siamo ancora allo sciogliete le righe. Gentiloni non alza bandiera bianca. Ecco perché ieri sera, arrivato a Roma, in prima battuta ha salutato positivamente l’emendamento sulla questione voucher, anche se il presidente del Consiglio sa che l’eventuale ritiro di Mpd dalla maggioranza, con Forza Italia a far da surrogato, sarebbe un elemento di indebolimento del quadro politico. Non siamo ancora allo sciogliete le righe e dunque Gentiloni non sa se nel patto Renzi-Berlusconi siano comprese anche le modalità con le quali portare il governo alle dimissioni. 

La lealtà al leader 
Per il momento Gentiloni non perde occasione per ribadire pubblicamente la propria lealtà a Matteo Renzi. Ieri pomeriggio, al termine del G7, Gentilioni ha tenuto la conferenza stampa finale e lo ha fatto da un podietto fatto collocare su uno scenario suggestivo, con il mare e lo sperone di Taormina alle spalle.

E il suo incipit è stato eloquente: «Voglio ringraziare il presidente Renzi che ha avuto l’idea di fare qui il vertice». E ancora: «Ha funzionato alla grande», «si è rivelata un’idea vincente». Certo, un ringraziamento dovuto, perchè effettivamente la proposta di Taormina era stata di Renzi, ma in politica - si sa - l’eleganza e la riconoscenza sono virtù rare, che per il momento non sembrano far parte, ad esempio, del “repertorio” del predecessore di Gentiloni a palazzo Chigi.

Nella conferenza stampa finale il presidente del Consiglio ha dato la sua lettura sul G7: un vertice «vero» anche perché le divisioni non sono state sottaciute. E ha provato a rivendicare come risultato positivo quello che proprio Gentiloni si era proposto come obiettivo non dichiarato: disinnescare tutte le mine che avrebbero potuto trasformare il G7 in un flop. 

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