LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Gennaio 05, 2008, 06:51:36 pm



Titolo: FABIO MARTINI.
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 06:51:36 pm
5/1/2008 (7:21)

- RETROSCENA, LE STRATEGIE DEL SEGRETARIO E DI MASSIMO

D'Alema lancia Bersani come l'anti-Walter Veltroni
 
Il vicepremier preferisce un centro (la Cosa Bianca) con cui trattare. Ma Veltroni punta a forza maggioritaria

FABIO MARTINI
ROMA


Erano i giorni tra Natale e Capodanno, quelli con la pancia piena, quelli nei quali anche i politici «staccano» dalle loro ossessioni, ma non il febbrile Walter Veltroni. Il sindaco convocò a sé i suoi politologi di fiducia - Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti - e gli chiese di elaborare tre nuovi modellini di sistema elettorale - tra cui un «francese all’italiana» - preparati per dimostrare la disponibilità del Pd a discutere di tutti i sistemi diversi dal proporzionale puro. Informato dei fatti, qualche giorno dopo Dario Franceschini, il vice di Veltroni, rilanciò - in un’intervista - proprio il «francese». Non che ci credesse il giovane Dario, ma il suo era un messaggio trasversale per far capire che lui e Veltroni non ne vogliono sapere del sistema «tedesco», architrave di tutte le strategie di Massimo D’Alema. Tanto è vero che sempre via stampa, il ministro degli Esteri rispose per le rime al vice e al suo capo: «Se è un fuoco d’artificio, non vale niente, ma se è una cosa seria, ha un effetto devastante anche per il governo. Poiché Walter è un politico accorto, che calcola le sue mosse, qualcosa mi sfugge...».

Un duello corroborato da parole forti, in realtà molto critpico e che, tra l’altro, dimostra come oramai nel partito democratico si discuta soltanto per mezzo stampa: è sui giornali che si annunciano decisioni e contestazioni, è sui mass media che si stanno formando gli embrioni delle correnti del nuovo partito, molto diverse da quelle del passato. In un Pd nel quale gli organismi dirigenti sono provvisori e si riuniscono saltuariamente (dopo l’incoronazione di Veltroni l’Assemblea Costituente non è stata più convocata e la Direzione si è riunita una volta sola in tre mesi) il leader del partito finora è riuscito a imporre un modello leaderistico nel quale i portatori di tessere e di delegati sembrano destinati a pesare sempre meno. Ne sanno qualcosa i seguaci di Franco Marini, gli ex dc abituati per una vita a pesarsi a suon di tessere e ora talmente spaesati da essersi eclissati persino dal dibattito su laicità e aborto. Ne sa qualcosa Enrico Letta che dopo tante sfide rinviate nella sua giovane carriera, nell’autunno del 2007 si è candidato alle Primarie del Pd, ha avuto 389.271 voti veri (più di quanti ne avesse presi Piero Fassino nell’ultima rielezione a segretario dei Ds), ma da allora non è riuscito a far pesare il suo 11 per cento, una percentuale con la quale, nella Dc, Giulio Andreotti ma anche Carlo Donat Cattin facevano bello e cattivo tempo. E persino la battagliera Rosy Bindi (13 per cento alle Primarie) giorni fa si è prodotta in una richiesta formale molto impegnativa («Sulle riforme si convochi subito la Costituente e si decida assieme»), senza che nessuno le rispondesse.

L’unico che, per il momento, sembra aver preso le misure con le modalità e col linguaggio del nuovo partito è Massimo D’Alema. Che senza dichiararlo apertamente sta spostando sé stesso e l’embrione della sua area sul versante di sinistra del nuovo partito. Una virata e una collocazione davvero originali per un leader proverbialmente «centrista»”. Con progressivi aggiustamenti, il ministro degli Esteri sta disegnando un partito contropposto a quello immaginato da Veltroni. Se il segretario eletto dal popolo teorizza un «Grande Pd» autosufficiente, laico-cattolico con sguardo al centro e «fluido», l’eterno duellante Massimo lavora ad un Pd che sia l’«ala sinistra» di un nuovo centro-sinistra, un Pd laico, un Pd «radicato nel territorio», alieno da fluidità plebiscitarie «alla Berlusconi». Insomma, un partito che punti a rivincere le elezioni alleandosi a una «Cosa bianca» (l’ipotetico partito Casini-Montezemolo-Pezzotta-Di Pietro), che D’Alema immagina di far lievitare con il sistema tedesco e che Veltroni immagina di uccidere in culla con un sistema maggioritario.

Ecco perché il Pd di «sinistra» non ha l’ossessione dei cattolici. Non è un caso: gli amici di D’Alema sono stati i più severi censori della teodem Paola Binetti. E Pierluigi Bersani, leader in pectore di un’area di sinistra (da vedersi se «benedetta» da D’Alema), liquida i dubbi di coscienza della senatrice cattolica con parole aspre: «Il parlamentare non è pagato per interpellare ogni mattina la sua coscienza, ma per decidere tenendo conto della coscienza di tutti». Per dirla con l’ex direttore dell’«Unità» Peppino Caldarola, uno che conosce a memoria sia Massimo che Walter, «stavolta lo scontro tra i due è e sarà molto duro, con un elemento di rottura rispetto al passato da parte di D’Alema, visto che il laicismo non è mai stata un’ideologia forte nel Pci ma neanche nel Psi. Ma con questo approccio si prefigura un Pd nel quale lo spazio pubblico per i cattolici all’interno del partito si stringe, mentre finisce per allargarsi quello all’esterno, in altre foze politiche». Certo, per ora nessuno ha il coraggio di farsi dare del retrogrado, mettendo su correnti organizzate. Ma prima di Natale, senza dare nell’occhio, si sono riuniti gli amici di Fassino e gli amici di Massimo D’Alema. In due riunioncine distinte.

da lastampa.it


Titolo: Lo strappo a sinistra è la scommessa del Pd
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 12:03:02 pm
28/1/2008 (7:15) - RETROSCENA, SEPARAZIONE CONSENSUALE CON LA COSA ROSSA

Lo strappo a sinistra è la scommessa del Pd

«Il partito può essere il più forte d'Italia e preparare la rivincita»

FABIO MARTINI
ROMA


Per ora fanno finta di niente, ma lo show-down è soltanto una questione di giorni. Martedì mattina i capigruppo di Camera e Senato decideranno la data per la discussione del decreto sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero, ma in quel momento fisseranno anche un appuntamento destinato a cambiare la storia della politica italiana: sul decreto infatti Partito democratico e Rifondazione comunista voteranno in modo diverso e da quel momento quella contrapposizione si irradierà nella sempre più probabile campagna elettorale. Naturalmente Pd e Prc non rompono per l’Afghanistan, ma quella votazione renderà chiara anche all’opinione pubblica la scelta strategica maturata nelle ultime settimane dai leader dei due partiti. Perché la traduzione in italiano del veltroniano «corriamo da soli» è proprio questa: la rottura politica tra Pd e Rifondazione comunista. In altre parole, meglio soli che male accompagnati.

Una separazione "consensuale", preparata in un incontro di fine anno tra Walter Veltroni e Fausto Bertinotti. Il primo, deciso a rompere con una sinistra troppo radicale, aveva trovato indirettamente d’accordo il capo di Rifondazione, che aveva fatto capire che, dalle sue parti, una legislatura di opposizione viene vista come una panacea. E dentro il Pd? I notabili che hanno appoggiato Veltroni nella sua ascesa al vertice del partito - Massimo D’Alema, Franco Marini, Piero Fassino, Francesco Rutelli - conoscono il rischio della vocazione autarchica: sconfitta quasi certa, ma soprattutto gruppi parlamentari e partito più "veltroniani" che mai. Ma ben dieci giorni fa Massimo D’Alema, in un incontro a quattr’occhi col segretario, ha dato il via libera alla scommessa: sì ad un Pd programmaticamente a mani libere, che si presenti con un profilo nitido, senza i vincoli di un’alleanza vasta che ha mostrato i suoi limiti. «In questo modo - queste le parole di D’Alema - siamo in grado di cambiare il mercato elettorale».

Ma correre per perdere non fa piacere a nessuno. Per capire come stiano le cose, sia pure a fette grosse e a bocce ferme, Veltroni si è fatto preparare un sondaggio dalla Swg di Trieste. E il risultato è stato incoraggiante: fuori dell’Unione, il Pd potenzialmente può «pescare» 10 punti percentuali in più. E con un risultato del 35%, pur perdendo le elezioni, «saremmo il primo partito italiano, potremmo sfiorare il 40% dei seggi almeno al Senato». Anche se la vera scommessa di Veltroni, una di quei pensieri inconfessabili in pubblico, è un’ altra: «Se la Cdl dovesse vincere, governerebbe in un quadro instabile: una maggioranza non ampia, una coalizione eterogenea, un referendum da domare, una opposizione che non farà sconti. E’ molto probabile che il quadro non tenga e nel giro di uno, due anni si torni a votare. E a quel punto noi saremmo pronti per una vittoria vera e duratura, gli unici ad esserci rinnovati». E ieri, dopo Berlusconi, anche Veltroni ha aperto a Firenze la sua campagna elettorale. Racconta Ermete Realacci, dell’Esecutivo Pd: «C’era un mare di gente, ma quel che conta è stata la reazione convinta ai passaggi che riguardano la decisione del partito di correre da solo.

La sensazione è che la nostra gente condivida l’orgoglio di poter avere qualcosa da dire al Paese. Se si voterà, la chiave della nostra campagna elettorale sarà proprio questa: il Pd racconterà il suo Paese, con una proposta sincera, nuova. Mentre di là si ripresenteranno con lo stesso capo e la stessa formazione - da Mastella fino a Storace - del 1994». Ma la scelta autarchica del Pd, comporta un rischio serio, finora sottaciuto. Dice un personaggio di esperienza come Pierluigi Castagnetti: «Ma con la decisione di correre separati dal resto dell’Unione, cosa accadrà in periferia? Se l’alleanza è sciolta quante "rappresaglie" dovremo attenderci negli enti locali? E’ una questione da esaminare serenamente ma con attenzione». A cominciare da Roma. Anche nella capitale potrebbero esserci elezioni anticipate. E se il centrodestra dovesse davvero candidare Gianfranco Fini, a quel punto l’unico candidato in grado di fronteggiarlo sarebbe Francesco Rutelli. Ma l’ex sindaco, a prescindere da Fini, se la sente di fare il «grande ritorno»? Per ora, a chi glielo ha chiesto, ha dato risposte interlocutorie, ma anche per lui il giorno della scelta si avvicina.

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI. Cresce la tensione con i dalemiani
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2008, 12:25:39 pm
Cresce la tensione con i dalemiani

FABIO MARTINI
Roma


Nella stanza del segretario è iniziata una processione, nella laica speranza di poter esorcizzare il “diavolo coi baffi”. Goffredo Bettini, il berlingueriano: «Walter, non possiamo mica farci logorare da D’Alema aspettando le Europee di giugno: anticipiamo il congresso». Giorgio Tonini, il “fucino”: «Walter, ma lo vedi? Ogni volta che facciamo un gol, c’è qualcun altro che si organizza per fare autogol. Facciamolo per il Pd: facciamo il congresso». Enrico Morando, il migliorista: «Walter, il dibattito sta procedendo in modo confuso e opaco, facciamo un congresso il prima possibile». Walter Veltroni ascolta tutti, ne capisce le ragioni, ma alla fine scuote la testa: «Nei sondaggi da un mese siamo in crescita e il governo è in calo, ora il Pd c’è e perciò l’autolesionismo di qualcuno dei nostri mi fa rabbia. Ma questo partito è troppo giovane per sopportare un duro scontro congressuale. No, non possiamo consentirci una resa conta interna, non possiamo dare agli italiani la sensazione di un partito tutto ripiegato su sé stesso». Certo, Veltroni è rimasto colpito dalle ultime mosse della “fronda” dalemiana e lo ha insospettito non poco un articolo del “Riformista”, vicino a quegli ambienti, che attribuisce a D’Alema la volontà di far scaldare subito i suoi “cavalli” - Gianni Cuperlo, Pierluigi Bersani ma soprattutto Enrico Letta - in vista di una imminente successione alla guida del Pd. Ma per ora Veltroni non si lascia tentare dalla suggestione di un congresso, da anticipare dal novembre al marzo 2009 e in questa scelta prudente è confortato dal suo vice, Dario Franceschini, che assieme a Beppe Fioroni guida quel che resta dell’apparato ex Ppi. Ma rinunciare, per ora, all’arma (a doppio taglio) del congresso per Veltroni non significa giocare in difesa.

Ad un convegno di partito, il leader democratico, pur senza nominarlo, ha attaccato Massimo D’Alema: «Il Pd è l’unica alternativa a questa maggioranza: se invece qualcuno pensa di tornare ai vecchi partiti e poi fare una bella alleanza, si sbaglia». Come dire, senza dirlo: D’Alema non sgradirebbe una separazione consensuale tra ex Ds e ex Margherita per favorire la nascita di un Centro moderato al quale il residuo Pd dovrebbe allearsi, in una rinnovata coalizione “Red and White”. Alchimie partitocratiche, certo. Convulsioni spesso dilatate dai mass media, cosa di cui è convinto Veltroni: «I giornali oggi hanno dato eguale spazio alla crisi mondiale e alla crisi del Pd. C’è un mondo reale e uno virtuale». Ma le ultime scosse telluriche dentro il Pd, potrebbero aver effettivamente fatto «saltare il tappo», per dirla con l’ ex direttore dell’”Unità” Peppino Caldarola. E Pierluigi Bersani rende l’idea, quando chiede di farla finita col «tirarsi le pietre». I due schieramenti interni sono effettivamente tornati a guardarsi in cagnesco, in un clima da “guerra civile” senza precedenti nei 13 mesi di vita del Pd. Da una parte c’è la difficoltà di Veltroni a chiudere una volta per tutta la lunga vicenda della Vigilanza Rai, dall’altra la fronda dei dalemiani è venuta allo scoperto, rafforzando negli amici del segretario del Pd che oramai ci sia «un partito nel partito». Non solo per la “prova tv” che inchioda il dalemiano Nicola Latorre al suo “pizzino”, ma anche per l’ostruzionismo sordo ma potente a Veltroni in sede parlamentare.

La proposta della maggioranza di dare un riconoscimento formale al Governo-Ombra curiosamente è osteggiata da Anna Finocchiaro e dai dalemiani e un organico progetto di riforma federalista elaborato dallo “Shadow Cabinet” finora è rimasto bloccato per la sordina “suggerita” da Bersani. Una boccata d’ossigeno per Veltroni potrebbe venire dalla vicenda-Villari. Voci arrivate in casa Pd dicono che Berlusconi si starebbe impegnando per convincere Riccardo Villari a dimettersi dalla Vigilanza, allo scopo di «salvare l’onore» di Gianni Letta, uno degli artefici dell’intesa bipartisan che aveva portato alla candidatura di Sergio Zavoli.

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI Mezzo Pd litiga sul posto a tavola in Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:11:21 pm
Pse, Veltroni apre: il Pd guardi a questa famiglia


Più il Partito socialista europeo (Pse) si aprirà alle altre forze «democratiche e progressiste» meglio sarà per tutti.
Walter Veltroni, a Madrid per partecipare al Consiglio del Pse, apre la strada all’ingresso del Pd nella famiglia socialista. «Questa famiglia politica – dice – ha dentro di sé l'idea della libertà, l'idea della promozione sociale e l'idea della lotta alla diseguaglianza», per questo «io penso che anche chi come noi ha dentro di sé diverse tradizioni deve guardare a questa famiglia con l'attenzione, il rispetto e la voglia di collaborazione e di unità necessarie».

Insomma, è una svolta nell’annoso dibattito sulla collocazione europea del partito Democratico. O almeno, così la presenta il segretario.
Fino a oggi, le voci interne al partito sono state piuttosto discordanti. Da una parte gli ex-Ds, che gradirebbero di restare nel partito in cui sono sempre stati collocati in Europa, dall’altra, gli ex-Margherita che di mischiarsi con i socialisti non hanno nessuna voglia. Beppe Fioroni, ad esempio, vorrebbe una «casa riformista» che metta «insieme laici e cattolici». Rosi Bindi dice: «Non chiedo a D'Alema e Fassino di diventare democratici cattolici, loro non chiedano a me di abbracciare il socialismo». Franco Marini ne parla come di una «questione di una delicatezza estrema» e si domanda: «Pensate che possa andare da un giovane cresciuto in parrocchia o nell'Azione Cattolica e dirgli che aderisco al Pse? Credete che possa capire?».

Sul fronte opposto, nelle ultime ore hanno detto la loro il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, convinto che il Pd «deve aderire come gruppo federato al Pse, perchè in Europa non si può stare in mezzo senza decidere». E non ha dubbi nemmeno Massimo D’Alema: «Penso che in Europa il Pd deve andare con i socialisti» per fare insieme un «raggruppamento riformista».

Il Manifesto del Pse, in cui al nome dei partiti «socialisti e socialdemocratici» e stato aggiunto quello dei «democratici», comunque, lunedì lo firmerà solo Piero Fassino, in qualità di segretario Ds. Bruxelles, intanto, aspetta le decisioni italiane. Anche perché anche al Pse dispiacerebbe perdere i non pochi – circa 25 – parlamentari italiani.

01 Dec 2008

da unita.it


Titolo: Battaglia del deputato Giachetti: «Basta con accordi e guerre interne».
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2008, 08:47:33 am
"Primarie per il Pd di Roma"

La rivolta viaggia su Internet
 
La battaglia del deputato Giachetti: «Basta con accordi e guerre interne».

All'assemblea romana non lo lasciano intervenire, ma il filmato finisce online


ROMA
Con i big del Pd impegnati nel dibattito sul partito del Nord lanciato dal sindaco torinese Chiamparino, per Veltroni è in arrivo l'ennesima grana. Si tratta di una fronda interna al Pd romano che, con un’assemblea autoconvocata, chiede l’indicazione di una data certa per lo svolgimento delle primarie nella capitale.

Promotori dell’iniziativa varie associazioni ("Democraticamente", "I Mille", "Generazione U"), alcuni consiglieri provinciali e i deputati del Pd Anna Paola Concia, Marianna Madia, Walter Tocci, Giovanni Bachelet, Fausto Recchia. L'assemblea ha richiesto che una delegazione possa incontrare, «vista la gravità della situazione», il segretario nazionale Veltroni per sottoporgli la richiesta di «inserire nello statuto regionale l’elezione diretta del segretario della federazione romana, fissare una data per l’elezione, ampliare l’assemblea romana, costituire coordinamenti municipali eletti dagli iscritti». L’assemblea ha infine proposto che il coordinatore traghetti il partito fino al completamento del tesseramento.

Il protagonista della "rivolta" è il deputato Roberto Giachetti. Il campo di battaglia: Internet. Da 18 giorni Giachetti digiuna, per chiedere le primarie a Roma, raccontando tutto su Facebook e sul suo sito. L'offensiva è affidata alle pagine del blog: «Dopo la sconfitta alle comunali tutti dichiararono pubblicamente che l’unico modo per uscire dalla difficile situazione era quello di restituire la parola al popolo delle primarie. In questi quattro mesi non è accaduto nulla, non è stato fatto nulla. La classe dirigente del partito è stata impegnata in caminetti ed incontri carbonari volti a trovare accordi e gestire guerre interne senza tenere in alcuna considerazione il crescente disagio che si formava nei circoli e nella base del partito».

Lo scontro diventa durissimo venerdì scorso, quando Giachetti irrompe nell'assemblea della direzione romana del Pd per porre la questione delle primarie. Il deputato chiede di «reintegrare l’assemblea cittadina dei membri che mancano da tempo, con le primarie». Ma la parola gli viene subito tolta. La scena è ripresa da un altro militante con il telefonino, il video finisce online. L'immagini è sgranata e traballante ma l'accaduto è chiaro. Giachetti carica a testa bassa e urla sempre la stessa frase: «Non mi puoi impedire di parlare!, Non mi puoi impedire di parlare!». Il segretario del Pd romano Riccardo Milana tira dritto e dichiara conclusa la riunione con Giachetti che continua a sbraitare. L’assemblea si chiude. Ma inizia il terremoto mediatico.

Giachetti pubblica sulla sua pagina Facebook il filmato "incriminato" e continua la sua campagna sul blog: «Con protervia il Coordinatore cittadino ha chiuso l’Assemblea senza che io potessi svolgere il mio intervento. Quanto accaduto è di gravità inaudita, tale da imporre delle scelte nette e decise». Inevitabile pensare alle dimissioni. Di certo Giachetti ha conquistato il popolo democratico della rete: decine di messaggi di appoggio alla campagna "primarista" e di solidarietà a Giachetti per l'accaduto sono apparsi su Facebook e sul blog del deputato. Il parlamentare intanto fa sapere che domani incontrerà Veltroni: «Gli ho scritto una lettera. Il contenuto sarà divulgato domani, e contiene decisioni prese a causa di ciò che è successo in un’altra sede - spiega alludendo allo scontro con Riccardo Milana nella direzione romana - A voi chiedo di continuare in questa direzione». La sua uscita dal partito sembra ormai inevitabile.

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI La rivolta contro il Pd del Nord
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2008, 06:25:43 pm
Veltroni: no a partito del Nord, sì a coordinamento federale


Nessun partito del Nord ma forme di coordinamento sovraregionali su specifici temi peraltro già previste dallo Statuto del partito e via all'applicazione di una gestione federalista del Pd. Walter Veltroni, concludendo la riunione con i segretari regionali durata diverse ore, ha ribadito che è favorevole ad un coordinamento ma contrario a favorire aggregazioni di partiti distinti per aree.

Una precisazione dunque rispetto alle richieste avanzate da Sergio Chiamparino e altri amministratori del Nord che puntavano, attraverso la creazione di una sorta di partito del Nord, ad avere maggiore autonomia gestionale e finanziaria. Alla riunione l'argomento è stato citato da diversi segretari regionali tutti contrari all'ipotesi.

Walter Veltroni, chiudendo la riunione con i segretari regionali dove si è discusso dei prossimi passaggi del partito, Direzione e Conferenza programmatica, ha sottolineato che «la direzione del 19 deve essere l'occasione per un rilancio e un chiarimento politico e per portare avanti il progetto di innovazione».

Quanto alla Conferenza programmatica, che si terrà tra fine febbraio e metà marzo, è stato Goffredo Bettini ad illustrare ai segretari regionali come si strutturerà: l'idea è quella di aprire un dibattito a partire dal basso, cioè dai circoli, dal quale dar vita ad una piattaforma, un documento che consenta una discussione ampia e integrazioni, e che si articolerà di una parte analitica seguita da una programmatico che alla fine sarà composta di 8-10 punti, le proposte del Pd sulla crisi, sulle riforme, sulla politica estera, sull'Europa. «I temi della conferenza programmatica - ha spiegato Andrea Orlando - saranno il posizionamento ideale e programmatico del Pd alla luce delle opportunità che si aprono, perchè la destra ha cementato un blocco sociale e politico che però non è in grado di dare risposte convincenti alla crisi economica, un altro dei temi affrontati sarà la vocazione maggioritaria, che non esclude una strategia delle alleanze ma è l'ambizione di parlare alla società e spostare settori di questa sulle posizioni del Pd, insomma un messaggio che modifichi i rapporti di forza».

In conclusione, Veltroni ha quindi invitato a «superare la fase introversa per parlare di più dei temi del paese» e sottolineato che «il Pd deve investire sulla sua identità come forza di centrosinistra, che unisce i riformismi. Al Pd ci siamo arrivati tardi - avrebbe detto il segretario secondo quanto riferisce uno dei partecipanti all'incontro - andava fatto nel '96 sull'abbrivio dell'Ulivo, perciò ora non dobbiamo mollare la presa sull'innovazione».

02 Dic 2008   
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Titolo: FABIO MARTINI La rivolta contro il Pd del Nord
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 08:28:28 am
3/12/2008 (7:13) - I CAPI LOCALI SUL PIEDE DI GUERRA

La rivolta contro il Pd del Nord
 
Tutti i segretari regionali bocciano la proposta. E Veltroni la manda in soffitta

FABIO MARTINI
ROMA


Il “Partito del Nord”? Non se ne farà nulla. Bocciato. Senza appello. Ieri mattina Walter Veltroni ha convocato a Roma tutti i segretari regionali del Pd, ne ha tastato gli umori e dopo aver scoperto che i leader locali - compresi quelli di Piemente, Lombardia e Veneto - erano drasticamente contrari alle ipotesi lanciate dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino, è stato lo stesso segretario a tirare le somme: «Non è pensabile che si crei un Partito del Nord perché il Pd non è l’aggregazione di partiti distinti», mentre «va benissimo un coordinamento su singoli temi tra macro-aree, anche perché un’articolazione di questo tipo è prevista dal nuovo Statuto» del Pd.

In realtà la “conferenza dei segretari regionali” abilmente convocata da Veltroni (che ne conosceva in anticipo gli orientamenti), ha avuto buon gioco a bocciare la proposta di Chiamparino, fatta propria dal sindaco di Venezia Cacciari. In questi giorni non si era infatti dissolto l’equivoco di fondo che gravava sulla “provocazione” lanciata dal sindaco di Torino: Chiamparino pensava in prospettiva di dar vita - e magari guidare - un Pd del Nord, diviso e diverso da quello nazionale? O puntava ad una potente e trasparente lobby dentro il partito per costringerlo a fare i conti con temi ostici alla sinistra, come sicurezza e fiscalità? In questi giorni l’equivoco è restato in sospeso, ma ieri pomeriggio Massimo Cacciari, rispondendo ad una domanda a “Sky24 Pomeriggio”, ha accennato ad un Pd che avrebbe potuto continuare «a presentarsi alle Politiche e alle Europee». E alle amministrative? Nell’incertezza i segretari regionali hanno tagliato corto, con una nettezza insolita.

Nella riunione con Veltroni, il segretario dell’Emilia Romagna Salvatore Caronna ha sostenuto che «la proposta di Chiamparino e Cacciari «è particolarmente inutile e dannosa», il nuovo rilancio «dannoso e politicamente subalterno alla Lega» e di qui la formale richiesta di uno «stop alla querelle». Esplicito sino a sfiorare l’insulto il segretario della Puglia, il sindaco di Bari Michele Emiliano: «Se non è una mossa di marketing politico, allora è per trovare posto a qualcuno che rimane senza». Per il toscano Andrea Manciulli, «un’idea senza senso». Chiude Giorgio Tonini, uno degli uomini più vicini a Veltroni: «Utile come provocazione intellettuale, ma non possiamo cambiare fisionomia al Pd con tre partiti che ogni tanto si incontrano... Sarebbe come scavalcare la Lega sul piano della secessione».
Sostanzialmente risolta la questione del Pd del Nord, per Veltroni resta aperta la querelle sul gruppo al quale gli europarlamentari democratici dovranno aderire nell’Europarlamento per il quale si voterà il prossimo 7 giugno. In attesa di una formale decisione, il Pd ha scelto di non aderire a nessuno dei partiti europei, ma proprio in questa fase di “disarmo” da parte di tutte le componenti interne, è intervenuta la decisione originalissima di Piero Fassino - ex segretario degli ex Ds - di firmare il Manifesto del Pse varato due giorni fa a Madrid dai leader socialisti europei.

Caduta nell’indifferenza di Veltroni, la decisione di Fassino ha accelerato l’urgenza di una scelta chiara. Per questo Veltroni ha rispolverato il “caminetto” dei capi: per il 10 dicembre ha convocato un vertice ristretto sulla questione europea, richiamando in “servizio” i personaggi più autorevoli del partito che il segretario aveva chirurgicamente escluso dal Coordinamento: Massimo D’Alema, Arturo Parisi, Francesco Rutelli, Franco Marini. Decisione finale prevista nella Direzione del 19 dicembre e quel giorno, la relazione di Veltroni potrebbe essere messa ai voti.

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI Mezzo Pd litiga sul posto a tavola in Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2008, 11:30:42 pm
4/12/2008 (7:48) - LA LETTERA DELL'EX-CAPO DELLA MARGHERITA

Mezzo Pd litiga sul posto a tavola in Europa
 
Rutelli a Veltroni: no al Pse, anche con il trattino

FABIO MARTINI


ROMA
Oramai nel Pd basta un niente per accendere nuovi fuochi polemici, i notabili lo sanno e a rotazione si applicano: stavolta si litiga per la questione del «trattino». Nell’annosa querelle sulla collocazione dei parlamentari del Pd nel prossimo Europarlamento stavolta è Francesco Rutelli ad alzare la sua bandiera: in una lettera a Walter Veltroni, l’ex leader della Margherita scrive: «L’unico sviluppo adeguato alla grande novità del Pd credo sia la formazione di una Alleanza internazionale di tipo nuovo: per farlo la soluzione non può essere il nostro ingresso nel gruppo del Pse, con la modesta aggiunta di una parola nella denominazione», un gruppo che «per il 90% sarebbe formato di socialisti».

In altre parole Rutelli boccia senza appello la proposta - nel Pd apertamente sostenuta da ex Ds come Massimo D’Alema e Piero Fassino ma avallata anche da Veltroni - di convincere i capi del Pse (Partito socialista europeo) a cambiare denominazione al gruppo parlamentare di Strasburgo, aggiungendo alla classica la denominazione «Socialisti» quella di «Democratici», unendo il tutto con un trattino.

Per ora i vertici del Pse non ne vogliono sentir parlare di cambiare nome, scartando dunque la soluzione Socialisti-Democratici, escamotage che - per motivi opposti - non piace a Rutelli. E non piace neppure alla pattuglia degli ex Popolari di Franceschini, Marini, Castagnetti, che più volte hanno ripetuto di «non voler morire socialisti». Dunque, una situazione che sta diventando delicata. E, forse, proprio per forzare l’ equilibrio, lunedì scorso Piero Fassino (ex segretario degli ex Ds), a sorpresa ha sottoscritto - assieme a tutti i leader socialisti - il Manifesto del Pse per le elezioni Europee del 9 giugno 2008.

Fassino è un autorevole esponente del Pd, un partito che ha deliberatamente scelto di non aderire ad alcun partito europeo, eppure il suo originale gesto non ha incontrato censure da parte del vertice dei Democratici. L’indiretta conferma di una voce, per ora non confermata, che parla di un accordo informale e riservato: nel caso in cui la proposta del gruppo Socialisti-Democratici alla fine passasse, a quel punto il Pd di Veltroni (forte di una rilevante consistenza parlamentare) premerebbe sui partiti socialisti più influenti (Sdp, Psoe, Ps francese, Labour) per portare Piero Fassino - molto apprezzato a Bruxelles - alla guida del nuovo gruppo.

L’attuale presidente dell’eurogruppo socialista Martin Shulz (a suo tempo ribattezzato «kapò» da Berlusconi) infatti ha già stretto un accordo di massima col Ppe per una staffetta alla presidenza del Parlamento europeo tra lui e un democristiano. Ma dentro il Pd mezzo partito è contrario ad entrare nel Pse. Rutelli ha spedito la sua lettera a Veltroni poche ore prima di partecipare, da stasera a Bruxelles, al congresso del Pde, il Partito democratico europeo, di cui è co-presidente assieme a Francois Bayrou e di cui è segretario generale Sandro Gozi. Il congresso del Pde, a differenza di quello del Pse - con un’accortezza suggerita da Rutelli - non ci concluderà con un manifesto sottoscritto dai leader, ma con una risoluzione fortemente europeista e caldeggerà una candidatura comune dei progressisti (dunque Pse e Pde) per la presidenza europea.

Nella sua lettera a Veltroni, Rutelli auspica la nascita di una «Alleanza internazionale di tipo nuovo». Ma per ora è modesta la consistenza nell’Europarlamento del Pde, una frazione del più vasto Gruppo Alde, l’alleanza tra Democratici e liberali. Tanto è vero che la proposta operativa di Rutelli - mettiamo su a Strasburgo un Gruppo parlamentare autonomo e federato al Pse - per ora si è scontrata nella difficoltà di trovare partiti interessati, a parte una lista liberali-socialdemocratici che dovrebbe presentarsi in Polonia.

Sul fronte del cosiddetto «Pd del Nord», dopo la bocciatura senza appello due giorni fa da parte di tutti i segretari regionali alla proposta di un Partito autonomo guidato da un leader - ieri è stato deciso che la prima riunione tra i segretari delle regioni del Nord, sindaci e amministratori si svolgerà a gennaio. La conferma che la proposta di Sergio Chiamparino e rilanciata da Massimo Cacciari è destinata ad esaurirsi in un coordinamento operativo, ma senza velleità di presentare liste separate dal Pd.

da lastampa.it


Titolo: Il giorno dello choc "Con Casini era fatta". (FALSO e ipocrita. ndr)
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2008, 11:17:54 am
16/12/2008 (7:16) - RETROSCENA

Il giorno dello choc "Con Casini era fatta"
 
Walter Veltroni e Antonio Di Pietro
 
E gli ex popolari aprono il processo alle alleanze: è ora di cambiare

FABIO MARTINI
ROMA


Lassù sul palco, il capo prova a restare impassibile. Sul far della sera sono sempre più deprimenti i numeri in arrivo dall’Abruzzo e Walter Veltroni - inchiodato in un sottoscala vicino alla Stazione Termini ad ascoltare le lamentele dei segretari dei Circoli Pd del Lazio - si tiene aggiornato grazie ad una sfilza di bigliettini che gli passa il pazientissimo portavoce Roberto Roscani.

Sui «pizzini» passati al capo, le percentuali via via aggiornate - 21,2, 20,6, 19,7 - raccontano di una débâcle del Pd e di una grande avanzata di Di Pietro, ma il leader democratico almeno in pubblico non si scompone: trova il tempo di fare l’occhiolino ad un vecchio compagno e dopo aver ascoltato lo sfogo (per certi versi impressionante) di tanti quadri del Pd laziale sullo stato del partito, Veltroni espone gli argomenti che si era preparato nell’ipotesi di un crollo: «Dobbiamo fare di più sulla moralizzazione della vita pubblica. Per essere severi con gli altri, dobbiamo esserlo con noi stessi».

Sull’Abruzzo un accenno al diradarsi dei votanti («Un’astensione impressionante») e qualche vaga allusione: «In certe situazioni preferisco pagare subito un prezzo e garantire il futuro del partito». Ma venerdì scorso, chiudendo all’Aquila la campagna elettorale, Veltroni disse: «La sera del 15 Berlusconi guarderà un solo dato: quello dei voti presi dal Pd». Ma con quel dato ha dovuto fare i conti per primo proprio Veltroni, che sembra dare tutte le colpe alla litigiosità interna: «Ogni tanto mi sembra di tessere la tela di Penelope. Poi arriva l’intervista di questo o di quello e l’effetto sull’opinione pubblica è micidiale!». Anche se alla fin fine il succo del primo discorso dopo la botta abruzzese è risultato conciliante: «I dirigenti del Pd non possono essere impegnati nelle “baruffe chiozzotte”. Devono dare un segnale di forza e di unità».

Ecco il punto. Veltroni sa che dietro la tregua apparente concessa dai suoi oppositori più insidiosi - Massimo D’Alema e Franco Marini - si potrebbe preparare una lunga stagione di logoramento. Qualche giorno fa, in una informalissima, appartata, strategica chiacchierata, Marini ha spiegato a D’Alema la sua idea: «Vedi Massimo, io in queste settimane ho difeso il segretario perché credo che in questo momento non sia opportuno attaccare Veltroni, ci sono le elezioni abruzzesi e poi ci sono le Europee. Ma dopo quel passaggio, se ci sono le condizioni, faremo i conti...».

D’Alema ha capito il messaggio: come lui, anche Marini pensa che l’eventuale attacco finale a Veltroni vada sferrato dopo un risultato deludente alle Europee di giugno. Strategia confermata anche alla luce dei risultati abruzzesi: nelle prossime ore nessuno della ampia e variegata fronda interna al Pd - D’Alema, Marini, Bindi, Letta, più Parisi che è l'unico oppositore dichiarato - chiederà la testa di Veltroni. Ma il segretario sa anche il perché.
In Abruzzo i principali sconfitti si chiamano proprio Marini e D’Alema.

L’ex presidente del Senato in Abruzzo ci è nato e i principali quadri ex Ds non appartengono alla corrente veltroniana e ieri sera l'arresto del sindaco di Pescara, un ex Margherita un tempo vicinissimo a Marini, conferma che gli avversari del segretario hanno le armi spuntate. Anche perché oltre al preannunciatissimo tsunami giudiziario in arrivo a Napoli, altri boatos parlano di «novità» in Basilicata e nelle Marche, che potrebbero colpire dirigenti che nulla hanno a che vedere con Veltroni. Richiamando così un ragionamento per ora informale di Goffredo Bettini: «Purtroppo diversi segnali ci dicono che bisogna affrettare il ricambio della classe dirigente anche a livello locale».

E dunque, ecco uno scenario probabile: su questo «equilibrio del terrore» - Veltroni sconfitto ma notabili disarmati - potrebbe proseguire nelle prossime settimane la tregua interna. Anche se una prima resa dei conti si preannuncia sulla questione delle alleanze. In Abruzzo è stato proprio Veltroni l’artefice dell’alleanza-abbraccio con Di Pietro, allo scopo di non scoprire il fianco «giustizialista», ma ieri pomeriggio il popolare Beppe Fioroni, uno dei pilastri della "maggioranza" interna, è uscito allo scoperto: «L’unico rammarico che abbiamo è che se ci fosse stato un accordo con l’Udc avremmo vinto».

Segnale chiaro: bisogna riaprire il dialogo con Casini. Ma da quell’orecchio Veltroni non ci sente. E prendere le distanze da Di Pietro? Dice il dalemiano Nicola Latorre: «Non preoccupa l’ascesa di Di Pietro, ma semmai il calo del Pd. L’ex pm sta erodendo elettorato più a noi che ai nostri avversari». Lapidaria «Europa», il quotidiano vicino a Rutelli e Gentiloni: «Via da Di Pietro, via da un’allenza falsa e suicida». Squilli di tromba che annunciano un confronto molto aspro sull’alleanza con Tonino.

  da lastampa.it
 


Titolo: FABIO MARTINI. Così il generale Gianfranco ha esautorato i colonnelli
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2009, 11:08:58 pm
«Diamo una sponda a Fini contro il premier»

di Simone Collini


È in corso uno scontro istituzionale molto grave. Il Pd non può semplicemente assistere dall’esterno, come uno spettatore». Perché altrimenti, dice Enrico Letta, «nella nuova fase che si apre rischiamo di farci trovare ai margini del sistema politico». Nuova fase?
«È evidente che siamo all’imbrunire del berlusconismo. Può anche volerci ancora un tempo lungo, ma è chiaro a tutti che il “dopo” comincia adesso. E noi dobbiamo essere tra quelli che riescono a giocare la partita al centro della scena, per riuscire a trasformare il Pd da opposizione ad alternativa di governo».

Le prime mosse?
«Serve un Pd più forte, e poi dobbiamo lavorare per costruire un rapporto positivo con l’Udc e nell’immediato offrire una sponda istituzionale a Fini».

Cioè?
«La sua difesa del Parlamento va sostenuta, e anche in questo confronto muscolare con Berlusconi noi non possiamo semplicemente assistere del tutto passivi. Quello in atto è uno scontro tra terza e quarta carica dello Stato, e non può essere ridotto a incomprensioni telefoniche, a problemi creati da una cornetta che gracchiava, come qualcuno vorrebbe farci credere. Siamo di fronte a una vicenda grave, dalle conseguenze molto significative, noi dobbiamo esserci, non possiamo starne fuori».

Sostegno a Fini, prima c’è stata la difesa di Boffo: due personalità non proprio vicine al Pd...
«Il punto non è la vicinanza, il punto è la concezione della democrazia. Di cui fa parte il tema della libertà di stampa. Il caso Boffo non si può archiviare come se nulla fosse. Il fatto che non si risponda al giornalista per le cose che dice e si vada invece ad attaccarlo sulle sue vicende personali è lo sconvolgimento di una delle regole di base della democrazia».

Secondo il direttore del Mulino Piero Ignazi potrebbe nascere una nuova forza guidata da Fini e Casini. Secondo lei si alleerebbe col Pd?
«Mi sembra un ragionamento prematuro, per ora. Però non ho dubbi che i nostri antagonisti, quelli alternativi rispetto a noi, si chiamano Berlusconi e Lega».

Dovrebbe essere alternativa, rispetto al Pd, anche una destra, per quanto liberale, rinnovata, moderna...
«Infatti, lo è.Maquesta sarebbe una destra con cui il confronto istituzionale almeno sarebbe possibile. Purtroppo con Berlusconi anche il dialogo istituzionale è reso complicato dai suoi stessi comportamenti. In questo senso non possiamo che sperare e anche aiutare evoluzioni positive. L’attuale quadro è per noi il peggiore in assoluto. Mi ricorda troppo lo schema della Prima Repubblica: tutto il confronto si svolgeva all’interno del pentapartito e la sinistra veniva lasciata fuori, resa marginale. Noi non dobbiamo ripetere questo schema, non possiamo lasciare che tutto lo scontro sia dentro il perimetro della maggioranza e il Pd sia semplice spettatore esterno. Perché così non sarebbe in grado di intercettare né elettorato né interessi».

Secondo lei conl’Udc si può arrivare a qualcosa di più di accordi regione per regione la primavera prossima?
«Dobbiamo lavorare perché sia così. Anche perché l’estate libertina che ha allontanato Berlusconi dal mondo cattolico apre un’opportunità in più. Le regionali potranno essere una tappa per arrivare poi a un’alleanza in vista delle politiche».

Ne vede le condizioni? In Parlamento più volte avete votato diversamente e su molti temi, a cominciare dal testamento biologico, Pd e Udc sono su posizioni differenti.
«Quello che dobbiamo fare è un percorso, che secondo me può arrivare a risultati positivi. Non dobbiamo su questo né avere fretta né immaginare di affastellare tutti i temi insieme. Il percorso però, seppur gradualmente, va fatto».

Rompendo con l’Idv?
«A Trento abbiamo vinto con entrambi, Idv e Udc. Quanto a Di Pietro, quello che abbiamo conosciuto come ministro del governo Prodi è un alleato col quale si può tranquillamente dialogare e fare un bel pezzo di strada insieme. Il Di Pietro anti- Pd dell’ultimo anno è strutturalmente avulso dalla costruzione di un’alleanza con noi».

Serve un Pd più forte, diceva all’inizio: la discussione congressuale dice che va in questa direzione?
«Il congresso ci sta obbligando ad affrontare i nodi irrisolti. Ora abbiamo 40 giorni per rendere ancora più interessante la discussione».

11 settembre 2009
da unita.it


Titolo: Udc, Cesa: nessun dialogo con chi si paragona a De Gasperi.
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:24:11 am
Udc, Cesa: nessun dialogo con chi si paragona a De Gasperi.

Fini a Chianciano
               

ROMA (11 settembre) - «Il governo si è rinchiuso in un fortino e gioca alla guerra contro tutti». Lo ha affermato il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa nel suo intervento agli stati generali centristi convocati a Chianciano. In particolare, sottolinea Cesa, «siamo in guerra contro le banche, contro gli economisti di tutto il mondo, contro le procure e i giudici» nonché contro l'Unione europea e le istituzioni internazionali, mentre «il Parlamento viene considerato un ente inutile e pieno di fannulloni» anche se, ha ironizzato «i cosiddetti fannulloni se li è scelti personalmente il presidente del Consiglio grazie alla legge elettorale».

Cesa ha lamentato, inoltre che «siamo in guerra con la Chiesa che si permette di criticare le politiche migratorie dettate dalla xenofobia leghista e di chiedere una condotta più discreta a chi ha la responsabilità di rappresentare il governo dell'Italia davanti agli italiani e al mondo».

Il Pdl, ha poi aggiunto Cesa, è un partito che «soffre per le contraddizioni sempre più evidenti al suo interno e soffre al suo esterno per un rapporto con la Lega che assomiglia sempre più ad una sindrome di Stoccolma più che ad un alleanza politica».

Cesa ha quindi criticato l'attuale bipolarismo e annunciato la costituzione di un nuovo partito di centro. «Un Partito vero, moderno ma vero» la cui nascita verrà celebrata attraverso un congresso «democratico» che si svolgerà dopo le elezioni regionali, prima dell'estate o subito dopo nell'autunno prossimo. «A partire dal 15 settembre apriremo il tesseramento che ci condurrà alla nascita del nuovo soggetto. Fin da subito daremo vita ad un ampio coordinamento della costituente e ad una commissione per il tesseramento che garantiscano la trasparenza e la democraticità del percorso».

Il segretario dell'Udc rivendica orgogliosamente la scelta di autonomia del suo partito opposta al «bipolarismo rissoso e inconcludente» e rilancia, con l'apertura del cantiere del partito dei moderati, un partito - assicura - «vero, moderno ma vero» che celebrerà il suo congresso fondativo a primavera, dopo le regionali. Non solo, domani qui alle assise centriste è atteso Gianfranco Fini, il cui arrivo è stato annunciato questa sera da Rocco Buttiglione. Una circostanza che, dopo le ultime mosse del presidente della Camera, sancirebbe, dopo un anno e mezzo di gelo, un riavvicinamento con Pier Ferdinando Casini. Si apre con questa premessa, a Chianciano, la tre giorni degli stati generali del centro che servirà a scandire le mosse per la stagione politica che si apre, per riaffermare le posizioni in vista delle regionali e tracciare il percorso verso l'approdo del nuovo partito di centro, aperto ai delusi dei due partiti maggiori, Pd e Pdl.
 
da ilmessaggero.i


Titolo: FABIO MARTINI Quei cento pretoriani che aspettano lo strappo di Fini
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:38:13 am
12/9/2009 (6:56) - IL RETROSCENA

Quei cento pretoriani che aspettano lo strappo di Fini
 
La conta: ecco i parlamentari pronti a seguire il presidente della Camera

FABIO MARTINI
ROMA


Sarà soltanto un caso. Nel suo giro di accreditamento tra le autorità istituzionali italiane, il nuovo ambasciatore americano a Roma ha incontrato per primo Gianfranco Fini, e proprio nell’anniversario dell’11 settembre.

Ieri mattina nel palazzo di Montecitorio David Thorne si è trattenuto per mezzora nello studio del presidente della Camera e alla fine l’ex uomo d’affari (che parla bene l’italiano), si è congedato con una frase da diplomatico: «Siamo molto onorati di quanto viene fatto in Italia per ricordare chi in quella tragedia ha perso la vita». Certo, è del tutto casuale che il neo-ambasciatore Thorne, nel suo giro tra le autorità istituionali, abbia fatto visita a Fini in una giornata simbolicamente così importante per gli americani. Ma è pur vero che l’amministrazione americana guarda con un’attenzione speciale al presidente della Camera. Grazie ad una sapiente trama diplomatica dietro le quinte, grazie ad un rapporto personale significativo con la speaker del Congresso Nancy Pelosi, Fini è un osservato specialmente benvisto dell’Amministrazione Usa, tanto è vero che nei primi mesi del 2010 il Presidente della Camera sarà in visita ufficiale negli Stati Uniti, onorando un invito della Pelosi, personaggio sempre più centrale nella dialettica politica americana. E dal 2003, anno della prima, storica visita in Israele, Fini ha via via conquistato il primato nelle preferenze nella classe dirigente dello Stato d’Israele, al quale fa riferimento una delle più potenti lobbies internazionali.

Per chi, come Fini, ha deciso di contendere a un personaggio come Berlusconi la leadership del centrodestra, è decisivo poter contare su una rete internazionale, su solide "divisioni" estere. Tanto più che in queste ore, dopo il duro intervento al convegno di Gubbio, torna una domanda finora confinata nei pourparler del Palazzo: ma su quante "truppe" può contare Fini? Domanda importante sia nel caso in cui il Presidente della Camera dovesse continuare la sua battaglia dentro il Pdl, ma anche nel caso (più improbabile) in cui Fini dovesse un domani mollare gli ormeggi e mettersi in proprio. Nei giorni scorsi, diversi esponenti del Pdl a Montecitorio e a palazzo Madama si sono esercitati in calcoli complessi e in mancanza di una pbblica conta, ogni componente interna offre numeri diversi. Anche se alla fine c’è una sostanziale convergenza sui dati che riguardano il gruppo più numeroso, quello della Camera: dei 92 deputati ex An, 12-14 fanno capo a Ignazio La Russa, 7-8 a Maurizio Gasparri, 6-7 a Altero Matteoli. Quasi tutti gli altri, compresi i 16-18 vicini a Gianni Alemanno (in caso di conta interna viene dato come vicino a Fini), sono considerati dei non-allineati in qualche modo sensibili al presidente della Camera, che in caso di resa dei conti, ritiene di poter contare su circa il 70% dei deputati e su un 35-40% dei senatori, tra i quali è molto più incisiva l’influenza di un capogruppo iperattivo come Maurizio Gasparri. Semmai è interessante un altro fenomeno: l’avvicinamento a Fini di parlamentari che non appartenevano ad An: il radicale Della Vedova, la socialista Chiara Moroni, mentre già da tempo la Fondazione che fa capo all’ex ministro Beppe Pisanu collabora con quella di Fini, Farefuturo. E oggi il Presidente della Camera sarà a Chianciano, alla convention dell’Udc di Casini e Cesa.
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da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI. Così il generale Gianfranco ha esautorato i colonnelli
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 10:49:26 pm
16/9/2009 (7:36)  - RETROSCENA

Così il generale Gianfranco ha esautorato i colonnelli

Gianni Alemanno, Altero Matteoli e Ignazio La Russa

Ora può contare su uomini chiave nelle aule del Parlamento.

Se attaccassero, la navigazione del governo si farebbe molto dura

FABIO MARTINI
ROMA


Raccontavano che il generale Fini fosse rimasto senza truppe e che oramai fosse pronto per Sant’Elena. E invece, a conclusione di un fallito blitz dei suoi eterni colonnelli, è come se la macchina del tempo fosse tornata indietro: di fatto è rinata Alleanza nazionale. Guidata da un leader, che è tornato quello di sempre, Gianfranco Fini, ma che da un anno non lo era più, perché i suoi alti ufficiali erano diventati gli interlocutori quotidiani di Berlusconi. Nel governo e nel partito. Questa è stata la vera partita che si è giocata in questi giorni, tanto è vero che nella lettera, promossa dai finiani e - obtorto collo - firmata da tutti gli ex deputati di An, è scritto chiaro e tondo un concetto: «Caro Berlusconi, riteniamo che sarebbe opportuno un patto di consultazione permanente tra Te e Gianfranco Fini». Il “sub-partito” An è rinato grazie all’opera dell’eroe di giornata della fazione finiana: Italo Bocchino, vicepresidente dei deputati del Pdl e che in cuor suo aspira a diventare coordinatore del Pdl, in quota Fini, al posto di Ignazio La Russa. Quarantadue anni, napoletano, allievo prediletto di Pinuccio Tatarella, Bocchino ha ideato l’operazione nella quale i colonnelli - partiti per isolare Fini - alla fine sono rimasti isolati loro.

Nel primo pomeriggio, da Montecitorio, filtravano notizie contraddittorie: sotto la lettera di solidarietà a Fini (formalmente indizzata a Berlusconi) stavano aumentando le firme dei deputati ex-An, ma non si riusciva a capiva quante potessero diventare: trenta, quaranta o di più? Nell’incertezza, i tre capicorrente - il ministro della Difesa Ignazio La Russa, il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli e il sindaco di Roma Gianni Alemanno - facevano diffondere tre dichiarazioni-fotocopia: quella lettera è giusta nei contenuti, ma avrebbe l’effetto di aumentare le divisioni nel Pdl. Ergo: la raccolta di firme va interrotta. Ma a Montecitorio la truppa si stava ribellando ai colonnelli, dimostrando fedeltà al generale: la raccolta proseguiva e quando le firme sono arrivate a quota 54-55 (il 67% degli 80 ex-An), i tre colonelli si sono riservatamente incontrati in Campidoglio e hanno dato il contrordine: firmiamo tutti. A quel punto la diga dei notabili era caduta e il finiano Carmelo Bruguglio poteva dichiarare alle agenzie: «Il tentativo di indebolire Fini è fallito. Ora è chiaro a tutti».

Certo, a partire da oggi il neonato “sub-partito” An potrà decidere come muoversi e riposizionarsi sulla scacchiera politica, a cominciare da quella parlamentare. Non è sfuggito a palazzo Chigi che gli uomini di Fini occupano posizioni strategiche in Parlamento e hanno un peso numerico che può condizionare provvedimenti decisivi come quello sul biotestamento o sulla cittadinanza. Fini, si sa, guida le operazioni a Montecitorio, ma sono a lui vicini presidenti di commissioni strategiche come le Commissioni Giustizia della Camera (lì c’è la sua legale, Giulia Buongiorno) e del Senato (Filippo Berselli), ma soprattutto è uomo vicino al leader della Camera anche Mario Baldassarri il Presidente della Commissione Finanza e Tesoro del Senato, dove “nascono” tutte le Finanziarie. Sostiene un battitore libero del Pdl come Giuliano Cazzola: «Certo, se la polemica all’interno del Pdl non dovesse stemperarsi, in Parlamento i problemi potrebbero moltiplicarsi: oltre ai parlamentari meridionali, a quelli dell’Mpa, se anche i “finiani” dovessero creare problemi la navigazione potrebbe diventare più difficile».

Ma Gianfranco Fini non vuole rompere. Due sere fa, al “Secolo d’Italia” erano decisi a pubblicare una postilla all’editoriale, nella quale si diceva in sostanza: caro Feltri, se vuoi pubblicalo quel benedetto fascicolo che dici di avere. Poi, anche su intervento di Fini, si è decisa una linea più soft. E ieri presidente della Camera Lo ha confidato ai suoi: «Io le querele, non le ritiro. Ma intanto vediamo cosa dirà stasera Berlusconi a “Porta a Porta”....». Ieri pomeriggio un messaggero lo ha fatto sapere al Presidente del Consiglio: «Se in queste ore ti esprimerai in modo distensivo, Gianfranco apprezzerebbe...». Anche se Fini ha un’idea chiara: oltre a pubbliche dichiarazioni, servirà un «faccia a faccia tra noi due, un chiarimento vero tra me e Silvio».

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI. Ora D'Alema punta su Pier
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 10:37:25 am
13/12/2009 (7:22)  - RETROSCENA

Ora D'Alema punta su Pier

«Potrebbe essere un buon candidato per l'alleanza di centro-sinistra»

FABIO MARTINI
ROMA

Quella sera d’estate, in una delle terrazze romane frequentate dai vip della politica e dell’imprenditoria progressista, Massimo D’Alema ne aveva parlato apertamente, davanti a tutti: «Casini? Potrebbe essere un buon candidato alla Presidenza del Consiglio di una nuova alleanza di centro-sinistra...».

Dopodichè Pier Luigi Bersani (e D’Alema) hanno anche vinto il congresso del Pd e di quel progetto di leadership, "Baffino" ha riparlato con gli amici e i compagni di cui si fida. Tanto è vero che, una settimana fa, quando D’Alema ha parlato a tu per tu con Pier dei problemi che impediscono alleanze Pd-Udc in tante regioni in vista delle prossime elezioni, quel progetto strategico non è stato rimesso in discussione.

E dunque, se davvero Berlusconi provasse ad andare ad elezioni anticipate, a quel punto il candidato a palazzo Chigi del fronte anti-Cavaliere potrebbe finire per essere proprio il Pier, un leader - sperano nel Pd - capace di rassicurare una fascia di opinione pubblica che non se la sentirebbe di votare per la sinistra. E d’altra parte la storia parla chiaro. Dal 1946 in poi i progressisti hanno vinto le elezioni soltanto due volte: e in entrambi i casi erano guidati da un cattolico, certo atipico, come Romano Prodi.

Ma Casini a cosa punta veramente? In questi 20 mesi di opposizione, il leader Udc ha tenuto la testa in due scarpe, vagheggiando due diversi scenari, guardandosi bene dal sceglierne uno. La prima opzione casiniana resta l’attesa del big bang che sarà comunque determinato dall’uscita di scena di Berlusconi, con una scomposizione dei poli, destinata a fare emergere in posizione di leadership i personaggi più abili nell’occupare lo spazio lasciato dal Cavaliere. E se invece tutto dovesse precipitare? A quel punto ecco la seconda scelta di Casini, quasi obbligato a diventare il portabandiera del "Comitato di liberazione nazionale da Berlusconi", espressione usata dal leader Udc cento giorni fa alla festa del Pd di Genova e ora significativamente rilanciata nell’intervista a "La Stampa".

Ma un Berlusconi che decidesse di scommettere su elezioni anticipate, finirebbe per determinare uno spettacolare paradosso: costringere i leader che puntano a tempi lunghi, ad anticipare i giochi immaginati per il dopo-Silvio. A cominicare da Gianfranco Fini. Dice Italo Bocchino, che di Fini è il braccio destro: «Elezioni anticipate non hanno senso e la separazione dei destini di Berlusconi e Fini sarebbe la fine del centrodestra, con Fini costretto a correre fuori coalizione». Parole che fotografano la grandissima incertezza di Fini: sia fuori che dentro il Pdl, il Presidente della Camera si troverebbe comunque in una falsa posizione.

L’improbabile scenario di elezioni a breve spiazzerebbe anche la neonata Api. Nella prima assemblea nazionale del nuovo movimento Francesco Rutelli dall’Emilia ha detto: «Un fronte anti-Berlusconi? Scenario troppo futuribile». Rutelli immagina l’Api proiettato su tempi medio-lunghi: «Una forza di centro», che passando attraverso successive aggregazioni (cominciando con l’Udc) e parlando «ai delusi della destra e della sinistra», punti a diventare «la prima forza politica italiana».

La giornata conclusiva della Convention Api ha confermato, intanto, che il movimento sarà guidato da una leadership consolare: Bruno Tabacci, 30 applausi ottenuti in 32 minuti di intervento, è stato gratificato dai maggiori consensi della due giorni e Francesco Rutelli non ha oscurato il suo nuovo compagno di viaggio, dicendo tra l’altro: «Voglio fare l’allenatore più che il centravanti».

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI Nichi Vendola alle primarie del 2012
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 09:07:02 am
23/3/2010 (7:22)  - IL CASO

Ma la Roma papalina si scopre disincantata

Renata Polverini spera di catturare il voto cattolico

E la diocesi: «Niente propaganda spacciata per cattolica»

FABIO MARTINI
ROMA

A lei l’idea è piaciuta moltissimo.

E così, domenica 14 marzo poco prima delle tre del pomeriggio, Renata Polverini (candidata governatore del centrodestra nel Lazio) è apparsa tra gli spalti della curva Nord dello Stadio Olimpico. Gli «Irriducibili», gruppo di ultras della Lazio, l’hanno salutata con una certa simpatia e lei, per metterli a loro agio, ha pensato bene di sedersi a cavalcioni su un «muretto», consentendo ai fotografi di fermare per sempre quella immagine simpatizzante. Certo, vellicare i tifosi è ordinaria amministrazione per una certa tipologia di politici (il giorno in cui la Roma vinse il suo ultimo scudetto, lo juventino Walter Veltroni si fece vedere mentre sventolava un vessillo giallorosso), ma l’episodio è interessante per almeno due motivi. Fa capire come si cercano i voti nell’Italia del 2010.

E se si cercano anche così, l’episodio dell’Olimpico indirettamente contribuisce a rispondere ad una delle domande più intriganti che circondano la disfida elettorale nel Lazio: ma non è stato un azzardo per il centrosinistra candidare una vera laica come Emma Bonino, proprio nella Regione dove vive e predica il Papa e dove si trova la capitale mondiale del cattolicesimo? Quanto è destinato a pesare l’appello in zona Cesarini del cardinale Bagnasco contro i politici «abortisti»? Certo, nel Lazio (dove abita l’8,6% della popolazione italiana) opera una moltitudine senza eguali di suore (ben 18.123, il 22% di quelle presenti in Italia) e di religiosi (5.138, pari al 29,5%), in gran parte concentrati nel quartiere più cattolico del mondo, l’Aurelio, che qualcuno ha simpaticamente ribattezzato «Gran Pretagna».

Ma a ben guardare quegli istituti sono lì da secoli e il loro tradizionale orientamento verso il centrodestra non ha impedito ai progressisti di vincere ripetutamente in questa Regione. Più interessante è il voto di frontiera, quello delle parrocchie e delle associazioni. E qui spuntano tante sorprese. Nel Lazio parroci e vice-parroci sono pochi: 2.096, soltanto il 6,2% del totale nazionale. E anche i seminaristi scarseggiano: sono appena 362, il 7,7% del totale. Tracce di una certa freddezza del popolo cattolico romano si trovano nelle parole pronunciate dal capo della diocesi romana, il cardinale Agostino Vallini: «Roma vive tutte le difficoltà legate al tempo che viviamo, le vocazioni sono poche rispetto ai bisogni, la partecipazione alla messa ha una frequenza attorno al 20 per cento».

E così, divisa tra le due fazioni (quella vicina al Segretario di Stato Tarcisio Bertone e quella interventista fedele al cardinale Camillo Ruini) qualche giorno fa la Chiesa di Roma si è espressa sulle elezioni laziali con una Nota ufficiale del «bertoniano» Vallini. Non piace la Bonino («non si possono concedere deleghe a chi persegue altro progetto politico»), ma deplorando «ogni forma di propaganda elettorale, spacciata come sostenitrice della visione cattolica, ma che tale non è», il vicario ha lanciato il messaggio ai suoi parroci: meglio la Polverini, ma niente crociate, mobilitazioni nelle parrocchie, omelie orientate o volantinaggi come fu fatto in occasione dei referendum sulla procreazione assistita. Anche perché Roma è una città più laica di quel che si creda.

Lo dimostra un dato trascurato: proprio in occasione dei referendum sulla procreazione del 2005 (quelli che la Chiesa osteggiò invocando l’astensione), mentre a livello nazionale la partecipazione si fermò al 25,9%, a Roma andò a votare il 37,4% e i sì alla abrogazione della legislazione restrittiva erano stati 741.000, cifra assai rispettabile in termini assoluti. E l’approccio disincantato dei romani è confermato da un recente sondaggio della Ipsos: tra i «praticanti assidui» (quelli che vanno a messa tutte le domeniche), il 37% dice che voterà per la Bonino e il 30% per la Polverini. E dunque la partita si gioca soprattutto sui flussi di opinione e di potere. A Roma (dove vota il 70% degli elettori laziali) la sinistra ha governato la città per quasi 30 anni di seguito, costruendo un solido sistema di potere (da 2 anni incrinato da Alemanno sindaco) che quasi tutto controlla, appalti, municipalizzate, Regione, Provincia, sanità pubblica, oltre a quel «soft power» così tipicamente romano, lo sterminato indotto culturale, alimentato da associazioni e grandi enti (Cinecittà, la Rai,
l’Auditorium) nei quali la destra ha iniziato a penetrare da poco tempo.

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI Nichi Vendola alle primarie del 2012
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2010, 08:22:50 am
2/4/2010 (7:24)  - DEMOCRATICI - DOPO LE REGIONALI

Nichi Vendola alle primarie del 2012

Nichi Vendola, confermato governatore della Puglia

Il governatore pugliese vede Bersani e pensa di iscriversi alla corsa a Palazzo Chigi

FABIO MARTINI
ROMA

In queste ore per lui così complicate, una dei refrain che più irritano Pier Luigi Bersani è quello di una ipotetica Opa di Nichi Vendola sul Pd: «Ma una forza di quelle dimensioni - si è sfogato il segretario democratico - può mai immaginare di lanciare un’Opa su un grande partito come il nostro?». E ieri mattina, sia pure con quel suo approccio pragmatico, Bersani ha parlato di questo e di altro proprio con Vendola. Colloquio tenuto riservato, quello tra il leader del Pd e il personaggio più "trendy" del momento, ma la chiacchierata è servita a misurarsi la palla, a capire in che misura il neo-Governatore della Puglia possa essere interessato al "cantiere" che il segretario del Pd intende aprire a tutte le forze di sinistra.

Certo, Vendola non pensa ad un’Opa sul Pd ma a qualcosa di più realistico e al tempo stesso di più ambizioso, qualcosa che il Governatore si è ben guardato dal confidare a Bersani. Vendola si è imposto un traguardo: partecipare alle Primarie che nel 2012 - o prima se le cose dovessero precipitare - designeranno il candidato del centrosinistra alla guida del Paese. Dunque, Vendola ha deciso: sfiderà il candidato ufficiale del Pd, provando a ripetere il "miracolo pugliese". Stare "dentro" le Primarie nazionali è un obiettivo che Vendola ha deciso e pianificato: già in queste ore, i suoi uomini stanno avviando contatti informali con movimenti e partiti con un obiettivo esplicito, le Primarie del 2012.

Naturalmente le ambizioni di Vendola non rappresentano il primo dei problemi del Pd di Bersani. Certo, il risultato è stato deludente - e comunque così è stato percepito dalla maggioranza dell’opinione pubblica simpatizzante - ma finora la realtà del dopo-elezioni è stata allarmata, ma meno cruenta delle rappresentazioni date dai mass media, che hanno parlato di «assedio» e di «resa dei conti». Sintomatico il documento dei 49 senatori, inviato due giorni fa a Bersani, nel quale si invocava un generico "cambio di marcia". Il documento non è stato firmato dai senatori che da sempre contrappongono una linea alternativa alla segreteria Bersani (i "liberal" Morando, Tonini, Ceccanti, anche se l’aspetto più curioso della vicenda è che diversi dei firmatari ieri si sono fatti vivi col segretario per spiegarsi meglio, ridimensionare.

E la stessa intervista di Walter Veltroni a "la Repubblica" è ben argomentata nella denuncia dell’occasione persa (stavolta «i sondaggi davano in forte declino Berlusconi»), ma nell’invocare «un partito aggressivo e popolare», non si traccia ancora un’idea di partito veramente diversa. Ieri Bersani ha risposto ai critici, inviando una lettera ai segretari di circolo del partito: «Il Pd non è «fermo», ma «in piedi e ora deve accelerare» dopo un voto che ha creato «delusione» e una certa «disaffezione». Per rafforare il progetto del Pd non aiutano «dibattiti autoreferenziali che potrebbero allontanarci dal senso comune dei nostri concittadini».

Per il cantiere che vuole aprire a tutte le forze della sinistra, subito dopo Pasqua, Bersani si incontrerà anche con Riccardo Nencini, segretario del redivivo Psi, protagonista alle recenti Regionali di un exploit inatteso: i socialisti - dimostrando ancora un buon radicamento territoriale - sono riusciti ad eleggere 14 deputati regionali, uno in più della celebratissima Sinistra e Libertà di Vendola, sei in più della Federazione Prc-Pdci, per non parlare dei tre eletti dall’Api del duo Rutelli-Tabacci.

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Titolo: FABIO MARTINI. Scatta l'operazione Nichi Vendola
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2010, 10:44:16 am
29/4/2010 (7:6)  - RETROSCENA

Scatta l'operazione Nichi Vendola

Comincia la volata per le primarie Pd: con De Magistris, Santoro e Marino

FABIO MARTINI
ROMA

Se gli chiedi cosa voglia fare da grande, se un domani gli piacerebbe diventare il leader della sinistra italiana, Nichi Vendola risponde così: «Molti si preoccupano del mio futuro, ma io penso molto al tempo in cui potrò tornare a dedicarmi alla scrittura delle filastrocche e delle poesie». Una risposta alata, che tiene assieme la verità di una personale vocazione poetica, ma anche la bugia su una ambizione politica che c’è e che, per rispetto degli elettori pugliesi, per il momento è bene soffocare. Nichi Vendola lo sa bene: dopo la vittoria in Puglia, regione proverbialmente di destra, lui è l’unico personaggio della sinistra italiana al tempo stesso nuovo, vincente e con qualcosa da dire che non sia il consueto ritornello anti-berlusconiano.

Proprio per questi motivi dietro le quinte - su impulso di Vendola ma anche per iniziativa di personaggi "insospettabili" - c’è un gran tramestio per trasformare il feeling tra il Governatore delle Puglie e una parte dell’opinione pubblica in una vera e propria "Operazione Nichi". L’obiettivo strategico sono le Primarie che il centrosinistra dovrebbe svolgere nel 2012 per scegliere il proprio leader alle Politiche. Ma a prescindere da una competizione popolare che per ora è soltanto molto probabile, intanto si sta lavorando per un primo evento nazionale che dia il là ad una nuova area politica. Nella partita c’è già il professor Ignazio Marino, pericoloso cavallo di Troia in casa Pd, se non altro per la sua capacità di parlare all’area più irrequieta della base democratica. C’è Luigi De Magistris, l’ex pm che si è iscritto all’Idv ma che non perde occasione per distinguersi da Antonio Di Pietro.

Ma soprattutto - ecco la sorpresa - indaffaratissimo a far lievitare l’operazione è Michele Santoro, leader di un cospicuo "partito" di opinione chiamato "Anno Zero". L’idea alla quale si sta lavorando è una "convention" da tenersi a Firenze a fine maggio, con i riflettori puntati su quattro personaggi: Vendola, Marino, De Magistris e Santoro. Certo, il format potrebbe subire qualche modifica, ma attorno al nascente "vendolismo" c’è un grande attivismo. A 59 anni Michele Santoro sta rinfrescando - o travestendo? - la sua inossidabile vocazione a far politica, provando tra l’altro a favorire un "cambio di stagione" al "Manifesto". In redazione raccontano che a Santoro non dispiacerebbe un cambio di direzione - stima molto Norma Rangeri, che infatti è spesso ospite di "Anno Zero" - e che potrebbe favorire l’ingresso di nuovi soci nella cooperativa che edita il giornale.

Tra quelle che potrebbero rivelarsi fantasie di corridoio, c’è anche l’ipotesi di un Santoro editorialista di un "Manifesto" impegnato a sostenere l’"Operazione Nichi". E Vendola? Quanto feeling c’è tra lui e ognuno dei puntuti compagni di strada che lo stanno affiancando? Prima delle Regionali, Vendola aveva accettato l’invito di Luigi De Magistris a presentare il libro dell’ex Pm. E in quella occasione erano emerse serie differenze tra il giustizialismo a tutto tondo di De Magistris e l’approccio anticonformista di Vendola. Soprattutto quando il Governatore aveva sfidato un pubblico di ben altri sentimenti, parlando bene di Bettino Craxi: «Non si può ridurre la sua vita politica ad una vicenda giudiziaria», fece bene a dire di no agli americani a Sigonella, ma anche a «far di tutto per salvare Aldo Moro, perché niente vale di più della vita umana».

E Vendola è personaggio che non si lascia incasellare neppure nell’anticlericalismo di maniera di certa sinistra. Eccolo partecipare l’altro giorno alla processione della Madonna di Terlizzi, ma anche spiazzare tutti quando - nei giorni in cui il Vaticano sopportava lo scandalo pedofilia - Vendola ha confessato al "Corriere della Sera": «E’ stato forse più facile dire la mia omosessualità alla Chiesa che al partito». Ma ciò che lo rende diverso dai suoi compagni di strada è la sua idea-forte: «Il berlusconismo è una egemonia culturale, la capacità di proporre sogni, è stato un errore tragico demonizzarlo. Per batterlo non serve un Berlusconi rosso, bravo a comunicare, ma bisogna indicare al Paese le strade di uscita dalla crisi».

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Titolo: FABIO MARTINI Viaggio nella pancia dei Democratici
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2010, 11:33:36 am
17/6/2010 (7:40)  - INCHIESTA

Il nuovo Partito democratico e la generazione dei giovani-vecchi

Viaggio nella pancia dei Democratici

FABIO MARTINI

A lui ritrovarsi in dote quel cognome così blasonato - Letta - sarà pur servito a qualcosa. A lei è capitato un cognome anonimo - Serracchiani - al quale tuttavia è riuscita a conferire una certa celebrità. Enrico Letta e Debora Serracchiani sono due quarantenni tra loro diversissimi, non solo nei natali, ma per storia politica, carattere, immagine. Eppure c'è qualcosa che li rende uguali come due gemelli, qualcosa che evoca il destino di una intera generazione: due rifiuti a diventare adulti, pronunciati - riservatamente e in tempi diversi - davanti ai propri amici. Un anno fa Debora viveva un momento di grazia: a "Ballarò" il suo mix - viso dolce e battuta tagliente - aveva bucato il video e alle Europee la Serracchiani aveva ricevuto una valanga di preferenze, più di Bossi in tutto il Nord-est. E lei si era presa sul serio, al punto da raccontarsi così su un libro per la Bur: “Era il primo giorno di primavera quando sono salita sul palco del Pd”, “i delegati, stanchi delle chiacchiere della loro nomenclatura, hanno appalaudito fragorosamente proprio me, "è stato un battito d'ali", che si è trasformato "in qualcosa di molto più grande", tale da "generare un'onda d'urto che è riuscita a scuotere dal suo torpore un intero partito".

Bene, era giunta l'ora di dar seguito a quelle parole alate: la sera del 27 giugno al ristorante «Tre galli» di Torino i quarantenni più combattivi, Paola Concia, Pippo Civati, Sandro Gozi chiedono a Debora di «metterci la faccia», di candidarsi alle Primarie del Pd, di sfidare la nomenclatura. Ma lei li aveva freddati: «Vi ringrazio, ma penso che Franceschini voglia rompere con un vecchio modo di far politica, bisogna profittarne» e «provarci la prossima volta». Un mese più tardi sarebbe uscito il libro di Debora. Titolo: «Il coraggio che manca».
Ma lei si riferiva alla nomenclatura. Diverse settimane prima, agli amici che gli chiedevano di candidarsi alla successione di Walter Veltroni, Enrico Letta aveva confidato: «E’ inutile che mi chiedete di andarmi a schiantare. Io non credo alla competizione, in questo partito si va avanti con gli accordi». Serracchiani e Letta, così diversi e così uguali, uniti dalla comune ritrosia a metterci la faccia e le idee. Il destino di una intera generazione di trenta-quarantenni. Ma da 15 anni comandano sempre gli stessi. Basta guardare le foto di gruppo del 1996-98, il biennio del primo governo progressista della storia. Leader e notabili di oggi sono già tutti lì: Bersani, Veltroni e la Finocchiaro erano ministri, D'Alema era segretario del Pds, Letta e Franceschini erano vicesegretari del Ppi. E gli attuali leader progressisti del mondo? Nel 1996 erano dei signor-nessuno. Obama avrebbe dovuto aspettare otto anni prima di diventare senatore dell'Illinois, Zapatero era un anonimo deputato del Psoe, mentre David Miliband (il favorito nella corsa alla leadership laburista inglese) non era ancora entrato nella Camera dei Comuni.

Inseguiti oramai da definizioni caricaturali («fallofori in processione» per il sindaco di Salerno De Luca) e da inviti perentori (il «cacciateli a calci» gli attuali dirigenti di Romano Prodi), i “giovani” del Pd a parole annuiscono: «Il consiglio di Prodi è benvenuto», dice Pippo Civati. Ma il “papà” dell’Ulivo, Arturo Parisi, non ci crede: «Per preservare l’unità dell’azionista di riferimento Ds, il nuovo partito è stato fatto nascere in continuità col passato e sul principio unanimistico. In questo contesto il ricambio è affidato per cooptazione ai vecchi, che riconoscono come affidabili soltanto i giovani-vecchi, individuati per la loro maturità precoce». E dunque i trenta-quarantenni, anche brillanti e preparati, si trovano ad utilizzare tre diversi tipi di ascensore. C’è chi preferisce stare sempre in maggioranza. Il segretario del Pd lombardo, Maurizio Martina, 31 anni, bergamasco, era veltroniano sotto Veltroni, è diventato bersaniano con Bersani. Andrea Orlando, 41 anni, di La Spezia, era il portovoce del Pd di Veltroni, ma ora è il responsabile (bersaniano) della Giustizia.
Poi ci sono quelli che crescono all’ombra di un leader e non si spostano mai, come Matteo Orfini, 35 anni, romano, braccio destro di D’Alema. Si può diventare politici di razza, restando nella segreteria di un leader? «Lavorare per due anni a palazzo Chigi è stato per me enormemente formativo e lo stesso vale per chi lavora negli enti locali. Prodi? Un po’ superficiale. Diceva Gramsci che non si può accreditare sé stessi, negando il valore della generazione precedente e d’altra parte non è rinnovamento, ma subalternità dire quel che vogliono i giornali e tv».

Ma il terzo ascensore è proprio la tv, andarci e parlare bene, come fanno Civati e la Serracchiani. Ma d’altra parte, in un partito poco strutturato come il Pd, chi trovasse la forza di dar calci, non rischierebbe di trovare il vuoto?

In fondo l’ultima segreteria che ha prodotto giovani tosti non era quella del Pci finale? «E’ così - sostiene un ex come Emanuele Macaluso - Natta volle D’Alema, Occhetto, Fassino, Bassolino, Turco, Mussi. Furono poi loro a mettere in un canto Natta malato e a mettersi loro...».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201006articoli/55970girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI. In Parlamento torna lo spettro di Turigliatto
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2010, 11:13:23 am
1/8/2010 (7:35)  - IL CASO

In Parlamento torna lo spettro di Turigliatto

Con la fuoriuscita dei finiani dal gruppo del Pdl la maggioranza è a rischio al Parlamento

L'ex premier Prodi: «Difficile immaginare che finisse così»


FABIO MARTINI
ROMA

Dall’eremo del silenzio nel quale si è rinchiuso da due anni e mezzo, Romano Prodi non sorride ma annota: «Dopo tutto quello che hanno detto e fatto, era difficile immaginare che si sarebbero ritrovati a questo punto...». Il Professore non aggiunge altro, con la politica attiva ha chiuso, ma anche per lui è difficile restare insensibile al più inatteso dei «déjà-vu»: d’ora in poi il governo Berlusconi - proprio come il governo Prodi nella sua fase finale - sarà costretto ogni giorno a contrattare il voto con singoli e gruppetti. Con una differenza: all’indomani delle elezioni Romano Prodi si trovò a governare, al Senato, con una maggioranza di un solo voto, mentre il governo Berlusconi, anche grazie a un consenso elettorale più largo, si è ritrovato in dote un margine di assoluta sicurezza: 31 voti alla Camera e 18 al Senato.

Ma ora quel vantaggio si è azzerato. I «finiani» sono stati espulsi dal Pdl ma hanno costituito alla Camera un gruppo parlamentare così forte (34 deputati) da risultare determinante: senza i loro voti, il governo va «sotto». E dunque, d’ora in poi, i gruppi parlamentari del Pdl saranno costretti a trattare su ogni singolo provvedimento anzitutto con i «finiani», ma anche con i 5 deputati vicini al Governatore di Sicilia Lombardo, con l’Udc, con l’Api di Rutelli, con gli onorevoli senza fissa dimora che pullulano a Montecitorio. Col risultato che per Berlusconi si profila una paradossale sindrome Turigliatto, il senatore comunista che tre anni fa, manifestando una improvvisa dissidenza dal Prc, diventò il simbolo delle peripezie del governo Prodi.

Ricorda il professor Giampaolo D’Andrea, «sottosegretario al Senato» del governo Prodi: «Per noi, soprattutto nella fase finale, era diventato faticosissimo rincorrere gruppi e gruppetti, Turigliatto e Rossi, Bordon e Manzione, gli amici di Dini. Uno stillicidio dei singoli ma non c’era un dissidio politico organizzato: con Rifondazione era dura, ma fatto un accordo, poi la questione era chiusa. Paradossalmente per il centrodestra si profila più dura: noi dovevamo tenere la nostra risicatissima maggioranza, loro la devono allargare». In effetti la rissosa Unione, tenuta assieme dalla pazienza del premier e dalla cucitura quotidiana degli sherpa, non ebbe mai problemi alla Camera, dove vantava margini più ampi, ma dove non si manifestò mai una dissidenza politica. Al Senato invece al margine risicatissimo (seppur ampliato di volta in volta dai senatori a vita), si sommarono tanti problemi, prodotti dai singoli: la decisione di Franco Marini di non rinunciare alla poltrona di presidente del Senato, abbassando così il «monte» del centrosinistra; il forfait del senatore Sergio De Gregorio; la dissidenza sempre più organica di Franco Turigliatto, già militante della Lega Comunista Rivoluzionaria e poi eletto come senatore nelle liste del Prc; il continuo rialzare il prezzo da parte di Lamberto Dini e di singoli, colpiti da improvvise crisi di coscienza.

Quel «corpo a corpo» è replicabile? Su singoli provvedimenti, come avvenuto con la rutelliana Api sulla riforma universitaria, il governo può immaginare di ottenere appoggi ogni volta diversi? Insomma, sono praticabili maggioranze a geometria variabile? Bruno Tabacci - capofila dell’Api alla Camera, da anni uno dei pochi leader parlamentari trasversali - non lascia spazi: «Noi stiamo all’opposizione e non siamo disponibili a giochetti. Casini? Non credo che voglia fare il Mastella della situazione, con tutto il rispetto per Pier e per Clemente. In questi giorni è accaduto qualcosa di importante: la golden share della maggioranza è passata dalla Lega al gruppo di Fini e dunque quello che potrà accadere è l’esatto contrario di quel che sperano a Palazzo Chigi: gruppi come il nostro e come l’Udc tenderanno a cercare un raccordo parlamentare con Fini, ma non con un governo che sembra entrato nella sua fase conclusiva».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57235girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI -
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2010, 08:58:03 am
3/9/2010 (7:25)  - LA STORIA

Gianfranco torna a casa per ritrovare il suo popolo

A Mirabello, dove nacque sua madre e Almirante lo designò

FABIO MARTINI
ROMA

Mirabello, paesino dal nome panoramico, è rimasto anche l’ultimo luogo dell’anima per la destra italiana. Per trenta anni in questo piccolo centro nell’entroterra Ferrarese, intere generazioni di camerati sono venute a far festa, a prendere ordini, a cullare nostalgie.
Qui, si sentiva a casa sua Giorgio Almirante, il più carismatico dei duci missini, che quando si sentì mancare le forze, volle venire alla festa del 1987: senza alzarsi, restando seduto, con la mano destra tremante, designò come suo delfino uno spilungone di 35 anni, l’emiliano Gianfranco Fini.

A Mirabello, per più di venti anni, si sono sentiti a casa loro capi e capetti che ogni anno facevano un bagno di militanza alla festa tricolore che segnava il riavvio della stagione. Per tutti gli ex An, il legame è rimasto così forte con la tradizione e con la memoria che qualche settimana fa, quando i finiani locali hanno preteso di appropriarsi della festa, un vecchio frequentatore di Mirabello come Ignazio La Russa ha fatto di tutto perché la kermesse restasse in casa Pdl. Invano: Mirabello, al via due giorni fa, oramai è diventata la festa di Futuro e libertà.

Ma qui, più di tutti, si è sempre sentito a suo agio Gianfranco Fini. Perché Mirabello è casa sua, qui ci sono le sue radici. In questo paesino, ottantacinque anni, fa era nata sua mamma, Danila Mariani. Diventata grande, la Danila si era sposata con Sergio Fini ed è proprio con la nascita del loro primo figlio, il 3 gennaio del 1952, i due compiono una scelta simbolica. I genitori decidono di chiamare quel bimbo in fasce Gianfranco, in ricordo di un giovanissimo parente, sette anni prima inghiottito senza un perché nelle vendette partigiane del triangolo rosso.

Nel 1945, l’Emilia era restata spezzata in due dalla linea Gotica, pezzi di famiglie da una parte, brandelli dall’altra. Finita la guerra, il ventenne Gianfranco Milani parte da Bologna verso Monghidoro alla ricerca dei parenti dispersi, li ritrova, torna felice verso casa, ma prima di rientrarvi - sospettato di essere parente di fascisti - viene fatto scomparire. Mai più ritrovato. Gianfranco Fini deve il suo nome a quel ragazzo.

Negli anni dell’infanzia il futuro leader missino cresce tra Bologna, Rivabella, una località balneare a buon mercato vicino Rimini e la campagna di Mirabello, dove spesso lo riporta la mamma, «una emiliana a sangue freddo», come ricorda il figlio, per via di quella misura nelle parole che la facevano così diversa dal marito. Il padre di Fini era invece un bolognese gioviale, corpulento, un vero mangiapreti, volontario della “X Mas”, ma che nel corso degli anni si era moderato. Nel bel libro «Duce addio», raccontò di aver votato socialdemocratico e di essere stato amico di Luigi Preti, che mandava a casa Fini «lettere scritte con la stilografica e l’inchiostro verde». Ma in quegli anni a Bologna, missino o socialdemocratico poco cambiava, papà Sergio, in casa era «la pecora nera», perché la famiglia Fini era una famiglia di comunisti.

Come lo zio Aurelio, iscritto al Pci bolognese dal 1959. Per dirla alla Pennacchi, quella di Fini è stata, a suo modo, una famiglia «fasciocomunista». Un tratto che ritorna anche nel racconto di Enrico Brandani, capogruppo Pdl a Ferrara, uno che c’era dall’inizio: «Oggi sembra tutto facile, ma 29 anni fa era durissima fare una festa nell’Emilia rossa. E poi quelli erano gli anni di piombo, mica si scherzava. Poi, ci siamo organizzati e, quest’anno devo riconoscerlo, una mano ce l’ha data l'amministrazione comunale di centrosinistra».

E le radici emiliane di Mirabello, Fini non le ha mai tagliate. Qui, a partire dal 1981, veniva Almirante ad aprire la stagione politica, qui Fini è tornato ogni anno e l’anno scorso ha pronunciato un discorso auto-profetico. Erano i giorni in cui "Il Giornale" di Feltri tambureggiava contro il direttore di "Avvenire" e Fini, dalla tribuna di Mirabello, dopo essersi scagliato contro il Pdl ridotto «ad una casermetta», parlò di «clima da killeraggio», perché se si tenta di demolire la persona si arriva all’ordalia, agli Orazi e Curiazi». E dal palco di Mirabello, dopodomani alle 6 della sera, Fini pronuncerà un discorso che forse è diventato il più atteso della sua lunga carriera. Ieri sera, uscendo da Montecitorio, uno dei suoi uomini più fidati aveva ritrovato il sorriso: «Dopo i giorni difficili e anche un po' deprimenti di Ansedonia, Gianfranco è tornato aggressivo e in palla, come ai bei tempi».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58183girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI - Fini pronto al nuovo partito
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 09:32:09 am
4/9/2010 (7:22)  - CENTRO-DESTRA

Fini pronto al nuovo partito

Domani alle 18, da Mirabello, l'atteso discorso di Fini
   
Il giornale dei vescovi rimanda la Gelmini: ricetta da verificare

FABIO MARTINI
ROMA

Scrive. Rilegge. Corregge. Riscrive. Cancella. E’ tormentata la stesura del discorso che Gianfranco Fini, tra casa e ufficio, sta preparando per la conclusione della festa di "Futuro e libertà", fissata domani alle sei della sera in uno spiazzo di Mirabello, paesino a due passi da Ferrara. All’età 58 anni, dopo 35 trascorsi intensamente a far politica, colui che per la storia resterà l’ultimo duce della destra italiana, si ritrova a preparare l’esternazione più attesa e forse più importante della sua vita. Ieri il presidente della Camera è tornato nella villa presa in affitto ad Ansedonia per proseguire un lavoro destinato a durare rispetto alle abitudini: Fini appartiene alla scuola dei grandi oratori di piazza, il suo maestro resta Giorgio Almirante, ma stavolta cesellerà fino all’ultimo istante i passaggi più delicati.

Il metodo, quello di sempre. Fini ha ascoltato in silenzio i consigli e le sensazioni degli amici (Italo Bocchino, Silvano Moffa, Adolfo Urso), degli intellettuali di cui si fida (Alessandro Campi), dei collaboratori più stretti (Fabrizio Alfano), di chi lo aiuta nella stesura dei discorsi (Aldo Di Lello). Ha chiesto qualche contributo a chi se ne intende di diritto (Giulia Bongiorno), di economia (Mario Baldassarri), ma poi sarà lui a mixare il tutto. E ad aggiungere lo spin, l’effetto speciale capace di muovere le emozioni. Perché Fini lo sa bene: la cifra politica dell’evento sarà un’alchimia, una miscela tra le sue parole e la reazione della sua gente sui temi cruciali: Silvio Berlusconi e la legalità. Per l’effetto finale, fischi e applausi potrebbero pesare più di tante parole.

Per questo motivo il toto-discorso che tanto agita giornali e tv è un esercizio in buona parte sterile. Certo, Fini ha già fissato gli assi portanti del suo discorso. Dirà il presidente della Camera: io rivendico di essere uno dei due co-fondatori del Pdl; sono stato e, da presidente della Camera, resto il vice-leader del centrodestra. Ma mi sono battuto e - ecco il punto centrale del suo discorso - continuerò a battermi, con le mie idee su alcuni temi: la legalità ma non solo. E ancora: da laico mi rivolgo al mondo cattolico perché condivido l’idea di una politica pulita, la centralità della persona, l’attenzione agli ultimi. E gli schiaffi ricevuti da Berlusconi e dal suo giornale di famiglia? Su questo piano Fini ha già fatto sapere che sarà «molto netto».

Ma alla fin fine, l’attesa ruota attorno all’enigma: il presidente della Camera annuncerà la nascita di un partito diverso dal Pdl? Quanto durerà l’ipocrisia di un gruppo parlamentare che aderisce solo formalmente ancora al Pdl? Il professor Alessandro Campi, direttore scientifico del finiano think-tank "Farefuturo" (che è cosa diversa dallo scoppiettante giornale on-line) fa queste previsioni: «Fini ribadirà, una volta per tutte, la diversità della sua impostazione su questioni di metodo, contenuto e stile politico. E esponendo la sua idea di Italia chiarirà i contorni della "destra nuova" cresciuta in questi mesi. E avvierà un percorso. L’annuncio della nascita di un partito è un fatto organizzativo, ma per come si sono messe le cose, il partito verrà da sè». Italo Bocchino, braccio destro di Fini, è altrettanto chiaro: «Fini farà chiarezza, non annuncerà la nascita di un nuovo partito, ma non tornerà indietro. Un intervento rilevante, non traumatico ma dopo il quale il Pdl non sarà più uguale a quello di prima». Come dire: fra qualche settimana, o mese, accanto al Pdl, ci sarà anche il partito di Fini.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58211girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI. Insieme alle urne, Pd e comunisti cercano l'accordo
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2010, 12:30:11 pm
7/9/2010 (7:40)  - OPPOSIZIONE, LE STRATEGIE

Insieme alle urne, Pd e comunisti cercano l'accordo

Ma in caso di vittoria niente esecutivo per Prc e Pdci

FABIO MARTINI
ROMA

Una stretta di mano tra compagni vale più di un accordo sottoscritto davanti al notaio. Venerdì 27 agosto poche ore dopo aver lanciato la proposta del “Nuovo Ulivo”, il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha avuto due colloqui. Con Paolo Ferrero, leader della Rifondazione comunista e con Oliviero Diliberto, segretario del Pdci e ad entrambi ha spiegato come ha in mente di rimetterli in gioco: nel caso molto probabile in cui la legge elettorale non dovesse cambiare, il Pd è pronto a stringere una alleanza elettorale con i due partiti comunisti, che a loro volta però dichiareranno di non voler partecipare ad un (eventuale) governo di centrosinistra.

Una proposta che Ferrero e Diliberto hanno sottoscritto immediatamente: per il loro elettorato tornare al governo è vissuto come uno spauracchio, ma rientrare il prima possibile in Parlamento è invece una sorta di panacea per due partiti che finanziariamente sono sull’orlo del collasso. Quasi tutti i funzionari sono stati messi in cassa integrazione, il quotidiano «Liberazione» è a rischio di chiusura a breve, Paolo Ferrero si è autosospeso il contributo-stipendio e si è rimesso a lavorare alla Regione Piemonte. E che i due partiti comunisti gradiscano assai il patto proposto loro dal Pd lo dimostra il fatto che, senza fare accenno al patto con Bersani, Paolo Ferrero abbia subito diffuso una dichiarazione favorevole: «Condividiamo la proposta di dar vita ad un’Alleanza democratica per sconfiggere Berlusconi».

Un’intesa che non è stata formalizzata e non lo sarà fino a quando non si entrerà nella stagione elettorale. Soltanto allora si entrerà nei dettagli e si studieranno gli escamotages, a cominciare dal più serio: i comunisti, ammesso e non concesso che la sinistra vinca le prossime elezioni, pur stando fuori, appoggeranno l’eventuale governo? Per ora una ideale stretta di mano è sufficiente, ma l’effetto di questo patto informale equivale ad una piccola rivoluzione copernicana: rimette in gioco due partiti con i quali il Pd aveva deciso di non allearsi più in nome della opzione riformista e dell’abbandono di ogni tentazione massimalista.

Una scelta assunta prima delle Politiche del 2008 e dopo la quale i partiti comunisti hanno subito tre batoste elettorali consecutive. Ma Bersani, letti e riletti i dati elettorali, si è deciso a fare la prima mossa. In base ad un calcolo pragmatico. Certo, Prc e Pdci (ora riuniti nella Federazione della Sinistra) negli ultimi 4 anni hanno drasticamente ridotto il proprio peso elettorale. Nel 2006, anno della vittoria dell’Unione di Prodi, il Prc era stato votato da 2 milioni e 300mila elettori (pari al 5,8%), mentre al Pdci erano andati 884mila suffragi, il 2,3%. Totale l’8,1%.

Ma nel 2008, dopo una partecipazione al governo vissuta con senso di colpa e senza mai rivendicare i risultati ottenuti (ritiro delle truppe dall’Iraq, abolizione dello «scalone»), si era determinato un tracollo elettorale e il cartello della Sinistra Arcobaleno (Verdi compresi) aveva ottenuto 1 milione e 124 voti, tutti assieme precipitando al 3,1%. Subito dopo, Nichi Vendola aveva lasciato Rifondazione, fondando la Sel, mentre i comunisti più radicali avevano proseguito la discesa elettorale, ottenendo il 3,4% alle Europee 2009 e il 2,7% alle Regionali 2010. Ma al Pd hanno fatto i conti: la somma dei voti dei comunisti «buoni» e di quelli «cattivi» supera il 6% e persino nel terribile 2008, soltanto con metà di quella percentuale, il centrosinistra avrebbe conquistato diverse regioni andate al centrodestra, compreso il Lazio, col suo ricco «premio».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58304girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI Esplode la rabbia di Fini "Complotto contro di noi"
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 10:18:42 am
23/9/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Esplode la rabbia di Fini "Complotto contro di noi"

«Stop al dialogo sul Lodo Alfano», e sospetta il ruolo dei servizi

FABIO MARTINI
ROMA

I suoi lo guardano angosciati. Raramente lo avevano visto così nero. Sono le 10 del mattino, Gianfranco Fini ha riunito nel suo studio di Montecitorio i deputati a lui devoti per decidere il da farsi sul caso-Cosentino, ma la lettura mattutina del “Giornale”, quotidiano della famiglia Berlusconi, ha cambiato l’umore del capo e stravolto l’ordine del giorno. Non si parla più di Cosentino, ma della casa di Montecarlo e dell’ultima puntata proposta dal giornale. Fini è meno gelido del solito, l’ira è calda: «Ma avete letto? Questo è un falso! Ma è un falso fatto così bene che... queste cose le fanno soltanto i Servizi!», «è una porcheria». E da queste premesse, la conclusione politica è drastica: «Ora basta!». Nella sua requisitoria, pronunciata in piena libertà nel chiuso di uno studio, Fini ripeterà più volte il concetto della “patacca” e del dossieraggio organizzato, ma, a sostegno della sua tesi nessuno dei presenti gli sentirà pronunciare il nome di almeno un personaggio altolocato che gli abbia indicato la prova di un’operazione costruita a tavolino. E d’altra parte, per quanto informalissima, non è certo quella la sede per rivelare le proprie fonti. Eppure, quella sfuriata di Fini contro i “Servizi” cambierà il corso della giornata. E forse anche della legislatura.

Nello studio del Presidente, anzitutto, viene ribaltata una precedente decisione sul caso-Cosentino. La sera prima dopo una discussione con i suoi nuovi “colonnelli”, Fini aveva deciso che l’indomani ci si sarebbe astenuti sulla richiesta dei magistrati. Un modo per tenere unito il gruppo: diversi deputati avevano storto la bocca davanti all’ipotesi di votare sì assieme all’opposizione. Ma ieri mattina, anche quella decisione presa la sera prima, viene travolta dalla lettura del “Giornale”. Che pubblica un articolo, basato su fonti di Santo Domingo, che cerca di dimostrare come Giancarlo Tulliani, il “cognato” di Fini, non sia soltanto l’affittuario ma il vero padrone della casa di Montecarlo. Il presidente della Camera è furibondo e dunque propone il “contrordine compagni”: la sua proposta ai deputati lì convenuti, è quella di rinunciare all’astensione e di votare sì alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni di Cosentino. Tra i presenti i mal di pancia restano sotto il tavolo, ma non mancano. E qualche ora più tardi quelle incertezze si scaricano nel segreto dell’urna. Impossibile stabilire quanti finiani abbiamo votato no alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni, ma alla fine la stima più accreditata - sentendo gli stessi finiani - è che siano stati in 5-6 a disattendere le indicazioni del capo.

E i malumori si concretizzano all’ora di pranzo, quando i “futuristi” (senza Fini) si rivedono. Italo Bocchino dà la linea: «Con Berlusconi è rottura totale, fino al suo discorso del 29 settembre si interrompe ogni trattativa sulla giustizia», anche se le trattative per accelerare l’approvazione del lodo Alfano erano a buon punto. E’ come dire che da oggi fino a nuovo ordine, i “futuristi” non sono più in maggioranza. In pubblico e in privato alcuni finiani - Silvano Moffa, Pasquale Viespoli - spiegano le proprie perplessità, la linea della rottura totale non li persuade. Anche perché, sostengono le “colombe”, c’è un salto logico, lo stesso che fa notare Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl: «Condizionare il confronto sulla giustizia alla cessazione di inchieste giornalistiche è ricattorio».

Ma Fini è convinto: se il governo ha organizzato un’azione di dossieraggio, ogni rappresaglia politica è lecita. Assieme ai suoi fedelissimi, il presidente della Camera ha riassunto i punti oscuri della vicenda che compariranno nel numero di oggi del “Secolo d’Italia”, a firma di Flavia Perina. «E’ vero o no che, come ha scritto “Libero”, c’è un rapporto personale tra Berlusconi e il primo ministro di Santa Lucia “che deve far tremare Fini”? E’ vero, come ha scritto il Giornale che agenti dei Servizi sono stati inviati a Santa Lucia?». Ma che si siano esaurite le scorte di reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini lo conferma anche una frase arrivata alle orecchie del premier e che il presidente della Camera avrebbe pronunciato sul volo di ritorno da Zagabria: «Anche se fosse la mia ultima legislatura, io devo liberare l’Italia da questo personaggio».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58784girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI - Esplode la rabbia di Fini "Complotto contro di noi"
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 05:06:40 pm
23/9/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Esplode la rabbia di Fini "Complotto contro di noi"

«Stop al dialogo sul Lodo Alfano», e sospetta il ruolo dei servizi

FABIO MARTINI
ROMA

I suoi lo guardano angosciati. Raramente lo avevano visto così nero. Sono le 10 del mattino, Gianfranco Fini ha riunito nel suo studio di Montecitorio i deputati a lui devoti per decidere il da farsi sul caso-Cosentino, ma la lettura mattutina del “Giornale”, quotidiano della famiglia Berlusconi, ha cambiato l’umore del capo e stravolto l’ordine del giorno. Non si parla più di Cosentino, ma della casa di Montecarlo e dell’ultima puntata proposta dal giornale. Fini è meno gelido del solito, l’ira è calda: «Ma avete letto? Questo è un falso! Ma è un falso fatto così bene che... queste cose le fanno soltanto i Servizi!», «è una porcheria». E da queste premesse, la conclusione politica è drastica: «Ora basta!». Nella sua requisitoria, pronunciata in piena libertà nel chiuso di uno studio, Fini ripeterà più volte il concetto della “patacca” e del dossieraggio organizzato, ma, a sostegno della sua tesi nessuno dei presenti gli sentirà pronunciare il nome di almeno un personaggio altolocato che gli abbia indicato la prova di un’operazione costruita a tavolino. E d’altra parte, per quanto informalissima, non è certo quella la sede per rivelare le proprie fonti. Eppure, quella sfuriata di Fini contro i “Servizi” cambierà il corso della giornata. E forse anche della legislatura.

Nello studio del Presidente, anzitutto, viene ribaltata una precedente decisione sul caso-Cosentino. La sera prima dopo una discussione con i suoi nuovi “colonnelli”, Fini aveva deciso che l’indomani ci si sarebbe astenuti sulla richiesta dei magistrati. Un modo per tenere unito il gruppo: diversi deputati avevano storto la bocca davanti all’ipotesi di votare sì assieme all’opposizione. Ma ieri mattina, anche quella decisione presa la sera prima, viene travolta dalla lettura del “Giornale”. Che pubblica un articolo, basato su fonti di Santo Domingo, che cerca di dimostrare come Giancarlo Tulliani, il “cognato” di Fini, non sia soltanto l’affittuario ma il vero padrone della casa di Montecarlo. Il presidente della Camera è furibondo e dunque propone il “contrordine compagni”: la sua proposta ai deputati lì convenuti, è quella di rinunciare all’astensione e di votare sì alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni di Cosentino. Tra i presenti i mal di pancia restano sotto il tavolo, ma non mancano. E qualche ora più tardi quelle incertezze si scaricano nel segreto dell’urna. Impossibile stabilire quanti finiani abbiamo votato no alla richiesta dei magistrati di poter utilizzare le intercettazioni, ma alla fine la stima più accreditata - sentendo gli stessi finiani - è che siano stati in 5-6 a disattendere le indicazioni del capo.

E i malumori si concretizzano all’ora di pranzo, quando i “futuristi” (senza Fini) si rivedono. Italo Bocchino dà la linea: «Con Berlusconi è rottura totale, fino al suo discorso del 29 settembre si interrompe ogni trattativa sulla giustizia», anche se le trattative per accelerare l’approvazione del lodo Alfano erano a buon punto. E’ come dire che da oggi fino a nuovo ordine, i “futuristi” non sono più in maggioranza. In pubblico e in privato alcuni finiani - Silvano Moffa, Pasquale Viespoli - spiegano le proprie perplessità, la linea della rottura totale non li persuade. Anche perché, sostengono le “colombe”, c’è un salto logico, lo stesso che fa notare Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl: «Condizionare il confronto sulla giustizia alla cessazione di inchieste giornalistiche è ricattorio».

Ma Fini è convinto: se il governo ha organizzato un’azione di dossieraggio, ogni rappresaglia politica è lecita. Assieme ai suoi fedelissimi, il presidente della Camera ha riassunto i punti oscuri della vicenda che compariranno nel numero di oggi del “Secolo d’Italia”, a firma di Flavia Perina. «E’ vero o no che, come ha scritto “Libero”, c’è un rapporto personale tra Berlusconi e il primo ministro di Santa Lucia “che deve far tremare Fini”? E’ vero, come ha scritto il Giornale che agenti dei Servizi sono stati inviati a Santa Lucia?». Ma che si siano esaurite le scorte di reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini lo conferma anche una frase arrivata alle orecchie del premier e che il presidente della Camera avrebbe pronunciato sul volo di ritorno da Zagabria: «Anche se fosse la mia ultima legislatura, io devo liberare l’Italia da questo personaggio».

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Titolo: FABIO MARTINI - Dimissioni spontanee la tentazione di Fini
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2010, 09:26:25 am
27/9/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Dimissioni spontanee la tentazione di Fini

Per marcare la differenza dal rivale e tenere uniti i suoi

FABIO MARTINI
ROMA

Per ora è un rovello, uno di quei pensieri che ronzano in testa, senza prendere concretezza. Il tarlo di Gianfranco Fini si riassume in una serie di domande. Che il leader di Montecitorio si è fatto l’altra sera assieme ai suoi più stretti collaboratori, prima e dopo aver registrato l’ormai celebre videomessaggio: «E se mi dimettessi io, autonomamente? Anche se non ho colpe, non sarebbe la prova provata di uno stile profondamente diverso da quello di Berlusconi? E a quel punto, non sarei più libero?». Un rovello interiore che potrebbe diventare una decisione, un annuncio clamoroso, spiazzante: le dimissioni di Gianfranco Fini da presidente della Camera. Ma non perché il "cognatino" il vero padrone della casa di Montecarlo, ma perché il quadro politico è cambiato dall’inizio della legislatura e un nuovo partito sta per spuntare all'orizzonte. Certo, il presidente della Camera non ha deciso ancora nulla. Ma in queste ore lo preoccupa sentire i suoi parlamentari inquieti sul da farsi. Divisi - ma per davvero - su come comportarsi quando Silvio Berlusconi si presenterà alle Camere a fine mese. Tanto è vero che un personaggio come Giuseppe Consolo, vicino al presidente della Camera, non si fa scrupolo di annunciare: «Io personalmente voterò i 5 punti che presenterà il Presidente Berlusconi». Ma i "falchi" finiani la pensano in modo opposto.

Il Presidente della Camera intuisce che serve un colpo d’ala: «Io - ha spiegato - sono diverso da Berlusconi e un’assunzione di responsabilità lo dimostrerebbe una volta di più davanti al Paese». Ma ci sono anche ragioni di convenienza che consiglierebbero la svolta. Certo, tenere uniti i parlamentari, ma soprattutto riprendersi la libertà di iniziativa politica, «decidendo in prima persona i tempi» del redde rationem, «senza farsi logorare». Sostiene Alessandro Campi, direttore scientifico di "Farefuturo", intellettuale poco organico ma che ha dato molti buoni consigli a Fini: «Lui deciderà quel che crede, ma certo eventuali dimissioni da presidente della Camera risulterebbero comprensibili nel momento in cui annunciasse la nascita di un nuovo partito. A quel punto Fini aprirebbe un nuovo fronte di lotta politica e correttamente, per non creare problemi, potrebbe rinunciare all’incarico istituzionale».

Una tentazione che forse non diventerà mai realtà, ma che è stata alimentata da due giornate memorabili. Venerdì 23 e sabato 24 settembre, quelli che hanno preceduto il videomessaggio, sono stati due tra i giorni più difficili nella vita politica di Gianfranco Fini. La sfera privata e quella pubblica si sono intrecciate fino a stringersi in un nodo così soffocante da costringere il presidente della Camera a rinviare la registrazione del videocomunicato. Per diverse settimane Fini aveva cercato, invano, di parlare direttamente con Giancarlo Tulliani, il "cognato" acquisito, cercando di chiarire con lui, e definitivamente, la questione della proprietà della casa di Montecarlo. Ma per Fini il dovere di raccontare, dopo tanto silenzio, la sua "verità" sulla casa nel Principato si è scontrato con la reticenza del "cognato" e da quel che se ne sa neppure due giorni fa il presidente della Camera è riuscito ad ottenere prove certe sull’"innocenza" del giovane Tulliani.

Ne è venuto fuori un messaggio segnato da toni di grande sincerità, insoliti nella politica italiana, ma anche l’immagine di un leader raggirato nella sua «buona fede», come ha detto lo stesso Fini. La sensazione, diffusa tra i finiani, di un messaggio "dimezzato", oltretutto pronunciato senza il piglio baldanzoso di Mirabello («Fini dimesso», titolava a tutta pagina "Il Tempo", il più tradizionale quotidiano della destra romana) hanno indotto diversi colonnelli delusi a farsi sentire dal capo. E ha preso quota la suggestione del colpo d’ala

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58888girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI - La doppia partita di Fini nel giorno della sfida cruciale
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:45:06 am
29/9/2010 (7:20)  - SPETTRO-CRISI. IL DUELLO

La doppia partita di Fini nel giorno della sfida cruciale

Il presidente della Camera Gianfranco Fini oggi presiederà il dibattito dopo il quale il premier Berlusconi chiederà la fiducia

Il presidente è convinto che il premier non sia "autosufficiente"

FABIO MARTINI
ROMA

Per parlare, si parlano. Pur detestandosi ogni giorno di più, i duellanti Berlusconi e Fini continuano a tenere un pur piccolo canale di comunicazione. Ieri sera Andrea Ronchi, ministro finiano ultramoderato, è andato a far visita al Presidente del Consiglio per sincerarsi che nel suo odierno discorso alla Camera il premier eviti attacchi sgradevoli a Fini. E, come se non bastasse, oggi, subito dopo il discorso del premier, senza darne annunci preventivi, è però già fissato a palazzo Grazioli un incontro informale tra Berlusconi e una delegazione finiana. Ma siamo al «minimo sindacale» nei rapporti tra i due fronti, perché la sostanza è ben altra: nel durissimo scontro che da 5 mesi divide gli amici di un tempo, il 29 settembre sarà una giornata cruciale, forse decisiva. E infatti la sfida è stata preparata giocando con tutte le armi, compresa una perfida guerra dei nervi. Dal mondo editoriale berlusconiano trapelano boatos roboanti, il preannuncio di materiali «pesanti» - foto, video poco gratificanti per il presidente della Camera - che verrebbero distillati nei prossimi giorni, secondo necessità. Difficile capire se trattasi di realtà o di annunci diffusi con intenti «terroristici». E alla stessa, inafferabile logica appartiene la voce, circolata per tutto il giorno a Montecitorio, e che parlava di imminenti dimissioni da parte del presidente della Camera. Voce neppure smentita ma che è servita a tener alta la tensione. Non sono ore semplici per Fini, in qualche modo costretto a giocare una partita doppia: quella interna, con l’irriducibile cognato e quella politica. Il presidente della Camera, che davanti ai suoi mostra una rassicurante freddezza, ha dovuto dedicare quasi tutta la giornata nel tentativo di tenere compatto il manipolo dei parlamentari, divisissimi tra falchi e colombe. Ma non è stato facile trovare un minimo comun denominatore: durante un pranzo negli uffici della Camera sono volate parole taglienti tra i maggiorenti delle due anime, ma al termine Fini è riuscito a ricompattare i suoi, motivandoli con una convinzione: «Berlusconi non ha i numeri, non ha la certezza dell’autosufficienza, per questo ha chiesto il voto di fiducia. Che appare come un segno di debolezza». Ma è davvero così? Certo, né Fini né i finiani sanno quanti deputati sia riuscito a «convincere» il presidente del Consiglio. Ma la partita era - e resta - sempre la stessa: stasera alle 19 quanti deputati voteranno la fiducia al governo? Se poco prima del voto, si saprà che Berlusconi avrà superato il traguardo dell’autosufficienza, per Fini e i suoi la strada si presenterà in salita: il loro voto di fiducia risulterà aggiuntivo e con tratti paradossali se si pensa alla violenza dello scontro che c’è stato fino ad oggi. Se invece Berlusconi non avrà conseguito l’autosufficienza, Fini proverà a giocarsi la partita secondo il canovaccio messo a punto nelle lunghe chiacchierate con i suoi. «Noi - sostiene Adolfo Urso, viceministro allo Sviluppo Economico - non siamo figli di un Dio minore e dunque, se il discorso del presidente del Consiglio sarà condivisibile, vogliamo pari dignità politica». In soldoni significa che i «futuristi» chiederanno, come dice il capogruppo dei senatori Pasquale Viespoli, di «firmare la risoluzione della maggioranza della quale facciamo parte». Dunque, Fini chiede che in calce al documento, accanto alla firma del capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto e a quella del leghista Marco Reguzzoni, ci sia anche quella di Italo Bocchino. Per dirla in politichese, il riconoscimento formale che la maggioranza si regge non più su due, ma su tre gambe. Ma la giornata di oggi potrebbe dispiegarsi secondo un canovaccio meno prevedibile di quanto non abbiano previsto Fini e i suoi nuovi «colonnelli». E diverse circostanze - il discorso di Berlusconi, la contabilità parlamentare - potrebbero interpellare le diverse anime dei finiani. Oramai costantemente divisi in due gruppi: da una parte gli «autonomisti» di Italo Bocchino, Fabio Granata, Carmelo Briguglio, Flavia Perina che mettono nel conto (e alla fine auspicano) un divorzio cruento con Berlusconi; dall’altra i «lealisti» di Silvano Moffa, Pasquale Viespoli, Mario Baldassarri, Roberto Menia, convinti che sarebbe meglio non separarsi dal centrodestra. Due approcci finora compressi, ma di portata strategica, che potrebbero venire in superficie proprio nel giorno più difficile.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58943girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI - Per Fli e Casini mai più Berlusconi a Palazzo Chigi
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 10:45:10 pm
12/11/2010 (7:24)  - RETROSCENA

Per Fli e Casini mai più Berlusconi a Palazzo Chigi

Idea trasversale: salvacondotto al premier se è disposto a lasciare

FABIO MARTINI
ROMA

E’ l’ora della “siesta” e davanti a “Giolitti” - la gelateria degli onorevoli e dei turisti stranieri - c’è un affollamento eccitato, segno che da Montecitorio sta per uscire qualche pezzo grosso. Eccolo, finalmente, Umberto Bossi, col suo Renzo. E davanti all’assalto di folla e microfoni, il capo della Lega diventa decisamente più loquace di due ore prima, quando era uscito dall’attesissimo incontro con Gianfranco Fini. A chi gli chiede se Berlusconi potrebbe dimettersi, avendo la garanzia di un reincarico, Bossi risponde che, sì, potrebbe farlo perché «altre volte è accaduto». Eccolo, lo spiraglio che tanto inquieta Berlusconi («Se mi dimetto, poi non torno più a Palazzo Chigi») e che Bossi invece prende in considerazione.

In quello spiraglio, aperto con nonchalance, si condensa tutta l’incertezza di una crisi che si sta aprendo a scenari tra di loro molto diversi ma tutti plausibili, sia pure con probabilità diverse. E sullo sfondo, in pourparler riservatissimi che rimbalzano tra Roma e Milano, si sta cominciando a ragionare su un ragionevole e legale “salvacondotto” per favorire un’uscita “indolore” di Berlusconi, una via d’uscita che eviti una caccia all’uomo, una replica di altri accanimenti vendicativi che la storia italiana ha già conosciuto. Ma intanto la prossima mossa tocca, una volta ancora, a Gianfranco Fini.
Chi ha parlato con lui in queste ore lo ha trovato più «teso» del solito, «preoccupato dall’incertezza di una situazione» nella quale si giocano i destini del Paese, ma anche determinato ad affondare, una volta per sempre, Berlusconi. Due sere fa, Fini, Casini e Rutelli si sono riservatemente messi d’accordo proprio su questo: Berlusconi-bis neanche a parlarne.

Fini ha anticipato ai suoi sodali terzopolisti che ritirerà la delegazione “futurista” «lunedì mattina dopo il ritorno di Berlusconi da Seul», che voterà «a favore della Finanziaria», che i suoi «non parteciperanno più a voti di fiducia sul governo perché si è rotto il rapporto di fiducia col governo» e che già dalle prossime ore continueranno le dissociazioni parlamentari. E il percorso di guerriglia è già pronto: questa mattina nella Commissione Bilancio saranno presentati emendamenti Fli-Udc alla Finanziaria, sui quali si conta di rimettere “sotto” il governo.
La crisi vera e propria? «Dopo la Finanziaria». Con quali prospettive? Primo scenario: Berlusconi-bis. In cuor suo va bene al premier e va bene anche ai leghisti, perché «a noi - dice uno dei loro capi - interessano i decreti attuativi del federalismo e dopo, a maggio, si potrebbe anche andare a votare».

Si potrebbe ma senza sbracciarsi, «perché la Lega non è più tifosa sfegatata del voto anticipato», rivela il numero due dei futuristi Italo Bocchino, reduce da un colloquio col presidente della Camera. Il secondo scenario sul quale si sta silenziosamente lavorando, dentro il Fli e dentro il Pdl, è un governo di centrodestra con un premier diverso da Berlusconi. Candidati possibili, Giulio Tremonti, Gianni Letta ma anche un presidente giovane, come l’attuale Guardasigilli Angelino Alfano.
Il terzo scenario, il più difficile, è quello del “governo istituzionale” (premier ipotetico Beppe Pisanu), ma chi ci pensa sa che la condizione per realizzarlo sarebbe una «consistente secessione nella Lega e nel Pdl». E infatti Massimo D’Alema (che ne è il massimo sponsor, assieme a Fini), quando invoca il «governissimo», dice che dovrebbe essere sostenuto da una base parlamentare «la più larga possibile». Ma centrodestra-bis e “governissimo” sono due scenari destinati ad accendere una reazione fiammeggiante da parte di Berlusconi.

E’ per questo motivo che in diversi ambienti - di maggioranza, di opposizione e fuori della politica - si sta studiando un pacchetto che possa evitargli un accanimento fuori misura, come la possibile reintroduzione della immunità parlamentare, ovvero forme “aggiornate” di prescrizione. Dice un uomo di mondo come Bruno Tabacci, un anti-berlusconiano che ha vissuto il crepuscolo della Prima Repubblica: «Questo è un Paese crudele, che per mondarsi delle proprie colpe, una volta che Berlusconi è caduto, è capace di accusarlo di nefandezze inaudite.
Certo, si può ragionare su una uscita senza vendette, ma dopo che lui abbia abbandonato il campo. Senza equivoci».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201011articoli/60370girata.asp


Titolo: FABIO MARTINI - Il Professore: un ritorno? Ma va', faccio il nonno
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2010, 05:29:44 pm
Politica

26/11/2010 - DEMOCRATICI: CERCANDO L'UNITÀ

Arriva Prodi E il Pd prova a rincuorarsi

Il Professore: un ritorno? Ma va', faccio il nonno

FABIO MARTINI

Eccolo, anzi rieccolo. Alle cinque della sera di una giornata scivolosa, si schiude la porta in un'abbazia medievale e ricompare il Professore. La stessa faccia. Gli stessi capelli quasi neri a dispetto dei 71 anni. La stessa cravatta lenta sul collo. Gli stessi occhi socchiusi mentre si concentra. Lo assaltano come ai tempi belli e Romano Prodi sorride a chi gli chiede se potrebbe tornare alla politica, se il Paese glielo domandasse: «Ma lasci stare il Paese...». Ride e spiega: «Mi hanno chiesto di fare una comunicazione di politica estera, ma questo non cambia minimamente i miei programmi e la mia vita, non c'è nessun ritorno. Faccio il nonno e il professore». Continuano a fargli domande, ma lui pensa che basta così e con uno scatto sull'erba scivolosa, lascia sul posto cameraman e giovani cronisti. E' bastato che il gruppo Pd della Camera lo invitasse per tenere una conferenza su «Globalizzazione e crisi» per far parlare di «ritorno di Prodi», «francamente, una assoluta invenzione», per dirla con Arturo Parisi, che Prodi lo conosce meglio di tutti.

Semmai la notizia è un'altra. Quassù, in questo isolato convento, ad ascoltare una delle tante conferenze di politica estera di Prodi, sono venuti tutti i capi del Pd, ma proprio tutti, anche quelli che da quando il Professore ha lasciato la politica, lo hanno un po' snobbato. Quando Prodi inizia a parlare, Massimo D'Alema è seduto nella prima fila centrale, Walter Veltroni invece se ne sta più laterale, mentre Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini e Anna Finocchiaro sono seduti alla presidenza. Sono venuti in centocinquanta, lo chiamano tutti «Romano», Bersani dice che «l'arrivo di Prodi è una festa», lo salutano tutti con grande calore, lui fa altrettanto anche con quelli (quasi tutti, tranne Pier Luigi Bersani e Rosy Bindi) che nel corso degli anni lo hanno danneggiato nelle più diverse forme.

E in quell'omaggio corale da parte dei notabili di un partito in affanno, in qualche modo c'è l'inverarsi di un formidabile sketch di Corrado Guzzanti, che è andato forte su Youtube. Quello nel quale Prodi, resta per mesi e mesi dietro la linea gialla della stazione di Bologna, «sto qui con la mia bella coerenza, non faccio polemiche», non si scompone quando i teppisti lo molestano. Ma lui sa che alla fine i politici che lo hanno scaricato, torneranno, gli chiederanno «perdono», lo chiameranno «sire», lui dirà «inginocchiatevi» e si vendicherà, «zac», tagliandogli la testa con uno spadone. Professore, è andata proprio così? E lui scoppia a ridere.

Lo hanno invitato nell'abbazia vallomborosiana di Spineto sulle colline senesi, ennesima replica di una moda sempre verde, quella della convegnistica conventuale, adottata dalla sinistra, ma inventata nel 1959 dai dc che da Santa Doretea in poi, si scannavano nel chiuso di luoghi spirituali. Prima di tenere la sua alata conferenza sul mondo che cambia, Prodi ha fatto quattro chiacchiere con Dario Franceschini e con Pier Luigi Bersani, col quale peraltro parla spesso. Il Professore condivide la ricetta bersaniana e lo ha ripetuto al leader del Pd: «Berlusconi non ce la fa più», «elezioni anticipate sarebbero rischiose» e dunque la panacea sarebbe «un governo di transizione». Dopodiché Prodi ha raccontato ai parlamentari del Pd ciò che ha capito in questi due anni e mezzo nei quali ha girato il mondo, con due punti di appoggi strategici: la Cina (il Professore fa il commentatore per la «locale» Tv) e gli Stati Uniti, dove tiene lezioni all'Università.

Una lezione ricca di testimonianze in presa diretta con i potenti del mondo, battute, dati. Anzitutto, il cambio dei rapporti di forza nel mondo: «Il G8 ormai lo trascinano, ma non esiste più, ora conta il G20». Il crollo dell'Occidente: «Nel 1950 il Pil degli Stati Uniti era la metà di quello del mondo, oggi è il 22%», anche se gli americani coprono il «50% delle spese militari del mondo». Gli astri crescenti? «La nuova assertività russa», ma soprattutto la Cina, «unico Paese nella storia economica del mondo capace di esportare merci, persone, finanza e tecnolgia». Il Brasile «unico Paese al mondo nel quale diminuiscono le diseguaglianze». E il governo italiano? Soltanto una battuta: «Te lo dicono a Bruxelles: non ci siete, ci manca l'Italia». E ancora: «Un vero leader non sceglie in base ai sondaggi». Poi parla, eloquentemente, Giuliano Amato. E Prodi commenta: «Con Giuliano organizziamo presto un convegno sui vecchi che non sono vecchi!». Un parlamentare scherza: «Presiede Matteo Renzi!».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/377540/


Titolo: FABIO MARTINI. E tra i futuristi si fa largo la tentazione dell'astensione
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2010, 05:36:12 pm
30/11/2010 - RETROSCENA

E tra i futuristi si fa largo la tentazione dell'astensione

Il presidente della Camera e leader di Fli, Ganfranco Fini

A porte chiuse con Fini alcuni deputati trasmettono al capo tutti i loro dubbi

FABIO MARTINI

ROMA
Fino a una settimana fa i futuristi l'avrebbero considerata una parolaccia. Eppure, da qualche giorno, nelle chiacchierate fitte e riservate tra Gianfranco Fini e i suoi nuovi colonnelli, la parola più nominata è diventata «astensione». E non più «sfiducia», come subito dopo la fiammeggiante convention di Futuro e libertà dei primi di novembre, durante la quale era stato chiesto al presidente del Consiglio di salire al Quirinale e dimettersi. In altre parole, Fini e i suoi - ragionando su tutti i possibili scenari in vista dell'attesissima votazione del 14 dicembre, decisiva per le sorti del governo Berlusconi - hanno iniziato a ragionare sull'ipotesi di astenersi. Tenendo così in vita il governo e il suo presidente. Ieri sera Fini ne ha parlato a lungo in una riunione a porte chiuse: non ci sono ancora decisioni formali e, anzi, per il momento, l'ipotesi più quotata tra i futuristi resta quella di presentare una mozione di sfiducia e di votarla assieme ai partiti di opposizione.

Ma il solo fatto che dentro la plancia di comando del Fli si stia discutendo l'ipotesi di astenersi la dice lunga sulle tensioni che dividono il fronte finiano. A prendere l'iniziativa sono stati i moderati, l'ex ministro Andrea Ronchi, il presidente dei senatori Pasquale Viespoli, il presidente della commissione Lavoro Silvano Moffa, l'ex sottosegretario Roberto Menia, l'avvocato Giuseppe Consolo. Con parole diverse ma convergenti, i moderati hanno detto a Fini: caro presidente, dopo Bastia lo scenario interno e internazionale è cambiato e si è fatto più pericoloso, le ipotesi di governi tecnici o di solidarietà nazionale non stanno in piedi, per noi le elezioni anticipate sono un azzardo. E anche se noi non lasceremo mai il Fli, alcuni faticheranno molto il 14 dicembre a votare la sfiducia al governo. Anzi, ci sono «almeno quattro deputati» - Gianfranco Paglia, Catia Polidori e altri due coperti - che hanno trasmesso al capo tutti i propri dubbi. E con i dubbi, il rischio concreto di un'emorragia nel gruppo futurista e proprio nel giorno del giudizio.

Gianfranco Fini, un leader che ha proverbiali capacità di ascolto, ha sentito tutte le campane. Anche quelle dei suoi rompighiaccio, Italo Bocchino, Carmelo Briguglio, Flavia Perina, Fabio Granata. Loro sono tutti per tirare dritto con la sfiducia. Ieri sera, in Transatlantico, scherzava Italo Bocchino: «Ma certo, dodici dei nostri hanno già passato le linee, anzi no, sono tredici! Tutte fantasie: siamo compatti e il 14 il governo cadrà». Ma il capo, dopo aver ascoltato destri e sinistri, non ha escluso nessuno scenario. Certo - questa è l'idea di Fini - se Berlusconi continua a insultarci e a parlare di tradimenti, non ci sono alternative alla sfiducia. Ma se invece il premier lanciasse segnali corposi - molto più concreti del rinvio del dossier giustizia - allora il quadro potrebbe cambiare. Spiega Adolfo Urso, coordinatore di Fli, il più centrale tra i colonnelli: «I segnali che arrivano dal governo non sono incoraggianti, anzi. Non solo ci si continua ad accusare di tradimento, ma non sembra ci sia la consapevolezza del deteriorarsi grave della situazione interna e internazionale. Certo, se da parte del presidente del Consiglio ci fosse un'assunzione di responsabilità forte, un segno chiaro di discontinuità, allora potremmo anche valutare l'ipotesi di un'astensione, ma tutto questo non c'è. Anzi. E dunque per noi nulla cambia: siamo pronti a presentare la nostra mozione di sfiducia».

Parole chiare. La palla, più che mai, torna nelle mani del presidente del Consiglio e nella sua capacità di far politica. «Anche perché - dice Silvano Moffa, uno dei capifila dei moderati - le notizie che arrivano dall'Europa sono veramente drammatiche, per la prima volta c'è il rischio-euro e andare ad elezioni anticipate sarebbe veramente una follia». Ma anche se il presidente del Consiglio restasse inerte e andasse alla prova del 14 senza apprezzabili cambi tattici, per Fini resterebbe il problema di tenere unito il proprio gruppo. Il presidente della Camera sa che gente come Moffa, Menia e Viespoli resterà nel Fli anche in caso di dissenso, ma il paradosso è che una emorragia tra i futuristi, anche se di piccola entità, potrebbe risultare decisiva per garantire a Berlusconi una, sia pure effimera, fiducia.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/378036/


Titolo: FABIO MARTINI. La scommessa di Fini e Casini Il big bang del centrodestra
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:28:57 am
Politica

04/12/2010 -

La scommessa di Fini e Casini Il big bang del centrodestra

Il terzo Polo punta sullo smottamento dei berlusconiani

FABIO MARTINI

ROMA

Oramai sempre più svestito dei panni istituzionali, Gianfranco Fini non si fa scrupolo di fare previsioni sempre più lapidarie sulla decisiva votazione che il 14 dicembre si terrà nell'aula parlamentare che lui stesso presiede: «Credo che il Parlamento fra qualche giorno testimonierà quello che tutti sanno e cioè che il governo non c'è più o non è in grado di governare». Nel suo intervento ad un convegno della Confartigianato di Mestre, Fini è lapidario anche sulla sua permanenza alla guida della Camera: «Se la legislatura continuerà - e io auspico che duri - continuerò a fare il presidente della Camera». Affermazione secca che implicitamente contiene due notizie. La prima è che, se la legislatura dovesse avviarsi a conclusione traumatica, Fini lascia intendere che lascerebbe sì la presidenza della Camera ma in zona Cesarini, per poter giostrare liberamente in campagna elettorale. La seconda notizia è già nota ma Fini non lascia passare 24 ore senza ribadirla: lui - e i suoi sodali del Terzo polo - faranno di tutto perché lo scioglimento anticipato non ci sia.

Ma per scongiurare elezioni anzitempo le strade, sulla carta, sono tre. Tutte accidentate. C'è il governo di unità nazionale, invocato da Massimo D'Alema, con tutti dentro e che sul fronte destro, per ora, è condiviso soltanto da Alessandro Campi, direttore della finiana fondazione “Farefuturo”. C'è il governo del ribaltone (tutta l'attuale opposizione, più Fli, Udc e transfughi del centrodestra), scenario che col passare dei giorni perde sempre più quota. E poi c'è la terza ipotesi, quella di un governo nuovo di centrodestra (Pdl più Lega), allargato al Fli di Fini, all' Udc di Casini e all'Api di Rutelli e guidato da una personalità diversa da Berlusconi. E' proprio questa - con buona pace del Pd - l'opzione su cui punta il neonato Terzo polo, tanto è vero che Pier Ferdinando Casini lo dice senza tante perifrasi: «Berlusconi indichi lui il nome del nuovo premier, a noi va bene».

Ma poiché appare a tutti improbabile che Berlusconi scelga spontaneamente l'abdicazione (come fece Craxi nel 1992 quando per Palazzo Chigi suggerì Giuliano Amato al Presidente Scalfaro), la vera scommessa di Casini, Fini e Rutelli è un'altra: il big bang della galassia berlusconiana. Fini lo fa capire: «Non si andrà a votare, perché il cambiamento ha una forza tale che spazzerà tatticismi e meline. Non dico più per motivi di riservatezza». La vera scommessa dei terzopolisti è lo scenario tanto volte evocato, mai concretizzato, ma che stavolta potrebbe prender corpo: la caduta di Berlusconi e il conseguente, immediato smottamento di quel che fu Forza Italia. A cominciare da tre personalità significative nella storia del centrodestra italiano: l'ex presidente del Senato Marcello Pera, l'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu, l'ex ministro della Difesa Antonio Martino.

Annuisce Pino Pisicchio, vicepresidente dell'Api: «E' proprio così. Il rompete le righe sarà determinato da due fattori. Primo, i parlamentari, non essendo più radicati sul territorio e dipendendo totalmente dal capo, saranno indotti a fuggire non appena il capo cadrà. Secondo: con un bipolarismo rigidamente bloccato, il salto della quaglia era più difficile. Ora, con la nascita del Terzo Polo, questa trasmigrazione è più facile». E dunque, uno smottamento tornerebbe utile ai “terzisti” soprattutto se si provasse a ricostituire un governo di centrodestra senza Berlusconi. Per ora è soltanto un gioco, ma già si manifestano opzioni diverse. Per Casini «Gianni Letta andrebbe benissimo», mentre per Bruno Tabacci (il più argomentato oppositore del Tremonti ministro), proprio lui sarebbe il miglior successore di Berlusconi. E proprio il ministro dell'Economia era stato gratificato, il 19 novembre, da una esternazione che parse estemporanea di Roberto Maroni: «Giulio Tremonti? Se si decidesse di candidare, lui sarebbe un ottimo premier».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/378616/


Titolo: FABIO MARTINI. E a cena Fli cambia strategia "Ora basta contrapposizioni"
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2010, 03:36:32 pm
Politica

22/12/2010 - RETROSCENA

E a cena Fli cambia strategia "Ora basta contrapposizioni"

Il leader futurista ai suoi: «Cerchiamo di lavorare sui contenuti»

FABIO MARTINI

ROMA

Nella sala del Mappamondo - per decenni la stanza più magica di Montecitorio con i suoi libri secolari rigorosamente ordinati, ma da qualche tempo trasformata in uno dei tanti luoghi da convegni - il Presidente della Camera sta facendo l’elogio della stabilità: «Questa è una legislatura che può durare». Gianfranco Fini lo dice davanti ai giornalisti parlamentari, radunati per il rito degli auguri e ai quali però si chiede di non fare domande, demandate al presidente dell’Asp Pierluca Terzulli. Il messaggio «continuista» di Fini, in contrasto con recenti, impegnative profezie («Berlusconi non avrà la fiducia»), va collegato ad una successiva esternazione, quando Fini ha auspicato la modifica dell’attuale legge elettorale, perché entrerebbe in conflitto con «una diversa configurazione del panorama politico».

Fuor di politichese, Fini vuole dire che se alle prossime elezioni si presentasse il Terzo Polo, allo schieramento vincente potrebbe bastare il 35-40% per conquistare il 55% dei seggi, configurando una truffa politica più seria di quella che si sarebbe consumata se fosse diventata operativa la famosa legge truffa del 1953. Dunque, il Presidente della Camera fa capire che a lui non dispiacerebbe una legislatura che durasse fino alla scadenza naturale del 2013 e che considera strategica la prospettiva del cosiddetto Terzo Polo. Fin qui il Fini pubblico. Ma il Fini privato, quello che ha parlato in serata ad una cena di parlamentari futuristi, si è spinto molto più avanti, delinenando una vera e propria contro-svolta, una sorta di «contrordine compagni».

Se fino al 14 Belusconi era il nemico numero uno, da abbattere con una mozione di sfiducia, ieri Fini ha detto: «Basta contrapposizioni Fini-Berlusconi, cerchiamo di lavorare sui contenuti e sulle proposte concrete», sul piano parlamentare, «davanti ad una maggioranza risicata e monca», «valuteremo di volta in volta», anche perché «l’opinione pubblica non capirebbe una opposizione pregiudiziale».

Certo, Fini ha detto che il nuovo Polo «per il momento non è un partito e neppure un cartello elettorale», ma la linea soft con Berlusconi è la traduzione letterale di quanto già stabilito in un incontro precedente, assieme a Pier Ferdinando Casini. Una linea nella quale l’Udc si ritroverà naturalmente, ma che per il Fli rappresenta un brusco cambio di marcia.

Da quel che si apprende dai partecipanti alla cena, Fini non avrebbe accompagnato questa svolta con passaggi autocritici, ma semmai avrebbe invitato i suoi parlamentari «a stare tutti un po’ zitti fino al 10 gennaio», «fate che siano gli altri a parlare». E ancora: «Ho sentito da voi voci interessanti, ma a volte anche strampalate». In altre parole, Fini ha impliticitamente rimbrottato quei parlamentari (Fabio Granata, Carmelo Briguglio, forse persino Italo Bocchino) che da sei mesi hanno interpretato in prima linea l’oltranzismo finiano. E anche per gli interpreti più convinti di una linea politica laica (Luca Barbareschi, Flavia Perina, Chiara Moroni) Fini ha suggerito prudenza: «Sui temi etici non cadiamo in trappole strumentali». Un altro implicito segnale che l’alleanza con l’Udc qualche «prezzo» lo comporterà.

Ma proprio sulle potenzialità del Terzo Polo, sul depresso stato maggiore finiano, cominciano ad arrivare segnali interessanti.
Dice Italo Bocchino, braccio destro di Fini: «Gli ultimi studi demoscopici dimostrano che la coalizione ha una capacità attrattiva che va oltre l’appeal dei singoli partiti». Effettivamente in un complesso sondaggio realizzato per «Il Sole 24 0re» dalla Ipsos di Nando Pagnoncelli il 17 dicembre (tre giorni dopo il voto di fiducia al governo), si scopre che se si sommano le percentuali dei singoli partiti del Terzo Polo (Udc di Casini, Fli di Fini, Api di Rutelli, Mpa di Lombardo) si raggiunge la quota del 13,2%, mentre se ai potenziali elettori si esplicita che quegli stessi partiti sono uniti in coalizione il gradimento sale fino al 20%. Con una lievitazione che gratifica tutti: l’Udc (passa da un 5,8% in solitaria al 7,4%), ma in special modo il Fli che sale dal 5,9% ad una percentuale di tutto rispetto, il 9,5%. Dunque, il Terzo Polo sembra far bene al Fli di Fini, anzi si rivela una specie di additivo.

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/380959/


Titolo: FABIO MARTINI. Terzo Polo-Bersani patto senza Di Pietro
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:22:34 am
Politica

12/02/2011 -

Terzo Polo-Bersani patto senza Di Pietro

Gianfranco Fini pensa di sospendersi dalla carica di numero uno del partito, per smorzare le polemiche sul suo incarico di presidente della Camera

Grande coalizione (con Vendola) in caso di elezioni anticipate

FABIO MARTINI
INVIATO A MILANO

Dietro il palco, Gianfranco Fini non è di buon umore. Gli hanno detto che la sala del congresso è mezza vuota e infatti l’orario di inizio dell’Assemblea costituente di Futuro e libertà via via slitta, fino a cumulare un ritardo di un’ora e mezza. Ma alle cinque della sera il grandissimo "Padiglione 18" della Fiera si è ripopolato e dei 3500 posti a sedere, almeno duemila sono occupati. Una bionda annunciatrice finalmente può lanciarsi nell’annuncio più atteso: «Salutiamo l’ingresso in sala di, di... Gianfranco Fini».

Ovazione dei duemila, dura sessantadue secondi, ma il pathos è un po’ meno intenso di quello che accolse il Capo a Mirabello, per non parlare dell’entusiasmo commovente dei seimila di Bastia Umbra. E un filo di incertezza deve attraversare anche Fini, se lui, proprio lui, sempre così sicuro di sé, nel fervorino iniziale, ad un certo punto dice: «Il tempo dirà se saremo stati all’altezza di un compito tanto ambizioso».

Certo, arrivare a Milano a proprie spese e restarci per due notti non è impresa per tutti, ma il nuovo partito nasce in un momento di "bassa" del consenso attorno ai futuristi, come confermano tutti i sondaggi. E’ per questo motivo che Fini e i suoi colonnelli nei giorni scorsi hanno deciso che dal congresso dovrà uscire un messaggio nitido, tanto più necessario dopo le oscillazioni comunicative dei mesi scorsi.

Un messaggio che è stato trasmesso ai duemila dai due "colonnelli" più vicini a Fini: Ha detto un applauditissimo Adolfo Urso: «Il Fli sarà un partito di destra e noi non vogliamo fare un terzo polo che faccia da ago della bilancia, ma un Nuovo Polo che erediti il blocco sociale dell’attuale centrodestra e sia alternativo alla sinistra». Anche Italo Bocchino ha ripetuto una decina di volta la parola «destra» associata al Fli e declinata sotto varie forme («del futuro», «europea», «popolare»), un partito che sia pronto a ereditare l’elettorato di centrodestra quando scorreranno «i titoli di coda del berlusconismo».

Insomma i futuristi si ributtano a destra. Anche se proprio Bocchino si è "scoperto" con un piccolo equilibrismo verbale: «Nel passaggio tra la Seconda e la Terza Repubblica non rifaremo l’errore nel passaggio tra Prima e Seconda, stavolta riscriveremo le regole comuni tutti assieme». Un’acrobazia semantica con un suo perché: se il messaggio-forte del congresso sarà quello del partito di destra, dietro le quinte è maturata in questi giorni una svolta di prima grandezza, confidata proprio da Bocchino due giorni fa: se la legislatura dovesse cadere nel giro di poche settimane e si andasse ad elezioni anticipate a maggio-giugno Pierluigi Bersani, Pierferdinando Casini, Francesco Rutelli e Gianfranco Fini hanno già stretto un accordo per presentarsi con la stessa coalizione.

Un accordo di massima che prevede l’inclusione nella coalizione di Nichi Vendola e l’esclusione di Antonio Di Pietro. Un altro snodo di questo congresso è rappresentato dalla classe dirigente del nuovo partito. Fini ha deciso di non assumere incarichi di guida, un escamotage per sfuggire ad una nuova ondata di critiche di chi tornerebbe a rimproverargli l’incompatibilità tra Presidenza della Camera e guida effettiva del Fli.

Perciò si autospenderà da Presidente del Fli, uno smarcamento per salvare la forma e che ricorda quello di Berlusconi autosospeso da presidente del Milan, di cui però resta il leader effettivo. La guida effettiva del partito, dopo le ultime trattative, dovrebbe andare a Italo Bocchino, nella qualità di coordinatore o segretario, poco cambia.

La notizia, trapelata attraverso le agenzie, ha fatto imbestialire Adolfo Urso, che è stato coordinatore del comitato costituente di An e lo è stato del Fli. Urso non ha partecipato alla cena "sociale" con lo chef di "corte" Vissani e il dissidio è destinato a metter pepe su un congresso finora senza emozioni.

da - lastampa.it/politica


Titolo: FABIO MARTINI. I colonnelli s'azzuffano nella cena al veleno
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2011, 03:55:40 pm
Politica

14/02/2011 - RETROSCENA

I colonnelli s'azzuffano nella cena al veleno

Lite tra Urso e Bocchino, in ballo il posto di numero due

Il capo decide, ma poi cambia idea: e le divisioni restano

FABIO MARTINI
INVIATO A MILANO

Si è fatta notte profonda negli opulenti corridoi dell’Hotel «Principe di Savoia» e in una saletta si sta consumando una faticosa cena, alla quale partecipano sei colonnelli del Fli e il loro generale, Gianfranco Fini. E anche se la tensione è altissima attorno al tavolo, nessuno dei presenti può immaginare che la loro è destinata a diventare una vera e propria «cena delle beffe» del neo-futurismo italico. Argomento dell’incontro in hotel (siamo a cavallo tra sabato e domenica) è l’organigramma di «Futuro e libertà».

In ballo, il posto di vice-Fini e in corsa ci sono i due più stretti collaboratori del Capo. Adolfo Urso, 53 anni, da Acireale, che dopo essersi dimesso dall’incarico «pesante» di viceministro per il Commercio estero, per due mesi e mezzo ha svolto il ruolo di coordinatore del Comitato promotore del Fli. E dunque - ora che, dalla «serie B» si passa alla «serie A» - Urso immagina di meritare la conferma. Ma alla poltrona di vice-Fini ambisce anche Italo Bocchino, 43 anni, casertano, astro ormai nato del firmamento finiano, il personaggio più vicino al Presidente della Camera e che è stato l’artefice dell’unico «miracolo» dei futuristi, la costituzione di un gruppo alla Camera formato da ben 35 deputati.

A cena sembra arrivato il momento delle scelte irrevocabili. Fini in prima battuta preferisce ascoltare. Ma dopo una discussione aspra, si apre uno spiraglio. Dice Bocchino: «Se così stanno le cose, io preferisco restare al Gruppo e per me è giusto che il Coordinatore lo faccia Adolfo». Pasquale Viespoli (presidente dei senatori in buona parte diffidenti verso Bocchino), dice che anche per lui Urso numero due va benissimo. Annuiscono anche Della Vedova e Ronchi. Obietta il triestino Roberto Menia: lui si vede bene come capogruppo alla Camera o come coordinatore.

La via d’uscita sembra vicina, ma Fini - irritato perché non si chiude - si alza e se ne va a dormire, lamentandosi che «stanno tornando le correnti e non va bene». Certo, i neo-colonnelli si dimostrano litigiosi, ma se si è arrivati in pieno congresso con questo macigno, il presidente della Camera sa di non potersela prendere soltanto con i suoi «ragazzi». Ma comunque, dopo una cena spiacevole con Urso e Bocchino che si rinfacciano l’aver spifferato alle agenzie notizie per «bruciarsi» a vicenda, il coordinatore uscente sembra in pole position.

Ieri mattina cambia tutto. Si decide di istituire la carica di «vicepresidente» del partito e all’ora di pranzo comincia a circolare un organigramma con Bocchino vicepresidente e Urso coordinatore della segreteria. Ma non ci siamo. A congresso finito, Fini riunisce di nuovo i «magnifici sei» in una saletta della Fiera. Si litiga, ma alla fine si chiude: Bocchino sarà il vicepresidente, Urso il presidente dei deputati, Menia il coordinatore, Della Vedova il portavoce, Ronchi il presidente dell’Assemblea nazionale. Fini assicura: «Scriverò io il comunicato».

Ripartono tutti, alla Fiera restano soltanto Fini, Bocchino e Menia. Due ore più tardi, il comunicato firmato da Fini (anche se 4 ore prima si era solennemente autosospeso da presidente) ribalta tutto: Bocchino resta, ma Urso da capogruppo passa a portavoce, mentre Della Vedova viene suggerito come presidente dei deputati. La penalizzazione così plateale di Urso è dovuta al fatto che lui, applauditissimo dal congresso, si è opposto alla «Santa Alleanza» con il Pd? Urso fa trapelare la sua «costernazione».

Nella segreteria - dove compaiono personaggi di spessore come Umberto Croppi, Federico Eichberg, Maddalena Calia - è stato indicato anche il professor Alessandro Campi. Ma dal Fli lo hanno inserito senza interpellarlo. Pare che Campi sia stato avvisato dell’avvenuta nomina dal fratello. Oggi gli «sconcertati» (ma non ancora al punto di andarsene) Urso e Viespoli terranno una conferenza stampa. Gli effetti della cena delle beffe sembrano destinati a prolungarsi.

da lastampa.it/politica


Titolo: FABIO MARTINI. L'ombra di D'Alema dietro il caos del Fli
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 10:54:01 am
Politica

15/02/2011 - FUTURO E LIBERTA'- FALSA PARTENZA

L'ombra di D'Alema dietro il caos del Fli

Il malcontento nato dal patto per la «santa alleanza» contro il premier

FABIO MARTINI
ROMA

La crisi delle poltrone che sta squassando il neonato Fli ha un precedente, consumato dietro le quinte, che in gran parte spiega la querelle futurista, inspiegabile col semplice metro del personalismo. Nei giorni che hanno preceduto il congresso di Milano i cinque colonnelli più vicini a Gianfranco Fini avevano discusso - senza darne a vedere - l’ipotesi più hard nel caso in cui la legislatura dovesse precipitare in tempi stretti: la proposta dell’Alleanza costituente - una sorta di Cln anti-Berlusconi, da Vendola a Fini - lanciata due settimane fa da Massimo D’Alema in un’intervista. Ma poco prima di lanciare quella proposta, lo stesso D’Alema l’aveva preparata nel corso di incontri riservati con alcuni dei potenziali protagonisti.

Nel colloquio con D’Alema, i massimi «vertici» futuristi - oltre a convenire sulla proposta della «Santa Alleanza», oltre a prendere atto dell’idea di formare un grande cartello che però escluda Antonio Di Pietro - hanno anche tratto l’impressione, nulla di più, che l’ex premier non abbia escluso un suo coinvolgimento diretto, in posizioni di vertice, nella durissima battaglia elettorale che dovesse aprirsi contro un Berlusconi politicamente ferito. Ovviamente per la scelta della «squadra» anti-Berlusconi è ancora presto e bisognerà verificare le condizioni «sul campo» poco prima della contesa elettorale.

Ma il riservato patto stipulato con D’Alema per la Santa Alleanza antiCavaliere spiega i due passaggi chiave del congresso del Fli appena concluso: la totale rimozione da parte di Gianfranco Fini e di Italo Bocchino della questione delle alleanze elettorali; la rivendicazione di Adolfo Urso, capo dei moderati, di un Fli connotato come partito di destra e «alternativo alla sinistra».

Le ovazioni che hanno accompagnato il discorso di Urso nel primo giorno del congresso hanno condizionato il successivo dibattito, impedendo smarcamenti a sinistra e discorsi «emergenziali». Ma poi, quando è arrivato il momento di distribuire le poltrone, è come se quella battaglia politica avesse in parte influito nella decisione di arrivare ad un plateale «tagliafuori» nei confronti di Urso.
Perché se era attesa e motivata l’ambizione di Italo Bocchino di diventare vice-Fini di «diritto» oltreché di fatto, l’evidente retrocessione di Urso (no a Coordinatore, no a presidente dei deputati, sì a portavoce), al momento non ha trovato spiegazioni da parte dell’entourage del Presidente della Camera. E da lì che Adolfo Urso ha deciso di ripartire. Ai suoi amici l'ex viceministro ha raccontato il suo stupore per il salto che si è determinato domenica a Milano: «Nella riunione finale alla Fiera, si era raggiunto un accordo in base al quale io sarei stato indicato come capogruppo ai deputati.

Siamo ripartiti, ma appena sono sceso dall’aereo ho saputo che il comunicato finale indicava un altro organigramma. Il punto è questo: cosa è successo in quel lasso di tempo?». Dunque, il retrocesso Urso non mette in discussione la decisione di Fini di nominare Bocchino suo vice. Assieme ad Urso si è schierato il fronte dei moderati del Fli, il presidente dei senatori Pasquale Viespoli, quasi tutti i dieci senatori, l’ex ministro Andrea Ronchi.

Lapidario Luca Barbareschi, in uscita dal Fli: «Se continuano a scegliere le persone sbagliate, faranno la fine del Psi». I senatori si riuniranno oggi per decidere il da farsi, ma per tutto ieri hanno atteso segnali dall’altro fronte. Segnali di fumo. Se Fini ha mandato in avanscoperta il suo portavoce Fabrizio Alfano, sordo ad ogni dialogo è stato Italo Bocchino, che avrebbe detto: «Minacciano di far saltare il gruppo del Senato? Che problema c’è? L’Udc è stata per anni senza gruppo a palazzo Madama...». Un muro che ieri sera induceva alcuni moderati a prendere in esame uno scenario fino a due giorni fa impensabile: lasciare il Fli.

da - lastampa.it/politica


Titolo: FABIO MARTINI. Un senatore se ne va. A rischio il gruppo di Futuro e Libertà
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 12:20:09 pm
Politica

17/02/2011 - RETROSCENA

Un senatore se ne va. A rischio il gruppo di Futuro e Libertà

Scioglimento certo se non arriva un rimpiazzo

FABIO MARTINI
ROMA

Erano dieci, hanno votato in tre modi diversi. Ieri mattina, al momento di approvare il decreto “Milleprorogoghe”, nella “bomboniera” di palazzo Madama si è scoperto che dei dieci senatori aderenti al gruppo del Fli, soltanto tre avevano seguito le indicazioni del loro presidente, Pasquale Viespoli; uno si è astenuto; uno (dichiarandolo) non ha partecipato al voto; due (non dichiarandolo) sono restati fuori dall’aula e altri due erano assenti in modo involontario.

Ma i guai sono continuati nelle ore successive: il senatore Giuseppe Menardi, annunciando il suo addio (non immediato) al gruppo, ha posto le premesse per il suo scioglimento perché - se non dovessero arrivare “rimpiazzi” - a quel punto verrebbe meno la quota minima, dieci, per organizzarsi autonomamente. Dopo sette mesi, si scioglierebbe così uno dei due gruppi parlamentari di “Futuro e liberà”, nati nell’estate 2010 sull’onda della “cacciata” ordinata da Berlusconi e alla quale Fini e i suoi reagirono con inattesa efficacia organizzativa.

Ma il plateale sparpagliamento del Fli degli ultimi giorni ritaglia per il neonato partito un destino originale: il recente congresso costituente di Milano - anziché avviare una fase di espansione del consenso - per il momento ha dato la stura a emorragie e mal di pancia di varia natura. E nuovi colpi di scena potrebbero determinarsi sul fronte dei parlamentari di “frontiera”. Sorride Daniela Santanché, che a palazzo Chigi è sempre aggiornatissima sulle «new entry»: «Dal Fli c’è movimento...». Quanti? Non parla la Santanché ma fa “quattro” con le dita e poi «due e due».

Come dire, due deputati e due senatori. Sarà vero? Quella dei “transfughi” è una partita sempre estremamente volatile, i numeri cambiano dalla notte alla mattina. Certo, la diaspora dei senatori era nell’aria da tempo. Francesco Pontone (l’ex cassiere di An, amareggiato per la gestione della vicenda Montecarlo) e Giuseppe Menardi non hanno mai aderito a “Futuro e libertà”, metre altri (Mario Valditara, Mario Baldassarri) sono diffidenti verso una possibile deriva sinistrorsa del partito.

Ma il collasso del gruppo futurista del Senato risente della crisi che sta dividendo quel che era il gruppo dirigente del Fli: il dissidio che divide Gianfranco Fini dai moderati. Adolfo Urso, Pasquale Viespoli e Andrea Ronchi lamentano un organigramma penalizzante; temono una gestione che li tagli fuori nella gestione delle liste elettorali; restano diffidenti sulle intese avviate riservatamente col Pd. E Fini?

Non vuol sentire ragioni, al punto che persino lo squagliamento dei senatori sembra lasciarlo indifferente. Dice Bocchino: «Gli addii? Prima o poi dovevamo affrontare il problema». Il presidente della Camera ritiene che il nuovo partito abbia bisogno, oltreché di una sferzata creativa ed org a n i z z a t i v a (perquesta mission ritiene Bocchino di un’altra categoria rispetto ai concorrenti), anche di segnali di novità nella plancia di comando, grazie alla valorizzazione di personaggi estranei alla storia dell’Msi-An.

E’ questo il motivo per il quale Fini avrebbe preferito, per la presidenza dei deputati un personaggio come Benedetto Della Vedova, una «persona preparata e perbene». I moderati per altre 48 ore attenderanno segni di vita dall’altro fronte, dopodiché decideranno se organizzarsi in minoranza (devono chiarire se la potesta sulle liste elettorali sia dell’Ufficio di presidenza o di una sola persona), oppure se varare un nuovo soggetto, che non torni nel Pdl ma possa rappresentare «la destra del Terzo polo».

da - lastampa.it/politica


Titolo: FABIO MARTINI Pacifisti e guerrafondai I partiti italiani dalle frontiere mobili
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2011, 04:47:13 pm
Politica

22/03/2011 - ANALISI

Pacifisti e guerrafondai I partiti italiani dalle frontiere mobili

Silvio rallenta, la Lega potrebbe smussare i dubbi, il Pd non si smarca

FABIO MARTINI
ROMA

Come in un formicaio impazzito, i partiti di ora in ora cambiano incessantemente posizione sulla guerra libica.
Smarcamenti e riposizionamenti studiati allo scopo di approdare nel modo più indolore ad un appuntamento a suo modo solenne: la discussione in Parlamento (con tanto di voto) sulla partecipazione militare italiana alla missione di guerra, un dibattito che dovrebbe svolgersi entro le prossime 48 ore e che rappresenterà uno spartiacque, uno di quegli eventi destinati ad entrare se non nei libri di storia, quantomeno nella memoria degli italianielettori. Certo, ogni guerra ha le sue incognite e questo può aiutare a spiegare la grande mutevolezza delle posizioni di leader e partiti, eppure, nel corso della giornata di ieri sono emerse diverse e significative novità, che rendono difficile prevedere se in Parlamento la missione italiana potrà contare sulla stessa maggioranza che si è manifestata quattro giorni fa nelle Commissioni Esteri e Difesa di Montecitorio. In quella occasione - sulla decisione più delicata di tutta la legislatura - ha preso corpo una maggioranza senza precedenti, incardinata sull’asse Berlusconi-Bersani-Casini-Fini. Con i leghisti assenti e i dipietristi astenuti.

Uno schema messo in discussione dalle quattro novità maturate ieri. La prima: il Pdl si è allineato alla posizione del presidente del Consiglio («Il comando delle operazioni passi alla Nato»); la Lega ha fatto capire di essere pronta a riassorbire il suo dissenso, ma ad una condizione: che nella mozione di tutta la maggioranza sia inserito un capitolo sul blocco navale, allo scopo di provare ad arginare dalle coste l’immigrazione clandestina. Terza novità: il Pd, anziché cogliere il cambio di posizione del governo per smarcarsi, non ha contestato un comando militare affidato alla Nato. Quarta novità: il gruppo parlamentari dei Responsabili - sentendo allontanarsi il profumo del rimpasto - hanno assunto una posizione “frondista”, intesa ad alzare il prezzo del proprio appoggio al governo.

Al momento, dunque, si potrebbero sintetizzare grosso modo quattro posizioni. Tra i favorevoli all’intervento, un ruolo di leadership l'ha assunto il Capo dello Stato, sin dalle prime ore intervenuto ripetutamente e risolutamente. Tra i ministri un ruolo «avanguardista» se lo è preso il ministro della Difesa Ignazio La Russa, impegnato in un’intensa attività esternatoria. Nel Pd il fronte del «Sì» è stato aperto da Walter Veltroni, anche se la spinta decisiva ai democratici ha finito per darla il Capo dello Stato e infatti per il momento il segretario Pier Luigi Bersani tiene sulla posizione favorevole, lungo le coordinate quirinalizie, intervento «necessario e legale». Decisamente favorevole Pier Ferdinando Casini e - un po’ defilati - i futuristi di Fini. Ovviamente favorevole ma con tratti di forte prudenza il presidente del Consiglio («Sì alle basi, ma gli aerei non sparino») e il ministro degli Esteri Franco Frattini. In transito da una posizione contraria ad una moderatamente favorevole, sono invece i leghisti, che potrebbero convergere col Pdl a patto che nella mozione sia invocato un blocco navale anti-clandestini.

Posizione che fa drizzare i capelli al Pd. Dice Giorgio Tonini: «Impedire, senza un corridoio umanitario, l’arrivo a chi fugge da una guerra, questa sì sarebbe una posizione che rischia di incrinare i rapporti tra maggioranza ed opposizione». Favorevole alla risoluzione Onu, ma contrario alla gestione dell’azione militare è Nichi Vendola, che si è smarcato dalla posizione del Pd, ma senza assumere un atteggiamento aggressivo verso i Democratici. Stesso atteggiamento sembra prendere Antonio Di Pietro che dopo l’iniziale astensione, era transitato verso il Sì, ma da ieri sembra di nuovo approdato al «nì». Alla sinistra di Vendola ci sono i pacifisti «tout court», contrari comunque ad ogni «ingerenza umanitaria» che utilizzi le armi. Oltre a Gino Strada, anche movimenti cattolici come Pax Christi e la Tavola della Pace.

da - lastampa.it/politica


Titolo: FABIO MARTINI. Lo strabismo del Fli preoccupa Casini
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2011, 04:52:38 pm
Politica

16/04/2011 - RETROSCENA

Lo strabismo del Fli preoccupa Casini

Appoggio ai candidati di sinistra? I finiani: no, ma libertà di voto

FABIO MARTINI
ROMA

Lo strabismo verso sinistra del Fli comincia a preoccupare l’Udc di Pier Ferdinando Casini: i centristi si sono fatti sentire per vie formali ed informali e alla fine gli eclettici futuristi si sono prodotti in una piccola, significativa giravolta in vista delle elezioni a Milano e Napoli, città clou delle prossime amministrative di maggio. Nei giorni scorsi i big del Fli avevano ripetutamente dichiarato che in caso di ballottaggi, mai e poi mai avrebbero appoggiato i candidati di centrodestra. Dichiarazioni troppo anticipate per non suscitare irritazione nei vertici centristi, al punto che il malumore del segretario Lorenzo Cesa, pur soffocato per motivi diplomatici, ha finito per tradursi in una dichiarazione di Mauro Libè, responsabile degli Enti locali: «Nel Nuovo polo è il momento di lavorare per guadagnare consensi e non di dare armi ai nostri avversari politici». Come dire: perché regalare in anticipo voti a Berlusconi? Perché consentire al Pdl di poter dire: visto che Fini e il Terzo polo lavorano per la sinistra? E’ bastata una puntura di spillo dell’Udc perché i finiani cambiassero posizione. Italo Bocchino, plenipotenziario del Fli, dopo che aveva escluso «convergenze» al secondo turno sui candidati Pdl, ieri sera ha annunciato che «potrebbe esserci libertà di voto», cioè l’indicazione ai propri elettori di votare per gli invotabili (fino a due giorni fa) Letizia Moratti a Milano e Gianni Lettieri a Napoli.

Ma la schermaglia tra i seguaci di Casini e quelli di Fini è il riflesso delle scosse di assestamento che continuano a destabilizzare un partito, il Fli, che dopo il congresso di Milano di metà gennaio non ha ancora trovato un assetto e una linea politica stabili. Problemi di crescita resi manifesti dalla decisione del Fli di rinunciare a presentare il proprio simbolo nella grande maggioranza dei comuni e delle province nelle quali si voterà a metà maggio. Il termine per la presentazione delle liste scade oggi e dunque un quadro ufficiale si avrà soltanto domani, ma oramai il trend è definito: il Fli sarà presente solamente in 30 comuni su 140 sopra i 15.000 abitanti, in 11 capoluoghi su 26, in 4 province su 11 e oltretutto i finiani non presenteranno una propria lista neppure in tutte e quattro le realtà più grandi (Bologna, Milano, Napoli, Torino), visto che il simbolo futurista sarà presente soltanto nelle ultime due città. Ovviamente moltissimi candidati indicati dal Fli saranno presenti in centinaia di liste civiche, ma resta il dato di fondo: la sera del 16 maggio nessuno potrà misurare la reale consistenza del Fli al suo primo test elettorale, a differenza dell’Udc che sarà presente quasi ovunque, con ciò confermando indirettamente la leadership nel Terzo polo.

Per il neonato Fli era difficile immaginare una partenza da partito radicato, ma Bocchino spiega la presenza limitata come «una scelta deliberata, quella di privilegiare l’opzione del civismo, sempre vincente nei momenti di grande cambiamento». A livello locale intanto continua l’emorragia: a Napoli se ne sono andati 68 su 96 presidenti di circolo. Ma dentro il Fli la vera divisione è sull’opzione strategica: mentre il capofila della minoranza interna, Adolfo Urso, continua a pensare ad un orizzonte futuro dentro il centrodestra, i leader del partito Fini e Bocchino coltivano opzioni strategiche molto diverse. Saltata la prospettiva delle elezioni anticipate da affrontare con la Santa Alleanza da Vendola a Fini, ieri il presidente della Camera ha espresso il suo favore per il «governo di decantazione» proposto dal duo bipartisan Veltroni-Pisanu con una lettera aperta: «Condivisibile dalla prima all’ultima parola», dice Fini.

da - lastampa.it/politica/


Titolo: FABIO MARTINI. Grillini e De Magistris, l'ora del "partito di Santoro"
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2011, 05:07:06 pm
Elezioni 2011

17/05/2011 - IL CASO

Grillini e De Magistris, l'ora del "partito di Santoro"

Presenze fisse e poco moderate ad Annozero si sono imposte nei seggi

FABIO MARTINI
ROMA

Dove il candidato sindaco dei grillini, Massimo Bugani, un trentunenne con la faccia da ragazzino, dagli slogan netti ma non cattivi, fa una battuta volutamente in politichese, che rende bene l’idea di quel che è successo in queste 48 ore: «Il Terzo Polo? Siamo noi!». Come dire: se nella città natale di Casini e Fini, il Cinque stelle prende il doppio dei voti di consumati terzopolisti come Pier e Gianfranco, noi pesiamo molto più di loro. E anche a Torino, i grillini sono riusciti a superare, sia pur di poco, il Terzo Polo. Ma Santoro, con la sua vocazione da «leader», ha dato una mano anche a Giuliano Pisapia: il più efficace spot televisivo a favore dello sfidante della Moratti, è andato in onda giovedì scorso ad «Annozero».

Ad un certo punto ha telefonato Adriano Celentano, che ha piazzato due, tre battute micidiali. Sulla Moratti: «Lei e Berlusconi hanno stravolto il volto di Milano che ai tempi di Leonardo era una delle città più belle d’Europa». E poi una battuta, che potrebbe persino rivelarsi profetica: «Pisapia dovrebbe ritirare la querela, perché lui ha già vinto!». Uno spot molto più efficace di quelli a pagamento: mentre parlava Celentano si è alzato il picco degli ascolti, trainando «Annozero» verso l’ennesimo dei suoi tanti record. Il «partito di Santoro» è andato forte con i suoi candidati, ma stavolta è andato forte soprattutto il «mood» di sinistra, quello che dice: ce la facciamo da soli, insomma la via autarchica al progressismo. L’opposizione guidata dal Pd dove risulta vincente (a Torino, Bologna, Milano) lo fa grazie a coalizioni di sinistra e, curiosamente, laddove si divide in due spezzoni (a Napoli), lì prevale l’ala più radicale, incarnata da Luigi De Magistris, esponente «eretico» dell’Italia dei Valori.

E la sostanziale irrilevanza del Terzo polo, invocati come potenziali alleati da una parte del Pd, completa il quadro. Nota Marco Follini, esponente moderato del Partito democratico: «La crisi elettorale del berlusconismo costituisce la principale virtù del Pd, mentre la crescita della sinistra radicale costituisce il principale rischio per il Partito democratico». Come dire: non esultiamo troppo per vittorie conseguite per consunzione degli avversari e stiamo attenti ad una sinistra a tradizione «gauchiste». Certo, Luigi De Magistris, Giuliano Pisapia e i grillini sono entità diverse, non riconducibili ad una stessa radice politica e culturale. Ma già da anni, a sinistra, si è formata un’area di opinione, una sorta di polo dell’intransigenza. Con la sua ideologia. I suoi organi di informazione. I suoi frequentatissimi siti web. I suoi leader politici (Antonio Di Pietro e Nichi Vendola), il suo variegato Pantheon ideale (che comprende personaggi come Falcone e Borsellino, Berlinguer e Montanelli) e alcuni guru, che sono anche gli idoli di una intera area. Come Marco Travaglio, Beppe Grillo, Roberto Saviano e colui che riesce ad avere (attraverso la tv) la massima influenza: Michele Santoro.

Una fascia di opinione indignata e intransigente che nelle intenzioni di voto rilevate dai sondaggi oscillava a livello nazionale tra il 10 e il 15%, pur comprendendo in questa area un movimento, come le Cinque stelle grilline, che ci tiene a ripetere di non essere «né di destra né di sinistra». Esemplare la storia di Massimo Bugani, il candidato sindaco dei grillini a Bologna che ieri sera, a conteggi ancora aperti, sfiorava una percentuale eccezionale in una città di sinistra, il 10 per cento: «Mia mamma ha lavorato per dieci anni nell’ufficio stampa del Comune di Bologna, la mia famiglia ha votato sempre centrosinistra ma sentendo dall’interno i racconti delle cose che non funzionavano, ho cercato altre strade» e così quando Grillo «aprì il blog, io fui l’undicesimo a iscrivermi al meetup bolognese su Internet».

E uno dei segreti del successo dei grillini corre proprio lungo la rete, come spiega Mario Adinolfi, un big tra i blogger italiani che conosce bene il mondo «under 35»: «A Bologna, ma non soltanto lì, i ragazzi del Movimento Cinque stelle hanno utilizzato intensivamente e meglio di chiunque altro, la rete e grazie a questa risorsa hanno saputo creare una politica organizzata a livello territoriale, molto più organizzata di quanto si possa immaginare». E ancora: «Per loro, etichettandoli come protestatari e antipolitici, si rischia lo stesso abbaglio che si prese con la Lega, venti anni fa. Chi pensa che sia scontato il loro appoggio a Pisapia a Milano, evidentemente non li conosce».

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Titolo: FABIO MARTINI. Prodi frena gli ardori:"Senza un'idea di Paese tornano a vincere
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2011, 03:58:28 pm
Elezioni 2011

31/05/2011 - RETROSCENA

Prodi frena gli ardori:"Senza un'idea di Paese tornano a vincere loro"

E il popolo di sinistra lo spinge verso il Quirinale

FABIO MARTINI
ROMA

La perfidia del Professore si libera con una battutina sibilata col sorriso sulle labbra: «Gli è rimasta Cesenatico...». Sono le sei della sera, a palazzo Rospigliosi si è appena concluso un convegno sulla Cina, ma Romano Prodi sa già tutto. Cerca di «tenersi», ma la sconfitta di Silvio Berlusconi gli ha messo un buonumore difficile da imbrigliare e infatti «il prof» - come lo chiamano gli intimi - maramaldeggia: «Un consiglio a Berlusconi? Sono troppo giovane per dar consigli ad un politico maturo come lui...». E così, appena concluso il convegno sulla Cina della Fondazione ItalianiEuropei alla presenza di Massimo D’Alema, il Professore risale sull’auto blu e spiazza tutti. Dice: «E se andassimo alla festa in piazza del Pd?». Detto, fatto. Il Professore arriva in piazza del Pantheon mentre sta già parlando Pier Luigi Bersani, nessuno lo aspetta, lui sale sul palchetto e dalla piazza si alza un’ovazione clamorosa e prolungata, con i due emiliani-padani che si abbracciano. E Bersani si commuove

A questo punto il Professore vorrebbe scendere, ma Bersani lo blocca: «No, Romano questa è casa tua!». Intenerito da tanto affetto, Prodi resta sul palco della nomenclatura Pd (ci sono anche la presidentessa Rosy Bindi e i capogruppo parlamentari Dario Franceschini e Anna Finocchiaro), mentre ai piedi della pedana restano gli eterni duellanti dell’ex Pci, Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Sarà un caso, ma proprio loro due - che quando si incrociano nelle manifestazioni, girano lo sguardo altrove stavolta parlottano tra loro. Stavolta i riflettori sono per altri, stavolta ha vinto Bersani e per Prodi c’è stata quella ovazione che finisce per trasmettere un messaggio subliminale: se non c’è il Prof, non si vince e si vince soltanto quando si è uniti. E dunque, quel Prodi sul palco finisce per associare se stesso al mito della vittoria e al mito dell’unità.

Anche se il «meglio», almeno per il Professore, deve ancora venire: quando la manifestazione del Pd si conclude, Prodi si incammina lungo i vicoli rinascimentali che collegano il Pantheon e Montecitorio, attorno a lui si formano due ali di folla e da lì partono applausi e grida esplicite: «Quirinale!», «Presidente!». Una scena inimmaginabile esattamente tre anni fa, il giorno in cui (era il 9 maggio 2008), Romano Prodi lasciò palazzo Chigi e accanto a lui c’erano soltanto tre ministri: Pier Luigi Bersani, Tommaso PadoaSchioppa, Giulio Santagata.

Ma nel giorno della sconfitta berlusconiana, Prodi riserva un’altra sorpresa. Appena si mette a ragionare sul da farsi, il Professore è tutt’altro che trionfalistico: «Ragazzi attenti: senza un’idea del Paese, la prossima volta rivincono loro!». Proprio così: nel giorno della sconfitta che potrebbe essere definitiva del suo nemico storico, il Professore non rinuncia a sottolineare che al Pd manca ancora una lettura complessiva del Paese: «Quando sopraggiungono cambiamenti così significativi, come quello delle elezioni amministrative, aumentano anche le responsabilità e dunque, si sta una mezz’ora a gioire per il successo, la gioia va bene ma poi passa e perciò si deve ricominciare subito col lavoro di organizzazione, di compattamento e con la preparazione di un programma capace di cambiare in profondità il Paese, con una operazione di grande respiro, che non può essere improvvisata». E la conclusione del ragionamento è cruda: «Attenzione perché se non si fa così, ora il vento è favorevole, ma questo stesso vento può diventare tempesta».

Per Prodi la sconfitta della destra potrebbe non essere epocale: «Nel Paese c’è stanchezza e insoddisfazione, ma questo non significa che sia immediata la possibilità di un cambio, anche perché non è facile dare sicurezza su temi come l’angoscia dei nostri ragazzi per il futuro». Ma Romano Prodi non ce l’ha con Bersani. A Pier Luigi il Professore vuole bene. Lo sente simile a lui, gli ha già fatto il regalo di salire sul palco di Bologna una ventina di giorni fa e ora lo dice chiaro e tondo: «Bersani può guidare il centrosinistra? E perché no? Lo sta già guidando. Io non entro nelle decisioni del partito, ma da stasera la mia fiducia in lui è ancora più forte». E così, anche se nessuno lo ha dichiarato da ieri sera è come se si fosse messo in movimento il ticket Bersani-Prodi: un laico a palazzo Chigi e un cattolico al Quirinale. Ma di queste cose il Professore non vuol proprio sentire parlare e ieri sera ha voluto festeggiare ben altro, «il quarantaduesimo anniversario di matrimonio con Flavia».

da - lastampa.it/focus/elezioni2011/


Titolo: FABIO MARTINI. Bersani agli alleati: "Il Pd al centro dell’alternativa"
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2011, 02:11:53 pm
Politica

07/06/2011 - DEMOCRATICI DOPO IL SUCCESSO

Bersani agli alleati: "Il Pd al centro dell’alternativa"

Pier Luigi Bersani, segretario del Pd:«L'affidabilità di Vendola la verifichiamo prima del voto, no generiche carovane»

"Saremo il primo partito italiano".

Botta e risposta con Vendola

FABIO MARTINI
ROMA

Qualcuno, maliziosamente, l’aveva descritto come una sorta di «vincitore involontario» delle elezioni amministrative. Ma al termine della Direzione del Pd, che ha approvato all’unanimità la sua relazione, Pier Luigi Bersani si è presentato davanti ai giornalisti senza polemizzare con nessuno e anzi, sciorinando tre affermazioni che finiscono per convergere sulla sua, possibile futura premiership. Ha detto Bersani: «I principali obiettivi del Pd sono: diventare il primo partito italiano e rappresentare il centro dell’alternativa alla destra» e quanto a Nichi Vendola che poco prima aveva aspramente apostrofato proprio Bersani, definendo «meschine e pelose» alcune sue affermazioni? Il leader del

Pd sorride, porge il calumet di pace: «Io non sono un maestrino, ma serve un patto chiaro davanti agli elettori». L’assioma bersaniano è allusivo ma chiaro e ricorda un teorema un tempo teorizzato da Mariano Rumor: poiché la Dc è a centro del sistema e i dorotei sono al centro della Dc, la guida del Paese tocca ai dorotei. Certo, Bersani non ha uno stile democristiano e men che mai berlusconiano. Si esprime con frasi rotonde, con un lessico che ricorda quello del Pci, ma il suo ragionamento per la prima volta si è snodato attorno a questo asse: se il Pd diventa il primo partito, se il Pd è al centro della schieramento alternativo alla destra, se le sferzate di Vendola non meritano replica, al centro del sistema c’è proprio il segretario del Pd. Ma Bersani non vuole sentir parlare di premiership decise a tavolino, prima del tempo: «Io ci sono, ma non mi metto davanti al progetto, le leadership sono a valle: nella sequenza logica viene prima il progetto, poi le forze che lo sostengono e soltanto alla fine i leader».

Certo, il passaggio di ieri con la Direzione unanime dietro al suo leader - è stato importante per Bersani. I suoi critici interni sono scomparsi. Soprattutto Walter Veltroni lui sempre così tempista - alcune settimane prima delle elezioni, aveva rilasciato una intervista che alludeva ad un chiarimento post-elettorale. Critiche scomparse nell’intervento di Veltroni, che si è rivolto a Bersani chiamandolo ripetutamente «Pier Luigi». Dentro il Pd un clima idilliaco sul quale hanno pesato una polemica e una discussione apparentemente di carattere storico. Aveva iniziato il presidente della Regione Puglia, prendendo di mira l’insistenza con la quale Bersani chiede la serietà di tutti, a cominciare dalla politica internazionale: «Dichiarazioni pelose e meschine, nessuno nel centrosinistra può mettersi in cattedra e considerare gli interlocutori come alunni da sottoporre ad esami». Sarà che la permalosità di Vendola è proverbiale, sarà che il Governatore era stato «ripreso» qualche giorno fa anche da Giuliano Pisapia, sta di fatto che Bersani ha chiuso la polemica. Con soddisfazione di Vendola. In compenso l’intero gruppo dirigente del Pd è attraversato dallo stesso spauracchio: dilapidare, come avvenne nel 1993-94, il vantaggio accomunato con le vittorie nelle amministrative. Letture diverse tra ex comunisti ed ex democristiani. Ha detto Massimo D’Alema: «Non faremo l’errore di autosufficienza dei progressisti di allora». Un accento autocritico che riguarda le scelte del Pds allora guidato da Achille Occhetto, ma rispetto alle quali gli ex popolari non si sentono coinvolti. Ha detto Rosy Bindi: «Posso ricordare che nel 1993 il Pd non c’era?». Più esplicito Beppe Fioroni: «Allora il Pds aveva una ossessione: battere e cancellare tutto quello che ricordava la Dc». In quella consultazione il Pds e il Ppi (senza mai cercare un accordo tra loro) si presentarono separati e Berlusconi vinse le sue prime elezioni.

da - lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/405855/


Titolo: FABIO MARTINI. Il paradosso fra Paese e Parlamento
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2011, 12:19:07 pm
22/6/2011
 
Il paradosso fra Paese e Parlamento
 
 
FABIO MARTINI
 
Proprio alla fine Silvio Berlusconi si concede l’unico sbuffo retorico del discorso più controllato della sua vita: «Mi auguro per l’Italia un futuro di prosperità. Lo dobbiamo ai nostri figli e a questa nostra Italia che noi tutti amiamo. Viva l’Italia!».

Il discorso del premier è finito e nell’aula del Senato è giunto il momento dell’applauso gratificante per il Capo. Ma i senatori del Pdl e della Lega, più che battere le mani, se le sfiorano. Ne esce fuori un applauso affettuoso ma senza fragore. Il ministro Roberto Calderoli smette di applaudire dopo soltanto quindici secondi, poi riprende blandamente. Dunque, un Berlusconi e una maggioranza senza pathos, ma la vera sorpresa è un’altra: le opposizioni hanno rinunciato a presentare documenti sui quali misurarsi. Tanto è vero che tre ore più tardi, alla fine del dibattito sulla verifica parlamentare, i senatori usciranno dall’aula senza sottoporsi al rito del voto.

L’opposizione - si fa sapere - non ha voluto «regalare» un ulteriore voto di fiducia al governo, ma l’esito del dibattito è comunque paradossale, anche perché è la conseguenza di quanto accaduto alla Camera qualche ora prima: chiesta la fiducia sul Ddl Sviluppo, il governo ha incassato 317 sì, 293 no. Un margine largo, di 24 voti, superiore alle attese. Di più: si tratta della vetta più alta in termini di voti a favore mai raggiunta dal governo, a partire dal 14 dicembre 2010. Quel giorno Berlusconi per la prima volta dovette fare i conti con la cospicua secessione dei seguaci di Fini (35 deputati) e nonostante ciò ottenne una sia pur risicata fiducia dalla Camera: 314 sì e 311 no.

Curioso contrappasso, quel margine così largo: proprio mentre nel Paese la maggioranza è in crisi di consensi, sia alle amministrative che ai referendum, in Parlamento il governo non solo tiene - e questo sarebbe fisiologico - ma addirittura si rafforza, diventa sempre più solido. Scherza il senatore ex An Domenico Gramazio: «Berlusconi? E’ come il caffè Lavazza: più lo butti giù, più si tira su!». Scherzosamente lo si potrebbe pure chiamare «effetto Lavazza», ma quella escalation è davvero originale. Come si spiega? «Si spiega con la fifa e la fifa compatta!», dice sorridendo Massimo Garavaglia, uno di quei parlamentari leghisti che non usano mai accenti propagandistici. Sostiene Garavaglia: «Ma bisogna anche aggiungere Pontida. Quest’anno c’era tanta gente, molta più del previsto, soltanto nel 1994 e nel 1996 ce n’era altrettanta. E dunque si è capito che noi le nostre richieste vanno prese sul serio».

Certo, la Lega dice di far sul serio e se le sue richieste saranno disattese, la legislatura potrebbe chiudersi prima del tempo e questo fa paura a tanti parlamentari. Ma nel passato la paura non ha mai fatto lievitare artificialmente le maggioranze. Cosa c’è di diverso in questa stagione rispetto alla Prima Repubblica? «La diversità sta in questo - spiega Paolo Giaretta, già sindaco democristiano di Padova e oggi senatore del Pd - che prima i parlamentari dovevano dar conto ai propri elettori e dunque, anche davanti a uno scioglimento anticipato delle Camere, se erano radicati sapevano di poter tornare in Parlamento grazie al consenso popolare, con le preferenze o nei collegi. Oggi torni in Parlamento soltanto se vuole il leader e dunque ecco spiegato il trasformismo: se cambio casacca, posso sperare che il Capo mi premierà. Conclusione: se la maggioranza è più debole nel Paese, il rischio di elezioni aumenta e in Parlamento la maggioranza si rafforza!». Eccolo spiegato l’effetto fifa. Ma il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri aggiunge una chiosa interessante: «A me pare che da parte della sinistra non ci sia tutta questa voglia di spallata, sanno che se vincessero adesso, dovrebbero gestire una stagione di crisi economica e di tagli». Un effetto fifa anche a sinistra? Sorride un politico di lungo corso come l’ex ministro socialista Rino Formica: «Il Pd cercherà di tener su Berlusconi, aspettando che fra un anno o due la pera caschi matura. E’ il riflesso di un vecchio parassitismo comunista, ma chissà se la scommessa è giusta...».

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8886&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FABIO MARTINI. Scocca l'ora dei Demo-garantisti
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 05:38:39 pm
Politica

25/06/2011 - RETROSCENA

Scocca l'ora dei Demo-garantisti

Bersani coglie gli umori di una gran fetta del partito, ma c'è chi teme la trappola

FABIO MARTINI
ROMA

Sta in maniche di camicia, ma è un Bersani meno gigione del solito quello che si offre ai giornalisti al termine della direzione del Pd, e infatti quando gli chiedono delle intercettazioni il leader democratico - anziché rifugiarsi nelle consuete metafore crozziane - si produce in un lessico tecnicistico, anche un po’ oscuro: «Non siamo per prendere il tema a valle, caricando tutto sui divulgatori, ma dobbiamo andarlo a prendere a monte: lasciando che le indagini si svolgano con gli strumenti che è giusto utilizzare, vogliamo che ci sia un luogo preciso», che segni «il discrimine tra intercettazioni che devono essere consegnate alle parti e altre che devono esser distrutte perché non ineriscono il procedimento». Conclusione: «La nostra proposta c’è, se la vogliono discutere, la discutiamo». Fuor di politichese, nelle parole di Bersani ci sono due messaggi inattesi: da una parte c’è una micro-apertura alla maggioranza, dall’altra c’è un’allusione (sia pure velata) a un emendamento del Pd, poco gradito dai magistrati e finora ignorato dal Pdl - e che invece potrebbe diventare un autentico uovo di Colombo di tutta questa vicenda.

Dunque, Bersani non tira giù la saracinesca: deve tener conto dell’esistenza dentro il Pd di una corrente di pensiero che si potrebbe ritrovare nello slogan «vorrei ridimensionare i pm, ma non posso». Bersani deve tener conto dell’insofferenza per il protagonismo di certi magistrati che è stato espresso due giorni fa da Massimo D’Alema: «Leggiamo una valanga di intercettazioni che nulla hanno a che vedere con vicende penali ma sono sgradevolmente riferite a vicende personali». Un’insofferenza sincera, perché viene da lontano, in parte interessata perché l’ex presidente del Consiglio è l’unico big di sinistra citato (certo non «implicato») nelle intercettazioni sul caso Bisignani. Ma nel Pd c’è anche un’ala garantista per principio.
Dice Giorgio Tonini, ex presidente della Fuci, uno degli uomini di punta dell’area liberal: «L’articolo 15 della Costituzione è molto chiaro, sancisce che “la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili” e d’altra parte la scomparsa della sfera privata appartiene ai regimi totalitari. Dunque la garanzia alla riservatezza è un diritto costituzionale da garantire, così come il diritto di indagare senza interferenze da parte dei magistrati e il diritto di pubblicare ogni notizia». Pier Luigi Castagnetti, anche lui un anti-giustizialista, richiama però a un vincolo: «Purtroppo Berlusconi ha bruciato tutti i ponti per affrontare temi seri e d’altra parte come si può partire da una specifica indagine per toccare temi così delicati?».

Ma stavolta da destra sono stati meno manichei del solito e hanno fatto riferimento, come possibile punto di incontro, a progetti di legge presentati nel passato dal Pd: «Se si riferiscono al progetto Mastella - dice il senatore del Pd Felice Casson - non ci sono spazi di comunicazione». Ma proprio Casson, un ex pm che non ha portato la toga in Parlamento, è stato il promotore di un emendamento - poi fatto proprio da tutto il Pd, guardato con diffidenza dai magistrati e al quale alludeva ieri Bersani - col quale si individua nel pm il responsabile unico della «custodia degli atti», prevedendo serie sanzioni, anche disciplinari, per chi lascia trapelare atti coperti dal segreto. Inspiegabile il disinteresse del Pdl? «No - dice Casson - quello è un emendamento-cartina di tornasole: lo hanno ignorato perché a loro interessa soltanto bloccare le indagini».

da - lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/408698/


Titolo: FABIO MARTINI. L’asse dei "tre Roberti" contro il cerchio magico
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2011, 04:20:35 pm
Politica

22/07/2011 - IL CASO

L’asse dei "tre Roberti" contro il cerchio magico

La strategia di Maroni, Calderoli e Castelli per il futuro della Lega e del governo

FABIO MARTINI

L’Umberto l’aveva confidato soltanto ai suoi e la notizia era stata «silenziata». Due giorni fa, mentre il ministro dell’Interno Roberto Maroni andava su e giù tra i banchi della Lega per «motivare» i suoi nel voto anti-Papa, il capo del Carroccio non era presente in aula perché si era ricoverato per un piccolo intervento di cataratta. Certo, una decisione presa diversi giorni prima, dunque programmata esattamente per le ore in cui alla Camera era stata fissata la votazione sulla richiesta di arresto del deputato del Pdl. Una giustificazione ineccepibile per defilarsi nel giorno della coltellata? Moderate dietrologie sono autorizzate dal calendario degli impegni di Bossi nelle prossime 48 ore: questa mattina l’Umberto non parteciperà alla riunione del Consiglio dei ministri dove sarebbe stato inevitabile un chiarimento a tu per tu con Berlusconi, ma in compenso (a leggere «la Padania») in serata il capo della Lega parteciperà a una festa in provincia di Novara, mentre domattina dovrebbe essere presente all’inaugurazione degli uffici ministeriali alla Villa Reale di Monza.

E d’altra parte per tutta la giornata di ieri Bossi non ha fatto trapelare commenti davanti alle interpretazioni dei giornali che hanno parlato di spaccatura dentro la Lega e di colpo mortale inferto al governo. Ma proprio il silenzio di Bossi sembra confermare una lettura meno lapidaria circa il significato della clamorosa votazione di due giorni fa. Già da qualche tempo - e questa è una novità rispetto alla vecchia geografia interna della Lega - si è saldato un «asse dei ministri», un patto tra due personaggi un tempo antagonisti come Roberto Maroni e Roberto Calderoli, uniti però dall’insofferenza per lo strapotere del cosiddetto «cerchio magico», il clan che da tempo attornia il capo e - a parere di molti - lo condiziona pesantemente: i due capigruppo parlamentari Marco Reguzzoni e Federico Bricolo, la «pasionaria» Rosi Mauro, la moglie del capo, Manuela Marrone. E così, nei giorni scorsi, in vista della decisiva votazione su Papa, il «resto del mondo» leghista si è saldato. Un fronte ampio che comprende quasi tutta la nomenclatura: oltre ai due ministri di punta, il viceministro Roberto Castelli, il segretario della Lombardia Giancarlo Giorgetti e il sindaco di Verona Flavio Tosi. Un patto in difesa della «ditta» che prevede anche una divisione dei ruoli: Maroni si giocherà le sue carte come uomo di governo, Calderoli prenderà in mano le redini del movimento. Con Bossi padre nobile.

Per fare cosa? Far cadere il prima possibile Berlusconi e sostituirlo con un altro premier di centrodestra? Oppure per trasformare la Lega nella locomotiva di una nuova fase politica? Su questo il dibattito è aperto. Quelli che hanno parlato nelle ultime ore con Maroni in via informale hanno ascoltato un Bobo consapevole che dopo il voto del 20 luglio «nulla sarà come prima» e che col voto su Papa è iniziato per davvero il dopo-Berlusconi. Indirettamente lo conferma lo stesso Maroni. Dopo il terremoto mediatico e politico di due giorni fa, nell’unica esternazione fatta ieri, anziché smentire indignato, si è limitato a dire: «Il voto alla Camera non ha avuto alcuna ripercussione sul governo». Tutto qui. Ma un «maronita» emergente, un sindaco di successo come Tosi, primo cittadino di Verona, è molto esplicito: «Il problema non è l’alleanza, ma chi la guida e guida il governo». Come dire: da qui al 2013 non molliamo l’alleanza ma mettiamo un altro premier a Palazzo Chigi. Eppure, da sinistra e anche dal centro, in tanti consigliano a Maroni di rendere la Lega protagonista di una svolta verso una nuova stagione, passando attraverso un governo di unità nazionale. E chi ha parlato informalmente con Maroni - anche big del centro e della sinistra tra cui Massimo D’Alema- si sono sorpresi di trovare un Bobo molto motivato rispetto ad una svolta radicale. Ma un leghista della prima ora come Mario Borghezio non ci crede: «Per come è sistemata la sinistra la vedo difficile, ma in compenso è urgente nella maggioranza un cambio di rotta molto chiaro».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/412529/


Titolo: FABIO MARTINI. Ora Fini progetta il ritorno: "Sarà un autunno caldo"
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2011, 12:06:52 pm
Politica

30/07/2011 - PERSONAGGIO

Ora Fini progetta il ritorno: "Sarà un autunno caldo"

Nelle ultime settimane contatti a 360 gradi. Di dimissioni dalla Camera non si parla più

FABIO MARTINI
ROMA

Un licenziamento così non si era mai visto nella politica italiana. Il 29 luglio di un anno fa, dichiarato «colpevole» di dissenso, Gianfranco Fini viene cacciato dal Pdl per effetto di una delibera prodotta dall’Ufficio di Presidenza. In poche ore l’ex leader di An riesce ad organizzare una scialuppa di 44 onorevoli «fuggiaschi», anche se non può immaginare che di lì a qualche giorno avrà inizio quella che il suo amico Italo Bocchino a posteriori definisce «un’estate terribile». Per effetto del forcing asfissiante prodotto da parte dei giornali della destra sulla vicenda della casa di Montecarlo. Storia minore, penalmente irrilevante, anche se rimasta molto opaca.

Ad un anno di distanza, il presidente della Camera si prepara ad un’estate psicologicamente molto diversa (unica continuità la villa presa in affitto ad Ansedonia, la stessa di un anno fa), soprattutto perché ha già deciso - e spiegato ai suoi - la strategia dei prossimi mesi: una ri-discesa in campo, che prenderà corpo nel corso del prossimo autunno, un «autunno caldo». E in queste settimane Fini ha tenuto contatti informali a tutto campo: col governo, con i leader del Pd ma anche col personaggio emergente della Lega, Roberto Maroni. Pochi giorni fa, in una intervista a Repubblica, Fini ha inaspettatamente lanciato Maroni come possibile premier, una sortita che ha fatto il pieno dei dissensi, da destra a sinistra. Ma, pochi giorni prima dell’intervista, il presidente della Camera aveva avuto un colloquio riservato proprio col ministro dell’Interno.

Il «ritorno» di Fini, dunque, si concretizzerà da settembre: a partire dal discorso che pronuncerà alla festa del Fli di Mirabello, il presidente della Camera ha deciso di dismettere l’aplomb ingessato ed istituzionale dei mesi scorsi, sostanzialmente per «iniziare la campagna elettorale», in vista di elezioni che al Fli danno per probabili nella primavera del 2012. Fini ha programmato un giro d’Italia intensivo, con comizi in tutte le province. Un «autunno caldo», quello di Fini, che potrebbe essere preceduto - ma in questo caso il condizionale è di rigore - da un annuncio destinato a rafforzare il suo «ritorno»: le dimissioni da presidente della Camera.

Una decisione per il momento improbabile, lungamente valutata nei pro e nei contro, ma legata ad alcune variabili che, forse, saranno più chiare ai primi di settembre. In una stagione nella quale la prassi costituzionale è stata rivisitata dall’«attivismo» del Capo dello Stato, anche l’anomalia-Fini ha finito per ridimensionarsi. E la scelta di restare o meno alla guida della Camera è tornata ad essere una questione di opportunità politica e non più istituzionale. Nelle settimane scorse Fabio Granata, il «kamikaze» di Fli, aveva dato pubblicamente voce a chi dentro il Fli, preferirebbe un impegno a tempo pieno di Fini sul ring politico, anche a costo di rinunciare ai vantaggi - materiali e di status - derivanti dalla presidenza della Camera. Un’istanza che ora Fini non scarta a priori, anche perché - come dice il presidente dei deputati Benedetto Della Vedova «Fini è psicologicamente libero». Nel senso che nessuno gli chiede più di dimettersi.

E dunque Fini si sente libero di prendere qualsiasi decisione. Anche quella di restare. La soluzione più semplice e più probabile, anche perché - come sostiene il presidente dei deputati Italo Bocchino - «sulla base di una ricerca di opinione molto dettagliata, per gli italiani la questione non esiste». E dunque, da Mirabello, Fini non farà clamorosi annunci, tranne che in un caso: «Se ci fosse la certezza di elezioni anticipate ad aprile 2012, a quel punto Gianfranco potrebbe annunciare in anticipo le sue dimissioni da presidente della Camera», sussurra uno dei fedelissimi del capo.

Certo, il «ritorno» di Fini è determinato anche dalla crisi del Fli. Nell’autunno scorso, subito dopo la Convention di Bastia Umbra («Berlusconi si dimetta») quotato da tutti gli istituti di sondaggio sopra il 7 per cento, a partire dal clamoroso fallimento della sfiducia al governo, il Fli ha via via perso consensi potenziali e reali. Una difficoltà acuita in occasione del secondo turno delle amministrative e dei referendum: la libertà di voto suggerita ai propri potenziali elettori ha finito per alludere ad una sostanziale irrilevanza del movimento.

Digerita la delusione elettorale, pare che in questi giorni Fini sia «molto carico», come sostiene il riservatissimo Alessandro Ruben, lo sherpa delle sue missioni negli Stati Uniti e in Israele. E Bocchino si dice convinto che la nuova stagione premierà proprio il presidente della Camera: «Una ricerca affidata ad una società leader al mondo ci conferma che, per l’evolvere della situazione italiana e per le caratteristiche di Fini, proprio lui è il leader che nel passaggio dalla Seconda alla Terza Repubblica, è quello che potrà garantire meglio il cambiamento tranquillo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/413715/


Titolo: FABIO MARTINI. "Mi chiami dottore" Ora l’onorevole vuole mimetizzarsi
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2011, 12:29:36 pm
Politica

08/09/2011 - MANOVRA- CHI VINCE E CHI PERDE- LA STORIA

"Mi chiami dottore" Ora l’onorevole vuole mimetizzarsi

Spille sulle giacche: non sono rari i casi in cui i parlamenatri se le siano tolte

Se riconosciuti per strada spesso vengono insultati e a volte anche minacciati dalla gente

FABIO MARTINI
ROMA

Ai politici, girando per strada, stanno cominciando a capire cose strane. Sguardi cattivi. Parolacce. E può capitare anche di finire «dentro» sketch da film.Come quello che racconta il protagonista, l’onorevole Francesco Nucara: «Ero in ospedale, mi era stato appena inserito un bypass coronarico, stavo sulla barella ed ero ancora un po’ stordito perché mi avevano appena tolto una cannula dalla bocca. Un infermiere, distraendosi, si mette a raccontare al collega le meraviglie di un appartamento sul quale ha messo gli occhi... Ricomincio a parlare e chiedo: scusate, mi potreste aiutare? A quel punto, l’infermiere mi fa la fatidica domanda: scusi ma lei che mestiere fa? Penso tra me e me: ora gli dico che sono pensionato... Mentre sto per dirlo, penso: magari fra poco passa il professore e mi dice: onorevole, come si sente? Per non essere sbugiardato, dico agli infermieri: sono parlamentare, ma per passione... E uno di loro: quanto guadagna? Glielo dico e l’infermiere risponde: ma le pare che io con milleduecento euro sto qui a pulire la m...?».

L’onorevole Nucara, 71 anni, da Reggio Calabria, è dotato di ironia applicata a sé stesso e dunque si racconta senza remore. Non tutti hanno questa dote, ma da qualche settimana i politici - sia pure tra di loro - si raccontano storie di ordinaria paura. In giro per il Paese si sta alzando un umor nero. Insofferenza per i privilegi della “casta”. Intolleranza. A volte «vero e proprio odio», ammette Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati Pdl. E davanti a questa marea montante, gli onorevoli stanno scoprendo una nuova forma di pudore: provano a dissimularsi. Il napoletano Giuseppe Scalera, pdl, lo racconta in modo spiritoso: «Il mio domestico filippino mi chiama sempre senatore. Gli ho detto, chiamami signore...». E più seriamente Scalera aggiunge: «Due colleghi mi hanno riferito di aver detto ai propri figli: a scuola non dite che papà è onorevole».

Altri cercano di rendersi irriconoscibili. Racconta Aldo Di Biagio, deputato tutto d’un pezzo del Fli: «A me i distintivi non piacciono, ma almeno tre colleghi mi hanno confidato di esserseli tolti per evitare di essere riconosciuti. Diciamo che chi prima eccedeva, ora sta diventando più sobrio, anche se il vero rischio è quello di essere messi tutti nello stesso mazzo. Anche quelli che fanno il proprio dovere». Ma intanto tentare di mimetizzarsi sembra un buon investimento, anche perché chi è sincero e "ammette" il proprio ruolo, finisce dentro situazioni spiacevoli. Sui divanetti in pelle rossa del Transatlantico ieri pomeriggio i deputati del Pd si raccontavano l’ultima leggenda metropolitana, quella che riguarderebbe la deputata Giuseppina Servodio, barese, assistente sociale. Qualche tempo fa, si racconta, era salita su un autobus a Roma e non trovandosi soldi sufficienti in borsa, aveva chiesto un piccolo aiuto ad un passeggero e subito dopo aveva spiegato di essere parlamentare. Col risultato di finire aggredita con apprezzamenti del tipo: ecco, togliete i posti alla gente.

Naturalmente tra qualche pavido ci sono pure gli spavaldi. Racconta il senatore pdl Domenico Gramazio, una giovinezza missina in prima linea a menar le mani: «Martedì, per via dello sciopero, ero venuto al Senato in macchina, la polizia non mi lasciava passare e ho detto: sono un senatore... In quel momento è passato un ragazzo con una bandiera rossa e mi ha detto: e vacce’ a piedi. Io che non mi vergogno di essere senatore, gli ho risposto: quella bandiera te la ficchi...». Un altro che non si nasconde è l’onorevole Antonio Angelucci, il re delle cliniche private romane, pdl. Racconta Benedetto Della Vedova, presidente dei deputati Fli: «Fuori Montecitorio, ci è mancato poco che venissi investito: ho guardato, era Angelucci. A bordo della sua Ferrari gialla».

Ma davanti all’ostilità debordante, cominciano già a spuntare le strategie di sopravvivenza. Racconta Giorgio Stracquadanio, il deputato pdl che, avendo sempre amato le provocazioni più hard, è tra i più esposti a reazioni “toste”: «Sui Social network da tempo ero pesantemente preso di mira con una valanga di insulti. Ho deciso di accettare la sfida, di accettare il confronto alla pari. Per 15 giorni è dura, poi può capitare che uno ti inviti a bere una birra. Ti dicono: non mi hai convinto, ma ti sei confrontato. E’ il riscatto dell’onorevole che di questi tempi, per l’appunto, ha perso l’onore». Ma la marea è ancora alta e uno dell’altro schieramento come l’ex ministro Giulio Santagata, già braccio destro di Romano Prodi a palazzo Chigi, da un po’ di tempo ripete agli amici una delle sue battute paradossali: «Sarà bello se riusciremo ad usciremo da qui salvando la pelle».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419195/


Titolo: FABIO MARTINI Da Bossi a Fini e Bersani: quando il Capo finisce nel mirino
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2011, 11:12:08 am
Politica

13/09/2011 - LA CASTA MONTA LA PROTESTA

Contestare il leader: la moda (bipartisan) degli ultras dei partiti

Quest’estate il senatùr ha lasciato il Cadore di notte per via dei leghisti in rivolta

Da Bossi a Fini e Bersani: quando il Capo finisce nel mirino

FABIO MARTINI
ROMA

Il capo è mio e me lo contesto io. Nella risorgente stagione dell’intolleranza popolare per i politici, sta prendendo corpo un fenomeno nuovo: la contestazione sulla pubblica piazza di big della politica da parte di militanti della stessa area. Per ora si tratta di piccoli scrosci, eppure la casistica si sta velocemente infittendo. Nel giro di poche settimane, uno dopo l’altro, sono stati presi di mira non soltanto leader oramai temprati come Massimo D’Alema o Silvio Berlusconi, ma anche personaggi finora immuni a contestazioni da parte dei propri aficionados. Come Gianfranco Fini, Umberto Bossi, Nichi Vendola, Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi. Persino il sindaco di Firenze Matteo Renzi, il rottamatore dei «vecchi», per qualche minuto, è finito dentro il tritacarne e proprio nella sua città.

E’ come se si stesse rapidamente consumando quell’aura di rispetto che in lunghe fasi della Repubblica ha preservato anche i leader più controversi dalle proteste dei propri fans. Per il professor Alessandro Campi, siamo ad un passaggio di fase, ad un tornante a suo modo «storico»: «Si stanno sommando un fenomeno più epidermico, il malessere in una fase di stallo politico e di crisi economica e un fenomeno più profondo, di lunga durata. Sta cioè cominciando ad entrare in crisi il modello della leadership monocratica, inamovibile e carismatica creata da Berlusconi ma mutuata da quasi tutti gli altri. Cittadini ed elettori, che in quello schema erano relegati in un ruolo subordinato e di ascolto, stanno tornando a voler essere protagonisti, dicendo la loro».

E proprio questo «riprendersi la parola» da parte dei cittadini-militanti sembra essere il filo rosso che congiunge contestazioni tra loro assai diverse. L’altra sera il sindaco di Firenze Matteo Renzi si è presentato alla festa democratica della sua città con il consueto armamentario di battute taglienti che finora alle feste del Pd gli avevano garantito tanti applausi e qualche sopito mugugno. Ma l’altra sera, quando ha ribadito con schiettezza e argomentazioni lapidarie i motivi per i quali non ha aderito allo sciopero generale della Cgil, stavolta dalla platea sono sibilate urla: «Vergogna!». E quando Renzi ha detto che, a suo parere era giusto varare una manovra da 45 miliardi, si sono alzate di nuovo grida belluine: «Torna ad Arcore!». Certo, con le consuete battute «pane al pane» («Toglietevi il prosciutto dagli occhi, se a Firenze abbiamo salvato asili e servizi sociali è perché abbiamo fatto un accordo col governo»), alla fine Renzi se ne è andato tra gli applausi, ma intanto sulla sua immagine è restata l’ombra della mini-contestazione in casa.

Ma se un personaggio come Renzi le proteste in qualche modo se le va a cercare, ben diverso è il destino che ha colpito due veterani, sinora immuni da contestazioni in casa come Bossi e Fini. Nel giro di 25 giorni, ai due è capitato qualcosa che non avevamo mai visto in 25 anni. Fino a pochi mesi fa, quando Bossi o gli altri leghisti arrivavano all’hotel Ferrovia di Calalzo di Cadore, si apriva un pellegrinaggio a caccia di baci, foto ricordo, in un cicaleggio di «viva Bossi» e «viva la Lega». Quest’anno è girato il vento. Dopo Ferragosto, accerchiato dalle contestazioni da parte dell’(ex) popolo leghista bellunese, Bossi si è mimetizzato tra baite e uscite laterali e alla fine ha dovuto lasciare (di notte) l’hotel. E su Fini, due giorni fa, è caduta una mini-contestazione proprio nella «sua» Mirabello, il paese emiliano dove era nata la mamma e dove 24 anni fa Giorgio Almirante lo lanciò come proprio erede. E una settimana fa, Pier Luigi Bersani ha attraversato tra sorrisi e applausi il corteo della Cgil, ma anche lui ha dovuto ascoltare qualche rasoiata a lui indirizzata: «Siete tutti uguali...».

Persino a personaggi come Nichi Vendola e Rosy Bindi, in costante feeling con le proprie platee, è capitato di incorrere in contestazioni, seppur fugacissime: al Governatore pugliese davanti a Mirafiori; alla presidente del Pd, il 9 luglio a Siena, quando davanti all’assemblea delle donne «Se non ora quando?», è stata fischiata non appena ha detto: «Chiederò al mio partito di ascoltare le vostre ragioni...». Dice il professor Arturo Parisi, un politico che la politica l’ha studiata per decenni: «E’ ripartito tutto con i referendum: 27 milioni di italiani ci hanno spiegato quanto sia impellente la domanda di partecipazione diretta e di massa. Quando si aprono cicli di questo tipo non tengono più i canali delle deleghe, le tranquille passeggiate nei cortei...».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419962/


Titolo: FABIO MARTINI. Così la Chiesa si riprende i voti
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2011, 05:35:50 pm
29/9/2011

Così la Chiesa si riprende i voti

FABIO MARTINI

I peana della sinistra per la prolusione del cardinal Angelo Bagnasco - così severa nel fustigare le esuberanze del presidente del Consiglio - si sono prima affievoliti e alfine spenti, non appena ci si è resi conto della svolta che sta maturando nella Chiesa italiana: la tentazione di lanciare un’Opa cattolica sul centrodestra del dopo-Berlusconi. Raccontano che il cardinal Bagnasco, sfogliando i giornali che recensivano la sua prolusione, abbia sussurrato la sua sorpresa.

Sul Presidente del Consiglio ci eravamo già espressi un anno fa, la novità era altrove...». Come dire: il sipario su Berlusconi la Cei aveva iniziato a calarlo già nel Consiglio permanente di gennaio, ma la svolta vera sta nel passaggio finale del documento dei vescovi, là dove la Chiesa italiana individua senza perifrasi curiali, lo «stagliarsi all’orizzonte», di «un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica, che coniughi l’etica sociale e l’etica della vita».

E’ finito il tempo dei Family day. Della lobby cattolica che faceva muro sulle leggi sgradite. I Dico. O la fecondazione assistita. L’appello della Cei, stavolta, è più arioso, è rivolto a tutti i cattolici: impegnatevi di nuovo in politica e fatelo a tutto tondo. Non soltanto a difesa - ecco la novità - dei cosiddetti valori non negoziabili. Con la fine di Berlusconi, la Chiesa prova a riprendersi i suoi voti. E così può finalmente affiorare in superficie il cantiere che la Cei ha aperto con grande riservatezza da più di un anno. E che produrrà due eventi senza precedenti: il 17 ottobre la galassia cattolica tutta intera - le associazioni e i movimenti ecclesiali, da Cl a Sant’Egidio, dai catecumeni ai focolarini - si ritroverà a Todi con il cardinale Bagnasco, che aprirà i lavori. E sull’onda di un evento così ecumenico che unirà «sinistra» e «destra» della Chiesa italiana, i promotori di Todi hanno intenzione di convocare - prima di Natale - un grande evento di massa, più ampio di quello che nel nome del «Family day», fece ritrovare il 12 maggio 2007 quasi un milione di persone davanti alla basilica di San Giovanni.

Attraverso il Forum delle associazioni, la Cei sta lavorando ad un obiettivo ambiziosissimo: imporsi, sia pure in modo felpato, come socio fondatore del centrodestra che prenderà forma dopo l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Lo fa capire la nota della Sir - ufficiosa ma autorevole - dedicata alla prolusione di Bagnasco: «Dopo quasi venti anni di alternanze», «l’alternativa non è l’alternanza, cioè la sostituzione dell’attuale maggioranza con l’attuale opposizione, ma la ristrutturazione del sistema». Una ristrutturazione che assegni di nuovo ai cattolici un ruolo di prima linea e si può immaginare che l’approdo sia la «sezione italiana del Ppe», «il progetto attorno al quale possono scomporsi e ricomporsi gli attuali equilibri politici italiani», come fa osservare Giorgio Tonini, già presidente della Fuci.

Dunque, una sfida che interpella anzitutto il centrodestra, ma anche la sinistra. Il mondo cattolico e anche una parte del mondo laico. A Todi, a metà ottobre, assieme alle associazioni, ai movimenti, a Cisl e Coldiretti, ci saranno alcuni «special guest», come Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa San Paolo o come Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo. Oltre, ed è ovvio, chi ha lavorato in cabina di regia, in primis il leader di Sant’Egidio Andrea Riccardi. Dal cantiere di Todi dovrà cominciare a delinearsi quella che Bagnasco informalmente definisce «una nuova classe dirigente e nuovi leader» e Oltretevere la prima scelta va ad Angelino Alfano. Purché - ecco il punto - sappia guidare lui l’accompagnamento fuori dalla scena di Silvio Berlusconi.

E dall’altra parte? Pier Luigi Bersani, anziché unirsi ai peana pro-Bagnasco che si sono alzati nel Pd, ha chiosato: «Non mi permetto di commentare la prolusione». Bersani, che ha fatto il chierichetto e si è laureato con una tesi su Gregorio Magno, ha capito l’antifona. Ma l’ambizioso progetto del cardinale Bagnasco di tornare ad una gestione politica degli elettori cattolici per il momento incontra praterie a destra, ma coglie il Pd mai così spostato a sinistra. Come dimostrano le immagini del leader democratico, impegnato a stringere mani nel corteo della Cgil e a sorridere a Di Pietro e Vendola nel comizio a tre in quel di Vasto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9257


Titolo: FABIO MARTINI. Profumo frusta il Pd Basta con gli inganni riformiamo le pensioni
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 05:08:44 pm
Politica

02/10/2011 - PERSONAGGIO

Profumo frusta il Pd "Basta con gli inganni riformiamo le pensioni"

L'ex ad di Unicredit si schiera e gela i quadri della Bindi

FABIO MARTINI
INVIATO A CHIANCIANO

A prima vista la platea dell'«area Bindi» non sembra il luogo più adatto per aggredire i tabù socio-economici della sinistra e infatti Alessandro Profumo, il «banchiere dal volto umano», prova a sondare il terreno: «Se vogliamo far lavorare le persone fino a 65-70 anni, visto che l'attesa di vita si è allungata...». Dai quattrocento quadri «bindiani» - parlamentari, docenti, assessori, giovani, ultracinquantenni in gran parte di formazione cattolicodemocratica - si alza un significativo brusio, ma Profumo non indietreggia: «Se noi restiamo ancorati ai principii del passato», se non si intaccano «i tabù della sinistra», «forse si vinceranno le elezioni, dopodiché però ce lo dobbiamo dire chiaramente: stiamo fregando i nostri figli e i nostri nipoti!». Silenzio in platea.

Ma il piglio di Profumo, il viso compreso di Rosy Bindi alla presidenza e la cortesia dei quadri della corrente finiscono per soffocare l'iniziale brusio e alla fine un (moderato) applauso saluterà la conclusione del discorso dell'ex leader di Unicredit, in particolare la conferma che a lui la politica interessa: «Sì, assoluta volontà e disponibilità» a mettere a disposizione la «competenza», ma «senza arroganza» e senza demonizzare la politica, convinto - al contrario di Diego Della Valle - che «l’idea che la società civile sia meglio della classe politica è proprio sbagliata». Certo, dal punto di vista del coinvolgimento di Profumo in politica, non ci sono escalation rispetto all’annuncio di un mese fa alla festa dell’Api di Labro, quando il banchiere disse per la prima volta di essere pronto a mettersi in gioco.

Per il momento - dicono da Milano - è destinata ad intensificarsi la collaborazione con la giunta Pisapia e in particolare con Bruno Tabacci, il politico che il banchiere maggiormente stima. Sorride Rosy Bindi: «Non stiamo mica cercando il Papa straniero e neppure le Papesse! Siamo già forniti!». Come dire: oggi come oggi non può essere Profumo il candidato di sintesi del centrosinistra per palazzo Chigi. Ma si è rivelato un evento interessante l'incontro e la difficile interazione tra il banchiere e un pezzo di Pd, uno di quelli dove meglio si compendia l'«anima» del partito. La Bindi - infrangendo l' ostracismo non dichiarato ma reale che i vertici del Pd riservano a imprenditori e banchieri di «frontiera» - ha rotto gli indugi, capitalizzando la simpatia che Profumo le riservò in occasione delle Primarie Pd del 2007. E lo ha invitato alla riunione della sua corrente, una delle dieci sottocomponenti che animano la vita del Pd.

Riuniti a Chianciano (dove tanti anni fa si ritrovava la sinistra dc di Zaccagnini), i fans della Bindi due sere fa all’hotel Excelsior hanno applaudito Pier Luigi Bersani e ieri erano pronti a fare altrettanto con Profumo. Cinquantaquattro anni, ex scout, figlio di un presidente della Fuci che era amico di Aldo Moro, unico banchiere a votare alle Primarie Pd, dopo l’uscita forzosa di un anno da Unicredit (con una liquidazione da 40 milioni di euro), Profumo ora guida una piccola società di consulenze. A Chianciano si è presentato in un completo grigio ferro, senza cravatta e con uno zainetto trans-age. Preceduto dall’ex sottosegretario Laura Pennacchi e dal giornalista del «Corriere della Sera» Maurizio Mucchetti, egualmente critici rispetto alla sinistra che ha sposato il liberismo e dimenticato le virtù dello Stato, Profumo non si è intimidito. Premessa: «Vorrei un Paese che fosse competitivo, solidale e molto rispettoso con le persone».

L’Italia? «Deve ancora fare i compiti a casa». La globalizzazione: «Per il lavoratore cinese è migliorato o no il tenore di vita?»; «in Romania il costo del lavoro legale è un quarto che in Italia, negarlo è difendere bidoni vuoti». E ancora: «Dobbiamo dirci in modo chiaro che le risorse per pagarci le pensioni con la normativa attuale non le abbiamo». Lo statalismo della sinistra? No al «ritorno al pubblico». Ma anche suggestioni di «sinistra»: «Criminalizzare il debito è pericoloso» perché per una giovane coppia accedere al credito è fondamentale, «i paesi nei quali c’è una più alta partecipazione al lavoro sono quelli dove il tasso demografico è più alto».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/422939/


Titolo: FABIO MARTINI. "Primarie subito entro gennaio" Mossa di Vendola e Di Pietro
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 11:22:39 am
Politica

05/10/2011 - RETROSCENA

"Primarie subito entro gennaio" Mossa di Vendola e Di Pietro

Ma il Pd resiste. Fioroni e i veltroniani: presto per un’alleanza solo a sinistra

FABIO MARTINI
ROMA

Sul Pd, di nuovo alle prese con le sue inquietudini interiori, sta per avvicinarsi una nuvola sinora rimasta all’orizzonte: la richiesta di farle per davvero le Primarie per Palazzo Chigi. Da anni le evocatissime primarie sono l’araba fenice del centrosinistra: Nichi Vendola le invoca ogni volta che può, Antonio Di Pietro ripete che si dovrebbero fare, ma il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha risposto a tutti che, sì, gli elettori potranno dir la loro, ma prima bisognerà pensare al programma. Come? Quando? Nessun lo sa, anche perché nessuno sinora ha proposto di mettere un punto all’alato dibattito. Ma fra qualche giorno potrebbe determinarsi una svolta, o quantomeno una scossa. Dice Gennaro Migliore, del gruppo di comando della vendoliana Sel: «A questo punto, la cosa migliore è decidere di farle le Primarie e di farle entro gennaio». E infatti sabato si riunirà il vertice di Sel e la rituale, generica richiesta di Vendola sarà per la prima volta corroborata da un vincolo temporale: facciamole il più presto possibile. E d’altra parte, venti giorni fa, con una dichiarazione confusa con tante altre di routine, Antonio Di Pietro ha annunciato che pure lui sarà della partita: «Mi candido alle Primarie!».

In parole povere gli unici due alleati certi del Pd - Sel e Idv - si preparano a “stringere” Bersani con una offensiva che lo costringa o a cedere, oppure, cosa più probabile, a caricarsi della responsabilità di un «no». Chiosa Arturo Parisi, in questi mesi protagonista di colloqui privati e pubbliche battaglie con Vendola e Di Pietro: «Non mi sorprende che Sel e Idv abbiano deciso di intensificare l’offensiva sul fronte delle Primarie, evidentemente hanno capito che una collaborazione “coordinata e continuativa” col Pd non può mai tenersi su un piano di subalternità». Ma quello di Vendola e Di Pietro è un piccolo, significativo scatto perché sinora si erano limitati entrambi ad una invocazione generica, come aveva fatto ancora quattro giorni fa il leader di Sel da piazza Navona: «Caro compagno Bersani...».

Ma al Pd continuano a far orecchie da mercante. Nella maggioranza bersaniana ma anche nella minoranza. Dice Beppe Fioroni: «Ma davvero possiamo pensare che il Pd si faccia promotore di Primarie di coalizione, mentre c’è ancora aperta la possibilità di una intesa con il cosiddetto Terzo polo? Sarebbe un’offesa all’intelligenza». Dice il veltroniano Stefano Ceccanti: «L’offensiva di Vendola la capisco ma credo non sarà difficile resistere: in questo momento nel Pd nessuno è intenzionato a rinchiudersi in un’alleanza soltanto di sinistra».

Ragionamenti pragmatici che si intrecciano con una curiosa nemesi: il Pd non soltanto ha promosso primarie di coalizione ovunque (da Torino a Napoli, da Milano a Bologna), ma proprio in queste ore si moltiplicano i pronunciamenti pro-Primarie ai livelli più diversi.
Massimo D’Alema, proprio ieri, alla presentazione della rivista “Next Left”, a Bruxelles, ha proposto «l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea, con ogni partito che presenta un candidato, scelto anche tramite delle Primarie europee». E per quanto riguarda la presidenza dell’Anci, davanti alle candidature congiunte di Graziano Del Rio, sindaco di Reggio Emilia, cattolico e di Michele Emiliano, sindaco di Bari, oggi i delegati Pd potrebbero scegliere attraverso una sorta di elezione primaria.

Ma proprio mentre si accinge all’affondo sulle Primarie, Nichi Vendola deve prendere atto della rottura politica promossa da Fausto Bertinotti. L’ex presidente della Camera - dopo aver considerato negativamente l’opzione referendaria pro-Mattarellum di Sel - in un articolo scritto per “Alternative per il socialismo”, propone un’analisi molto più radicale di quelle da lui stesso suggerite in anni recenti: «Nessun riformismo, né borghese né di sinistra è capace di diventare soggetto politico consistente» nella attuale crisi del capitalismo e dunque in questo frangente «la politica non ha alcuna autonomia», «è costretta in un recinto». E dunque, è meglio accompagnare i movimenti che respirano l’aria della rivolta». Come dire: guai ad impegnarsi in una coalizione che punta a governare.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/423387/


Titolo: FABIO MARTINI. Pd, in campo i quarantenni ma sono già divisi in tre
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2011, 06:12:32 pm
Politica

09/10/2011 - OPPOSIZIONE, IL CASO

Pd, in campo i quarantenni ma sono già divisi in tre

Per sostenere Renzi arrivano il produttore dell'Isola dei famosi e Baricco

FABIO MARTINI
ROMA

Il glamour spettacolare, almeno quello, è garantito. Per la kermesse di fine ottobre con la quale proverà a proporsi come candidato del centrosinistra a palazzo Chigi, Matteo Renzi è andato a pescare nientedimeno che un big della produzione televisiva: dietro le quinte ci sarà Giorgio Gori, già direttore di Canale 5, una fama di manager creativo, da qualche anno produttore dell’”Isola dei famosi”. E se Gori dovrebbe garantire tempi giusti ed impatto emotivo dell’evento, lo scaltro Renzi ha già “ingaggiato” un altro personaggio evocativo, capace di coprire un “segmento” ben diverso: alla stazione Leopolda ci sarà anche lo scrittore Alessandro Baricco. La kermesse renziana di fine ottobre sarà l’ultima di una sorprendente raffica di convention: ben tre, separatamente convocate da clan diversi di trenta-quarantenni, tutti dichiarati rinnovatori del Pd e della sua classe dirigente.

Tre kermesses, una dietro l’altra: il 16 ottobre si ritroveranno all’Aquila trenta-quarantenni prevalentemente di area bersaniana, gli “ortodossi” guidati dal ligure Andrea Orlando, all’insegna di un moderato riformismo laburista. Con una blanda venatura generazionale e un anti-Renzi pronto in caso di emergenza: il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti. La settimana successiva, il 22 e il 23, il duo Pippo Civati-Debora Serracchiani ha convocato a Bologna, in piazza Maggiore, la convention “Il nostro tempo”, con una parola d’ordine su tutte: far ritrovare nella stessa piazza Pd e movimenti. E infine toccherà a Renzi chiudere l’ottobre dei quarantenni con la sua Leopolda, fissata per il 28, 29 e 30 ottobre.

E così, mentre dall’altra parte della barricata, si sta tumultuosamente organizzando il dopo-Berlusconi, sul fronte democratico la nuova generazione prova ad uscire allo scoperto, sia pure con personaggi, stili e ambizioni molto diverse tra loro. Renzi resta il precursore. Dopo la sua elezione a sindaco di Firenze nel giugno 2009, il modello-Renzi (Primarie e sfida aperta alla nomenclatura di partito) è stato imitato con successo a Milano da Pisapia, a Napoli da De Magistris, a Cagliari da Zedda. E ora, nella speranza che Bersani si decida ad indire Primarie di coalizione per la premiership, il sindaco fiorentino vuole proporsi oltrechè per il messaggio di rottura («Rottamiamo la vecchia classe dirigente del Pd»), anche per un’identità politica più marcata, di rinnovatore anche della cultura politica della sinistra.
Sempre più detestato dai vertici del Pd (Bersani lo ignora, la Bindi e D’Alema non perdono occasione per attaccarlo), sempre più connato come “destro”, Renzi piace però ad alcuni personaggi-icona della sinistra. Come Stefano Benni («Nella mia mente sarai il prossimo presidente del Consiglio»), Lorenzo Jovanotti («Se fai cose che ci piacciono, ti veniamo tutti dietro»), Roberto Benigni (che giorni fa ha bissato una lunga chiachierata a tu per tu a palazzo Vecchio). Nella seconda edizione della Stazione Leopolda, chiamati ad aiutare Renzi nell’impresa di conferirsi un certo spessore poltico, quadri locali del Pd, come il sindaco di Novara Andrea Ballarè, 44 anni; il cattolico Matteo Richetti, 37 anni, presidente del consiglio regionale dell’Emilia-Romagna; il probabile candidato del Pd a Palermo, il trentaseienne Andrea Faraone. Sostiene Renzi: «Io non ho voglia di unire la mia voce all’oceano di parole strascicate, urlate e bisbigliate dal ceto politico. E’ arrivato il momento di parlare di cose concrete, buttar giù l’ossatura di un programma per l’Italia».

E se Renzi ha già da tempo occupato il fronte moderato del Pd, Pippo Civati (36 anni, brianzolo, consigliere regionale lombardo) e Debora Serracchiani (40 anni, udinese d’adozione, europarlamentare e segretario regionale Friuli-Venezia Giulia) hanno un approccio di “sinistra”, che vogliono ribadire nell’incontro di piazza Maggiore a Bologna, che per due giorni sarà per metà coperta da un tendone. Racconta Civati: «Gli interventi saranno in coppia: sul palco parleranno assieme un personaggio della società civile e un “politico”, con lo spirito di superare le contrapposizioni fini e a sé stesse, sperando che ci sia un’aria di casa. Dopo la stagione della protesta, quella della proposta».

E l’aspirazione ad un drastico rinnovamento, che un anno fa accomunava Civati a Renzi? «Primarie per i parlamentari e tetto di tre mandati restano richieste ineludibili». Rivendicazioni che risultano più sfumate tra quelli che si definiscono i «tq», i trenta-quarantenni di Orlando e del varesotto Andrea Marantelli, che intendono ritagliarsi uno spazio tra l’”integralismo” di Stefano Fassina e l’approccio liberal di Enrico Letta. Dice Mario Adinolfi, il più giovane sfidante di Veltroni alle Primarie 2007: «Il destino di questa generazione ma anche nel Pd sta nelle mani di Renzi: se lui troverà il coraggio di sfidare la nomenclatura del partito e vincerà, ne uscirà una competizione così dura che il rinnovamento del Pd verrà di conseguenza».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/423921/


Titolo: FABIO MARTINI. Molise, il fattore-grillini e lo stop al centrosinistra
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2011, 11:16:04 pm
19/10/2011

Molise, il fattore-grillini e lo stop al centrosinistra

FABIO MARTINI

In Molise hanno vinto tutti, anche quelli che hanno perso. Capitava negli anni d’oro della Prima Repubblica, con il Tanassi di turno che gongolava per quello 0,3% in più alla Camera che bilanciava, eccome, il meno 0,9% al Senato. Almeno quel rito consolatorio, la Seconda Repubblica ce lo aveva risparmiato. Se non altro per la sua logica binaria: uno vince e uno perde. Ma dalle parti del Pd se ne son dimenticati. Massimo D’Alema è arrivato a dire: «E’ andata bene, il resto sono chiacchiere». La colpa della sconfitta? Di quei guastafeste del «Cinque stelle». Certo, anche alle Regionali del Piemonte il Movimento che si ispira a Beppe Grillo prese, anche a sinistra, quei voti che poi mancarono alla presidente Mercedes Bresso per battere il centrodestra. Ma il «Cinque stelle» - ecco la novità che oramai non dovrebbe essere più tale - non è come la Rifondazione comunista di Bertinotti, che una volta faceva l’accordo col centrosinistra e una volta non lo faceva. Grillo non fa mai accordi. E probabilmente non li farà mai. Dunque, non è il «Cinque stelle» - sempre fuori dagli schieramenti - che ha «regalato» la vittoria al centrodestra, ma è il centrosinistra che, evidentemente, ha «regalato» voti al movimento di Grillo. A sinistra si ripropone in queste ore il vizio antico del capro espiatorio. Ma sarà tempo che anche a sinistra si provi a capirci qualcosa di questi «grillini», talora così diversi dal loro guru, così simili ai Verdi tedeschi e che ottengono risultati elettorali sempre più corposi senza passare mai dalla tv. Un 5% in Molise può valere una percentuale analoga alle prossime Politiche. La quota «giusta» per impedire la vittoria al centrosinistra. L’America insegna: l’indipendente Nader «regalò» la vittoria a Bush, ma i Democratici sono tornati alla Casa Bianca soltanto quando hanno schierato un candidato più trascinante di Al Gore.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9335


Titolo: FABIO MARTINI. Il nuovo asse democristiano dietro l'eclissi del Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2011, 05:51:13 pm
Politica

09/11/2011 - LA CRISI- RETROSCENA

Il nuovo asse democristiano dietro l'eclissi del Cavaliere

Casini punta all'esecutivo responsabile: ma il se il Pdl si impunta l'Udc andrà con il Pd

FABIO MARTINI
Roma

Si è appena spento il tabellone con i risultati che inchiodano il governo Berlusconi allo score più basso della sua storia, il leader del Pd Pier Luigi Bersani chiede la parola e proprio nell’incipit del suo discorso fa un annuncio significativo: «Voglio dire pochissime parole, cercando di interpretare il sentimento di tutte le opposizioni...». Fuori dal politichese significa che due ore prima Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Antonio Di Pietro hanno consentito che fosse Bersani a parlare a nome di tutti loro. Un’investitura non banale soprattutto da parte di Casini che esita sempre a farsi rappresentare da un leader della sinistra. Un intervento breve, quello di Bersani, forse meno efficace di altre volte, sta di fatto che alla fine del suo discorso dai banchi centristi, i deputati dell’Udc e del Fli non si spellano le mani, anzi la maggior parte di loro resta a braccia conserte.

L’epidermica freddezza dei centristi alla fine del discorso di Bersani non cancella il compiacimento di Casini, il vero vincitore di questa tornata, il principale artefice della «campagna d’autunno» che ha sottratto così tanti parlamentari alla maggioranza e che ha portato al collasso, sia pur differito, del governo Berlusconi. In questi giorni, mentre democratici, dipietristi e finiani si impegnavano nei pur necessari discorsi di contrasto, i capi dell’Udc si sporcavano le mani, contrattavano, promettevano, portavano a casa adesioni o promesse. Tanto è vero che in serata, con i suoi, Casini commentava: «L’annuncio delle dimissioni di Berlusconi è una vittoria fondamentale. Ma quando si vince, non bisogna mai stravincere». E Casini, il leader politico che in questi mesi si è mosso con la maggior sintonia col Capo dello Stato, si prepara ora a giocare la prossima mano, quella del «governo di responsabilità», con Mario Monti premier. Una partita dagli esiti incertissimi, ma che in caso di impuntatura di Berlusconi e di riproposizione del Cavaliere come leader del centrodestra, potrebbe produrre una grossa sorpresa nella disponibilità dell’Udc a un’alleanza elettorale - finora esclusa - con il centrosinistra. Premessa di un’ascesa di Casini al soglio che più ambisce: quello del Quirinale. Un patto Pd-Udc, davvero clamoroso se si materializzasse, appartiene al non-detto di questi giorni ed è una delle conseguenze del protagonismo dell’Udc, protagonista di una massiccia controcampagna acquisti, condotta in prima persona da Pier Ferdinando Casini e da Lorenzo Cesa, con l’apporto di Paolo Cirino Pomicino. Tre ex democristiani che sono riusciti a convincere parlamentari di centrodestra - ecco il «dettaglio» non ancora rilevato che hanno tutti ascendenze democristiane: Giustina Destro, Fabio Gava, Gianfranco Pittelli, Roberto Antonione, Franco Stradella, Francesco Stagno D’Alcontres, per non parlare di Calogero Mannino, che ha seguito un suo personale percorso di allontanamento dalla maggioranza, ma che della Dc è stato vicesegretario e ministro. Certo, da quando la Democrazia cristiana si è sciolta, era il gennaio del 1993, da allora tante volte sui giornali si è riaffacciato il tormentone: «Riecco la Dc». Tutti falsi allarmi e semplificazioni giornalistiche, eppure mai come in queste ore è tornato ad aleggiare nel Palazzo l’orgoglio democristiano.

Ieri pomeriggio nei corridoi di Montecitorio era come se circolassero soltanto ex Dc, di centrodestra e di centrosinistra che si davano di gomito, annuivano, si complimentavano. Commentava a voce bassa un deputato Pdl molto addentro alle vicende di Santa Romana Chiesa: «Non c’è alcun dubbio che le recenti e ripetute considerazioni espresse dal cardinale Bagnasco, così diverse dalla stagione dell’allineamento di Ruini, abbiano creato il clima per questa ripresa di protagonismo dei cattolici in politica. Come diceva il profeta Isaia: così come la pioggia scende dal cielo senza aver fecondato la terra, così la mia parola non ritornerà a me senza aver compiuto ciò che desidero». Un ritrovato protagonismo «democristiano» che si dispiegherà nel tentativo di far nascere un «governissimo», ma se finisse male? Dice Beppe Fioroni, uno dei pochi dirigenti Pd che ha collaborato ai sondaggi con i parlamentari Pdl: «Le misure richieste dall’Europa vanno rapidamente archiviate, in modo da voltare pagina. E se Berlusconi impedirà un governo di responsabilità, costringendo i suoi a ingoiare la pasticca di cianuro e mettendo il Paese in ginocchio a quel punto potrebbero crearsi per davvero i presupposti di un’alleanza elettorale tra noi e l’Udc».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/428975/


Titolo: FABIO MARTINI. L’intendimento del premier in pectore vede solo ministri tecnici
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2011, 04:51:47 pm
Politica

11/11/2011 - LA CRISI IL TOTO-DICASTERI

Esecutivo del Presidente Niente poltrone ai politici

L’intendimento del "premier in pectore" vede solo ministri tecnici

FABRIO MARTINI
ROMA

Non ha ancora ricevuto l’incarico di formare il governo, ma a leggere le anticipazioni sulle agenzie, sui siti e sui giornali è come se Mario Monti avesse già formato il suo esecutivo, con tanto di dicasteri prenotati o addirittura assegnati. In realtà il presidente della Bocconi ha fatto il suo ingresso formale nei palazzi della politica romana soltanto ieri, quando ha varcato il portone del Quirinale.
Qui - da neo-senatore a vita - si è intrattenuto a colloquio con Giorgio Napolitano. Questa mattina Monti entrerà per la prima volta nell’aula di palazzo Madama dove parteciperà alla seduta chiamata ad approvare il ddl Stabilità. Un battesimo formale che proseguirà nelle prossime ore, quando il Capo dello Stato chiamerà Monti al Quirinale, stavolta per dargli l’incarico formale di formare un nuovo governo.

Nel frattempo sono proseguiti i colloqui informalissimi per sondare le disponibilità dei papabili ministri. Con quale schema di gioco?
Il punto che rende friabili e spesso fantasiosi i toto-ministri, è proprio questo: la natura del governo non è ancora definita.
Si va verso un governo di larghe intese (con i partiti dentro), o verso un governo del Presidente, composto da ministri tecnici e da sottosegretari politici? Due ipotesi molto diverse tra loro e lo schema preferito dal premier in pectore, ma anche dal Capo dello Stato è il secondo, quello di un esecutivo di personalità della società civile, affiancate da sottosegretari politici, in rappresentanza dei cinque partiti che sembrano destinati ad appoggiare il governo, il pentapartito di unità nazionale, formato da Pdl, Pd, Udc, Fli e Api.

E dopo 48 ore, dalla nomina di Monti a senatore a vita, lo schema di governo squisitamente tecnico si è consolidata. Regge perché la formula ha avuto l’avallo del Pd e questa è una novità rilevante. Anche se il profondo travaglio che divide il Pdl in queste ore, rende prematuro capire quale sarà l’orientamento finale. Per il momento lo schema preferito dal Pd resta il più accreditato.
Già da giorni Pier Luigi Bersani ha informato chi di dovere che, se il governo Monti si farà, il Pd non intende indicare nomi di ministri e neppure, ma su questo si può trattare, di sottosegretari.

Due sere fa se ne è parlato in una riunione del «caminetto» del Pd e due punti sono emersi senza equivoci: mai fianco a fianco, in una qualsiasi foto di gruppo, esponenti di primo piano del Pd ed omologhi berlusconiani. Come spiega con molta nettezza Rosy Bindi: «Noi non vogliamo andare al governo, se non passando dalla porta principale, quella delle elezioni».

Una linea che trova compatte maggioranza e minoranza del Pd, come ha spiegato ieri, durante una assemblea dei senatori, il veltroniano Giorgio Tonini: «Il Pd deve sostenere l’esecutivo Monti senza avarizia e anche con orgoglio ma senza dare la sensazione che noi vogliamo andare al governo, perché questo non è un esecutivo di coalizione, ma somiglia semmai alle convegenze parallele».

Certo, lo schema del «governo del Presidente», di soli tecnici, potrebbe saltare se l’implosione del Pdl, spingesse il partito di Berlusconi a chiedere dei presidi nel governo per fugare il senso della disfatta. Oppure se le pressioni dei più vogliosi di entrare, Franco Frattini e Raffaele Fitto, aprissero una falla dietro la quale si potrebbe formare una fila di pretendenti. Scherzava ma non troppo Giorgio Stracquadanio: «Accidenti, Frattini non ha fatto in tempo a togliersi il vestito blu da ministro di Berlusconi e ha già indossato il completo da ministro di Monti!». Ieri sera le «voci di dentro» del Pdl accreditavano un Berlusconi portato a sottoscrivere il governo del Presidente, proprio per evitare una rissa tra papabili ministri.

E dunque sono ancora appesi per aria i colloqui, che pur sono in corso, per sondare i singoli candidati. Con qualche eccezione.
Giuliano Amato quasi certamente entrerà a far parte del governo Monti. Ma paradossalmente l’esperienza e la versatilità di Amato che ne fa - a parere pressoché unanime - un fuoriclasse nei principali ruoli di governo, lo rende plausibile in almeno tre caselle: il ministero degli Esteri, quello dell’Interno e quello dell’Economia. Per il dicastero più delicato, quello che somma Tesoro e Finanze, circolano molte ipotesi: un interim a Monti, una chiamata da Bankitalia per il direttore generale Fabrizio Saccomanni; un incarico assegnato ad un banchiere, Corrado Passera o Domenico Siniscalco, che ha già ricoperto l’incarico nel secondo governo Berlusconi.
Per la Difesa, i nomi che circolano sono di personaggi che nel passato hanno vestito la divisa: Rolando Mosca Moschini e Vincenzo Camporini. Delicatissima la scelta del ministro di Grazia e Giustizia, dove andrà un tecnico non sgradito al centrodestra.
Escluso l’attuale Guardasigilli Nitto Palma, circolano i nomi di Cesare Mirabelli e Piero Capotosti.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429292/


Titolo: FABIO MARTINI. Ministri, tre poltrone per i cattolici
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 06:18:09 pm
Politica

13/11/2011 - IL TOTONOMINE

Ministri, tre poltrone per i cattolici

La "nonna" star: a palazzo Chigi furia Annarella

Ornaghi, Mirabelli e Zamagni tra i papabili nella lista del governo

FABIO MARTINI

Michele, il fidatissimo chef ciociaro di Berlusconi, ha dovuto cucinare quello che resterà l’ultimo pranzo a Palazzo Chigi del Cavaliere per un ospite molto particolare: il più probabile successore del suo capo. Per due ore Mario Monti è stato ricevuto a Palazzo Chigi (e non a Palazzo Grazioli) da Silvio Berlusconi nel corso di un pranzo che è servito a chiarirsi le idee, spianare gli ultimi ostacoli verso la nascita del nuovo governo.

Il pranzo tra un premier ancora in carica e uno in pectore è stata una delle tante originalità di una crisi politica che, oramai da mesi, sta cambiando la Costituzione materiale del Paese. Nel corso della giornata di ieri Mario Monti, ad appena 24 ore dalla sua prima giornata da senatore a vita, ha impresso una decisa accelerazione in vista del conferimento dell’incarico del Capo dello Stato, svolgendo quel giro esplorativo tra i potenziali leader della maggioranza che di solito viene compiuto non prima ma dopo il mandato presidenziale. Prassi inedita, imposta dalla emergenza-mercati: il Quirinale vorrebbe che nel corso della giornata di domani, alla riapertura delle Borse, l’Italia avesse già un nuovo governo, che abbia espletato la prima formalità, quella del giuramento dei ministri. Proprio per evitare vuoti di potere, Monti si è imposto una giornata da politico a tutto tondo: in mattinata si è incontrato con Pier Luigi Bersani, a pranzo si è visto con Silvio Berlusconi e nel pomeriggio ha avuto colloqui con Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Francesco Rutelli, in altre parole con tutti e cinque i leader del «pentapartito di unità nazionale». Un lavoro di bulino, che spesso viene esercitato dagli sherpa appositamente incaricati e che invece Monti ha dovuto svolgere in prima persona. Col macigno di Gianni Letta da rimuovere, una grana aggravata dal fatto che il «Richelieu» di Berlusconi ha partecipato al pranzo nel quale Monti ha dovuto comunicare che non c’erano i margini per quella soluzione. Nel corso della giornata Monti ha proseguito anche il lavoro di composizione della sua squadra, nel caso in cui oggi venisse incaricato di formare il nuovo governo. Un lavorio che dura da diversi giorni e che si è andato componendo secondo lo schema di gioco iniziale: quello di un governo di soli tecnici. Uno schema che nei giorni scorsi era stato condiviso da Pdl e Pd ma che nelle ultime ore ha vacillato per effetto della pressione del Popolo della libertà a favore di Gianni Letta, ma che alla fine ha tenuto.

I ministri con portafoglio saranno dodici come imposto dalla riforma Bassanini, ma quasi certamente se ne aggiungeranno uno o due senza portafoglio, con una drastica riduzione rispetto agli attuali dieci. Forte dimagrimento anche per quanto riguarda i sottosegretari: anche questi tutti tecnici, dovrebbero essere non più di venticinque. Interessante anche la filosofia che presiede alla struttura del governo. Molta attenzione al mondo cattolico, che dovrebbe contare due, forse tre ministri chiaramente identificabili. Un’attenzione che sarebbe semplicistico etichettare come «quota Todi», ma che ha due motivazioni. Anzitutto il riconoscimento, certo non esplicito, al contributo che la Chiesa italiana ha dato all’erosione culturale e alla fine anche politica del berlusconismo. Ma c’è un motivo in più: Oltretevere guardano con interesse ma, per ora, senza particolare afflato all’operazione-Monti. Come dimostra quanto scrive il direttore di «Avvenire» Marco Tarquinio: «Non serve solo “tecnica”, ma anche moltissima buona politica» e in ogni caso «l’Italia nonpuò essere commissariata da qualcuno o qualcosa». Dovrebbero entrare nel governo Monti, come Guardasigilli il professor Cesare Mirabelli (docente alla Lateranense e consigliere generale presso la Città del Vaticano), ma anche Stefano Zamagni, bolognese, vicino a Romano Prodi, che ha collaborato alla stesura della enciclica «Caritas in veritate». In corsa anche il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi. In alternativa a Zamagni - più difficile, ma non impossibile - l’ingresso di Andrea Riccardi, leader della Comunità di Sant’Egidio, mentre sono in caduta le azioni di Umberto Veronesi, una sorta di «uomo nero» per Santa Romana Chiesa. Per quanto riguarda il comparto economico, la candidatura di Fabrizio Saccomanni, direttore generale di Bankitalia, si sarebbe indebolita per effetto della contrarietà del centrodestra, ma da via Nazionale potrebbe arrivare lo stesso un ministro, meglio una ministra: Anna Maria Tarantola, il cui nome era entrato nel toto-governatore dopo la nomina di Mario Draghi alla Bce. La Tarantola potrebbe andare allo Sviluppo economico. Per quanto riguarda il ministero-chiave, l’Economia, suspense fino all’ultimo. Potrebbe essere lo stesso Monti a tenere per sé l’incarico con un interim, ma il presidente della Bocconi potrebbe chiedere di occupare quella poltrona a Guido Tabellini, dal 2008 rettore alla Bocconi. Molto probabile anche l’ingresso di Giuliano Amato, da tre anni e mezzo non più parlamentare e presidente della Treccani: per lui si continua a ipotizzare un incarico da ministro degli Esteri. Alla Difesa resta forte la candidatura del generale Rolando Mosca Moschini. Come sottosegretario alla presidenza, il favorito è Enzo Moavero Milanesi, già capo di gabinetto di Monti a Bruxelles e prima, consigliere a Palazzo Chigi di Amato e Ciampi.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429546/


Titolo: FABIO MARTINI. Le consultazioni cambiano rito
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2011, 11:45:07 am
Politica

15/11/2011 - PERSONAGGIO

Il professore col quadernone

Le consultazioni cambiano rito

Ascolta, scrive, fa mettere a verbale proposte. E mostra di non essere solo un tecnico


FABIO MARTINI
Roma

C’ è qualcosa di nuovo, anzi d’antico nell’andirivieni di delegazioni di partiti, partitini e micro-gruppi che entrano ed escono nello studio del senatore a vita Mario Monti, anche se lui sembra voler prendere tutti sul serio. Negli ovattati locali di palazzo Giustiniani, nel saloncino a lui riservato, il presidente incaricato si siede su una poltrona, sempre la stessa e dopo una breve premessa, preferisce ascoltare i suoi interlocutori, le cui parole sono attentamente annotate da un verbalizzatore, unico estraneo presente agli incontri. Ma Monti concede ai notabili dei partiti un sovrappiù di attenzione: lui stesso prende appunti su un grosso blocnotes, di formato «A4». Un segno di rispetto, perché le annotazioni servono a Monti per rispondere all’impronta ai suoi interlocutori; sta di fatto che nei racconti informali di chi esce dagli incontri, la storia del quadernone contribuisce a delineare meglio la fisionomia del personaggio, in gran parte uno sconosciuto nel Palazzo.

E piano piano, di incontro in incontro e di ricordo in ricordo, tutti stanno scoprendo la caratura politica del personaggio e Adolfo Urso sintetizza così: «Monti, anche in questi incontri, sta dimostrando di non essere il classico professore, molta scienza e zero senso politico: conosce realtà e meccanismi della politica italiana, le regole del consenso e proprio per questo non vuole esautorare la politica». In questi giorni è come se in tanti avessero dimenticato i dieci anni da commissario europeo a Bruxelles, anni nei quali l’accademico ha dovuto scoprire l’asprezza della politica, la durezza dello scontro non solo con potentati economici come Microsoft - e la cosa è nota - ma anche con capi di governo, come Gerard Schröder. Dopo aver battagliato con Monti su diversi dossier, una volta al termine di un duro confronto, durante il quale il commissario italiano non aveva mollato di un centimetro, il cancelliere fece una domanda: «Lei ha studiato dai Gesuiti? Sì? Ecco perché argomenta, argomenta, argomenta e non concede niente!».

I professori di solito sanno insegnare, interrogare e dare i voti, ma Monti dimostra di essere un intellettuale dotato di sapienza politica, come confermato anche nella sua seconda uscita pubblica. Ieri sera al termine della prima tornata di consultazioni, Monti ha accettato di rispondere ai giornalisti ed è riuscito a trasmette i messaggi che gli stavano a cuore. Con nettezza ma trovando il modo di non irritare nessuno dei big dei partiti che lo sostengono. I ministri politici? Lui li avrebbe voluti, ma comprende le ragioni del disimpegno bilaterale da parti di partiti che, in guerra fino a poche ore fa, ora non se la sentono di posare nella stessa foto di gruppo. La durata del governo? Con la mole di lavoro da fare e col senso di precarietà che trasmetterebbe ai mercati, per Monti un esecutivo a termine sarebbe un non-senso, una condizione per lui irricevibile.

Un governo a tempo avrebbe meno «credibilità» e quindi sarebbe meno efficace davanti ai mercati: argomento nuovo e spiazzante, che in qualche modo attiene alla esperienza europea di Monti. E il suo network internazionale pesa, pesa assai. Ieri, durante uno dei tanti incontri con le delegazioni parlamentari, Monti ha ricevuto la telefonata del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. E, come ha confidato lo stesso Monti, in queste ore gli sono arrivate telefonate informali da capi di governo europei «molto importanti», sollecitazioni rispetto alle quali il presidente incaricato ha denunciato ai suoi interlocutori il proprio «imbarazzo» perché, almeno per il momento, non ha alcun titolo formale per fornire risposte. I capi di governo che lo hanno chiamato nelle ultime 48 ore sono la cancelliera tedesca Angela Merkel, il premier britannico David Cameron, il primo ministro francese François Fillon telefonate che lo hanno raggiunto nelle ultime 48 ore e che sono state contraddistinte da un segno univoco: l’incoraggiamento e gli auguri per la difficile impresa.

Ma se ai capi di governo europei, Monti non può ancora dare assicurazioni, negli incontri di ieri alcuni rappresentanti dei partiti si aspettavano dal presidente incaricato indicazioni più precise sul programma e sulla squadra. Antonio Di Pietro ha confidato la sua sorpresa per la laconicità e per il riserbo di Monti. In questo caso, però, non è una questione di temperamento o di quella mancanza di «convivialità splendente» che lo stesso Monti ha confidato sei anni fa come un suo limite a Stefania Rossini dell’«Espresso». Monti non vuole scoprire le sue carte e come ha detto ieri sera, non lo farà neppure negli incontri-clou, quelli previsti oggi con la delegazione del Pdl e con quella del Pd. A chi gli chiedeva se oggi parlerà delle misure immaginate per uscire dalla crisi, Monti ha risposto: «In parte sì, nei dettagli no».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429852/


Titolo: FABIO MARTINI. Pensioni e privatizzazioni la cura choc per l’economia
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 11:43:26 am
Politica

16/11/2011 - RETROSCENA

Pensioni e privatizzazioni la cura choc per l’economia

Il premier incaricato cerca i ministri “giusti” e assicura: non mi presenterò alle elezioni

FABIO MARTINI
ROMA

Ad un certo punto, per sedare l’ansia della delegazione del partito più importante, il Pdl, il professor Monti si è dovuto mettere a leggere un articolo di giornale che, a sentire i suoi interlocutori, meritava una smentita. E’ accaduto proprio all’inizio dell’incontro tra il presidente incaricato e la delegazione del Pdl: Maurizio Gasparri, proverbiale “ritagliatore” di giornali nella loro versione cartacea, ha tirato fuori uno dei suoi reperti e, scandalizzato, ha indicato a Monti una dichiarazione del finiano Italo Bocchino tratta dal “Corriere della Sera”, che ipotizzava per il futuro un’alleanza tra il Pd e il Terzo polo guidata proprio da Monti, in sostanza assegnando al Pdl il ruolo di portatore d’acqua. Il senatore a vita ha letto e poi, con parole molto nitide, ha smentito qualsiasi ipotesi di quel tipo, insistendo sulla sua «imparzialità» e «terzietà».

A quel punto Angelino Alfano, Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto hanno annuito, ostentando soddisfazione. Ma non era finita lì: i tre del Pdl, hanno iniziato a sciorinare nel modo più oggettivo possibile, il curriculum politico di Giuliano Amato, per dimostrare a Monti che un ex presidente del consiglio dell’Ulivo e l’ex ministro dell’Interno dell’ultimo governo Prodi non può essere etichettato come un tecnico super partes. Episodi apparentemente minori. Ma per un potenziale premier che non è stato eletto dal popolo, gli equilibri politici, le preoccupazioni e le ubbie dei partiti rappresentano la principale fonte di ansia. Per 48 ore il professore ha fatto di tutto per sedare i due principali partiti. Poi sul far della sera, quando ha fatto ritorno all’hotel Forum, Mario Monti si è trovato davanti al rovello col quale ha attraversato la sua quarta notte romana: forzare la mano e imbarcare nel suo governo sia Gianni Letta (che il Pd non vuole), sia Giuliano Amato (che il Pdl non vuole nel caso sia l’unico politico)?

In altre parole: mettere in difficoltà il Pd, pur di “legare” Berlusconi attraverso il fido Letta? Ma questo non è l’unico dubbio che attanaglia il professore. Nel colloquio che avuto ieri al Quirinale col Capo dello Stato, Monti ha confidato di coltivare qualche dubbio sulla efficacia della sua squadra, almeno per come si era delineata fino al primo pomeriggio. E soprattutto in due caselle. Certo, ai partiti incontrati nelle ultime 48 ore, il professore non ha anticipato nulla di vincolante sul programma, perché conosce bene le conseguenze devastanti degli effetti-annuncio in campo economico e ne sanno qualcosa sia Prodi che Berlusconi. In realtà Monti ha in animo misure molto radicali in due campi: le pensioni e, soprattutto, le privatizzazioni. E’ aspirando da questi due serbatoi che il professore punta a passare alla storia per aver asciugato il debito italiano.

Ma per approntare misure efficaci e al tempo stesso interagire nel modo migliore col Parlamento, Monti sta cercando le figure “giuste”, ministri, viceministri e sottosegretari capaci di istruire, ma anche di gestire misure-choc. Il piano più radicale, a quanto pare, riguarderebbe le privatizzazioni. In questo campo, nel recente passato, si sono preferite dosi minime, mentre in linea teorica l’area di intervento è molto ampia. Si va dalle quote pubbliche di Eni, Enel, Poste e Rai, alla possibile alienazione di una parte del ricchissimo patrimonio in mano ad enti locali, Regioni, Difesa. Per un’ operazione così imponente, Monti vorrebbe una squadra “tosta” sia al ministero dell’Economia che a quello del Welfare. Ieri sera aveva preso quota uno schema che prevederebbe quattro viceministri di peso, con Vittorio Grilli (direttore generale del Tesoro), Guido Tabellini (rettore della Bocconi), Paolo de Ioanna (già capo di gabinetto di Ciampi e di Padoa-Schioppa), Anna Maria Tarantola, vicedirettore di Bankitalia. Una squadra che così composta, ancora non sarebbe di piena soddisfazione del presidente incaricato.

Troppi tecnici, nessuna figura di peso politico. Ieri sera, col suo completo blu, la oramai caratteristica cravatta celeste e l’impermeabile ripiegato sul braccio, Monti prima di andarsi a rintanare in albergo, si è concesso un passatempo: è passato da palazzo Venezia, dove ieri è stata inaugurata la mostra “Roma ai tempi del Caravaggio”. Alla fine ha comprato il catalogo della mostra, non prima di aver salutato una signora che lo aveva riconosciuto e gli aveva fatto gli auguri per il suo incarico.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/430050/


Titolo: FABIO MARTINI. I tre pilastri di Monti per realizzare le riforme
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 05:14:22 pm
Politica

17/11/2011 - IL NUOVO GOVERNO/ RETROSCENA

I tre pilastri di Monti per realizzare le riforme

Secondo tradizione il premier uscente consegna al nuovo presidente del Consiglio la campanella, quella che segna l'inizio e la fine di ogni riunione del consiglio dei ministri. Silvio Berlusconi ha anche fatto gli auguri a Monti per gli impegni che lo aspettano e Monti l'ha ringraziato per il lavoro svolto

Rifkin: "L'Italia ora deve puntare su giovani e rete"

Pensioni, crescita e Parlamento: a Fornero, Passera e Giarda ruoli chiave

FABIO MARTINI
Roma

Nel Salone delle Feste del Quirinale, la cerimonia del giuramento si è appena conclusa, si stanno già sciogliendo le righe, ma è troppo presto: inesperti del rito, i ministri non sanno che è l’ora della foto di gruppo e Giorgio Napolitano è costretto a infilarsi tra le «linee». I ministri si mettono in posa, ma appena i flash crepitano, quasi nessuno sorride. Facce serie. Tradiscono animi sorpresi, convocazioni d’urgenza, forse anche il peso di un’improvvisa responsabilità. Gli unici che affettano buonumore sono il rettore del Politecnico di Torino, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo e l’ex prefetto Anna Maria Cancellieri, personaggio fuori dagli schemi, donna rigorosa e brillante, come ministro dell’Interno destinata a diventare una delle sorprese del nuovo governo. Sorridono, ma senza ostentazioni, i due artefici, Giorgio Napolitano e Mario Monti. Nella notte tra martedì e mercoledì e poi ieri mattina i due presidenti si sono sobbarcati un lavoro che non ha precedenti nella storia della Repubblica: in zona Cesarini si sono fatti cercare buona parte dei ministri, che in alcuni casi sono stati sorpresi nel sonno. È il caso dell’ambasciatore italiano a New York Giulio Terzi di Sant’Agata, che, una volta tornato vigile, ha appreso che gli si proponeva di diventare ministro degli Esteri. I due presidenti hanno dovuto concentrare lo stress finale in poche ore anche perché il tormentone Amato-Letta è rimasto aperto fino a ieri mattina, con l’ipotesi del primo agli Esteri e del secondo ai Beni culturali. Poi la «bolla» si è spenta e a quel punto i «consoli della Repubblica» hanno potuto riempire le caselle rimaste vuote, al tempo stesso accorpando deleghe, creando nuovi dicasteri. Secondo uno schema voluto dal presidente del Consiglio, ma al quale ha contribuito anche la richiesta di Corrado Passera. Molto scettico sulla decisione di affidargli lo Sviluppo Economico, un ministero «svuotato» da Tremonti, il supermanager di IntesaSanpaolo ha chiesto e ottenuto l’accorpamento nel suo ministero delle deleghe delle Infrastrutture e dei trasporti, che in un primo momento erano state assegnate a Piero Gnudi.

Nei punti-chiave, il premier ha voluto ministri che fossero «tecnici con una testa politica», per dirla con uno degli uomini a lui più vicini. Il primo architrave del governo Monti si chiama Pietro Giarda: è lui il personaggio al quale il premier ha affidato il compito di «domare la bestia» parlamentare. Settantaquattro anni, una «prima vita» da docente universitario, una seconda da sottosegretario al Tesoro. Sotto diversi governi dell’Ulivo, Giarda è stato protagonista di nottate memorabili, trascorse per mandare avanti le varie Finanziarie. Notti nelle quali Giarda veniva avvicinato dagli onorevoli con emendamenti oscuri, che lui smontava con eleganza: «Guardi, poi controlliamo assieme la normativa, ma credo che...». Il secondo architrave, un altro «tecnico con testa politica» si chiama Elisa Fornero. A lei Monti ha affidato il compito più difficile: guidare la «guerra» per cambiare il sistema pensionistico. Una donna «tosta», figlia di un operaio, la Fornero è una che si è fatta da sé e una volta ha raccontato: «Con la mia franchezza di ragazza canavesana», una volta «invitai Mario Monti a cena, parlandogli mentre preparavo il risotto». La terza colonna, nel disegno di Monti, è Corrado Passera, che ha ottenuto il blocco crescita-sviluppo-infrastrutture, «un uomo del fare», per dirla con uno dei collaboratori di Monti. Giorgio Tonini, senatore Pd vicino al Capo dello Stato, interpreta così la lista: «C’è un investimento su mondi che Berlusconi aveva abbandonato, quattro mondi senza i quali, piaccia o no, l’Italia non esce dal guado: gli Stati Uniti, con la nomina dell’ambasciatore a Washington; l’Europa, con Monti stesso e con un uomo del profilo di Mogavero; il mondo produttivo con la super-delega a Passera; il mondo cattolico con Riccardi, Ornaghi e un cattolico-democratico come Balduzzi, chiamato a gestire con spirito di mediazione il dossier della bioetica». Nella prima giornata da premier, Monti ha sottolineato: «La non presenza di politici agevolerà» il governo togliendo un «motivo di imbarazzo» e rispondendo a chi gli chiedeva se fossero immaginabili rimpasti di governo in corsa, ha risposto: «Non ci saranno passaggi in corsa, perché di corsa si tratterà». Elegante e stringato il tributo a Berlusconi: «Rispetto e attenzione per l’opera compiuta». Durante il consiglio dei ministri la prima raccomandazione: parlare il meno possibile.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/430283/


Titolo: FABIO MARTINI. Il diktat di Monti "Evitare qualsiasi effetto-annuncio"
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2011, 03:16:04 pm
Politica

27/11/2011 - retroscena

Il diktat di Monti "Evitare qualsiasi effetto-annuncio"

L’altra urgenza è spiegare al meglio i sacrifici agli italiani

Fabio Martini
Roma

Nel curioso andirivieni tra i “suoi” palazzi - Chigi, Giustiniani, Finanze - ieri Mario Monti ha riunito al ministero dell’Economia il “pacchetto di mischia” del suo governo e assieme ai ministri Passera, Fornero, Giarda e Moavero ha preso un’altra decisione dirimente: accelerare almeno un po’ la presentazione della manovra correttiva da 25-28 miliardi, anche se l’asticella non è stata ancora fissata, così come non si può ancora immaginare quale sarà la data finale di approvazione. Comunque, prima di Natale. Per quanto abbia maggior dimestichezza con i giornali stranieri, ieri mattina al presidente del Consiglio non sono sfuggite le sollecitazioni di diversi editoriali sui principali quotidiani italiani a far bene ma possibilmente nel minor tempo possibile. Così come non è sfuggito a Monti il tono sferzante del “Financial Times”, quotidiano da sempre vicinissimo alla City, che ironizzava sulle manovre di bilancio del nuovo governo «avvolte nella nebbia», visto che «non c’è ancora chiarezza sulle misure di emergenza».

Raccontano che il professore, cui non mancano gli strumenti per “pesare” l’attacco da Oltremanica, avrebbe fatto una distinzione tra l’antico euroscetticismo britannico e gli stimoli a far sul serio, linea interpretativa prevalente a palazzo Chigi nel caso del pur caustico articolo del quotidiano inglese. E così, se da una parte Monti è voluto andare (in parte) incontro alle richieste corali di dare una scossa al suo passo, dall’altra il presidente del Consiglio non ha alcuna intenzione di diradare la “nebbia” che riguarda le misure allo studio. Troppo fresca, in Monti, è la memoria dei recenti flop politico-comunicativi, di quell’effetto “annunciosmentita” che ha azzoppato gli ultimi governi, di destra e di sinistra, in coincidenza con la preparazione delle Finanziarie. L’effetto combinato di indiscrezioni pilotate, mezzi annunci e smentite, dal 2007 in poi ha provocato pesantissime fibrillazioni, penalizzando l’ultimo Prodi e l’ultimo Berlusconi. E proprio per questo Monti ha dato tassative disposizioni ai suoi ministri di evitare «fughe di notizie» sul dettaglio delle misure in preparazione.

Ma c’è di più. Proprio perché le misure in preparazione non saranno indolori e anzi, per restare al lessico montiano, potrebbero contenere parecchi «sacrifici», Monti ha confidato ai suoi collaboratori che un altro imperativo categorico riguarderà l’efficacia della comunicazione: «Dovremo avere la capacità di spiegare, oltreché al Parlamento, anche ai cittadini il significato e la portata dell’azione del governo». A palazzo Chigi sanno che almeno una parte dell’impatto delle misure sull’opinione pubblica, si giocherà nella capacità dello stesso Monti di saperle motivare, riuscendo in una delle imprese più difficili per un uomo politico: convincere i cittadini che fare sacrifici vale la pena.

Certo, nel vertice di ieri con i quattro ministri di punta del suo governo, Monti ha “tagliato” 48-72 ore sul ruolino di marcia inizialmente immaginato, ma non ha dato una scossa plateale al suo cammino, rallentato in questi giorni da una selva di motivi: la nomina degli staff da parte di ministri “digiuni” di politica; la presa di confidenza dei ministri con dossier e alta burocrazia; la necessità di preparare misure subito applicabili, impermeabili ad uno stravolgimento; la ricognizione sullo stato reale della finanza pubblica; la preparazione del necessario consenso parlamentare in un contesto politico senza precedenti.

Nel vertice di ieri è stato comunque deciso di operare in due tempi: prima il decreto-legge con la manovra correttiva e nelle settimane successive, le grandi riforme: pensioni, fisco, liberalizzazioni, misure anti-casta. Nel Consiglio dei ministri del 5 dicembre sarà varata, con un decreto legge, una manovra correttiva che - dopo la ricognizione, avviata con la Ragioneria, sullo stato di attuazione delle due recenti manovre del governo Berlusconi - dovrebbe impegnare una cifra tra i 25 e i 28 miliardi. Anche se molto dipenderà dal dosaggio delle varie misure, anche ieri le misure più quotate restavano il ritorno dell’Ici, l’aumento dell’Iva, gli sgravi su imprese (Irap) e lavoro. Oltre ad un pacchetto di misure che restano “coperte”.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/431878/


Titolo: FABIO MARTINI. Monti in televisione parla alla testa più che al cuore
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 12:49:02 am
Politica

07/12/2011 -

Il professore Monti in televisione parla alla testa più che al cuore

Solo una domanda prima  della diretta: "Devo guardare lei?"

FABIO MARTINI
Roma

Mancano diversi minuti all’inizio della "diretta" e i due, pur distanti appena cinquanta centimetri, aspettano in rigoroso silenzio.
Nello "Studio 5" di via Teulada Mario Monti è seduto in poltrona; Bruno Vespa inganna l’attesa in piedi. Finalmente, quando oramai mancano due minuti, è il professore a rompere gli indugi e si rivolge a Vespa: «Normalmente... normalmente io guardo lei?». E Vespa: «Sì, sì, aiuta la conversazione...». E’ l’unico quesito tecnico che il presidente tecnico si concede, prima che Vespa parta con la prima domanda "calda", drammatizzante: «Una cosa che ci ha molto colpito: ma davvero non ci sarebbero stati presto, nemmeno i soldi per pagare gli stipendi?».

E Monti: «E’ ben possibile...». La voce monocorde, una vivace gesticolazione delle mani, che durante i primi piani "bucavano" lo schermo, nel suo primo "Porta a porta" da premier, il professore ha provato a spiegare razionalmente e freddamente il rischio enorme che stava accompagnando gli italiani, «andare avanti come se niente fosse» verso il baratro. Poi la domanda che ha prodotto una risposta che tutte le compendia: «Quale è la misura che l’ha fatta più soffrire?». Silenzio, breve ma televisivamente lungo e poi Monti risponde: «Nessuna e tutte...». Pausa: «No, però devo essere più sincero. Quando ho visto che serviva una cosa che venisse compresa dai mercati e che per fare questo, dovevo chiamare a contribuire anche i pensionati con un livello molto basso di pensione, ci siamo sentiti molto in difficoltà.
E allora lì, mi sono convinto che era il caso di chiamare a contribuire chi, anni fa, aveva usufruito dello scudo fiscale».

In quella risposta c’è tutto il Monti "televisivo": l’appello alla ragione più che al cuore degli italiani; le dure repliche dei fatti concreti più che la trovata capace di accendere l’immaginario; l’argomentare piuttosto che l’emozionare. E d’altra parte il passaggio di Monti in prima serata doveva servire anche a sciogliere un enigma finora irrisolto: il professore come se la sarebbe cavata in tv? Sarebbe riuscito a "trascinare" l’opinione pubblica, a convincerla, a coinvolgerla nella necessità di sacrifici che per alcuni sono pesantissimi?

Nei giorni scorsi la partecipazione di Mario Monti al salotto di Vespa era diventata oggetto di una clamorosa querelle, che si era quasi trasformata in una questione di Stato. Tutto aveva avuto inizio il 2 dicembre, quando un lancio dell’agenzia Ansa aveva dato notizia dello "scoop" di Bruno Vespa: la sera del 6 dicembre il presidente del Consiglio avrebbe spiegato la manovra dagli studi di "Porta a porta". Alzata di scudi nel progressismo politico-mediatico: ma davvero Monti avrebbe parlato prima nel salotto di Vespa che in Parlamento? La successiva precisazione-ripensamento del presidente del Consiglio (interverrò prima davanti alle Camere), sembrava poter chiudere il caso che invece è restato aperto per effetto di una serie di severe reprimende. Sulla linea "Monti non deve mettere piede nel salotto di Vespa", («il luogo dove Berlusconi firmò la superpatacca del contratto degli italiani», per dirla con Antonio Padellaro), si schieravano Lucia Annunziata, Gad Lerner, Corrado Stajano, Eugenio Scalfari. Monti ha tenuto il punto e anzi ha replicato a tutti col suo tagliente humour, parlando di «una onda di eccitazione psicodrammatica». Ma qualche dubbio deve essere venuto anche dalle parti di palazzo Chigi, se è vero che due giorni fa è sembrato che si fosse riaperta una trattativa sulle modalità della trasmissione e su dove ambientare l’intervista a Monti.

Ieri sera, lo stesso premier è sembrato voler tenere le distanze con battute sulfuree («dottor Vespa, io sono qui non per fare un piacere a lei, ma per dovere di spiegazione ai cittadini»; «lei è più ministro dell’Economia di me»; «vedo che lei è molto famigliare con gli scaglioni alti dell’Irpef»). E Monti ha dimostrato di non aver paura dell’impopolarità,ostentando una orgogliosa sincerità: «Sgravi? Effettivamente non è una parola molto di moda in questo momento». L’aumento della benzina era indispensabile? «Sì, lo era».
La popolarità di Monti, dopo una manovra così pesante, è passata dal 73 al 64, calando «soltanto» di 9 punti? «Dovevo farla più pesante!». Ma i sacrifici sono finiti? «Per ora sì». I professionisti della politica? «Fino a pochi giorni fa sono stato fedele al motto di mia madre, alla larga dalla politica», «mia moglie fu contenta quando ci trasferimmo a Bruxelles, perché così ci allontanavamo da Roma».

DA - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/433361/


Titolo: FABIO MARTINI. Scenari del dopo-Monti
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2012, 11:43:27 am
Politica

03/01/2012 - il caso

Scenari del dopo-Monti

Passera può diventare l’asso pigliatutto

Sviluppo economico e Infrastrutture: Corrado Passera è il titolare delle deleghe chiave per le misure sulla crescita del Paese

Attorno al ministro si potrebbe formare un nuovo "grande centro"

FABIO MARTINI
Roma

Ipolitici più consumati lo hanno capito subito: tra i ministri del nuovo governo il più ambizioso di tutti è Corrado Passera. Tanto è vero che i partiti hanno iniziato a corteggiare, riservatamente e senza sosta quel manager che nel corso degli anni è passato tra ristrutturazioni aziendali, esercizi spirituali e fusioni di grandi banche. Appena varato il governo Monti, Passera passava per l’uomo di Berlusconi. Ma qualche giorno più tardi, dopo un incontro a tu per tu con Massimo D’Alema e una presa di posizione contro la gratuità delle frequenze televisive per il digitale terrestre, nel Palazzo si è consolidata una voce: Passera si è “buttato” a sinistra, presto formerà un partito moderato, asse del futuro centro-sinistra. Ma tra Natale e Capodanno - ecco l’ultima novità - i colloqui riservati del ministro con Raffaele Bonanni (leader della Cisl e patron di un nuovo partito di ispirazione cattolica caro a Santa Romana Chiesa) hanno fatto segnare una nuova oscillazione del pendolo. Passera si sarebbe deciso a sponsorizzare il disegno caro alle gerarchie cattoliche - la nascita di una sezione italiana del Ppe - tanto è vero che nei colloqui, lo stesso Passera ha iniziato a definire «area vasta» l’agglomerato di forze sociali e politiche che dovrebbe confluire nel nuovo partito. Di questo e di altro, Passera parlerà nei prossimi giorni nel corso di un colloquio che il ministro ha chiesto al cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e regista dell’operazione-Ppe.

Certo, potrebbe anche esserci qualche eccesso di fantasia nelle tante e contrapposte etichette attribuite dai partiti al ministro Passera. O al ministro della Cooperazione Andrea Riccardi. Ma proprio questo attivismo delle forze politiche attorno ai tecnici di punta del nuovo governo attesta due fenomeni nuovi: i partiti stanno provando a costruire un sistema di alleanze per le prossime elezioni politiche, anche se per il momento sembrano esaurire i propri orizzonti, limitandosi a corteggiare i nuovi arrivati, Mario Monti, Corrado Passera, Andrea Riccardi. Sostiene un osservatore attento come il professor Alessandro Campi, a suo tempo ispiratore della stagione più innovativa di Gianfranco Fini: «Espulsi dall’arena decisionale, esposti alla riprovazione dell’opinione pubblica, privi di idee, i partiti dovrebbero aprirla anche loro una salutare “fase due”. All’insegna dell’autocritica e della resipiscenza, finalizzata ad un rinnovamento dei loro programmi». Una vena di scetticismo condivisa da un politico di lungo corso e di sguardo lungo come Marco Follini: «Secondo la divisione dei compiti, Monti si occuperà di economia, mentre i partiti dovrebbero fare le riforme politico-istituzionali. Ma il dibattito iniziatico che si è aperto rende probabile un rischio: se si va avanti con un anno di inanità e di mugugno verso il governo, le forze politiche, anziché rigenerarsi, rischiano di non potersi ripresentare alle elezioni».

Per il momento i leader dei partiti dedicano gran parte delle proprie energie all’”ingegneria delle alleanze”. Con schemi di gioco che nelle ultime settimane sono radicalmente cambiati, spesso diversi dalle dichiarazioni pubbliche. Epicentro del terremoto che dovrebbe scomporre e ricomporre i vecchi schieramenti è Santa Romana Chiesa, fautrice della nascita di nuovo partito moderato di centro, un Ppe all’italiana, di ispirazione cattolica e antifascista, in competizione bipolare con la sinistra, capace di comprendere un Pdl de-berlusconizzato a guida Alfano, i moderati del Pd, la Cisl e ovviamente l’Udc di Casini. E qui spuntano le sorprese. Il bel Pier, nonostante le pressioni della Cei, dietro le quinte resiste all’idea di finire in un’area così vasta e, prevede, ancora molto influenzata da Berlusconi. E infatti Casini (assieme a Fini, che prima di Natale ha ammainato la bandiera bipolarista) è diventato il principale sponsor della presentazione alle prossime elezioni del “tripartito” che attualmente sostiene il governo Monti: «Non credo - dice Casini - che fra un anno verranno meno le ragioni costitutive di una collaborazione» tra Pdl, Pd e Terzo polo. E il Pd? Anche da quelle parti, lo schema precedente (l’alleanza con Di Pietro e Vendola) è invecchiato e dunque Pier Luigi Bersani punta ora tutte le sue fiches su un «nuovo patto tra progressisti e moderati», un’alleanza esclusiva Pd-Terzo polo. E infatti il rischio di restare emarginato per anni e anni lo ha capito Nichi Vendola che, pur critico con Monti, chiosa: «Il governo ha reclutato eccellenze», «straordinarie personalità».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/436655/


Titolo: FABIO MARTINI. Ma Parigi resta fredda sull’offensiva italiana
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2012, 11:24:51 am
Politica

07/01/2012 - retroscena

Ma Parigi resta fredda sull’offensiva italiana

La stretta di mano fra il premier francese Nicolas Sarkozy e il presidente del Consiglio Mario Monti

Il leader francese dice: "Monti ispira fiducia".

Ma sui dossier resta cauto

Fabio Martini
inviato a Parigi

Le parole-chiave, quelle che segnalano un cambio di passo e anche di umore, il professor Monti le pronuncia di prima mattina a Matignon, il palazzo che ospita lo studio del primo ministro francese: «Non è più sufficiente che ogni Paese faccia bene i suoi compiti a casa, è necessario rafforzare la credibilità di azione della zona euro».

Nei due incontri formali con i leader della politica francese - il primo ministro François Fillon e (ben più importante) il presidente Nicolas Sarkozy Mario Monti ha cambiato tono e - sia pure con garbo - si è presentato con un approccio diverso rispetto a quello da "scolaretto" col quaderno vuoto, che lui stesso si era imposto, appena 43 giorni fa, durante il trilaterale di Strasburgo con Sarkozy e con la Merkel. Il messaggio della "nuova Italia" è cambiato: gli italiani hanno imparato la lezione, hanno fatto i compiti in tempi record e ora pretendono un cambio di passo anche dai Paesi leader dell’Europa.

E perché tutti capissero e il messaggio non restasse confinato al mondo diplomatico, Monti lo ha voluto esplicitare nel suo terzo appuntamento parigino, in questo caso un consesso pubblico di alto livello. Durante un convegno, davanti a capi di governo, ministri, economisti di mezza Europa, il presidente del Consiglio italiano è stato chiaro, come non lo era mai stato: «L’Italia ha fatto uno sforzo senza pari tra gli Stati dell’Unione, nel 2013 arriverà al saldo zero di bilancio, ma ora gli italiani hanno bisogno di vedere che il quadro europeo evolva», in modo che si producano «benefici in termini di riduzione dei tassi di interesse». Monti è stato chiaro nel far capire a quel raffinato pubblico che si rivolgeva in primis a Francia e Germania: «Non è in discussione ciò che la Bce fa, o non fa, ma i governi hanno il dovere di apprestare tutte le misure» per uscire assieme dalla crisi. Mentre Monti parlava, in platea c’era anche uno dei suoi ministri di punta, Corrado Passera che, poco prima, era stato ancora più esplicito: «Abbiamo molte ragioni per essere delusi su come è stata gestita la crisi a livello europeo: il sistema di governance non si è dimostrato all’altezza».

E così, cinquantuno giorni dopo aver preso la guida del governo italiano e a due settimane dall’approvazione della durissima manovra di Capodanno, Mario Monti ha deciso di cominciare a farsi sentire. E non soltanto perché lo spread continua a galleggiare sopra il livello di guardia. Se Monti ha deciso di cambiare il tono è soprattutto perché si rende conto che, se nei prossimi due mesi non interverranno modifiche nel testo del nuovo Trattato sulla disciplina di bilancio (la firma è prevista a marzo), l’Italia sarà chiamata a fronteggiare una raffica di manovre da 30-40 miliardi l’anno che la sprofonderebbero in una recessione memorabile. Certo, le notizie che l’ambasciatore presso la Ue Ferdinando Nelli Feroci ha trasmesso ieri a Monti sulla riunione del gruppo di lavoro che sta lavorando alla bozza sono incoraggianti, i tedeschi per il momento non hanno proposto veti rispetto alla posizione italiana, che punta ad introdurre correttivi nel calcolo del debito e nella data di vigenza.

Quel che contava, per il Presidente del Consiglio italiano, era sentire il "polso" di Sarkozy, capire se il presidente francese fosse disponibile ad impegnarsi a fianco dell’Italia per ammorbidire la rigidità tedesca. Durante l’ora di colloquio all’Eliseo pare che Monti abbia parlato più lungamente del suo interlocutore, che Sarkozy abbia annuito rispetto ad alcune istanze italiane, ma al termine dell’incontro, l’esternazione del Presidente francese è stata tanto affettuosa quanto generica: «Monti ispira fiducia negli altri capi di Stato europei». Un affetto che si trasformerà in azione? Da quel che trapela da fonti dell’Eliseo, Sarkozy ha apprezzato l’azione di Monti, ha ascoltato con interesse le nuove misure in gestazione e ha considerato significativo l’impegno italiano ad approvare «prima del tempo» il Piano nazionale delle riforme. Ma la stima per Monti, da quel che trapela, per ora non si traduce in un impegno formale francese a dar battaglia su grandi dossier (Fondo salva Stati, operatività della Bce), anche perché a Parigi tutti sanno che Sarkozy non può permettersi il lusso di rompere con la Germania alla vigilia delle presidenziali della primavera 2012. E visto che tutte le elezioni si vincono con dosi più o meno forti di demagogia, chissà se è stata casuale la battuta finale del Professore al convegno: «Parla un primo ministro che non ha affrontato elezioni, altrimenti si sarebbe ben guardato dal candidarsi...».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/437196/


Titolo: FABIO MARTINI. E il coro dell’Antipolitica riconquista le strade del Web
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:15:34 pm
Politica

13/01/2012 - il caso

E il coro dell’Antipolitica riconquista le strade del Web

Il «no» al referendum della Consulta e il «no» della Camera all'arresto di Nicola Cosentino hanno risvegliato la rabbia contro la «casta»

Il Pdl festeggia il no all'arresto di Cosentino

La lunga giornata della piazza virtuale parte dalla bocciatura della Corte: si salva solo Monti

Fabio Martini
Roma

Sulla Rete i primi fuochi si sono accesi all’ora di pranzo, non appena si è diffusa la notizia della bocciatura dei referendum, ma un’ora più tardi il no della Camera all’arresto di Nicola Cosentino ha fatto divampare un ben più vasto incendio. Proteste, rabbia, insulti. Certo, il mondo del web è sfaccettato e ogni giorno vi si agitano dentro umori e pareri contrapposti, ma in certi frangenti è come se saltassero tutte le paratie e l’ira finisce per concentrarsi su quelli che la massa indica come i “colpevoli”: per tutta la giornata di ieri il fuoco è stato indirizzato verso la Lega (presa di mira dai siti di sinistra, di centro e dagli stessi leghisti), sui Radicali e - un po’ meno ma non tanto - sui politici in generale. Le raffiche più micidiali sono da parte di (ex?) simpatizzanti. Sulla pagina Facebook di “Radio Padania Libera”, Lilli D’Agostino scrive: «Abbiamo votato Lega, ma dopo questa giornata chiediamo scusa all’Italia», mentre il comasco Davide Virga sintetizza così: «Salvare Cosentino è una vergogna, se dovesse succedere qualcosa io sto con Maroni». Idem su Radio Radicale: «Grazie radicali, spero di non rivedervi più in Parlamento nei prossimi cento anni».

Ma l’ira spesso soffia verso un unico mucchio, colpisce tutto e tutto. Talora con furore, come nel messaggio di Lorenzo F. sul visitatissimo sito di Beppe Grillo: «La sorpresa sarà quando qualche matto farà saltare la testa del primo di questi farabutti e loro stessi si accorgeranno, dalla gente che festeggia per strada, che qualcosa è definitivamente saltato». Ma sullo stesso sito “arrabbiato” - ecco la sorpresa - Paola Bassi deposita un commento anodino («Certo non si può pretendere di cambiare l’Italia in due mesi») che accende i riflettori sul grande assente tra le proteste: Mario Monti. «E’ vero e questo dato è curiosissimo - nota Mario Adinolfi, uno dei più blogger più noti, reduce dai suoi quotidiani 90 minuti in diretta webcam, ieri con 5.485 contatti - è come se ci fosse una paralisi del sentimento negativo nei confronti di un personaggio che si vuole resti alieno, che non è avvertito come “uno di loro”».

Certo, in poche ore dai palazzi del potere costituito sono partiti verso l’opinione pubblica due messaggi molto forti: un parlamentare (davanti alla richiesta di arresto da parte della magistratura) è più “uguale” di un cittadino qualunque; possono non bastare un milione e duecentomila firme raccolte in 25 giorni per ottenere la possibilità di giudicare con un sì o con un no la legge elettorale. Due messaggi letti in modo non uniforme nei social network e nei siti, ma che hanno finito per trasformarsi in un coro.

In particolare contro i leghisti c’è una valanga di proteste, quasi ovunque. Curiosamente i commenti più saporiti sono depositati su “Radio Padania libera”, anche se come è scritto sul sito, non si tratta di un profilo ufficiale. Scrive Simone Nacci: «Tosti e duri con gli immigrati, collusi e baciamani con i camorristi». Altri “taroccano” alcuni dei più celebri slogan leghisti: «Camorra ladrona, la Lega oramai perdona». Piero Di Pierro dice di aver votato per il Carroccio, ma di «essere schifato» e dunque: «Scordatevi il mio voto».

Diverso il rapporto degli utenti con “Radio Radicale”, da sempre apertissima al dissenso dei tanti critici. E dunque, è difficile distinguere tra nemici e delusi. «Vergogna», scrive un utente. E ancora: «E’ vero che adesso Cosentino vi permetterà di trasmettere stereo in Campania?», «siete disgustosi». I radicali rappresentano il bersaglio preferito sul sito dell’Unità, frequentato da un pubblico genericamente di sinistra. E qui fioccano gli insulti. Come fa Patty: «I radicali, cani che mordono la mano di chi li ha sfamati».

Eppure, se leghisti e radicali sono i più “gettonati” nella fiera dell’esecrazione, non si scherza neppure con la “casta” nel suo complesso. Per Biagio, sempre sull’Unità, «il voto di oggi ha sancito in maniera definitiva che il Parlamento è un covo di mafiosi», mentre per Bruno Cinque (Grillo), «la chiamavano democrazia, ma questa è mignottocrazia, usurocrazia». E alla fine, girando tra un sito e l’altro, comincia a rincorrersi una proposta. Sostiene Carmelo Di Stefano: «Beppe, perché non organizzi una manifestazione di massa? Se riuscissi a portare tre milioni in piazza, allora sì che verrebbe abolito il Porcellum tutto di un colpo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/438020/


Titolo: FABIO MARTINI. Fornero vuole cause di lavoro-lampo
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2012, 03:39:01 pm
Politica

23/01/2012 - GOVERNO - LA SFIDA DEL WELFARE

Oggi il tavolo sulla riforma del lavoro

Fornero vuole cause di lavoro-lampo

Incontro governo-parti sociali, l'idea dell'esecutivo è quella di rendere standard gli indennizzi

FABIO MARTINI
Roma

È la terza tappa. Ma il Professore la considera strutturale esattamente come le prime due (il «Salva» e il «Cresci-Italia») e dunque già da qualche giorno Mario Monti aveva informalmente disposto un’«apparecchiatura» da grandi occasioni per il tavolo che stamattina aprirà la trattativa per ridisegnare il mercato del lavoro nel nostro Paese.

Una settimana fa il presidente del Consiglio aveva informato i ministri di «volere essere presente» all’avvio della discussione e di voler aprire non solo simbolicamente il tavolo attorno al quale si ritroveranno le parti sociali. E dunque si parte a palazzo Chigi, alle 10, nella Sala Verde (l’ampio salone dalla tappezzeria e dalle sedie verdi, dove si svolgono le riunioni più affollate) con un’introduzione del presidente del Consiglio, che poi lascerà la riunione per trasferirsi all’Eurogruppo di Bruxelles, il summit dei ministri economici dell’Eurozona e lì potrà ragionevolmente annunciare di aver appena aperto una trattativa che si concluderà anche questa - come i due decreti già approvati - con la terza riforma strutturale del suo governo.

A discutere con le parti sociali, Monti lascerà ben quattro ministri, secondo un format che sempre lui ha chiesto: oltre ad Elsa Fornero, titolare della materia in discussione, ci saranno anche il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera, il ministro dell’Università e della Ricerca Francesco Profumo, il viceministro Vittorio Grilli. Una squadra che corrisponde alla filosofia che Monti stesso ha tenuto a sottolineare durante l’intervista televisiva rilasciata a Lucia Annunziata in «Mezz’ora». Alla giornalista che insisteva per avere una risposta da «titolo» sulla questione dell’articolo 18, Monti ha replicato che in qualche modo la «notizia» l’aveva già data, collegando la questione lavoro alla crescita: «Tutto si lega, perciò più noi agiamo sugli altri fattori e meno abbiamo bisogno di agire sul lavoro. Ma attenzione: rimane vero che il lavoro resta comunque una quota molto, molto grande nei costi di produzione».

Dunque, una riforma urge e si farà. Naturalmente la trattativa nelle prossime settimane sarà condotta dal ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero, di cui Monti apprezza la forte personalità e la proverbiale competenza, ma il forte investimento del premier sulla questione è come se aprisse la strada, quantomeno nella vulgata giornalistica, ad una doppia attribuzione, una sorta di riforma Monti-Fornero. Nella prima riunione il ministro Fornero si limiterà ad indicare gli obiettivi generali della riforma, ascolterà le parti e concluderà la riunione, aprendo tre tavoli, uno sulle assunzioni, uno sulla formazione, uno sugli ammortizzatori sociali.

Non è oggi che matureranno sorprese. Ma dietro le quinte stanno maturando novità. La più interessante finora inedita - la stanno elaborando il ministro Fornero e i suoi tecnici. E riguarda i lunghi contenziosi susseguenti alle cause da licenziamento regolate dall’articolo 18. Si sta studiando la possibilità di formalizzare procedure accorciate che consentano di abbreviare drasticamente i tempi delle cause da lavoro, che attualmente si possono prolungare fino a 5-6 anni. Con costi per le aziende e incertezze per il lavoratore. E dunque, si va verso tempi e risarcimenti standardizzati, non è ancora chiaro se affidando il contenzioso a sezioni specializzate della magistratura. Una soluzione che, sulla base dei primi contatti informali con le parti sociali, potrebbe andar bene sia alle imprese che ai sindacati.

Ma a palazzo Chigi sanno bene che su tutto questo dossier ci saranno i fucili puntati, oltreché delle parti sociali, anche dei due principali partiti della maggioranza. Dice Giuliano Cazzola, pdl, nei giorni scorsi consultato informalmente dal ministro: «Al governo consiglio di non dimenticare che esiste una Delega ancora aperta, nel Collegato lavoro, che consente all’esecutivo di fare qualsiasi riforma, risparmiandomesi di attività legislativa. E sconsiglio di abbandonarsi alla retorica del contratto unico: situazioni lavorative differenti non possono essere ricondotte ad un’unica fattispecie». Sostiene Paolo Nerozzi, senatore Pd, già alto dirigente Cgil: «Attenzione, stavolta la piattaforma sindacale oltreché credibile è realmente unitaria: non si dimentichi che, da Amato a Dini, con la concertazione siamo andati in Europa, senza ne stavamo uscendo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/439350/


Titolo: FABIO MARTINI. Gli Stati Uniti e i timori sul ritorno della “vecchia Italia”
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2012, 07:36:54 pm
Esteri

12/02/2012 - retroscena

Gli Stati Uniti e i timori sul ritorno della “vecchia Italia”

Il premier rassicura: la disponibilità dei partiti non è a termine

FABIO MARTINI
inviato a New York

Equando a Roma torneranno a governare i partiti, tornerà anche la «vecchia» Italia? Il presidente degli Stati Uniti d’America e il segretario generale delle Nazioni Unite sono personaggi che non hanno motivi per interferire nelle vicende politiche italiane, ma la curiosità espressa sulla grande coalizione nei colloqui con Mario Monti, ha indotto il presidente del Consiglio a tornare indirettamente sull’argomento. Fino a che, nella conferenza stampa finale prima di ripartire per l’Italia, Monti ha dedicato alla questione un inciso breve ma altamente significativo: «Con piena convinzione ho spiegato che è prova di grande senso di responsabilità quella dimostrata dai partiti italiani e non si vede perché non possa durare anche oltre» la durata limitata di questo governo.

Se si considerano la sapienza politica e la prudenza lessicale già dimostrate da Mario Monti, l’inciso diventa eloquente: nei colloqui politici e soprattutto in quelli con gli ambienti finanziari, una delle domande - dirette e indirette - che più è circolata, riguarda proprio il sistema politico: una volta esaurito il governo tecnico, torneranno le vecchie usanze? In parole povere, anche se nessuno si è espresso così brutalmente, l’enigma che ha circolato in questi giorni riguarda proprio i partiti italiani. Enigma che, paradossalmente, assai più che i politici, coinvolge gli ambienti finanziari americani, che nell’orientare i propri investimenti, sono interessatissimi a capire la tenuta del sistema-Italia.

Ecco perché Mario Monti ha voluto rassicurarli, dedicando alla questione un passaggio interessante della sua intervista televisiva alla rete specializzata Nbc, quando riferendosi alle riforme strutturali varate del suo governo, il premier ha spiegato: «La ragione per cui di quelle riforme si è parlato molto senza chefossero introdotte, era il costo politico. Ma il costo politico per un governo non politico è irrilevante e quando i partiti torneranno a formare un governo, non avranno interesse a tornare indietro». Altamente significative sia le domande americane che le risposte di Monti: un tempo, fuori confine preoccupava l’instabilità politica, oggi l’indecisionismo. E a tal riguardo, la visita negli Stati Uniti, così gratificante a tutti i livelli, restituisce un Monti «più determinato che mai», per usare le sue parole, scandite prima di rimetter piede sull’aereo che lo avrebbe riportato in Italia.

Tanto più che nell’incontro con Barack Obama, il presidente del Consiglio si è visto riconoscere un doppio ruolo: di leadership europea, alla guida dei Paesi che spingono verso la crescita; ma si è sentito anche chiedere consigli, in particolare «su come interagire con la Germania». Tra gli argomenti affrontati nei 40 minuti dell’incontro ObamaMonti, infatti si è cercata l’idea giusta per «stanare» l’orso tedesco, per cercare di capire come farne una delle leve della ripresa e della crescita di tutto il mondo occidentale.

Ad un certo punto Monti ha provato a sintetizzare la sua opinione al riguardo con una battuta apprezzata da Obama: «Vede Presidente, io penso che in Germania l’economia è vista come era prima di Adamo Smith, un ramo della filosofia morale». In altre parole, come poi ha spiegato Monti, con una lettura politico-culturale inusuale in un capo di governo, «non si può perforare il cuore dell’opinione pubblica e del governo tedeschi con la suggestione macroeconomica della locomotiva, perché in Germania tutte le politiche economiche sono passate attraverso un filtro particolare, quello della moralità dei comportamenti» e dunque «nella loro visione la crescita è il premio di comportamenti virtuosi microeconomici: il micro più grande che ci sia è lo Stato con il suo bilancio e il più piccolo che ci sia sono la famiglia con il suo risparmio e l’azienda con il suo profitto». La ricetta proposta da Monti ad Obama? «Se la Germania è poco sensibile agli argomenti di domanda aggregata o ad avere un disavanzo un po’ superiore che pure si può permettere, ma può essere invece persuasa a liberalizzare di più il suo mercato dei servizi», con ciò aiutando la ripresa anche dei partner. Mercoledì, nuova tappa della leadership europea di Monti: parlerà davanti al Parlamento di Strasburgo. Un’occasione, anche, per ricucire uno dei tanti strappi di Silvio Berlusconi, che nel 2003 diede del «kapò» al capogruppo socialista Martin Schulz, che di quel Parlamento, tre settimane fa, è diventato il presidente.

da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/442183/


Titolo: FABIO MARTINI. L'Europa che passa dall'Italia
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 11:41:58 pm
21/2/2012

L'Europa che passa dall'Italia

FABIO MARTINI

Sembravano prediche inutili, stanno diventando proposte tangibili e condivise da tanti leader europei, ansiosi di scovare il prima possibile le ricette giuste per uscire da una crisi epocale. Per anni Mario Monti, da stimato professore, aveva dispensato consigli, scritto ponderosi rapporti per i capi di governo europei, ma ora che lui stesso è diventato leader di uno dei Paesi fondatori dell’Unione, quelle proposte stanno entrando, di «peso», in documenti fatti propri da avanguardie, gruppi di Paesi più sensibili su alcuni dossier.

Ieri è stato reso noto un documento, firmato da 12 Paesi e promosso da Italia e Regno Unito, una lettera indirizzata ai vertici dell’Unione, ma che in realtà si rivolge ai due Paesi-guida dell’Ue, Germania e Francia, sinora i più tenaci nella difesa dei «campioni nazionali», soprattutto nel campo dell’energia e dei servizi. In questo senso, nella lettera c’è un passaggio esplicito, nel quale gli estensori hanno rinunciato all’algido lessico di Bruxelles, preferendo un’ironia «montiana»: «Non sempre i Paesi più grandi e più forti sono anche i più virtuosi». Un documento che in diversi passaggi riprende proposte e suggestioni del rapporto Monti, realizzato nel 2010 su richiesta della Commissione europea. Ma contemporaneamente - e qui sta la novità della strategia italiana - già da tempo si sta lavorando sotto traccia per un’altra Dichiarazione, in questo caso di forte rilancio del processo europeista. Ma questa volta Roma gioca di sponda con Germania e Francia.

Certo, il lavorio degli sherpa è ancora embrionale, un primo incontro a livello di ministri degli Esteri e di Politiche comunitarie potrebbe tenersi il 20 marzo a Berlino e il punto di approdo dovrebbe essere il Consiglio di Bruxelles di giugno.

Le due iniziative, complementari ma non sovrapponibili, prefigurano una strategia italiana del «doppio pedale»: assieme agli inglesi, liberisti per vocazione e tradizione, Monti spinge la leva del completamento del mercato interno, del superamento di barriere e difese nazionaliste; assieme a tedeschi e francesi, Paesi fondatori dell’Unione (e col consenso di «medie potenze» come Polonia e Spagna), si spinge per un rilancio energico del processo di integrazione, per un’Europa comunitaria e non solo a parole.

La volatilità dei mercati e la profondità dei debiti rendono friabili le strategie di medio periodo, compresa quella italiana.

Ma è pur vero che Mario Monti, senza complessi di inferiorità, ha iniziato a comporre i tasselli del suo piano, appena arrivato a Palazzo Chigi. Ai primi di gennaio, quando è rimasto a tu per tu con Nicolas Sarkozy all’Eliseo, Monti ha chiesto al presidente francese se non fosse il caso di far rientrare gli inglesi nel gioco. E quando Sarkozy ha fatto capire che lui non era di quell’avviso, Monti gli ha risposto senza perifrasi: «Ma questo è un errore». In quel colloquio si sono creati i presupposti, politici e psicologi, del documento italo-inglese sul mercato interno, al quale hanno dato un contributo anche gli olandesi.

Ma stimoli significativi sono venuti a Monti anche nel corso dell’incontro con Barack Obama. Il 9 febbraio, nello studio Ovale della Casa Bianca, il presidente americano aveva chiesto l’opinione di Monti su come stanare l’«orso tedesco», così insensibile alla crescita dell’Unione e il premier aveva risposto che era del tutto inutile immaginare che i tedeschi possano allentare i vincoli sul disavanzo, mentre un effetto indotto sulla crescita può essere prodotto, «inducendoli a liberalizzare di più il loro mercato dei servizi».

Il documento reso noto ieri e quello in gestazione spiegano anche alcune decisioni di politica interna. L’annuncio della futura separazione tra Eni e Snam, nella vulgata dei mass media letta come una delle tante decisioni del governo, in realtà colpisce al cuore uno dei colossi nazionali. Monti aveva bisogno di quello «scalpo» anche per essere più credibile in Europa. Anche perché l’1 e 2 marzo, al Consiglio europeo di Bruxelles, si compie una nemesi lunga 20 anni: nel 1992, a Maastricht, quando si fece l’euro, la Germania cedette agli altri partner la sua sovranità sul marco, la prossima settimana, col fiscal compact, saranno gli altri 16 Paesi a cedere la sovranità sul proprio bilancio per compiacere la Germania. Pagato pegno, l’«altra Europa» spera di ritrovare voce e argomenti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9798


Titolo: FABIO MARTINI. Monti a Berlusconi: "Il mio impegno finisce nel 2013"
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2012, 11:26:12 am
Politica

23/02/2012 - CENTRODESTRA LA LUNGA CORSA AL VOTO

Monti a Berlusconi: "Il mio impegno finisce nel 2013"

Il presidente del Consiglio Mario Monti. Sembra non essere interessato a una candidatura alle prossime elezioni

Il Cavaliere non rinuncia all’idea di candidarlo

FABIO MARTINI
Roma

Due ore e cinquanta minuti per un pranzo possono sembrare un’enormità, ma non quando a tavolo sono seduti due commensali loquaci come il presidente del Consiglio Mario Monti e il suo predecessore Silvio Berlusconi. E’ accaduto ieri mattina, nella sala da pranzo di palazzo Chigi: tra i due è stato il secondo incontro nell’arco di due mesi, una frequenza rafforzata dai continui contatti telefonici. Centosettanta minuti trascorsi in un’atmosfera di cordialità, «in qualche momento in un clima di amicizia», come tiene a far sapere uno dei partecipanti. Anche se non sono mancati momenti di incomprensione sulle questioni che personalmente stavano a cuore a Berlusconi. Come si conviene in queste occasioni, i due principali protagonisti erano accompagnati: il presidente del Consiglio dal sottosegretario alla Presidenza Antonio Catricalà, ma anche dalla moglie Elsa, a conferma del clima informale; con Silvio Berlusconi c’erano Angelino Alfano, il delfino designato (a parole) alla successione del Cavaliere e Gianni Letta, l’eminenza grigia che dunque resta in sella come ambasciatore.

Un incontro nel corso del quale, sia pure a volo d’uccello e senza impegni vincolanti da parte di Monti, sono stati affrontati svariati argomenti delicati: la governance della Rai e le frequenze tv, la riforma della giustizia e il destino dei processi di Berlusconi, gli scenari del dopo-2013 e la riforma del mercato del lavoro. Tema sul quale il Pd sta entrando in affanno e sul quale Berlusconi ha consigliato di procedere senza tabù e Monti ha risposto al Cavaliere: «La mia intenzione è di andare avanti».

Da qualche giorno Berlusconi - uomo dagli umori cangianti - aveva fatto trapelare l’ orientamento in lui prevalente in questa fase: quello di proporre a Monti di restare a palazzo Chigi anche nella prossima legislatura. Una proposta che il Pdl potrebbe lanciare, “prenotando” il professore prima che lo faccia il Pd: un investimento che, in Berlusconi, corrisponde anche ad un calcolo di convenienza politica. Col professore in campo e il Pdl colonna anche del futuro governo, il Cavaliere resterebbe il “dominus”, rinviando il momento della successione e provando ad arginare le batoste giudiziarie da leader della maggioranza salva-Italia. Una linea che trova d’accordo (o ispiratore?) Giuliano Ferrara che nel numero oggi in edicola di “Panorama” scrive un editoriale dal titolo inequivocabile: «Temo che anche dopo Monti ci sarà ancora bisogno di Monti». Scrive tra l’altro Ferrara: «Il disdoro in cui è precipitata la stima pubblica dei partiti è tale che la metodolgia tecnocratica sembra una risorsa per oggi, domani e dopodomani. L’unica». Da quel che trapela, accenni in questa direzione sarebbero stati fatti nel corso del colloquio di ieri e Monti si sarebbe sottratto, ribadendo il suo impegno a lasciare il campo non appena si concluderà la legislatura. Ma il presidente del Consiglio prova a tenersi “buoni” tutti. A “Panorama” che gli ha chiesto 42 pensieri sui primi cento giorni di governo, Monti ne ha dedicato uno a Berlusconi: «Gli sono molto riconoscente perché il suo atteggiamento è stato di grande responsabilità verso il Paese». Chiusa calda: «Lo sento spesso ma non lo disturbo su ogni cosa».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/443634/


Titolo: FABIO MARTINI. Susanna nel bunker. Ma a sorpresa parla da "forza tranquilla"
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2012, 04:05:09 pm
Economia

22/03/2012 - Retroscena



"Mi rivolgo a tutto il Parlamento". E Camusso dribbla l’isolamento

FABIO MARTINI
Roma

Doveva essere il giorno del bunker. Dell’assalto contro il governo dei licenziatori. Susanna Camusso, la socialista massimalista che guida la Cgil, ha rispettato il copione ma con una variante. Non banale.

Certo, Camusso si è fatta votare dal Direttivo della Cgil un corposo pacchetto di ore di sciopero, una «paccata» di 16 ore, ma, intuendo che fuori il vento stava girando, si è presentata in sala stampa e, a sorpresa, si è rivolta con toni misurati «a tutto il Parlamento». Tutto il Parlamento significa non solo il Pd, ma anche la Lega, l’Idv, i futuristi finiani e i tanti parlamentari dubbiosi del centrodestra. E così, assieme a tante accuse taglienti rivolte al governo (quelle sì, «dovute» e scontate), la segretaria generale ha lasciato trapelare concetti di altro tenore. Distillando un linguaggio da «vecchia» Cgil, diverso da quello del leader della Fiom Maurizio Landini, Camusso ci ha tenuto a spiegare che la sua è «una organizzazione tranquilla e rigorosa», che la «partita non è chiusa».

Certo, la finestra per un accordo sull’articolo 18 che tenesse dentro tutti e tre i sindacati si era aperta qualche giorno fa e in quella circostanza Camusso si era affacciata, per poi richiudere rapidamente le ante. Tra giovedì e venerdì scorsi l’accordo sul cosiddetto «modello tedesco» era ad un passo, alla maggioranza della Cgil quella soluzione andava bene, ma il suo segretario generale non era uscita allo scoperto, non se l’era sentita di sfidare coram populo i «conservatori» della Fiom che infatti - intuendo la possibile svolta di Camusso - ripetevano: l’articolo 18 non si tocca e la segretaria non ha il mandato per farlo. Poi, due sera fa, la Cgil sembrava sull’orlo di una crisi da isolamento. Anche per effetto di un decisionismo che il presidente del Consiglio aveva dispiegato con toni poco «montiani». Con quell’invito ai rappresentanti delle parti sociali a «stringere». E più tardi, a tavolo sparecchiato, il presidente del Consiglio si era presentato in conferenza stampa, dando la pratica della riforma già conclusa: «Ho tenuto a chiudere prima della partenza per l’Asia».

Per qualche ora, per la Cgil è sembrato riapparire lo spettro dell’isolamento. Una di quelle crisi che ciclicamente colpiscono il più antico sindacato italiano. Come accadde dopo la sconfitta alla Fiat. Come accadde dopo la sconfitta nel referendum sulla scala mobile. Certo, in 106 anni di storia, accanto alla Cgil massimalista dell’occupazione delle fabbriche, si è alternata la Cgil capace di pensare anche ai destini del Paese, la Cgil di Di Vittorio del 1945-46, quella di Luciano Lama del 1978, quella di Bruno Trentin del 1992-93. Difficile capire come finirà stavolta, ma ieri mattina nel palazzo ex fascista di corso Italia, hanno capito subito che l’isolamento poteva esser forzato. Lo hanno capito dopo l’intervento ad «Agorà» di Fabrizio Barca, un economista che è anche uno dei ministri più stimati da Monti. Il ministro per la Coesione territoriale ha sostenuto l’impossibilità, per un lavoratore licenziato per motivi economici, di tutelare il proprio diritto, nel caso si senta discriminato. Poi, il crescendo di pesanti dichiarazioni anti-riforma da parte di esponenti del Pd, il pasticcio sull’applicazione della riforma anche agli statali, il perdurante silenzio di Palazzo Chigi sullo strumento legislativo col quale presentare la riforma in Parlamento, hanno fatto capire alla Camusso che il vento stava girando.

Alle sei della sera la segretaria si è presentata nella sala stampa della Cgil. Lì, c’era attesa per uno show e d’altra parte le premesse c’erano: la Cgil sola contro tutti, la Camusso nel bunker, la Fiom che predica l’arma bianca. La segretaria si è presentata col suo look casual, ma non troppo: maglione blu «lupetto» a doppio collo, jeans col risvolto, scarpe tipo Hogan rosso vinaccio. Si è seduta, ha incrociato le dita delle due mani e senza quasi muovere il corpo, ha iniziato a parlare. Con quell’appello, così politico, al Parlamento. Con l’annuncio di un’azione di logoramento, che non prevede neppure la Grande Manifestazione unica. Dunque, niente bis, 10 anni dopo, dei tre milioni del Circo Massimo. E con l’idea - tenuta coperta - di fare lo sciopero generale poco prima dell’estate, tra Imu e Iva. Per incanalare un malcontento che si immagina destinato a lievitare.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/447337/


Titolo: FABIO MARTINI. Un partito del Presidente? Decisione dopo le amministrative
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:23:33 pm
Politica

29/03/2012 -

Monti il professore interventista prepara il suo futuro politico


Un partito del Presidente? Decisione dopo le amministrative

Fabio Martini

Tokyo

Nel design minimalista della sala del gruppo editoriale Nikkei, dietro un cubo di faggio e su un fondale di velluto nero, Mario Monti propone la sua special lecture a cinquecento tra manager, banchieri, diplomatici giapponesi, che apprezzano con sorrisi, cenni del capo e applausi la lezione del professore. E lui - in questo contesto che più giapponese non potrebbe essere - a sorpresa si produce in ripetute incursioni sulla realtà politica italiana. Scandisce frasi impegnative, a cominciare da quella sui sondaggi che danno il governo più popolare dei partiti e poi il professore ne deposita un’altra - meno notata - ma curiosa: «Noi dovremmo essere e saremo una breve eccezione». Il dovremmo, effettivamente, contiene una piccola dose di ambiguità, non esclude un bis sempre negato ed è una ambiguità insolita in un personaggio come Monti che si serve di un linguaggio ricco e preciso.

Diverse ore più tardi, in un contesto diversissimo, la residenza dell’ambasciatore italiano in Giappone, Monti riferisce dei suoi colloqui con le autorità giapponesi e parlando della proverbiale instabilità dei governi locali, propone un breve resumé di quelli italiani: «Dal 1996 ci sono stati diversi governi Prodi, diversi Berlusconi, D’Alema e Amato». Un giornalista: «E avremo molti Monti...». E lui, di rimando e ridendo: «Quello deve completare ancora una volta...». Sfumature, certo. Ma è come se fosse in corso un piccolo slittamento semantico, dal «non possumus» iniziale ad un approdo ancora tutto da definire. A Monti piacerebbe «salire» al Quirinale, oppure - come pare - potrebbe essere intrigato di più a restare altri cinque anni a palazzo Chigi?

Di certo, nei primi tre giorni della sua missione asiatica, Mario Monti - riscattando l’ipocrisia dei premier italiani che quando vanno in giro per il mondo ripetono che all’estero non si parla di Italia, salvo poi farlo quando gli fa comodo - sta richiamando continuamente temi controversi della politica domestica e lo fa ripetendo, in forme diverse, un concetto micidiale per i partiti: io, il consenso non lo cerco, ma ce l’ho; loro lo cercavano e l’hanno perso. Di più: Monti non solo cita i sondaggi, come faceva Berlusconi, ma ci va “dentro”, li legge, sottolinea quello spread tra il gradimento a lui e quello riservato ai partiti. Tanto è vero che da Roma, un importante ex ministro del governo Prodi fa notare sottovoce: «Monti sembra lavorare per essere la vittima dei partiti “cattivi” e fondarne uno “buono”, nuovo».

Subito dopo le amministrative di maggio, effettivamente, la questione del «partito di Monti» è destinata a farsi più concreta. Per il momento, ad ascoltare le confidenze di chi gli è amico veramente e gli ha parlato, «non c’è nulla, né un progetto né una rete» e questo è un dato di fatto significativo. Ma è altrettanto significativa la reazione di Monti al quasi accordo tra i partiti sulle riforme istituzionali. A chi gli chiedeva un parere, il presidente del Consiglio ha risposto di «non aver letto i giornali», ma da quel che trapela da fonti autorevoli, in realtà Monti avrebbe confidato di essere rimasto sfavorevolemente colpito dall’iniziativa dei partiti, perché - questo è il punto - l’avrebbe letta come reazione alle sue esternazioni. E naturalmente ad un politico, dimostratosi sapiente come Mario Monti, non sfugge l’importanza delle regole che porteranno all’elezione del prossimo Parlamento. Chiamato a due scelte che potrebbero interessarlo molto: eleggere il Capo dello Stato e «suggerire» il prossimo presidente del Consiglio.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/448230/


Titolo: FABIO MARTINI. Un partito del Presidente?
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2012, 12:09:38 pm
Politica

29/03/2012 -

Monti il professore interventista prepara il suo futuro politico


Un partito del Presidente? Decisione dopo le amministrative

Fabio Martini

Tokyo

Nel design minimalista della sala del gruppo editoriale Nikkei, dietro un cubo di faggio e su un fondale di velluto nero, Mario Monti propone la sua special lecture a cinquecento tra manager, banchieri, diplomatici giapponesi, che apprezzano con sorrisi, cenni del capo e applausi la lezione del professore. E lui - in questo contesto che più giapponese non potrebbe essere - a sorpresa si produce in ripetute incursioni sulla realtà politica italiana. Scandisce frasi impegnative, a cominciare da quella sui sondaggi che danno il governo più popolare dei partiti e poi il professore ne deposita un’altra - meno notata - ma curiosa: «Noi dovremmo essere e saremo una breve eccezione». Il dovremmo, effettivamente, contiene una piccola dose di ambiguità, non esclude un bis sempre negato ed è una ambiguità insolita in un personaggio come Monti che si serve di un linguaggio ricco e preciso.

Diverse ore più tardi, in un contesto diversissimo, la residenza dell’ambasciatore italiano in Giappone, Monti riferisce dei suoi colloqui con le autorità giapponesi e parlando della proverbiale instabilità dei governi locali, propone un breve resumé di quelli italiani: «Dal 1996 ci sono stati diversi governi Prodi, diversi Berlusconi, D’Alema e Amato». Un giornalista: «E avremo molti Monti...». E lui, di rimando e ridendo: «Quello deve completare ancora una volta...». Sfumature, certo. Ma è come se fosse in corso un piccolo slittamento semantico, dal «non possumus» iniziale ad un approdo ancora tutto da definire. A Monti piacerebbe «salire» al Quirinale, oppure - come pare - potrebbe essere intrigato di più a restare altri cinque anni a palazzo Chigi?

Di certo, nei primi tre giorni della sua missione asiatica, Mario Monti - riscattando l’ipocrisia dei premier italiani che quando vanno in giro per il mondo ripetono che all’estero non si parla di Italia, salvo poi farlo quando gli fa comodo - sta richiamando continuamente temi controversi della politica domestica e lo fa ripetendo, in forme diverse, un concetto micidiale per i partiti: io, il consenso non lo cerco, ma ce l’ho; loro lo cercavano e l’hanno perso. Di più: Monti non solo cita i sondaggi, come faceva Berlusconi, ma ci va “dentro”, li legge, sottolinea quello spread tra il gradimento a lui e quello riservato ai partiti. Tanto è vero che da Roma, un importante ex ministro del governo Prodi fa notare sottovoce: «Monti sembra lavorare per essere la vittima dei partiti “cattivi” e fondarne uno “buono”, nuovo».

Subito dopo le amministrative di maggio, effettivamente, la questione del «partito di Monti» è destinata a farsi più concreta. Per il momento, ad ascoltare le confidenze di chi gli è amico veramente e gli ha parlato, «non c’è nulla, né un progetto né una rete» e questo è un dato di fatto significativo. Ma è altrettanto significativa la reazione di Monti al quasi accordo tra i partiti sulle riforme istituzionali. A chi gli chiedeva un parere, il presidente del Consiglio ha risposto di «non aver letto i giornali», ma da quel che trapela da fonti autorevoli, in realtà Monti avrebbe confidato di essere rimasto sfavorevolemente colpito dall’iniziativa dei partiti, perché - questo è il punto - l’avrebbe letta come reazione alle sue esternazioni. E naturalmente ad un politico, dimostratosi sapiente come Mario Monti, non sfugge l’importanza delle regole che porteranno all’elezione del prossimo Parlamento. Chiamato a due scelte che potrebbero interessarlo molto: eleggere il Capo dello Stato e «suggerire» il prossimo presidente del Consiglio.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/448230/


Titolo: FABIO MARTINI. Grande coalizione, il silenzio dei partiti
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2012, 10:34:54 am
Politica
05/04/2012 - DOPO MONTI L’INCERTEZZA DELLA POLITICA

Grande coalizione, il silenzio dei partiti

Palazzo Chigi Mario Monti ha escluso una sua candidatura a premier per il 2013, ma se nessuna coalizione riuscirà ad ottenere la maggioranza in Parlamento potrebbe essere chiamato a guidare una Grande coalizione

Lo scenario ipotizzato nell’intervista del premier inquieta i politici alla ricerca di una strategia

FABIO MARTINI
Roma

In una politica ciarliera come quella nostrana, il compatto silenzio che è seguito alle riflessioni di Mario Monti su una possibile prosecuzione della Grande Coalizione rappresenta a suo modo una notizia, il segno di un generale spiazzamento tra i partiti e i leader, tutti in altissimo mare nell’immaginare cosa sarà di loro fra 10-12 mesi. Non è certo un caso se, nella consueta raffica di dichiarazioni quotidiane, nessuno dei leader e neppure dei colonnelli abbia detto mezza parola sulla suggestione montiana. Eppure la novità contenuta nell’intervista rilasciata due giorni fa a “La Stampa” dal presidente del Consiglio non era stata di poco conto. Per la prima volta Monti si era affacciato sullo scenario che si aprirà dopo le elezioni del 2013, sostenendo che «se la situazione lo richiederà ancora, immagino che i partiti saranno anche disposti a mettere a frutto l’acquisita capacità di dialogo per pensare a grandi coalizioni». Certo, Monti aggiungeva che «sarà bello guardare tutto questo dal di fuori», ma intanto metteva il suo prestigio a sostegno di una soluzione politica “hard”. Ma un così diffuso silenzio ha una spiegazione che va oltre la quotidianità. Sostiene Francesco Boccia, pd, già capo del dipartimento per lo sviluppo economico nel governo Prodi: «Quando si rendono esplicite verità nascoste, per chi le teme e per chi le auspica, la cosa migliore è il silenzio». Conviene un battitore libero di altro orientamento come Giorgio Stracquadanio, pdl: «Diciamo la verità: siamo tutti spiazzati, in Parlamento c’è un autentico deserto di idee, tanto più se strategiche, uno stato d’animo che potrebbe riassumersi così: capisco che il mio polo sta andando a picco, ma non ho nulla da mettermi addosso...».

In realtà tutti i principali leader coltivano un disegno ma nessuno finora ha avuto la forza di esporlo chiaramente. L’unico ad esprimersi è stato Casini, che più volte ha sostenuto il suo auspicio: che l’attuale coalizione prosegua anche per la prossima legislatura. Nell’Udc, per ora, lo schema di gioco per la campagna elettorale è deciso: larga coalizione, Casini candidato leader, ma anche indicazione di Monti come possibile premier nel caso in cui nessuna coalizione dovesse superare il 51% dei seggi. Ancora Monti premier? Annuisce Bruno Tabacci, libero pensatore dell’area Terzo polo: «Condivido in pieno la sua intervista e auspico che il presidente del Consiglio resti esterno, ma non troppo!».

Quanto al Pd, l’incertezza regna sovrana. Nei prossimi giorni il partito di Bersani, in vista delle amministrative di maggio, stringerà alleanze locali con i partiti che più lo osteggiano, l’Idv di Di Pietro e Sel di Vendola, ma poiché nessuno sa con quale legge si voterà, il segretario del Pd su Monti si è espresso così: «Voterei Monti? Sì, se si presentasse col centrosinistra». Quanto a Silvio Berlusconi, in una recente esternazione aveva auspicato un Monti-bis, poi si era corretto. Alla fine, per dirla con un simpatizzante del premier come il senatore pd Giorgio Tonini, «il magistero di Monti è chiaro: dopo la “cura”, i partiti continuino ad avere un dialogo da matura democrazia occidentale, sia nel caso di una auspicabile alternanza, sia nel caso si dovesse replicare una Grande Coalizione, scenario inevitabile se dalle elezioni non dovesse uscire un governo plausibile». Ipotesi probabile se dovesse passare la riforma elettorale, ad alto tasso proporzionale, attualmente in gestazione da parte dei tre partiti di maggioranza.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/449106/


Titolo: FABIO MARTINI. Monti prepara con un decreto il “piano sviluppo Italia”
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2012, 11:37:18 am
Politica

15/04/2012 -

Monti prepara con un decreto il “piano sviluppo Italia”

Al lavoro Il presidente del Consiglio, Mario Monti, sta preparando, probabilmente con un decreto, il pacchetto sviluppo per stimolare la crescita economica dell’Italia

Il premier resta a Roma e non parteciperà al G20 di Washington

FABIO MARTINI

Roma

Certo, venerdì 6 aprile Mario Monti era rimasto assai infastidito per l’articolo del Wall Street Journal - che dopo averlo in precedenza paragonato alla Thatcher, aveva bruscamente ritirato l’elogio - ma poi nella replica al giornale il professore aveva fatto ricorso all’humour: «Non ho mai cercato essere la Thatcher di Italia, quindi non ho obiezioni se ritirerete quel titolo». Certo il giornale americano aveva stressato il termine di paragone, facilitando la risposta di Monti, eppure in quella replica c’è tutta la filosofia economica di un personaggio che non è mai stato un liberista ultrà, ma semmai un sostenitore dell’economia sociale di mercato. E’ anche per questo motivo che Mario Monti, nei mesi scorsi, in Europa ha contrastato il rigorismo monodimensionale della signora Merkel e per lo stesso motivo, ben comprendendo l’urgenza di dare una scossa alla depressa economia italiana, in queste ore il Presidente del Consiglio ha preso una decisione importante: preparare un corposo pacchetto per la crescita, pieno di stimoli di varia natura, un provvedimentoomnibus che dovrebbe essere varato, entro questa settimana, in occasione di un Consiglio dei ministri straordinario, convocato ad hoc.

Un appuntamento al quale Monti attribuisce un significato politico molto importante e che aiuta a capire anche perché il presidente del Consiglio abbia deciso di rinunciare a partecipare al G20 dei ministri dell’Economia in programma nel fine settimana a Washington, in concomitanza con il summit di primavera del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale. Appuntamenti ai quali Monti, per la sua formazione, non rinuncerebbe mai, tanto più che sarebbe stata un’occasione per incontrare madame Christine Lagarde, la presidente del Fmi, che in una intervista proprio al Wall Street Journal, ha elogiato il presidente del Consiglio per la «velocità» e l’efficacia delle sue riforme, compresa quella controversa sul mercato del lavoro.

Non è ancora stato deciso lo strumento legislativo, ma il pacchetto per lo sviluppo potrebbe addirittura prendere la forma del decreto-legge, anche se a palazzo Chigi non si esclude il ddl e neppure un più soft Documento di indirizzo. Dettagli significativi, di cui Monti intende parlare con i leader dei partiti della sua maggioranza in occasione del vertice già convocato per martedì sera. Un’occasione nella quale Monti presenterà le linee guida del pacchetto-sviluppo, ma pronto ad ascoltare consigli e proposte dai leader della maggioranza e al tempo stesso concorderà in modo definitivo l’iter della riforma del lavoro. Argomento sul quale Elsa Fornero, anche in queste ore, ben interpreta il pensiero del presidente del Consiglio: l’impianto complessivo e l’equilibrio tra le diverse parti del provvedimento non si toccano.

Ma il piatto forte della settimana, in qualche modo una sorpresa, sarà proprio il provvedimento unico per lo sviluppo. Già da alcuni giorni Monti ha chiesto ai ministri di prima linea, a cominciare da Corrado Passera, di preparare dossier e misure da mettere in cantiere da qui alla fine dell’anno. Se ne parlerà lunedì, in occasione di uno dei consueti summit interministeriali periodicamente convocati da Monti e che pure stavolta sarà chiamato ad assumere decisioni operative. Il provvedimento che Monti ha in testa deve essere ancora scritto, ma i titoli sono pronti: scongelamento di un pacchetto di infrastrutture ferme al Cipe, sblocco entro l’anno di un ulteriore tranche (forse il 20%) nei pagamenti alle imprese degli arretrati della Pubblica amministrazione, varo del fondo taglia-tasse finalizzato alla riduzione delle imposte, agenda digitale, asta delle frequenze digitali (venerdì scade il termine), fluidificazione delle procedure di alcune spese per gli enti locali, riduzione delle bollette energetiche per le famiglie a basso reddito.

Misure che devono letteralmente fare i conti con un problema molto serio, al quale è chiamato a dare risposta il Documento di economia e finanza che sarà varato dal Consiglio dei ministri di domani. Il Def confermerà la recessione in atto, con un Pil in calo dell’1,3-1,5%, dunque un punto in più rispetto allo 0,4% annunciato dal governo a dicembre. Ma al tempo stesso si capirà come il governo abbia deciso di fronteggiare la contrazione del Pil, che in linea teorica comporterebbe la necessità di un aggiustamento dei conti di circa lo 0,5%, in parole povere tra i 7 e gli 8 miliardi. Monti ha già detto di ritenere sufficiente il margine di scostamento definito quattro mesi fa, quando si valutò la spesa per interessi nel triennio sulla base di un differenziale Bund-Btp di oltre 500 punti, dunque molto peggiore dell’attuale.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/450170/


Titolo: FABIO MARTINI. Monti cerca l'accordo con i partiti
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2012, 03:30:03 pm
Politica

16/04/2012 -

Pacchetto sviluppo in tre tappe

Monti cerca l'accordo con i partiti

La Road map del premier: trattativa serrata per un nuovo patto con le forze politiche

FABIO MARTINI
Roma

Al termine della settimana più difficile della sua vita politica, Mario Monti ha deciso la road map con la quale provare ad uscire dal tunnel: trattativa serrata con i leader della maggioranza, ma evitando qualsiasi forzatura, in modo da stringere con i partiti un nuovo patto. Obiettivo principale: arrivare al varo di un provvedimento per lo sviluppo prima delle elezioni amministrative di maggio. Certo, la ventidueesima domenica a palazzo Chigi è stata anche la meno gratificante per Mario Monti. Il presidente del Consiglio, che conosce i fondamentali dell’economia domestica e il difficile contesto internazionale assai meglio dei suoi detrattori (ogni giorno in aumento), ha avuto un giro di contatti informali, nel corso dei quali ha trasmesso la sua preoccupazione per la situazione economica e finanziaria, ma ha anche stabilito un percorso, che dovrebbe consentirgli di produrre il quinto pilastro della sua “curaurto”, un provvedimento-omnibus per lo sviluppo prima delle Amministrative del 6 maggio.

Non è stato ancora deciso se sarà un decreto-legge o un ddl, ma è stato idealmente tracciato il percorso per arrivarvi.

Un percorso in tre tappe, da percorrere con un’idea di fondo: con i partiti Monti ha deciso di evitare strappi, fluidificando al massimo il rapporto con i leader della maggioranza, farli ragionare sulle difficoltà oggettive, raccogliere indicazioni e poi decidere e, una volta deciso, non fare più retromarce.

La prima tappa si consumerà oggi pomeriggio, in occasione di un Consiglio dei ministri straordinario, chiamato ad approvare la delega fiscale (a suo tempo rinviata) e nel corso del quale, oltre ad azzerare il beauty contest e avviare l’asta delle frequenze digitali, il governo potrebbe sbloccare un dossier che Monti sinora ha preferito congelare: il Fondo per lo Sviluppo nel quale sono destinate a confluire le entrate fiscali derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, ma anche le risorse che via via affluiranno dagli effetti della spenging review, la revisione globale della spesa pubblica in corso sotto la regia del ministro Pietro Giarda. Il Fondo per lo sviluppo, se Monti supererà i suoi dubbi, è destinato a diventare il contenitore che, non subito, potrebbe contribuire ad abbattere l’aliquota più basse delle imposte. Ma nel governo si agitano visioni diverse sull’utilizzo delle risorse che andranno a formare il Fondo, per esempio il ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture Corrado Passera lascia intendere che quel “serbatoio” potrebbe stimolare le spese per investimenti.

Nel Consiglio dei ministri di oggi, secondo quanto scrive l’ordine del giorno ancora presente ieri sera sul sito del Governo, si sarebbe dovuto discutere e approvare anche il Documento di Economia e Finanza, col quale il governo è tenuto ogni anno a comunicare al Parlamento e alla Commissione europea le sue tabelle e la sua visione dell’economia nazionale nell’anno in corso e nei tre successivi. Ma per una serie di ragioni - la complessa elaborazione dei dati da parte della Ragioneria, la necessità di una completa “digestione” da parte del Presidente del Consiglio, l’attesa dei “numeri” della Banca d’Italia - il varo del Def è stato rinviato ad un ulteriore Consiglio dei ministri, che dovrebbe essere convocato per mercoledì e che certificherà il peggioramento delle prospettive italiane.

Questo significa che Monti sarà in grado di illustrare in anteprima ai leader della maggioranza i numeri fondamentali dell’economia italiana. Domani sera infatti il presidente del Consiglio si incontrerà a palazzo Chigi col segretario del Pd Pier Luigi Bersani, con quello del Pd Angelino Alfano e col leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, nel corso di una cena che si preannuncia lunga, si affronteranno i tanti dossier sui quali non c’è ancora un accordo: Rai, Imu, esodati, mercato del lavoro e naturalmente il premier ascolterà tutte le proposte utili a rendere efficace il provvedimento di maggio per lo sviluppo.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/450253/


Titolo: FABIO MARTINI. Monti cerca di mediare con Parigi e Berlino
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2012, 05:45:06 pm
Politica

19/05/2012 - retroscena

Monti cerca di mediare con Parigi e Berlino

Il premier Mario Monti arriva negli Stati Uniti

Il premier: servono maggiori investimenti ma non per tutti i Paesi

FABIO MARTINI
inviato a Camp David


Tra i bungalow di Camp David, nell’atmosfera rustico-lussuosa della residenza di campagna dei presidenti degli Stati Uniti, Mario Monti stringe le mani degli altri capo di governo del G8 con la proverbiale, affettata cortesia.

Con il nuovo presidente francese Hollande si intrattiene più a lungo, in un vis-à-vis di approccio, visto che i due non si conoscevano, mentre il colloquio più cordiale è col padrone di casa, Barack Obama.

Soltanto gli storici, fra qualche anno, potranno ricostruire il ruolo preciso del presidente degli Stati Uniti nella «intronizzazione» di Mario Monti nell’autunno del 2011, sta di fatto che in occasione del G8, iniziato ieri sera con una cena, proprio al premier italiano è stato affidato da Obama l’incarico di aprire la sessione iniziale di questa mattina con una relazione sullo stato dell’economia globale.

Una relazione, quella del premier italiano, in qualche modo concordata e sicuramente condivisa dagli americani, secondo un preciso schema di gioco che si è dipanato nella giornata di ieri: in mattinata Obama e Hollande, affiancati alla Casa Bianca, si sono prodotti in dichiarazioni molto esplicite nell’auspicio che l’Europa si dia una scossa, scuotendosi dall’austerità di marca tedesca; questa mattina Monti, al G8, si rivolgerà, non solo idealmente alla Cancelliera Merkel con gli argomenti che lui, nell’approccio con i tedeschi, conosce meglio di ogni altro.

E gli argomenti di fondo, Monti li ha anticipati in una intervista molto importante rilasciata alla Cnn, nel corso della quale ha esplicitato la «dottrina» sulla quale stava lavorando da tempo e grazie alla quale confida di contribuire a favori e una svolta nella drammatica, epocale crisi che stanno vivendo i Paesi dell’Occidente.

Intervistato da uno dei più famosi anchormen americani, Fareed Zakaria, Monti ha detto: «Dobbiamo recuperare la nozione di domanda, quella che punta a rimuovere i colli di bottiglia all’offerta di beni e servizi» e dunque «dovremmo guardare alla domanda di investimenti più positivamente di quanto facciano le autorità europee più conservatrici».

Oppure più «prudenti», secondo una sfumatura diversa del termine «conservative» usato dal premier italiano, ma che non cambia il senso di un’espresssione insolitamente sferzante. In altre parole, per Monti, occorre sfidare l’eccessiva prudenza della plancia di comando europea (la Commissione guidata da Barroso, il Paese-guida dell’Unione, la Germania), senza però cadere nell’eccesso opposto, con politiche generalizzate per tutti i Paesi che giustificherebbero le resistenze tedesche.

Sostiene Monti: «Se da un lato la domanda da investimenti va valutata più positivamente di quanto facciano le istituzioni europee più prudenti, dall’altro credo che di fronte a una crociata su tutta la linea per una maggiore domanda, le riluttanze tedesche non sarebbero del tutto infondate».

Di più Monti non ha detto, ma quasi certamente lo farà questa mattina parlando davanti ai leader del G8: ferma restando la disciplina fiscale cara alla Merkel, per ridare ossigeno all’ansimante economia europea, occorre però pensare - ecco la novità - a misure pro-crescita differenziate, non necessariamente eguali per tutti, che tengano conto delle condizioni specifiche delle diverse realtà e del ciclo.

E’ dentro questo ragionamento che Monti colloca la sua proposta della golden rule, lo scorporo degli investimenti «buoni» dal computo del debito, in questo modo recuperando una battaglia avviata a suo tempo da Jacques Delors e proseguita (con altrettanto insuccesso) dalla Commissione Prodi.

In altre parole, consapevole dell’appoggio di Obama e di Hollande, forse percependo una persistente resistenza tedesca, alla viglia del G8 Monti ha dunque indicato una strada, anche se il premier italiano - pur consapevole dell’enorme gravità del momento - ci tiene a valorizzare la strada fatta in quattro mesi dalla “sua” Italia: «Vengo a rappresentare un’Italia con le carte in regola e che quindi ha le sue posizioni da esprimere con forza: l’Italia chiede che ci sia a livello mondiale ed europeo una crescita molto più vigorosa che consentirà anche di mantenere nel tempo quegli equilibri di bilancio pubblico che l’Italia per prima e con tanta fatica ha raggiunto e intende mantenere in un quadro di crescita».

DA - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/454816/


Titolo: FABIO MARTINI. Il volto umano del premier tecnico
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 04:07:07 pm
22/5/2012

Il volto umano del premier tecnico

FABIO MARTINI

Ci sono momenti nei quali i calcinacci, il sangue e le lacrime di un popolo non possono restare soli, lo Stato deve esserci, mostrare un’anima: Mario Monti, congedandosi anticipatamente dai leader dell’Occidente riuniti al vertice Nato di Chicago e dismettendo l’algido aplomb indossato per sei mesi, ieri ha partecipato ai funerali di Melissa e oggi in EmiliaRomagna toccherà con mano macerie, paura, dolore. Passaggi doverosi per un capo di governo. Ma con i tempi che corrono, non era scontato l’applauso che nella chiesa di Mesagne ha salutato l’evocazione del presidente del Consiglio.

Per il premier tecnocrate, quell’applauso spontaneo, la decisione di «sporcarsi» il vestito e di guardare in faccia l’angoscia sembrano essere il preannuncio di una «svolta emozionale». Mario Monti ha deciso di ribaltare una critica non esplicita ma che era nell’aria: quella di essere sprovvisto di empatia, della capacità cioè di «sentire» lo stato d’animo dei suoi concittadini. Qualche settimana fa il rappresentante di tutti i sindaci d’Italia, Graziano Delrio, padre di nove figli, primo cittadino di Reggio Emilia, usò un’espressione a prima vista un po’ corriva: «Il presidente Monti deve aprire gli occhi, badare alla signora Angela, ma anche alla signora Maria». Eppure, quella battuta ha finito per dar voce ad una sensazione diffusa. Il gap di «presenza» sul campo dei ministri tecnici ha sicuramente segnato la stagione iniziale dell’esecutivo tecnico, come hanno imparato per primi gli abitanti dell’Isola del Giglio, che dopo esser stati protagonisti involontari di un evento di cui hanno parlato i notiziari di tutto il mondo, hanno visto apparire il primo rappresentante del governo alcune settimane dopo la tragedia. Per non parlare dell’approccio, prevalentemente contabile, al fenomeno dei suicidi.

Certo, la storia recente anche in altri Paesi racconta di una capacità di «interpretare» le catastrofi che, in alcuni casi, diventa arte comunicativa, capacità di trasformarsi in consenso. Come dimostrano gli indimenticabili stivaloni del cancelliere Schroeder in mezzo alle acque dell’Elba. Da noi, come sappiamo bene, ci vuol poco a trasformare la necessaria vicinanza dello Stato in spettacolo, la necessaria empatia in professionismo del dolore. Confini che Mario Monti non sembra esser capace di valicare: appena entrato a Palazzo Chigi, aveva dimostrato di interpretare l’umore del suo popolo, facendo della sobrietà la sua bandiera. Incoraggiato dai successi e dal consenso iniziali, Monti ha poi alzato un muro concettuale, sostenendo che sono state proprio le «ragioni del cuore», quelle che hanno portato l’Italia sull’orlo del baratro. E dunque, se i partiti sono stati troppo buoni, tocca a lui fare la parte del «cattivo». E’ il ruolo che Monti si è preso per passare alla storia come il «salvatore» dell’Italia, ma ora anche il professore della Bocconi sembra aver compreso che l’arte del governare comprende anche la capacità di creare una sintonia emozionale con la gente comune.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10131


Titolo: FABIO MARTINI. Monti, rush finale in otto dossier
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2012, 10:11:15 pm
Politica

22/08/2012 - la crisi, le prossime mosse

Monti, rush finale in otto dossier

Investimenti per i giovani, fisco, crescita e norme anti-casta

Fabio Martini
Roma

Un rush finale che lasci il segno. Venerdì 24, nel primo Consiglio dei ministri dopo le brevi vacanze, Mario Monti metterà alla prova questa sua ambizione, ascoltando, uno dopo l’altro, tutti i suoi ministri chiamati a proporre liberamente, col metodo del brainstorming, idee e progetti di loro competenza, ma soprattutto indotti a tirar fuori dai cassetti i progetti “chiavi in mano” o comunque attuabili nell’arco di alcune settimane. Scorrendo il calendario, a palazzo Chigi si sono resi conto che da settembre fino al termine della legislatura i giorni parlamentari per tradurre in pratica i buoni propositi non sono molti: sessanta, al massimo settanta. Certo, molto dipenderà da quando il Capo dello Stato deciderà di sciogliere le Camere, ma poiché la data è destinata ad oscillare tra fine gennaio e metà febbraio, le settimane utili non sono molte più di venti. In questo arco di tempo il governo cercherà di attuare quella che potrebbe essere definita l’Agenda Monti di fine legislatura: al momento sono almeno otto i grossi progetti “cantierabili”, cioè in avanzato stato di elaborazione e quasi pronti per essere sintetizzabili in un testo e portati in Consiglio dei ministri.

Con una novità in più: Monti intende produrre uno sforzo dichiarato e tangibile per i giovani. Per dirla con le parole del Professore, «il 2013 deve essere l’anno degli investimenti in capitale umano», l’anno nel quale «tutto il Paese si mobilita, scommettendo sui propri giovani, sulle loro competenze, sui loro talenti». Non si tratta ancora di un progetto organico e dunque non è possibile etichettare il dossier (come spesso fanno giornali) in qualcosa definibile come “Piano Monti per i giovani”. Si tratta piuttosto di una serie di stimoli, a partire da misure legate al mondo della scuola e dell’Università (nuove opportunità di lavoro all’estero per gli studenti, accordi tra mondo della scuola e associazioni professionali, nuove modalità di reclutamento e formazione degli insegnanti, potenziamento dell’istruzione professionale, la «rivoluzione del merito», annunciata dal ministro Profumo), anche se il governo immagina che gli stimoli più strutturali all’occupazione giovanile debbano venire dalla riforma del mercato del lavoro e da alcune nuove misure contenute nel prossimo piano per la crescita.

Nel Consiglio dei ministri di dopodomani Monti, dopo aver preso atto che il mese di agosto non ha prodotto emergenze e non ha richiesto interventi-tampone e anzi ha indotto per la prima volta le agenzie di rating ad “investire” sull’Italia, cercherà soprattutto di capire in quali tempi sarà possibile portare oltre la linea del traguardo i progetti più ambiziosi già messi in cantiere. Il presidente del Consiglio intende far partire il prima possibile il secondo piano per la crescita del ministro Passera, che dovrebbe essere diviso in due pacchetti: il primo, da varare entro i primi di ottobre, prevede agenda digitale, semplificazioni e start up per le imprese. Il progetto più ambizioso riguarda la cosiddetta agenda digitale, con la decisione di realizzare nelle regioni del Sud Italia una serie di “Data Center”, centri per immagazzinare dati digitali provenienti da diversi siti: dalla Pubblica amministrazione, ma anche dalle aziende impegnate nel Made in Italy ed interessate ad entrare a far parte di una rete capace di fluidificare le esportazioni. Di questa “agenda” fa parte un progetto di più lunga lena: il tentativo di azzerare entro il 2013 il cosiddetto “digital divide”, dotando tutto il Paese della banda larga di Internet. Per quanto riguarda le imprese, in dirittura d’arrivo le norme sulla semplificazione (autorizzazioni e procedure più semplici), sullo start up (modalità più semplici per avviare un’attività imprenditoriale) e lo sportello unico per le aziende straniere interessate ad investire in Italia, che attualmente sono costrette a sopportare un centinaio di adempimenti prima di poter avviare una propria attività. Il secondo pacchetto del progetto-crescita dovrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) avviarsi nelle ultime settimane della legislatura (tra novembre e gennaio) ed è centrato su un nuovo piano energia, col varo di progetti estremamente ambiziosi: il potenziamento della produzione di idrocarburi sul territorio nazionale, con l’obiettivo di coprire in prospettiva il 20% del fabbisogno energetico grazie al petrolio “tricolore”; la progressiva trasformazione dell’Italia nell’hub europeo del gas; il sostegno alla realizzazione di quattro nuovi rigassificatori. Progetti impegnativi, almeno quanto lo sono provvedimenti di natura diversissima dai precedenti, a cominciare dalla grande incompiuta tra le riforme del governo Monti: quella fiscale, attualmente ferma alla Commissione Finanze della Camera, dove è approdata il 15 giugno. L’obiettivo, dichiarato dal governo al suo insediamento, resta quello di un sistema più trasparente e più equo. E ancora: la riforma del catasto, con la revisione delle rendite e del valore patrimoniale degli immobili; il tentativo di avviare il capitolo dismissioni di patrimonio pubblico, mobiliare immobiliare. Infine le riforme “anti-casta”: il taglio delle Province e il “piano Amato” per la riduzione dei contributi ai partiti.

In questo contesto di “cantiere aperto” appare significativo l’appuntamento che il presidente del Consiglio ha dato il 5 settembre alle associazioni degli imprenditori e delle banche, chiamate a palazzo Chigi per fornire, a loro volta, suggerimenti e stimoli per contribuire alla tanto declamata ripresa della crescita.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/466106/


Titolo: FABIO MARTINI. Se si vota non vince nessuno
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2012, 05:33:08 pm
24/8/2012

Se si vota non vince nessuno

FABIO MARTINI

I leader politici già lo sanno e gli italiani lo sapranno presto: con la riforma elettorale in gestazione e oramai vicina al traguardo, tutto è stato calibrato per garantire due obiettivi minimali. Comunque vadano le elezioni, nessuno dei tre partiti di maggioranza avrà molto da perdere in termini di rappresentanza, mentre al più forte di loro sarà garantito un premio, ma non è affatto detto che l’additivo sia sufficiente per conquistare la maggioranza dei seggi in Parlamento. Nella notte delle elezioni, agli italiani potrebbe essere negata l’istantanea ormai rituale in tutte le democrazie del mondo: la consacrazione del leader vittorioso.

Per sapere chi governerà il Paese occorrerà attendere che le forze politiche trovino in Parlamento l’equilibrio «giusto». Un esito da «no contest» che i leader dei partiti già conoscono, per effetto delle simulazioni riservate che hanno condotto in queste ultime settimane e che ora è confermato anche da uno studio indipendente, realizzato dall’Istituto Cattaneo. Dunque, se alla fine si dovesse andare a votare oggi col sistema sul quale si è trovato un compromesso, nessun partito vincerebbe. E diventerebbe obbligatoria una qualche coalizione, anche se in campagna elettorale se ne fosse negata l’opportunità. In vista del traguardo, in queste ore, si stanno moltiplicando i segnali di fumo, le indiscrezioni pilotate, le polpette avariate. E si capisce perché: nelle prossime quattro settimane si deciderà il destino di questa legislatura e anche della prossima.

E indirettamente si determinerà anche la platea che sarà chiamata ad eleggere il nuovo Capo dello Stato. Tutto è intimamente intrecciato: la trattativa sulla legge elettorale, il destino del governo, il possibile scioglimento anticipato della legislatura. Ogni segmento tiene l’altro. Questa mattina, nella convinzione che la legislatura si concluda in modo naturale, il governo si riunisce per lanciare il rush finale, avviando e implementando dossier che vanno ben oltre l’ordito dei «compiti a casa», imposti nove mesi fa dall’Europa e dalla signora Merkel. Anche i partiti, nei giorni della formazione del governo Monti, ebbero subito chiaro quali sarebbero stati i loro compiti a casa. Compiti da ripetenti: scongelare quel pacchetto minimo di riforme istituzionali di cui si chiacchiera da decenni e scardinare finalmente il Porcellum.

Nella storia delle democrazie, le leggi elettorali sono quasi sempre l’espressione di un assetto sociale, di un’idea di Paese. Così è stato nell’Inghilterra dei collegi uninominali, nella Francia della Quinta Repubblica e anche nell’Italia del 1993, quando la prima riforma elettorale dopo 47 anni, il Mattarellum, fu chiamata a fronteggiare il crollo della Prima Repubblica. E’ nel 2005 che cambia l’approccio: Berlusconi fa una riforma, il Porcellum, finalizzata ad un calcolo preciso, sgonfiare il più possibile il probabile successo dell’Unione di Prodi. In sette anni quella legge, intimamente anti-democratica per via del sistema dei nominati, è diventata indigeribile per tutti. Il Capo dello Stato si è incaricato di ricordarlo spesso, pungolando i partiti, fino a costringerli ad agire. Pd, Pdl e Udc - lasciate cadere le suggestioni maggioritarie dell’ispano-tedesco del «Vassallum» e quella del semipresidenzialismo - stanno per partorire un marchingegno che, in prospettiva, possa consentire di liberarsi delle coalizioni eterogenee e rissose di questi anni e costruire un nuovo bipolarismo attorno a due grandi partiti.

Con un inconveniente: sul breve periodo, Pd e Pdl sono diventate due forze «bonsai», politicamente incapaci di essere i partiti-guida del sistema. Nei prossimi giorni si capirà se il minimo comune denominatore raggiunto tra i partiti corrisponderà anche al miglior compromesso possibile. Se avremo cioè una legge da più legislature, oppure, come ha riconosciuto un professore in politica come Gaetano Quagliariello, si andrà verso «una legge di transizione». In questi anni si è molto sorriso sugli esotici modelli elettorali via via proposti dai partiti - l’ungherese, l’israeliano, l’australiano - e forse proprio per effetto di questi precedenti nessuno ha avuto ancora il coraggio di battezzare il sistema in arrivo.

Eppure, gli impianti che lo ispirano sono chiari: il proporzionale «personalizzato» nei collegi è mutuato dalla legge tedesca; il premio al primo partito è lo stesso in vigore in Grecia. Se non interverranno significativi ripensamenti, l’Italia sta per adottare un sistema «greco-tedesco»: originale mix ispirato al Paese più solido e a quello più sofferente d’Europa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10455


Titolo: FABIO MARTINI. Così i tedeschi puntavano a mettere Roma sotto tutela.
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2012, 04:59:34 pm
Economia

29/08/2012 - retroscena

La confidenza di Hollande: Berlino vuole che l'Italia chieda aiuto

Così i tedeschi puntavano a mettere Roma sotto tutela . Oggi a Berlino il faccia faccia tra Monti e Merkel

Fabio Martini
inviato a Berlino

Oramai i due si conoscono bene, Angela Merkel e Mario Monti hanno imparato l’uno dell’altro le disponibilità e gli espedienti, se non altro perché, quello che si svolgerà questo pomeriggio alla Cancelleria tedesca, sarà il quinto vis-à-vis tra i due capi di governo. Pranzo di lavoro davvero importante, perché per i due capi di governo e i loro Paesi sta per aprirsi un settembre decisivo: entro la fine del mese Monti potrà finalmente capire se l’Unione europea sarà riuscita a dispiegare i famosi “firewalls” contro la speculazione sul debito italiano. Quanto alla Merkel, una volta che Bce e Corte Costituzionale tedesca avranno assunto le loro dirimenti decisioni, la Cancelliera potrà dispiegare i temi della sua campagna elettorale in vista del rinnovo del Parlamento, fissato esattamente fra un anno.

A dispetto dei grandi sorrisi che i due si dispensano e della reciproca stima, non sempre Merkel e Monti coltivano interessi convergenti.
Il presidente del Consiglio, tra l’altro, ha interiorizzato quel che gli aveva confidato il presidente francese François Hollande, nel corso dell’incontro all’Eliseo l’ultimo giorno di luglio. Anche se nulla se ne seppe nelle ore e nei giorni seguenti, in quel vertice il presidente Hollande raccontò a Monti: «Noi siamo contrari ma è bene che tu sappia che i tedeschi mi dicono che vorrebbero che anche l’Italia, oltre alla Spagna, chieda formalmente aiuti».

Nei giorni successivi, anche se non è apparsa come una risposta ai tedeschi, il governo - attraverso il presidente Monti e il ministro dell’Economia Vittorio Grilli - ha ripetuto che l’Italia non intende chiedere aiuti, lasciando intuire che una cosa è la Spagna, altra cosa l’Italia. I tedeschi ovviamente non hanno mai spinto su questo acceleratore per evitare interferenze esplicite nella sovranità italiana.
Ma un’Italia sotto protezione non dispiacerebbe alla leadership politica tedesca per due motivi: nella Germania che conta nessuno si fida del dopo-Monti e in ogni caso, per la Merkel, un altro Paese mediterraneo sottoposto alla “griglia” comunitaria e alle condizioni tedesche, sarebbe un ottimo viatico per la sua campagna elettorale.

Ma se l’Italia per il momento non chiede interventi dei fondi salva-Stati, potrebbe invocarli in futuro, nel caso in cui lo spread tornasse ad impennarsi. E proprio sulle condizioni per accedervi, ancora circondate da un alone di intederminatezza, si concentrerà una parte degli argomenti di Monti nel pranzo con la Merkel. Il bivio si può riassumere così: un Paese che abbia fatto i suoi “compiti a casa”, quando dovesse sottoscrivere il relativo Memorandum, dovrà assumere nuovi impegni (come vorrebbero alcuni Paesi del Nord Europa) o basterà (come sostiene l’Italia) la solenne promessa di mantenersi virtuosi?

Fonti governative italiane fanno sapere che lo scudo sarà soltanto uno degli argomenti e non quello prevalente e dunque nel corso del loro pranzo, Monti e Merkel non potranno non parlare della nuova frontiera aperta dai tedeschi, quella che potrebbe portare verso nuovi Trattati politicamente più vincolanti. E ovviamente si parlerà anche di unione bancaria.

Ieri sera, intanto, in vista dell’incontro di oggi a Berlino, Monti si è visto col presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Incontro fissato all’ultimo momento - la richiesta è partita da Roma attorno alle 10,15 di ieri mattina - e Barroso, preso in contropiede per via di una cena già fissata con alcuni capogruppo dell’Europarlamento, ha dato la sua disponibilità per un caffè nel dopo-cena. Da parte di Monti non soltanto un atto formale: il presidente del Consiglio, che ha lavorato a Bruxelles per quasi 10 anni, sa che nella “capitale europea” esiste un bon ton comunitario, ma sa pure che per far avanzare qualsiasi dossier, se è necessario non aver contro la Commissione, è ancora meglio averla a favore e in ogni caso, per l’Italia, i bilaterali affiancano e non sostituiscono il metodo comunitario.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/466723/


Titolo: FABIO MARTINI. In busta paga sgravi per spingere la produttività
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2012, 04:52:32 pm
Economia

23/09/2012 - RETROSCENA

In busta paga sgravi per spingere la produttività

Allo studio per tutte le imprese che esportano. L’esecutivo: apprezziamo gli sforzi della Fiat

Fabio Martini
Roma

Dopo cinque ore, anziché due comunicati finali, si decide di farne uno solo, congiunto. E’ il segno che John Elkann e Sergio Marchionne sono soddisfatti per l’esito dell’incontro, la Fiat non ha mai fatto comunicati congiunti negli ultimi anni. Ma è Mario Monti a volere quel sigillo comune su un incontro che si è svolto in un clima positivo, di reciproco rispetto: anche nelle richieste di chiarimento le due “parti” hanno cercato di capirsi e di trovare le soluzioni più indolori per uscire da una situazione di difficoltà. E così, proprio in coda, nel momento di limare il testo finale, si è consumato questo scambio tra il presidente del Consiglio e l’amministratore delegato della Fiat: Marchionne aveva scritto in inglese il testo di un passaggio del comunicato e a quel punto Mario Monti, scherzando, gli ha detto: «Allora lo traduco io?».

Un approccio positivo che è emerso subito, sin dalle prime battute e soprattutto nei primi due interventi, quelli decisivi, quelli che hanno dato un tono al resto dell’incontro. Nell’aprire il tavolo, è stato Monti che, dopo aver segnalato la necessità di approfondire «comunicazioni non chiare» sul futuro della più grande azienda italiana, ha fatto un primo significativo riconoscimento ai vertici della Fiat: «Voi siete una multinazionale, ma vi sentite italiani e anche torinesi» e dunque è grande l’interesse in tutto il Paese per capire quali siano le intenzioni della Fiat. A quel punto Sergio Marchionne non soltanto ha spiegato lungamente tutte le variabili produttive, ma ha illustrato qual è il fondamentale bivio davanti al quale si trova la Fiat, con la scelta di puntare per il momento sul mercato extraeuropeo da alimentare negli impianti italiani e ha riconosciuto a Monti e al suo governo di «aver ridato l’onore all’Italia», di «aver fatto la differenza», di aver ricreato le condizioni perché le imprese possano lavorare con maggiore tranquillità e con prospettive diverse.

E al termine di un incontro nel corso del quale non si è parlato di stabilimenti da chiudere o di cassa integrazione in deroga, la Fiat ha chiesto un intervento del governo per incentivi fiscali alle esportazioni e sgravi degli oneri sociali degli straordinari dei dipendenti che lavorano in questo campo. Il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera ha raccolto la palla, ha proposto l’apertura immediata di un tavolo con la Fiat che affronti il problema dell’export e cha possa supportare questo progetto; il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca ha spiegato tutto ciò che è possibile fare con i fondi europei, il ministro del Lavoro Elsa Fornero ha posto alcune domande ai vertici della Fiat. Ma è stato Monti a chiudere la discussione, dimostrando di aver compreso la filosofia dell’azienda, lo sforzo di restare in Italia pensando soprattutto all’export.

All’incontro si era arrivati con margini di manovra molto stretti per entrambe le parti: da una parte il governo con le casse semivuote e un presidente del Consiglio da sempre, da quando era commissario europeo, molto attento a rispettare e far rispettare la normativa europea sugli aiuti di Stato; dall’altra la Fiat, alle prese con un mercato che in Italia è davvero ai minimi storici. Un contesto che rendeva difficoltoso il consueto scambio che si determina in casi come questo: l’aumento della quota degli investimenti da parte dell’azienda in cambio di un ventaglio di incentivi. Oltretutto l’incontro era stato preceduto da un clima nervoso, dopo l’esternazione del ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera e la replica successiva di Sergio Marchionne.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/469636/


Titolo: FABIO MARTINI. Il tramonto politico dei big ex dc
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2012, 03:42:40 pm
Editoriali

07/10/2012

Il tramonto politico dei big ex dc

Fabio Martini

Oramai sembrava finita, l’ultima votazione si era tranquillamente consumata e invece Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea del Pd, ha voluto aggiungere la sua chiosa finale: «Chi aveva previsto uno psicodramma democratico può andare a dormire tranquillo. Ora ci attende un grande impegno per le Primarie e - consentitemi questa conclusione forse politicamente poco corretta - per la vittoria di Pier Luigi Bersani!».

 

Da una platea, che per cinque ore si era dimostrata ultrabersaniana, si alza un applauso tiepido a quella così esplicita dichiarazione di voto da parte di chi, la presidente del partito, dovrebbe garantire equidistanza da tutti. Ma per la Bindi e per gli ex democristiani del Pd - Franco Marini, Beppe Fioroni, Dario Franceschini, Enrico Letta - è stata una giornata nera, l’ultima di un mese nel corso del quale quasi tutti i big di quella tradizione hanno provato a far saltare il banco delle Primarie con argomenti sempre trasparenti, ma tutti finalizzati ad evitare uno spettro: quello che nella boxe si chiama «fuori i secondi». E cioè un Pd che, chiunque vinca le Primarie, sia incardinato tutto attorno alla coppia Bersani-Renzi.

 

In queste settimane gli ex dc - in particolare Bindi, Marini e Fioroni - si sono battuti come leoni, ma ieri mattina all’Ergife, Pier Luigi Bersani li ha spiazzati: azzerando tutti gli espedienti finalizzati a riaccendere la conflittualità con Renzi e di fatto costringendo gli amici della Bindi a ritirare un emendamento che esplicitamente vietava di votare al secondo turno delle Primarie a chi non lo aveva fatto al primo. Una ritirata che ad un politologo in politica come Arturo Parisi, che ha sempre osservato gli ex Dc con occhio critico, fa dire: «Per quella tradizione siamo alla fine di una stagione e non solo perchè il dopo-Primarie riguarderà comunque altri: il perimetro della coalizione è circoscritto a Pd e Sel; ci si definisce progressisti, esplicitamente ammettendo che i moderati anziché dentro il Pd, sono fuori; la competizione si annuncia polarizzata tra due soggetti non democristiani, perché nessuno definisce Renzi né cattolico né moderato, le sue assemblee sono politicamente trasversali e la sua postura assertiva è lontana da quella dei vecchi notabili Dc».

 

In Assemblea la resistenza degli ex Dc ex Ppi è stata tenace. L’ex presidente del Senato Franco Marini: «Se al primo turno il distacco tra il primo e il secondo sarà di pochi punti», «la destra che si agita molto» potrebbe votare Renzi. Un escamotage un tempo comunista, quello di affibbiare allo sfidante interno la patente del nemico, lo stesso adottato dalla Bindi: «Il cuore della campagna di Renzi è un attacco permamente al partito, lo slogan della rottamazione è un grande contributo alla demagogia della destra berlusconiana». Dice l’ultimo segretario del Ppi, Pierluigi Castagnetti: «Mentre Bersani ha dimostrato di capire che il mondo sta cambiando, molti miei amici non hanno la lucidità di capire che bisogna passare ad una nuova fase: nelle idee e nelle persone».

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/editoriali/il-tramonto-politico-dei-big-ex-dc-sOXIknsFIyM2hZRsDKEkaM/index.html


Titolo: FABIO MARTINI. Le primarie che invecchiano il centro
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 05:15:34 pm
Editoriali

26/10/2012

Le primarie che invecchiano il centro


Fabio Martini

Per non essere travolte da un comune destino, destra e sinistra provano a rimettersi in carreggiata con un escamotage senza precedenti nella storia delle democrazie europee. 

 

Affidare a milioni di elettori la scelta dei nuovi capi. Il primo effetto è stato quello di spiazzare i leader posizionati al centro: Pier Ferdinando Casini e la sua Udc, Gianfranco Fini e il suo Fli. I centristi non sentono il bisogno di un rigeneratore bagno popolare e d’altra parte anche se lo volessero, non saprebbero dove attingere. Perché Udc e Fli vivono in queste ore una curiosa nemesi: efficaci nell’imputare a Berlusconi un eccesso di personalismo, in realtà sono diventati due piccoli partiti personali, impermeabili al tema del ricambio e per loro sarebbe difficile immaginare una platea di concorrenti ad eventuali Primarie del centro. 

 

E d’altra parte i due partiti centristi sembrano indifferenti anche all’altra ricetta che destra e sinistra stanno applicando per mettersi in sintonia con lo spirito del tempo: il ricambio delle classi dirigenti. Nel 2013, anno delle elezioni politiche, Casini e Fini festeggeranno entrambi un importante compleanno politico: i trenta anni di Parlamento. Per la prima volta furono eletti deputati nel 1983, quando alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, al Cremlino Jurij Andropov e la Cina era guidata da Deng Xiaoping. 

 

Certo, Casini e Fini anagraficamente sono ancora giovani, ma politicamente sono diventati maturi già da qualche anno.

 

Negli ultimi anni i due sono stati protagonisti, con tempi e protagonismi diversi, di importanti posizionamenti: lo smarcamento da Berlusconi, l’appoggio a Mario Monti. Ma come dimostrano i sondaggi - stagnanti da anni - non hanno investito efficacemente su quelle intuizioni. L’ex leader di An ha rinunciato all’ambizione di costruire una moderna destra di governo, quella destra liberale e liberista di massa che in Italia non c’è mai stata. E anche Casini, pur perseguendo un progetto importante, il Partito della Nazione, non è stato capace di mettere in campo un’idea di Paese convincente e avvincente. Soprattutto non è riuscito a dar corpo ad una credibile alternativa al berlusconismo, mentre il suo capo era in crisi. E quanto al progetto del Terzo polo, nessuno ci ha creduto più di tanto, trasformandosi troppo presto in quel che non era nelle intenzioni iniziali: un taxi verso la rielezione per i leader e per i loro amici.

 

Dopo diciotto anni di repliche affidate sempre agli stessi primattori, il centrodestra e il centrosinistra hanno deciso di presentarsi alla prossima stagione con due leader diversi, legittimati dal voto preliminare di milioni di elettori. Con il suo ritiro, Silvio Berlusconi è andato a raggiungere dietro le quinte l’altro principale protagonista del ventennio, Romano Prodi, che nel 2008 aveva preferito allontanarsi con le sue gambe. Ma non è soltanto l’eclisse dei numeri uno: nel breve volgere di poche settimane nei due schieramenti si stanno defilando anche i numeri due: nel centrodestra ha mollato Umberto Bossi, mentre sul versante di centrosinistra, hanno annunciato che non torneranno più in Parlamento Massimo D’Alema (il primo iscritto al Pci a guidare l’Italia), ma anche l’ultimo sfidante sconfitto dal Cavaliere, Walter Veltroni. 

 

Gli unici che non si muovono sono i centristi. Si può ritenere irragionevole il giovanilismo imperante, perché è troppo facile dimostrare che l’incapacità o la disonestà non hanno età. Ma in questi ultimi 20 anni, l’Italia non ha avuto una autentica classe dirigente, semmai un coacervo di élites che, pur di durare, hanno preferito rinviare le scelte. Istintivamente l’opinione pubblica si accende più per la longevità dei politici che per il loro indecisionismo. Ma la questione morale è sempre una questione politica: se nell’opinione pubblica la «costituzione etica» cambia, prima o poi è destinata a produrre effetti elettorali.

da - http://lastampa.it/2012/10/26/cultura/opinioni/editoriali/le-primarie-che-invecchiano-il-centro-K26w3dsaU6n0GuDb5f587K/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. E il premier medita la mossa per gennaio: far usare il suo nome
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2012, 09:03:22 pm
retroscena
19/11/2012

E il premier medita la mossa per gennaio: far usare il suo nome

Un’area di Centro molto in movimento spinge per far restare a Palazzo Chigi Mario Monti

Potrebbe lasciare che la coalizione Montezemolo-Casini lo indichi come leader

Fabio Martini
Roma


E’ precipitato tutto (o quasi) nelle ultime 48 ore. Dopo la Convention degli Studios la chimera del Monti protagonista alle elezioni si è improvvisamente fatta più concreta: i segnali di disponibilità del Professore, privati e pubblici, si sono intensificati, tanto è vero che negli ultimi due giorni i maggiori leader politici, tra di loro, non parlano d’altro. 

 

L’ingresso diretto del presidente del Consiglio nel ring politico ha preso la forma di uno scenario ben preciso: una volta approvata la Legge di Stabilità ed (auspicabilmente) la riforma elettorale e dunque ai primi di gennaio a cavallo con lo scioglimento delle Camere, il presidente del Consiglio - preso atto delle «chiamate» - potrebbe dare la sua disponibilità alla Coalizione che lo indicasse per palazzo Chigi. 

 

Con parole di questo tipo: se vincete voi, continuerò a guidare il governo. E dunque, una coalizione incardinata su due liste (una Montezemolo-Riccardi-Bonanni e una del Terzo polo capitanata da Casini) e destinata a denominarsi «Monti per l’Italia», potrebbe determinare nel giro di pochi giorni clamorosi riposizionamenti e una corsa centripeta, attirando verso il nuovo soggetto spezzoni dei due partiti più forti. Ennesima scenario fantapolitico, oppure ai primi di gennaio la politica si prepara ad un fragoroso big bang?

Una cosa è certa: in queste ore l’ipotesi che col nuovo anno Monti passi il Rubicone è uno dei «refrain» più gettonati. Soprattutto dopo la Convention «Verso la Terza Repubblica», evento troppo impegnativo - si calcola nel Palazzo - per non preludere a qualcosa di grosso. A chi gli ipotizza un Monti in campo a fianco dei centristi, Pier Luigi Bersani confida di «non crederci». 

 

Angelino Alfano sa che il giorno in cui Monti ri-scendesse in campo, per lui potrebbe diventare dirimente la scelta della vita: col professore o con Berlusconi?

E così, dopo che, per mesi e mesi, il circo politico-mediatico si era arrovellato su cosa potesse fare «da grande» il professor Monti, il primo a suggerire una possibile svolta è stato proprio lui. Per mesi e mesi il presidente del Consiglio aveva ripetuto che il suo incarico - guai a dubitarne - era a tempo. Poi, due mesi fa a New York e dopo averne parlato a tu per tu il giorno prima con Obama, per la prima volta Monti ha «ceduto» («Se dovesse servire, sono pronto»). Due giorni fa, in un intervento alla «Bocconi» di cui probabilmente è stata sottovalutata l’importanza, alla solita domanda il professore ha risposto con ambivalenza: «Nessuno mi domanda impegni oggi, e oggi non ne do». 

 

Un’esternazione tutta centrata sull’avverbio «oggi», con una forte assonanza, guarda caso, con una affermazione che nelle stesse ore faceva Luca Cordero di Montezemolo: «Non chiediamo al presidente del Consiglio di prendere oggi la leadership di questo movimento politico. Ciò pregiudicherebbe il suo lavoro, e davvero non ce lo possiamo permettere». Ieri, da Kuwait City, proprio dopo aver speso opere e parole per favorire gli investimenti in Italia, Monti ha pronunciato quelle parole («Non posso garantire per il futuro») che non soltanto i malevoli hanno interpretato come una autopromozione.

 

Ma se davvero Monti desse la sua disponibilità nei giorni che precedono lo scioglimento delle Camere, a quel punto si determinerebbe un big bang nella politica italiana? Pd e Pdl si sfalderebbero? Sostiene Osvaldo Napoli, vicepresidente dei deputati del Pdl, da sempre un buon fiuto politico: «Certo, il rischio che personalità dei due partiti più importanti possano avvertire la sirena di un Monti in campo ci sarebbe e proprio per questo noi dobbiamo rompere gli indugi: da qui a marzo c’è tempo per mettere in piedi uno schieramento di moderati alternativo alla sinistra, guidato da Monti nel ruolo di federatore». E dall’altra parte anche un altro personaggio attento ai movimenti in corso come l’ex ministro del Pd Beppe Fioroni, consiglia di non perdere il treno Monti: «Il Pd riorganizzi l’area riformista, in accordo con Vendola, annunci che dopo le elezioni è pronto ad allearsi con la Coalizione centrista che fosse guidata da Monti, ma con l’intesa che a Palazzo Chigi andrà il leader dell’area che ha preso un voto più degli altri». La giostra attorno al Professore è appena cominciata. 

da - http://lastampa.it/2012/11/19/italia/politica/e-il-premier-medita-la-mossa-per-gennaio-far-usare-il-suo-nome-kklGbrALNc1PATW06p83ZL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Clinton, Blair come si vince l’antipolitica
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 09:39:45 pm
Editoriali
23/11/2012

Clinton, Blair come si vince l’antipolitica

Fabio Martini


Nell’arco stretto di ventuno giorni, tanti italiani - di sinistra e di destra - si metteranno in fila davanti ai gazebo, eppure il rito democraticissimo delle Primarie difficilmente ridarà ai cittadini piena fiducia nei professionisti della politica. La distanza - come raccontano tutti i sondaggi e tutti i crocchi tra persone normali - si è allungata come prima mai nella storia della Repubblica. Con una complicazione in più. 

 

Governare le democrazie diventa sempre più difficile. Vincere le elezioni non basta più. In un mondo diventato così veloce, il consenso è una scommessa quotidiana, da conquistare sotto la pressione di sondaggi, mass-media vecchi e nuovi, piazze mediatiche, piazze vere, Piazze Affari. In Italia, in Grecia si continuano a celebrare elezioni, ma i governi che non sono riusciti a domare lo spread - o il buco nero del debito - sono stati costretti a mollare prima del tempo.

 

Ma è pur vero che i grandi politici sono quelli che non si curano del consenso immediato. Mario Monti ci ha provato, mentre i leader dei partiti, ricevuto il compito di riformare la legge elettorale, da un anno si tormentano con la calcolatrice in mano. Misurando vantaggi e svantaggi delle varie soluzioni. E nel difficilissimo rapporto tra politica e società civile, nel suo piccolo, diventa esemplare anche la vicenda del «piro», il pirogassificatore della Val d’Aosta. In Consiglio regionale i principali partiti, a suo tempo, avevano votato tutti a favore, dall’Union Valdotaine al Pdl, fino al Pd. Poi, sotto l’incalzare dei movimenti, il partito democratico ha ribaltato la sua posizione ed ha appoggiato un referendum anti-piro che alla fine si è rivelato vincente. Una vicenda che racconta di un nuovo collateralismo. Di un rapporto non paritario tra partiti e movimenti, con i primi che inseguono i secondi, rapporto lontano dalla fisiologica sussidarietà tra chi impone con freschezza ed energia l’urgenza di un problema e chi, la politica, si fa carico della questione, ma tenendo conto anche della complessità. 

 

Una risposta forte proprio a questi temi, una risposta spiazzante è venuta nei giorni scorsi da un grande leader politico americano, l’ex presidente Bill Clinton. In un convegno a porte chiuse, promosso a Londra dalla sua fondazione, Global Progress e da Policy Network di Tony Blair e di cui nulla è trapelato sui mass-media, l’ex presidente ha tenuto una autentica lezione ad alcuni dei trenta-quarantenni più promettenti della sinistra europea. Una lezione culminata in un aneddoto che si potrebbe ribattezzare l’«apologo del piccione». Per tornare ad avere credibilità - ecco il messaggio di un ex presidente di successo come Clinton - le forze politiche non possono avere soltanto un approccio verticale, tipico delle strutture di partito di sinistra, ma sviluppare un rapporto orizzontale con i movimenti che non sono politici ma fanno politica e sono attivi nella società su «issues» specifici (la tutela del quartiere, la vita dei giovani nelle città) e più generali (ambiente, donne, minoranze). Clinton lo ha spiegato in modo efficace: «Non si tratta di fare alleanze di vecchio stampo tra partiti e società civile, cioè tra apparati di partito e apparati di Ong o di associazioni, ma di fare una nuova politica, per rendere la società più civile».

 

E per spiegarsi meglio, Clinton ha raccontato la storia del tunnel di Briton, nella periferia di Londra, un vecchio sottopassaggio abbandonato, nel quale il proliferare dei piccioni e dei loro escrementi ha fatto ammalare i ragazzini che erano costretti a passarci. Davanti alla indifferenza del Consiglio comunale, del problema si è fatto carico un movimento spontaneo di cittadini, spalleggiato da una associazione e alla fine anche dal partito laburista che è riuscito a risolvere la questione. Con l’effetto che tanti di quei cittadini si sono poi iscritti al Labour. Clinton ha tenuto la sua «lezione» davanti ad alcuni dei quarantenni più aggiornati della sinistra europea (c’erano tra gli altri Najat Valland Belkacem, portavoce del presidente francese Hollande; Chuka Umunna, ministro ombra inglese del «Business»; per il Pd Sandro Gozi) e le riflessioni dell’ex presidente effettivamente finivano per «parlare» a tutti i partiti progressisti. Dunque, anche al Pd, che in questi anni ha oscillato: accodandosi ai movimenti (dall’acqua all’anti-piro), oppure stringendo un rapporto verticistico con le associazioni. Gli «opposti estremismi» che Bill Clinton ha caldamente sconsigliato.

da - http://lastampa.it/2012/11/23/cultura/opinioni/editoriali/clinton-blair-come-si-vince-l-antipolitica-54PJHjBW7emPSGgKsXmKYL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Dietro il silenzio diplomatico l’irritazione del Professore
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 09:41:07 pm
Politica
23/11/2012 - retroscena

Dietro il silenzio diplomatico l’irritazione del Professore

L’uscita del Colle avvenuta senza preavvisi istituzionali

Fabio Martini
INVIATO A BRUXELLES


Quella esternazione così affilata del Capo dello Stato, Mario Monti non se l’ aspettava proprio. Tanto è vero che due giorni fa, riferendosi alla “nomination” ricevuta sabato scorso dalla Convention Montezemolo-Riccardi, il premier si era chiesto, assieme ai suoi collaboratori più stretti: «Chissà come l’ha presa il Presidente...». Giorgio Napolitano non l’ha presa bene. E Mario Monti ha potuto apprenderlo in “diretta”, alle 13,30, dentro l’aula di Montecitorio, mentre si discuteva di legge di stabilità. L’esternazione del Capo dello Stato si era conclusa pochi minuti prima e via telefonino, Monti è stato informato.

 

In quel momento, nell’aula di Montecitorio, nessuno sapeva chi fosse all’altro capo del telefono e dunque nessuno ha cercato di “leggere” dentro lo sguardo del Professore. Ma chi ci ha parlato subito dopo, ha tratto l’impressione che stavolta in Mario Monti ci fosse una punta di irritazione. Anche una certa sorpresa verso una personalità come Napolitano, che Monti ha sempre rispettato, verso il quale continua ad avere riconoscenza, ma che era difficile immaginare protagonista di una esternazione così “interna” al gioco politico, così ricca di giudizi di merito su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. 

 

Quella punta di irritazione è affiorata nel modo più diplomatico possibile: col silenzio. Certo, per la seconda metà della giornata, Monti si è trasferito a Bruxelles per il vertice europeo sul bilancio comunitario e si è rinchiuso in una serie di incontri bilaterali e in serata, in una cena con gli altri leader. 

 

Ma nulla impediva a Monti di dettare un a nota di commento su una questione che lo riguardava così direttamente. Al professore non mancano le doti semantiche per esprimere concetti e sfumature. Avrebbe potuto diffondere una nota formale o informale per sottolineare la condivisione della esternazione di Napolitano. E invece Monti ha voluto marcare la sua distanza e la sua sorpresa proprio col silenzio. 

 

E dire che quando è arrivato a Bruxelles, Monti è apparso assai più loquace del solito. E’ sceso dall’autoblu della Presidenza con le consuete movenze, come sempre ha affettato un leggerissimo sorriso verso le telecamere, ma stavolta - a differenza di tante altre - Monti si è fermato sul tappetino rosso che segna l’ingresso al palazzone Justus Lipsius e ha scandito: «Non accetteremo soluzioni inaccettabili», perché le attuali proposte sul bilancio dell’Unione «sono sproporzionatamente penalizzanti per l’Italia». Un Monti che ci tiene ad apparire “tosto”, quello che si è avviato alla prima giornata del vertice europeo. 

 

D’altra parte non è sfuggito al Presidente del Consiglio quanto di personale ci fosse nella esternazione del Capo dello Stato. Per non parlare del consiglio di accomodarsi a Palazzo Giustiniani ad aspettare gli eventi. Quel palazzo dove lo stesso Napolitano, da senatore a vita, aveva “abitato” fino al giorno in cui lo avevano chiamato al Quirinale. Eppure Monti - ecco la novità - ci ha preso “gusto” a far politica, tra il Quirinale e palazzo Chigi preferisce la seconda ipotesi e per questo nelle settimane scorse aveva lasciato che si facesse il suo nome, non solo per un bis ma anche per una qualche forma di partecipazione alle elezioni. Anche se lui stesso sa bene che, dal punto di vista della convenienza personale, nulla sarebbe meglio che aspettare gli eventi. Chiosava ieri pomeriggio un ministro vicino a Monti: «Se non si richiude subito, la tensione col Quirinale è destinata a crescere nei prossimi mesi». 

da - http://lastampa.it/2012/11/23/italia/politica/dietro-il-silenzio-diplomatico-l-irritazione-del-professore-n940o7Bjwl6BXoh7kwl4fM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Tra Quirinale e Palazzo Chigi spunta anche l’ombra di Prodi
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2012, 05:44:05 pm
retroscena
24/11/2012

Tra Quirinale e Palazzo Chigi spunta anche l’ombra di Prodi

A Bruxelles il presidente del Consiglio non replica alle parole di Napolitano

Fabio Martini
INVIATO A BRUXELLES


Giù, nei sotterranei del «Justus Lipsius», il massiccio palazzone in vetro-granito dei vertici europei, Mario Monti inizia la conferenza stampa finale e poco dopo si ferma: «Mi sono dimenticato di presentare i ministri al mio fianco...». Veniale omissione, inusuale in Monti, ma si capisce subito che da non è da collegare a stress «domestici», perché il Presidente del Consiglio continua, dispiegando con la consueta ricchezza di eloquio concetti e dati sul bilancio europeo. Poi arrivano le domande dei giornalisti, Monti sa che, prima o poi capiterà quella sulla esternazione di Napolitano e, richiesto di una opinione, il Professore risponde così: «Non ho commenti». 

 

Non una parola di più. È la conferma di una irritazione che Monti ha deciso di esprimere, l’altroieri a caldo col silenzio e ieri con un gelido no comment. Anche perché, tra le tante risposte possibili, la più pronosticata ieri prevedeva, da parte di Monti, la reiterazione di una «indisponibilità» già dichiarata infinite volte. E invece no, il premier non ha voluto esprimere neppure una replica del suo tradizionale «non possumus». E d’altra parte la vera novità nella esternazione di Napolitano consisteva nel dare per scontata una disponibilità di Monti a scendere in campo, disponibilità che il premier in realtà non ha mai affermato. Processo alle intenzioni? Equivoco? Oppure tensione destinata a sgonfiarsi? Per il momento la freddezza lungo l’asse Quirinale-palazzo Chigi è confermata dal fatto che, almeno fino a ieri sera, i due Presidenti non si erano ancora riparlati. 

 

Certo, negli ultimi 15 giorni, i rapporti tra i due si erano incrinati, sia per effetto di esternazioni pubbliche di Napolitano («Dubai è lontana....»), sia per effetto dell’ attività informale di Monti. Il Professore, per la prima volta, ha lasciato che si spendesse il suo nome per una eventuale, futura corsa a Palazzo Chigi e ha fatto trapelare il suo incoraggiamento per la Convention «Verso la Terza Repubblica». Segnali, messaggi in codice, ma nessuna promessa, neppure alla coalizione Montezemolo-Casini-Riccardi. All’equidistanza, Monti ci tiene, come ha confermato anche ieri: per due volte ha voluto ricordare che le condizioni sfavorevoli all’Italia del bilancio europeo che è in scadenza, erano state trattate «nel 2005». Dunque, da Silvio Berlusconi. E se la trattativa sul nuovo bilancio si fosse chiusa ieri? «Il risultato per l’Italia sarebbe considerevolmente migliore del 2005». 

 

Equidistante ma quella sua informalissima disponibilità ad «esserci» racconta la vera novità intervenuta in Monti: il professore ha preso «gusto» alla politica. Da mesi in tanti ripetono che lui, stando fermo, dopo le elezioni si ritroverebbe comunque ricoperto di chances: se gli andasse «male», il Professore potrebbe ascendere al Quirinale, mentre se gli andasse «bene», potrebbero riaprirsi le porte di palazzo Chigi. Eppure, le colonne d’Ercole di quel possibile, doppio scenario si sono incrinate. Non è più certo che cambierà la legge elettorale, perché la resistenza passiva del Pd di Bersani potrebbe consentire la tenuta del Porcellum, una legge che consegna alla coalizione che vince le chiavi di Palazzo Chigi, ma anche i numeri per eleggere il nuovo Capo dello Stato. 

 

E qui si incrocia la seconda novità: Romano Prodi, dopo aver ricevuto Matteo Renzi alcuni mesi fa nel suo ufficio di Bologna e dopo avergli dato qualche consiglio telefonico, ha spento i riflettori sulle sue intenzioni di voto. Di più: non ha avuto nulla da obiettare sul fatto che una delle persone a lui più vicine, la portavoce Sandra Zampa, assumesse il coordinamento dei Comitati Bersani di Bologna. Un messaggio che allude al voto per Bersani? Prodi in queste Primarie ha assunto il ruolo del padre nobile: ha annunciato che si metterà in fila come un qualunque cittadino, ma senza spendersi per nessuno. Al Pd hanno apprezzato questo atteggiamento e negli ultimi giorni, nei pourparler, il nome di Romano Prodi è tornato a circolare come quello del candidato più credibile al Colle per uno schieramento progressista che dovesse vincere le elezioni.

da - http://lastampa.it/2012/11/24/italia/politica/tra-quirinale-e-palazzo-chigi-spunta-anche-l-ombra-di-prodi-EkHYdaZoi9HsVDpd7B3LGK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Bersani-Renzi, partita al ralenti tra pressing e rilanci
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2012, 06:41:57 pm
Politica

29/11/2012 - Centrosinistra, il confronto

Bersani-Renzi, partita al ralenti tra pressing e rilanci

Cravatta rossa a pois su camicia bianca e completo scuro, l’abbigliamento del segretario sembra studiato per piacere al sarto di Palazzo Chigi

Fabio Martini

ROMA

La prima inquadratura coglie Bersani con gli occhi bassi, Renzi col sorriso strafottente: due immagini che si riveleranno simboliche, anticipatrici di un match con schemi di gioco contrapposti: il segretario con un sornione catenaccio-contropiede, lo sfidante con un pressing continuo, senza però essere asfissiante, di chi ha idee diverse ma fa parte della stessa famiglia. 

 

Bersani si presenta col completo blu, le scarpe a punta e la cravatta rossa a pois (allusiva ma non troppo alla tradizione), Renzi senza giacca e con la camicia bianca (con maniche arrotolate, che provano ad alludere a Kennedy) e una di quelle sue cravatte blu-viola che i suoi collaboratori detestano. 

 

Si parte alle 21,12: una patina di emozione avvolge Bersani ma anche un personaggio disinvolto come Renzi, che infatti si fa “infilare” subito dal segretario. 

Dice il sindaco di Firenze, che «sono state abbassate le tasse sul gioco d’azzardo e anche da lì si possono recuperare 20 miliardi per il ceto medio». Replica Bersani, in contropiede: «Io non prometto 20 miliardi l’anno prossimo...» e scatta l’applauso ad una battuta più che efficace, allusiva perché rimanda al sospetto di demagogia e di inconsistenza che circonda Renzi dopo quella promessa di «soli 10 ministri» per la quale fu “accerchiato” dagli altri 4 durante il primo confronto televisivo su Sky. Si parla di evasione fiscale, Renzi dice che «qualche responsabilità ce l’abbiamo anche noi» e più avanti introduce il tema di Equitalia sia pure «con rispetto per Bersani». Ma il segretario, sempre in contropiede bissa la puntura: «All’amico Matteo dico che Equitalia non l’abbiamo inventata noi...».

Renzi capisce l’antifona, capisce che se va avanti così, le ripartenze di Bersani rischiano di aggravare il passivo iniziale. E passa alla tattica che aveva deciso a tavolino, centrata su un messaggio per mesi subliminale da ieri esplicito: Bersani è una brava persona, ma troppi errori hanno fatto lui e tutto il gruppo dirigente del Pd. E infatti, al decimo minuto di match, Renzi passa per la prima volta all’attacco: «Bersani è stato 2547 giorni al governo». E’ la battuta che racchiude tutte le altre : se oggi l’Italia è in ginocchio, un po’ di colpa è anche della sinistra e della sua classe dirigente, Bersani compreso. Insomma, dopo aver predicato una generica rottamazione, Renzi ne spiega le ragioni politiche. Prende quota si dà una postura da leader: «Io voglio mettere a posto il debito». Chiaro il messaggio, o almeno il tentativo: trasmettere al pubblico la sensazione che il trentasettenne sindaco non ha più complessi di inferiorità. Ma non basta azzeccare una battuta per vincere una partita come questa. La storia dei grandi match televisivi, dal Nixon-Kennedy in poi, dimostra che esistono infiniti escamotages per conquistare la vittoria o per perdere rovinosamente in un attimo un patrimonio accumulato in mesi. 

Tutto può aiutare e tutto può esser fatale: il colpo sotto la cintura ma anche quello sopra, un tic troppo insistito, il messaggio subliminale che sul momento nessuno coglie e invece “torna su” l’indomani, il tempismo nell’affondo, il look. Bersani dopo gli attacchi accusa il colpo e riprende il filo di discorsi sentiti: «Servono gli Stati Uniti d’Europa, l’alternativa è il disastro». 

L’altro vive il suo momento migliore e “infila” il segretario, parla delle «ragazze di Teheran» e delle primavere arabe tradite, si capisce che cerca di arrivare agli elettori di Vendola: «Bisogna uscire dalla logica delle raccomandazioni». Domenica scorsa, nel Mezzogiorno ha vinto Bersani, ma Vendola è andato molto bene non solo nella sua Puglia e quel voto di protesta, è recuperabile solo parlando un linguaggio anti-consociativo.

Ma anche Pierluigi Bersani mangia la foglia. Capita la tattica dell’avversario, anche il segretario aggiusta il tiro e ci prova con un refrain: noi siamo di sinistra e ci abbiamo provato: «Nessuno è perfetto», «l’ultima volta che abbiamo voluto fare tutto da soli, ha vinto Silvio Berlusconi». Come dire, Renzi non fare il “fenomeno”. 

Ma l’elettorato di estrema sinistra è troppo importante, Renzi azzecca la battuta su Casini («Sento profumo di inciuci»). Bersani tenta il recupero, replicando sugli F35, ma l’altro lo pizzica: «Non fare demagogia». Alla fine la quintessenza dei messaggi. Renzi: «Oggi il vero rischio è non cambiare», Bersani: «La ruota deve girare senza prendere a calci l’esperienza».

da - http://lastampa.it/2012/11/29/italia/politica/la-partita-al-ralenti-tra-pressing-e-rilanci-6Jg8st2ujwub283EORSs5L/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Lista Monti, si o no? I dieci giorni che decideranno la politica
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:57:21 pm
Politica
11/12/2012

Lista Monti, si o no? I dieci giorni che decideranno la politica italiana

Il 21 dicembre il premier annuncerà cosa intende fare: cambia lo scenario per Bersani e per le dinamiche interne del Pdl

Fabio Martini
Roma

Il 21 dicembre il professor Mario Monti annuncerà cosa intenda fare “da grande” e in vista di quella decisione-spartiacque, la politica vivrà dieci giorni convulsi, se possibile ancor più ansiosi e ansiogeni di quelli che i partiti sono riusciti a produrre negli ultimi 20 anni. Quasi certamente venerdì 21 sarà definitivamente approvata dal Parlamento la legge di stabilità e a quel punto, come già annunciato, Monti rassegnerà le dimissioni. Da quel momento il Professore sarà anche formalmente svincolato dalle “regole di ingaggio” che portarono alla nascita del suo governo e sarà libero di decidere se affrontare il giudizio degli elettori, presentando una Lista col suo nome.

Certo, Monti potrebbe spiazzare chi dà per scontato un suo impegno diretto e restarsene a palazzo Chigi per i prossimi tre mesi e da lì sbrigare l’ordinaria amministrazione. Ma in caso contrario, ai principali leader politici non sfugge il possibile effetto “big bang” di una partecipazione di Monti alla campagna elettorale. Lui, in queste ore, è una sfinge, non lascia trapelare quale siano le sue intenzioni, ma i due leader che si erano prenotati la scena elettorale - Bersani e Berlusconi - stanno col fiato sospeso. Entrambi fanno finta di niente, ripetono di essere indifferenti alla presenza o meno di Monti. Ma non dicono la verità. 

Prima che Monti si dimettesse prematuramente, Pier Luigi Bersani (forte dei sondaggi e di una legge elettorale che ha contribuito a non cambiare), si sentiva già a palazzo Chigi. Ma con Monti in campo, il leader del Pd avrà un avversario in più, un avversario di prestigio che a palazzo Chigi già ci sta. E d’altra parte Berlusconi sa bene che Monti potrebbe avere sul Pdl quell’effetto deflagrazione che i suoi dirigenti non hanno avuto il coraggio di determinare. Ecco perché i prossimi dieci giorni determineranno, dentro e fuori il Palazzo, una suspence con pochi precedenti negli ultimi 20 anni.

da - http://www.lastampa.it/2012/12/11/italia/politica/lista-monti-si-o-no-i-dieci-giorni-che-decideranno-la-politica-italiana-q5xkJV6X9LTLCBzacnK8nO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. È suonata l’ora delle scelte elettorali
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2012, 06:39:07 pm
Italia
13/12/2012

È suonata l’ora delle scelte elettorali

Monti fa i conti con le alchimie romane

I segnali ci sono tutti: il premier sta lavorando per costruire intorno a sé un’area Ppe.

Berlusconi ha capito il disegno e ha giocato d’anticipo

Fabio Martini
Roma

Mario Monti approda questo pomeriggio all’ennesimo vertice europeo preceduto da un evento senza precedenti per il capo di governo di un singolo Paese: da tre giorni un coro di applausi si è alzato da tutte le capitali europee al suo indirizzo, applausi accompagnati, idealmente ma non troppo, da altrettanti fischi all’indirizzo di Silvio Berlusconi. Nell’ Europa che via via assorbe le sovranità nazionali, difficile definire queste manifestazioni emotive. Ingerenza? Preoccupazione per il destino comune? Una cosa è certa: per continuare ad essere un protagonista europeo, il professor Monti ha capito che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi dovrà misurarsi con le alchimie della politica italiana. Eccolo, il contrappasso che da oggi segnerà le prossime mosse di Mario Monti, ecco la “doppia vita” che attende il Professore: restare punto di riferimento per l’Europa, ma al tempo stesso “sporcarsi le mani” con la politica domestica.

E non basteranno più le dichiarazioni, i discorsi dosati, il lessico chirurgico, le parole che sono tornate ad avere un senso, i provvedimenti incisivi. E’ arrivata l’ora delle scelte elettorali. E infatti, senza darne notizia ufficiale, in questi giorni Monti ha intrecciato dialoghi anche con personalità politiche (il sindaco Alemanno, l’ex ministro Fioroni) non di prima linea ma con solidità territoriale e organizzativa. Ieri Berlusconi, intuendo il disegno in corso (costruire attorno a Monti un’area-Ppe), ha provato a sparigliare, offrendo lui al Professore la leadership del centrodestra. Ha giocato d’anticipo, sapendo che quella stessa offerta erano pronti a farla quasi tutti i notabili del Pdl.
Il sentiero è stretto, le alchimie della politica romana possono logorare anche i professionisti, ma in questi mesi il professor Monti ha dimostrato (anche a chi lo detesta) di avere doti politiche fuori dell’ordinario. Per restare protagonista dovrà dispiegarle tutte nei prossimi, decisivi giorni. 

da - http://lastampa.it/2012/12/13/italia/politica/e-suonata-l-ora-delle-scelte-elettorali-monti-fa-i-conti-con-le-alchimie-romane-MJFCPJ6nInDhQ2KLhc8OeJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Memorandum del premier per “vincolare” i partiti
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2012, 12:05:21 am
Politica
16/12/2012 - verso il 2013- le mosse dei partiti

Memorandum del premier per “vincolare” i partiti


In preparazione un appello sul futuro dell’Italia

Fabio Martini
ROMA

A cinque giorni dalle sue dimissioni formali, Mario Monti non ha ancora deciso cosa fare «da grande», a dispetto di quel che gli attribuiscono quasi tutti i mass media. Chi ha parlato con lui, racconta di un uomo che - pur granitico e algido - è attraversato dal dubbio e infatti nelle ultime ore il Professore sta continuando a soppesare opzioni diverse tra loro: neutralità, restando a palazzo Chigi; endorsement per la coalizione centrista Montezemolo-Casini-Riccardi, ma senza un suo impegno diretto; partecipazione in prima persona alla campagna elettorale come «federatore» dei moderati. In tutti e tre i casi, il presidente del Consiglio sembra però intenzionato a produrre un sapiente escamotage: lasciare agli atti - nella conferenza stampa di fine anno prevista il 21 - una sorta di «Memorandum Monti», un appello ai partiti della sua maggioranza e agli italiani con un elenco del tanto che resta da fare per rimettere in carreggiata l’Italia e farla tornare a correre. Un programma di legislatura sotto forma di appello, nel quale Monti non dovrebbe limitarsi a parlare di spread, di pareggio di bilancio, delle cose fatte e di quelle che avrebbe voluto fare (le Province e non solo), ma potrebbe affrontare questioni politicamente dirimenti, attendendo nei giorni prima di Natale le risposte dei partiti. Soppesando nei giorni successivi le risposte al suo «Memorandum», Monti potrebbe decidere se sciogliere o meno la riserva

Tra i tanti dubbi che in queste ore attraversano Monti, uno è più forte di altri: se valga la pena lanciarsi in una campagna elettorale contro il Pd, il partito che lo ha sostenuto fino all’ultimo giorno di legislatura. Dopo la sterzata euroscettica e populista di Berlusconi e la possibile diaspora del Pdl, il duello elettorale che si profila è proprio il Monti-Bersani. Al presidente del Consiglio non è sfuggita la «qualità» del duro attacco di Massimo D’Alema («la discesa in campo di Monti sarebbe moralmente discutibile») e non tanto per gli argomenti politici usati, visto che analoga indignazione non fu espressa nel 1996 dal Pds quando Lamberto Dini (già ministro di Berlusconi e da lui indicato come suo successore) organizzò una sua lista e fu decisivo per la sconfitta del Cavaliere. Ma avverbio e aggettivo scelti da D’Alema non sono passati inosservati, rimandando ad una dichiarazione fatta alcuni giorni fa da Enrico Letta, tra i dirigenti Pd uno tra i più favorevoli a Monti: «Vogliamo che resti al riparo da un agone politico che sarà senza esclusione di colpi». Certo, per ora nulla lascia immaginare uno scivolamento di piani, ma è pur vero che proprio nelle ultime ore a Montecitorio è circolata una voce, che quasi certamente appartiene alla sfera della fantapolitica, secondo la quale «mani invisibili» avrebbero cercato di ricostruire la consistenza patrimoniale del premier in relazione ai ruoli da lui via via ricoperti. Voce paradossale per un personaggio come Monti che ha imposto, per primo a sé stesso, la piena trasparenza patrimoniale per i componenti del governo; ma al di là della verosimiglianza, la diceria fa capire che l’avvicinarsi dello scioglimento delle Camere è destinato ad intensificare colpi bassi e invenzioni. Ma non è questo il motivo della indecisione di Monti. La soluzione più impegnativa, entrare in campo per provare a vincere, presenta problemi organizzativi, ma anche di immagine: l’assalto alla «diligenza Monti». Oltre al «tagliafuori» nei confronti di Berlusconi e degli ex An, il premier sa che dovrebbe scansare molti «abbracci» a lui sgraditi. In Parlamento già è iniziata la fila, ma mentre in alcuni casi - come i repubblicani di Francesco Nucara - si tratta di antichi partiti che trasmettono ancora un po’ di blasone, altri casi potrebbero creare imbarazzo. Ieri, intervistato dal «Fatto», Clemente Mastella ha detto: «Monti è un candidato ideale, la nuova rivoluzione dopo il 1994».

da - http://lastampa.it/2012/12/16/italia/politica/memorandum-del-premier-per-vincolare-i-partiti-oh13XaBe0pzvvQPXnIUPRJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Pdl-Lega, massa critica contro Monti
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2013, 07:34:57 pm
politica
07/01/2013

Pdl-Lega, massa critica contro Monti

Berlusconi: “Potrei fare il ministro”

“Trovato accordo con la Lega Nord”

Berlusconi convince Maroni a far ritornare in vita il vecchio centrodestra. Indeboliti ma appetibili?


Fabio Martini
Roma

E ora Berlusconi torna in partita. Per lui e per il Pdl l’accordo con la Lega era importante soprattutto per un motivo: tornare a rendere “utile” il voto al centrodestra. Se il Pdl avesse fatto una corsa solitaria, il segnale subliminale ed esplicito per gli elettori sarebbe stato chiaro: non abbiamo alcuna possibilità di vincere, per noi il voto è di pura testimonianza. Un’autostrada verso Monti per gli elettori incerti. 

 

E invece, convincendo Roberto Maroni a far massa critica assieme, Berlusconi può sperare che il vecchio polo di centrodestra, per quanto ammaccato e indebolito, possa tornare ad essere se non competitivo, quantomeno appetibile. E potenzialmente vincente nelle due regioni dove si gioca la partita del Senato: Lombardia e Veneto. Se il centrodestra prende un voto in più in queste due regioni, impedisce al Pd di conquistare la maggioranza assoluta nella “Camera alta”. La partita elettorale si è riaperta e in queste ore sembra potersi giocare (sia pure con pesi che restano diversi) tra le due ali tradizionali, mentre il Polo centrale guidato da Mario Monti sta perdendo progressivamente appeal. Scontando l’improvvisazione e la fretta con le quali è nato. Un affanno che per il momento sembra confinare l’area Monti ad un ruolo comprimario, in una poco gratificante corsa per non arrivare al quarto posto tra le liste in competizione.


DA - http://lastampa.it/2013/01/07/italia/politica/pdl-lega-massa-critica-contro-monti-GpygfHDV7R8bqsXK4nAHSL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Colloquio segreto con Monti per una sfida senza colpi bassi
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2013, 05:03:59 pm
Politica
17/01/2013

Colloquio segreto con Monti per una sfida senza colpi bassi

Il premier Monti sta completando la sua azione al governo. Intanto, fuori da Palazzo Chigi, ieri ha visto il leader del Pd Bersani

Clima disteso tra i due leader, accordo su un patto informale

Vogliono una campagna elettorale franca ma niente polemiche

Fabio Martini
Roma

Per ora i due si erano punzecchiati, punture di spillo in qualche caso dolorose, ma senza mai produrre ferite, lesioni politiche serie. I primi dieci giorni di sfida elettorale tra Mario Monti e Pier Luigi Bersani sono trascorsi così, in un clima sospeso, a studiarsi, a misurarsi la palla fino a quando l’escalation di Silvio Berlusconi, comune nemico, ha indotto i due ad assumere un’iniziativa irrituale in campagna elettorale: prendere un appuntamento per parlarsi. 

 

E’ accaduto ieri, ovviamente con la massima riservatezza. Inutile cercare conferme negli entourage. Ma dal pochissimo che trapela, l’incontro si sarebbe svolto in un clima positivo, senza recriminazioni. Insomma, sarebbero stati posti i presupposti di una campagna elettorale che non potrà non essere franca, ma durante la quale si tenterà di evitare eccessi e contrasti pretestuosi. 

 

E per il dopo-elezioni i due hanno trovato un’intesa? Il “ritorno” di Berlusconi, nelle analisi che si fanno sia al Pd che a palazzo Chigi, rende meno irrealistica l’ipotesi di un pareggio al Senato e dunque questo scenario potrebbe spingere verso un accordo tra la coalizione Pd-Sel-Psi-Tabacci e quella guidata da Monti. Anche di questo si sarebbe parlato durante l’incontro e, pare, che tra il premier e il leader del Pd si sarebbe trovata un’intesa di massima a collaborare. Su quali basi? Non è dato sapere se sia parlato anche di possibili equilibri, di presidenza del Senato o di dicasteri. 

 

Certo, al di là dei dettagli e delle sfumature, resta la sostanza: in piena campagna elettorale si sono parlati due sfidanti del calibro di Monti e di Bersani. Naturalmente il colloquio non va inteso come la premessa di un combine. Come dimostrano le esternazioni dei due durante la giornata di ieri. Mario Monti ha tenuto il punto sulle distanze che lo separano dal Pd: «La sinistra - ha spiegato a Sky - ha fatto grandi passi avanti verso l’accettazione dell’economia di mercato, ma quando fa riforme verso l’apertura della concorrenza va un po’ contro la sua cultura storica». E comunque il Pd è associato «a forze di estrema sinistra che sono a mio avviso conservatrici». Ma verso Vendola, Monti si scopre un tono soft. 

 

Mai al governo con Nichi? «Mi semplifica il compito, lo ha dichiarato lui...». Più netto Monti appare nei confronti di Berlusconi: I conflitti d’interesse del Cavaliere? «Erano chiari fin dall’inizio», se «andrò al governo interverrò innanzitutto con una grande trasparenza». Ieri intanto sono iniziati i primi incontri per mettere a fuoco il programma elettorale, con punti qualificanti da tradurre in “pillole”. Interessante l’approfondimento (con Pietro Ichino, Giuliano Cazzola, Linda Lanzillotta, Irene Tinagli, Marco Simoni) sui temi del Welfare e del lavoro giovanile. È stata accolta la sostanza delle proposte di Ichino sulle assunzioni sia pure in via sperimentale o limitata (più tempo indeterminato ma con maggiore flessibilità in uscita), mentre sono state respinte le sue suggestioni che prevedevano una profonda revisioni delle riforme Fornero su pensioni e lavoro.

da - http://lastampa.it/2013/01/17/italia/politica/incontro-segreto-con-monti-prove-di-futura-alleanza-hegMpbABpECLaWbvpMxB0K/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. “Le liste personali sono un cancro” Bersani e la tattica delle...
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 11:33:05 pm
Politica
18/01/2013

“Le liste personali sono un cancro” Bersani e la tattica delle parole forti

Il doppio obiettivo del leader Pd: togliere il monopolio a Berlusconi E conquistare l’elettorato di sinistra

Fabio Martini
Roma

Pier Luigi Bersani ha riconquistato il centro del ring mediatico. Grazie ad una metafora decisamente hard («I partiti personali sono il cancro della democrazia») è riuscito a ritrovare spazio nelle prime pagine dei giornali e sui social network, al punto che stamattina ha rincarato la dose, specificando che anche il professor Monti è coinvolto nel suo “j’accuse”. Il leader del Pd aveva bisogno di una esternazione forte, che fosse capace di togliere il monopolio dei riflettori a Berlusconi e al tempo stesso “parlasse” al proprio elettorato. Il primo obiettivo l’ha sicuramente raggiunto, il secondo non è facilmente misurabile. Ma è l’assunto di partenza che, paradossalmente, chiama in causa chi ha scagliato la prima pietra. 

I partiti personali, nella accezione bersaniana, sono anzitutto quelli che inseriscono il nome del leader nel simbolo elettorale. Ma se bastasse una “debolezza” come questa per prendersi l’ accusa di essere un untore di cancri, anche il Pd non potrebbe sottrarsi: nel 2008 il Pd chiese voti, esponendo il nome di Veltroni nel suo simbolo e allora non risulta che dentro il partito si fossero levate voci discordi.

Naturalmente non c’è nulla di più personalizzato (e di più democratico) della pre-investitutura popolare di un leader attraverso lo strumento delle Primarie. Da questo punto di vista Bersani è il più “americano” dei leader in campo e, tra l’altro, è anche l’unico che esponga il proprio viso nei manifesti appesi su cartelloni, paline e autobus di tutta Italia. Con una identificazione forte tra partito e leader che, sinora, nessuno degli altri leader ha abbracciato. Neppure Berlusconi. Ovviamente il Cavaliere è l’espressione di declinazione tutta speciale del partito personale: un modello sudamericano di leadership solitaria, che in Italia ha ricevuto diversi riscontri elettorali e che il Pd ha tutto il diritto di avversare. Ma se Bersani allarga il tiro oltre Berlusconi, a quel punto non può non esporsi ad una controprova che lo riguarda. Personalmente.

da - http://lastampa.it/2013/01/18/italia/politica/le-liste-personali-sono-un-cancro-bersani-e-la-tattica-delle-parole-forti-1SYZvryrEAIYpkgRRStbzJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La carta segreta: un nuovo “Governo del Presidente”
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:20:40 am
Elezioni Politiche 2013
28/02/2013 - retroscena

La carta segreta: un nuovo “Governo del Presidente”

Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, possibile candidato di un governo di emergenza

Fabio Martini
Roma

In 67 anni di Repubblica un post-elezioni così enigmatico e così incerto non c’era mai stato e in queste ore il compito di provare ad aprire un primo varco se l’è preso il leader del partito di maggioranza relativa, Pier Luigi Bersani.

Il segretario del Pd ha fatto la prima mossa, l’apertura a Grillo e su questa linea intende giocarsi le sue carte, ma in attesa che i partiti (compreso il Pdl) completino il loro lavoro istruttorio, sono iniziati a tutti i livelli i primi sondaggi per una soluzione diversa. Di tipo tecnico. Una soluzione di emergenza che si imporrebbe nel caso in cui i partiti non trovassero la «quadra» e lo spread tornasse ad impennarsi. A quel punto la palla tornerebbe nelle mani del Capo dello Stato, al quale non resterebbe che esplorare la strada per un nuovo «Governo del Presidente». Nelle ultime ore un primo, informalissimo sondaggio è stato compiuto per verificare la (eventuale) disponibilità di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, l’istituzione italiana più prestigiosa all’estero. 

Contatti super-riservati , destinati ad intensificarsi nei prossimi giorni e a cambiare di qualità nel caso in cui il contesto finanziario ed economico dovesse cambiare. Naturalmente l’ipotesi di un incarico al Governatore non ha nulla di concreto, appartiene alla sfera degli scandagli preliminari e dunque va presa con le molle anche la perplessità al riguardo attribuita al presidente della Bce Mario Draghi, che considera Visco una garanzia assoluta per la Banca d’Italia. Ma l’approdo ad un nuovo governo tecnico è soltanto l’extrema ratio, in un rosario che contempla altre due soluzioni.

La prima è quella manifestata dal Pd nella conferenza stampa di due giorni fa: governo guidato da Pier Luigi Bersani e incardinato su una maggioranza Pd-Grillo. Uno scenario destinato ad incagliarsi davanti ad un ostacolo che al momento pare invalicabile: l’iniziale voto di fiducia al governo che però, proprio Grillo, ieri, ha escluso tassativamente. Di fatto chiudendo questa esplorazione, anche se nei prossimi giorni Bersani potrebbe insistere. Il secondo scenario è quello delle elezioni anticipate. A parole non le vuole nessuno. Nel Pd e nel Pdl ripetono quasi tutti che in questo momento esporsi ad un nuovo giudizio elettorale equivarrebbe ad offrire a tanti elettori l’arma per lo sfregio finale ai partiti tradizionali. Anche se, ad esempio, nel Pd, c’è chi non teme questa soluzione. Su «Left wing» il sito dei «Giovani turchi» (Stefano Fassina, Matteo Orfini), si scrive che il Pd «deve scartare ogni ipotesi di larghe intese», puntare su un governo Bersani che punti all’«appoggio esterno» dei grillini e se questo scenario dovesse fallire, «si tornerà inevitabilmente al voto». Un approccio non condiviso né da personaggi come Dario Franceschini ed Enrico Letta, ma neanche da Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Entrambi, si dice, potrebbero presto convergere sulla ipotesi del «Governo del Presidente», un’eventualità che marcherebbe le distanze in modo irreversibile da Bersani.

Uno scenario che potrebbe essere favorito dal deterioramento del contesto finanziario. Lo spread ha già ricominciato a salire, la Borsa a scendere, la Consob a vietare le vendite allo scoperto, anche se la partita più grande si gioca sull’asse Berlino-Francoforte: la Germania, in vista delle elezioni di settembre, finora ha coperto Draghi ma se nei prossimi giorni e nelle prossime settimane la Bce fosse costretta ad interventi per tamponare una nuova emergenza-Italia, da Berlino potrebbe partire lo stop e quel circolo «virtuoso» (per l’Italia e la per la Spagna) potrebbe interrompersi. Creando di nuovo le condizioni per un governo tecnico di «scopo», a scadenza predeterminata,con l’astensione di Pd, Pdl e Area Monti e chiamato - nell’arco di un anno - ad interventi d’urto, altamente simbolici, sia nel campo della «Casta» (dimezzamento dei parlamentari, abolizione del Senato, revisione del sistema di finanziamento dei partiti), ma anche interventi molto energici nel campo economico. È a quel punto che tornerebbero in campo candidati che oggi appaiono improbabili o poco allineati con lo «spirito del tempo». E dunque Ignazio Visco, Fabrizio Saccomanni, che di Banca d’Italia è il direttore generale. E se lo spread si dovesse impennare fino a vette mai raggiunte finora, ieri nel Palazzo c’era chi cominciava a fare un nome che attualmente sembra bruciato da una competizione elettorale poco gratificante: quello di Mario Monti. 

da - http://lastampa.it/2013/02/28/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/la-carta-segreta-un-nuovo-governo-del-presidente-AReL43l2ig7V07y7u9B5nJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi in campo: vertice coi fedelissimi
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2013, 06:12:21 pm
RETROSCENA
04/03/2013

Renzi in campo: vertice coi fedelissimi

Il sindaco è deciso ad avere un ruolo “attivo” nella politica nazionale in vista di un ritorno alle urne

FABIO MARTINI
ROMA

Per ora Matteo Renzi si limita ad ascoltare e motivare i suoi «ragazzi». Domani il sindaco incontrerà i cinquantun parlamentari a lui vicini in una saletta di convegni a Firenze. Nessun piano di guerra, Renzi e i 51 si sono già visti altre due volte, ma la vera novità è un’altra. 
 
Il sindaco - dopo aver spalleggiato Bersani in campagna elettorale - ha deciso di rientrare attivamente in campo, stando quotidianamente «dentro» la vicenda politica. Nella settimana post-elettorale Renzi è intervenuto di continuo, facendo proposte (sul rimborso elettorale), proponendo una lettura del risultato elettorale («abbiamo perso») che proprio ieri anche Bersani ha fatto esplicitamente propria nell’intervista a «Che tempo che fa». Il Renzi in campo - leale in campagna elettorale e propositivo in queste ore - ha già fatto maturare negli informalissimi pourparler tra i principali notabili del Pd una sintesi che un dirigente vicino a Bersani compendia così: «Se la situazione dovesse precipitare verso le elezioni anticipate, il Pd non potrebbe che presentarsi con Renzi leader». 
 
Una sintesi per nulla scontata sino a qualche giorno fa, per non parlare dei mesi scorsi quando il sindaco di Firenze, nel Pd e nei giornali fiancheggiatori, incarnava «una mutazione genetica», veniva criminalizzato come il «nuovo Craxi». Per nulla scontata la futura, eventuale incoronazione, perché incontra resistenze anche dentro la squadra bersaniana: l’ala sinistra fa sapere che una campagna elettorale-bis dovrebbe essere guidata sempre dal segretario e Stefano Fassina ieri lo ha detto chiaro e tondo: «Per quanto mi riguarda, Bersani rimane la figura più forte per la campagna elettorale». 
 
E d’altra parte proprio il segretario del Pd, ospitato da Fabio Fazio («non voglio perdere neanche un secondo», il suo incipit), ha ribadito un concetto hard: se Grillo non ci sta, tutti a casa. Come dire: o passa il monocolore hard, oppure per il Pd la soluzione ottimale è ridare la parola agli elettori. Ma se davvero la situazione dovesse precipitare, che qualcosa di grosso si stia muovendo nel Pd (si sussurra che sarebbe favorevole anche Massimo D’Alema, sempre sensibile alla tenuta del partito) lo conferma proprio Bersani che, davanti ad una domanda su Renzi, risponde con queste parole: «Deciderà lui, che ruolo avrà, quando vorrà, con la direzione del partito. Ma sicuramente un ruolo lo avrà».
 
Ma lo scenario delle elezioni bis per il momento è ancora lontano. Prima ci sono molti passaggi da espletare. Sul primo - maggioranza Pd-Cinque Stelle - Bersani ieri ha tenuto il punto e una mano in questo senso gliela dà il solito Fassina, che con energia fa fuoco preventivo su Giorgio Napolitano, o meglio su una delle possibili soluzioni che il Capo dello Stato potrebbe proporre in caso di fallimento di Bersani: «Deve stare a Palazzo Chigi chi ha ricevuto il consenso, se non é possibile, si deve tornare a chiedere il consenso agli elettori» e sull’ipotesi che il capo dello Stato sia «costretto» ad indirizzarsi su un governo del Presidente, Fassina è durissimo: «Se qualcuno pensa di riproporre un “governo tecnico”, sarebbe un suicidio per la democrazia. Spero che ci sia una rivolta di massa di tutta la base del Pd. Sarebbe una proposta becera, suicida». 
 
Tagliente il commento del costituzionalista, ex senatore Pd, Stefano Ceccanti: «Rammento a Fassina che il potere di dare l’incarico spetta al Capo dello Stato, non a lui». Ma la proposta di un governo del Presidente, il Capo dello Stato potrebbe avanzarla al termine di una lunga sequenza. Nessuno può fare illazioni su come si muoverà da metà marzo, non appena le Camere avranno eletto i loro Presidenti. In base ai precedenti, al Pd in modo molto informale azzardano un iter così scandito. Primo passaggio: mandato esplorativo a Bersani per verificare se sia possibile mettere assieme una maggioranza con l’appoggio esterno del 5Stelle o del Pdl. Con una formula inedita e improbabile: nelle votazioni nelle quali si configura un passaggio fiduciario, uno dei due partiti uscirebbe dall’aula. 
 
Se questa verifica dovesse fallire, il Capo dello Stato potrebbe incaricare il presidente del Senato per un incarico esplorativo con un mandato più ampio. E soltanto a conclusione di questo tragitto, potrebbe prendere forma il tentativo finale, quello di verificare la fattibilità di un «governo del Presidente», affidato ad una personalità esterna alla politica. Un sondaggio molto preliminare, come anticipato da «La Stampa», è stato fatto presso il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, soluzione ad alta garanzia per i mercati.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/04/italia/politica/e-renzi-raduna-i-suoi-fedelissimi-y06G8x8WaSWbKx7pxWHcdO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Bersani, il rischio d’innovare
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 05:10:46 pm
Editoriali
18/03/2013

Bersani, il rischio d’innovare

Fabio Martini

Il «metodo Francesco» può portare lontano. La suggestione uscita dalla Cappella Sistina è subito diventata potente per la politica domestica: i cardinali del sacro collegio sono riusciti a riassorbire l’inedita «crisi istituzionale» ai vertici di Santa Romana Chiesa, scegliendo di portare un outsider al soglio di Pietro. 

Consapevoli che il più autorevole tra i cardinali italiani, forse, non sarebbe bastato per rigenerare il corpo stanco della Chiesa. Una scelta controcorrente che si è consumata in ventiquattro ore: soltanto otto in più sono servite ai parlamentari italiani per scegliersi i Presidenti delle due Camere: un magistrato di lungo e apprezzato corso, una funzionaria dell’Onu, impegnata da anni nella difesa dei diritti umani. Anche loro scelti fuori dal mazzo delle carte tradizionali. Anche loro estranei alle Curie politiche. Certo, «tecnici d’area», ma privi di identità partitiche. Poco importa che la scelta di Pier Luigi Bersani sia l’effetto di una serie di rimpalli e non di un’opzione programmata. Quel che conta è la qualità della scelta finale. E il leader del Pd può rivendicare di esserne l’artefice: i due Presidenti, per la forte personalità e per storia personale, sembrano in grado di garantire in autonomia la funzione di garanzia che li attende. Ma sono anche due personalità scelte dal Pd perché capaci di «parlare» alla vastissima opinione pubblica disgustata dalla politica dei partiti tradizionali. 

Così adatti a questa missione che alcuni senatori grillini - dieci, forse dodici - nel segreto della cabina-catafalco di palazzo Madama, hanno votato per Pietro Grasso. Facile immaginare che se il Pd avesse proposto per le Presidenze personaggi capaci ma collaudati, visti mille volte in tv, come Anna Finocchiaro e Dario Franceschini, la secessione grillina non si sarebbe manifestata. Beppe Grillo ha immediatamente scomunicato i misteriosi senatori «ribelli». E lo ha fatto con un lessico lapidario, la prova che da quelle parti hanno accusato il colpo. Dalla rete sono piovute severe reazioni all’anatema. Bersani ha fatto due volte centro. Ecco perché nei prossimi giorni tutto ruoterà attorno ad un enigma: quello proposto dal leader del Pd è un metodo o una eccezione? Finocchiaro e Franceschini: hanno saputo rinunciare alle prestigiose collocazioni loro promesse con uno stile esemplare e lo spirito del tempo rischia di far apparire anacronistico un loro ritorno alle caselle di partenza, la presidenza dei loro Gruppi parlamentari. E Bersani? 

Fuoriuscire dalla propria identità è impresa davvero complessa. Per chi, come lui, è il leader del Pd, uno dei due partiti-guida della Seconda Repubblica. E dunque il segretario democratico non può non essere consapevole del rischio che lui stesso corre: la potente innovazione da lui avviata potrebbe coinvolgere, per eccesso di successo, anche il suo artefice. Per scongelare una decina di senatori grillini è bastato proporre Pietro Grasso, ma per provare a convincerne altri trenta, bisognerà potenziale la qualità della proposta innovativa. Certo, l’operazione Presidenti può risultare, in ogni caso, un buono spot in vista di elezioni anticipate. Ma come reagirebbero i parlamentari del Cinque Stelle se il partito di maggioranza relativa proponesse una personalità indipendente e dello stesso spessore del presidente del Senato? Col sottinteso che, a questo punto, sono cambiate anche le regole di ingaggio per partecipare alla partita del Quirinale. Dopo la coppia Boldrini-Grasso rischiano di apparire vieppiù invecchiate anche alcune delle più autorevoli riserve della Prima e della Seconda Repubblica. 

da - http://lastampa.it/2013/03/18/cultura/opinioni/editoriali/bersani-il-rischio-di-innovare-Mann1BxSzokilolBMqTPfL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il governo del Presidente Ecco l’incubo del segretario
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2013, 04:42:10 pm
politica
25/03/2013

Il governo del Presidente Ecco l’incubo del segretario

Il punto fermo resta l’impossibilità di accordi con il Pdl

Questa sera è convocata la direzione del partito, ma non si prevedono scontri

Fabio Martini
ROMA


Il passo volutamente flemmatico, da montagna, col quale il leader del Pd Pier Luigi Bersani sta provando a scalare la più impervia delle vette, è stato interrotto da un’improvvisa fiammata polemica, tutta interna al Pd. Apparentemente una delle tante che sovente agitano il più democratico e vivace dei partiti. Ma non è così: dietro i fumi dell’ennesima diatriba, per la prima volta ha preso corpo un oggetto sino ad oggi misterioso: il governo del Presidente. 

 

La proposta che ha fatto scandalo l’ha avanzata il presidente dell’Anci, Graziano Delrio: in caso di fallimento di Bersani, si vada senza indugi ad un «governo di scopo», della durata di pochi mesi, sostenuto all’esterno da Pd e Pdl. Raccontano che Pier Luigi Bersani si sia molto irritato: ma come proprio in queste ore si lanciano subordinate così insidiose? 

 

Ma non c’è soltanto l’irritazione per il fuoco amico in un frangente così delicato. Ad «armare» le repliche dure degli uomini del segretario c’è altro. 

Graziano Delrio non è un personaggio qualunque. Oltre ad essere il presidente apprezzato dell’Anci, Delrio è il sindaco (cattolico) di Reggio Emilia, la più rossa delle città emiliane, è buon amico di Matteo Renzi (col quale ha concordato la mossa), è apprezzato al Quirinale.
E soprattutto la sua proposta è dettagliata, disarmante, pericolosa vista da «casa Bersani». Ha detto Delrio, in una intervista di due giorni fa: «Non possiamo siglare alleanze organiche col Pdl dopo una campagna elettorale finita 15 giorni fa», «non penso ad una larga coalizione organica sul modello tedesco», «non spetta ai politici la proposta», ma «se la richiesta arriva dal Colle, si può fare un governo del Presidente di cinque, sei mesi per il bene del Paese». Chiude: «Non c’è possibilità di sottrarsi».

 

Ecco il punto. Delrio dice per la prima volta in modo chiaro quel che Bersani teme: come sarà possibile dire di no a Giorgio Napolitano? Il modello al quale allude Delrio sembra riproporre un precedente, non a caso citato una volta proprio da Giorgio Napolitano. Quello del governo Pella. Era il 1953, dopo la sconfitta di De Gasperi nella battaglia per la legge truffa, in Parlamento non si riusciva a coagulare una maggioranza. E il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, senza consultazioni, diede l’incarico di formare il governo a Giuseppe Pella, un democristiano di seconda linea ma di solida cultura.

 

Ecco perché un personaggio bonario come Bersani si è irritato assai per la sortita di Delrio. Avendo impostato le sue consultazioni con un ritmo sapientemente rallentato - oggi oltre ai sindacati, Bersani incontrerà, tra gli altri, anche la Gioventù federalista europea - il presidente incaricato ha trovato intempestiva e scorretta la proposta lanciata dal presidente dell’Anci. Bersani ha chiesto ai suoi un fuoco di sbarramento, che spazzasse la suggestione prima della direzione del Pd, convocata per questa sera. Non accadrà nulla di trascendentale nella riunione alla quale parteciperanno i notabili del partito: Bersani li ha convocati per ricevere un ulteriore viatico al suo tentativo e sotto questo aspetto avrà piena soddisfazione. 

 

Come dimostra la telefonata di amicizia fatta ieri da Matteo Renzi al segretario. Ma la sortita di Delrio, al di là della controversa tempestività, ha acceso i riflettori sull’unico scenario che, in caso di fallimento di Bersani, potrebbe impedire le elezioni anticipate: il governo del Presidente. E a questo punto la direzione del Pd di questa sera ruoterà tutta attorno ad un interrogativo: Bersani chiederà ai massimi dirigenti del partito di sfidare il Quirinale? Certo, per un obiettivo di questo tipo non servirebbe chiamare in causa direttamente il Capo dello Stato. Basterebbe dire chiaro e tondo che in caso di fallimento di Bersani, il Pd non vede altre strade, se non quella di elezioni anticipate.

 

Oggi, intanto proseguono le consultazioni del presidente del Consiglio incaricato. Gli incontri, alla Camera dei deputati, inizieranno con le delegazioni di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, seguite da Rete Imprese Italia e da una rappresentanza del mondo ambientalista. Nel pomeriggio sarà la volta di Don Luigi Ciotti, del Forum delle associazioni giovanili, del Consiglio nazionale degli studenti, del Consiglio Italiano del Movimento Europeo, insieme al Movimento Federalista Europeo e alla Gioventù Federalista Europea. Dei partiti, per ora, non si parla. Aspettando e confidando che qualcosa si muova. Dal fronte grillino. Dal fronte leghista. E da quello del centrodestra. Anche se Silvio Berlusconi lo ha ripetuto a tutti gli sherpa del Pd: se non ci accordiamo su un Presidente della Repubblica a me gradito, non si comincia neppure a discutere.

DA - http://lastampa.it/2013/03/25/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-governo-del-presidente-ecco-l-incubo-del-segretario-pl6dgfUYhF03lelBIg9wMK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. E Marini scatta in testa nella top list per il Quirinale
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2013, 11:09:54 am
politica
08/04/2013 - retroscena

E Marini scatta in testa nella top list per il Quirinale

Il cattolico che piace anche nell’entourage del segretario

Fabio Martini
Roma


A dieci giorni dall’inizio della scalata al Colle, c’è un uomo solo al comando, il suo nome è Franco Marini. Dopo una settimana di sondaggi informalissimi con lo staff di Silvio Berlusconi, nel ristretto entourage di Pier Luigi Bersani si sono fatti un’idea precisa. Marini è il migliore dei candidati possibili per diversi motivi interni al Partito Democratico e per uno esterno.

 

E’ cattolico e dopo 14 anni di presidenti «laici», il dettaglio non guasta; è fortemente appoggiato dall’area dei Popolari (Franceschini, Letta, Fioroni, Bindi), risvegliatisi dopo lunghi anni di «letargo» e d’altra parte dopo due presidenti delle Camere di sinistra, una «poltronissima» per gli ex Dc aiuta il Cencelli interno; tra i grandi elettori parlamentari del Pd, Marini è meno osteggiato rispetto a quello che resta il candidato più prestigioso dell’area democratica, Giuliano Amato.

 

Ma c’è una ragione di più che ha spinto Franco Marini in testa al «gruppone» dei favoriti, a dieci giorni dall’inizio della scalata: l’ex presidente del Senato non è sgradito a Berlusconi. Lo hanno capito gli sherpa di Bersani (Maurizio Migliavacca e Vasco Errani) che si sono parlati con gli uomini di fiducia di Silvio Berlusconi e d’altra parte nella memoria di Marini non si è mai cancellato il ricordo di quanto gli disse il Cavaliere il 4 febbraio del 2008. A Marini, dopo la caduta del secondo governo Prodi, era stato affidato un incarico esplorativo da Giorgio Napolitano, per verificare se fosse possibile far nascere un governo per completare la legislatura. Berlusconi, nel negare a Marini il suo appoggio, si congedò con queste parole: «Caro Presidente, mi spiace non potere appoggiare il suo tentativo, ma d’altra parte noi non possiamo mettere a rischio una vittoria elettorale sicura. Ma le assicuro che ci ricorderemo di questo suo sacrificio». E infatti un ex ministro di Berlusconi come Gianfranco Rotondi è pronto scommettere: «Se la situazione resta quella di questi giorni, per Marini potrebbe riproporsi il “metodo Ciampi”: elezione alla prima votazione».

 

Certo, in politica la memoria di solito è molto corta, ma nelle promesse interpersonali Berlusconi ha sempre mostrato una generosità fuori dall’ordinario. Da parte sua, un tipo come Marini non è uno che si aspetti regali o riconoscenze postume. Nel 1999, quando Massimo D’Alema si impegnò a favorire la sua scalata al Quirinale, salvo poi «glissare» su Carlo Azeglio Ciampi, Marini non se la prese: la sua freddezza è proverbiale. E la dimostra anche in questi giorni, nei contatti che intreccia nel suo studio a Palazzo Giustiniani: mai un’emozione, mai una speranza lasciata trapelare con i suoi interlocutori. 

 

E’ sempre stato fatto così e non cambia certo adesso che sta per compiere (domani) 80 anni. Certo, Marini si tiene in contatto con i protagonisti (pochissimi) della trattativa, ma non è tipo da brigare. Anche perché il suo principale sponsor dall’altra parte della barricata, Gianni Letta, ancora per qualche giorno si muove con l’aura del candidato.

 

E d’altra parte Marini sa quali siano le regole del gioco: Pd e Pdl eleggono assieme un Presidente soltanto se si trova una «quadra» sul futuro governo e sotto questo punto di vista non stanno maturando novità significative, nonostante il dialogo tra i due poli si stia normalizzando.

 

Ecco perché dietro all’uomo solo al comando, nei contatti informalissimi tra le diplomazie si sono formati due gruppi di «inseguitori», pronti allo scatto laddove cambiasse il «percorso» per arrivare al traguardo. Il gruppo della «grande intesa» è guidato da Giuliano Amato, che qualche giorno fa, durante una lezione agli studenti del liceo Tasso di Roma, ha spiazzato tutti, parlando della Tav: «È legittimo chiedersi se il progetto in Val Susa abbia ancora senso, considerato che i flussi di merci si sono spostati e non si muovono più lungo la direttrice Barcellona Lione Torino come si pensava vent’anni fa». 

 

Amato, ma anche Massimo D’Alema, Luciano Violante sono candidati molto quotati nel Palazzo ma deboli nei sondaggi professionali e sul web. E poi c’è il gruppo degli outsider, che potrebbero scattare nel caso in cui il surplace dovesse prolungarsi: Emma Bonino, Romano Prodi, Stefano Rodotà, che invece sono tutti molto competitivi e in modo costante nei veri tipi di sondaggio.

da - http://lastampa.it/2013/04/08/italia/politica/e-marini-scatta-in-testa-nella-top-list-per-il-quirinale-QjaK5gFXlhIVSrXc258qiO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Letta con Hollande e Merkel senza complessi di inferiorità
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2013, 06:37:40 pm
Cronache
01/05/2013

Letta con Hollande e Merkel senza complessi di inferiorità


Per il nuovo premier esordio in Europa senza soggezione

Fabio Martini

Per il suo esordio in un palazzo onusto di storia come l’Eliseo, Enrico Letta ha deciso di pronunciare in francese la rituale introduzione alla conferenza stampa a fianco del padrone di casa, il presidente Hollande. E martedì pomeriggio, al Bundeskanzleramt di Berlino , sede della Cancelleria tedesca, con la Merkel al suo fianco, Letta ha usato parole nette: «L’Imu? Forme e modi con i quali troveremo le risorse, questo è un fatto di casa nostra, non ho da spiegarlo a nessuno». E in entrambi i casi, sia a Parigi che a Berlino, mentre i rispettivi interlocutori parlavano ai giornalisti, Letta ha evitato di annuire platealmente, da sempre proverbiale segno di soggezione.

 

Un esordio senza complessi di inferiorità, quello di Enrico Letta nelle due capitali dell’Europa. Non era scontato. Certo, Letta ha studiato e si è formato nei luoghi “giusti” e con maestri dotati di visione - Andreatta e Prodi - ma fino ad oggi aveva sempre affettato uno stile da numero due, da secchione che resta sempre un passo indietro, per non fare ombra al leader di turno. Ma evidentemente Enrico Letta ha imparato la lezione: in poche ore si è calato nei panni del capo di governo, dismettendo quella ostentata semplicità che era diventata un secondo vestito.

 

“Vestirsi” di aplomb non è soltanto una questione di immagine, che pure conta nella costruzione di una leadership. A Berlino e a Parigi, dove oramai si decidono i destini dell’Italia più di quanto non credano tanti italiani, Letta doveva farsi conoscere, conquistando la fiducia dei due leader e lasciando un’impronta di sé nei mass media. Mario Monti, diventando interlocutore apprezzato dell’opinione pubblica tedesca, indirettamente aveva reso più “digeribili” le aperture che la signora Merkel (a dispetto di tante caricature) ha pur fatto all’Italia. E questa è una grande novità: in una Europa sempre più interdipendente, il capo di un governo come quello italiano ha molte più chances di essere incisivo nel suo Paese, se sa “parlare” alle opinioni pubbliche dei Paesi più influenti. 


da - http://lastampa.it/2013/05/01/italia/cronache/letta-con-hollande-e-merkel-senza-complessi-di-inferiorita-kc29hpZACSqAGvniITRQOP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il passo che spetta al Cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2013, 05:57:32 pm
Editoriali
14/05/2013

Il passo che spetta al Cavaliere

Fabio Martini


Un flagrante squilibrio sta minando i primi passi del governo Letta: mentre nel Pd sono usciti di campo, volenti e nolenti, tutti i leader del ventennio - da Prodi a D’Alema, da Veltroni a Bersani - sul fronte di centrodestra il capo resta sempre lo stesso: il settantaseienne Silvio Berlusconi.
Uomo vitalissimo, ma costretto ad inseguire vicende giudiziarie che toglierebbero serenità anche ad un titano. 

Lo squilibrio politico, emotivo e generazionale che si sta determinando tra i due principali partiti della maggioranza in pochi giorni ha già messo il governo a rischio di caduta immediata. 

La sequenza delle ultime ore è esplicita: all’ora di pranzo, dall’Abbazia di Spineto, presidente e vicepresidente del Consiglio, uno a fianco
dell’altro, hanno lanciato messaggi distensivi, ma tre ore più tardi la richiesta di condanna pronunciata dal Pm di Milano Ilda Boccassini per il processo Ruby ha inevitabilmente rimesso in ansia il leader del Pdl. 

Per un governo, anche per il più robusto dei governi di coalizione, è complicato assumere decisioni dirimenti e costruire una narrazione efficace, se uno dei pilastri della maggioranza può traballare in qualsiasi momento. 

In un Paese ferito e angosciato, la tessitura di leggi efficaci è assai più difficile che in tempi di «pace» e l’impresa può diventare impossibile se qualcuno disfa l’ordito per pulsioni improvvise e incoerenti con l’aspirazione a migliorare un provvedimento. 

Ovviamente Silvio Berlusconi ha tutto il diritto di difendersi, gridando le sue ragioni e rivendicando la sua innocenza. Dal suo primo avviso di garanzia, nel 1994, Berlusconi ha sempre denunciato un complotto giudiziario ai suoi danni, facendo leva più sul vittimismo che sulla asserita debolezza delle istruttorie. In perfetta coerenza con questo approccio, il Cavaliere ha affidato la sua difesa a legali-legislatori che si identificavano anche politicamente con lui, figure comprensibilmente sgradite ai magistrati. Non è del tutto casuale che soltanto da poche settimane Berlusconi abbia scelto per la sua difesa l’avvocato Franco Coppi, che non è soltanto il più autorevole penalista italiano. E’ anche una personalità priva di connotazioni politiche. Adatto come nessun altro, a denunciare – se ci sono – le opacità dei processi ai danni di Berlusconi.

Naturalmente il governo guidato da Enrico Letta e da Angelino Alfano deve scontare anche le profonde inquietudini politiche del Pd. Un partito che in queste settimane ha subito il dissenso di tanti suoi elettori, di tanti suoi dirigenti e l’analisi dissacrante degli osservatori indipendenti.
Ma il Pd, dopo lo sbandamento post-elettorale, ha saputo imporsi un percorso trasparente e democratico: Pier Luigi Bersani si è assunto le sue responsabilità, il partito ha un nuovo segretario e fra poche settimane si avvierà un dibattito destinato a coinvolgere milioni di italiani.
Un travaglio che certo non aiuterà il tragitto del governo. Ma due giorni fa, quando il presidente del Consiglio Enrico Letta e il suo vice, Angelino Alfano, si sono ritrovati a discutere su un pulmino che li portava all’Abbazia di Spineto sull’inopportunità per i ministri di partecipare a manifestazioni elettorali di partito, i due hanno trovato un’intesa di massima. Ma mentre Letta si è consultato con se stesso e ha deciso da solo, Angelino Alfano ha ritenuto di dover informare Berlusconi. Da anni il Cavaliere ha dimostrato più volte generosità, umana e materiale, verso i suoi collaboratori: ora è chiamato a dimostrarla non soltanto nei confronti di Angelino Alfano, l’uomo che lui stesso ha voluto a Palazzo Chigi, ma del governo che ha contribuito a far nascere. Un escamotage che Berlusconi non può permettersi sarebbe quello di logorare il governo, facendosene scudo.

da - http://lastampa.it/2013/05/14/cultura/opinioni/editoriali/il-passo-che-spetta-al-cavaliere-SbFm91DtMV2LC30M2nquVK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Stile spiazzante di Marino alla prova di imprenditori e politica
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2013, 04:18:30 pm
Politica
01/06/2013

La Roma dei poteri forti che ostacola il “marziano”

Lo stile spiazzante di Marino alla prova di imprenditori e politica

Fabio Martini
Roma

C’è un marziano che in questi giorni si aggira a Roma. Fa e dice cose inaudite: ad ogni comizio invoca l’irruzione del «merito», parola tabù nella capitale del pubblico e del para-pubblico; svela che il Pd non lo ha spalleggiato; chiede «trasparenza» nelle nomine comunali dopo le lottizzazioni di Alemanno, precedute da quelle della sinistra romana. 

 

Difficile prevedere se il professor Ignazio Marino, candidato sindaco del Pd, seguirà le orme del «marziano a Roma» che nella celebre piéce di Ennio Flaiano viene accolto nella capitale come un messia, con «la speranza che tutto cambierà» e via via viene assorbito nei cocktail party, in Vaticano, nei caffè di via Veneto, fino a passare inosservato nel giro di poche settimane. Ma intanto, in vista della probabile vittoria di Marino nella sfida con Gianni Alemanno, i poteri forti della città stanno cominciando a prendere le misure con un personaggio che per ora sentono estraneo. 

 

Il primo segnale di fumo è stato lanciato: ha parlato il terzo arrivato nella sfida del Campidoglio, Alfio Marchini, ultimo rampollo di una dinastia di «palazzinari» e ottimo amico di Francesco Gaetano Caltagirone, il più ricco e potente imprenditore romano. Ha detto Marchini: «Ora serve discontinuità». Traduzione dei mass-media: il bell’Alfio pencola verso Marino e chiude ad Alemanno. C’è qualcosa in più: l’espressione lessicale usata da Marchini è stata preceduta da un lavorio dietro le quinte degli «ambasciatori» di Marino e personalmente suggerita da Goffredo Bettini, da 20 anni il regista della sinistra romana. Sulla parola «discontinuità» Marchini era d’accordo, non ha avuto problemi a pronunciarla e proprio quel segnale può aiutare a riaprire un dialogo tra il potere forte per eccellenza della città, Francesco Gaetano Caltagirone, e il professor Marino. Raccontano che nelle settimane scorse l’ingegnere non abbia per nulla gradito la candidatura di Ignazio Marino e se ne sia molto lamentato con il suo artefice, il solito Bettini. D’altra parte a Roma è difficile ignorare l’umore dell’ingegnere, unica, vera potenza rimasta in una città nella quale gli altri poteri forti - esclusi i partiti con i loro potentati clientelari - si sono via via spenti. Negli anni Ottanta, nella vulgata della Roma bene, il ricco costruttore Francesco Gaetano era «quello buono dei Caltagirone», ma poi negli anni Novanta, l’ingegnere acquisisce la Vianini, compagnia internazionale di costruzioni, il quotidiano «Il Messaggero» e successivamente entra in Rcs. Ora però il tanto invenduto dell’edilizia sconsiglia nuovi investimenti nelle costruzioni, ma a Roma resta difficile fare il sindaco «contro» Caltagirone. Eppure, per ora, il professor Marino non ha cercato un vis-à-vis con l’ingegnere. 

 

Ma anche l’altra potere forte della città, la politica, diffida del «marziano». Cinquantasette anni, genovese, chirurgo di trapianti delicati, americano negli anni più importanti della sua formazione professionale, entrato in politica sette anni fa, Ignazio Marino ha avuto un «talent scout» (Massimo D’Alema), dopodiché è stato Goffredo Bettini ad investire su di lui, candidandolo alle Primarie Pd 2009 e poi lanciandolo nella corsa al Campidoglio. Ma al partito non lo amano. Durante la campagna elettorale si è favoleggiato di uno scontro con Enzo Foschi, uno dei notabili del Pd romano e Marino stesso ammette: «Prima di Epifani, da parte del Pd c’è stata una situazione di attesa, di non-operatività» Bettini, che lo ha voluto, ne apprezza «il profilo di autonomia e libertà». E nell’apprezzare Marino perché è un «irregolare», allude ad un giudizio espresso in privato: il professore gli appare incontrollabile. Ma nella fase finale della campagna elettorale Marino ha dietro di sé tutto il Pd, due personaggi che hanno vinto tutte le loro sfide, il presidente della Regione Nicola Zingaretti e il segretario laziale Enrico Gasbarra. Ma è molto significativa la motivazione dell’endorsement del professor Stefano Rodotà: «Voterò per Marino perché ne apprezzo l’indipendenza di giudizio in una città nella quale gli interessi particolari hanno spesso avuto la meglio».

da - http://lastampa.it/2013/06/01/italia/politica/la-roma-dei-poteri-forti-che-ostacola-il-marziano-JdNCIkxN4yyaZrzk49AhtI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Letta: “Il Cavaliere lo sa se cadiamo, non si va al voto”
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2013, 12:08:28 am
Cronache
25/06/2013

Letta: “Il Cavaliere lo sa se cadiamo, non si va al voto”

Il premier vorrebbe rispondere «coi fatti» all’uno-due di ieri: condanna dell’alleato Berlusconi e dimissioni della Idem

Il premier resta defilato ma a Palazzo Chigi si dice convinto di “riuscire a tenere distinte questione giudiziaria e questione politica”

Fabio Martini
ROMA

Alle cinque della sera, a palazzo Chigi, nello studio del Presidente che fu di Prodi (ma non di Berlusconi), Enrico Letta sta ascoltando lo sfogo della statuaria Josefa Idem e proprio mentre la ministra sta dicendo al suo premier che per lei «è finita», in quel preciso momento sopraggiunge la notizia della sentenza di Berlusconi. Un ministro che si dimette e un leader della maggioranza duramente condannato: due “botte” nel giro di pochi minuti, roba da destabilizzare chiunque. Ma Letta, si sa, è una sfinge e anche in questa occasione non tradisce emozioni. Più tardi si premurerà di non farne trapelare e d’altra parte in queste circostanze il mantra lettiano di tradizione democristiana - il silenzio è d’oro - diventa una sorta di imperativo categorico. 

Naturalmente, ad incontro finito, il presidente del Consiglio si affretta ad informarsi, chiede a chi di dovere come Berlusconi l’abbia presa e d’altra parte in casa Pdl, Letta non manca di interlocutori e informatori affidabili, a cominciare dallo zio Gianni. I resoconti che arrivano a palazzo Chigi in qualche modo sono incoraggianti: il Cavaliere è furibondo e offeso, ma poiché ritiene che la condanna sia palesemente persecutoria, lui stesso sta accarezzando la suggestione di proporsi più che mai come «un martire», per usare una delle espressioni usate dal Cavaliere. Arrivando a notare, ma questo non è arrivato alle orecchie di Letta: «Anche Mandela è stato in carcere». Un tipo di reazioni che - nella sfera privata, come in quella pubblica - escludono rappresaglie a breve scadenza sul governo. 

E, a fine giornata, dalle riflessioni a voce alta di Letta con i ministri amici, emergeva un certo ottimismo e un’analisi interessante. Assieme a considerazioni ispirate ad un fisiologico istinto di sopravvivenza («giorno per giorno facciamo parlare i fatti e non le polemiche»), si faceva strada anche un ragionamento politico: «Berlusconi sa bene che, mettendo in crisi questo governo, non interrompe automaticamente la legislatura», perchè resterebbe aperta la possibilità di un governo del Pd con i delusi del Cinque Stelle, in quel caso destinati a moltiplicarsi. Di più: Berlusconi sa che se si precipita verso elezioni, si candida Matteo Renzi, in questo momento “baciato” dai consensi. E dalle chiacchierate a palazzo Chigi di Letta, emergeva una considerazione fuori dal seminato: «Sta accadendo, nei partiti, quel che sembrava impossibile: riuscire a tenere distinte questione giudiziaria e questione politica».

La rappresentazione abbastanza ottimistica fatta a palazzo Chigi è indirettamente dimostrata dalla conferma dell’incontro, previsto per questa sera, tra Letta e Berlusconi, per parlare di agenda di governo. E d’altra parte lo stesso Letta, anche nei colloqui informali, continua a pensarsi sul medio periodo. Da questo punto di vista «è davvero interessante il discorso fatto che ha fatto a noi della delegazione Anci», come racconta uno dei sindaci presenti. Nel corso di uno degli incontri pomeridiani, quello con la delegazione Anci guidata dal sindaco di Livorno Alessandro Cosimi, Letta ha tratteggiato in modo pragmatico e sincero lo scenario dei prossimi mesi: «Ci troviamo in una congiuntura difficile e un primo passaggio importante sarà la decisione dell’Ecofin, che dovrà formalmente accogliere la richiesta della Commissione di chiudere la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia». Un traguardo - ecco il primo punto interessante dell’analisi - dopo il quale l’Italia non potrà assumere un atteggiamento da finanza allegra, ma dovrà continuare a muoversi «con responsabilità», anche perché il contesto resta critico, con lo spread che è tornato a livelli di guardia. In altre parole il messaggio di Letta è stato questo: dobbiamo attraversare l’estate con le cinture di sicurezza allacciate e poi in autunno, dopo le elezioni in Germania, si potrà ricominciare a ragionare, compreso lo sblocco del patto di stabilità che tanto sta a cuore all’Anci. E a fine anno con una situazione dei conti pubblici che dovrebbe essere stabile, si inizieranno a vedere i segni di una ripresa e nei primi mesi del 2014 dovrebbe «ripartire l’economia». Un’analisi sincera che ha finito per convincere i sindaci di diverse tendenze, come ha fatto capire il capofila della delegazione, Cosimi: «L’incontro di oggi è stato soddisfacente, soprattutto per il metodo usato».

DA - http://lastampa.it/2013/06/25/italia/cronache/letta-il-cavaliere-lo-sa-se-cadiamo-non-si-va-al-voto-W7H7DaZjkn87rAjTG326aO/pagina.html


Titolo: Fabio MARTINI - Letta placa l’irritazione Usa dopo lo strappo della Bonino
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 09:19:05 am
Esteri
06/09/2013 - gli incontri del premier Letta placa l’irritazione Usa dopo lo strappo della Bonino

Nei giorni scorsi Washington si era mossa informalmente chiedendo un cambio di rotta

Fabio Martini
INVIATO A SAN PIETROBURGO


Gli americani c’erano rimasti molto male e lo avevano fatto sapere ad Enrico Letta. Una settimana fa, quando il ministro degli Esteri Emma Bonino aveva detto che «per la Siria una soluzione militare non esiste» e si corre «il terribile rischio di una deflagrazione addirittura mondiale», dal Dipartimento di Stato avevano fatto un passo ufficioso, chiedendo riservatamente, al capo del governo italiano una correzione di rotta rispetto alla evocazione di un terzo conflitto globale. Da quel momento Enrico Letta ha condito le sue dichiarazioni di distanza dalla missione militare con ripetute attestazioni di amicizia verso gli Stati Uniti, ma ieri mattina, con l’apertura ufficiale del G20, è arrivato il momento del redde rationem per il capo di un governo nel quale c’è un ministro degli Esteri schierato apertamente contro l’intervento e un ministro della Difesa, Mario Mauro, pronto a fare lo sciopero della fame a favore di una soluzione pacifica. 

 

Prima dell’inizio dei lavori, Letta si è visto (sotto un tendone) con il presidente russo Vladimir Putin e in quella occasione si è soltanto accennato anche alla questione siriana, dopodiché il presidente del Consiglio si è presentato davanti ai giornalisti italiani e, rispondendo alle ripetute domande sulla questione, ha spiegato la sofferta posizione italiana. Dopo un incipit di tenuta sulle posizioni note («Confermerò la nostra impossibilità per motivi di quadro giuridico a partecipare ad eventuali azioni senza l’egida dell’Onu») e un passaggio in chiaroscuro («l’Italia rifugge sempre gli unilateralismi e ricerca i multilateralismi»), Letta ha iniziato a sfumare. Diventando più comprensivo verso le ragioni degli americani, sostenendo che non ci può essere «impunità» per chi ha usato armi chimiche, che «questa è vicenda complicata e complessa» e che «l’Italia non ha alcuna intenzione di strappare rispetto all’Alleanza strategica con gli Stati Uniti». Ma poi alla domanda clou («appoggerete comunque l’America?»), Letta si rifugia di nuovo in corner: «Dipende da cosa succederà. C’è chi interpreta l’intervento militare come una sanzione rispetto alle armi chimiche e chi come l’inizio di qualcosa di cui non si sa la fine», in questa vicenda ci sono stati «cambi di scenario improvvisi», «potrebbero essercene ancora», per questo serve «una gestione della crisi passo passo».

 

Morale della storia: Letta ha ricucito lo strappo della Bonino e questo è un fatto («a me non risulta freddezza con gli Stati Uniti»), ma al tempo stesso mette l’Italia alla finestra, con un atteggiamento da «wait and see» (aspetta e guarda). Naturalmente sempre e comunque dalla parte degli alleati americani: è questo il primo messaggio di Letta da San Pietroburgo, un modo per andare incontro all’amministrazione Usa che in questi giorni, attraverso i canali diplomatici, aveva fatto sapere anche agli italiani che quel che serve a Washington è un appoggio politico, non certo un supporto militare. 

 

Alla grande coalizione delle armi, che Bush era riuscito a creare per l’Iraq, gli Stati Uniti hanno rinunciato quasi subito dopo aver incassato il no della Merkel, un no non urlato ma netto, e ora non vogliono restare isolati politicamente in Europa. D’altra parte Letta, che è cattolico e non può essere insensibile all’iniziativa del Papa, comprende le ragioni del ministro degli Esteri Emma Bonino che nei giorni scorsi era uscita allo scoperto in modo netto, anche in virtù della conoscenza molto approfondita e di prima mano della questione mediorientale. Facendo un’analisi allarmata e allarmante sui rischi strategici di un intervento americano, analisi che in verità la Bonino ha esternato senza filtri, uno stile franco ribadito anche a Parigi, dove ha detto: «Con i francesi siamo d’accordo sul fatto che non siamo d’accordo».

 

Nella breve conferenza stampa che ha preceduto l’inizio dei lavori del G20 Letta ha indirettamente alluso a Silvio Berlusconi, quando ha detto: «È il primo G20 che si svolge senza che l’Italia sia il sorvegliato speciale, per me è fonte di grande soddisfazione e vorrei che tutti in Italia fossero consapevoli e convinti di quanto questo sia un fatto importante». A fianco di Letta, nel corso del bilaterale con Putin, era seduto anche Paolo Scaroni l’amministratore delegato di Eni, una potenza mondiale nel campo energetico, che in Russia lavora con profitto da molti anni e che è impegnata nella realizzazione del gasdotto South Stream.


da - http://lastampa.it/2013/09/06/esteri/letta-placa-lirritazione-usa-dopo-lo-strappo-della-bonino-MCE7iaPEfMoWPo5ty1JUoO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. L’Italia firma la condanna del raiss per l’uso dei gas
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2013, 07:23:25 am
ESTERI
07/09/2013

Il dilemma di Letta

Strattonato da Putin poi “sposa” Obama

L’Italia firma la condanna del raiss per l’uso dei gas

FABIO MARTINI
INVIATO A SAN PIETROBURGO


Sono le due della notte, a San Pietroburgo è una di quelle serate mozzafiato che fecero scrivere a Fedor Dostoevskij: «Può vivere sotto un simile cielo gente iraconda e bizzosa?». 
 
A quell’ora della notte pare se lo sia chiesto anche Enrico Letta, da pochi minuti reduce da una discussione memorabile con i grandi della Terra sul destino della Siria e - subito dopo - sempre lui, il capo del governo, si è ritrovato a chiedere aggiornamenti circa le ultime intenzioni di Silvio Berlusconi: rompe, non rompe? In questa scissione c’è tutto l’originale destino di un capo del governo che si è ritrovato, nel giro di poche ore, a fare i conti con due situazioni estreme. Da una parte l’alleato americano determinatissimo a bombardare la Siria, una decisione che non convince il governo italiano, ma neanche il Pentagono; dall’altra un leader della maggioranza domestica come Silvio Berlusconi, impegnato in una resistenza a oltranza ad una decisione della magistratura, atteggiamento senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali. 
 
Per Letta un conflitto interiore che si è riverberato nella difficile gestione delle due giornate del G20, tutte dominate dalla questione siriana. Per 48 ore Enrico Letta ha camminato sul filo e non a caso, proprio in extremis, si è ritrovato a essere idealmente strattonato di qua e di là da, sia da Obama che da Putin. Con un intermezzo dai tratti paradossali: tra le 17 e le 20 ora russa, l’Italia è comparsa in due liste. In quella scandita dal presidente russo nella conferenza stampa finale, durante la quale Putin ha indicato il nostro Paese tra quelli del fronte anti-guerra; ma poi (a sorpresa) anche in un documento ufficiale di segno opposto, uscito a G20 concluso, quello voluto dalla Casa Bianca come forte sostegno politico (ma non militare) alla propria azione e che è stato sottoscritto da undici Paesi su venti. 
 
Quello politico era l’unico appoggio che Obama voleva e l’ha ottenuto, con l’apporto determinante dell’Italia ma non della Germania. Ovviamente, a quel punto, l’equivoco della doppia lista si è sgonfiato: l’unica lista che contava era quella in calce al documento filo-Usa e anti-Assad, non quella, a voce, di Putin. E soprattutto, ecco il punto vero, l’Italia ha scelto di nuovo gli Stati Uniti, alla vigilia di una missione militare altamente controversa. Una scelta condivisa dalla Spagna di Rajoy: in zona Cesarini gli spagnoli hanno sottoscritto il documento promosso dalla Casa Bianca, ma anche uno bilaterale con l’Italia, che chiede un impegno comunitario a tutti gli altri Paesi europei per una soluzione politica.
 
Letta ha dato una motivazione alta delle ragioni che hanno portato l’Italia ad appoggiare gli Stati Uniti. Con una premessa: «La condanna contro le armi chimiche come crimine contro l’umanità è un punto inequivocabile», «l’aver gasato bambini e civili non può ripetersi» e per punire questa terribile violazione, con gli Stati Uniti «la distinzione non è sugli obiettivi ma sugli strumenti da usare». Anche perché il rapporto con gli americani resta «forte e fondamentale». Tanto è vero che, palando con Obama, Letta ha raccontato di aver ribadito la posizione italiana e il mio impegno - ecco il punto - a «far sì che questa vicenda non allarghi l’Atlantico», «per non ripetere i disastri di dieci anni fa». 
 
Dunque, l’Italia non si è allontanata politicamente dagli Stati Uniti per effetto delle pressioni americane, ma anche perché a palazzo Chigi ritengono pernicioso una nuovo divorzio dagli Stati Uniti, come quello seguito alla guerra in Iraq: per sanare quello strappo, «per ritrovare un linguaggio comune» ci sono voluti anni. E le ondate di antiamericanismo già si annunciano, con le manifestazioni non contro chi ha portato alla morte centomila siriani, ma contro gli Usa.
 
E d’altra parte l’Italia si è mossa con prudenza verso gli Stati Uniti anche nell’accostarsi al G20. Nei giorni scorsi, su impulso della Farnesina ma con l’accordo di palazzo Chigi, si era accarezzata l’idea - come anticipato da «La Stampa» - di esercitare una pressione sugli altri Paesi del G20 per indurre la Siria a siglare la Convenzione contro le armi chimiche del 1993, visto che il regime di Damasco è uno dei cinque - con Angola, Egitto, Corea del Nord e Somalia tra le nazioni Onu - a non averla né firmata né ratificata. Ma poi si è preferito soprassedere. Per non rallentare le operazioni militari degli Stati Uniti? A palazzo Chigi negano: non era queste la sede e l’occasione «giuste» per una iniziativa importante ma che richiede un suo corredo formale.

da lastampa.it


Titolo: FABIO MARTINI. Il Prof messo all’angolo dall’asse tra ex Dc e alfaniani
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2013, 11:21:58 pm
Politica
18/10/2013 - retroscena

Il ministro “traditore” e il sospetto del voto contro la decadenza

Il Prof messo all’angolo dall’asse tra ex Dc e alfaniani

Fabio Martini
Roma

L’ira gelida del gesuita è montata tra le mura ovattate di Palazzo Giustiniani, senza che nulla trapelasse all’esterno. Alle quattro del pomeriggio Mario Monti - una volta letto il documento «frondista» degli undici senatori - ha maturato l’idea di dimettersi seduta stante dalla presidenza di Scelta Civica. Da quel momento, nel suo studio di palazzo Giustiniani, il Professore ha iniziato una faticosa stesura del comunicato col quale avrebbe reso pubblica la sua decisione. Una corsa contro il tempo, anche perché alle 19,30 Monti aveva già fissato un incontro chiarificatore, a tu per tu, con Mario Mauro, il «suo» ministro della Difesa, che negli ultimi giorni lo aveva ripetutamente «tradito». Alla fine il Professore ce l’ha fatta, è riuscito a licenziare il comunicato poco prima di andare all’incontro con Mauro. 
Un incontro - e in questo dettaglio c’è tutto Monti - che era stato fissato a palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa: «Vengo io da te», aveva preannunciato il Professore a Mauro e il ministro aveva interpretato il gesto come un segno di elegante deferenza. Ma ad incontro in corso, le agenzie battevano il testo del comunicato col quale Monti si dimetteva dalla presidenza del partito da lui voluto e fondato.
Era da almeno un mese che il professor Monti scrutava con sospetto le mosse del «ciellino» Mario Mauro, che nei mesi precedenti si era conquistato la fiducia dell’ex premier sia per le evidenti doti politiche e di competenza dimostrate al Parlamento europeo, ma anche in virtù di un rapporto personale improntato alla reciproca fiducia. Certo, già in estate, il Professore aveva capito che dentro il suo partito l’area cattolico-moderata raccolta attorno a Pier Ferdinando Casini puntava a mettersi in proprio. A fine luglio, al Tempo di Adriano a Roma, si era svolto un convegno a porte chiuse di questa area e proprio il ministro Mauro si era segnalato con un gesto significativo: impegnato in Corea, aveva mandato un video. Nell’ultimo mese l’area Mauro-Casini è uscita allo scoperto. Soprattutto dopo lo strappo di Angelino Alfano e dell’ala «ministeriale» dal resto del Pdl. Non avendo messo in pratica una scissione, da due settimane si è aperto un cantiere, si sono intensificati i rapporti tra gli «alfaniani» e Casini-Mauro. 
Per fare una Dc bonsai, concorrenziale con Forza Italia? O per diventare la plancia di comando di una futura sezione italiana del Ppe, con Berlusconi padre nobile? Nell’incertezza Mauro è uscito allo scoperto. Il 16 ottobre il ministro si è visto a pranzo con Silvio Berlusconi (sempre al ministero della Difesa, dove Monti forse con intenzione è andato ieri sera) e tra i tanti boatos smentiti, uno non lo è stato: si sarebbe parlato anche della ipotesi che, nel prossimo, decisivo voto a palazzo Madama sulla decadenza del senatore Berlusconi, il gruppo Mauro-Casini (che conta su 14 unità) possa votare nel segreto per salvare il Cavaliere. Un progetto che potrebbe diventare la prima mission del nuovo gruppo parlamentare destinato a nascere la prossima settimana dalla confluenza di Mauro-Casini con gli ex Pdl che non entreranno in Forza Italia, a cominciare da Carlo Giovanardi e Roberto Formigoni. Quanto a Scelta Civica, se le dimissioni di Monti fossero senza ritorno, per la successione, i favoriti sono tre: Benedetto Della Vedova, Linda Lanzillotta, Alberto Bombassei.

http://lastampa.it/2013/10/18/italia/politica/il-ministro-traditore-e-il-sospetto-del-voto-contro-la-decadenza-Tsk6L3KVnjPIWlSRC1YjYJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. “Nei 101 contro Prodi c’erano anche i renziani”
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2013, 11:54:46 am
Politica
04/11/2013 - centrosinistra

“Nei 101 contro Prodi c’erano anche i renziani”

In un libro dei due collaboratori di Bersani i retroscena su Colle e formazione del governo. “Napolitano spiegò che la sua rielezione era una non soluzione”

Fabio Martini
Roma

La lettera riservata di Giorgio Napolitano ai capi della maggioranza fu recapitata con urgenza dai motociclisti del Quirinale. Era il 15 aprile del 2013, mancavano tre giorni all’inizio delle votazioni per il nuovo Capo dello Stato e in quelle ore non c’era un’idea che fosse una, su come dare un governo al Paese e neanche su chi eleggere al posto di Napolitano. 

Il Presidente uscente volle scrivere a Pier Luigi Bersani, Mario Monti e Angelino Alfano una missiva eloquente (cinque fogli in forma di appunto, siglati GN), inesorabile nell’indicare le ragioni che impedivano una sua rielezione, «una soluzione di comodo, una non soluzione», anche perché in passato i partiti nei suoi confronti erano stati prodighi di attestazioni di stima «talvolta contraddette nella pratica». E d’altra parte, insisteva Napolitano, non era possibile che un Paese come l’Italia non riuscisse ad esprimere una personalità per la presidenza della Repubblica. E in una lettera inviata al solo Bersani, il Capo dello Stato uscente autorizzava il segretario del Pd ad utilizzare come «circolare» per tutti i parlamentari democratici, una indisponibilità che lo stesso Napolitano aveva pubblicamente espresso a Renato Schifani. 

Le lettere riservate di Giorgio Napolitano, che oltre ogni dubbio testimoniano la sua ostilità ad un bis, rappresentano uno dei documenti più interessanti contenuti nel libro “Giorni bugiardi”, scritto (per Editori Internazionali Riuniti) da Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, i due principali collaboratori di Pier Luigi Bersani nel campo della comunicazione. Instant book che, dalla visuale dei due autori, punta a ricostruire le vicende del Pd, dalle Primarie del dicembre 2012 alla ripetute sconfitte successive. Vicende incandescenti sulle quali Di Traglia e Geloni - da attori-spettatori - in qualche modo sono svincolati (e si vede) da obblighi di obiettività («il Pd non ha perso le elezioni»), ma sulle quali portano a conoscenza episodi significativi e inediti, frammenti destinati a comporre un compendio dei fatti realmente accaduti, premessa per una successiva interpretazione degli eventi che non sia scritta dai soli “vincitori”. Si parte dalle Primarie, volute da Bersani e subito osteggiate dalla sua nomenclatura, impaurita che il leader diventi troppo forte. I notabili terrorizzati si riuniscono con lui a casa della Bindi, ci sono anche D’Alema, Letta, Finocchiaro e Franceschini, che racconta: «Gli ripetevamo che era un rischio inutile...». 

Si legge nel libro che D’Alema arriva ad affidare «ad un emissario una previsione terribile: Arriverai terzo». Aneddoto, che assieme ad altri, conferma la rovinosa rottura tra gli ultimi due “comunisti” del Pd, Bersani e D’Alema. A dispetto di “Baffino”, Bersani invece vincerà le Primarie contro Renzi, ma poi perde clamorosamente le elezioni. Si intestardisce nel tentare di fare lui un governo, nella speranza che il Cinque Stelle possa dare un appoggio esterno. Per sfatare la diceria di un Bersani solipsista, disinteressato ad un rapporto personale con Grillo, Di Traglia e Geloni raccontano: «In Liguria si cercano contatti a tutto campo, anche il futuro senatore a vita Renzo Piano è della partita» e la ricerca di intermediari fu così accurata che si arrivò «a parlare col dentista» del comico. Non è l’unico dettaglio vivido e un po’ impietoso che gli autori propongono nel raccontare l’epopea bersaniana. I due raccontano di avere ritrovato in uno scatolone una cartellina piena di bozze di decreti legge che nei mesi precedenti, senza dirlo a nessuno, Bersani si era fatto preparare in vista del suo ingresso a palazzo Chigi, testi «dettagliatatissimi» su divorzio breve, fecondazione assistita, unione civili, Welfare, pronti ad essere approvati alla prima botta: «Avevo in mente un governo destabilizzante, di rottura», da far partire con «un primo Consiglio dei ministri» convocato con la scusa di «conoscerci un po’ tra noi, ma poi avrei chiuso la porta» e l’indomani mattina «gli italiani si sarebbero ritrovati con tutta quella roba». 

Un racconto ex post che potrebbe scivolare sul patetico, ma è Bersani stesso che evita la deriva, coniando una definizione spiritosa e al tempo stesso profonda: «Governare è tenere un ritmo sincopato, avete presente Keith Richards? Lui batte sempre un nanosecondo prima. Bisogna prendere la gente un attimo prima di quando se lo aspetta». Gustosa la descrizione dell’incontro tra Bersani e Berlusconi che, come al solito, per simpatizzare, parla d’altro, «racconta aneddoti sulla sua condizione di fidanzato con suocera» e «rivela di essere sul punto di sostituire Allegri con Seedorf». Sul tormentone dei 101 grandi elettori del Pd che nel segreto non votarono per Prodi, poche novità di fatto, ma un giudizio bruciante: «E’ convinzione di chi conosce la composizione dei gruppi parlamentari che in nessun modo sia possibile raggiungere quota 101, senza includere i 41 renziani». Un’ affermazione apodittica senza supporto fattuale, mentre è drammatico il racconto della resa di Bersani. Nel giorno dei 101, sconfitto dai suoi errori e da Napolitano, improvvisamente dice: «Io stasera mi dimetto e domattina vado da Napolitano a chiedergli di restare». 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/04/italia/politica/bersani-nei-contro-prodi-cerano-anche-i-renziani-QqlKBB342MHwLCRJpfl4dP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Letta: “Combattere i populismi o distruggeranno l’Europa”
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:14:57 pm
Politica
01/11/2013 - intervista nell’ambito del progetto Europa - Letta: “Combattere i populismi o distruggeranno l’Europa”

Il premier: “La Ue alzi la bandiera per il lavoro dei giovani e sia unita sull’immigrazione.
La risposta italiana è eliminare il finanziamento ai partiti e cambiare legge elettorale”

Fabio Martini
Roma

Una chiamata alle armi politiche contro i tanti populismi che si aggirano per l’Europa. Il presidente del Consiglio Enrico Letta si rivolge alla opinione pubblica dei più grandi paesi della Ue attraverso una intervista concessa allo spagnolo «El Pais» , al polacco «Gazeta Wyborcza», al francese «Le Monde», al tedesco «Suddeutsche Zeitung», all’inglese «The Guardian» e a «La Stampa», invitando a scuotersi, ad abbandonare ogni «timidezza», perché se i movimenti euro-scettici dovessero ottenere un buon risultato alle elezioni Europee, l’Europarlamento ne uscirebbe «azzoppato». Menomato nella capacità di imprimere una svolta, di incidere nella vita quotidiana dei cittadini. Al tempo stesso Letta rassicura l’Europa, dicendo che è sicuro di andare avanti e affermando con più nettezza del solito che il traguardo del suo governo è il 2015, anno in cui si tornerà a votare, con una competizione tra centro-sinistra e centro-destra. E in Italia la politica potrà recuperare forza, soltanto se saprà auto-riformarsi, con le modifiche costituzionali e legislative ma anche con la capacità dei partiti di «ringiovanire» le proprie leadership. 

 Nel suo studio di palazzo Chigi, Enrico Letta accoglie i giornalisti con un incipit scherzoso: «Su Berlusconi non vi dirò nulla, perché altrimenti titolate tutti su di lui!». Ma poi entra subito sulla questione che più gli sta a cuore: «Voglio cogliere questa occasione per lanciare un messaggio all’opinione pubblica europea: c’è una grande sottovalutazione del rischio di ritrovarsi nel prossimo maggio il più anti-europeo Parlamento europeo della storia, con una crescita di tutti i partiti e movimenti euro-scettici e populisti, in alcuni grandi Paesi e anche in altri più piccoli. E con un effetto molto pericoloso sul Parlamento europeo. Nella prossima legislatura la scommessa di fondo è passare dalla austerità alla crescita, una scommessa che il Parlamento più euroscettico della storia rischia di azzoppare. Un rischio del quale nei diversi paesi europei si parla, ma timidamente. Urge una grande battaglia europeista: l’Europa dei popoli contro l’Europa dei populismi. Questa è la posta in gioco nei prossimi sei mesi. E quando dico europeismo, so bene che non basta dire “più Europa” per avere un’Europa migliore». 

Quale è la soglia oltre la quale i populisti europei diventano protagonisti e, per lei, pericolosi? 

«Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25 per cento questo sarebbe molto preoccupante. Tutte le elezioni europee, dal 1979 fino ad oggi, sono state vissute come appuntamenti nei quali ogni Paese guardava il “suo” risultato , senza mai uno sguardo d’assieme. Stavolta sarà diverso e questo paradossalmente è la dimostrazione del successo del progetto europeo. Anch’io andrò a vedere il risultato del partito di Alternative in Germania».

 

In Italia è possibile che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle Europee? 

«Questo rischio è molto forte. Le elezioni europee rappresentano il terreno migliore sul quale il Movimento Cinque stelle può esprimere il suo populismo. Non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo, o soltanto placcarlo».

Berlusconi va messo nel campo dei populisti? 

«Be’, un po ’ sì...».

Un po’? 

«Il Pdl, secondo me, è un mix. Berlusconi in questi anni ha tenuto insieme pulsioni populiste e altre più istituzionali e moderate. Ora, nella divisione tra falchi e colombe sarebbe interessante sapere cosa pensano le due anime sui temi dell’Europa».

In Italia il populismo ha avuto una lunga incubazione: Bossi è entrato in Parlamento nel 1987 e 23 anni dopo un elettore su tre ha votato “populista”, tra Cinque Stelle e Lega. Per essere più credibili nel contrastarli, non fareste bene a fare un’autocritica sugli errori e sulle tante non-scelte che hanno favorito questa escalation? 

«Certamente. Non voglio essere malinteso: quando parlo di populismi, mi riferisco alle politiche e ai suoi rappresentanti, ma so che tra gli otto milioni che hanno votato per il Movimento Cinque Stelle ci sono tantissimi elettori che prima avevano votato per il Pd o per le formazioni moderate del centrodestra. È vero, il giudizio sul populismo non può essere auto-assolutorio e io non dirò mai: noi siamo i buoni e loro i cattivi. Ma il 90 per cento del successo dei partiti populisti in Italia è dato da una politica che ha impiegato troppo tempo a rinnovarsi e a tagliare i propri costi. Una delle chiavi del risultato delle prossime Europee sta nella capacità di far diventare leggi entro quella data, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e la riforma elettorale. Sono ottimista: il governo ha varato (e la Camera approvato) un testo che abolisce il finanziamento pubblico e lo sostituisce con un incentivo al contributo personale del cittadino».

Basta per ridare l’onore alla politica italiana? 

«No, serve anche un generale rinnovamento e ringiovanimento delle leadership dei partiti. Dobbiamo dimostrare che la politica in Italia è capace di auto-riformarsi e non serve la presa della Bastiglia».

I partiti anti- sistema hanno buon gioco nel dimostrare che le riforme istituzionali restano chiacchiere... 

«Questo è il motivo per il quale io insisto tanto sul fatto che noi dobbiamo cambiare le regole istituzionali e lo dico contro i conservatori di casa nostra. Da noi ci sono tanti conservatori che dicono che questo Parlamento è delegittimato e quindi non può cambiare la Costituzione. In Italia serve un sistema, nel quale quando si vota, il cittadino elegge un Parlamento e non due con gli stessi poteri, come è oggi e nel quale siano presenti molti meno parlamentari. Obiettivi - lo ribadisco - che si raggiungono solo cambiando la Costituzione e dunque facendo le riforme, come del resto ci sprona a fare il presidente della Repubblica, Napolitano. Penso che entro l’estate possiamo chiudere la partita, con la riduzione dei parlamentari, la fine del bicameralismo, una nuova legge elettorale».

La grande coalizione può diventare un modello? 

«In Italia noi stiamo vivendo un momento straordinario nel vero senso della parola. L’ordinarietà è il confronto centro-destra e centro-sinistra con regole e istituzioni che lo consentano. Io lavoro perché si cambino le regole e si torni nel 2015... quando sarà, nel 2015 si torni a un confronto elettorale nel quale i cittadini possano scegliere tra due opzioni e questa scelta porti poi alla espressione di un governo. Questo l’ho detto nel discorso con il quale ho preso il voto di fiducia alle Camere, l’ho ridetto anche il 2 ottobre, sono fermamente intenzionato e convinto di andare avanti su questa strada. Anche perché i risultati si cominciano a vedere. Nel 2014 l’Italia sarà uno dei Paesi più virtuosi d’Europa: centreremo contemporaneamente cinque obiettivi. Per la prima volta, dopo 5 anni, il debito generale scenderà. Avremo il deficit di nuovo sotto il 3% per il secondo anno di fila. Avremo per la prima volta la spesa pubblica primaria che scende. Si fermerà la crescita delle tasse, avviando il calo. Avremo il segno più sulla crescita e speriamo di fermare l’aumento della disoccupazione. Un incubo, come confermano i dati di ieri. È la battaglia cui voglio dedicare il massimo della determinazione».

Dunque, lei oggi è più sicuro di restare fino al 2015? 

«Il primo ottobre, quando Alfano mi ha comunicato che i ministri del Pdl si dimettevano su richiesta di Berlusconi, io ho iniziato a fare gli scatoloni. Perché ho sempre pensato che in una situazione così complessa come quella italiana, non si può governare con un voto di maggioranza. Poi invece il Parlamento mi ha dato una fiducia larga e abbiamo vinto una battaglia molto complessa: dal 2 ottobre abbiamo maggiori forze e guardo al futuro con fiducia».

In mezzo ci sono le elezioni europee di maggio, per le quali lei chiama a raccolta gli europeisti di tutta Europa: concretamente come immagina questa battaglia? 

«La battaglia deve essere fatta a testa alta, rivendicando le ragioni di un europeismo del quale stiamo sottovalutando la portata positiva. La profonda crisi economica e finanziaria è dovuta, non all’Europa o alle sue colpe, ma semmai ad un deficit di Europa. Per dirne una: sono serviti 27 Vertici europei, dal 2008, prima di arrivare alla frase di Mario Draghi sul salvare l’euro «whatever it takes», una dichiarazione che ha cominciato a farci uscire dalla crisi. Poca Europa significa che non ci sono le istituzioni giuste. Chi è l’Europa? Chi ci rappresenta? La risposta è sempre balbettante e questo è il tema vincente di Grillo, Marine Le Pen, Farage, di tutti i populisti europei. Lo dico francamente: le istituzioni europee sono molto, troppo frammentate: il presidente del Consiglio, della Commissione, il presidente di turno del semestre, l’Eurogruppo, il rappresentate permanente. Quando ho parlato con Obama a Washington gli ho detto: è importante che tu venga a Bruxelles. Finora, in cinque anni, Obama non è mai venuto».

Cosa le ha risposto Obama? 

«Mi ha detto che verrà, ma il fatto che non sia mai venuto, mi dà l’idea che pure nella percezione americana, c’è una difficoltà nell’interpretare Bruxelles come luogo della rappresentanza europea. Provate a fare un sondaggio tra i cittadini europei con questa domanda: dimmi chi è il capo dell’Europa? Sarebbe interessante scoprire quanti rispondono Merkel, quanti Barroso. quanti Van Rompuy....».

Gli americani dicono da sempre che, se si vuole parlare con l’Europa, non c’è un numero di telefono... 

«Certo, è il tema che ha sempre posto Henry Kissinger. Paradossalmente - e lo dico alla luce di quel che ho visto in sei mesi - io sono un grande tifoso di Van Rompuy e di Barroso, due personalità che stanno facendo bene, che hanno dimostrato una grande conoscenza delle istituzioni europee. Il problema non è legato alle singole personalità. Ad esempio, i 18 Paesi dell’Euro - a gennaio entrerà anche la Lettonia - non hanno “proprie” istituzioni e così finiscono per scaricare sulla Bce, l’unica istituzione forte a 18, responsabilità e pesi che dovrebbero essere delle politiche economiche. Avremmo bisogno di un ministro permanente dell’Economia dei 18, di politiche economiche a 18, di un bilancio, di un’istituzione che ci unifichi. Tutto ciò premesso l’Europa è una storia di successo. A me colpisce che nessuno rilevi con forza che l’Unione, per la prima volta, è presieduta in questo semestre da un Paese, la Lituania, che 23 anni fa faceva parte dell’Unione sovietica. Una straordinaria storia di successo che stiamo rovinando con una timidezza nella battaglia politica».

Ma per l’autoriforma dell’Europa servono decenni mentre le elezioni europee sono fra pochi mesi: come se ne esce? 

«Sarà essenziale alzare la bandiera dell’Europa che lotta contro la disoccupazione, lanciando nei prossimi Consigli un grande Progetto giovani: questo parlerebbe a tutto il continente. E ancora: il Consiglio europeo di febbraio si occuperà di politiche economiche legate all’industria. In quella occasione potremo dare un messaggio burocratico, oppure dopo un “girone di andata” nel quale per 10 anni si era teorizzato che esistevano soltanto finanza e servizi, iniziare un virtuoso “girone di ritorno” per reindustrializzare, internazionalizzando le imprese: un’azienda va in Cina perché le interessa quel mercato e non per riportare i prodotti uguali in tutto e per tutto come li ha fatti lì».
L’Europa non continua ad essere affetta da lentocrazia? 

«Mettiamola così. Se fossi dittatore europeo per mezzora, farei due editti. Col primo proporrei una cosa che sarebbe immediatamente comprensibile e condivisa dall’opinione pubblica, l’unificazione del presidente della commissione e del presidente del consiglio europeo in un’unica figura, una modifica che si può fare senza cambiare i trattati. Basterebbe nominare la stessa persona. Una unione personale, diciamo così delle due funzioni. So benissimo che dal punto di vista della perfezione giuridica bruxellese, dico una specie di bestemmia perché il presidente del consiglio svolge un ruolo di gestione, mentre il presidente della commissione ha un altro ruolo. Tra l’altro un ruolo che Barroso - come ho visto nell’ultimo consiglio europeo - sta svolgendo con un approccio europeista molto forte, che mi è molto piaciuto».

Col secondo editto cosa farebbe? 

«Abolirei tutti gli acronimi europei, una cosa che fa impazzire noi e voi, sono incomprensibili per tutti. Sono la bussola per la burocrazia di Bruxelles, con la quale tu invece ti perdi: Efs,Esm, Sixpack, twopack. Bisogna chiamare le cose col loro nome».

L’emigrazione clandestina e i migranti sono un ottimo propellente per i populisti... 

«Con una gestione malaccorta di questi temi si rischia di perdere le elezioni Europee. Non è un caso che Grillo, restio su tante questioni a seguire politiche classicamente di destra, su tale questione abbia completamente sconvolto la sua bussola, prendendo la posizione che è stata di Bossi, Fini e anche di Berlusconi. Spiazzando i suoi stessi elettori. Sapendo che, in un Paese solidale come l’Italia, la paura del diverso è ancora molto forte. Eppure, ora che sono trascorsi sei mesi dalla nascita del mio governo, resto molto fiero della decisione di aver scelto Cecile Kyenge come ministro dell’Integrazione, una decisione che presi in solitudine. La chiave è questa: o lo risolviamo tutti assieme in Europa, oppure questo problema non si risolve. Nell’ultimo Consiglio il tema è stato affrontato in maniera più consapevole».

Al termine del recente Consiglio europeo perché lei ha giudicato «sufficiente» la risposta dell’Ue? 

«Sufficiente non vuol dire ottimo, ma mi aspetto che si possa migliorare. Però ho già visto il Consiglio europeo diventare un po’ come un consiglio dei ministri di uno stato membro, dove se scoppia un problema all’improvviso, cambi l’ordine del giorno, lasciando perdere le altre questioni. Finalmente è accaduto anche a livello europeo. Nella decisione di Barroso di venire a Lampedusa e di mettere alcune risorse in più, ho visto una reale volontà di affrontare la questione. Ho detto sufficiente perché penso che dobbiamo fare di più sia a livello nazionale che a livello europeo. E anche con i paesi terzi noi dobbiamo avere un approccio molto più forte di quello tenuto in questi mesi». 

Quale sarà l’impatto di Datagate nei rapporti con gli Stati Uniti? 

«Noi ci aspettiamo che ci sia il massimo disclosure e son sicuro che ci sarà, dopo ciò che ho ascoltato dagli interlocutori americani con cui ho parlato, a cominciare dal segretario di stato Kerry. I chiarimenti arriveranno perché l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa è fondamentale, deve assolutamente continuare».

È vero che su questo tema lei e Cameron avete litigato? 

«Questa storia è girata, ma non so come sia uscita e non è vera. Mentre eravamo a cena, entrambi ci siamo detti: ma ti risulta che abbiamo litigato?».

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/01/italia/politica/letta-combattere-i-populismi-o-distruggeranno-leuropa-sPgGW767vq2R3IF1p57EeJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Legge elettorale banco di prova Letta prova a convincere Alfano
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2013, 11:30:53 am
Politica
03/12/2013 – retroscena

Legge elettorale banco di prova Letta prova a convincere Alfano
Palazzo Chigi non può permettersi Renzi all’attacco e lo stallo

Fabio Martini
Roma

Si erano già intesi su tutto nei colloqui telefonici dei giorni scorsi, non avevano da scambiarsi opinioni su questioni delicate, né assumere decisioni spartiacque e per questo non è durato molto - poco più di 60 minuti - l’incontro tra il Capo dello Stato e quello del governo. Tra Giorgio Napolitano ed Enrico Letta, quello di ieri, è stato l’ultimo incontro di una stagione - durata sette mesi - nei quali tutti i passaggi più delicati sono passati lungo l’asse tra Quirinale e palazzo Chigi. 

Dal 9 dicembre, con la probabile elezione di Matteo Renzi a leader del Pd, la geometria della politica italiana si dispiegherà in una triangolazione destinata a comprendere anche Palazzo Vecchio. Uno schema nel quale un ruolo potrebbero averlo anche il gruppo del Nuovo Centro Destra guidato da Angelino Alfano. E da questo punto di vista ieri, per la prima volta, il neo-partito ha preso un’iniziativa interdittiva: una «melina» dietro le quinte che ha contribuito a bloccare la decisione, sia pure sotto la forma di indirizzo, che era stata fissata ieri sulla questione della riforma elettorale.

Uno stop subito enfatizzato dai renziani, a cominciare da Roberto Giachetti, che su questo versante, è in battaglia da mesi. Un fuoco che si preannuncia intenso e di lunga durata: questo è un argomento sul quale il probabile nuovo segretario del Pd non farà sconti. Renzi, chiede tante cose al governo, ma una la vuole sopra ogni ragionevole dubbio, a tutti i costi: una legge elettorale di impianto maggioritario che gli consenta, una volta eventualmente vinte le elezioni, di governare per cinque anni. 

Ecco perché la tattica del «ralenti» degli alfaniani può diventare un problema serio per il presidente del Consiglio. Tra Letta e Alfano i rapporti sono davvero buoni e per il momento non risulta che la questione sia stata ancora oggetto di discussione. Ma lo sarà presto e su questo tema Letta avrebbe intenzione di dispiegare la sua «moral suasion»: un Renzi all’attacco su questo fronte, il governo non se lo può permettere.

Alfano prende tempo anche perché il modello di legge elettorale condiziona il futuro degli scissionisti del Pdl: proprio da questa scelta si capirà cosa vogliono fare «da grandi». Se sposassero una opzione maggioritaria vorrebbe dire che puntano, prima o poi a ricongiungersi con Berlusconi. Dice Paolo Naccarato, senatore alfaniano: «La riforma si farà e avrà un impianto maggioritario: quando sarà il tempo, Alfano sarà richiamato e incoronato da Berlusconi». 

Però è anche vero che la «melina» degli alfaniani ha assunto toni aggressivi che lasciano presupporre che non sarà semplice riportarli alla «ragione» in un batter d’occhio. A Palazzo Madama, si è mosso il presidente dei senatori Maurizio Sacconi che, nel corso di abboccamenti informali ha chiesto (e ottenuto dal Pd, in attesa di un nuovo leader) un rinvio della riunione della Commissione Affari Costituzionali che avrebbe dovuto esprimere un orientamento di massima, attraverso un ordine del giorno, per il ritorno del vecchio Mattarellum. 

Ma a quel punto i renziani hanno chiesto di sottrarre la materia elettorale dal Senato e portarla alla Camera, dove il Pd - assieme a Sel - può contare su una maggioranza autosufficiente. In tutta risposta - e la sequenza è significativa - si è alzata l’artiglieria polemica degli alfaniani con Fabrizio Cicchitto: «Non si capisce perché debba aprirsi un gioco a rubamazzo fra Camera e Senato per la legge elettorale». Quale sia la posizione del Nuovo Centro Destra non è dato saperlo, ma Enrico Letta sa già che l’11 dicembre quando richiederà la fiducia, non potrà cavarsela con un semplice auspicio di cancellare il Porcellum. 

Da - http://lastampa.it/2013/12/03/italia/politica/legge-elettorale-banco-di-prova-letta-prova-a-convincere-alfano-p8E40BpkrUXCuzpzNJzf6M/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. IL COMMENTO alle Primarie 2013 PD
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 10:49:30 am
Primarie 2013 PD
10/12/2013 - retroscena

IL COMMENTO

Fabio Martini
Roma

Due le novità, ancora da solidificare. Al segretario del Pd sta a cuore incassare in tempi stretti una nuova legge elettorale che il Nuovo Centro Destra vorrebbe invece agganciare al treno accelerato delle riforme istituzionali, mentre il presidente del Consiglio non ha avuto obiezioni di merito, riservandosi di convincere Angelino Alfano. Ma in cambio il presidente del Consiglio punta a stipulare col Pd e con le altre due formazioni di maggioranza un «contratto di coalizione» alla tedesca, un cronoprogramma, scandito nei tempi e anche negli impegni, col quale i partiti si vincolano reciprocamente e solennemente ad un significativo piano di riforme fino al 31 dicembre del 2014. Davanti all’ipotesi di questo scambio, Renzi non ha detto di no. Certo, se potesse, il neosegretario si giocherebbe subito la partita delle elezioni anticipate, ma poiché lo scenario non è maturo, ha invece risposto che se il contratto si farà, il Pd ci metterà dentro tante cose. 

Per Renzi il patto si può fare, certo, a determinate condizioni. A cominciare da quella riforma elettorale che il sindaco vuole tutta e subito e che invece Angelino Alfano vorrebbe rinviare. E infatti il vis-à-vis tra Letta e Renzi si è concluso con un comunicato incoraggiante ma non conclusivo, una nota congiunta scarna anche se intesa a spandere ottimismo: «Un incontro lungo, positivo e fruttuoso che conferma il nostro comune impegno. Lavoreremo bene insieme». Ma il comunicato non significa che tra i due sia stato siglato un accordo. L’incontro di ieri è come se si fosse simbolicamente sospeso, in attesa di aggiornamenti sulla questione più spinosa di tutte. Il presidente del Consiglio si è riservato un ulteriore approfondimento con Alfano, col quale parlerà domani pomeriggio dalla ambasciata italiana in Sudafrica, al termine dei funerali di Nelson Mandela.

E oramai la questione è arrivata al dunque. Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello da settimane ripetono lo stesso ritornello: visto che abbiamo deciso di abolire il bicameralismo e siamo pronti a far decollare il relativo disegno di legge costituzionale, che senso ha approvare una riforma elettorale temporanea che deve continuare a prevedere la fiducia al governo in due Camere, una delle quali sarà presto abolita? In altre parole, la nuova legge elettorale va approvata soltanto al termine del percorso, parallelamente alla riforma costituzionale che si prepara a cancellare il Senato. 

Impostazione con una sua logica, alla quale anche ieri Renzi ha replicato che occorre invece procedere ad una riforma immediata della legge elettorale, nel caso sciagurato di uno scioglimento immediato delle Camere. Letta ha mostrato di avere un approccio pragmatico, sostenendo che a suo avviso non ci sono ostacoli per una procedura di questo tipo, ma che devono essere d’accordo tutti i partner di governo. A cominciare dal Nuovo Centro Destra di Alfano, terrorizzato dall’idea che una legge elettorale possa aprire la strada ad elezioni anticipate, anche perché un confronto elettorale a breve «rappresenterebbe un omicidio nei loro confronti», confessa un ministro. Quale riforma elettorale? Paradossalmente - come confermato nell’incontro di ieri - questo è un aspetto relativamente spinoso. Letta ha spiegato a Renzi che per quanto lo riguarda lui è favorevole ad una legge «fortemente bipolare», che la sua preferenza personale va al Mattarellum, ma che può andar bene anche un doppio turno di coalizione e preferenze. Un impianto radicalmente maggioritario va bene anche a Renzi che però ha fretta e non soltanto perché punta ad incassare risultati visibili «nei primi due mesi». 

Da - http://lastampa.it/2013/12/10/italia/speciali/primarie/2013/pd/tra-letta-e-matteo-si-lavora-per-siglare-un-patto-vincolante-XeVo0Xd91XLHoFIuwzAfiI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi e lo spettro della palude
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2014, 04:18:56 pm
politica
16/01/2014
Renzi e lo spettro della palude
Il segretario del Pd oggi alle 16 dovrà spiegare al suo partito come intende risolvere il nodo della legge elettorale. L’unica opzione? Chiedere carta bianca

Fabio Martini
Roma

L’uomo nuovo della politica italiana, Matteo Renzi, è al primo passaggio stretto della sua carriera da leader nazionale: oggi alle 16, davanti alla direzione del suo partito, dovrà spiegare come intende risolvere il dossier del quale si è occupato in modo esclusivo, la legge elettorale. Fino a ieri sera, ma stamani sono previsti contatti importanti, Renzi si è visto spalancare davanti a sé la palude: anche per effetto del suo approccio declamatorio e talora provocatorio, gli unici che lo seguono sono i berlusconiani. Con effetti politici che potrebbero rivelarsi molto originali e scivolosi per Renzi: contribuire a rimettere in gioco Berlusconi, tagliarsi la strada verso una soluzione a breve dell’enigma elettorale. 

Renzi è ad un passo dal binario morto, perché quasi tutti i soggetti politici si sono defilati. Beppe Grillo, attraverso il suo “ideologo” Casaleggio, in trasferta a Roma, si è chiamato fuori, confermando che i Cinque Stelle non collaboreranno mai col “sistema”, neppure per riforme che loro stessi dicono di volere. La formazione del vicepremier Angelino Alfano è ansiosissima di trovare un accordo (elezioni anticipate potrebbero segnare la fine della loro breve vita politica), ma si vende cara la pelle e non vuole una legge elettorale che la penalizzi. Berlusconi ha mandato allo scoperto i suoi emissari ma è bastata la sua presenza sullo sfondo per riaccendere una polemica dentro il Pd, quella di sempre: si tratta o no con l’”uomo nero”? Il presidente del Consiglio, col suo pragmatismo al limite dell’agnosticismo, nicchia, è pronto ad offrire la sua sapiente mediazione sul testo di compromesso che fosse maturato. E ieri sera il minimo comun denominatore era un Mattarellum integrale a due turni, ma con tanti scontenti da contentare. 

Oggi dunque è la prima giornata importante della nuova stagione: come ha detto Renzi, le riforme storiche non si fanno a maggioranza. Ma neppure con un accordo esclusivo con Berlusconi, l’unico leader del ventennio precedente che tornerebbe in “vita”, più centrale che mai. E’ dunque probabile che oggi, davanti alla Direzione del Pd, Renzi chieda carta bianca per una trattativa che gli si sta rivelando più complessa di quanto lui potesse immaginare. 

Da - http://lastampa.it/2014/01/16/italia/politica/renzi-e-lo-spettro-della-palude-HJTFhcA54H9gSCQtIJUZ2H/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI I tre motivi per cui il segretario ha voluto incontrare Berlusconi
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 12:14:18 am
Politica
18/01/2014

Fabio MARTINI

La mossa di Renzi divide l’Italia
I tre motivi per cui il segretario ha voluto incontrare Berlusconi

Il Nazareno non è un luogo carico di storia come erano le Botteghe Oscure o piazza del Gesù, ma è pur sempre la sede nazionale del Pd. Un luogo simbolico. Matteo Renzi, volutamente sfidando e provocando la “pruderie” dei suoi oppositori interni, ha invitato in casa sua Silvio Berlusconi, da 20 anni l’“uomo nero” della sinistra italiana, da qualche mese appesantito da una condanna definitiva. L’invito di Renzi, ma anche la semplice decisione di incontrare Berlusconi, dividono il Palazzo, ma soprattutto l’opinione pubblica, come conferma l’appassionato dibattito in corso anche su “Facebook” de La Stampa. La questione divide, le ragioni del “pro” e del “contro” sono sostenute con argomenti importanti, che non possono lasciare indifferente anche chi coltiva un’opinione opposta. E lo spettacolo del pomeriggio, quando Berlusconi “profanerà” la sede del Pd, davanti alle telecamere di tutte le tv, incendierà ancora di più il dibattito.

Renzi ha deciso di incontrare Berlusconi - e di incontrarlo a casa sua - per almeno tre ragioni. La prima è che i suoi predecessori hanno sempre “sognato” di fare un accordo storico con Berlusconi ma non ci sono mai riusciti: D’Alema con la Bicamerale, Veltroni con la riforma elettorale, Bersani col Quirinale. La seconda attiene alla vocazione di Renzi di sfidare le ipocrisie: Berlusconi (a dispetto di una condanna definitiva, che in altri Paesi sarebbe infamante e che da noi gli ha garantito una “espulsione” dal Parlamento), resta il leader di Forza Italia perché quel partito, che rappresenta un quinto degli elettori, si sente rappresentato da lui. E dunque, se l’interlocutore ufficiale resta Berlusconi, perché non incontrarlo? E a quel punto, immagina Renzi, un luogo vale l’altro. Opinabile che sia, questo pensa il leader del Pd. Molto più difficile decrittare ciò che intimamente pensa Renzi attorno al terzo motivo che lo ha spinto ad incontrarsi con Berlusconi: l’accordo con Forza Italia è immaginato da segretario del Pd come premessa per riformare la legge elettorale o come grimaldello per abbattere il governo e aprirsi la strada ad elezioni anticipate? Renzi ha ragione da vendere quando afferma che riforme “istituzionali” come la elettorale impongono un accordo il più ampio possibile, dunque anche con Forza Italia. Ma se il modello elettorale Renzi-Berlusconi (che rappresentano il 46% degli elettori) si rivelasse un prendere o lasciare, allora il gioco diventerebbe scoperto.

Da - http://lastampa.it/2014/01/18/italia/politica/la-mossa-di-renzi-divide-litalia-rQ1MQpkDOOJ3hLMcBcUmBN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Avvicinare gli elettori agli eletti
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2014, 11:45:14 pm
Editoriali
25/01/2014
Avvicinare gli elettori agli eletti

Fabio Martini

Con una speditezza mai vista nella recente storia del Paese, la legge elettorale è uscita dalla palude delle chiacchiere e sta arrivando al dunque. Ma la sacrosanta urgenza non può diventare fretta, anche perché nella bozza di compromesso resta una macchia che, col tempo, potrebbe rimanere indelebile: quella dei parlamentari nominati - come prima - dai capi-partito. 

Da questo punto di vista a ben vedere, se si toglie il Senato, il cosiddetto «Italicum» somiglia assai al «Porcellum». Appartiene alla stessa famiglia concettuale: ne è un figlio minore. Ma in questi anni il tormentone sulla legge elettorale ha finito per fissare nella testa dei cittadini-elettori un’ostilità che supera tutte le altre: quella contro le liste bloccate, che impediscono la libera scelta dei parlamentari. Certo, in una opinione pubblica sempre più informata e avvertita sulle cose della politica, hanno pesato anche altri deficit (premi cervellotici, liste lunghe dei candidati, un Senato copia inutilmente perfetta della Camera), ma è altrettanto vero che nel compromesso raggiunto nei giorni scorsi tra Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Angelino Alfano resta una zoppia che rischia di diventare invalidante: non viene accorciata la distanza tra elettore ed eletto.

In queste ore è in corso una offensiva del «partito delle preferenze», con argomenti meno integralisti rispetto a chi vorrebbe limitarsi a ripristinare senza varianti un regime che nella fase finale della Prima Repubblica ha contribuito alla corrosione e alla fine alla corruzione del sistema politico. La caccia alle tangenti, oltre a rimpolpare le casse dei partiti a Roma, serviva soprattutto ad alimentare le cordate locali delle correnti di partito, macchine da guerra affamate di soldi per eleggere i propri candidati, nei Comuni, nelle Regioni, in Parlamento. Le preferenze, come sistema esclusivo di selezione, esistono solo in Grecia, ma alcuni deterrenti introdotti in questi anni nella legislazione italiana e un loro uso accorto potrebbero consentire di valutarne un ripristino anche per l’elezione di una quota di parlamentari. Non dimenticando che proprio con le preferenze si continuano a selezionare migliaia di consiglieri municipali, comunali, regionali e i parlamentari europei.

Nelle ultime ore si sta facendo strada l’idea di un solo capolista nominato e «bloccato» per ciascuna circoscrizione elettorale, mentre il resto dei candidati potrebbe essere scelto con le preferenze. Potrebbe essere una soluzione ma per evitare il rischio di un effetto «vorrei ma non posso», probabilmente andrebbe corroborata da un impegno formale da parte di tutti i partiti: una preselezione dei candidati con Primarie autentiche. Meglio, molto meglio, se previste per legge. In questi giorni sia Letta che Renzi (oltre ad Alfano e ai centristi che ne fanno una bandiera) hanno detto o fatto capire di essere favorevoli ad un ritorno temperato delle preferenze. Il leader del Pd aggiunge che a lui andrebbero bene, ma è Berlusconi che non le vuole. Non è una scusa, è vero. Il capo di Forza Italia, in cuor suo, ritiene che il sistema delle preferenze non gli consentirebbe di massimizzare il suo potenziale elettorale, perché i candidati di alcuni partiti concorrenti (il Nuovo centro destra ma persino l’Udc) potrebbero sottrargli molti voti. Il caso di Roberto Formigoni, passato con Alfano, è esemplare: come calamita di preferenze per una parte del mondo ciellino, l’ex Governatore avrebbe un appeal assai maggiore che come semplice candidato di una lista bloccata. Ma a questo punto anche Berlusconi, rientrato con piena soddisfazione in campo, è chiamato a qualche sacrificio. Anche perché il Cavaliere ha già espresso un veto significativo: quello contro i collegi uninominali. Un sistema che, in diverse declinazioni, è quello che consente la selezione dei parlamentari nei Paesi leader dell’Europa, Germania, Francia, Gran Bretagna. Al primo veto è stata data soddisfazione. Il secondo rischia di riaprire i giochi e di farli saltare.

DA - http://lastampa.it/2014/01/25/cultura/opinioni/editoriali/avvicinare-gli-elettori-agli-eletti-JU892dYV8Gdo3QSpxdwFcI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi, sbloccata l’impasse: niente vicepremier e i ministri ...
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2014, 12:10:56 pm
Politica
19/02/2014 - retroscena

Renzi, sbloccata l’impasse: niente vicepremier e i ministri saranno 18
Bassanini rinuncia all’Economia: Bernabè in pole

Fabio Martini
Roma

C’era una volta il governo Letta-Alfano, a fine settimana nascerà il governo Renzi, con un leader a tutto tondo, senza vice ingombranti. Martedì 18 è stato il giorno della svolta nella faticosa gestazione del governo, la squadra si è sbloccata e oggi saranno definiti gli ultimi dettagli. Una ventata di ottimismo che potrebbe portare Renzi al Quirinale giovedì sera o al massimo venerdì mattina, comunque in leggero anticipo sulle previsioni. E dunque il 21 febbraio potrebbe diventare il d-day, col giuramento dei ministri. Ieri sera, ma anche durante i colloqui, Matteo Renzi era gasatissimo, determinato a mettere in campo nomi e programmi di qualità, perché, come ha confessato a più di uno, «io mi gioco tutto». Un ottimismo motivato: nel corso della giornata di ieri si sono quasi definitivamente sciolti i due principali grovigli che impedivano a Renzi di poter disporre in campo la sua squadra. Che alla fine non sarà composta da 15 ministri, come sembrava nei giorni scorsi, ma probabilmente da 18, comunque tre in meno dell’esecutivo Letta.

Nelle ultime 48 ore si è arrivati a chiudere sul ministero dell’Economia dopo il rifiuto di Franco Bassanini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti. A precisa offerta, Bassanini si è dichiarato indisponibile e a quel punto si è virato verso il profilo del tecnico con peso politico. Il ministro dell’Economia è stato individuato, «mister x» avrebbe accettato in via definitiva, ma il presidente incaricato non ne ha rivelato il nome né agli alleati e neppure ai fedelissimi. Nome copertissimo e ieri sera, dalle voci che circolavano, la semifinale sembrava essere circoscritta a tre nomi: il governatore Ignazio Visco, l’ex presidente di Telecom Franco Bernabè, il presidente dell’Istat Carlo Padoan. Ma chi ha provato ad interpellare informalmente fonti della Banca d’Italia ha incontrato smentite molto secche, che di fatto escludono l’ipotesi, mentre il nome di Bernabè veniva ipotizzato dallo staff di Renzi come probabile, ma allo Sviluppo economico e non all’Economia. Alla fine il prescelto potrebbe essere il fedelissimo Graziano Delrio? Lui, uscendo dalla lunga giornata di trattative, si è espresso in modo laconico: «No comment». 

Ieri sera ha ripreso a circolare l’ipotesi di uno spacchettamento del ministero dell’Economia, scorporando le Finanze e lasciando accorpati Tesoro e Bilancio, tornando alla configurazione tipica della Prima Repubblica, che negli ultimi anni era stata superata non solo in Italia, con la nascita di una nuova «poltrona», in altre parole con un ministro incaricato di occuparsi soltanto di tasse. E quanto alla trattativa sulla presenza di Angelino Alfano nel governo, è stata fugata l’ipotesi di un suo ridimensionamento, col passaggio alla Difesa, mentre è stato deciso nell’incontro tra Renzi e Ncd che il leader del Nuovo Centro Destra perderà il «pennacchio» da vicepremier. Davvero complicato nel corso di questa settimana è stato trovare un ministro dell’Economia, cuore pulsante di ogni governo. Renzi si era convinto che a via XX Settembre dovesse andare un politico di peso. Una convinzione dettata dalle esperienze più recenti, che hanno visto alternarsi al Tesoro ministri tecnici, personalità di competenza (soprattutto finanziaria) ma disarmati davanti alle insidie dei grandi burocrati e delle paludi parlamentari. Il premier incaricato ha rinunciato ad occupare la casella dei Beni culturali con un vip ed ha accettato di affidare il ministero a Dario Franceschini, che vi ambiva.

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/19/italia/politica/renzi-sbloccata-limpasse-niente-vicepremier-e-i-ministri-saranno-ZT1kAnE4UN6aKAPOdJ46gJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Mancano le personalità “anticonformiste” che tutti si attendevano
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 05:57:42 pm
Politica
22/02/2014

Il ritorno dei politici al potere senza nessun effetto speciale
Soltanto tre tecnici con una spartizione certosina tra i partiti
Mancano le personalità “anticonformiste” che tutti si attendevano

Fabio Martini
Roma

Giovane e giovanile. Discontinuo. Corto e compatto. Con una presenza femminile senza precedenti nella storia della Repubblica. Ma il primo governo di Matteo Renzi è privo del valore aggiunto da lui prodotto in questi anni: quelle personalità anticonformiste, creative e di successo imprenditoriale che hanno animato le ultime kermesse della Leopolda a Firenze. Un buco preannunciato dai no scanditi da alcuni di loro e che nelle ultime 48 ore Renzi non è riuscito a colmare. Come chiosa in confidenza Nichi Vendola: «Non ci sono neppure gli effetti speciali...». 

E quanto al riconoscimento del merito, nel passato più volte proposto da Renzi come un valore di rottura rispetto all’egualitarismo della sinistra, è difficile rintracciarlo, scorrendo le biografie di una parte dei ministri. Ma il profilo del governo guidato dal presidente del Consiglio più giovane della storia d’Italia è connotato da altre tre novità: la fine della lunga delega ai tecnici, il ritorno dei politici, la quasi scomparsa di ministri nati, o attivi, nel Nord produttivo, a favore di una presenza sensibile di romani (ben 4 su 16 ministri) e di emiliani.

Per volontà di Renzi la stagione di deferenza e di delega ai tecnici è finita, o quasi: solo 3 ministri hanno una provenienza esterna al mondo politico, anche se tra i tre è compreso il ministro più importante del governo, Pier Carlo Padoan, che guiderà l’Economia. Il ritorno del primato della politica, preannunciato in questi mesi dal protagonismo poco consociativo di Matteo Renzi, è confermata da una presenza massiccia di ministri politici, 13 su 16, con una percentuale dell’81%, molto più alta rispetto a quella del precedente esecutivo che contava 12 politici «puri» e ben 9 personalità tra tecnici o esponenti della società civile appena arruolati in Parlamento. 

Un ritorno della politica al quale corrisponde anche un’attenzione alle quote spettanti ai partiti, con un dosaggio quasi certosino per quanto riguarda il Pd. Dei 9 ministri di area democratica, la maggioranza filo-Renzi ottiene il 66% dei posti (la percentuale di Renzi alle Primarie era stata del 67,8%), mentre le due minoranze (che avevano ottenuto assieme il 32,2%) ottengono il 33% dei posti nel governo, con l’ingresso nell’esecutivo di due esponenti della minoranza “post-comunista”, Andrea Orlando e Maurizio Martina, e di Maria Carmela Lanzetta, ex sindaco di Monasterace, area Civati.

 

Un ritorno al primato della politica che, nel dosaggio dei ministeri, non si discosta dai classici governi di coalizione. Le due Scelte Civiche, quella rimasta con Mario Monti e quella emigrata al seguito dell’ex ministro Mario Mauro, ottengono un ministero per ciascuna, con un premio speciale per Pier Ferdinando Casini: entra nel governo il suo fraterno amico Gian Luca Galletti, parlamentare e sottosegretario stimato da amici e avversari. 

In realtà Galletti sarebbe dovuto andare alle Politiche agricole, ma all’ultimo minuto l’ennesimo rifiuto (quello del magistrato Nicola Gratteri che sarebbe dovuto andare alla Giustizia) ha rimescolato parecchie poltrone. E quanto al Nuovo Centro Destra, dopo un lungo corpo a corpo, è riuscita a mantenere i suoi tre ministeri e infatti Angelino Alfano non ha fatto nulla per nascondere il suo compiacimento: «Non potevano chiedere di più...».

In termini personali, Alfano è stato il più gratificato, assieme all’area che fa riferimento a Dario Franceschini e a Piero Fassino. Sono infatti vicine al sindaco di Torino, che con Renzi coltiva un rapporto di reciproca stima, sia Federica Mogherini che Roberta Pinotti che a differenza della collega di partito, approda alla Difesa dopo un cursus honorum parlamentare e di governo nel campo delle forze armate, che è iniziato 8 anni fa. In questi giorni Matteo Renzi, con grande tenacia, aveva tenuto duro sulla parità tra uomini e donne, un principio dal quale non ha mai derogato, neppure quando i conti non tornavano.

Non a caso della presenza femminile nel governo, si è fatto abbondantemente carico il presidente del Consiglio: tre delle quattro ministre del Pd (Federica Mogherini, Marianna Madia, Maria Elena Boschi) escono dalla segreteria voluta da Renzi. Il quale, a sua volta, ha limitato al massimo la presenza di ministri renziani: e sono due donne. Curioso lo squilibrio territoriale: dei 16 ministri, 4 sono emiliani, 4 romani, 2 sono i lombardi, i liguri e i toscani, un siciliano, un calabrese. Tra le regioni più popolose e produttive, nessun ministro proviene da Piemonte, Veneto, Campania e Puglia.

Da - http://lastampa.it/2014/02/22/italia/politica/il-ritorno-dei-politici-al-potere-senza-nessun-effetto-speciale-EFdctSSQ87Ai7OunLTRUUL/pagina.html


Titolo: Re: FABIO MARTINI. Renzi: Uno choc all’economia Rispondiamo a chi non ha impiego
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 11:34:09 am
Politica
01/03/2014

Renzi: “Uno choc all’economia Rispondiamo a chi non ha impiego”
Il premier accelera: i mercati ci guardano per capire se facciamo sul serio

Fabio Martini
Roma

A questo punto Matteo Renzi lo sa. A forza di fare annunci impegnativi, in giro per il mondo ma soprattutto da noi cresce l’attesa per i primi provvedimenti del suo governo, destinati a diventare l’unico metro per “misurare” la nuova leadership. Proprio per questo motivo il presidente del Consiglio ha voluto spiegare ai suoi ministri cosa ha in mente. Lo ha fatto ieri mattina, entrando in Consiglio: «I fondamentali della nostra economia sono buoni, come confermano i dati più recenti dello spread e delle aste dei Bot, ma purtroppo i dati sulla disoccupazione sono terrificanti». E dunque, «dobbiamo dare uno choc all’economia italiana, dobbiamo andare fino in fondo con le riforme di cui l’Italia ha bisogno», «i mercati ci stanno osservando, stanno cercando di capire se facciamo sul serio». 

Leader “digitale” sempre ansioso di stare dentro il dibattito-web e che ancora non si trova a suo agio nel Palazzo, Renzi durante il Consiglio dei ministri si è prodotto in uno dei suoi tweet, a commento dei dati Istat appena usciti: «La disoccupazione e’ al 12,9%. Cifra allucinante, la piu’ alta da 35 anni. Ecco perche’ il primo provvedimento sara’ il Jobs Act». Ecco il punto. Matteo Renzi sente crescere attorno a sé l’urgenza delle prime misure, anche se è ben consapevole che i provvedimenti-urto dovranno essere ben calibrati, credibili nelle coperture di spesa. Ecco perché si riserva ancora «due settimane per partire con il Jobs Act», come ha confermato durante la cerimonia di giuramento dei nuovi viceministri e sottosegretari: «Entro 15 giorni metteremo in campo la proposta sul lavoro, che è urgente e non perché ci viene chiesta dalle istituzioni internazionali, ma perché ci viene chiesta dal 12,9% dei disoccupati». Per il piano del lavoro di cui lui parla da mesi, per la prima volta Renzi ha chiamato in causa due ministri: «Lo Sviluppo economico e il Mef dovranno mettere in campo una proposta, che è molto urgente». 

Dunque, il premier si riserva un arco di tempo che gli consenta di presentarsi, il 17 marzo a Berlino dalla cancelliera Merkel, con un piano per il lavoro che non sia un semplice libro dei sogni, ma che possibilmente abbia superato il primo barrage, quello del Consiglio dei ministri. Ma l’idea-forte, la vera novità che Renzi non ha ancora concettualizzato e che però rappresenta, nelle sue intenzioni, il salto di qualità rispetto al governo Letta è il cambio radicale di metodo: niente più interventi e micro-finanziamenti a pioggia o maxi-decreti omnibus, ma invece puntare tutto sulla concentrazione delle risorse, su pochi interventi-urto e di forte impatto.
 
Quali siano i suoi focus, Renzi lo aveva spiegato nei giorni scorsi in Parlamento e ai ministri ha ulteriormente dettagliato: oltre allo sblocco dei debiti della Pubblica amministrazione, al taglio del cuneo fiscale, anche interventi nell’edilizia, riduzioni nei costi per l’energia. Anche se poi, in serata, parlando con i sottosegretari, ha scandito un calendario, al solito molto preciso ed impegnativo: «Nel mese di aprile e maggio affronteremo i temi della pubblica amministrazione», «entro maggio faremo la riforma del fisco», «nel mese di giugno inizieremo il lavoro sulla giustizia», anche perché «il semestre Ue a guida italiana non deve essere quello in cui l’Italia prende la linea ma la dà all’Europa». 

E poi congedandosi dai sottosegretari, li ha voluto investire con una di quelle frasi ad effetto che tanto piacciono al nuovo premier: «Vi auguro di essere all’altezza, è l’augurio che faccio a me stesso e che mi lascia inquieto, come è giusto per chi ha responsabilità così grandi. Il mio augurio è che tornando a casa proviate i brividi, un senso di vertigine e di preoccupazione per questa sfida a cui ci chiama il Paese». 

Ora i vari dossier sono tutti sul tavolo del presidente del Consiglio, con tanto di costi e di possibili coperture. Un lavoro che ha visto impegnati i suoi più stretti collaboratori, e di cui ora sta al capo del governo decidere le priorità e questo è il principale enigma che circonda palazzo Chigi, al di là delle dichiarazioni del suo leader.

Da - http://lastampa.it/2014/03/01/italia/politica/renzi-uno-choc-alleconomia-rispondiamo-a-chi-non-ha-impiego-2f8OIIIFtHKTwSzhR9Y2nL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Quei tre miliardi che possono salvare il piano del premier
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 08:43:54 am
Politica
14/03/2014 - retroscena

Quei tre miliardi che possono salvare il piano del premier
Trattative con Bruxelles per un aumento limitato del deficit al 2,8% del Pil

Fabio Martini
Roma

Quel giovanotto italiano, ripetono a Berlino, piace ad Angela Merkel. Ma lunedì mattina quando accoglierà Matteo Renzi al Bundeskanzleramt, ovviamente la Cancelliera non lascerà trapelare sentimenti. Certo, la Merkel ha avuto l’intuito di puntare su Renzi in tempi non sospetti - era il luglio 2013 quando incontrò in forma riservata il sindaco di Firenze - ma da parte tedesca una naturale prudenza è d’obbligo per diversi motivi. Il primo: Renzi è il quarto presidente del Consiglio italiano nel giro di 28 mesi, un rosario di volti che ripropone la proverbiale litania sull’evanescenza italica. il secondo motivo è più fresco e sostanziale ed interpella Berlino, ma prima ancora Bruxelles: in giro per l’ Europa si è diffusa un’alea di dubbio sugli annunci fatti due giorni fa da Renzi.

Anche se nelle giornata di ieri il «giallo» delle coperture si è avviato verso una soluzione più chiara e che potrebbe segnare una svolta davvero importante nella vicenda del governo Renzi. Mercoledì il presidente del Consiglio aveva fatto capire che il 60% dei tagli delle tasse promesse sarebbe stato finanziato con un aumento del deficit, con una crescita del disavanzo fino a 6 miliardi. In altre parole una lievitazione che sarebbe potuta arrivare fino al 3% del prodotto lordo, soglia considerata a rischio a Bruxelles. Rischio serissimo: quello della procedura di infrazione. 

Ecco perché, per tutta la giornata di ieri, si è dipanata per via diplomatica, una complessa trattativa che ha visti coinvolti palazzo Chigi, ministero dell’Economia e gli «uffici preposti» a Bruxelles e che ha portato a un importante punto di caduta che potrebbe risolvere la querelle: l’Italia è pronta ad impegnarsi con l’Ue per un aumento limitato del deficit, passando dal 2,6 al 2,8, dunque con un incremento dello 0,2% che consentirebbe di «guadagnare» 3,2 miliardi. A questa cifra vanno sommati i 3 miliardi stimati da Carlo Cottarelli come recupero realistico dalla spending review nell’arco del 2014 e dunque sommando le due cifre, si arriva a 6,2 miliardi, guarda caso la stima - grosso modo - indicata da Matteo Renzi ieri sera a Porta a Porta: «Per mantenere la promessa bastano 6,6 miliardi», meno dei dieci su cui si è ragionato per giorni perché tutto partirebbe da maggio e non all’inizio dell’anno, Dunque, se lo «sforamento» dal 2,6 al 2,8% sarà «autorizzato», Renzi sarà a cavallo. 

Ma, con le istituzioni europee in scadenza, ancora prima che a Bruxelles, il presidente del Consiglio italiano dovrà avere il placet nella vera capitale dell’Europa politica: Berlino. Da parte sua Matteo Renzi si è preparato al mini-tour europeo - domani sarà a Parigi per incontrare il presidente Hollande e lunedì a Berlino - con un apparato concettuale che lo mette al riparo da brusche contestazioni: «Ci hanno fatto credere che l’Europa è nostra nemica, e l’Europa ha fatto di tutto per mostrarsi tale ma la nostra scommessa con Bruxelles è che le riforme le facciamo noi». E ancora: «Non teniamo in ordine i conti per fare un favore ai capi di governo, ma perché chi non lo ha fatto in passato, ha sbagliato». Lo schema di Renzi è chiaro: conosciamo il nostro «arretrato», sappiamo le riforme che dobbiamo fare, non chiediamo di sfondare i «sacri» tetti di Maastricht. Ma sul medio periodo - ecco la novità - Renzi si riserva di giocare una partita strategica. Come? Il premier ieri sera lo ha fatto capire sia pure con un brevissimo inciso: «Cosa l’Italia deve fare, gli italiani lo sanno benissimo. Ma non vi stupite se vi diciamo di cambiare regole». Per ora è soltanto una battuta, ma nella quale però si avverte l’eco di argomentazioni care a Romano Prodi, che di queste cose a suo tempo ha parlato con Renzi, e il cui pensiero è questo: «Non è stupido che esistano parametri come punti di riferimento, semmai è stupido che restino immutati per più di 20 anni».

Da - http://lastampa.it/2014/03/14/italia/politica/quei-tre-miliardi-che-possono-salvare-il-piano-del-premier-KqfNkp9HP9WDPEfqYK5SsO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi -Padoan la strana coppia Dopo il gelo è l’ora della ...
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2014, 06:13:33 pm
Politica
03/04/2014 - retroscena

Renzi -Padoan, la strana coppia
Dopo il gelo è l’ora della sintonia
L’assist del ministro: gli 80 euro in busta arriveranno in tempo

Fabio Martini
Roma

Si vedono e si parlano poco, l’essenziale. Comunicano soprattutto grazie ad alcune, fidate staffette. Eppure il rapporto tra Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan per ora funziona e ieri si è consumato un nuovo, significativo passaggio nel rapporto tra i due leader del governo: ad Atene, con la sua risposta incoraggiante sugli sgravi Irpef, («I provvedimenti arriveranno in tempo»), il ministro dell’Economia è come se avesse «bollinato» l’operazione più ambiziosa voluta dal presidente del Consiglio.

È davvero una strana coppia quella formata da Matteo Renzi e da Pier Carlo Padoan. Trentanove anni il presidente, sessantatré il ministro, tra i due ci sono 24 anni di differenza, due mondi diversissimi di appartenenza, due caratteri agli antipodi. Distanze per ora considerate ininfluenti da Padoan, che dice: «I miei rapporti con Renzi sono ottimi». Certo, dopo 40 giorni di convivenza tra i due sarebbe originale se uno dei dicesse il contrario. Certo, Renzi è un accentratore, eppure le parole del ministro finiscono per fotografare l’essenza di un rapporto nato nella reciproca diffidenza e che per il momento sta tenendo, senza strappi. Un piccolo miracolo. In Italia il rapporto tra presidenti del Consiglio e ministri dell’Economia si sono dipanati lungo traiettorie intermittenti, talora conflittuali e questo, al netto dei caratteri dei protagonisti, soprattutto per un motivo istituzionale. In Italia il ministro ha più potere di molti suoi colleghi esteri per una ragione semplice: il capo del governo non può licenziarlo. 

E d’altra parte tra Renzi e Padoan l’incipit non è stato idilliaco. Nei giorni dell’incarico, Matteo Renzi avrebbe preferito all’Economia un ministro politico. Ha provato con Graziano Delrio, ma Giorgio Napolitano (che pure ha una stima speciale per l’ex presidente dell’Anci) ha suggerito un tecnico autorevole e alla fine la scelta è caduta su Padoan. L’assestamento iniziale tra i due non è stato semplicissimo. 

Nei primi approcci Renzi si è mostrato diffidente verso un personaggio circondato da un’aura «dalemiana» e che, oltretutto ha nominato nel suo staff due ex uomini di fiducia di Enrico Letta: Roberto Garofoli (già segretario generale a Palazzo Chigi, ma vicino a Filippo Patroni Griffi) e soprattutto Fabrizio Pagani. Ma a rendere più complicato l’approccio tra premier e ministro ha contribuito anche il carattere di Renzi: il presidente del Consiglio ha subito preso in mano il timone, ha indicato obiettivi e mission, talora evitando di consultarsi con Padoan poco prima di alcuni passaggi dirimenti. Ma il ministro, come riconosce lo stesso Renzi «non è un signor No», Padoan ha dimostrato subito di non essere il classico tecnocrate, confermando quelle doti politiche già dimostrate nel periodo Ocse, quando seppe convivere senza strappi con Giulio Tremonti.

Renzi e Padoan si parlano poco, ma i collegamenti sono tenuti da un terzetto di fluidificatori. Anzitutto il factotum Luca Lotti, personaggio discreto, che non ama apparire, l’uomo più vicino a Renzi. Poi, Enrico Morando, il vice-ministro all’Economia che, da mago della finanza pubblica, sta preparando il Def. E naturalmente un ruolo lo gioca anche Graziano Delrio, il «sottosegretario a tutto» e che finora ha svolto una mole e una qualità di lavoro fuori dall’ordinario. 

Naturalmente non sono tutte rose e fiori. Padoan ha fatto buon viso al cattivo gioco di Renzi, quando il premier ha avocato a Palazzo Chigi la spending review, coordinata da Carlo Cottarelli. Il giorno della presentazione delle famose slide da parte di Renzi, nella sala stampa di Palazzo Chigi, il ministro dell’Economia ha assistito in piedi allo show. E presto Renzi varerà, se non proprio un gabinetto ombra, una nuova struttura di consulenza, diversa dal classico Dipartimento e formata da un pool di economisti, tutti senza retribuzione, ai quali il presidente del Consiglio chiederà contributi e pareri «à la carte». Un modo per rafforzare la squadra del presidente, senza pestare troppo i piedi al suo ministro più autorevole.

Da - http://lastampa.it/2014/04/03/italia/politica/renzi-padoan-la-strana-coppia-dopo-il-gelo-lora-della-sintonia-5O7jYKPVqXkleU3in4gbsN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi: “Pronti a guidare l’Ue L’Italia ha scelto la stabilità...
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2014, 06:06:54 pm
Politica
31/05/2014 - intervista

Renzi: “Pronti a guidare l’Ue L’Italia ha scelto la stabilità Governerò per quattro anni”
Il premier a La Stampa: “Prima dei nomi, mettiamoci d’accordo sull’agenda.
La Germania è un modello, ma basta austerità: dobbiamo cambiare l’Europa”

Fabio Martini
Roma

Sin dalla notte della larghissima vittoria elettorale Matteo Renzi si è imposto un understatement e un profilo basso che hanno di nuovo spiazzato tutti e così, anche chiacchierando nel suo studio di palazzo Chigi con i corrispondenti di alcuni dei più importanti giornali europei che gli chiedono di una sua possibile leadership Ue, lui si vieta ogni trionfalismo: «Non credo che il senso delle elezioni sia che è nato il leader Matteo Renzi. No, il senso delle elezioni è che l’Italia può giocare un ruolo, che l’Italia non è l’ultima ruota del carro, che l’Italia è un Paese che, se cambia, può diventare lei leader d’Europa». In jeans scoloriti, camicia bianca senza cravatta, Matteo Renzi mantiene il suo tono scanzonato e a Philippe Ridet de «Le Monde» che gli chiede un pronostico sul mondiale di calcio, lui risponde: «Sono troppo amico di Cesare Prandelli e poi dicono che se l’Italia vince i Mondiali c’è un punto in più di Pil...». Ma la Francia lo ha vinto nel ’98 e non è arrivato nulla...». Renzi: «Facciamo così, noi lo vinciamo e poi controlliamo, io mi accontento anche di mezzo punto!».

Presidente, è la terza volta in due anni che questo pool di giornalisti viene qui a palazzo Chigi: prima c’era Monti, poi Letta, ora lei. Pensa che il prossimo anno ne troveremo un altro? Quale è la ricetta per restare? 
«Non so se sia un bene o un male, ma credo che per qualche anno non ne vedrete altri! L’Italia ha scelto la stabilità e per noi stabilità significa fare riforme molto dure e molto forti. Possiamo permetterci di dire che vogliamo cambiare l’Europa perché partiamo da noi. Perché da noi, dopo 70 anni, non si è votato per le Province. Perché la riforma elettorale è stata approvata in prima lettura. Perché la riforma della Costituzione è ben incardinata al Senato. Perché la riforma del lavoro, scandita in due parti, è già avviata; perché la riforma della Pubblica amministrazione sarà attuata il 13 giugno; perché la riforma della giustizia sarà presentata entro giugno; perchè il 30 giugno inizierà il processo civile telematico. L’Italia sta profondamente cambiando».

La stabilità consente il cambiamento? 
«Sì, anche perché il segnale delle urne non si presta ad equivoci. È la prima volta dal 1958 che un partito prende più del 40 per cento, allora credo fosse al governo Fanfani: 56 anni fa. Più forte di così gli italiani non potevano parlare».

 

Un voto politico o un atto di fede? 
«E’ difficile interpretare i flussi elettorali, a maggior ragione è difficile interpretare le emozioni elettorali. Penso che le due cose stiano assieme. È un atto di fede, basato su un ragionamento politico. C’è un modo tipico di dire, buffo, dei politici italiani che perdono le elezioni: ah, gli italiani non ci hanno capito... Come se fosse colpa degli elettori! Ma rovesciando quel modo di pensare, si potrebbe dire che stavolta sono stati gli italiani ad aver capito noi, più e meglio di quanto non sia stata capace la classe dirigente, i giornalisti, i politici».

Dopo tanti falsi allarmi, stavolta l’Europa sembra davvero al bivio, ripensarsi o rischiare di perdersi. L’altra sera, alla cena di Bruxelles con gli altri capi di Stato e di governo c’era la percezione di questo bivio o sono state espresse preoccupazioni rituali? 
«Non so valutare le singole posizioni, io dico che se vogliamo salvare l’Europa, dobbiamo cambiarla. Anche nel nostro Paese, quello con la percentuale più alta di votanti e nel quale si è affermato il principale partito al governo, chi ha votato per il Pd ha comunque chiesto di cambiare l’Europa, non di conservarla come è».

Lei sosterrà la candidatura di Juncker alla presidenza della Commissione europea? 
«Il presidente Van Rompuy ha ricevuto un mandato da parte di tutti i governi per trovare un accordo globale, che tenga assieme gli incarichi di maggiore responsabilità. La posizione del governo italiano è molto chiara: nomina sunt consequentia rerum. Prima di ragionare di nomi, mettiamoci d’accordo sull’agenda. Mi interessano più i posti di lavoro che i posti di potere».

Un profilo del leader della Commissione? 
«Deve amare l’idea dell’Europa e oggi i veri amanti dell’Europa sanno che così come è, va cambiata. Deve amare l’Europa, ma con uno sguardo da innovatore».

Dopo le elezioni Europee come sono i suoi rapporti con la cancelliera Merkel? E’ vero che durante la cena di Bruxelles lo ha chiamato «il matador»? 
«Sì matador, ma non d’Europa! Ci siamo messi a discutere cosa significasse matador, l’origine dell’espressione. D’altra parte ci eravamo sentiti il giorno prima per complimentarci reciprocamente».

Sì, ma ora vi attende un confronto che potrebbe vedervi su sponde opposte... 
«Ho un ottimo rapporto con la signora Merkel, ho sempre detto che se l’Italia o altri Paesi hanno dei problemi, la colpa non è dell’Europa. Di più: trovo volgare e inelegante il modo in cui alcune forze politiche hanno cercato di prendere voti, parlando male della Germania. Noi abbiamo preso i voti parlando bene dell’Italia, che però va cambiata. Da questo punto di vista la Germania per me è un modello, non un nemico. Lo è quando penso al mercato del lavoro, o alla sua struttura pubblica. Questo non significa non avere idee diverse su tante questioni. È del tutto evidente che oggi la Germania ha tutto l’interesse che l’Italia corra. E l’Italia ripeterà che l’impostazione di fondo dell’Europa non deve essere centrata soltanto sull’austerità ma anche sulla crescita, l’occupazione e le riforme».

 

Ogni Paese mette sempre grande enfasi sulla propria presidenza dei semestri europei, ma poi è difficile individuare un semestre memorabile. Lei ha una idea-forte per dare un segno italiano al prossimo semestre? 

«Non vorrete mica che ve le dica adesso? Non posso bruciarmi le notizie! So che dal 2 luglio, giorno del mio intervento al Parlamento europeo, il nostro impegno sarà forte anche per la favorevole congiunzione astrale: rinnovo degli organi, soldi della nuova programmazione fino al 2020, necessità condivisa di un cambio di paradigma nelle politiche economiche».

Sull’immigrazione cosa chiederà l’Italia? 
«Prima di chiedere, l’Italia agisce. Veder morire dei bambini di 3 anni in fondo al mare dicendo che non è un problema nostro, è incivile e immorale. È contro le regole del mare e di una cultura dell’accoglienza che era nata nel Mediterraneo: la cultura ateniese e romana. Abbiamo imparato che l’accoglienza e il salvataggio dell’ospite è un valore sacro. Con l’operazione Mare Nostrum stiamo salvando tante persone. Ma L’Europa deve richiamare le Nazioni Unite ad intervenire in Libia e più in generale avere una capacità di gestione dei fenomeni immigratori. Pensiamo che Frontex possa essere utilizzato di più e meglio».

Lo scandalo Expo ha fatto riemergere antichi personaggi... 
«E’ una guerra che vinciamo. Ogni volta che emerge uno scandalo, dobbiamo allarmarci, ma anche rallegrarci che la magistratura funziona. Una certa mentalità non si cambia con un decreto legge. Ma il fatto che un ragazzo con meno di 40 anni rappresenti il Paese, è il segno che gli italiani sono capaci di tutto. Nel bene e nel male».

A gennaio lei disse ad Enrico Letta: stai sereno, nessuno vuole prendere il tuo posto. Oggi pensa che sarebbe stato meglio non dirlo? E perché dopo aver criticato la vecchia classe politica lei ha preso il potere con una manovra che è apparsa di Palazzo? 
«Io ho detto quella frase perché ne ero convinto, profondamente convinto. In quel momento spronavo il governo Letta a rimettersi in moto: era come una macchina che aveva esaurito la batteria. Io ho cercato di dare il mio contributo al governo perché quella macchina ripartisse, ma la macchina non si è riaccesa, non per un gioco di Palazzo ma per una responsabilità di quella classe dirigente. C’è stato un processo di esaurimento di quel Governo, negarlo oggi è anche ingiusto ed io ho molto sofferto dal punto di vista personale. Da parte nostra, assumere la guida del governo è stato un atto di generosità. Io so come sono andate le cose e anche Enrico Letta lo sa».

 Oggi possiamo dirlo? Alle Europee sarebbero arrivati logorati sia il governo che il Pd? 
«Io credo che il tempo sia galantuomo e credo che allora essermi costretto al silenzio sia stato un bene nell’interesse del Pd, del governo e del Paese».

Sinceramente la sua visione di fare politica è cambiata in questi mesi? 
«Intanto è cambiata la mia vita personale nel senso che io vengo da una esperienza amministrativa, della quale ero felice e ora invece passo da questo piano al terzo piano dove c’è l’appartamento del Presidente del Consiglio, ho la scorta che non ho mai avuto in vita mia perché io da sindaco, a differenza di certi politici italiani, viaggiavo in bici tranquillamente per i fatti miei...».

 Ma ora legge e vive la politica in modo diverso? 
«Penso che con un governo di quarantenni, tra dieci anni i rottamati saremo noi e questa è una bella cosa! La politica è un’esperienza straordinariamente affascinante ma non la fai per sempre. Questo mi porta a dire che io vivo con urgenza questo tempo: per me la clessidra è voltata ogni momento, nessun giorno è sbagliato per cominciare a cambiare davvero e da questo punto di vista, ciò mi porta a dire che voglio fare velocemente le riforme. Penso che tra dieci anni mi piacerebbe lasciare anche alla mia terza figlia Ester, che allora sarà maggiorenne, un Paese che sia guida dell’Europa, leader dell’innovazione e capace di attrarre talenti e non di cacciarli».

Come spiega il flop di Beppe Grillo? E Berlusconi è politicamente finito? 
«Guai a pensare che Grillo e Berlusconi siano finiti. L’Italia è capace di tutto nel bene e nel male, è un Paese di genialità e follia allo stesso tempo. Grillo ha avuto un risultato decisamente inferiore alle aspettative, ha nascosto ai suoi che aveva già fatto alleanze internazionali e ha tenuto nascosti anche i nomi dei propri candidati. Però non è finito: finirà se noi faremo le riforme e se saremo credibili. Berlusconi è Berlusconi, ha preso circa il diciassette per cento, un risultato che in Europa molti continuano a definire inspiegabile. Ma è il risultato di un uomo che in questo anno ha avuto una condanna, polemiche a go-go, si è separato da alcuni tra i suoi più stretti collaboratori e comunque continua ad esserci. Io non ignoro nessuno, perché è stato sbagliato in questi anni quell’atteggiamento della sinistra di superiorità morale e intellettuale, tipico dei salotti radical chic. Ma non ho paura di nessuno. Ora dobbiamo solo avere la forza di fare le riforme». 

L’intervista è stata realizzata insieme a Andrea Bachstein (Suddeutsche Zeitung), Lizzy Davies (The Guardian), Philippe Ridet (Le Monde) e Pablo Ordaz (El Pais). 

Da - http://lastampa.it/2014/05/31/italia/politica/renzi-pronti-a-guidare-lue-litalia-ha-scelto-la-stabilit-governer-per-quattro-anni-FfnCBUAae2MAUC0KuEqTKJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. L’America vorrebbe l’Italia protagonista nella stabilizzazione...
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 07:05:40 pm
Politica
05/06/2014 - retroscena

La Casa Bianca investe su Renzi per cambiare l’austerity della Merkel
L’America vorrebbe l’Italia protagonista nella stabilizzazione del Mediterraneo


Fabio Martini
Inviato a Bruxelles

È la sua prima volta e si vede. Matteo Renzi è seduto al tavolo da cena dei sette «grandi» in una saletta del Justus Lipsius, mastodontico palazzo bruxellese in vetrocemento e le telecamere, ospitate per un minuto, indugiano sul viso del presidente del Consiglio: sguardo perplesso, serioso. Non il solito Renzi spavaldo, almeno in quel piano sequenza. Al tavolo tondo, non grande, Renzi è seduto a fianco di David Cameron e al primo ministro giapponese Shinzo Abe, mentre Barack Obama è dall’altra parte del tavolo, con Angela Merkel al suo fianco. Ma poi, durante la cena di lavoro, Renzi torna Renzi, si muove a suo agio anche quando parla della difficile stabilizzazione in Libia, tema del quale il premier italiano si occupa perché così è stato concordato in base ad una divisione di influenza che piacerebbe all’Italia, ma che gli americani per ora stentano a conferire.

Attorno al tavolo del G7, ovviamente per Renzi gli occhi che contano di più sono quelli del presidente degli Stati Uniti: Barack Obama, appena vede il premier italiano scherza: «Vedo che è spuntato qualche capello bianco anche a te!». Ma il presidente americano deve avere un debole per il colore dei capelli, visto che due mesi fa all’Aja, ad un G7 in quel caso straordinario, aveva detto a Renzi: «Anche io quando ho cominciato questo lavoro avevo i capelli neri». Al di là delle battute, quel che conta Obama lo aveva detto a Renzi nel suo recente colloquio telefonico, il giorno dopo le elezioni europee e gli sherpa statunitensi lo hanno ripetuto nelle ultime ore ai nostri diplomatici. Ed è un messaggio molto importante: l’amministrazione Obama giudica con favore il successo del governo italiano alle elezioni, tanto più che quella di Renzi è stata una vittoria in controtendenza rispetto al severo giudizio degli elettori europei sui propri governanti. Ma soprattutto - e questo è il punto cruciale sul quale l’amministrazione Obama insiste in queste ore - Renzi è un leader sul quale gli Usa puntano di più, nella speranza di ribaltare il verbo rigorista della cancelliera Merkel.

Il forte investimento politico su Renzi degli americani non significa atteggiamento acritico: l’amministrazione Usa considera ancora insufficiente la risposta italiana alle pressioni per tornare ad aumentare le spese per la difesa. Gli Usa spingono perché anche l’Italia aumenti gli investimenti fino al 2% del Pil. E d’altra parte, nel corso del recente colloquio Obama-Renzi a Roma, l’Italia aveva proposto di assumere un ruolo più importante in Libia e nel Mediterraneo, ma senza spiegare in che modo. Gli americani vedrebbero di buon occhio un protagonismo italiano nel campo dell’addestramento delle forze militari e della stabilizzazione della Libia, ma dubitano che Renzi voglia arrivare a tanto. E quanto agli F35 restano un problema: lo «scambio» col maggior impegno sulla Libia si potrebbe anche ipotizzare, ma gli investimenti nella difesa dovranno comunque salire.

Questa mattina Renzi incontrerà a quattr’occhi il primo ministro inglese Cameron e la cancelliera Merkel per provare a sciogliere i primi nodi sulle nomine ai vertici delle istituzioni europee. 

Era circolata la voce di una possibile mediazione italiana, scenario improbabile in presenza del mandato già conferito a Herman Van Rompuy. In base alla divisione dei compiti tipico dei G8, a Renzi toccherà una relazione sulla questione energetica, che molto sta a cuore agli americani, impegnati nella mission di convincere gli europei a diversificare di più le fonti di approvvigionamento. Renzi annuncerà a questo riguardo una importante iniziativa: la conferenza internazionale «Roma Energy Initiative». 

Da - http://lastampa.it/2014/06/05/italia/politica/la-casa-bianca-investe-su-renzi-per-cambiare-lausterity-della-merkel-9CWRVM2uRMrxM861eb1FEP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi-Grillo, carta a sorpresa nella strategia del dialogo
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2014, 10:29:29 am
Politica
20/06/2014 - il caso

Renzi-Grillo, carta a sorpresa nella strategia del dialogo
Anche il premier può avere interesse ad avere un altro “forno”

Fabio Martini
Roma

Due milord. Di punto in bianco, nel pomeriggio del 19 giugno 2014 Beppe Grillo e Matteo Renzi hanno cominciato a scambiarsi gentilezze inaudite fino a poche ore prima. Il capo del Cinque Stelle ha scritto sul blog: «Diciamo ai cittadini italiani che non c’è alcuna preclusione da parte nostra ad affrontare anche un tavolo di trattative sulle riforme costituzionali. Vogliamo lavorarci in modo rapido e responsabile, non c’è da parte nostra nessuna intenzione di ritardare il processo». Cassate le consuete insolenze, Grillo adotta un lessico a lui sconosciuto, tanto è vero che il presidente del Consiglio gli ha risposto, sciogliendo i violini: «Nessuno ha la verità in tasca, tutti possono dare una mano». E poi in un crescendo di gentilezze: «Mi avete scritto come presidente del Consiglio e dunque possiamo vederci a palazzo Chigi», «ma avete anche evidenziato - nel vostro ragionamento - l’importanza del successo elettorale (sottolineatura di cui vi sono personalmente grato) che come è ovvio è un successo non del governo, ma del Partito democratico. Se preferite confrontarvi con noi come Pd, allora organizziamo una delegazione del partito. Aspetto vostre nuove».

Certo, nello scambio tra i due sono disseminate anche punture d’ago, ma il senso della pubblica corrispondenza è chiaro: a parole - e con parole dolci - i due dicono di voler dialogare su riforme istituzionali e legge elettorale. A prima vista un cambio di toni quasi epocale. Più leggibile nell’ottica di Matteo Renzi: il presidente del Consiglio sa bene che resta imprevedibile il percorso della riforma del Senato e quello della nuova legge elettorale, a dispetto delle brezze favorevoli degli ultimi giorni. Da questo punto di vista la replica dialogante del presidente del Consiglio a Grillo corrisponde all’istinto di chi accarezza il migliore degli scenari per un leader: poter disporre del maggior numero di interlocutori intercambiabili. Oltre al Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, a Forza Italia di Berlusconi e alla Lega (sul titolo V), ora anche il Cinque Stelle: ben quattro “forni” dove impastare il pane delle riforme. 

Più controversa la lettura della apertura di Grillo. Dall’impenetrabile “cerchio magico” grillino non trapelano chiavi interpretative e uno che li conosce come Beppe Civati, capofila dell’unica minoranza del Pd, sostiene: «Il tono molto dialogante finisce per controbilanciare gli eccessi dei mesi scorsi, quando predicavano il tutto o niente. Comunque sembra essere un rimbalzo tecnico delle elezioni, l’inizio di un nuovo percorso che al momento riesce difficile prevedere».

 Da movimento anti-sistema a partito “tosto” ma dentro il sistema? Spiazzante la lettura di Mario Adinolfi, blogger che da anni segue e anticipa le mosse del Cinque Stelle: «Alcuni segnali e anche alcune voci di dentro autorizzano a pensare che, dopo il successo elettorale di Renzi, sia stato deciso un cambio strategico: l’abbandono del profilo anti-sistema a favore di un populismo che sta al gioco, va a vedere le carte altrui, riservandosi di rompere al momento giusto, attribuendo le colpe a Renzi. La possibile, clamorosa novità potrebbe essere quella dell’occupazione di uno spazio politico spostato verso il centrodestra: questo spiega l’alleanza con Farage, altrimenti inspiegabile». 

Quanto a Renzi, si è messo alla finestra. Anche perché la disponibilità del Cinque Stelle si è manifestata proprio nel momento in cui il convoglio della riforme istituzionali sta arrivando all’approdo. E per Renzi l’abolizione del Senato non è soltanto un obiettivo in sé. Dice un renziano della prima ora come Giorgio Tonini «Questa riforma sarebbe è soltanto un trofeo storico che nessuno finora ha messo sul proprio scaffale; vale molto più dei 500 milioni di risparmio, è un “cip” di credibilità nella futura sfida alle caste conservatrici».

Da - http://lastampa.it/2014/06/20/italia/politica/renzigrillo-carta-a-sorpresa-nella-strategia-del-dialogo-sOFk7NdhgtOjnw9pevYs4J/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Ora Renzi “esporta” la rottamazione ...
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 07:25:22 pm
Europa
02/07/2014 - retroscena

Dopo D’Alema e Letta, tocca a Prodi Ora Renzi “esporta” la rottamazione
Nessun rapporto con il Professore. Oggi discorso di apertura del semestre italiano


Fabio Martini
Inviato a Strasburgo

Se un anno fa avesse seguito il consiglio di Massimo D’Alema («Non candidarti segretario del Pd, diventa europarlamentare...»), oggi pomeriggio Matteo Renzi sarebbe stato uno dei 751 euro-peones chiamati nel Parlamento di Strasburgo ad ascoltare il presidente del Consiglio italiano nel discorso di avvio di semestre. E invece quel discorso lo pronuncerà lui, Matteo Renzi, che un anno fa non ha seguito il consiglio di D’Alema e che poi ha continuato a fare di testa sua, perché - come sta dimostrando in queste ore nella vicenda delle nomine europee - è sua intenzione tracciare una linea indelebile tra la propria generazione e quella che l’ha preceduto. Quella di Massimo D’Alema, Romano Prodi, Pier Luigi Bersani, Enrico Letta. Dai quali, con tanti gesti espliciti e non, sta progressivamente aumentando le distanze. 

Intanto oggi pomeriggio, alle 15, davanti all’Europarlamento, Matteo Renzi pronuncerà il discorso più importante della sua vita politica, lui stesso se ne rende conto, tanto è vero che per la prima volta, ha preparato un testo scritto, dopo aver compulsato libri, computer, ritagli e avere “costruito”, evento raro, un discorso. Come sempre senza ghost-writer. Renzi, che sarà accompagnato da Federica Mogherini, Graziano Delrio e Sandro Gozi, fino a ieri sera ha tenuto le carte coperte sul discorso, che di sicuro conterrà una forte sottolineatura del ruolo del Parlamento rispetto al Consiglio.

Finito il discorso, la prevista conferenza stampa con Martin Schulz è stata annullata: a Strasburgo si sussurra che tra i due non ci sia una buona chimica. In Europa Renzi sta vivendo una luna di miele, ben raccontata dal titolo del “Figaro” che definisce il premier italiano «le coqueluce», il «cocco d’Europa» e lui intende assecondare questa deriva con un discorso “alto”, che dia il senso di un cambio di verso, di una rottura col passato.

La stessa che nelle ultime settimane Renzi sta approfondendo in Italia con la generazione che l’ha preceduto. Anche con microfratture, non percepibili dall’opinione pubblica. A cominciare da un personaggio che in Europa dice ancora molto: Romano Prodi. Un mese fa, quando si trattava di preparare il viaggio in Cina, Paese nel quale il Professore è una autorità riconosciuta, non risulta che Renzi si sia appositamente incontrato o abbia chiesto consigli importanti a Prodi. E la stessa nonchalance, Renzi la sta mantenendo anche nella preparazione del viaggio in Africa, altra area nella quale Prodi ha acquisito prestigio dopo la missione svolta per conto dell’Onu. Naturalmente tra i due c’è un rapporto cordiale, ma l’emancipazione di Renzi dai “seniores” della sinistra italiana diventa ancora più evidente proprio dal confronto tra la prima squadra di Prodi e quella dell’attuale governo. Nel 1996 il cinquantasettenne Professore scelse di affidare i ministeri più importanti a personalità che per lui erano seniores, due ex premier (Ciampi e Dini), il più sperimentato degli ex comunisti (Napolitano), il suo ex professore (Andreatta). A fine febbraio, Renzi invece ha scelto per quei ruoli personaggi dal profilo opposto: giovani, con curriculum meno pesanti, in alcuni casi leggeri.

Sostiene il professor Arturo Parisi, che “studia” e ha consigliato Renzi nella prima ora, ma che poteva essere richiamato alla Difesa e non lo è stato: «Rottamazione sembrava una parola come tante e invece per Renzi è una parola grande come una montagna: con una serie di gesti, comprese le nomine europee, lui intende affermare che la vecchia generazione è fuori e con lui, che è il più “vecchio”, ne inizia una nuova. In questo modo ogni tanto perde per strada personaggi con competenze e alla fin fine conta solo lui? Vero, ma bisogna mettersi nei suoi panni, di uno che ogni volta avrebbe dovuto pensare: se prendo questa iniziativa, cosa penserà il senior in Consiglio dei ministri? Vada sicuro e tranquillo». 

Ecco perché Matteo Renzi non ha mai preso in considerazione di mettere in pista come Alto Rappresentante per la politica estera personalità come Massimo D’Alema ed Enrico Letta, più blasonati di Federica Mogherini, ed esattamente due settimane fa ha iniziato a sondare Angela Merkel su quella candidatura così temeraria.

Da - http://lastampa.it/2014/07/02/esteri/europa/ora-renzi-esporta-la-rottamazione-dopo-dalema-e-letta-tocca-a-prodi-bfIywQoVSbbcZAfzN1JCIM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Scuola, Renzi costretto allo stop. Slitta la riforma
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2014, 09:41:16 am
Scuola, Renzi costretto allo stop. Slitta la riforma
Oggi in consiglio dei ministri, nemmeno le linee guida
Il capo del governo, Matteo Renzi, oggi guiderà il consiglio dei Ministri

29/08/2014
Fabio Martini
ROMA

Le vignette, si sa, sono sempre paradossali, l’Economist oltretutto è un settimanale severo con l’italianità, ma certo la copertina del settimanale britannico che ritrae Matteo Renzi con in mano un gelato mentre la «barca» dell’euro affonda, non è precisamente un tonico a poche ore dal vertice di Bruxelles chiamato a nominare Alto commissario e presidente del Consiglio europeo. 

L’immagine del premier italiano che, come un bambino, si trastulla con un cono, non corrisponde esattamente alle ultime giornate di Matteo Renzi, vissute in modo frenetico, lanciando annunci, cercando coperture, immaginando spot efficaci per il consiglio dei ministri in programma oggi e che era chiamato ad approvare tre importanti provvedimenti su scuola e giustizia e anche il decreto sblocca-Italia. Anche ieri Renzi ha cercato, al suo ritmo incalzante, di chiudere le innumerevoli questioni aperte, ma alla fine ha deciso di ritirare uno dei tre dossier. In serata la gelata, davvero inaspettata: palazzo Chigi ha diffuso un comunicato ufficioso per annunciare che il provvedimento sulla scuola «slitta, ma NON salta, per evitare troppa carne al fuoco».

Una retromarcia inusuale in Matteo Renzi, sempre attentissimo a non contraddirsi. Nei giorni scorso il presidente del Consiglio si era sovraesposto, annunciando che nel Cdm sarebbero state adottate misure «stupefacenti» per la scuola. Negli ultimi giorni erano via via affiorate indiscrezioni, più o meno apocrife, sulle intenzioni del premier e alla fine era emerso il progetto più hard: quello di assumere in pianta stabile centomila insegnanti precari. Progetto quantomai ardito, alla luce del costo dell’operazione (circa 3 miliardi), in un contesto di crescente difficoltà finanziaria. Certo, l’intenzione di Renzi era quello di presentare oggi in Consiglio dei ministri (e poi in conferenza stampa, l’appuntamento preferito dal premier) soltanto le linee-guida della “riforma” della scuola, una scuola più a misura di insegnante e di studente. Dunque soltanto alati progetti da mettere in pratica nel prossimo anno scolastico, senza l’obbligo di una immediata copertura. Eppure, anche quel progetto minimo è saltato.

Da quel che trapela, dal ministero dell’Economia avrebbero fatto presente che il semplice annuncio di misure corpose per la scuola (a cominciare da quella dei centomila), avrebbe innescato una doppia aspettativa, finanziaria e negli interessati, che sarebbe stato molto difficile soddisfare. Tanto più che le misure per la scuola avrebbero richiesto un intervento a breve: le risorse necessarie per il prossimo anno scolastico andavano inserite, scompaginandola, nella legge di Stabilità che il governo si è impegnato a presentare tra 32 giorni.
In compenso sulla giustizia penale e sulla responsabilità civile dei giudici, Renzi ha cercato soluzioni di compromesso per non scontentare troppo Forza Italia e Ncd, mentre è potuto andare dritto sulla riforma che gli stava più a cuore, quella della giustizia civile.

Questa sera, in conferenza stampa, il presidente del Consiglio potrà annunciare - e sbandierare - la promessa di un prossimo dimezzamento delle cause, annosa questione alla quale sono sensibili anzitutto gli imprenditori italiani e stranieri. Ma Renzi non demorde dalla linea degli annunci: lunedì, in una ennesima conferenza stampa, presenterà il programma dei mille giorni. Domani, intanto, il Consiglio europeo nominerà Alto rappresentante per la politica estera Ue Federica Mogherini. Impuntandosi, Renzi l’ha avuta vinta, ma il commento di “Le Monde” è impietoso, definendo questa «una scelta sbagliata» e sostenendo che la candidatura Mogherini «soddisfa diverse condizioni», perché è donna, socialdemocratica e brava con le lingue straniere, «tutte tranne una: l’esperienza - e l’aura personale che questa conferisce».

Da - http://lastampa.it/2014/08/29/italia/politica/scuola-renzi-costretto-allo-stop-slitta-la-riforma-Ey8q5zjNoRRAGXcC19MnQP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. “Spodestati i gruppi di potere”. Renzi esulta sulla scena europea
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:06:03 pm
“Spodestati i gruppi di potere”. Renzi esulta sulla scena europea
Al vertice di Milano incassa il plauso della Merkel: passo importante

09/10/2014
Fabio Martini
Milano

Angela Merkel, con la sua giacchetta bluette, è meno spigolosa del solito; la Conferenza europea sulla occupazione alla vecchia Fiera di Milano si conferma priva di incognite e così, dalle due del pomeriggio alle otto della sera, Matteo Renzi si tiene continuamente sintonizzato con Roma, per aggiornarsi sul faticoso avanzamento in Senato del suo Jobs Act. E quando la legge delega è a un passo dalla approvazione, il presidente del Consiglio ha potuto ragionare, in privato a voce alta. 

Ragionare sul senso di quel che sta accadendo in questi giorni, sulla profondità della svolta in atto. 

In particolare non garba al premier la rappresentazione che viene data della svolta: «Abbiamo compiuto uno strappo, abbiamo una legge che innova fortemente le regole del mercato del lavoro, io rivendico la svolta, ma paradossalmente tutto questo viene presentato come una marcia indietro da alcuni poteri forti, da alcuni giornali, da alcuni ambienti economico-finanziari. E invece si sbagliano: la svolta c’è ed è profonda». Con una conseguenza politica di prima grandezza: «Dopo la riforma del Senato e dopo il Jobs Act, ora la strada è in discesa. Molti capiranno presto che tutto questo è destinato a cambiare lo scenario dei prossimi mesi...». E anche se Renzi non lo dice, probabilmente ci pensa: ora diventa meno complicata anche la madre di tutte le battaglie, quella per l’elezione del nuovo Capo dello Stato, probabilmente nei primi mesi del 2015.

E ripercorrendo il cammino percorso in queste settimane, Renzi ragiona: «Abbiamo attraversato passaggi politici duri, complicati, a cominciare dalla riunione della direzione del Pd, dove è stato detto senza equivoci che si superava completamente la disciplina dell’articolo 18. Il Pd sapeva dove si stava andando e mi ha votato la fiducia. Poi il confronto con i sindacati, poi Poletti è andato in Senato...». Una battaglia dura disconosciuta, secondo Renzi, da quelli che chiama «gli spodestati», «quei gruppi di potere che io non rincorro ogni giorno, come loro vorrebbero, che non mi perdonano perché non li consulto, non concordo nulla con loro...».

E mentre a Roma, il Jobs Act si faceva faticosamente strada, a Milano la Conferenza sull’occupazione si è consumata in un clima senza tensioni.

Naturalmente c’è sempre qualcosa di stereotipato nella familiarità che in pubblico i leader ostentano tra di loro, chiamandosi per nome e scambiandosi complimenti, ma alla fine della Conferenza Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande appaiono davvero rilassati, disposti al reciproco sorriso, come quando il premier italiano commenta così la domanda di un giornalista italiano: «Questo è consueto in Italia, un giornalista, tre domande...», sussurra alla cancelliera tedesca, che ride, assieme ad Hollande. I due leader latini sono di buon umore anche perché la Merkel è apparsa a tutti meno severa del solito, con quella apertura inattesa sul cofinanziamento dei fondi europei, roba da legulei bruxellesi ma che qualcosa vuol dire.

Ma il presidente del Consiglio sapeva in anticipo che la Conferenza milanese sull’occupazione più di tanto non avrebbe portato e alla vigilia l’aveva immaginata soprattutto come una passerella: per questo aveva fatto di tutto, pur di far approvare il Jobs Act a metà pomeriggio, in tempo utile per farsi applaudire pubblicamente dagli altri leader europei durante la Conferenza, la cui conclusione era prevista per la fine del pomeriggio. Ecco perché ieri a fine mattinata Renzi era irritatissimo, quando lo hanno informato che il presidente del Senato Grasso stava gestendo l’aula senza l’autorità necessaria a garantire i tempi previsti e invece facendo slittare l’approvazione della legge delega sul lavoro nella notte.

Nella conferenza stampa finale Renzi ha confermato che «il rispetto del vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil è una questione di “reputation”, di credibilità», «io ho le mie idee sul 3%, ritengo che sia un parametro pensato e immaginato e ideato più di 20 anni fa, in un altro mondo, ma lo rispetto». E ha confermato quel che era ritenuto molto probabile; nella Legge di Stabilità che sarà presentata a Bruxelles il 15 ottobre, il rapporto deficit-Pil per il 2015 sarà al 2,9%. E, dulcis in fundo, la gratificazione della Merkel, che prima di ripartire per Berlino ha definito il Jobs Act «un passo importante».

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/09/italia/politica/spodestati-i-gruppi-di-potere-renzi-esulta-sulla-scena-europea-tn8T4VbNBtmAxD7Z2TaDkM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. E Renzi prepara il piano B: maggioranza alternativa
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:30:15 am
E Renzi prepara il piano B: maggioranza alternativa
Il presidente del Consiglio ha chiesto una risposta “entro domenica”. I suoi sondano i fuoriusciti dai Cinque Stelle per un nuovo gruppo
Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd
06/11/2014

Fabio Martini
Roma

L’incontro a Palazzo Chigi, per una volta, non è stato idilliaco, ma i due si stanno simpatici e così, quando Matteo Renzi si è congedato da Silvio Berlusconi, non è stato scortese: «Su tutto quello di cui abbiamo discusso e sul quale oggi non abbiamo trovato un accordo, mi dai una risposta diciamo entro domenica?». Parole non taglienti ma chiare. È come se Renzi, senza dirlo papale papale, avesse detto: sulla riforma elettorale non tiriamola per le lunghe, anche perché se Forza Italia dovesse tirarsi indietro, a quel punto il governo saprà come regolarsi. E qui c’è la novità, il piano riservato di Palazzo Chigi: allargare la base parlamentare della maggioranza al Senato (dove i numeri sono «ballerini»), aprendo a destra e a sinistra, con la formazione di un nuovo gruppo, nel quale potrebbero trovare ospitalità sia i parlamentari già usciti dal Cinque Stelle, sia quei senatori eletti in liste diverse dal centrosinistra e che nelle settimane scorse si sono avvicinati alla maggioranza. Finora Matteo Renzi non ha spinto su questo acceleratore, gli garba molto di più lo scenario delle larghe intese, ma certo, se Berlusconi non riuscisse a «tenere» nel patto, a quel punto il presidente del Consiglio è pronto ad aprire uno scenario del tutto nuovo: svincolarsi dal regime della doppia maggioranza con Forza Italia e consolidarne una tutta sua.

Della «pratica» si sono già occupati, con la massima riservatezza, il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini e il presidente dei senatori Luigi Zanda. Impresa non semplice, sinora, federare tutti e 15 i senatori «grillini» finora usciti - e quelli che potrebbero uscire - dal gruppo del Cinque Stelle, che tra di loro non si amano e attualmente sono divisi in quattro diverse aree, i 3 di Italia lavori in corso, i 4 di Movimento X, i 6 battitori liberi e i 2 nel Gruppo misto. Con una complicazione in più: che oltre a federare gli ex grillini, poi bisognerebbe trovare un amalgama per tenerli assieme agli altri senatori di diverse provenienze. Uno scenario che Renzi preferisce riservarsi più come deterrente che come prima scelta. 

Anche perché l’ennesimo incontro a Palazzo Chigi tra Renzi e Berlusconi non è andato bene, ma neppure male. Il premier si è presentato col progetto di riforma elettorale che prevede un premio alla lista (e non più alla coalizione) che Berlusconi conosceva benissimo, visto che era stato lui stesso, nell’ultimo incontro con Renzi, a dargli l’ok. Salvo poi ripensarci. Non tanto perché il premio alla lista è ritagliato su misura sul Pd di Renzi: di questo «dettaglio» finora Berlusconi non sembra essersi preoccupato. Il Cavaliere lo ha spiegato al premier: «Capisci che se io dovessi fare una lista unica, nella quale far confluire quelli di Alfano e della Meloni, avrei difficoltà con i miei...». In altre parole ci sarebbero meno posti al «sole» per i fedelissimi di Berlusconi, quelli che non hanno seguito il Ncd e neppure la fronda di Raffaele Fitto dentro Forza Italia.

Ma la vera delusione che Renzi ha riservato a Berlusconi è stata sul calendario. Al premier che chiedeva di «incardinare la riforma elettorale già nelle prossime ore», Berlusconi ha chiesto: ma per andare a votare quando? «Mi devi dare una risposta…». Domanda interessata: Berlusconi non vuole elezioni nel 2015, le vuole più avanti possibile e Renzi ha risposto con abilità: «Al voto non ci penso, ma con la legge elettorale approvata, mi trovo un’arma di pressione per domare la minoranza del mio partito.». Ma il Cavaliere non ha avuto certezze da Renzi neppure sulla questione che più gli sta a cuore: Napolitano lascerà il Quirinale nel prossimo gennaio? Berlusconi ci spera perché in quel caso sarà determinante nella elezione del nuovo Capo dello Stato. Ma se Renzi puntasse ad elezioni anticipate e Napolitano restasse fino a giugno, teme Berlusconi, a quel punto Renzi si eleggerebbe il Presidente con i «suoi» parlamentari.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/06/italia/cronache/e-renzi-prepara-il-piano-b-maggioranza-alternativa-UHWZCRlr4ItQgOLW6DsVCO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi rilancia con Berlusconi: “Italicum rinviato a primavera”
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2014, 05:57:32 pm
Renzi rilancia con Berlusconi: “Italicum rinviato a primavera”
Ritirato l’aut aut del premier. Questa sera vertice di maggioranza
10/11/2014

Fabio Martini
ROMA

A dispetto delle ultime turbolenze Matteo Renzi non ha cambiato idea: Silvio Berlusconi resta l’alleato “giusto” per fare le riforme istituzionali e per questo motivo, pur ripetendo ai suoi che «non si può perdere tempo, siamo all’ultimo sprint, entro Natale dobbiamo portare la riforma elettorale in aula», proprio dagli sherpa di Forza Italia trapela una possibile novità: nelle prossime ore il presidente del Consiglio potrebbe prendere atto che serve ancora un po’ di tempo per confezionare la riforma elettorale. Un messaggio che servirebbe a tranquillizzare alleati e avversari. 

 In altre parole Renzi, dicendolo stasera al vertice di maggioranza o accettando un’agenda parlamentare meno serrata, prenderebbe atto che la legge elettorale può prendere la luce nelle prime settimane della primavera 2015. Se così fosse, maturerebbe una grossa novità, destinata a stemperare tante tensioni. Ma intanto, per tenere alta la temperatura, Renzi ieri sera ha fatto trapelare: «Io voglio lavorare insieme, ma se Forza Italia si tirasse fuori, in Parlamento i numeri ci sono». 

Da quando, 9 mesi fa, si è “preso” Palazzo Chigi, convincendo il Pd e il Capo dello Stato, Matteo Renzi sa di essere arrivato al primo tornante decisivo: riuscire a portare a casa la chiave che può schiudergli il futuro: la riforma elettorale. Se per davvero, nei primi mesi del 2015, il governo dovesse riuscire ad approvarla, a quel punto Renzi sarebbe politicamente molto più forte, perché dotato della più forte delle armi deterrenti: la minaccia, in qualsiasi momento, per poter sciogliere le Camere. 

Certo, l’Italicum, nella sua veste attuale e futura, vale soltanto per la Camera e dunque per il Senato si voterebbe con una legge proporzionale, che renderebbe monca una eventuale vittoria elettorale di Renzi, o anche di uno schieramento alternativo. Nei giorni scorsi si era sentito parlare di una (eventualissima) leggina ad hoc, da approvare prima delle elezioni e valida soltanto per il Senato, ma si tratta di un escamotage “acrobatico” e prematuro rispetto ad un quadro che resta complesso. 

Come confermato dai concetti espressi da Silvio Berlusconi alla “Stampa”: è Renzi ad aver cambiato le carte in tavola, passando dal premio alla coalizione a quello alla lista e comunque il Cavaliere non crede alle promesse del premier di non volere elezioni anticipate. Una messa a punto che non deve aver lasciato insensibile Renzi. Questa sera alle 21 il premier se la vedrà, nel vertice di maggioranza, con il suo principale alleato, il Nuovo Centro Destra di Alfano, che si gioca la sua sopravvivenza futura sulla soglia di accesso al Parlamento per le forze politiche che decidessero di non entrare in uno dei “listoni” dei partiti principali.

Questa sera l’Ncd di Alfano e l’Udc di Cesa e Casini (alla vigilia di una fusione tra i due partiti) si batteranno per tenere la soglia la più bassa possibile rispetto all’8 per cento dell’Italicum originario, quelle delle coalizioni.

Ma in queste ore tiene banco la questione delle possibili dimissioni a fine anno del Capo dello Stato. Una prospettiva che ha ovviamente incoraggiato i mass media ad imbastire improbabili toto-Presidente. Graziano Delrio, durante “L’intervista” a Maria Latella su Skytg24, ha spiegato che il patto del Nazareno riguarda le riforme e non il Colle, concetto ribadito da Maria Elena Boschi. Quale sia l’accordo segreto sul Quirinale, lo sanno soltanto Renzi e Berlusconi, intanto il presidente del Consiglio tiene a ribadire «la massima riconoscenza per Napolitano» del quale si apprezza la nota di ieri, che ha «stoppato illazioni e scenari». 

Sul Jobs Act l’obiettivo di Renzi è quello di chiudere entro l’anno e anche l’atteggiamento verso la Cgil resta immutato: «Opposizione a prescindere». Anche se a Palazzo Chigi non è sfuggito che negli ultimi giorni il fronte sindacale, con Cisl e Uil in piazza, non è più presidiato soltanto da Susanna Camusso.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/10/italia/politica/renzi-rilancia-con-berlusconi-italicum-rinviato-a-primavera-vhDc21cV4r6cMPBtHidJgL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Gli anni della grande bruttezza
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2014, 05:20:04 pm
Gli anni della grande bruttezza
03/12/2014

Fabio Martini

Sembra il plot di un romanzo criminale, la versione casareccia delle storie oblique che negli Anni Venti segnarono l’amministrazione di alcune città americane. Ma Roma si era persa ben prima dell’indagine della procura: già da anni la Capitale è una città senza una guida pensante.

Non è un modello per il resto del Paese. Sempre pronta a tamponare, o ad inseguire, l’ultimo spontaneismo. Dei «tassinari». Dei vigili urbani. Degli occupanti abusivi, quelli di necessità, ma anche quelli di «professione». Persino degli automobilisti: Roma è la città con più macchine e più motorini d’Europa: non è una colpa, ma qualcosa vorrà dire. 

Una capitale con una classe dirigente incapace di badare a se stessa: ormai da diversi anni la dissennata gestione clientelare, a piè di lista, delle casse comunali, ha indotto il Campidoglio a batter cassa a getto continuo, chiedendo aiuto agli altri italiani: negli ultimi cinque anni quattro miliardi hanno tamponato antiche falle, senza poter offrire servizi più efficienti. Per i romani. Ma anche all’altezza del suo ruolo di capitale di tutti gli italiani.

Certo, Roma non è mai stata amatissima dal resto del Paese e ora, se l’impianto accusatorio della procura dovesse trovare ulteriori conferme, potrebbero riprender fiato afflati antipatizzanti sempre pronti a risorgere. L’invettiva, a inizio Novecento, di una personalità come Giovanni Papini («Roma è sempre stata una mantenuta», «città brigantesca e saccheggiatrice») aveva fatto strada, era stata rilanciata sessanta anni dopo da un intellettuale di sinistra come Alberto Moravia: «Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?». Un umore di fondo che negli ultimi anni, persino nella propaganda leghista della «Roma ladrona», si era un po’ spento. Anche perché lo spettro dell’indignazione, a Torino come a Siracusa, si è allargato, comprendendo tutta la casta, senza distinzioni geografiche.

A prescindere dagli sviluppi dell’indagine giudiziaria, la capitale è chiamata ora a fare i conti con se stessa. Col suo ruolo. Con la sua missione. Persino nelle stagioni meno felici della storia italiana, Roma ha emanato un richiamo, un fascino, seppur controverso. Qualche anno fa il comunista Roberto Bentivegna, uno degli autori dell’attentato di via Rasella, ammise: «Il richiamo ai colli fatali non poteva non colpire la fantasia di un ragazzo». 

 Naturalmente ogni stagione coltiva retoriche e missioni diverse. La destra, che ha guidato Roma 65 anni dopo la caduta del fascismo, ha già dimostrato di non essere all’altezza neppure della «sua» tradizione: la dissipazione dei soldi pubblici e la colonizzazione della aziende partecipate da parte della amministrazione Alemanno sono diventati proverbiali e prematuramente appartengono già al giudizio storico. 

Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha dimostrato di essere uomo di forti principii, ma privo di quella «cattiveria» e di quel «tocco» politico indispensabili quando si sfidano poteri forti e radicati nella cultura cittadina. Un sindaco debole nella trasmissione dalla teoria alla pratica: quando ha fatto la scelta «rivoluzionaria» di affidare il comando dei vigili ad un esterno, ha scelto un candidato che non aveva i requisiti e che si è dovuto dimettere. Milano e Torino, a dispetto della crisi, continuano a identificarsi con una cultura imprenditoriale e di efficienza, mentre Roma – come scrisse 40 anni fa Alberto Arbasino – è rimasta una città nella quale dominano «una quantità di piccoli ambienti, minuscoli clan». Nelle prossime settimane si capirà se il più grande scandalo della sua storia, sarà l’occasione del riscatto per una classe dirigente che non abita soltanto in Campidoglio.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/03/cultura/opinioni/editoriali/gli-anni-della-grande-bruttezza-381unpwGOWnzzwi3emSTWK/pagina.html?ult=1


Titolo: Fabio Martini A sinistra di Renzi mancano progetto e leader
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 05:27:03 pm
A sinistra di Renzi mancano progetto e leader
Il malessere sociale aumenta, ma lo spazio politico è angusto.
L’analisi di Fabio Martini

13/12/2014
Fabio Martini

Alla sinistra del Pd aumenta il malessere sociale, ma lo spazio politico è ancora angusto: continuano a mancare un progetto e un leader. 

Il successo, non scontato, dello sciopero generale indetto dalla Cgil e dalla Uil dimostra che si sta consolidando un diffuso malessere sociale e anche politico nei confronti di una leadership stentorea e “antagonista” come quella di Matteo Renzi. Una potenzialità inespressa: sul piano politico nessuno ne trae le conseguenze. 

Più esplicitamente del solito Pippo Civati ha evocato una scissione dal Pd e la nascita di un unico soggetto alla sinistra del partito guidato da Matteo Renzi, ma si tratta di un replay, di un pen-ultimatum che in assenza di conseguenze rischia di non far più notizia. 

D’altra parte la sincera pulsione separatista di Civati, oltre a non essere condivisa dalle altre frazioni della minoranza interna, soprattutto lascia freddi anche gli altri possibili interlocutori degli scissionisti Pd: Sel e la sinistra Cgil. Per due ragioni: Nichi Vendola e Pippo Civati faticano a riconoscersi l’un l’altro come leader di una nuova Cosa. E il capo della Fiom Maurizio Landini, l’unico personaggio capace di mettere tutti d’accordo (come dimostra l’altissimo gradimento nei sondaggi), da parte sua è totalmente disinteressato a questo progetto. L’unica mission che lo attrae è prendere il comando della Cgil.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/13/italia/politica/a-sinistra-di-renzi-mancano-progetto-e-leader-bgjXTvUz3vYqLPhMJPn9yK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Da Renzi mano tesa alla minoranza Pd
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:07:07 pm
Da Renzi mano tesa alla minoranza Pd
Il premier all’assemblea sceglie toni soft ed evita strappi. Ecco perché

14/12/2014
Fabio Martini

Matteo Renzi pizzica ma non strappa. Lancia ponti e non granate verso la minoranza interna, da mesi critica su tutte le principali riforme adottate dal governo. Nel confronto a distanza che divide le due anime del Pd e che periodicamente ripropone (a parole) la questione della scissione, il presidente-segretario non ha risparmiato punzecchiature ironiche ed anche velenose a tutti coloro che non sono d’accordo con lui, ma guardandosi bene dall’invocare misure disciplinari. 

Sui principali dossier, Renzi ha tenuto una “postura” più di sinistra del solito, mentre nel confronto con le minoranze ha tenuto un atteggiamento soft, irrituale per un personaggio che non ha mai disdegnato il confronto aspro. Un atteggiamento prudente dettato da due motivi, entrambi molto significativi. 

Il successo dello sciopero generale del 12 dicembre dimostra che il malessere sociale cresce e oramai si sovrappone ad un malessere verso una leadership vissuta come “grintosa” e divisiva come quella di Renzi. Il secondo motivo è che in vista della difficile elezione del Capo dello Stato, il presidente-segretario ha bisogno di truppe parlamentari il più possibile compatte, nelle quali la legittima area dei franchi tiratori sia circoscritta in proporzioni fisiologiche.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/14/italia/politica/da-renzi-mano-tesa-alla-minoranza-pd-dz76ABD3shRGqji9RGGUEK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Italicum “blindato”, l’ultimo strappo di Renzi
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 11:42:29 am
Italicum “blindato”, l’ultimo strappo di Renzi
Il premier supera il primo scoglio con ottimi numeri, ma mette la fiducia: una forzatura
La discussione alla Camera sulla riforma della legge elettorale

28/04/2015
Fabio Martini
Roma

C’è una gran voglia di Italicum e soprattutto c’è una gran voglia di continuare la legislatura. È inequivocabile il risultato dell’attesissimo voto (a scrutinio segreto) sulle pregiudiziali di costituzionalità e di merito sulla legge elettorale: erano attesi franchi tiratori a decine e invece la maggioranza di governo ha quasi raggiunto la quota massima dei suoi voti potenziali: i 385 voti che hanno respinto le pregiudiziali delle opposizioni, aggiunti ai 12 onorevoli di maggioranza assenti, portano il totale della maggioranza a 396, poco al di sotto dei 403 di cui dispone il governo. La maggioranza ha prevalso con un distacco abissale sulle opposizioni: 177 voti.

Certo, “dentro” i 385 no che hanno respinto le pregiudiziali si può immaginare che ci sia anche una decina di deputati che fanno capo a Denis Verdini, forzista pentito. Per Matteo Renzi un evidente successo, persino superiore alle aspettative, ma con una piccola complicazione politica. Subito dopo le votazioni alla Camera è stato convocato il Consiglio dei ministri, chiamato a porre la questione di fiducia sugli articoli della legge. Alla fine il Cdm ha deliberato la richiesta, che nei giorni scorsi era stata giustificata con la necessità di piegare l’ostruzionismo. Ma dopo la chiara espressione di volontà da parte della grande maggioranza dei deputati, la richiesta di fiducia si configura come una forzatura politica. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/04/28/italia/politica/italicum-renzi-vince-ma-non-si-fida-ZEWJE9zldI9Q9YtXuqin3M/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. “Gli italiani non temano la Grecia”. Renzi prepara il...
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:55:09 pm
“Gli italiani non temano la Grecia”. Renzi prepara il dopo-referendum
Pronte le contromisure per gestire l’ondata anti-euro in caso di vittoria del “no”

Fabio Martini
Roma

A poche ore dall’attesissimo risultato del referendum greco Matteo Renzi sta già calibrando le diverse risposte in caso di vittoria del Sì o del No, ma nel frattempo replica una volta ancora il messaggio rassicurante dei giorni scorsi, oramai un refrain: «Gli italiani non devono avere paura» della crisi greca, dice il premier al Tg5, «l’Italia non teme le conseguenze specifiche sul nostro Paese» e se, negli anni scorsi, assieme alla Grecia eravamo «compagni di sventura, ora non è più così», «noi siamo quelli che risolvono i problemi, non siamo il problema». Nella sua intervista al Tg di Mediaset, Renzi stempera un po’ certe esternazioni dei giorni scorsi sullo stesso tema, nelle quali aveva evidenziato il ruolo decisivo del suo governo nel fare uscire l’Italia dalla crisi del 2011, un approccio da «anno zero» riferito a sé stesso che gli era costata una affilatissima messa a punto del senatore a vita Mario Monti, che intervenendo a palazzo Madama, aveva ricordato il ruolo decisivo del suo esecutivo, con tanto di veto al Consiglio europeo, nel favorire la svolta della Bce, quella sì decisiva.

Ma Renzi lo sa bene: il referendum di Atene coinvolge anche Roma. In caso di vittoria del No al piano europeo e dunque con Tsipras sugli scudi, il premier si è già immaginato i due scenari possibili. Quello interno, per lui, è da brivido: euforia da parte delle forze anti-europeiste - Lega di Salvini e Cinque Stelle di Grillo - ed esaltazione della sinistra radicale (Sel) non anti-euro, ma da più di un anno apparentata con Tsipras. Un fronte composito destinato ad accerchiare il governo (come già accade da settimane nei talk-show), rinfacciando a Renzi una sudditanza alla Merkel. 

Ecco perché - in caso di vittoria del No - Renzi, già da giorni si sta attrezzando ad un rapido contropiede, ad un rilancio fortissimo, interno ed europeo. Provando a cavalcare la tigre del drastico cambio di paradigma, indicando il referendum come prova provata degli effetti nefasti della politica dell’austerity. Un rilancio che Renzi si prepara a fare, anche se paradossalmente con minori «argomenti», anche in caso di vittoria del Sì. 

Ma, qualunque sia il risultato del referendum di Atene, il presidente del Consiglio ha deciso di tamponare la crisi di consenso in atto con una controffensiva all’insegna della «parola ai fatti». Da raggiungersi a qualsiasi costo. Anche di significativi compromessi con la minoranza? Al Senato Renzi ha preso atto che, senza l’appoggio dei 25 senatori che fanno riferimento all’opposizione interna, non ci sono i numeri per far passare il ddl di riforma costituzionale e dunque, già da domani, deciderà come muoversi. 

Nella intervista al Tg5 Renzi ha risposto anche a temi diversi dalla Grecia. Le critiche subite da Diego Della Valle? «Alcuni imprenditori hanno un po’ di mal di pancia, ed hanno espresso delle critiche, tutto è utile. Ma il loro mal di pancia non mi fa venire il mal di testa». Il terrorismo dell’Isis? Renzi ha riferito di aver ricevuto una «telefonata di complimenti» da Obama per l’operazione italiana della settimana scorsa, anche se poi, «guardo i talk show e scopro che si fa polemica anche su quello».

Da - http://www.lastampa.it/2015/07/05/italia/politica/gli-italiani-non-temano-la-grecia-renzi-prepara-il-doporeferendum-mXAPcTyJEswTu39v5pleEP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il Censis e l’Italia di Renzi: “Un Paese che vive alla giornata”
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2015, 07:34:31 pm
Il Censis e l’Italia di Renzi: “Un Paese che vive alla giornata”
La fotografia del Paese nel rapporto annuale: un Paese in cui vincono fenomeni come la «pura cronaca», l’approccio di corto respiro, «il virus della disarticolazione dei pensieri» e del corpo sociale, la povertà di progettazione del futuro

04/12/2015
Fabio Martini

Sostiene il Censis nel suo quarantonovesimo Rapporto annuale: l’Italia contemporanea, l’Italia di Matteo Renzi, è un Paese in «letargo esistenziale» in attesa di una ripresa continuamente annunciata sui mass media, una “tensione” che per ora non si è tramutata in un nuovo investimento collettivo. Perché l’Italia dell’era renziana è un Paese nel quale vincono fenomeni come la «pura cronaca», l’approccio di corto respiro, «il virus della disarticolazione dei pensieri» e del corpo sociale. Una disarticolazione, certo di lungo corso, nella quale convivono interessi particolari, egoismo individuale, una solitudine «di cui si scorge traccia anche nell’ossessiva simbiosi dei giovani con il proprio telefono cellulare», una povertà di progettazione del futuro. Un’Italia guidata da un governo impegnato ad innescare, attraverso il consenso alla sua azione, una mobilitazione collettiva per ora assente, anche per “colpa” dell’altro tipo di pulsione prodotta dall’attuale esecutivo: un decisionismo incardinato su una leadership «troppo accentrata», che premia più le fedeltà che le competenze e che si fida troppo del «puro comando».

Oramai da 49 anni, il Censis e il suo animatore Giuseppe De Rita puntualmente ripropongono un affresco acuto, fuori dal coro, talora profetico sul mutare del costume, delle dinamiche sociali, politiche ed economiche di un Paese del quale sono state sempre sottolineate le potenzialità e le virtù nascoste. Nel Rapporto presentato quest’anno lo sguardo è più perplesso e preoccupato del solito. Segnato da un’analisi puntuale e spesso severa dell’attuale modello di governo. 

Nell’analisi del Censis, la «sconnessione» sociale e un generale pessimismo collettivo sono contrastati «spesso emotivamente» da un «generoso impegno» nel «rilancio del primato della politica», da un «folto insieme di riforme» e tutto questo sforzo, prodotto dal governo Renzi è finalizzato a creare consenso di opinione sulle politiche avviate, scommettendo sul fatto che si possa «innescare nella collettività una mobilitante tensione al cambiamento sociale». Ma questa pulsione positiva attribuita all’attuale governo cade nel vuoto perché mancano una «reazione chimica collettiva e quella osmosi tra politica e mondi vitali sociali che hanno caratterizzato i migliori periodi della nostra storia recente». Una osmosi indirettamente contrastata dal governo dell’uomo solo al comando, che spegne «la centralità del conflitto», per il Censis da sempre fattore

di sviluppo. Ma se l’Italia «non precipita nell’abisso» è per l’effetto di una doppia risorsa, che è anche l’unico spiraglio di ottimismo sul futuro. 

La prima risorsa è la forza del passato, «l’intima sicurezza di non avanzare alla cieca, ma avendo alla base il decoroso modello di sviluppo creato a partire dagli anni ‘70» e «la fedeltà continuata nel primato della diversità dei comportamenti dei pensieri e delle opinioni». Seconda risorsa, la capacità della società di «esprimere una certa dose di invenzione», una capacità che si sviluppa «nell’indifferenza del dibattito socio-politico» e nel disinteresse dei media, assorbiti nella pura cronaca. Esempi positivi di questa capacità, i principali «modelli vincenti»: la naturalezza dei giovani a trasferirsi all’estero o nel tentare le start up; «la naturalezza delle famiglie a mettere a reddito il proprio livello patrimoniale ad esempio con i bad and breakfast; il nuovo made in Italy; l’integrazione crescente tra agroalimentare e turismo; la silenziosa integrazione degli stranieri nella nostra quotidianità. In altre parole, conclude il Censis, riprendendo il filo di tante analisi del passato, il ponte sul futuro è determinato dal “resto” della società, quello che sfugge al potere della politica e all’influenza superficiale dei mass-media.

Da - http://www.lastampa.it/2015/12/04/italia/il-censis-e-litalia-di-renzi-un-paese-che-vive-alla-giornata-Bo4pFHi3RI6unPyadbkBCP/pagina.html


Titolo: F. MARTINI. L’ex premier le polemiche contro la Ue alimentano l’anti-italianismo
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2016, 05:04:51 pm
Letta: “Italia sempre più isolata in Europa, c’è il rischio di diventare una seconda Grecia”
L’ex premier: le polemiche contro la Ue alimentano l’anti-italianismo
Secondo Letta all’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, «un’Europa nella quale torni la parola solidarietà»


03/02/2016
Fabio Martini
Roma

Nel suo studio a Sciences Po, l’Istituto di studi politici, una delle Grandes Ecoles di Parigi, Enrico Letta scruta la carrellata delle notizie del giorno e si ferma sul documento di apertura alla Gran Bretagna del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. E commenta: «Col prossimo referendum, perdere la Gran Bretagna sarebbe, per davvero e non retoricamente, una spinta verso la dissoluzione dell’Europa. Immaginiamo la Gran Bretagna che lascia l’Unione vista con gli occhi degli asiatici o dei brasiliani: dopo tanti allargamenti sarebbero autorizzati a pensare, e non solo loro, ad un fatale arretramento. Dobbiamo saper cogliere l’occasione del referendum inglese per riformare l’Europa: così non va. Ma non la si riforma con l’anti-europeismo facile».

Oramai nell’opinione pubblica cominciano ad insinuarsi domande di fondo, semplici: questa Europa serve all’Italia? Quale Europa serve all’Italia? 
«All’Italia serve stare in Europa anzitutto perché la geografia e la storia ci hanno immerso in un mare instabile. Per decenni abbiamo appaltato la politica di sicurezza agli americani e dunque se non stiamo dentro una rete di alleanze, dentro un sistema di difesa e di sicurezza, rischiamo di affondare. All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, perché soluzioni nazionali non esistono. Non dobbiamo assolutamente staccarci, isolarci». 

Il «Financial Times» torna ad evocare per l’Italia un destino greco: drammatizzazioni senza fondamento? 
«Quando leggo cose come quelle che scrive il “Financial Times” mi preoccupo. Questo tipo di politica italiana verso l’Europa, molto aggressiva e incattivita, finisce per isolarci e rischia di farci diventare una seconda Grecia, piuttosto che il centro dell’Europa. Ma il nostro destino è sempre stato e deve restare lo stesso: Francia e Germania. Sì, devo esprimere una preoccupazione: ci stiamo isolando in modo preoccupante».

In questi giorni si è chiarito una volta per tutte il vero nervo scoperto di Berlino e Bruxelles: i conti italiani non tornano e metterebbero di nuovo a rischio il resto dell’Unione. Ma non è legittima la via italiana: meno tasse, un po’ di deficit per alimentare la domanda? 

«È evidente che non è facile chiedere flessibilità con una legge di stabilità in deficit e priva di spending review. Se la flessibilità diventa uno strumento per fare deficit, ci sono problemi. Il governo sta alzando la voce per coprire questa legge di Stabilità».

Ora è facile negarlo, ma nel periodo nel quale ha governato il Paese le è venuta la tentazione di una scorciatoia, magari nel tentativo di far slittare uno dei termini di «rientro»? 
«Nel breve periodo nel quale sono stato presidente del Consiglio la mia preoccupazione era quella di far uscire l’Italia dalla procedura di infrazione e in quella fase non era possibile immaginare altro. L’obiettivo lo abbiamo raggiunto, sono soddisfatto: è bene ricordarsi dove eravamo. Per evitare di tornarci».

La politica europea sull’immigrazione è entrata in una crisi inimmaginabile ancora qualche mese fa: un’Europa così non serve all’Italia... 
«All’Italia serve un’Europa capace di gestire sicurezza e migrazioni, un’Europa nella quale torni la parola solidarietà, parola che fino a qualche tempo era considerata impronunciabile perché erano altri i termini che contavano, a cominciare da competitività. Solidarietà è una parola che oggi pronuncia la Germania, dopo la decisione di accogliere un milione di rifugiati. La pronuncia l’Italia che ha bisogno di solidarietà nella gestione dei flussi migratori».

Italia che sembra al centro di un ricatto: se c’è una seconda frontiera dietro le Alpi, noi non siamo dentro una tenaglia? 
«Per noi il più grande pericolo è una mini-Schengen che escluda i mediterranei: un pericolo mortale. Vorrebbe dire che l’Italia esce dal cuore dell’Europa. E il cuore dell’Europa è passare le frontiere senza passaporto. Ma noi dobbiamo essere paladini di una vera battaglia, che non può essere quella per i 281 milioni sui fondi per i rifugiati. Dobbiamo batterci per realizzare un corpo di polizia frontaliero: cinquemila uomini, capaci di gestire, e bene, la frontiera esterna dell’Unione. Un vero corpo europeo. Con agenti italiani all’aeroporto di Berlino e tedeschi a quello di Atene. Non sarebbe una spesa in più ma una spesa in meno rispetto alla prospettiva di nuove frontiere interne. Se non si fa così, muore Schengen. Si fa una mini-Schengen che ci escluderà, perché la geografia ci penalizza».

Ma complessivamente non resta un forte pregiudizio anti-italiano a Bruxelles, retaggio di vecchie politiche e di vecchie leadership? 
«Se il debito resta enorme, quelle sono cifre, non pregiudizi. Dell’Italia ci si può fidare ma in un tempo nel quale la comunicazione pesa, i giornali si leggono e si traducono, prendere a male parole o fare la politica del capro espiatorio con Bruxelles non funziona. Lo so che far polemica è un gioco per prendere voti in Italia. Ma attenzione all’effetto-paradosso: una polemica anti-europea per contendere voti a Grillo e Salvini, finisce per alimentare l’anti-italianismo all’estero e l’anti-europeismo in Italia. Soffiare su quel fuoco lì è un gioco a perdere. Non è con l’anti-europeismo che si cambia l’Europa, che invece va riformata. E non è con il nazionalismo che si salva l’Italia».

Regolamentazioni come il bail in servono all’Italia? 
«In questo campo la battaglia italiana, anche nei confronti della Germania, non può essere quella dallo zero virgola col cappello in mano, ma invece quella di completare l’Unione bancaria, che è rimasta a metà, assieme al fondo di garanzia europeo. La strada la sta indicando Draghi: occorre completare l’Unione economica e sociale».

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/03/esteri/letta-ma-se-litalia-continua-cos-rischia-un-pericoloso-isolamento-rGdgdh8yojGBiesBGYpAxO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Si teme il complotto estero per un nuovo governo
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 18, 2016, 12:04:44 pm
Si teme il complotto estero per un nuovo governo
I sospetti dei renziani: il senatore ha mandanti per aprire ad altri le porte del governo


18/02/2016
Fabio Martini
Roma

Tra le pareti di mogano e i velluti vermigli di Palazzo Madama, sul far della sera è andato in scena il più plateale duello mai visto da molti anni a questa parte tra la «vecchia» Italia europeista e trattativista di Mario Monti (ma anche di Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Enrico Letta, Mario Draghi) e l’Italia delle «spallate» di Matteo Renzi, l’Italia che febbrilmente percepisce la crisi di una Europa sull’orlo dell’infarto politico, monetario ed istituzionale. E reagisce. Puntando i piedi, reclamando il proprio spazio. Tra un’Italia che ammette di essere fonte di rischio per tutti e un’Italia che lo nega. Tra un’Italia sempre e comunque alleata di Berlino e Bruxelles e un’Italia che non dà più nulla per scontato.

Un affilatissimo duello, quello tra Mario Monti e Matteo Renzi, che è stato preceduto da una sequenza silenziosa ma eloquente: il presidente del Consiglio stava illustrando la posizione dell’Italia rispetto al vertice europeo di oggi e domani e proprio a metà intervento è arrivato in aula l’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano, che si è seduto a una poltrona di distanza da Mario Monti. Appena Renzi ha concluso il suo intervento, i due Presidenti sono restati a braccia conserte, neppure un timido battimani. Subito dopo il presidente del Senato Pietro Grasso ha salutato una scuola presente in aula, parole che Napolitano e Monti hanno mostrato di gradire di più: hanno applaudito tutti e due.

 Anche se oggi i rapporti tra i due non sono più quelli di una volta, Giorgio Napolitano e Mario Monti sono stati i protagonisti di una delle operazioni politiche più controverse degli ultimi anni: il «dimissionamento» forzato di Silvio Berlusconi nel novembre del 2011. In quella occasione in tanti ipotizzarono un «concorso» internazionale (da Obama alla Merkel) nella rimozione della «mina» Berlusconi, sta di fatto che ieri sera, quando si era concluso lo scontro in aula tra Renzi e Monti, un senatore renziano ha sussurrato: «Se il professor Monti ha mandanti internazionali per aprire la strada a qualcun altro, stavolta gli andrà male». A palazzo Chigi qualche sospetto comincia a serpeggiare su possibili movimenti ostili dalle parti di Berlino, Bruxelles, Londra e Washington, un sospetto avvalorato degli editoriali decisamente critici con Renzi, usciti negli ultimi venti giorni su testate come Financial Times, Frankfurter Allgemeine, New York Times. 

 E d’altra parte nel duello di ieri al Senato sono affiorate due visioni opposte dell’Italia in Europa. L’Italia di Renzi è quella che preannuncia con largo anticipo un possibile veto al Consiglio europeo e lo fa in «Eurovisione». Ad un certo punto, intervenendo in Parlamento, Matteo Renzi ha fatto cenno alla possibilità che l’Italia possa porre il veto al tentativo di mettere un tetto alla presenza di titoli di Stato nel portafoglio delle banche europee, con allusione a Deutsche Bank, chiamata in causa dal capo del governo, quando ha detto che «nella pancia di alcune banche europee c’è un eccessivo numeri di derivati e titoli tossici». Attacco esplicito, pesante, anche sprezzante del pericolo. 

L’altra Italia, quella della trattativa, nel passato ha usato altri metodi. Opposti. Esemplare il caso del Consiglio europeo del giugno 2012, dove si sommarono trattative felpate e un veto calato al momento decisivo. Erano le settimane nelle quali il sistema dell’euro era sull’orlo della rottura, la cura da cavallo imposta dal governo Monti non riusciva a debellare lo spread e in quella occasione il presidente del Consiglio, per forzare le resistenze della Merkel, preparò riservatamente una rete di alleanze, in particolare con Obama, col neo-presidente francese François Hollande e col primo ministro spagnolo Rajoy. E così, durante un Consiglio durato ininterrottamente 15 ore, prima la Spagna e poi l’Italia minacciarono di porre il veto e alla fine, con la Germania sulla difensiva, si posero le premesse politiche per la successiva dichiarazione di Mario Draghi: il famoso «whatever it takes», che pose fine all’assedio a Roma e Madrid sui mercati finanziari.

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/18/italia/politica/i-sospetti-a-palazzo-mandante-estero-per-un-nuovo-governo-xTVAz7X1j760PmHslk0cPI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi sceglie la prudenza: “In Libia niente fughe in avanti”
Inserito da: Arlecchino - Marzo 04, 2016, 11:40:17 pm
Renzi sceglie la prudenza: “In Libia niente fughe in avanti”
Il presidente del Consiglio comprende le richieste degli alleati di un intervento, ma vuole rinviare la decisione: nessuna accelerazione

04/03/2016
Fabio Martini
Roma

Nel salone dei ministri, il Consiglio era iniziato da 35 minuti. la riunione stava scorrendo senza asperità, ma alle 10,55 è arrivato il primo dispaccio di agenzia: «Forse uccisi due ostaggi su quattro in Libia». Nelle ore precedenti Matteo Renzi era stato preavvisato che erano in corso le dolorose verifiche, tipiche di questi casi, ma l’ufficializzazione (o quasi) della morte de due italiani ha contrariato il presidente del Consiglio. La morte violenta di connazionali in operazioni belliche è considerata da sempre una vera iattura per tutti i capi di governo, anche per quelli meno condizionati dai mutamenti quotidiani dell’opinione pubblica e anche per questo motivo Renzi ha cercato subito di capire la dinamica nella quale erano morti i due italiani. Tragica casualità o «avvertimento» in vista di un possibile ruolo protagonista dell’Italia nella guerra all’Isis in Libia? 

Domande e risposte decisamente importanti. Assieme ai ministri del «ramo» (Gentiloni, Pinotti, Alfano) Renzi ha incontrato i vertici dei Servizi e alla fine, in mancanza di una versione definitiva, per tutta la giornata il presidente del Consiglio ha preferito non esporsi pubblicamente. E dunque fa testo quel che Renzi ha detto in sedi informali. Il primo concetto espresso dal capo del governo a Palazzo Chigi è chiaro: «Io non mi faccio dettare la linea dai giornali», alludendo alle ennesime fughe di notizie, comparse ieri mattina, circa un impegno dei militari italiani in operazioni di guerra in Libia. Un fastidio dettato non soltanto dall’insofferenza che Renzi prova verso tutti coloro che, pensa lui, provano a forzarlo in una determinata direzione. In realtà il presidente del Consiglio è interiormente diviso. Da una parte comprende le ragioni di chi - Usa in testa - è pronto a legittimare una leadership italiana, in cambio però di un intervento armato, con tanto di scarponi sul deserto. Ma a contrastare questo «imperativo categorico» della Realpolitik, in Renzi gioca l’istinto, che continua a consigliargli di rinviare il più possibile il momento della scelta: o dentro o fuori. E infatti anche le esternazioni riservate di queste ore da parte di Renzi risentono di questa divisione interiore: da una parte Palazzo Chigi cerca di non farsi imporre la linea dai mass media, dall’altra il presidente del Consiglio non nega che, prima o poi, i nostri militari possano entrare in azione. Ma colloca quel momento in una fase non immediata. Ecco le sue parole informali nella giornata di ieri: «Su questo terreno ci vuole prudenza. Nessuna fuga in avanti. La situazione è troppo delicata perché ci si lasci prendere da accelerazioni». 

E quanto alla morte dei due italiani, Renzi è stato ancora più prudente: in casi come questi, dice, occorre agire «con prudenza, silenzio, serietà, affidabilità». Una linea sulla quale trova il consenso di uno, come Romano Prodi, che conosce bene la realtà libica. Al punto che diverse fazioni locali avevano chiesto a Palazzo Chigi un suo ruolo di mediazione. Dice Prodi: «Il nostro presidente del Consiglio ha detto che l’intervento militare può arrivare solo dopo la richiesta di un governo libico unitario, dal quale siamo lontanissimi. Non c’è una situazione per cui si possa in questo momento intervenire». Esattamente la linea di Renzi, anche se poi Prodi avvalora una interpretazione - poco incoraggiante per il governo - sulla morte dei due tecnici: «Avere quattro ostaggi italiani per l’Isis è un formidabile strumento di pressione. Perciò sono propenso a credere a qualcosa di deliberato, più che a un incidente». 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/03/04/italia/politica/renzi-sceglie-la-prudenza-in-libia-niente-fughe-in-avanti-yz4nLVtxDSmrIuGy9Xue0H/pagina.html?wtrk=nl.breakingnews.20160304.


Titolo: FABIO MARTINI. Forze ostili ad Al Sarraj dietro l’esodo di massa
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2016, 06:11:43 pm
Il silenzio di Renzi sui migranti morti in mare e il timore per il caos in Libia
Forze ostili ad Al Sarraj dietro l’esodo di massa
Il premier Matteo Renzi ha ribadito il sostegno al governo di unità nazionale libico

30/05/2016
Fabio Martini
Roma

Parlare, non parla. Sull’angoscioso infittirsi negli ultimi giorni degli sbarchi e dei morti, il loquacissimo presidente del Consiglio per una volta preferisce non aggiungere altre parole in pubblico. Ma in sede più riservata Matteo Renzi riconosce che è stata «una settimana terribile». Anche perché da ieri sera non è più vero quel che Renzi, numeri alla mano, ripeteva da settimane: «Non siamo all’emergenza», perché - sosteneva il capo del governo - la quantità di migranti approdati in Italia dal primo gennaio è inferiore a quelli arrivati nello stesso periodo del 2015. 

Vero sino a sabato mattina, mentre da ieri sera quella constatazione del capo del governo è meno vera: secondo i dati dell’Unhcr, la quantità di migranti approdati in Italia dall’inizio del 2016 è salito a quota 46mila. A questo punto in sostanziale equilibrio con i numeri dello scorso anno. 

Ma di questi 46mila, ben 15mila sono arrivati nell’ultima settimana: un terzo del totale in sette giorni. È del tutto evidente che se il trend proseguisse con questa intensità per tutta l’estate, allora scatterebbe davvero l’emergenza. A palazzo Chigi fanno gli scongiuri. E per il momento glissano, e comprensibilmente, su due dati molto seri. Al momento non declinabili pubblicamente. 

Il primo dato riguarda i centri di accoglienza: oramai scoppiano. Davanti ad un infittirsi degli arrivi, la prima, autentica emergenza scatterebbe proprio nei centri, “tarati” sulle quantità degli ultimi anni. Il secondo elemento allarmistico è un sospetto: una parte dei barconi (in arrivo quasi tutti dalla Libia), potrebbe essere “indirizzata” da forze ostili al governo libico guidato da Al Sarraj, forze interessate a destabilizzare con tutti gli strumenti possibili il nuovo esecutivo, che fatica a consolidarsi. E c’è una terza considerazione che circola in queste ore: è vero che i migranti che si stanno indirizzando non sono “deviati” dalla Siria. Ma cosa accadrà se dovesse riaccendersi anche quel flusso?

Ma nella giornata di ieri a palazzo Chigi hanno dovuto fare i conti anche con la diffusione pubblica di una lettera che il governo italiano conosceva già da quattro giorni. Il 25 maggio il direttore generale del Dipartimento immigrazione a Affari interni della Ue, Matthias Ruete, ha scritto al capo della polizia italiana Franco Gabrielli e al capo del Dipartimento per l’Immigrazione, Mario Morcone. Una lettera nella quale, dopo aver riconosciuto alcuni meriti alla amministrazione italiana, si introduce un nuovo elemento di accusa: la maggior parte degli sbarchi in Italia avverrebbe al di fuori degli hotspot. Ruete chiede conto del ritardo col quale si starebbe provvedendo alla creazione di team “mobili”, capaci di trasferirsi da un porto all’altro allo scopo di identificare i migranti. 

Ma soprattutto nella lettera si chiede come mai i Cie, i centri di identificazione ed espulsione, continuino ad avere una così bassa capienza. Ruete è un funzionario, non un’autorità politica e non è a lui che il governo italiano deve una replica. Davanti all’infittirsi dell’emergenza ieri Renzi ha preferito non esporsi e riflettere. Le ultime considerazioni le ha affidate sabato sera al quotidiano “Avvenire”: «L’Italia è un modello nel mondo e ci è stato riconosciuto dal G7» ma a questo punto, “o l’Europa adotta il Migration compact”», oppure «l’Italia dovrà fare da sola». Lo scatto strategico operato da Renzi col piano per l’Africa effettivamente è stato apprezzato da diversi leader, ma ha bisogno di tempo, molto tempo.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/30/cultura/opinioni/editoriali/il-silenzio-di-renzi-sui-morti-e-il-timore-per-il-caos-in-libia-Ds6Mg37P7DOMVq9bwUreqI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il premier cerca di rompere l’isolamento russo e bacchetta ...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 29, 2016, 06:23:30 pm
La sponda di Renzi allo Zar sulle sanzioni: pronto a chiedere un chiarimento a Bruxelles
Il premier cerca di rompere l’isolamento russo e bacchetta l’Ucraina
Il Presidente russo Vladimir Putin accoglie Matteo Renzi: «Il premier italiano è un grande oratore» ha detto il presidente russo

18/06/2016
Fabio Martini
Inviato a San Pietroburgo

Nell’avveniristico Centro congressi voluto dal presidente Putin, cinquemila «nuovi ricchi» russi stipati in un’enorme platea stanno ascoltando Matteo Renzi, impegnato in un dibattito con «zar» Vladimir e con il presidente kazako Nursultan Nazarbayev e alla fine gli applausi per il presidente del Consiglio italiano sono decisamente più numerosi di quelli tributati poco prima al padrone di casa. Passa qualche minuto e Putin chiosa: «Matteo è un grande oratore, lo dico sinceramente…» , sorride lui e sorridono anche in platea. Difficile leggere negli occhi di Putin e capire se nella sua espressione ci sia più ironia o ammirazione. O addirittura gratitudine per l’amico italiano, l’ultimo di una triade russofila, avviata da Berlusconi e Prodi. Renzi è venuto qui, nella città natale del presidente russo e ha pronunciato parole mai sentite da parte di un leader occidentale, da quando la Russia è sotto sanzioni. E lo ha fatto nel giorno dello schiaffo alla Russia sulla questione del doping.

Col pragmatismo che da sempre connota la sua posizione, Renzi sulla vicenda delle sanzioni alla Russia ha detto: «Pacta sunt servanda: abbiamo fatto sforzi per arrivare al protocollo di Minsk e tutti, dico tutti, devono rispettare gli accordi». E per chi non avesse capito, Renzi specifica meglio chi siano tutti: «Tutte le parti, non una sola» e quindi non soltanto «i separatisti» filo-russi, da tempo sotto accusa da parte degli Stati Uniti e della Ue, ma anche il governo ucraino, che - fa capire Renzi - sinora non sta rispettando parti dirimenti di quel protocollo. Uno su tutti: l’attuazione della nuova Costituzione federalista, che attribuendo poteri alle realtà locali, è osteggiata dal governo di Kiev. 

Come dire: anche i nemici di Putin stanno violando gli accordi. Una posizione pragmatica, che spariglia quella «politicamente corretta» e prevalente in Europa e rispetto alla quale Renzi anticipa una novità: «Nella riunione degli ambasciatori che precede ogni riunione del Consiglio europeo, chiederemo che di sanzioni si discuta in sede di Consiglio e si possa sentire quale è stato dell’arte sull’ attuazione di Minsk». Conclude Renzi: «Le sanzioni non si rinnovano in modo automatico ma il punto chiave è che, o c’è un dibattito politico dentro il Consiglio su quello che sta avvenendo, o le sanzioni e le contro sanzioni diventano ordinaria amministrazione». 

L’Italia ha iniziato a far da apripista un anno e mezzo fa, nel tentativo di rompere l’isolamento russo: nel marzo 2015 Renzi è stato il primo leader occidentale a far visita a Putin, fresco di sanzioni. E ora, da apripista diventa battistrada, annuncia pubblicamente di voler trasformare la vicenda-sanzioni in una questione politica di prima grandezza per tutta la Ue. Nella seconda giornata del Forum economico di San Pietroburgo, una sorta di «Leopolda» putiniana, visto che nacque 20 anni fa su iniziativa di un Vladimir ancora agli albori politici, si sono intrecciati diversi piani: l’Italia e Renzi ospiti d’onore, il bilaterale tra i due leader. E il format originale deciso da Putin per il pubblico dibattito: Fareed Zakaria, una delle star della Cnn, ha intervistato il presidente russo, Renzi e Nazarbayev. Putin, dopo aver letto (nella noia generale) il testo iniziale, ha risposto a braccio ed è stato protagonista di uno show, nel corso del quale ha aperto alla proposta americana di un governo in Siria comprensivo di tutte le fazioni in campo, salvo poi sfumare sul destino di Assad. Gelida anche la sua ironia. A Renzi, che poco prima aveva detto che entro il 2017 l’Europa o cambia «o muore», Putin ha replicato: «Renzi mi ha fatto paura quando ha detto che l’Europa può morire... È terribile... L’Europa è l’Europa, non finirà mai».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/18/esteri/la-sponda-di-renzi-allo-zar-sulle-sanzioni-pronto-a-chiedere-un-chiarimento-a-bruxelles-suaYTHC4kkiW9Itz3DineP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. D’Alema: “Se Renzi perde non ci sarà il vuoto. La Carta si può...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 08, 2016, 04:16:56 pm
D’Alema: “Se Renzi perde non ci sarà il vuoto. La Carta si può cambiare in 3 punti”
In Parlamento possibili altri governi per riforme chiare, rapide e condivise
Il Senato italiano è destinato a cambiare profondamente se passerà il Si al referendum

06/07/2016
Fabio Martini
ROMA

Il vento politico sta girando, radio, tv e giornali sono tornati a cercarlo e in questo improvviso revival Massimo D’Alema si ancora ad una certa materialità della politica: «Mi chiedo come faranno i cittadini ad orientarsi in vista del referendum sulla Costituzione. Devono votare a favore o contro un libro...». Un libro? D’Alema - seduto alla scrivania della Fondazione ItalianiEuropei - mostra un opuscolo: «Questo è il volumetto di parecchie pagine, che la Camera dei deputati ha pubblicato con tutte le modifiche alla Costituzione. Un testo farraginoso e confuso, di difficile comprensione persino per i tecnici, figurarsi per un cittadino. Sarebbe stato corretto formulare diversi ddl per i punti della riforma e consentire ai cittadini di rispondere ai quesiti, con un si o con un no, ma evidentemente si è preferito impostare il referendum come un plebiscito».

Quasi inevitabile che Renzi enfatizzi un atteggiamento del tipo: dopo di me il diluvio. Sta nel gioco? 

«No. Si vota sulla Costituzione e si dovrebbe farlo con un confronto sereno anziché in un clima di paura, dominato dal preteso rischio di ingovernabilità e addirittura di recessione di cui Confindustria si sta facendo portavoce. Ma attenzione: in questa fase l’opinione pubblica, se si sente ricattata da una campagna palesemente menzognera, si irrita. Se vincerà il No e Renzi insisterà nel volersi dimettere, dopo di lui non ci sarà il diluvio, semmai il buonsenso». 

Ma oggi un governo c’è e invece la vittoria del No cancellerebbe esecutivo e riforma istituzionale. Non è troppo? 

«Anzitutto io non chiedo le dimissioni di questo governo. Se cade questa pasticciata e confusa riforma, il Parlamento non soltanto potrà non essere sciolto - e da questo punto di vista confido nella saggezza del Capo dello Stato - ma io credo che ci saranno anche un governo, se necessario, e una nuova legge elettorale»

 
Chiedere a Renzi di restare dopo tutto quello che ha detto, non somiglia ad una provocazione? 

«Le dimissioni sono qualcosa che lui ha gettato nella mischia per ragioni politiche, legittime, ma tutte sue. Per la verità nessuno chiede le dimissioni di Renzi. Se non Renzi. E in ogni caso a quel punto si potrebbe fare una riforma, condivisa, chiara e rapida»

Facile a dirsi... 

«Penso a una riforma che preveda tre articoli. Scritti in italiano, non in politichese. Primo: è ridotto il numero complessivo dei parlamentari. Duecento deputati e cento senatori in meno. Avremmo una riduzione di trecento parlamentari, con il vantaggio che non ci sarebbero “dopolavoristi”, destino che invece attende consiglieri regionali e sindaci secondo quanto previsto dalla riforma».

Articolo 2 e articolo 3? 

«Articolo secondo: il rapporto fiduciario del governo è solo con la Camera dei deputati. Dunque, fine del bicameralismo perfetto. Articolo terzo: nel caso in cui il Senato o la Camera apportino delle modifiche ad un testo di legge, tali modifiche vengono esaminate entro un tempo limitato da una apposita commissione, costituita dai parlamentari dei due rami. Se l’intesa non c’è, passa il testo prevalente, che viene sottoposto al voto delle due Camere, con sbarramento ad ulteriori emendamenti. Fine della navetta, del bicameralismo perfetto e delle perdite di tempo. Un meccanismo di questo tipo esiste in altri Parlamenti: per esempio in quello americano. Una riforma approvabile dai due terzi dei parlamentari, che si può fare in sei mesi. Nel frattempo si discute una nuova, seria legge elettorale, che non preveda più la nomina dei parlamentari da parte dei capipartito e non abbia una impostazione rischiosamente iper-maggioritaria. Non ho mai condiviso l’Italicum e non penso che sia pienamente rispettosa della sentenza con cui la Consulta ha cancellato il Porcellum».

Ma perché tutto questo “ambaradan” se una riforma costituzionale già c’è? Nessuno dice che siamo alla Terza Repubblica, ma non è meglio che niente? 

«Ho avanzato una proposta alternativa. E chiedo un No al referendum per fare seriamente le riforme e non impedirle. Le riforme serie sono quelle condivise e non imposte a maggioranza. Ricordo un bellissimo intervento dell’onorevole Sergio Mattarella, che contrappose lo spirito della Costituente alla pretesa arrogante, allora di Berlusconi, di riforme a maggioranza. E noi le respingemmo».

Se la riforma interpreta bene l’urgenza di un cambiamento, il bon ton può non essere essenziale. O no? 

«Non è solo questione di bon ton. Ridurre la Costituzione a legge ordinaria non va bene per il Paese perché diventa una riforma di incerta durata. La Costituzione deve essere un testo stabile, di regole scritte da tutti. I grandi Paesi hanno costituzioni che durano molti anni, ma se noi ad ogni mutare di maggioranza politica, cambiamo la Costituzione, il sistema vive nel massimo di incertezza. E comunque, almeno, la maggioranza di Berlusconi era espressione forte di un voto popolare».

Ma nel merito? 

«Ci sono disposizioni demagogiche e altre foriere di conflitti istituzionali. Due soli esempi: sindaci e consiglieri regionali possono trascorre cinque giorni a Roma nelle commissioni parlamentari? Pura demagogia. Per potere dire: non gli pagheremo lo stipendio. Poiché non vi è una chiara distinzione delle leggi delle quali si deve occupare il Senato, noi rischiamo di aprire un contenzioso tra le due Camere, di volta in volta risolto dalla Corte costituzionale. Per tutte queste ragioni chiedo di votare no per una vera svolta riformatrice».

A Torino l’importante consuntivo portato dal sindaco è stato una sorta di variabile indipendente rispetto alla generica esigenza di cambiare: si sente almeno un po’ solidale con Renzi, considerato da alcuni già «vecchio»? 

«Il Paese vuole novità, sperava che la novità fosse Renzi ed è rimasto deluso e infatti sul voto ha pesato un sentimento anti-Renzi. A Milano abbiamo vinto grazie all'impegno di Pisapia, che ha fatto una campagna all'insegna: qui non si vota su Renzi».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/07/06/italia/politica/se-renzi-perde-non-ci-sar-il-vuoto-la-carta-si-pu-cambiare-in-punti-ueJ3rd7EO303XRARMlV9jN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi spera nell’assist della Corte Costituzionale
Inserito da: Arlecchino - Luglio 10, 2016, 11:31:53 am
Renzi spera nell’assist della Corte Costituzionale
I giudici della Consulta potrebbero cambiare l’Italicum permettendo al premier di riaprire i giochi con gli alleati

09/07/2016
Fabio Martini
Roma

Quell’idea di spacchettare il quesito del referendum istituzionale non era mai piaciuta a Matteo Renzi per una ragione personale: moltiplicando le domande nella scheda elettorale, sarebbe finito l’effetto-plebiscito, che tanto stava a cuore al presidente del Consiglio, quel sì o no al leader ancor prima che alla riforma. Ma ora che il risultato del plebiscito di autunno è diventato estremamente incerto, Renzi sta esplorando le strade che possano eventualmente portare a dividere il quesito in più punti, depotenziando l’effetto-plebiscito. Tanto è vero che della questione si è parlato due giorni fa nell’incontro con il Capo dello Stato Sergio Mattarella al Quirinale. A palazzo Chigi nessuna decisione al riguardo è stata presa, anzi prevale in Renzi una realistica presa d’atto delle corpose difficoltà normative, anche per il ritardo col quale è stata accarezzata l’ipotesi. Ma in Italia si sa: non è mai troppo tardi. 

Vicenda esemplare quella dello spacchettamento, perché nel «mondo di Renzi» da una settimana tutto si è rimesso in movimento, solide certezze sono state ridiscusse, a cominciare dalla più rassicurante di tutte: il rettilineo percorso verso le elezioni del 2018. Prima di partire (di buon umore, raccontano) per il vertice Nato di Varsavia, nelle ultime 78 ore, Renzi ha cambiato tattiche e strategie su diversi quadranti: elezioni anticipate, data per il referendum, possibili cambiamenti alla legge elettorale. Di regola indifferente alle istanze dei suoi alleati - in due anni e mezzo Renzi non ha mai pronunciato la parola coalizione riferendosi alla sua maggioranza - due giorni fa il presidente del Consiglio è stato costretto ad accertarsi con Angelino Alfano sulla tenuta dell’Ncd e una volta rassicurato sulle intenzioni dei 6-7 senatori frondisti, ha potuto a sua volta assicurare il Capo dello Stato Mattarella: «Giovedì prossimo sul ddl enti locali nessun problema di tenuta».

E proprio il referendum, per Renzi, è la cosa che conta più di ogni altra. Il primo traguardo verrà superato con successo giovedì, quando il Comitato per il sì presenterà alla Corte di Cassazione cinquecentomila firme di cittadini, la modalità più «democratica» tra quelle previste dalla Costituzione per chiedere un referendum confermativo.

E proprio nell’incontro con Mattarella sono emerse due novità. Il Capo dello Stato ha ricordato che il referendum istituzionale si svolgerà comunque nella data fissata, perché a differenza di quelli abrogativi, quelli confermativi non vengono rinviati in presenza di scioglimenti anticipati delle Camere. E d’altra parte la data del referendum resta ancora oggi «ballerina». Una vicenda tutta politica ma nella quale si condensano alcuni dati «caratteriali» di Renzi. Il primo è la tendenza del presidente del Consiglio a prendere tutte le scelte all’ultimo momento utile: per insicurezza? Per tenersi aperte tutte le strade possibili? Sta di fatto che Renzi ha curiosamente ripetuto in questi giorni che non spetta al governo fissare la data del referendum. In realtà la scelta spetta proprio al presidente del Consiglio che potrà decidere, con un margine di oscillazione di alcune settimane.

Ma anche su questa scelta incide un altro problema «caratteriale» di Renzi: quello di non apparire mai come uno che cambia idea, o che ci ripensa. Dopo aver auspicato pubblicamente la data del «due ottobre», ora il presidente del Consiglio ha fatto trapelare che nell’incontro con Mattarella, si sarebbe presa in esame la data del 6 novembre, uno slittamento progressivo verso quelle che a palazzo Chigi sono ritenute le date migliori: 13, 20 o 27 novembre. Date che Renzi potrà scegliere, senza interpretazioni o forzature della legge. Ma se si voterà a novembre, a quel punto la Corte Costituzionale (convocata il 4 ottobre) dovrebbe aver deciso sulla costituzionalità dell’Italicum. Una eventuale bocciatura da parte della Corte (si sussurra su capilista e premio di maggioranza, con previsioni già «condannate» dalla Consulta), consentirebbe al governo di riaprire i giochi sulla legge elettorale con la minoranza Pd e con le formazioni centriste.

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Da  - http://www.lastampa.it/2016/07/09/italia/politica/renzi-spera-nellassist-della-corte-costituzionale-SeTyWKlP1uNrbAQ0vM5O5N/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI Renzi vola a Rio con un occhio a Roma 2024 e un altro all’immagine
Inserito da: Arlecchino - Agosto 02, 2016, 05:03:20 pm
Renzi vola a Rio con un occhio a Roma 2024 e un altro all'immagine.
Cancellato l’appuntamento a Ground Zero per Eataly: al suo posto visiterà una favela
Non si sa ancora se il premier userà il solito Airbus oppure il nuovo A330 preso con un leasing molti mesi fa da Etihad

02/08/2016
FABIO MARTINI
ROMA

Quattro giorni a Rio de Janeiro, con moglie e figli, nel clima eccitante dell’inaugurazione di un’Olimpiade: è il progetto che Matteo Renzi si era dato qualche settimana fa e al quale non ha voluto rinunciare nonostante l’infittirsi di eventi sanguinosi in giro per il mondo. Questa sera l’aereo di Stato decollerà da Fiumicino diretto verso il Brasile, per fare ritorno in Italia il 7 sera, ma proprio alla vigilia della partenza si è appresa una novità: per stemperare l’effetto «vacanza a Rio», il presidente del Consiglio ha fatto integrare il programma. Mettendo in scaletta la visita ad una onlus di San Salvador de Bahia, una comunità di missionari fiorentini, che accompagneranno il presidente del Consiglio nella favela Massara Nduba. In parallelo è stato invece cancellato un impegno «mondano» di Renzi a New York: la partecipazione all’inaugurazione di un nuovo Eataly al World Trade Center, ristrutturato dopo le devastazioni dell’11 settembre 2001. E, alla fine, con il babbo viaggerà soltanto un figlio. 
 
La visita alla onlus e alla favela conferiscono alla trasferta di Renzi una coloritura «sociale» che va ad aggiungersi alle altre motivazioni già presenti nella missione. Durante il suo soggiorno a Rio, il presidente del Consiglio promuoverà la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024. Incontrando il presidente del Cio, il tedesco Thomas Bach, e presenziando ad un mega-pranzo con i membri del Cio. Incontri in qualche modo obbligati, tanto più che una delle candidature concorrenti, Parigi, sarà sponsorizzata dal presidente francese François Hollande, che arriverà a Rio domani.
 
Ma l’agenda di Renzi a Rio prevede una lunga striscia di incontri con gli aitanti atleti italiani, incontri che si trasformeranno in altrettante foto e immagini tv. Renzi, incrociando le dita, conta di rilanciare a Rio la propria immagine «smart». E con l’aiuto di qualche medaglia d’oro, il premier potrebbe riproporre anche un’immagine di sé che gli è cara: quella del leader che porta bene, che accompagna le vittorie azzurre e che magari preferisce tenersi distante quando il risultato è più incerto. Esemplare sotto questo punto di vista quanto accadde nel settembre di un anno fa, quando Flavia Pennetta e Roberta Vinci approdarono, nella sorpresa generale, alla finale degli Us Open di tennis: Renzi, a bordo dell’aereo di Stato, partì immediatamente per gli Stati Uniti per presenziare alla finale, che avrebbe prodotto comunque una vincente italiana.
 Renzi partirà oggi, non si sa se a bordo del solito Airbus o col «nuovo» A330, preso in leasing molti mesi fa da Etihad e misteriosamente scomparso nelle brume della campagna romana. Nei giorni scorsi era stata ventilato un passaggio a New York, ma fino a ieri sera della tappa mancavano conferme ufficiali. 
 
Un argomento in più per i detrattori del presidente del Consiglio, che a Montecitorio si lanciavano in illazioni sulla «fuga» di Renzi nelle Americhe: un viaggio anticipato - si diceva - per non parlare delle nomine Rai che oggi e domani arriveranno in porto. Certo, Renzi sarà fisicamente lontano da viale Mazzini, ma sicuramente a Rio sarà più avvicinabile dai giornalisti di quanto non lo fosse negli ultimi giorni a Roma. 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/02/italia/politica/renzi-vola-a-rio-con-un-occhio-a-roma-e-un-altro-allimmagine-TKJBXtepoNmPsoT1rKfWOJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. In vista del referendum le Cancellerie puntano sulla stabilità...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 16, 2016, 11:38:00 pm
In vista del referendum le Cancellerie puntano sulla stabilità dell’Italia
Francia e Germania: il rinnovamento in atto rafforza tutta l’Europa. Da Washington a Pechino, ecco chi scommette sulla tenuta del governo

14/09/2016
Fabio Martini
Roma

Era l’ultimo giorno di agosto, nei saloni della Ferrari a Maranello, Angela Merkel e Matteo Renzi parlottavano tra loro dopo il lungo bilaterale tra ministri dei due Paesi e poco prima di riprendere la strada di casa, la Cancelliera disse al presidente del Consiglio: «Caro Matteo, bisogna riconoscere che la stabilità del tuo governo fa bene all’Italia e anche all’Europa». Settantotto ore più tardi, poco prima dell’inizio del G20 a Huanghzou in Cina, il presidente cinese Xi Jinping, si congeda da Matteo Renzi con una promessa: «Ci vediamo di nuovo qui da noi, nel 2017».

Merkel e Xi Jinping, due personaggi agli antipodi, restituiscono un pensiero comune a tutte le cancellerie: per l’Italia stabilità prima di tutto. In questa fase non soltanto a Berlino e a Pechino, ma anche a Washington, a Parigi, a Bruxelles, l’auspicio è quello di una continuità di governo per il governo di Roma. In una Europa affaticata da una ripresa economica che non arriva mai; lacerata su come affrontare le ondate migratorie e con i Paesi-guida (Germania e Francia) in vista di elezioni politiche dall’esito incerto, Matteo Renzi e i suoi venti mesi consecutivi di governo vengono visti dalle cancellerie più importanti come una boa da salvaguardare.

Poche ore prima che l’ambasciatore americano a Roma John R. Phillips si producesse nelle due esternazioni che si sono trasformate in un caso politico, da Washington era arrivato un segnale forte. Con l’annuncio della Casa Bianca dell’invito da parte di Barack Obama a Matteo Renzi per la sera del 18 ottobre, ventuno giorni prima dell’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Invito accompagnato da un dato simbolico: quella con l’Italia sarà, per Obama, l’ultima visita di Stato ospitata alla Casa Bianca. Nella lettura informale dell’evento - da Washington - si sottolineava come l’invito contenesse anche un investimento strategico sull’Italia e sulla sua stabilità politica. Ma al tempo stesso si faceva sapere che l’invito di Obama a Renzi non andava interpretato come un «endorsement» in vista del referendum istituzionale di fine autunno in Italia.

 Poi, ieri mattina, è arrivata la doppia esternazione dell’ambasciatore Phillips: da una parte l’auspicio per la vittoria del Sì al referendum costituzionale, dall’altro - ancora più irrituale - il timore che gli investimenti americani possano allontanarsi in caso di vittoria del No. In poche ore si è sollevato un caso politico, che nella protesta contro l’ambasciatore americano ha visto uniti Sel e gli ex missini di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Cinque Stelle. La doppia esternazione pro-Renzi in poche ore si è dunque trasformata in boomerang, o in qualcosa che vi si avvicinava. E il presidente del Consiglio? A palazzo Chigi non erano stati informati da parte dell’Ambasciata americana sulle intenzioni di Phillips, ma una volta che le dichiarazioni sono entrate in «rete», Renzi ha evitato qualsiasi commento, anche informale. Nessun imbarazzo, si fa sapere da palazzo Chigi. Anche perché quel che ha mosso l’ambasciatore americano è un impulso spiegato da Massimo Teodori, autore di numerosi saggi sulla storia degli Stati Uniti: «Dopo gli anni settanta la politica americana verso un Paese tradizionalmente instabile come l’Italia è tutta centrata sulla stabilità, come dimostrano tutti i rapporti inviati dai diversi ambasciatori». 

Sorpresa in Renzi per il riverbero anti-americano di alcuni commenti alla sortita dell’ambasciatore e qualcosa in più della sorpresa, «per le dichiarazioni di un vicepresidente della Camera», che è arrivato a paragonare Renzi a un dittatore come Pinochet. Certo, il presidente del Consiglio sa che con un’opinione pubblica nella quale gli umori anti-establishment sono così forti, vedersi appoggiare da agenzie di rating e governi stranieri, può essere controproducente. Anche per questo palazzo Chigi ha optato per il silenzio.

 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/14/italia/politica/in-vista-del-referendum-le-cancellerie-puntano-sulla-stabilit-dellitalia-s6lTvCz2w81yMtbxNQRNaK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Marino assolto sfida Renzi: Adesso girerò l’Italia per dire no...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2016, 04:47:26 pm
Marino assolto sfida Renzi: “Adesso girerò l’Italia per dire no al referendum”
“La Costituzione è la Magna Charta, la riforma è scritta come il Milleproproghe. Con me ok alle Olimpiadi”


08/10/2016
Fabio Martini
Roma

Giù per strada, nel vicolo di Santa Chiara, i fans di Ignazio Marino fanno la «ola» - «I-gna-zio, I-gna-zio, I-gna-zio» - e lui, nella sua casa al primo piano, tira la tenda, guarda di sotto con gli occhi lucidi e dice al cronista: «Devo andare giù, mi scusi». Per l’ex sindaco di Roma è il giorno della rivincita, covata per mesi in un silenzio insolito per un personaggio dalla grande loquacità e con un’alta considerazione di sé. Dopo che il tribunale di Roma gli ha restituito l’onore, Ignazio Marino ha indetto una conferenza stampa a cento passi da Palazzo Chigi, un fuoco d’artificio di battute nel quale ha risparmiato colui che lui stesso ritiene il mandante della sua caduta.

Professore, pensa che il presidente del Consiglio le debba delle scuse? 
«Per farlo, bisognerebbe avere capacità d’analisi, umiltà e onestà».

Un capo di governo che favorisce le dimissioni del sindaco della capitale, è una cosa che non si era mai vista... 
«Non condivido chi ha parlato di golpe, ma il conto di certe azioni le paga il Paese, soprattutto quando riguardano la capitale di Italia. Qualcuno ora si dovrebbe guardare allo specchio e capire se ha la statura di statista e farsi un esame di coscienza».

Si candiderà alla segreteria del Pd? 
«No, col Pd mi sono preso un anno di riflessione, che finirà il 31 dicembre».

Ma si può immaginare che da domani lei diventerà uno degli alfieri della campagna referendaria per il No? 
«Ho inviti in oltre 20 città italiane. Dirò quel che penso sulla riforma: che il Senato va totalmente abolito e che la revisione non è stata studiata e votata come avevano fatto all’assemblea costituente. Basta guardare l’articolo 70: è stato scritto come un articolo di quello che in Parlamento chiamano il Milleproroghe! Visto l’articolo…, richiamando il comma 1... La Costituzione è la Magna Charta, è quella che tutti capiscono». 
Se lei fosse ancora sindaco, Roma sarebbe più vicina alle Olimpiadi? 
«Sì. Col progetto che illustrai al Cio e che era stato preparato dall’assessore Caudo - un Villaggio Olimpico che sarebbe diventato la Città della giustizia, una nuova metropolitana veloce, un parco fluviale - l’Italia avrebbe probabilmente vinto la nomination».

Prima della sentenza era così sicuro che sarebbe stato assolto? 
«Io ho sempre sostenuto il ruolo della magistratura anche da senatore, talora in contrasto con il mio gruppo. Poi mi sono trovato io all’attenzione dei magistrati e - sì è vero - mi sono interrogato ma ho mantenuto lo stesso atteggiamento. E il perché l’ho raccontato al giudice nella mia dichiarazione spontanea a porte chiuse...»

Irriferibile? 
«No. Ho detto: è la seconda volta che mi trovo in un’aula di giustizia. Da chirurgo ho operato per quasi 20 anni nello Stato della Pennsylvania, quello col più alto numero di cause legali per medici in tutto il pianeta. Era una notte del 1992, avevo appena finito un trapianto di fegato, stavo andando a casa e mi squilla il cerca-persone. Era il numero della terapia intensiva: mi spavento e faccio una cosa che non si deve fare: lascio la macchina davanti al pronto soccorso. Incontro Katy, l’infermiera, che mi dice: hai lavorato tutta la notte e ti avevamo preparato un caffè caldo... Le rispondo: ma voi siete matti, mi sono preso un colpo! Vado giù e la macchina non c’era più. Portata via dalla polizia con una multa da 400 dollari. Vado davanti al giudice che ascolta il mio racconto e mi dice: “Mi prometta che non lo farà più. Io: “Lo prometto”. Ha sbattuto il martello sul bancone e ha detto: “Ora si vada a riprendere i 400 dollari, perché lei è un bravo medico”».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/08/italia/politica/lo-sfogo-del-chirurgo-adesso-girer-litalia-per-dire-no-al-referendum-VVF95FA9xjBvCooCKD1nyM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il Pd vicino alla rottura e il dilemma di Renzi
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 10, 2016, 12:05:44 pm
Il Pd vicino alla rottura e il dilemma di Renzi
Oggi in direzione deve scegliere se usare il bazooka o tendere la mano ai dissidenti, tra i quali avanza Marino

10/10/2016
Fabio Martini
Roma

Alle cinque della sera, davanti alla direzione del Pd, verrà formalizzata la separazione legale tra Matteo Renzi e la minoranza del partito in vista del referendum del 4 dicembre: sarà il primo atto di un possibile, clamoroso divorzio, tante volte annunciato, ma che una eventuale vittoria del Sì renderebbe concreto? Per ora una sola certezza: la opposizione interna - guidata da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo - ufficializzerà la decisione di votare “no”, al referendum: un comportamento elettorale clamoroso, anche perché capovolto rispetto alle indicazioni del partito e in contraddizione rispetto a come votarono in Parlamento molti degli esponenti della minoranza. La decisione è stata anticipata venerdì notte da Pier Luigi Bersani in un pubblico dibattito e in una intervista pubblicata ieri dal “Corriere della Sera”, dunque in anticipo con la attesa Direzione del Pd, convocata alle 17 di oggi per ascoltare la proposta di modifica della legge elettorale che avrebbe dovuto fare Matteo Renzi.

Questo anticipo rispetto alla liturgia ha consentito a Matteo Orfini, presidente del Pd, di infilzare l’ex segretario: «Non è scandaloso che Bersani voti No», ma sulle riforme «è sbagliato che invece di cercare fino alla fine una soluzione si lavori per la spaccatura». Ma la sostanza non cambia: oggi nulla vieta a Renzi di presentare la propria proposta di mediazione, provando a mettere in difficoltà la minoranza con proposte “ragionevoli”, come l’abolizione dei capolista bloccati. Ma lo farà? Oppure preferirà caricare il bazooka contro la propria minoranza, evidenziandone le contraddizioni? Ieri sera Renzi non aveva deciso quale privilegiare tra le due opzioni e all’ultimo momento potrebbe decidere per una sintesi. 

Vicenda significativa, quella interna al Pd, perché la minoranza potrebbe trascinare sulla propria posizione una quota significativa dell’elettorato democratico (un quinto? Un quarto?), anche se la partita per la vittoria al referendum sembra destinata a giocarsi in un campo più vasto. E da questo punto di vista nelle ultime ore sono emerse due novità: da una parte la decisione di Renzi di personalizzare ancora di più la campagna referendaria, dall’altra l’emersione dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. Liberato dal peso processuale, come possibile alfiere-portavoce del No. 

La super-personalizzazione da parte del presidente del Consiglio è stata confermata con la decisione di accettare anche l’invito dell’” Arena”, il talk show della domenica su RaiUno, Incalzato dalle domande e dalle interruzioni di Massimo Giletti, che non ha voluto smentire il ruolo di intervistatore scomodo, il presidente del Consiglio ha lanciato due messaggi. Il primo: «Se vince il No, non cambia niente per il Paese. Continueremo con il Parlamento più costoso e più numeroso». Il secondo mirato contro la minoranza del Pd: «Nel partito è un anno e mezzo che mi danno contro, l’unico obiettivo è attaccarmi», «ma quando uno vota per antipatia mostra di avere scarsa visione per il Paese. Bersani ha votato sì tre volte a questa riforma. Ma se lui cambia idea per il referendum, ciascuno se ne farà una opinione». Altrettanto significativo il “ritorno” di Ignazio Marino. Intervistato da Lucia Annunziata su RaiTre, l’ex sindaco, oltre a picchiare duro su Renzi e i renziani, si è riproposto con un profilo «liberal», da alfiere dei diritti civili, da sostenitore tradito dei valori meritocratici del primo Renzi. Un profilo diverso da quello “comunista” della minoranza Pd e anche per questo più temibile. Come conferma la grandinata di richieste di partecipare ad iniziative, piovute su Marino da tutta Italia.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/10/italia/politica/bersani-dichiara-il-no-il-grande-attacco-a-renzi-e-il-dilemma-del-premier-s5NHBaznJt42lJ0BSuB9KK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi, attacco all’Ue per vincere il referendum
Inserito da: Arlecchino - Novembre 18, 2016, 09:46:17 am
Renzi, attacco all’Ue per vincere il referendum
Svolta contro Bruxelles “nemica” in una battaglia che vuol essere popolare
La riduzione dei balzelli di Equitalia non ha pagato nei sondaggi

Pubblicato il 17/11/2016
Fabio Martini
Roma

L’Europa «cattiva», tra tante rughe, ha mostrato il suo volto buono: ha inaspettatamente promosso le spese eccezionali per terremoto e migranti. Ma il presidente del Consiglio ha continuato a tenere il punto. Come se non fosse accaduto. Perché da due giorni Bruxelles è stata «promossa» a nemico stabile. Quanto durerà nessun lo sa, ma si tratta di una novità nella politica europea dell’Italia e soprattutto è una svolta nella strategia comunicativa di Matteo Renzi. 

Impegnato nella battaglia della vita, quella del referendum costituzionale voluto dal governo. Dopo due anni e mezzo di ottimismo a getto quotidiano, il presidente del Consiglio ha deciso di riconvertire almeno una parte del suo messaggio positivo in chiave rivendicativa. Antagonista. 

Contro un nemico: l’Europa egoista e burocratica. Certo, già lo aveva fatto nel passato, con accenti di verità e con scossoni salutari, vista la progressiva eclissi della dottrina dell’austerità. Ma stavolta il duello con Bruxelles è diverso perchè nelle settimane scorse si è silenziosamente consumato quello a palazzo Chigi qualcuno ha ribattezzato “l’ottobre nero”. Matteo Renzi vive di adrenalina e non usa espressioni così pessimistiche, eppure ha assistito con un crescendo di «sorpresa» ad un fenomeno dai tratti quasi misteriosi, che si è stratificato nelle ultime settimane. Più Renzi spingeva l’acceleratore di provvedimenti gratificanti per milioni di cittadini e più i sondaggi restavano fermi. Le pensioni e le quattordicesime a più di due milioni di pensionati? L’'effetto sui sondaggi non è stato apprezzabile. La riduzione dei balzelli di Equitalia? L’effetto sui sondaggi, se c’è stato, non ha avuto un effetto evidente. La riduzione del canone Rai per milioni di italiani? I bonus? Lo spostamento del dibattito referendario dal plebiscito al merito? Gli effetti, se ci sono stati, non risultano quantificabili. Per non parlare dell’accoglienza regale tributata a Renzi alla Casa Bianca. Un “ottobre nero” ma anche un novembre che a metà mese non ha aperto spiragli: ieri sera, Renzi è stato aggiornato sui sondaggi più attendibili e per il momento il buon vantaggio del No (tra 4 e 8 punti, secondo gli istituti) resta invariato, anche se ancora “scalabile”.

Dopo due mesi di campagna elettorale è come se l’emittente dei messaggi si fosse opacizzata, è come se l’efficacia della narrazione renziana e del suo artefice avessero perso mordente e credibilità. La causa è una “overdose” da ottimismo esasperato? O una diffusa corrente di «antipatia» verso Renzi, come ipotizzato da un amico come Oscar Farinetti? In attesa di risposte concrete dalle urne del referendum, per provare ad invertire la rotta, due giorni fa Renzi ha maturato la decisione - covata per settimane - di convertire una parte dei messaggi positivi in chiave rivendicativa. Contro un nemico: l’Europa egoista e burocratica. E d’altra parte nella “narrazione” renziana i nemici hanno sempre avuto un ruolo da protagonisti. Renzi ha usato per la prima volta l’espressione «gufi» il 12 marzo 2014, quando era presidente del Consiglio da appena 19 giorni, era saldissimo e nessuno lo insidiava. Ora tocca di nuovo all’Europa incarnare il ruolo di capro espiatorio.

Il “numero” di due giorni fa sul (futuribile) veto al bilancio comunitario dimostra che il presidente del Consiglio ne vuole fare un cavallo di battaglia nel rush finale della campagna referendaria. Come conferma la (non) reazione di Renzi alla decisione di ieri della Commissione europea che ha promosso le spese eccezionali per terremoto e migranti, compreso il via libera per le scuole tante volte evocate dal capo del governo come prova della cattiva volontà degli euroburocrati. Dunque, l’Europa “cattiva” ha mostrato il suo volto buono, ma Renzi non ha “ringraziato”, lasciando a Padoan il compito di compiacersi pubblicamente.

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Titolo: FABIO MARTINI. Renzi “I sondaggi hanno già sbagliato”.
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2016, 11:48:30 am
Renzi in campagna permanente: “Ci servono 15 milioni di voti”
Raffica di impegni elettorali per il presidente del Consiglio. “I sondaggi hanno già sbagliato”.
E glissa sull’ipotesi dimissioni

Pubblicato il 19/11/2016
Ultima modifica il 19/11/2016 alle ore 07:41

FABIO MARTINI
ROMA
A mezzogiorno se ne è andato dal palazzo della Cancelleria di Berlino senza dire una parola, lasciando i giornalisti con i microfoni in mano. Poco prima Matteo Renzi aveva incontrato per due ore i capi di governo di Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna convocati per un summit crepuscolare: l’addio a Barack Obama, appositamente arrivato dagli Stati Uniti. Ma Renzi ha fatto di tutto per far scivolare questo evento, che forse rischiava di “schiacciare” la sua immagine su quella dell’Obama uscente: silenzio all’uscita e persino sul sito del governo, solitamente generoso di immagini del leader, soltanto otto foto e un breve video. 
 
Significativamente è iniziata così una delle giornate più tambureggianti di Matteo Renzi che oramai da due mesi sta conducendo quella che probabilmente resterà come la più massiccia campagna elettorale nella storia della Repubblica. Una giornata che racconta il personaggio e il suo impegno totale e super-personalizzato alla causa del Sì: alle 8 del mattino partenza per Berlino; dalle 10 alle 12 summit per salutare Obama; alle 13 di nuovo in volo per Roma; alle 16 convegno dei giovani dell’Ncd di Alfano; alle 18,15 conferenza stampa sui 1000 giorni; alle 1930 a “La 7” da Lilli Gruber; alle 21 decollo per Bari, alle 22,15 manifestazione per il Sì nel capoluogo pugliese. 
 
Da Obama ad Alfano, da palazzo Chigi a Bari vecchia, in tutte le occasioni Renzi si è sforzato di mostrarsi sorridente, spiritoso, non aggressivo, che mette persino nel conto una sconfitta al referendum, come se la cosa non lo turbasse più di tanto e dunque con un’immagine capovolta rispetto a quella - onnipresente, auto-elogiativa, aggressiva con tutti i dissenzienti - che gli ha drasticamente ridotto i consensi, al punto che - a 17 giorni dal voto - tutti i sondaggi (nessuno escluso) danno in testa il No. «Nel 2016 i sondaggi non hanno azzeccato un solo risultato, non è che devono iniziare questa volta - scherza -. La partita è aperta».
 
Un Renzi soft che ha lanciato messaggi soft, decisamente ambivalenti. Utilizzerà il consueto escamotage di tanti politici di produrre messaggi ansiogeni? «Se evochiamo la paura, non andiamo da nessuna parte», dice nella conferenza stampa di palazzo Chigi ma poco prima aveva detto: «Se si fanno le riforme, il Pil va su, senza le riforme sale lo spread». Aggiungendo: «E’ logico che sia così», una chiosa soggettiva, per ora non dimostrata. Ambivalente anche nelle risposte alla domanda: se vince il No, lascia o non lascia palazzo Chigi? Ecco le diverse risposte di Renzi: «Rispetteremo il risultato con grande tranquillità», «Cosa accadrà al governo? Lo sapremo solo vivendo...»; «questo governo è nato per fare le riforme, ma verificheremo la situazione politica...». Una risposta in dissolvenza che non è diventata più chiara, quando Renzi ha detto in tv: «Chi fa il premier deve sperare che chi viene dopo farà meglio, certo io non sono nato per fare un governo tecnico. Se si cambia e si continua ci sono, se si torna alla grande accozzaglia che è la base politica del No, che sono sempre i soliti politici, se vogliono galleggiare, che gestiscano loro il paese. Io non sono capace a fare inciuci e accordicchi». 
 
Dunque, Renzi non dice più, neppure in queste ultimi giorni, che la vittoria del No comporta le sue dimissioni irrevocabili da palazzo Chigi. Si lascia la porta aperta. Ovviamente sperando che vinca il Sì. E anzi Renzi ha svelato anche le sue stime: «Si vince, secondo le mie previsioni, con il 60 per cento di affluenza, con 15 milioni di voti per il «Sì» o per il «No», quindi è fondamentale portare tanta gente a votare». Le firme false dei grillini in Sicilia? «È un problema loro, io sono garantista». Se vince il sì al referendum nel Pd ci sarà spazio anche per chi ha votato no? «Non c’è ombra di dubbio, il Pd è un partito democratico, che vinca il sì o il no partirà la fase congressuale».
 
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Titolo: FABIO MARTINI. Prodi: “Una decisione sofferta. E Matteo dimentica l’Ulivo”
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2016, 06:28:55 pm
Prodi: “Una decisione sofferta. E Matteo dimentica l’Ulivo”
L’ex premier: correndo sotto i portici di Bologna ho pensato di dover parlare. Preoccupazione per la stabilità internazionale
Il 13 febbraio 1995 Romano Prodi lancia L’Ulivo, alleanza fra il centro e la sinistra. Alle elezioni politiche del 1996 L’Ulivo si afferma come coalizione vincitrice e Prodi viene nominato Presidente del Consiglio dei ministri

Pubblicato il 01/12/2016
FABIO MARTINI
ROMA

Il Professore sembra un uomo sollevato: «Sì, è stata una decisione sofferta. Certo, da tempo avevo deciso come votare, ma stamattina, correndo sotto i portici a Bologna, ho definitivamente maturato la convinzione che fosse giusto rendere pubblico il mio voto, anche se da diversi anni ormai non prendevo posizione su temi di politica italiana». Le prime parole di Romano Prodi, pronunciate poco dopo aver scritto la nota per le agenzie, restituiscono il background emotivo di una decisione sofferta, che gli è costata, ma che alla fine è stata liberatoria. Un endorsement per Renzi? La svolta a favore del Sì, che potrebbe ribaltare le sorti di una partita ancora in bilico? Le duemilaottocento battute scritte dal Professore per la sua nota pro-Sì sono un distillato di orgoglio, una rivendicazione della sua battaglia storica per «una democrazia decidente e bipolare», ma anche il più severo ritratto di Matteo Renzi che sia stato mai scritto da una personalità del centrosinistra. Al punto che, se gli si chiede se il suo Sì sia scandito a prescindere dal governo, Romano Prodi risponde con un monosillabo: «Sì».
 
Decisione «sofferta» quella del Professore: in questi anni il suo profilo di uomo padano, concreto, razionale è stato messo a dura prova da esperienze così originali da diventare proverbiali. Il Professore ha vinto per due volte le elezioni con un Berlusconi in pieno vigore politico e per due volte i governi guidati da Prodi sono stati mandati all'aria dai suoi stessi alleati. In lui hanno lasciato il segno i cinque, interminabili mesi trascorsi in solitudine a Palazzo Chigi da presidente dimissionario all’inizio del 2008; ma anche la «chiamata» di Pier Luigi Bersani che nel 2013 lo candidò (senza rete) alla Presidenza della Repubblica, senza «calcolare» il tradimento dei 101. E negli ultimi anni l’attuale presidente del Consiglio ha tenuto Prodi a distanza, in particolare nella vicenda della Libia, dove l’ex premier era stato invocato dalle fazioni locali come uomo di mediazione.
 
Certo, il rapporto tra Prodi e Renzi, formalmente mai intaccato, non è si è mai trasformato in amicizia. Ma neppure in ostilità. I due ogni tanto si parlano, l’ultima volta è stata due settimane fa in occasione del breve passaggio in Sardegna del presidente cinese Xi Jinping. Proprio perché il rapporto personale scorre lungo un binario a scartamento ridotto, ma scorre, nei giorni scorsi Prodi era infastidito dall’idea che qualcuno potesse interpretare il suo riserbo sul referendum come una forma di rancore verso Renzi. Dunque, non una questione personale verso Renzi, ma invece una forte riserva politica, che Prodi ha distillato nella sua nota con espressioni molto secche, rimproverando a Renzi una «leadership esclusiva, solitaria ed escludente», accusandolo di aver cancellato l’esperienza dell’Ulivo, «come se le cose cominciassero sempre da capo». E imputando al governo di aver gettato «il Paese nella rissa», con la stabilità, «inutilmente messa in gioco da un’improvvida sfida» e provocando «turbolenza qualsiasi sarà il risultato di questo referendum». Parole in cui si coglie l’eco di una forte preoccupazione per quello che potrebbe accadere all’Italia a livello internazionale e sui mercati. 
 
Romano Prodi e Arturo Parisi, l’«ideologo» del bipolarismo e dell’Ulivo si espongono per il Sì, spinti dalla paura che la vittoria del No possa riaprire la strada alla «palude» del proporzionale, al ritorno del Partito nella versione «decotta» dei post-comunisti. Ecco perché nella nota di Prodi c’è anche una stilettata per Massimo D’Alema: «C’è chi ha poi strumentalizzato» la storia dell’Ulivo, «rivendicando a sé il disegno che aveva contrastato».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/01/italia/speciali/referendum-2016/prodi-una-decisione-sofferta-e-matteo-dimentica-lulivo-u5KtK5fMiuNifpiQofvNyM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il Censis e l’Italia di Renzi: “Governo e società, due populismi
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2016, 06:38:38 pm

Il Censis e l’Italia di Renzi: “Governo e società, due populismi contrapposti”
Il ritratto del Paese nel cinquantesimo Rapporto sulla salute sociale: grande «divaricazione» tra governo e corpo sociale

Pubblicato il 02/12/2016
Ultima modifica il 02/12/2016 alle ore 11:23
Fabio Martini
Roma

Sostiene il Censis nel suo cinquantesimo Rapporto sulla salute sociale del Paese: l’Italia contemporanea, l’Italia di Matteo Renzi, vive il suo problema più serio nella «divaricazione» tra il governo e il corpo sociale, entrambi impegnati in una rincorsa populista, con una «reciproca delegittimazione» che finisce per accentuare la crisi più grave di tutte, quella delle istituzioni. Dall’Unità d’Italia in poi e per molti decenni proprio le istituzioni - dalla scuola ai carabinieri, dall’esercito ai Comuni, dall’alta burocrazia alla magistratura - hanno rappresentato la spina dorsale del Paese, ma oggi quei soggetti sono «inermi», «incapaci di svolgere il loro ruolo di cerniera», propensi a lasciare il campo agli altri due poli: potere politico e corpo sociale. 

Oramai da mezzo secolo il Censis e il suo animatore Giuseppe De Rita - una delle ultime autorità intellettuali del Paese - puntualmente ripropongono un affresco fuori dal coro, talvolta profetico sul mutare delle dinamiche sociali, politiche ed economiche di un Paese del quale sono stati sempre raccontati, oltre ai vizi, anche le potenzialità e le virtù nascoste. Nel Rapporto presentato quest’anno si racconta un nuovo, interessante fenomeno, l’emergere di una «seconda era del sommerso», «sostanzialmente diverso» da quello profilato e concettualizzato proprio dal Censis negli anni Settanta e fatto di tanti lavori nuovi, di un sommerso come «ricerca di più redditi», alimentati da occupazioni saltuarie, private, differenti da quelle che 40 anni fa fecero grande la piccola impresa italiana. 

E si racconta anche di un «rintanamento», ognuno a casa sua, della politica e del corpo sociale, due soggetti che «coltivano emozioni e ambizioni solo rimirandosi in se stessi». In mezzo «non vogliono sedi di potere» e neppure la «cerniera delle istituzioni» e dunque «si destinano a una congiunta alimentazione di populismo». Ma così - sostiene De Rita nelle sue “Considerazioni generali” - «la dialettica sociale si inceppa», «il potere politico e il corpo sociale non comunicano, coltivano il proprio destino in una sfida di reciproche delegittimazioni, prevalentemente mediatiche e intrise di rancoroso narcisismo». Di referendum De Rita non parla, ma le due Italie del Censis, pur non sovrapponibili a quelle del Sì e del No, vi somigliano molto.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/02/italia/politica/il-censis-e-litalia-di-renzi-governo-e-societ-due-populismi-contrapposti-BSsbuyUBqft9TqArvixDbJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi, dimissioni studiate per “rimettersi in cammino” verso le e
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2016, 04:32:48 pm
Renzi, dimissioni studiate per “rimettersi in cammino” verso le elezioni.
Le ipotesi per il futuro
Nel discorso della sconfitta il leader ha ritrovato un tocco umano che aveva perduto. Nuovo governo: in pole Padoan e Grasso

Pubblicato il 05/12/2016
Ultima modifica il 05/12/2016 alle ore 15:24

Fabio Martini
Roma

Il corposo voto di “sfiducia” degli italiani lo ha spinto fuori da palazzo Chigi e ora il piano di Matteo Renzi è quello di trasformare la sconfitta al referendum nella sua vittoria alla prossime elezioni Politiche. Certo, non sarà facile, ma il progetto è lineare: anzitutto indicare al Capo dello Stato il candidato più gradito per palazzo Chigi e subito dopo, fatto il nuovo governo, Renzi intende «rimettersi in cammino», come ha detto ieri sera nel suo commosso commiato, Questo significa restare alla guida del Pd, provare ad anticipare il congresso, vincere le Primarie e proiettarsi verso le prossime elezioni come leader del Pd. Certo, non sarà una passeggiata, ora nel Pd il boccino passa al nuovo “centro”, formato dagli ex Ppi di Dario Franceschini e gli ex Ds di Andrea Orlando, Maurizio Martina, Matteo Orfini. Proveranno a spodestare il segretario? 

Operazione non semplice quella di Renzi, ma proprio a questo tragitto prelude l’uscita da “statista” del premier: mollando senza indugio la sua poltrona, il segretario del Pd intende ricostruirsi una sua “verginità”. Esattamente come fece nel 2012, quando fu sconfitto da Pier Luigi Bersani alle Primarie del Partito democratico. E proprio sul discorso di “accettazione della sconfitta”, Renzi costruì la sua rivincita alle Primarie poi vinte contro Gianni Cuperlo. Ecco, perché ieri notte Renzi ha risparmiato qualsiasi recriminazione nei confronti dei suoi avversari, a cominciare dai suoi compagni di partito. 

E alla costruzione del “nuovo” Renzi può contribuire anche quel frammento di commozione che il premier uscente ha manifestato, mentre ringraziava e salutava moglie e figli. Commozione sicuramente autentica, ma che colma uno dei deficit di immagine di Matteo Renzi, leader senza anima, che in questi mesi ha provato ad affettare emozione in circostanze drammatiche. Ma senza mai riuscire a restituire l’immagine di leader “umano”, come invece gli suggerivano i suoi consiglieri.

 Matteo Renzi questo pomeriggio si dimetterà e probabilmente indicherà al Capo dello Stato le preferenze sue e del Pd per il prossimo inquilino di palazzo Chigi. Quando Renzi vedrà Mattarella, i mercati si saranno già espressi e in caso di reazione molto “aggressiva” e speculativa, la bilancia potrebbe pendere verso un governo affidato alla guida del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma senza terremoti finanziari, il favorito resta il presidente del Senato Pietro Grasso, soluzione “naturale” in quanto seconda carica dello Stato. 

Un’altra incognita riguarda la squadra di governo. Un esecutivo-fotocopia verrebbe vissuto da Renzi come un affronto: ecco perché è possibile che si vada verso qualche ricambio: Dario Franceschini potrebbe assumere il decisivo dicastero delle Riforme, mentre un avvicendamento potrebbe investire il ministero dell’Interno e dell’Università.

Certo, ad un addio così brusco, Matteo Renzi non aveva mai voluto credere. Ma quando la sconfitta è diventata batosta, a mezzanotte e un quarto del 5 dicembre, si presentato davanti alle telecamere, con la moglie Agnese a pochi passi e lui - sempre così granitico - si è commosso, la voce si è incrinata quando ha dovuto annunciare l’addio. E, per una volta leggendo dagli appunti che aveva preparato nelle ore precedenti, Matteo Renzi si è congedato da statista: «Si può perdere un referendum, ma non si perde il buon umore. Io ho perso e lo dico a voce alta, nella politica italiana non perde mai nessuno, andiamo via senza rimorsi». E ha annunciato che oggi pomeriggio sarà al Quirinale per rassegnare le dimissioni. E ha fatto capire di restare in politica: «Questi mille giorni sono volati, ora per me è tempo di rimettersi in cammino».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/05/italia/speciali/referendum-2016/renzi-mi-assumo-io-tutta-la-responsabilit-il-mio-governo-finito-kyuBiTkt1WFzk7bBMUEqlN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Pd, patto tra le minoranze anti-voto. Così Matteo si ritrova...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 11:22:03 pm
Pd, patto tra le minoranze anti-voto. Così Matteo si ritrova accerchiato
Bersani e D’Alema con Franceschini e Orlando. Si va verso un governo a guida dem
Il Pd al Colle senza segretario.
Renzi non farà parte della delegazione che sabato salirà al Colle per le consultazioni. Ci saranno il vice Guerini, il presidente Orfini e i capigruppo Rosato e Zanda

Pubblicato il 09/12/2016
Fabio Martini
Roma

Lui, nel primo giorno da presidente dimissionario, ha cercato di sublimare l’onta dell’addio, interpretando il ruolo del politico lontano dal Palazzo e facendo vita di famiglia nella sua Pontassieve. Ma il Renzi bravo papà è soltanto una parte della realtà: mai come in queste ore la «fronda» dentro il Pd sta provando a diventare maggioritaria e mai come in queste ore il presidente dimissionario - che sente la tempesta in arrivo - sta brigando per provare a pilotare la crisi di governo verso l’esito più gradito. Renzi è interessato ad un governo che spiani la strada verso l’obiettivo che lo interessa di più: essere il candidato premier del Pd in vista delle prossime elezioni politiche.

Ma Renzi deve fare i conti con un Capo dello Stato che intende svolgere senza interferenze il suo ruolo. Renzi lo ha capito e infatti, da Pontassieve, ci tiene a far sapere: «Col Quirinale c’è un patto di ferro». Ma deve fare i conti soprattutto con la novità che temeva e della quale lui stesso non ha ancora tutte le coordinate: è in atto un autentico terremoto all’interno del Pd. Un terremoto destinato a ridisegnare la geografia del partito. Per effetto di una doppia novità. La prima: una parte della maggioranza «renziana» - la corrente di Dario Franceschini e quella del Guardasigilli Andrea Orlando - ha fatto un passo di lato, rompendo politicamente con il segretario-presidente. Rottura significativa perché le due correnti hanno una forte presenza nei gruppi parlamentari, tanto è vero che sono «franceschiniani» entrambi i capigruppo, quello dei deputati Ettore Rosato e quello dei senatori Luigi Zanda

Ma la seconda novità è la più corposa, la più pericolosa per Renzi: il duo Franceschini-Orlando ha stabilito in queste ore un patto di consultazione con la minoranza che fa capo a Pier Luigi Bersani e anche, ecco l’ultima sorpresa, con Massimo D’Alema, molto attivo nella cucitura. Una sorpresa perché da anni ormai le due maggiori personalità della sinistra Pd, Bersani e D’Alema, avevano rotto politicamente. Certo, è presto per capire se il nuovo asse di centro-sinistra abbia i numeri per mettere in minoranza il leader. Per il momento, non all’interno della Direzione del Pd, che infatti Renzi ha voluto in seduta permanente, elevandola così a organo deliberante durante la crisi di governo. Più incerta la situazione nei gruppi parlamentari. La corrente di Franceschini (che raggruppa in prevalenza ex popolari, ma anche personalità ex ds come Piero Fassino e la ministra Roberta Pinotti) conta su una novantina di deputati (su 301), ai quali vanno aggiunti i deputati vicino ad Orlando (una quindicina) e quelli delle minoranze, venticinque. Si arriva a malapena a 140 deputati, dunque ne mancherebbero una decina per superare la quota non soltanto simbolica del 50%. Stesse proporzioni al Senato. Anche perché con Renzi sono ancora schierati Matteo Orfini e il ministro Maurizio Martina.

Per Renzi un occhio al partito e un occhio al Quirinale. Al termine della prima giornata di consultazioni, il presidente dimissionario ha preso atto che si sta aprendo la strada per un governo guidato da una delle personalità che lui stesso ha fatto trapelare 24 ore fa: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan o quello degli Esteri Paolo Gentiloni. Due nomi che Renzi ha «calato» per verificarne l’«effetto» e anche per chiudere la strada alla candidatura di Dario Franceschini. Ma su Padoan, lo stesso Renzi ha molte riserve - troppo collegato a D’Alema, dicono a Palazzo Chigi - mentre su Gentiloni, che pure ha l’aplomb «giusto», si stanno annidando le perplessità della fronda interna, perché troppo vicino a Renzi. Ecco perché, nelle ultime ore sono risalite le quotazioni di Graziano Delrio, figura di possibile compromesso per un governo a tempo. Fino ad elezioni che avrebbero già una data: 4 giugno 2017.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/09/italia/politica/pd-patto-tra-le-minoranze-antivoto-cos-matteo-si-ritrova-accerchiato-3CDGbDLKunV4kDYUxPpBRL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi, dimissioni studiate per “rimettersi in cammino” verso le..
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 11:40:46 pm
Renzi, dimissioni studiate per “rimettersi in cammino” verso le elezioni.
Le ipotesi per il futuro
Nel discorso della sconfitta il leader ha ritrovato un tocco umano che aveva perduto. Nuovo governo: in pole Padoan e Grasso

Pubblicato il 05/12/2016
Ultima modifica il 05/12/2016 alle ore 15:24
Fabio Martini
Roma

Il corposo voto di “sfiducia” degli italiani lo ha spinto fuori da palazzo Chigi e ora il piano di Matteo Renzi è quello di trasformare la sconfitta al referendum nella sua vittoria alla prossime elezioni Politiche. Certo, non sarà facile, ma il progetto è lineare: anzitutto indicare al Capo dello Stato il candidato più gradito per palazzo Chigi e subito dopo, fatto il nuovo governo, Renzi intende «rimettersi in cammino», come ha detto ieri sera nel suo commosso commiato, Questo significa restare alla guida del Pd, provare ad anticipare il congresso, vincere le Primarie e proiettarsi verso le prossime elezioni come leader del Pd. Certo, non sarà una passeggiata, ora nel Pd il boccino passa al nuovo “centro”, formato dagli ex Ppi di Dario Franceschini e gli ex Ds di Andrea Orlando, Maurizio Martina, Matteo Orfini. Proveranno a spodestare il segretario? 

Operazione non semplice quella di Renzi, ma proprio a questo tragitto prelude l’uscita da “statista” del premier: mollando senza indugio la sua poltrona, il segretario del Pd intende ricostruirsi una sua “verginità”. Esattamente come fece nel 2012, quando fu sconfitto da Pier Luigi Bersani alle Primarie del Partito democratico. E proprio sul discorso di “accettazione della sconfitta”, Renzi costruì la sua rivincita alle Primarie poi vinte contro Gianni Cuperlo. Ecco, perché ieri notte Renzi ha risparmiato qualsiasi recriminazione nei confronti dei suoi avversari, a cominciare dai suoi compagni di partito. 

E alla costruzione del “nuovo” Renzi può contribuire anche quel frammento di commozione che il premier uscente ha manifestato, mentre ringraziava e salutava moglie e figli. Commozione sicuramente autentica, ma che colma uno dei deficit di immagine di Matteo Renzi, leader senza anima, che in questi mesi ha provato ad affettare emozione in circostanze drammatiche. Ma senza mai riuscire a restituire l’immagine di leader “umano”, come invece gli suggerivano i suoi consiglieri.

 Matteo Renzi questo pomeriggio si dimetterà e probabilmente indicherà al Capo dello Stato le preferenze sue e del Pd per il prossimo inquilino di palazzo Chigi. Quando Renzi vedrà Mattarella, i mercati si saranno già espressi e in caso di reazione molto “aggressiva” e speculativa, la bilancia potrebbe pendere verso un governo affidato alla guida del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma senza terremoti finanziari, il favorito resta il presidente del Senato Pietro Grasso, soluzione “naturale” in quanto seconda carica dello Stato. 

Un’altra incognita riguarda la squadra di governo. Un esecutivo-fotocopia verrebbe vissuto da Renzi come un affronto: ecco perché è possibile che si vada verso qualche ricambio: Dario Franceschini potrebbe assumere il decisivo dicastero delle Riforme, mentre un avvicendamento potrebbe investire il ministero dell’Interno e dell’Università.

Certo, ad un addio così brusco, Matteo Renzi non aveva mai voluto credere. Ma quando la sconfitta è diventata batosta, a mezzanotte e un quarto del 5 dicembre, si presentato davanti alle telecamere, con la moglie Agnese a pochi passi e lui - sempre così granitico - si è commosso, la voce si è incrinata quando ha dovuto annunciare l’addio. E, per una volta leggendo dagli appunti che aveva preparato nelle ore precedenti, Matteo Renzi si è congedato da statista: «Si può perdere un referendum, ma non si perde il buon umore. Io ho perso e lo dico a voce alta, nella politica italiana non perde mai nessuno, andiamo via senza rimorsi». E ha annunciato che oggi pomeriggio sarà al Quirinale per rassegnare le dimissioni. E ha fatto capire di restare in politica: «Questi mille giorni sono volati, ora per me è tempo di rimettersi in cammino».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/05/italia/speciali/referendum-2016/renzi-mi-assumo-io-tutta-la-responsabilit-il-mio-governo-finito-kyuBiTkt1WFzk7bBMUEqlN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Per la prima volta nella mia vita mi sono veramente vergognato...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2016, 02:42:22 pm
Pubblicato il 15/12/2016 - Ultima modifica il 15/12/2016 alle ore 07:23

FABIO MARTINI

Per la prima volta nella mia vita mi sono veramente vergognato di essere italiano. Il giorno della formazione del nuovo governo, del giuramento e della votazione alle Camere, tutte le tv hanno presentato uno spettacolo «unificato» di uno squallore unico. Squallido per la ripetizione continua di critiche personali, sempre le stesse, senza una sola parola costruttiva. 

Io ho vissuto momenti di rigore oggi inaccettabile: sarà anche stato eccessivo, ma sarebbe bene ricordare che una battuta su De Gasperi e una innocua vignetta dove si vedeva Einaudi che passava in rassegna una fila di bottiglie di vino Nebbiolo delle sue tenute in Piemonte hanno fatto condannare Guareschi a un anno di galera. De Gasperi ed Einaudi, faccio notare, erano uomini di Stato che rispettavano le istituzioni. Quando un «onorevole» dopo la votazione alla Camera ha definito il governo «una banda di delinquenti» avrei voluto vedere i suoi colleghi dell’altra parte gridare il loro disappunto, la presidente della Camera farlo espellere, il capo del governo dire, subito, che lo avrebbe denunciato. Non è successo nulla, tutto è proseguito serenamente, io ho spento la televisione e mi è scappato un «Vaffa…» per tutti.

Bella lettera, compresa l’imprecazione finale che può apparire greve ma rende l’idea. Ci sono tanti italiani che coltivano idee politiche le più diverse, ma vorrebbero che i loro rappresentanti le portassero avanti con nettezza ma dignità, senza bisogno di ripetere che gli avversari sono criminali. E invece lo spettacolo andato in scena in queste ore nei due rami del Parlamento dimostra una certa inadeguatezza dei diversi schieramenti: si può accusare il governo di essere inadeguato, ma non c’è nulla di delinquenziale nel chiedere la fiducia al Parlamento e ottenerla. E d’altra parte chi si sente ingiustamente investito da accuse assurde, se ne sta al coperto, per evitare di essere investito da una raffica supplementare di insulti via web. È la stagione dei codardi, quelli che si nascondono sulla Rete e chi urla in Parlamento, ma per un’inversione dei toni non è mai troppo tardi.
 
Fabio Martini, inviato per la politica italiana, già redattore del «Messaggero», autore di saggi per le riviste del «Mulino» sul carattere consociativo e «tifoso» dei giornalisti, co-autore di «Roma nascosta», «L’opposizione al governo Berlusconi» (Laterza), «Veltroni, il piccolo principe» (Sperling). 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/15/cultura/opinioni/secondo-me/insulti-sul-web-e-urla-in-parlamento-basta-con-questa-stagione-di-codardi-HmVkS59K6jeLni2J7XY4HK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il crepuscolo della tv renziana, nel mirino c’è Campo Dall’Orto
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 06, 2017, 03:03:48 pm
Il crepuscolo della tv renziana, nel mirino c’è Campo Dall’Orto   
La nemesi: la nemica Berlinguer condurrà il talk show in prima serata

Pubblicato il 04/01/2017 -  Ultima modifica il 04/01/2017 alle ore 10:51

Fabio Martini
ROMA

L’addio di Carlo Verdelli, il giornalista che avrebbe dovuto ridisegnare l’informazione televisiva pubblica, segna il punto più acuto della crisi della Rai «renziana», la Rai che Matteo Renzi un anno e mezzo fa ha affidato alle cure di un manager di sua fiducia, Antonio Campo Dall’Orto. Una crisi che dura da mesi e che, nell’ottica dell’ex premier, consumerà il suo passaggio più paradossale e doloroso tra qualche settimana: a metà febbraio un nuovo talk show di RaiTre, in onda il martedì sera, sarà affidato a Bianca Berlinguer, che l’ex presidente del Consiglio alcuni mesi fa aveva fatto allontanare dalla direzione del Tg3. Una sorta di nemesi: sia pure dietro le quinte, Renzi si era battuto anche per cancellare un talk show come «Ballarò» e far allontanare il suo conduttore, Massimo Giannini, considerato ostile. Una movimentazione che alla fine ha prodotto un plateale boomerang: il programma che ha sostituito «Ballarò» - «Politics» - ha chiuso anticipatamente e per far risalire gli ascolti il direttore generale, il «renziano» Campo Dall’Orto, ha dovuto richiamare la ex direttora del Tg3. Una sequenza eloquente: la Rai tutta «politica» di Renzi non è mai nata e la Rai, più ambiziosa, di Campo Dall’Orto si sta sgretolando.

Tutto era iniziato il primo luglio del 2015. Renzi, presidente del Consiglio già da un anno e mezzo, alla Humboldt Universität di Berlino era stato chiamato a pronunciare un discorso sul futuro dell’Europa, impegno assolto ma con una breve digressione nel corso della quale il capo del governo aveva definito i talk show «un pollaio senz’anima». Un’accusa all’informazione televisiva, ritenuta faziosa e chiassosa, ma anche il preannuncio di una offensiva. La «striscia» che segue è eloquente. Pochi giorni dopo il discorso di Berlino viene nominato, su suggerimento del governo, il nuovo Cda della Rai: alla presidenza va la giornalista Monica Maggioni, già direttora di Rainews, mentre la direzione generale è affidata ad Antonio Campo Dall’Orto, un passato da manager televisivo oltreché frequentatore abituale della «Leopolda». Il 22 dicembre 2015 il Parlamento approva una legge di riforma della governance della Rai che assegna all’amministratore delegato un super-potere: quello di indicare i direttori di rete e delle testate giornalistiche. 

E infine le nomine: il 19 febbraio 2016 il cda indica i nuovi direttori di Rete e dunque anche di RaiTre, la «bestia nera» di Renzi. Tutto sembra pronto per la «nuova» Rai targata Renzi e il programma «ideologico» lo spiega l’amministratore delegato in un’intervista al «Foglio». Per Campo Dall’Orto i nuovi talk show non dovranno «eccitare o indignare», ma invece informare meglio. Un programma molto innovativo, e per concretizzarlo RaiTre chiama un giornalista di Sky, Gianluca Semprini. Il format si rivela subito senza novità rispetto al passato, ma la vera condanna viene dagli ascolti: ogni settimana «Politics» è nettamente superato da «Di Martedì, il «talk» della «Sette» condotto da Giovanni Floris. 
Meno politica l’operazione-Verdelli. Già direttore della «Gazzetta dello Sport», già vicedirettore del Corriere della Sera», inventore della fortunata formula di «Vanity», espressione di un giornalismo «pop alto», Verdelli è chiamato da Campo Dall’Orto per ridisegnare il piano editoriale della Rai. Una missione impegnativa, tant’è che i nuovi vertici mettono da parte l’ambizioso piano preparato dal direttore uscente Luigi Gubitosi con la razionalizzazione delle testate e la riduzione dei costi, per lanciare quello di Verdelli. Ma ora si riparte da capo: tutto da rifare, tutto cancellato.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/04/italia/politica/il-crepuscolo-della-tv-renziana-nel-mirino-c-campo-dallorto-QuDyaWvbC45zUxXWm06gtK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Gentiloni ha deciso: “Non ci sarà nessuna manovra correttiva”
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 17, 2017, 11:11:49 am

Gentiloni ha deciso: “Non ci sarà nessuna manovra correttiva”
Bruxelles prepara la lettera per il debito eccessivo. Disappunto a Palazzo Chigi per l’iniziativa Ue
Il premier Paolo Gentiloni risponde duramente all’Ue che invierà lettere all’Italia su deficit e debito eccessivo

Pubblicato il 17/01/2017
Fabio Martini
Roma

La prima, grossa grana della sua vita da capo del governo, Paolo Gentiloni ha deciso di affrontarla, stando ben attento a non abbassare la guardia. Per il momento nessuna dichiarazione ufficiale davanti alla lettera di «richiamo» in arrivo dalla Commissione europea che, senza invocarla esplicitamente, alluderebbe ad una manovra correttiva della Legge di stabilità di 3 miliardi e 400 milioni di euro. 

Ma la prima reazione del presidente del Consiglio è stata di «disappunto», di forte sorpresa per la tempistica dell’iniziativa europea. Gentiloni ritiene al limite del surreale l’approccio rivendicativo col quale Bruxelles guarda all’Italia, in settimane nelle quali sta cambiando radicalmente il quadro internazionale. 

LEGGI ANCHE - Padoan: un freno al debito, ma ora pensiamo a crescita e occupazione 

Con un presidente degli Stati Uniti come Donald Trump che sembra prepararsi a guardare all’Europa con un approccio potenzialmente dissolutorio, con la premier inglese Theresa May che oggi finalmente spiegherà come intende pilotare la Brexit, con la Francia a rischio-Le Pen, in sostanza con un contesto così movimentato, il nuovo presidente del Consiglio ritiene miope la richiesta della Commissione all’Italia di ridurre dello 0,2% il proprio deficit. Con una battuta del tutto informale, Gentiloni ha paragonato un atteggiamento di questo tipo a quello del pianista che continua a suonare nel saloon mentre attorno a lui imperversa una rissa.

E con questo spirito, confidato nei contatti informali di queste ore, Gentiloni ha deciso la linea per i prossimi giorni: come sempre in questi casi con Bruxelles si apre una trattativa, «l’Italia non ha alcuna intenzione di aprire guerre con nessuno», infrangere le regole o di lanciarsi nel burrone dell’extra-deficit. Ma al tempo stesso non ha alcuna intenzione - ecco il punto dirimente - di ipotizzare manovre, manovrine o aggiustamenti. 
LEGGI ANCHE - Crescita e sviluppo: vince il Nord Europa, il rapporto di Davos boccia l’Italia, posto 27 su 30 

Al termine di una trattativa che si intende condurre senza rigidità, si rifaranno i conti e, nel caso, si ritoccheranno i numeri del Documento di economia e finanza, ma al momento nulla cambia. Anche perché, ma su questo a palazzo Chigi sono attentissimi ad evitare polemiche, la Commissione è parsa avere un approccio benevolo nei confronti di alcuni Paesi (Spagna e Portogallo e non solo) che hanno sfondato i parametri.

Certo, la posizione di Palazzo Chigi per il momento è espressa in modo informale e dunque è prematuro rilevare un discostamento da quanto dichiarato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: «Vedremo se sarà il caso di prendere misure ulteriori per sostenere i conti pubblici ma come ho sempre detto la via maestra per abbattere il debito è la crescita». Prematuro capire se sia la riproposizione della dialettica -sempre civile - tra Renzi e Padoan o se invece il ministro abbia volutamente esposto una posizione più negoziale. 

Certo, Gentiloni intende presentarsi domani a Berlino per il bilaterale con Angela Merkel con il suo stile, così diverso da quello di Matteo Renzi, ma anche con un messaggio chiaro: l’Italia è quella di prima. Rispetto alla stagione di Renzi, non si fa un passo indietro. Un Paese fondatore che continua a considerarsi in credito e non in debito rispetto a Bruxelles, anche alla luce del dossier immigrazione: è vero che su questo fronte la stagione invernale non fa testo, ma nei primi giorni del nuovo anno gli arrivi in Italia sono triplicati rispetto al periodo corrispondente dello scorso anno. 

D’altra parte il preannuncio dell’invio della lettera da parte della Commissione europea fa parte degli eventi messi nel conto. A novembre l’esecutivo Ue aveva pubblicato un’opinione attendista sulla manovra per il 2017 rilevando che il bilancio italiano era a rischio rispetto alle regole del Patto di stabilità. Nelle prossime settimane la Commissione pubblicherà il rapporto sul debito pubblico: un altro fronte sul quale l’Italia rischia grosso.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/17/economia/gentiloni-ha-deciso-non-ci-sar-nessuna-manovra-correttiva-V5sq6LrWws6ryUCWHeCAGL/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170117.


Titolo: FABIO MARTINI. Effetto Gentiloni, tornano i ministri
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 18, 2017, 06:12:03 pm
Effetto Gentiloni, tornano i ministri
Nel giro di due settimane i dicasteri sono tornati a parlare, a proporre e ad agire in prima persona. È la fine del “centralismo” renziano?

Pubblicato il 17/01/2017 -  Ultima modifica il 17/01/2017 alle ore 13:40
FABIO MARTINI

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nel nuovo governo: i ministri, soprattutto quelli competenti, sono tornati a parlare, a proporre, ad agire in prima persona. Col risultato che nel giro di due settimane sono venuti alla luce diversi piani operativi. Quello per i migranti, preparato (e spiegato) dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Quello sui nuovi livelli di assistenza pubblica preparato (e spiegato) dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin. La nazionalizzazione del Monte dei Paschi di Siena seguirà le linee preparate dal ministero dell’Economia guidato da Pier Carlo Padoan. Il ministro delle Sviluppo Economico Carlo Calenda e quello delle Infrastrutture Graziano Delrio hanno tenuto “botta” ai tedeschi nella rovente polemica sulla questione delle emissioni delle auto Fca. 
    
Sembra un fenomeno scontato ma si tratta di una novità. Per quasi tre anni, sotto la guida di Matteo Renzi, ogni provvedimento era scandito da due imperativi: la “centralità” in termini di presenza e di immagine del presidente del Consiglio, la scansione temporale dei provvedimenti sulla base della loro comunicazione. La “centralità” del premier aveva finito per oscurare i propri ministri: tutti i principali provvedimenti settoriali – dal Jobs Act alle riforme istituzionali, da quelle dei diritti a quelle dell’ordine pubblico – finivano per identificarsi col presidente del Consiglio, che li presentava e rilanciava in conferenze stampa, slides, lanci sul web. 
 
Col nuovo governo, i singoli ministri sono tornati a “respirare”: il nuovo ministro dell’Interno Marco Minniti, che da molti anni si occupa prevalentemente di sicurezza, nel giro di pochi giorni ha prodotto un piano organico sulla questione migranti, mentre in termini di immagine, è stato lui, prima ancora del presidente del Consiglio, a “mettere la faccia” sulla brillante operazione di polizia che ha portato allo scontro a fuoco nel corso del quale è morto l’autore della strage di Berlino. Certo, un maggior protagonismo da parte dei ministri può avere il suo rovescio della medaglia, come dimostrano le dichiarazioni di alcuni ministri e infatti a palazzo Chigi non sono state apprezzate alcune sortite (non solo quella di Poletti sui giovani emigranti italiani), ma la maggior libertà è un prezzo da pagare per avere una squadra più motivata. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/17/italia/politica/effetto-gentiloni-tornano-i-ministri-q4s5g5kn3HKd4uvWTAuq1K/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il patto con Gentiloni. E Renzi ora spinge per il reddito minimo
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 18, 2017, 10:43:35 pm
Il patto con Gentiloni. E Renzi ora spinge per il reddito minimo
Mosse e tempi concordati con l’ex premier. “Pensiamo al presente”
Introducendo la riunione, Gentiloni ha pronunciato una frase significativa: «Decidiamo e raccontiamo quel che facciamo più che quel che faremo»

Pubblicato il 15/01/2017
Ultima modifica il 15/01/2017 alle ore 07:29
Fabio Martini
ROMA

Dal Policlinico Gemelli lo hanno dimesso alle 9,50, ha fatto una capatina a casa e poco prima di mezzogiorno Paolo Gentiloni si è presentato a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri. Una sequenza che intende essere eloquente e che comunque ha un valore simbolico: il presidente del Consiglio sta bene, si ricomincia come prima. Mentre passava dal cortile di palazzo Chigi al primo piano, un dettaglio fermato da una telecamera, racconta l’uomo Gentiloni: il presidente del Consiglio è solo, apre una porta e avvertendo con la coda dell’occhio una persona dietro di lui, ha rallentato e trattenuto la maniglia. Gesto minimo ma che indirettamente aiuta a spiegare l’accoglienza affettuosa che gli hanno riservato ministre e ministri al suo ingresso nel salone del Consiglio.

E, introducendo la riunione, Gentiloni ha pronunciato una frase significativa: «Decidiamo e raccontiamo quel che facciamo più che quel che faremo». Un’indicazione nel segno del pragmatismo da parte di chi vuol far bene, ma non sa quale sia l’orizzonte temporale del governo. L’ orizzonte sarà deciso, in base alle condizioni politiche, da Matteo Renzi, segretario del partito più forte del Parlamento. Tanto è vero che due giorni fa, quando Renzi è andato a trovare Gentiloni presso il Reparto di Cardiologia, i due hanno chiacchierato del futuro, trovandosi d’accordo sulle questioni essenziali. I due, effettivamente, hanno deciso di muoversi all’unisono. Come un tandem. Renzi ha bisogno di Gentiloni per realizzare quelle misure programmatiche che connotino il Pd in vista della campagna elettorale e Gentiloni ha bisogno di Renzi per svolgere il suo compito «con dignità», come dice lui. 

 L’ex presidente del Consiglio ha interpretato la sconfitta al referendum soprattutto come un segno di protesta da parte di alcune fasce sociali e geografiche (giovani, ceto medio impoverito, Sud) alle quali ora invece vuole parlare, vestendo i panni del leader che cerca di dare una risposta a quelle fasce di nuova emarginazione. Con provvedimenti eloquenti. Come il “reddito minimo garantito”, al quale stanno lavorando nell staff di Renzi. L’ex premier ha sempre escluso di poter caldeggiare il “reddito di cittadinanza”, che sta a cuore ai Cinque Stelle e che rappresenta controindicazioni significative: prevede un trasferimento universale e permanente a ogni individuo che rispetti requisiti minimi di appartenenza a una comunità, ma senza alcuna limitazione connessa alla condizione economica. Una misura che avrebbe un costo stratosferico (oltre 300 miliardi) ed è per questo motivo che al Pd stanno lavorando al “reddito minimo garantito”, che cioè sia in grado di assicurare a chiunque sia in età lavorativa un’integrazione che lo porti a un livello minimo accettabile. 

Naturalmente ciò che più sta a cuore a Renzi, è arrivare allo scioglimento anticipato delle Camere. Ma anche in questo caso c’è una novità: il segretario del Pd pubblicamente continuerà a tenere il punto - se non lo facesse la prospettiva si affloscerebbe - ma si sarebbe fatto meno tranchant: Renzi vuole la rivincita ma non a tutti i costi, non al costo di perdere un’altra volta. E comunque, avrebbe detto, entro febbraio si decide, in base alle trattative con i partiti. Prima di andare allo showdown delle elezioni anticipate, al Pd vogliono capire quale compromesso si potrà raggiungere con Berlusconi sulla legge elettorale, anche perché Renzi non vuole passare alla storia come il leader che riporta il proporzionale in Italia e al tempo stesso vuole uno strumento che gli consenta di governare e di incidere. Intanto il governo in carica, con provvedimenti su scuola e unioni civili, continua a marciare con un passo realizzativo “renziano” e Gentiloni, non avendo ricevuto veti da parte dei medici, ha deciso di confermare l’impegno a Berlino del 18, un bilaterale Germania-Italia con Angela Merkel.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/15/italia/politica/il-patto-con-gentiloni-e-renzi-ora-spinge-per-il-reddito-minimo-dq4UrqvJ7MUHVN678iWyaL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 23, 2017, 11:12:23 am
Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della classe media”
L’ex premier: “Brexit vince nei sobborghi, Trump nel Midwest, il populismo sfrutta le diseguaglianze. L’Europa mostri energia come quando ha imposto a Apple il pagamento della maxi-multa”


Pubblicato il 23/01/2017
FABIO MARTINI

È domenica pomeriggio e nella sua casa bolognese di via Gerusalemme Romano Prodi ha appena cominciato a dire la sua sulle prime esternazioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, «dichiarazioni che già segnalano una rottura senza precedenti nella storia americana», quando gli squilla il cellulare. La suoneria fa scattare un vigoroso Inno alla gioia di Beethoven (che è anche l’inno europeo) e il Professore sorride: «Eh sì, sono un vetero!».

Trump scommette sulla dissoluzione dell’Europa? 
«Se Trump ha pensato bene a quel che diceva in questi giorni - e sicuramente ci ha pensato - la sua scommessa è quella di spaccare ancora di più l’Europa. Nel suo attacco alla Germania come Paese dominatore in Europa, c’è la consapevolezza che quel Paese è il collante europeo. Ma c’è anche qualcosa di più. La Germania è sempre stata la prima della classe in Europa, ha sempre avuto un rapporto organico con gli Stati Uniti, è stata la prima ad applicare le sanzioni alla Russia, anche contro i propri interessi materiali immediati. In un rapporto nel quale la forza è stata determinata dalla fedeltà e anche viceversa». 
 
L’Europa per ora riflette... 
«Riflette? A me pare che l’Ue non abbia proprio reagito davanti a dichiarazioni di Trump che segnano una rivoluzione nei rapporti con l’Ue. L’Europa è per ora inesistente. Mi meraviglia che nessuno abbia avvertito l’urgenza di un vertice straordinario. Penso invece che occorra reagire in fretta. Anzitutto organizzando un “contropiede” sulle sanzioni alla Russia...». 
 
Contropiede in che senso? 
«Nel senso che occorre togliere immediatamente le sanzioni alla Russia. Di questo sono fortemente convinto. Puoi sacrificarti per politiche solidali ma se la solidarietà non c’è più, non ha senso perseverare. La saggezza di un proverbio calabrese dice: chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Giochiamo d’anticipo, senza lasciare agli Stati Uniti un ruolo privilegiato nei rapporti con la Russia».
 
Di difesa comune europea si parla da anni, un passettino alla volta, Ma sembra una chimera... 
«E invece su questo terreno bisognerà verificare se dalle parole si passerà ai fatti. Ma se Trump dovesse confermare la sua linea sulla Nato, occorre preparare subito un progetto comune di difesa europea. Tra l’altro in questo frangente non occorrerebbe, in una prima fase, neppure accrescere le spese perché si possono ottenere risultati importanti, unificando risorse comuni sotto un solo comando».
 
Perché la Germania finora non ha reagito agli affondi di Trump? 
«Mi sentirei di proporre, più che un sospetto, un dubbio. Ragionando su quel che leggo, le ripetute interviste di accreditati esponenti tedeschi, filtra l’idea che possa essere la Germania a voler abbandonare l’euro. Comincia a nascere in me il dubbio che la Germania si tenga una strategia di riserva: fare da sola». 
 
Nella vittoria di Trump c’è anche una risposta alle diseguaglianze che colpiscono la classe media americana: una «sensibilità» più progressista che liberista? 
«Trump, ma anche il populismo europeo, interpretano il malessere della classe media, ma anche operaia. Guardi che è un fenomeno chiarissimo: la Brexit vince nei sobborghi popolari e non a Londra; Trump nel Mid West, certo non a New York o in California. E il Movimento Cinque Stelle? Vince nelle borgate romane, non ai Parioli! In questi anni si è salvata soltanto la parte medio-alta, mentre è aumentata la distanza tra ricchi e poveri. Il recente rapporto dell’Oxfam è un richiamo impressionante quando dice che otto Paperoni hanno lo stesso livello di ricchezza di 3 miliardi e mezzo di persone. Cosa aspettiamo a reagire? Aspettiamo la rivoluzione? Non è meglio cercare la giustizia prima che avvenga la rivoluzione?».
 
La sinistra per ora assiste e perde posizioni: come reagire? 
«Anzitutto cercando di capire che cosa accade. Trump si è impadronito di questo malessere, pur appartenendo - lui e i suoi principali collaboratori - alla parte privilegiata della società americana. Il malessere è tale che basta la denuncia, anzi la denuncia più è “nuda” e meglio è. Se la denuncia ha radici ideologiche non funziona. Marine Le Pen si afferma quando “uccidendo” il padre e le radici ideologiche, riesce a parlare alla borghesia frustrata ma anche agli operai di Marsiglia. Lo stesso vale per i Cinque Stelle: né di destra né di sinistra. Mentre la Lega, che ha mantenuto una radice ideologica, ha messo limiti alla sua protesta. E sarebbe difficile capire il successo di Trump tra gli evangelici estremisti così come tra i cattolici praticanti: c’è una grande paura che va interpretata». 
 

Si può tornare al Welfare degli Anni Cinquanta e Sessanta? 
«Serve un riformismo attivo: il lavoro è poco mobile, il capitale scappa e i vecchi schemi faticano a riequilibrare. Quando eravamo ragazzi, il tema era: più tasse o più Welfare? Da 35 anni in qua è restata in campo solo la ricetta del meno tasse e la sinistra ha rincorso».
 
Concretamente parlando? 
«Un esempio. La Commissione europea ha avuto un momento di gloria quando ha imposto alla Apple di pagare all’Irlanda una multa per 13 miliardi di euro di tasse non pagate. Verrebbe da dire: bene. Ma si andrà sino in fondo? La Apple ha 250 miliardi di dollari di liquido...».
 
E se parte una stagione protezionista? 
«Se prendiamo alla lettera ciò che dice Trump l’effetto sarà disastroso. Ma impostare una politica puramente protezionistica come quella nei confronti della Cina è ragionare con una logica irrealistica, del tipo: stai fermo che ora ti picchio! Tutti reagirebbero. Penso e spero che Trump, alla prova dei fatti, sarà più prudente». 
 
Qualcuno ha letto le sue dichiarazioni sull’Ulivo come un ritorno in campo... 
«Questa possibilità non esiste assolutamente. Ma in un mondo pieno di crepe l’Ulivo può tornare a essere un elemento di coesione politica e sociale».
 
In questa stagione così emotiva, l’Italia può giovarsi di un capo del governo che è un personaggio antiretorico e freddo? 
«Non è freddo. È calmo. Per questo nel mio governo, con Gentiloni abbiamo lavorato bene assieme. Ho grande fiducia in lui».

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DA - http://www.lastampa.it/2017/01/23/italia/politica/prodii-progressisti-devono-rispondere-al-malessere-della-classe-media-AV7pYtFXv8DN28rzRmZW7L/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 24, 2017, 06:21:56 pm
Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della classe media”
L’ex premier: “Brexit vince nei sobborghi, Trump nel Midwest, il populismo sfrutta le diseguaglianze.
L’Europa mostri energia come quando ha imposto a Apple il pagamento della maxi-multa”
Pubblicato il 23/01/2017

FABIO MARTINI

È domenica pomeriggio e nella sua casa bolognese di via Gerusalemme Romano Prodi ha appena cominciato a dire la sua sulle prime esternazioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, «dichiarazioni che già segnalano una rottura senza precedenti nella storia americana», quando gli squilla il cellulare. La suoneria fa scattare un vigoroso Inno alla gioia di Beethoven (che è anche l’inno europeo) e il Professore sorride: «Eh sì, sono un vetero!».

Trump scommette sulla dissoluzione dell’Europa? 
«Se Trump ha pensato bene a quel che diceva in questi giorni - e sicuramente ci ha pensato - la sua scommessa è quella di spaccare ancora di più l’Europa. Nel suo attacco alla Germania come Paese dominatore in Europa, c’è la consapevolezza che quel Paese è il collante europeo. Ma c’è anche qualcosa di più. La Germania è sempre stata la prima della classe in Europa, ha sempre avuto un rapporto organico con gli Stati Uniti, è stata la prima ad applicare le sanzioni alla Russia, anche contro i propri interessi materiali immediati. In un rapporto nel quale la forza è stata determinata dalla fedeltà e anche viceversa». 
 
L’Europa per ora riflette... 
«Riflette? A me pare che l’Ue non abbia proprio reagito davanti a dichiarazioni di Trump che segnano una rivoluzione nei rapporti con l’Ue. L’Europa è per ora inesistente. Mi meraviglia che nessuno abbia avvertito l’urgenza di un vertice straordinario. Penso invece che occorra reagire in fretta. Anzitutto organizzando un “contropiede” sulle sanzioni alla Russia...». 
 
Contropiede in che senso? 
«Nel senso che occorre togliere immediatamente le sanzioni alla Russia. Di questo sono fortemente convinto. Puoi sacrificarti per politiche solidali ma se la solidarietà non c’è più, non ha senso perseverare. La saggezza di un proverbio calabrese dice: chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Giochiamo d’anticipo, senza lasciare agli Stati Uniti un ruolo privilegiato nei rapporti con la Russia».
 
Di difesa comune europea si parla da anni, un passettino alla volta, Ma sembra una chimera... 
«E invece su questo terreno bisognerà verificare se dalle parole si passerà ai fatti. Ma se Trump dovesse confermare la sua linea sulla Nato, occorre preparare subito un progetto comune di difesa europea. Tra l’altro in questo frangente non occorrerebbe, in una prima fase, neppure accrescere le spese perché si possono ottenere risultati importanti, unificando risorse comuni sotto un solo comando».
 
Perché la Germania finora non ha reagito agli affondi di Trump? 
«Mi sentirei di proporre, più che un sospetto, un dubbio. Ragionando su quel che leggo, le ripetute interviste di accreditati esponenti tedeschi, filtra l’idea che possa essere la Germania a voler abbandonare l’euro. Comincia a nascere in me il dubbio che la Germania si tenga una strategia di riserva: fare da sola». 
 
Nella vittoria di Trump c’è anche una risposta alle diseguaglianze che colpiscono la classe media americana: una «sensibilità» più progressista che liberista? 
«Trump, ma anche il populismo europeo, interpretano il malessere della classe media, ma anche operaia. Guardi che è un fenomeno chiarissimo: la Brexit vince nei sobborghi popolari e non a Londra; Trump nel Mid West, certo non a New York o in California. E il Movimento Cinque Stelle? Vince nelle borgate romane, non ai Parioli! In questi anni si è salvata soltanto la parte medio-alta, mentre è aumentata la distanza tra ricchi e poveri. Il recente rapporto dell’Oxfam è un richiamo impressionante quando dice che otto Paperoni hanno lo stesso livello di ricchezza di 3 miliardi e mezzo di persone. Cosa aspettiamo a reagire? Aspettiamo la rivoluzione? Non è meglio cercare la giustizia prima che avvenga la rivoluzione?».
 
La sinistra per ora assiste e perde posizioni: come reagire? 
«Anzitutto cercando di capire che cosa accade. Trump si è impadronito di questo malessere, pur appartenendo - lui e i suoi principali collaboratori - alla parte privilegiata della società americana. Il malessere è tale che basta la denuncia, anzi la denuncia più è “nuda” e meglio è. Se la denuncia ha radici ideologiche non funziona. Marine Le Pen si afferma quando “uccidendo” il padre e le radici ideologiche, riesce a parlare alla borghesia frustrata ma anche agli operai di Marsiglia. Lo stesso vale per i Cinque Stelle: né di destra né di sinistra. Mentre la Lega, che ha mantenuto una radice ideologica, ha messo limiti alla sua protesta. E sarebbe difficile capire il successo di Trump tra gli evangelici estremisti così come tra i cattolici praticanti: c’è una grande paura che va interpretata». 
 

Si può tornare al Welfare degli Anni Cinquanta e Sessanta? 
«Serve un riformismo attivo: il lavoro è poco mobile, il capitale scappa e i vecchi schemi faticano a riequilibrare. Quando eravamo ragazzi, il tema era: più tasse o più Welfare? Da 35 anni in qua è restata in campo solo la ricetta del meno tasse e la sinistra ha rincorso».
 
Concretamente parlando? 
«Un esempio. La Commissione europea ha avuto un momento di gloria quando ha imposto alla Apple di pagare all’Irlanda una multa per 13 miliardi di euro di tasse non pagate. Verrebbe da dire: bene. Ma si andrà sino in fondo? La Apple ha 250 miliardi di dollari di liquido...».
 
E se parte una stagione protezionista? 
«Se prendiamo alla lettera ciò che dice Trump l’effetto sarà disastroso. Ma impostare una politica puramente protezionistica come quella nei confronti della Cina è ragionare con una logica irrealistica, del tipo: stai fermo che ora ti picchio! Tutti reagirebbero. Penso e spero che Trump, alla prova dei fatti, sarà più prudente». 
 
Qualcuno ha letto le sue dichiarazioni sull’Ulivo come un ritorno in campo... 
«Questa possibilità non esiste assolutamente. Ma in un mondo pieno di crepe l’Ulivo può tornare a essere un elemento di coesione politica e sociale».
 
In questa stagione così emotiva, l’Italia può giovarsi di un capo del governo che è un personaggio antiretorico e freddo? 
«Non è freddo. È calmo. Per questo nel mio governo, con Gentiloni abbiamo lavorato bene assieme. Ho grande fiducia in lui».

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Titolo: FABIO MARTINI. Il segretario Pd pensa a un listone con Pisapia e Alfano
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 26, 2017, 12:22:05 pm
Renzi e il piano per il voto: “Niente ostacoli alle urne, ma Gentiloni va coinvolto”
Il segretario Pd pensa a un listone con Pisapia e Alfano
Il segretario del Pd è pronto per il voto, ma «senza fretta». Vorrebbe un passaggio parlamentare che certifichi l’impossibilità di accordi in Parlamento per poi andare alle urne in estate

Pubblicato il 26/01/2017
Fabio Martini
Roma

È euforico, di nuovo su di giri. Come nei giorni in cui era il padrone della politica italiana. Certo, una volta Matteo Renzi sarebbe apparso in tv a raccontare a tutti la sua versione dei fatti, ma per ora la «cura» del silenzio continua. Il segretario del Pd ovviamente ha parlato a lungo con i suoi amici e nel pomeriggio, una volta letto il comunicato della Corte Costituzionale, Renzi ha esclamato: «Ragazzi, ma questo è un trionfo!». Nella sua lettura, la Consulta non ha toccato il cuore dell’Italicum e ha «soltanto» cancellato il ballottaggio: «Ma quale Legalicum!», commentava ieri sera un Renzi talmente affezionato al suo «Italicum», che l’ex premier ora accarezza la tentazione di utilizzarlo per andare ad elezioni anticipate. Quando? «Calma e gesso», confidava ieri sera l’ex premier, perché non si può cavalcare la questione elettorale con le tragedie ancora in corso. Dunque, escluso il voto subito, in primavera, ma da ieri al Nazareno l’11 giugno è considerato più vicino. Quella che Renzi ha messo in cantiere è una «escalation soft». 

Il suo disegno, tracciato a caldo dopo la sentenza della Consulta, si dipana in tre mosse. Primo: mettere la sordina alla corsa al voto. «Non facciamoci prendere dalla fretta», dice Renzi, perché a suo avviso sarebbe un errore madornale dare l’impressione al Paese di guardare a questioni di bottega, mentre è ancora forte l’emozione collettiva per i morti d’Abruzzo. E infatti, ieri pomeriggio, un renziano doc come Francesco Bonifazi è stato costretto proprio da Renzi a cancellare in un baleno un tweet considerato troppo «oltranzista». Poco dopo la diffusione del comunicato della Consulta. Bonifazi aveva scritto: «E adesso non ci sono più alibi. Votiamo e vediamo chi ha i numeri nel Paese». Fuori mood: bocciato.

 La seconda mossa del piano Renzi prevede l’approdo in Parlamento, nel giro di qualche settimana, dei progetti di riforma elettorale, col Pd che spingerà per il ripristino del Mattarellum, la legge maggioritaria con i collegi. In quel frangente il Pd prenderà atto quel che è noto da settimane: una maggioranza per far passare una riedizione del Mattarellum non esiste. E a quel punto scatterebbe il terzo tempo del piano: il Pd proverà ad armonizzare il Consultellum-1 (la legge per il Senato, ricavata da una vecchia sentenza della Consulta) e il Consultellum-2, la legge elettorale per la Camera ricavata dalla pronuncia di ieri della Corte Costituzionale. Se anche questo tentativo fallisse per le divisioni tra i partiti, a quel punto si aprirebbero le porte ad una scenario del quale Renzi ragionava ad alta voce: «L’attuale normativa per il Senato, che prevede una soglia all’8% per le coalizioni, ha un forte effetto maggioritario». E dunque, ma questo Renzi non lo dice neppure in «casa», non resterebbe che votare con i due «Consutelli». E aggiunge: «Una soluzione che piace a Forza Italia...».

 

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A quel punto bisognerebbe preparare le truppe «ritagliate» su due leggi di impianto proporzionale. Ragionava ieri Renzi: «Poiché si va verso una legge con quell’impianto lì e poiché alla Camera bisognerà presentare una lista coalizionale», già nelle prossime ore si intensificheranno i contatti con la «lista Pisapia» e con i centristi raccolti attorno ad Angelino Alfano. Con loro Renzi si misurerà anche in Primarie di coalizione? Questione ancora non decisa, ma intanto nelle segrete stanze già si discetta su quanti capolista bloccati (salvati dalla Consulta) si possano assegnare alle tre forze nel futuro «Listone». Mentre Lorenzo Guerini sta già preparando le liste del Pd ieri sera circolava la prima stima della lista coalizionale il 75% dei bloccati al Pd e il restante 25% diviso tra le due ali. 

Certo, per uno show down, restano molti problemi che Renzi conosce bene: l’ostilità dentro al Pd di una area - più larga della minoranza - alle elezioni anticipate. Ma anche la difficoltà a «sfiduciare» un governo guidato da un esponente del Pd, Paolo Gentiloni che ha approvato provvedimenti importanti, che sta operando senza intoppi e che sta dimostrando la massima lealtà verso Renzi. L’ex premier, pur restando diffidente per natura verso tutto e tutti, ieri sera confidava che in vista di uno scioglimento anticipato delle Camere serve un’operazione corale, «dal presidente del Consiglio fino a tutti gli esponenti della maggioranza del partito». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/26/italia/politica/renzi-e-il-piano-per-il-voto-niente-ostacoli-alle-urne-ma-gentiloni-va-coinvolto-vaRaNjWKI4ALLC3tZcTBVM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La linea di Gentiloni: “Avanti con dignità, ma niente barricate”
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2017, 08:52:00 pm

La linea di Gentiloni: “Avanti con dignità, ma niente barricate”
Il premier non brigherà per arrivare al 2018
Al netto delle dietrologie, Gentiloni e Renzi si parlano, si scambiano informazioni, continuano a collaborare senza apparenti riserve

Pubblicato il 27/01/2017 - Ultima modifica il 27/01/2017 alle ore 10:13

Fabio Martini
Roma

Nel suo studio al piano nobile di Palazzo Chigi Paolo Gentiloni non sgualcisce il suo aplomb neppure davanti all’accelerazione verso le elezioni impressa dalla Consulta. Dice il presidente del Consiglio: «Il lavoro da fare non manca, continueremo a farlo come se non avessimo una scadenza a breve termine, ma è del tutto pacifico che non sono io a decidere la durata del governo, perché ci rimetteremo alle decisioni del Parlamento, qualunque esse siano». E dunque, decide la maggioranza. Come sempre, nella storia della Repubblica. Con la differenza che stavolta il presidente del Consiglio non intende muover foglia per poter restare. Una novità non da poco.

Ma un eventuale scioglimento anticipato delle Camere, da 48 ore lo scenario più probabile, non sarà una passeggiata. E poiché si passerà comunque attraverso quattro sponde, Pd-governo-Parlamento-Quirinale, a Palazzo Chigi escludono «qualsiasi coinvolgimento» dell’esecutivo nella «cottura» della nuova legge elettorale, anche se nessuno può scartare la necessità di una futura tessitura tra presidente del Consiglio e Capo dello Stato nel momento in cui si dovesse arrivare al «dunque». Ma intanto il primo messaggio, sia pure indiretto, il governo lo ha già dato: in queste ore i ministri si sono tenuti a distanza dalla questione-elezioni, a conferma che nella partita politica che sta per aprirsi - soprattutto fuori il Parlamento - l’esecutivo intende restar fuori.

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E d’altra parte Matteo Renzi - al di là della sua naturale sospettosità verso tutti, sa che Paolo Gentiloni rispetterà il patto che lo ha portato a palazzo Chigi, sa che il presidente del Consiglio non brigherà per restare, sa che non cercherà assi o intese sotterranee a dispetto del leader del Pd. Nelle ore decisive della scelta del suo successore a Palazzo Chigi, Renzi preferì Gentiloni ad altri (Padoan, Delrio) per una ragione per lui decisiva: la certezza di trovarlo leale nel momento della stretta decisiva, quando si valuterà se si debbano sciogliere o meno le Camere.

 
Certo, quel che conta sono i comportamenti pubblici, mentre quel che i due amici pensano nella sfera più intima per il momento sembra aver una scarsa incidenza. Si racconta che Renzi resti diffidente nei confronti di ogni espressione che esca da esponenti del governo e che il segretario del Pd tende ad interpretare come volontà di far proseguire l’attività dell’esecutivo. Al netto delle dietrologie, i due si parlano, si scambiano informazioni e continuano a collaborare senza apparenti riserve. 

Per parte sua Gentiloni ha deciso di vivere l’inattesa stagione a palazzo Chigi, come dice lui, col massimo della «dignità» possibile. Nella cura nella preparazione dei provvedimenti e nello stile di governo. Nell’ultimo Consiglio dei ministri, i suoi colleghi sono rimasti spiazzati quando ha chiesto a tutti cosa pensassero su una misura che riguardava la scuola elementare. Collegialità ma anche valorizzazione delle competenze di ognuno, una discontinuità forte rispetto a Renzi. 

Dopo i piani operativi emersi nelle scorse settimane (migranti, nuovi livelli di assistenza pubblica), i decreti (Mps, Abruzzo), il presidente del Consiglio sta preparando nuove carte e nuovi dossier. Di nuovo banche, di nuovo confronto con l’Europa («di correzione alla manovra non si parla, semmai possiamo toccare il Def»), forse un decreto-bis sul terremoto. E quel reddito di inclusione che sarà la prima impronta tutta del nuovo governo. 

Ma c’è un altro fronte sul quale Gentiloni sta segnando una discontinuità rispetto al precedente governo: nei rapporti con le personalità più rilevanti della stagione dell’Ulivo. Giorni fa si è incontrato con Romano Prodi e con una certa frequenza si parla con Arturo Parisi che di quella esperienza politica è stato l’«ideologo». Oggi Gentiloni sarà a Madrid dove incontrerà il primo ministro spagnolo Rajoy, mentre domani parteciperà al vertice dei Paesi mediterranei nel segno dell’anti-austerity, promotore il primo ministro greco Alexis Tsipras.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/27/italia/politica/la-linea-di-gentiloni-avanti-con-dignit-ma-niente-barricate-dEilqWYYqqQ05f5X14ffwJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Gentiloni decide: niente tasse ma sì a una mini-correzione
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 01, 2017, 08:34:42 pm

Gentiloni decide: niente tasse ma sì a una mini-correzione
Stasera il governo invierà la lettera attesa dall’Ue, senza risposte puntuali. Renzi si lamenta dell’atteggiamento “poco tosto” del ministro dell’Economia
Il leader del Pd, Matteo Renzi con il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni

Pubblicato il 31/01/2017 - Ultima modifica il 31/01/2017 alle ore 09:08
Fabio Martini
Roma

Non è una di quella lettere che si scrivono di getto, belle pulite, senza neppure una correzione. L’epistola che questa sera il governo italiano invierà alla Commissione europea in risposta alla richiesta di una correzione di bilancio, sarà emendata fino all’ultimo minuto, anche se ieri pomeriggio il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ne hanno deciso il senso politico: a Bruxelles si farà capire che il governo italiano non intende fare manovre correttive; che per coprire lo sbilancio denunciato da Bruxelles (circa 3,4 miliardi) non saranno decise nuove tasse e dunque - ecco il senso - la trattativa con la Commissione continua. In altre parole nella lettera non saranno contenute risposte puntuali e dettagliate ai rilievi e soltanto al termine di un’ulteriore istruttoria - ma questo non sarà contenuto nel testo della lettera - si immagina una possibile convergenza. 

E qui sta il punto politico: Gentiloni e Padoan (ma anche Renzi) hanno scartato lo scenario dello scontro frontale, quello che immaginava le eventuali sanzioni di Bruxelles come un’arma da utilizzare in campagna elettorale. Dunque si va verso una mini-correzione, del valore ancora indefinito: anziché lo 0,2%, si scenderà all’0,1%? O ancora più in basso? In questi casi il governo dovrà limare spese per una somma tra il miliardo e il miliardo e mezzo.

Cifre simboliche, ma esattamente simbolico è il senso della trattativa in corso tra Roma e Bruxelles: alla Commissione europea stavolta non hanno intenzione di darla vinta al governo italiano e dunque se la resistenza dovesse proseguire, scatterebbe la procedura di infrazione con relative sanzioni. Gentiloni e Padoan lo hanno capito, non intendono subire la procedura e per questo hanno deciso di andare incontro a Bruxelles. Ovviamente cercando di spuntare lo “sconto” maggiore possibile. 

In questi giorni si è molto ricamato sulle pressioni di Matteo Renzi sul duo Gentiloni-Padaon. Al segretario del Pd sono state attribuite posizioni oltranziste, favorevoli ad una rottura con Bruxelles, in modo da rendere più credibile un’eventuale contesa elettorale giocata in chiave anti-Bruxelles. Ma Renzi, nel suo discorso di rientro in campo dopo 50 giorni di silenzio, ha totalmente glissato su tutte le questioni politiche più rilevanti, compresa la risposta da dare a Bruxelles. Da quel che si sa Renzi si è lamentato per un atteggiamento non sufficientemente “tosto” da parte del ministro dell’Economia, ma in fin dei conti ha condiviso con i suoi amici Paolo e Pier Carlo la decisione politica fondamentale: quella di non tirare la corda con la Commissione europea. Anche perché stavolta, a differenza che in passato, a rompere la corda sarebbe Bruxelles.

Ma Renzi resta e vuol restare nella cabina di regia. Oggi si vedrà con Padoan, l’occasione per dare qualche indicazione e proprio ieri, dopo una lunga astinenza, il leader del Pd è tornato a scrivere sul nuovo blog e non sono stati casuali i suoi riferimenti a questioni tributarie: «Se dopo le elezioni torneremo al Governo dovremo riprendere il ragionamento dall’Irpef e non solo da quella. L’ultima volta che è aumentata l’Iva era il settembre 2013, prima del nostro arrivo: quella volta lì ricordatevela bene perché deve restare l’ultima». Un modo per stare sulla palla ma al tempo stesso, dicendo «se torneremo...», l’indiretta conferma che quello in carica è considerato alla stregua di un “governo amico”. Come i democristiani definivano gli esecutivi guidati da uno di loro, ma ai quali la fiducia era concessa con molte “riserve”.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/31/italia/politica/gentiloni-decide-niente-tasse-ma-s-a-una-minicorrezione-Z4t6JQt2GhmxkRd9cNEnsK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. L’Ulivo: ieri tradito, oggi rimpianto
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 03, 2017, 08:32:49 pm
L’Ulivo: ieri tradito, oggi rimpianto
In questi giorni viene ricordata come una sorta di “età dell’oro” della sinistra italiana, ma quando l’Ulivo era in campo, tra il 1995 e il 2008, quasi tutti i leader provenienti dal Pci minarono quella proposta politica

Pubblicato il 02/02/2017 - Ultima modifica il 02/02/2017 alle ore 10:20

FABIO MARTINI

L’Ulivo? Sembra essere diventata una sorta di ”età dell’oro”. Soprattutto per Pier Luigi Bersani, già ministro nei due governi Prodi, ma anche esponente di punta di quella corrente politico-culturale che viene dal Pci e che ha dato vita a partiti in continuità con quella tradizione, il Pds e i Ds. Da qualche settimana è tutto un fiorire di nostalgie evocative: «Serve un nuovo Prodi», «Se Renzi va alle elezioni, nasce un nuovo Ulivo». Ora è un’esperienza rimpianta, ma quando l’Ulivo era in campo, tra il 1995 e il 2008, quasi tutti i leader “comunisti” minarono quella proposta politica. Nel 1998, dopo che Rifondazione ebbe ritirato il suo appoggio al primo governo Prodi, l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga offrì il proprio appoggio a quella esperienza a patto che si “sciogliesse” l’Ulivo: Romano Prodi e Arturo Parisi dissero no, Massimo D’Alema (nuovo presidente del Consiglio), Walter Veltroni (ex vice-premier col Professore e diventato segretario Ds) e Pier Luigi Bersani (confermato ministro) dissero sì. Nella stagione che inizia nel 2005, col ritorno di Prodi in Italia dopo aver guidato la Commissione europea, l’Ulivo segna due passi avanti: nasce il Pd e la nuova leadership di verso Palazzo Chigi di Prodi viene investita con Primarie di coalizione.

Quando, nel 2008, il governo Prodi deve subire di nuovo la sfiducia di Rifondazione comunista, il Pd guidato da Walter Veltroni, anziché contrastare duramente quella manovra che porta alla caduta del governo, stipula con i comunisti un patto di non belligeranza in vista delle successive elezioni anticipate. E nel 2013, quando si tratta di eleggere il nuovo Capo dello Stato, Romano Prodi è in Africa per una missione Onu e finisce per ritrovarsi improvvisamente candidato alla presidenza della Repubblica, ma in un contesto del tutto casuale, stritolato in una guerra sorda tra i due principali notabili: Bersani (forte di un buon rapporto personale) lo candida dalla sera alla mattina e D’Alema che apertamente osteggia il Professore. Il resto è storia più recente: quando Giorgio Napolitano (nel frattempo riconfermato Capo dello Stato) si dimette nel gennaio 2015, il segretario del Pd Matteo Renzi decide di tagliar fuori Forza Italia e il centro-destra e potendo candidare un esponente della propria parte, non chiede la disponibilità a Romano Prodi, troppo “ingombrante”. E anche Renzi ogni tanto citerà la stagione dell’Ulivo. Nei momenti di difficoltà. Esattamente come gli ex comunisti. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/02/italia/politica/lulivo-ieri-tradito-oggi-rimpianto-h6eYdhtaxMDSXrRpG6j04J/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Elezioni 2017, sarà la sfida delle “coalizioni-bonsai”
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 03, 2017, 08:36:51 pm
Elezioni 2017, sarà la sfida delle “coalizioni-bonsai”
Se la nuova legge elettorale ricavata dalla bocciatura da parte della Consulta dell’Italicum, subirà modifiche di piccola entità, si rischia un risultato simile a quello del 2013, con M5S, Pd e centro-destra al 30 per cento

Pubblicato il 01/02/2017 - Ultima modifica il 01/02/2017 alle ore 09:42

Fabio Martini

Le elezioni anticipate, da tenersi nel prossimo giugno, sembrano più vicine ma sembra avvicinarsi un risultato elettorale “nullo”, quantomeno molto simile a quello del 2013, che aveva “regalato” una legislatura senza una maggioranza chiara. Al momento, secondo tutti i sondaggi, nessuno escluso, si fronteggiano tre forze equivalenti, tre “coalizioni” attorno al 30 per cento, nessuna delle quale al momento pare in grado di svettare. Pd e piccoli alleati, centro-destra e Cinque Stelle rappresentano al momento tre blocchi-bonsai. 

Se, come pare probabile, la nuova legge elettorale ricavata dalla bocciatura da parte della Consulta dell’Italicum, subirà modifiche di piccola entità – al massimo la possibilità di coalizzarsi – nessun incentivo sarà in grado di far lievitare le forze in campo. Incognite ma anche prospettive di crescita riguardano tutti e tre i blocchi. Dentro al Pd sembra profilarsi una lacerazione all’interno del gruppo dirigente e naturalmente l’entità di una eventuale scissione si potrà misurare sulla base delle personalità interessate: se oltre a Massimo D’Alema dovesse unirsi anche l’ex segretario Pier Luigi Bersani, allora l’ipotesi di una forza del 5-8% finirebbe per incidere sul risultato finale del Pd, col rischio di collocare il partito di Renzi al terzo posto nella “classifica” post-elettorale. 

Il centro-destra, pur presentando liste diverse, finirà per coalizzarsi? A quel punto – dicono tutti i sondaggi – il 30% non sarebbe una chimera e anche il secondo posto. I Cinque Stelle? Per ora la poco brillante prova alla guida della Capitale non sembra averne fiaccato la spinta, ma sarà così anche davanti alla possibilità di un processo alla sindaca di Roma? Incognite e chances che sembrano indicare una sola certezza: elezioni ravvicinate non consegneranno un vincitore chiaro.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/01/italia/politica/elezioni-sar-la-sfida-delle-coalizionibonsai-c7RXVZ7oPkmyFxt4zDLoQI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi e il referendum: agli italiani piacevano le singole riforme
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 13, 2017, 12:38:47 pm
Renzi e il referendum: agli italiani piacevano le singole riforme, non chi le ha proposte
Indagine Itanes: ciascuno dei provvedimenti aveva consenso maggioritario, ma la personalizzazione voluta dal premier non ha giovato ai risultati
Pubblicato il 11/02/2017 - Ultima modifica il 11/02/2017 alle ore 11:44
Fabio Martini

Era un legittimo sospetto, ora c’è la «prova»: agli elettori i singoli aspetti della riforma costituzionale piacevano tutti, nessuno escluso, in particolare la riduzione dei senatori convinceva il 71,3% degli italiani, eppure una volta chiamati ad esprimersi sull’intero «pacchetto-Renzi» quel giudizio si è clamorosamente rovesciato e il 4 dicembre il No ha nettamente vinto. È uno dei tanti dati che emergono da un’indagine Itanes, l’istituto che da dieci anni produce le ricerche più fondate sugli orientamenti politici degli italiani, perché basate non su sondaggi settimanali, ma su un campione costante di tremila persone, interpellate periodicamente.

La ricerca, presentata dal presidente dell’Itanes Paolo Bellucci ad un convegno sul referendum costituzionale che si è svolto nel Rettorato della Sapienza, offre diversi spunti interessanti anche se il più significativo resta la dimostrazione della distanza tra il gradimento per le singole riforme e il giudizio sul complesso dei provvedimenti. Le principali riforme istituzionali incontravano il favore maggioritario degli interpellati: la riduzione dei senatori del 71,3% degli interpellati, l’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi del 58,3%, l’abolizione del bicameralismo paritario del 52,3%, il contestatissimo Italicum del 52, 7%. Ma poi alla domanda quale fosse il «giudizio complessivo» su queste riforme, soltanto il 39,4% ha dato una risposta positiva. 

Come è stato possibile? «Se il referendum convince ma non vince, come è stato osservato nel convegno – spiega il professor Bellucci – è perché nelle due modalità di ragionamento del nostro cervello, quello sistematico-razionale e quello più periferico, secondo scorciatoie euristiche, ispirate alle circostanze, ebbene, stavolta ha prevalso questa seconda opzione». 

Una ricerca che dovrebbe suggerire qualche riflessione sull’utilità di sfidare nuovamente, a breve termine e con le stesse armi, un sentimento collettivo così sfuggente.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/11/italia/politica/renzi-e-il-referendum-agli-italiani-piacevano-le-singole-riforme-non-chi-le-ha-proposte-p19oNjvT9UlqJlbdixPNcP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Patto con Franceschini, Renzi vince Congresso subito e voto ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 14, 2017, 05:32:35 pm

Patto con Franceschini, Renzi vince Congresso subito e voto dopo l’estate
Sfida in Direzione, passa la linea del segretario. L’accordo: niente elezioni a giugno
Un Matteo Renzi un po’ diverso dal solito, ieri alla direzione Pd: è riuscito ad ottenere ciò che più desiderava (Primarie entro due mesi), ma senza strappare in modo plateale con i suoi agguerriti avversari interni

Pubblicato il 14/02/2017
Fabio Martini
Roma

E alla fine dopo tanta attesa (mediatica), si è materializzato un Matteo Renzi un po’ diverso dal solito: l'ex premier è riuscito ad ottenere ciò che più desiderava (Primarie entro aprile), ma senza strappare in modo plateale con i suoi agguerriti avversari interni, per esempio evitando di stuzzicarli con nomignoli irrisori. Una piccola prova di stile che in realtà preannuncia un cruento duello dialettico sulla possibile scissione della minoranza. La Direzione del Pd era chiamata a decidere su due questioni: da una parte modalità e data del congresso del partito, dall’altra durata della legislatura e dunque del governo. Al termine di una riunione svolta in un clima teso ma senza cadute di stile da tutte le parti, Matteo Renzi è riuscito a far passare (con 107 voti a favore e 12 contrari) un documento che, attraverso vari passaggi vari statutari, apre la strada ad un congresso del Pd che culminerà nella sfida finale delle Primarie, quasi certamente il 30 aprile. Fa parte invece delle intese raggiunte dietro le quinte (col ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini), l’altra decisione strategica: quella di rinunciare all’ipotesi di elezioni anticipate a giugno. 

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L’accordo dentro la maggioranza del Pd è che si andrà a votare comunque dopo l’estate: in autunno se sarà conveniente per il Pd o più probabilmente a scadenza naturale, nel febbraio del 2018. Renzi, come è naturale, ha tenuto coperto il patto con Franceschini e in direzione ha detto: «Se si voterà a giugno, a settembre o a febbraio non riguarda l’essenza del Pd». Ma quel che stava più a cuore a Renzi era riuscire a far partire l’iter per la convocazione di un congresso che, salvo colpi di scena, dovrebbe rieleggerlo leader del Pd per altri quattro anni, restituendogli il controllo pieno della “macchina del partito”. Ma proprio questo probabile ritorno di un Renzi con pieni poteri è destinato ad accelerare una decisione sulla permanenza del Pd da parte dei due personaggi che incarnano l’anima “post-comunista”, Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani. L’ex segretario, alla domanda se fosse probabile una scissione, ha risposto con un enigmatico: «Vedremo...». 

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Formalmente la decisione di convocare in tempi accelerati il congresso spetta a fine settimana all’Assemblea nazionale del Pd, davanti alla quale Matteo Renzi si presenterà dimissionario, altra questione pacifica sebbene si sia molto ricamato su questa opzione. Ma nella discussione dei prossimi giorni e mesi peserà molto il dibattito che si è svolto ieri nella direzione, che era stata convocata fuori sede. Matteo Renzi aveva aperto le danze, provando a volare alto: sia nella ribadita autocritica per il risultato negativo del 4 dicembre («parlano di rivincita ma il referendum era una finale secca e purtroppo l’ho persa») ma anche nell’impostare le sfide del partito: «Improvvisamente è scomparso il futuro dalla narrazione politica italiana, l’Italia sembra rannicchiata nella quotidianità». Più di maniera l’annuncio che «si chiude un ciclo alla guida del Pd», così come gli attacchi in codice a Massimo D’Alema, quando Renzi ha auspicato una Commissione d’inchiesta sulle banche: «Per mesi si è parlato solo di due o tre banchette toscane» e invece per il segretario del Pd più interessanti sono i casi delle banche pugliesi o di Antonveneta. Tutta in chiave congressuale la rivendicazione del consuntivo politico: «Ho preso un Pd che aveva il 25 per cento e nell’unica consultazione politica lo abbiamo portato al 40,8». 

LEGGI ANCHE - La direzione del Pd vota la linea di Renzi: “Congresso subito”. Scissione più vicina 

Ma ora per Renzi l’incognita sta nella capacità di tenere dentro il Pd l’ala “post-comunista”: perderla sarebbe uno smacco e per questo il segretario ha descritto in termini paradossali i recenti zig-zag della minoranza: «De Luca ha detto che siamo dei masochisti, io non posso essere sadico: va bene tutto ciò che serve per creare un clima per sentirsi a casa, ma quando si ha paura di confrontarsi con la propria gente, io credo che l’ennesimo passo indietro non sarebbe capito neanche dai nostri». Durante il dibattito si è candidato alla segreteria del Pd il governatore della Puglia Michele Emiliano, mentre quello della Toscana Enrico Rossi non ha ancora sciolto la “riserva”.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/14/italia/politica/patto-con-franceschini-renzi-vince-congresso-subito-e-voto-dopo-lestate-5ZAsCl0d08G3F0iEeM6iwJ/pagina.html


Titolo: Fabio Martini. Le scissioni che hanno cambiato la storia e quelle diventate ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 19, 2017, 11:06:45 am
Le scissioni che hanno cambiato la storia e quelle diventate un flop

Pubblicato il 18/02/2017
Ultima modifica il 18/02/2017 alle ore 10:18

Fabio Martini

La storia della sinistra italiana è segnata da una striscia senza fine di strappi, spesso dolorosissimi, ma caratterizzati da una differenza essenziale: alcune scissioni hanno interpretato una necessità “storica”, lasciando un segno indelebile nelle vicende politiche e sociali; altre, fatte sulla spinta di una necessità della “cronaca” o per effetto di divisioni personalistiche, hanno finito per avere un respiro corto e alla lunga si sono trasformate in un flop, un danno per lo schieramento che si immaginava di rafforzare. Se è presto per capire come si concluderà la diatriba in atto all’interno del Pd, ancora più prematuro è prevedere se l’eventuale scissione apparterrà agli eventi storici o ai flop: ma i precedenti possono aiutare a capirlo.

La prima grande separazione nella storia della sinistra italiana è quella che nel 1921 porta la frazione comunista a lasciare il Partito socialista nel congresso di Livorno, che infatti da allora viene proverbialmente associato al termine scissione. Il nucleo raccolto attorno ad Amedeo Bordiga e ai più giovani Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti si separa dal ceppo socialista in nome del mito della “rivoluzione d’ottobre”, della violenza rivoluzionaria, dell’Internazionale comunista. I fatti si incaricheranno di dimostrare che quella scelta interpretava una “necessità” storica, condivisa da milioni di persone, in Italia e fuori. Certo la storia, alla lunga, avrebbe dato ragione al capo dei socialisti riformisti, Filippo Turati, che a Livorno ai compagni che lasciavano il partito, indirizzò parole fraterne e profetiche: «La miseria, il terrore e la mancanza di ogni libero consenso in Russia produrrà decenni di patimenti e povertà, un paradosso per un Paese così ricco di risorse», «la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto» e «quando anche voi avrete impiantato il partito comunista in Italia, sarete forzati (lo farete, perché siete onesti) a ripercorrere la nostra via, la via dei socialtraditori». In Russia e in Italia andò come aveva profetizzato Turati, ma è altrettanto vero che la scissione del 1921 diede vita ad un partito, il Pci, che avrebbe segnato profondamente per 70 anni la vita politica e sociale italiana e che sarebbe diventato la più grande forza comunista dell’Occidente. 

Molto importante e interprete delle “necessità” della storia anche la scissione di palazzo Barberini, quella che nel 1947 portò i socialisti “autonomisti” di Giuseppe Saragat a lasciare il Partito socialista guidato da Pietro Nenni, nella convinzione che fosse strategicamente sbagliata l’alleanza stretta con il Pci stalinista di Togliatti. La scissione fu esiziale per il consolidamento di una forza socialista autonoma in Italia, ma i socialdemocratici, pur con un’identità sempre più sbiadita, contribuirono ai governi centristi guidati da De Gasperi, protagonisti della rinascita del Paese, la più poderosa della storia nazionale. 

Sempre ai danni del Psi la scissione che nel 1963 portò alla nascita del Psiup, in dissenso dalla scelta di Nenni di dar vita a governi di centro-sinistra. Ispirata dai “carristi” che avevano preso posizione favorevole all’URSS in occasione della repressione della rivolta in Ungheria, i psiuppini si fecero il loro partito, costituirono una piccola nomenclatura, ma senza mai distinguersi dal Pci, chiusero i battenti dopo 8 anni e più tardi il più carismatico di loro, Lelio Basso, confessò che quella scissione era stato un errore. 

L’ultima scissione importante risale al 1991: contestando lo scioglimento del Pci, nasce il Partito della Rifondazione comunista che per qualche anno intercetta, con risultati significativi, gli elettori che credono in una rinascita del comunismo, ma anche in questo caso a far la differenza è la “necessità” storica: nel 1921 il comunismo era un mito per milioni e milioni di persone, nel ventunesimo secolo per tanti è un incubo, per altri non evoca più qualcosa di trascinante.

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Titolo: FABIO MARTINI. Lo sfogo di Padoan: “Basta destabilizzarci. Resto se acceleriamo
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2017, 12:03:38 pm
Lo sfogo di Padoan: “Basta destabilizzarci. Resto se acceleriamo su riforme incisive”
Il ministro dell’Economia ai suoi: “Andiamo avanti su privatizzazioni e sgravi” Le dimissioni sarebbero interpretate a Bruxelles come un rompete le righe

Pubblicato il 26/02/2017 - Ultima modifica il 26/02/2017 alle ore 09:14

FABIO MARTINI
ROMA

Nei tre anni e quattro giorni sin qui vissuti da ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan non si è mai concesso una licenza, un diverso parere espresso in pubblico. E anche in questi giorni - durante i quali sta confidando l’urgenza di una svolta riformista nel governo in assenza della quale, per quanto lo riguarda, tutto è possibile - il ministro dell’Economia resta quello di sempre: ordinato, rispettoso della catena di comando, per nulla incline alle esternazioni destabilizzanti. Le sue idee le ha sempre espresse a porte chiuse e con Matteo Renzi non sono mancate discussioni e divergenze anche significative, anche se poi una volta decisa una linea, si tirava dritto. Con Paolo Gentiloni, se non altro perché ne condivide l’aplomb e il lessico levigato, Padoan ha un dialogo più franco.

In questi giorni, dopo una missione a Bruxelles e a Parigi, il ministro dell’Economia si è fatto più riflessivo, meno ottimista sul quadro, si è reso conto che a Bruxelles il no al referendum ha lasciato il segno, ha rappresentato un colpo all’immagine di un’Italia proiettata su un cambiamento accelerato e da quelle parti la possibile «gelata» delle riforme strutturali fa paura, molta più paura di un punto di Pil in più o in meno. «Il nostro problema - ha spiegato Padoan ai suoi collaboratori - non è tanto la correzione di aprile, ma se siamo in grado di ripartire con una strategia di riforme incisive».
 
Le tensioni interne 
L’occasione per farlo, secondo il ministro dell’Economia, è il Def, il Documento di economia e finanza, che dovrà avere un profilo ambizioso e riformatore e che dovrà essere completato entro il 30 aprile, guarda caso lo stesso giorno nel quale si svolgeranno le Primarie del Pd. E qui si apre un altro capitolo dolente, ad avviso di Padoan. Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le iniziative destabilizzanti da parte del Pd nei confronti del Mef: dal documento anti-tasse dei 38 deputati «renziani» - non molti per la verità - sino alla convocazione di Padoan e di Gentiloni davanti alla Direzione del Pd. E lì due esponenti di punta della maggioranza del partito, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e il presidente Matteo Orfini, hanno punzecchiato Padoan su un tema tutt’altro che secondario. Delrio aveva detto: «Ho dei problemi a privatizzare le Frecce delle Ferrovie con dentro il trasporto pubblico regionale. Lo dico a Pier Carlo...». E Renzi: «Non possiamo spremere ulteriormente i cittadini. Il tema di non aumentare le tasse è un principio di serietà».
 
Scelte condivise
Un quadro di piccole ma ripetute destabilizzazioni che non piace a Padoan: un Def strategico, con dentro riforme impegnative (privatizzazioni ben fatte, decontribuzioni strutturali per i nuovi assunti, una scuola veramente formativa), ha bisogno di coperture e dunque di scelte condivise. Ecco perché in questi giorni il ministro non ha mai usato esplicitamente la parola «dimissioni», ma semmai ha chiarito un concetto: «Resto se siamo nelle condizioni di un mettere in campo un Def coraggioso, capace di accelerare le riforme». Anche perché in questi tre anni Padoan ha messo la faccia, senza mai «smarcarsi» su compromessi non sempre condivisi, ma non coltivando ambizioni politiche per il «dopo», intende lasciare un segno su questa stagione. 
 
Il premier Gentiloni 
La prima conseguenza di queste considerazioni, si è vista negli ultimi giorni Il presidente del Consiglio, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha cambiato passo, usando parole forti, per lui inusuali: «Il governo prosegue nel suo cammino sulle riforme e lo ha fatto con decisioni molto rilevanti, dalla tutela del risparmio alla sicurezza urbana alle diverse misure sul terremoto. Il governo, lo dico oltre che agli italiani anche a Bruxelles, è al lavoro. Con determinazione forse non colta del tutto da qualcuno». Certo, Gentiloni conta sul senso di responsabilità di Padoan, ma sa che un (eventuale) forfeit del ministro dell’Economia sarebbe un prezzo troppo alto da pagare. A Bruxelles e a Berlino verrebbe interpretato come un «rompete le righe». Perché in Europa di Padoan si fidano. Come ha lasciato intendere un duro, come il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schaeuble: «Non ho intenzione di ammonire l’Italia in pubblico, Padoan è uno dei migliori ministri in Europa».

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Titolo: FABIO MARTINI. Prodi e l’amarezza per la scissione. Medita un appello in ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2017, 11:24:10 pm

Prodi e l’amarezza per la scissione. Medita un appello in extremis
«Riunirsi per riunirsi non serve». Telefonata con Bersani
Un momento della festa dell’Ulivo al Palalottomatica di Roma nel 2004 quando il Pd aveva ritrovato l’unità intorno a Prodi

Pubblicato il 17/02/2017
Ultima modifica il 17/02/2017 alle ore 07:27

Fabio Martini
Roma

Per ora il Professore non vuole prendere un’iniziativa pubblica, perché la divisione che sta dilaniando il Pd, gli suscita soprattutto «amarezza». Ma in queste ore, nelle quale si sta consumando uno dei progetti più importanti della sua vita politica, Romano Prodi sta seriamente meditando se intervenire, con un appello in extremis. A favore non tanto di una generica unità, perché «riunirsi per riunirsi non serve a nulla». E neppure a favore di una delle parti in gioco. Ma di un progetto politico, di una forza politica - l’Ulivo, oggi il Pd – che si dimostri ancora capace di affrontare i «problemi veri» per «riformare una società che è diventata profondamente ingiusta». E ovviamente in tanti lo cercano. Per esempio Pierluigi Bersani, non Matteo Renzi. 

L’altra mattina, a un amico di Bologna che gli chiedeva con quale sentimento seguisse questa vicenda, il Professore gli ha mostrato alcune immagini che risalgono alla giornata forse più festosa della stagione dell’Ulivo: sono le foto della kermesse al Palalottomatica di Roma, il 14 febbraio 2004, quella nella quale il Prodi «tradito» sei anni prima dai suoi alleati, tornava in Italia, richiamato dopo aver guidato per cinque anni la Commissione europea. Foto di leader plaudenti – D’Alema, Fassino, Rutelli, Parisi, Boselli, Amato - e di un palazzo dello Sport gremitissimo, mentre suonavano le note di «Una vita da mediano». Una kermesse rimasta insuperata, a sinistra, come suggestioni e entusiasmo della platea (l’avevano organizzata Paolo Gentiloni e Gianni Cuperlo) e d’altra parte gli effetti si videro subito: il centrosinistra vinse in 12 Regioni su 14 e poi le elezioni politiche del 2006.
 
Fino ad oggi il Pd - nato nel 2007 - era riuscito a sopravvivere a corpose dosi di veleno: la prematura caduta del governo Prodi nel 2008, sempre per mano «amica»; la brusca caduta elettorale nel 2013 sotto la guida di Pierluigi Bersani; la doppia bocciatura delle candidature al Quirinale di Franco Marini e Romano Prodi da parte dei grandi elettori. Poi il Pd aveva ripreso quota dopo la vittoria alle Europee del 2014 sotto la guida di Matteo Renzi che però da presidente del Consiglio non ha mai cercato la collaborazione e il consiglio del Professore. A parte la vicenda del Quirinale, Renzi lasciò cadere la richiesta, avanzata con una lettera riservata, da parte delle principali fazioni libiche di affidare una mediazione al Professore.

Contatti col contagocce e questo spiega come mai in questi giorni Renzi non abbia composto il numero del cellulare di Romano Prodi per chiedergli un appello per l’unità del partito. Diverso il rapporto con Pierluigi Bersani: a dispetto della leggerezza con la quale l’allora leader del Pd lanciò Prodi nella mischia del Quirinale senza che il Professore avesse brigato per essere candidato, tra i due c’è è un rapporto amichevole. Tra emiliani. Nato durante il primo governo dell’Ulivo (1996-1998) e rafforzato durante l’esecutivo dell’Unione: nel maggio 2008, il giorno nel quale Prodi lasciò palazzo Chigi dopo l’arrivo di Berlusconi, gli unici ministri presenti al commiato erano Giulio Santagata e Pierluigi Bersani. 

Da più parti arrivano richieste al Professore per un appello unitario. Prodi ci sta pensando. Ma sia lui che Arturo Parisi, l’altro padre dell’Ulivo e della «democrazia governante», sono amareggiati, come non capitava da tempo. Anche perché loro e non soltanto loro, in queste ore ricordano una semplice verità: i progressisti in Italia sono andati per la prima volta al governo in tutto il dopoguerra grazie all’Ulivo nel 1996 e sono riusciti a vincere le elezioni soltanto un’altra volta. Il leader era sempre lo stesso. 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/17/italia/politica/prodi-e-lamerezza-per-la-scissione-medita-un-appello-in-extremis-IDt6Po4oVbVCZzoKI5rfxL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Nelle ultime ore il vento è sensibilmente girato e si capisce...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 03, 2017, 04:27:55 pm
FABIO MARTINI
ROMA

Nelle ultime ore il vento è sensibilmente girato e si capisce anzitutto dalle piccole cose. Ieri mattina Matteo Renzi, senza dirlo a nessuno, ha fatto un’improvvisata a Taranto per incontrare i lavoratori dell’Ilva e il reggente del Pd in città, Costanzo Carrieri, ha scritto su Twitter: «Vergognati di non avvisare il partito». Certo, lo sgarbo di un singolo non può far testo, ma il venir meno di un self control lessicale di solito precede fenomeni politici più corposi. Nel Pd non siamo al «25 luglio», alla rivolta di una intera classe dirigente nei confronti del capo, ma il doppio terremoto - le tessere taroccate in Campania e la vicenda di papà Renzi - sta scuotendo il nucleo più vicino al segretario. 
 
In particolare gli ex Popolari raccolti attorno a Dario Franceschini si sono riuniti e stanno ragionando se non sia il caso di chiedere un gesto di responsabilità ai tre sfidanti: rinviare le Primarie. Facendo leva su un ragionamento elementare: con un Pd impelagato sulla questione delle possibili infiltrazioni camorristiche sulle tessere in Campania e costretto alla difensiva dalla vicenda Consip, affrontare una dura battaglia intestina, «sarebbe profondamente autolesionistico», come confida uno dei big della corrente. Certo, in quest’area del partito la convinzione è che dal punto di vista giudiziario, la vicenda Consip non sia destinata a sviluppi clamorosi, meno che mai ai danni del leader del Pd. 
 
Ma i principali alleati del segretario sono preoccupatissimi dall’idea di «sposare» Renzi e ritrovarsi poi ad appoggiare un candidato «azzoppato» e perciò nelle prossime ore eserciteranno una offensiva, in vista di un passaggio dirimente: lunedì 6 marzo saranno presentate le mozioni dai candidati alla guida del Pd, che dovranno essere successivamente sottoscritte dai parlamentari. Anche su questo fronte la raccolta» dei renziani fa segnare qualche difficoltà: da indiscrezioni non confermate pare che i deputati pronti a sottoscrivere la mozione-Renzi siano circa 190, ma considerando che quelli di Area-Dem (Franceschini-Fassino) sono una novantina, i «renziani» doc sarebbero un centinaio, non molti di più di quelli che si preparano ad appoggiare il ministro Andrea Orlando.
 
Una contabilità relativamente interessante, soprattutto rispetto a quella che preoccupa il governo Gentiloni. Dopo la durissima condanna di Denis Verdini, capofila del gruppo di Ala, al Senato spesso decisivo per le sorti del precedente esecutivo, i numeri della maggioranza tornano a «ballare», in particolare in vista della votazione della mozione di sfiducia dei Cinque Stelle nei confronti del ministro Luca Lotti: cosa faranno gli scissionisti del Pd? «Vedremo», dice Alfredo D’Attorre e significa che non hanno ancora deciso. Hanno invece deciso come votare alle Primarie gli amici di Enrico Letta. L’ex presidente del Consiglio che confida di essere «preoccupatissimo» dal quadro interno e internazionale e pensa sarebbe utile una «ricucitura», intende restare fuori dalla contesa congressuale ma i parlamentari a lui vicini (Marco Meloni, Carlo Dell’Aringa, l’ex ministro Maria Chiara Carrozza, l’eurodeputata Alessia Mosca) e diversi consiglieri regionali e amministratori locali hanno deciso di schierarsi con Andrea Orlando, in quanto candidato col profilo più unitario. 
 
Ieri Matteo Renzi ha proseguito il suo giro d’Italia senza fare dichiarazioni ai Tg, ostentando tranquillità e digitando messaggi a metà tra il descrittivo (A #Matera sui cantieri della Capitale della cultura 2019 #incammino”) e i consueti superlativi: «In terra di Puglia, confrontandosi con gli abitanti della meravigliosa Castellaneta #incammino». Oggi a Roma sarà interrogato suo padre Tiziano, al termine di 78 ore, durante le quali sono stati fatti girare verbali, sono trapelate indiscrezioni, con una «cottura» tipica in queste circostanze. Il segretario del Pd fa sapere di essere tranquillo, di confidare nella giustizia, ma in queste ore è diventata chiara anche a lui, la «gabbia» nella quale rischia di trovarsi: con il clima di sospetto che circola in Italia, Renzi farebbe fatica ad essere creduto là dove dichiarasse di essere del tutto inconsapevole delle trame organizzate da amici e parenti toscani; al tempo stesso sa che, per la psicologia collettiva degli italiani, prendere le distanze dal proprio padre, potrebbe essere ancora più dannoso.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/03/italia/politica/ora-nel-pd-si-smarcano-gli-uomini-di-franceschini-matteo-rinvia-le-primarie-eyGWEe9b2a0h86ucWn1l3I/pagina.html



Titolo: FABIO MARTINI. Gentiloni, l’operazione-simpatia del premier “rassicurante”
Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2017, 10:55:00 pm
Gentiloni, l’operazione-simpatia del premier “rassicurante”
Cambio di passo nell’ intervista con Pippo Baudo: “sdoganato” un profilo anti-ansiogeno, pragmatico, non finalizzato alla “popolarità” a tutti i costi

Pubblicato il 05/03/2017 - Ultima modifica il 05/03/2017 alle ore 19:50
FABIO MARTINI

Dopo tre mesi felpati, Paolo Gentiloni ha cambiato passo. Nel salotto nazionalpopolare di “Domenica in”, intervistato per 47 minuti da Pippo Baudo, il presidente del Consiglio per la prima volta non è stato timido nell’autodefinirsi: «Se dovessi scegliere un aggettivo per il governo, direi: rassicurante». Può sembrare un dettaglio insignificante, anche a fronte degli impegni assunti, come la possibile diminuzione delle tasse sul lavoro. Ma un capo del governo che non è più costretto a nascondere la sua principale caratteristica – la rassicurazione rispetto all’ansia trasmessa dal suo predecessore a palazzo Chigi – significa che Paolo Gentiloni non teme più reazioni temperamentali da parte di Matteo Renzi e soprattutto vede per il proprio governo un orizzonte più lungo rispetto a quello immaginabile fino a qualche settimana fa. E dunque, senza mai venir meno alla lealtà verso Renzi, più volte citato, il presidente del Consiglio ha deciso che oramai non aveva più senso «nascondersi» e ha conferito un’identità al suo governo: fare le cose il meglio possibile, con una “moderazione” che è da considerarsi un pregio, se intesa come «rispetto» e non come attitudine a «non decidere».

E infatti, dal punto di vista dell’operazione-simpatia, il passaggio decisivo della lunga intervista è stato lo scambio di battute che era iniziato con Gentiloni: «Al governo serve un’agenda di riforme, anche per togliere un’idea di provvisorietà…». A questo punto, Baudo lo ha interrotto: «Lei è felpato, felpato, ma cammina forte!». E dallo studio si è alzato un applauso da parte del pubblico, che più tardi Baudo ha enfatizzato, con Gentiloni che ha lasciato cadere. Ben consapevole che l’effetto era stato raggiunto. Con una serie di battute soft, ma salutate da significativi battimani. Sul fatto che lui lavora molto, ma comunque fa «un lavoro bellissimo»; sull’ottimismo non della volontà, ma «di un grande Paese», «invidiato nel mondo»; sulle misure anti-furbetti, «per salvare l’onore» di chi lavora seriamente; sulla necessità di assicurare «la responsabilità di chi decide» anche se la discontinuità più forte, pur nella continuità politica con Renzi, Gentiloni l’ha data sui governi: non devono cercare «la popolarità» a tutti i costi. Ma «risolvere, se possibile, i problemi dei cittadini».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/05/italia/politica/gentiloni-loperazionesimpatia-del-premier-rassicurante-qgg5jJlNHSWx5qh5EO9E8O/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La ricetta di Gentiloni per la svolta: giustizia sociale e ...
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2017, 12:02:05 pm
La ricetta di Gentiloni per la svolta: giustizia sociale e difesa rafforzata
Il premier: siamo una potenza commerciale, rilanciamo gli scambi

Pubblicato il 07/03/2017
FABIO MARTINI
INVIATO A VERSAILLES

Il crepuscolo di Hollande, il presidente «normale» che non si è ricandidato, produce proprio in extremis un ultimo bagliore in un luogo carico di storia come la reggia di Versailles, gioiello della monarchia al suo apogeo: il Capo dello Stato francese, affiancato da Merkel, Gentiloni e Rajoy, pronuncia un discorso «alto» sul futuro dell’Europa, facendo esplicito riferimento a una via d’uscita per l’impasse che paralizza il Vecchio Continente.

 
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Una Unione europea a più velocità, nella quale chi vuole andare avanti con cooperazioni rafforzate, non soltanto possa farlo, ma sia incoraggiato su questa strada. E il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, dopo che anche Angela Merkel aveva fatto un discorso analogo, ha pronunciato un intervento nel quale per la prima volta, un capo di governo italiano abbraccia una prospettiva di questo tipo come possibile via per salvare quel che resta dell’Unione. Per Gentiloni serve un’Unione europea «più integrata ma che possa consentire diversi livelli di integrazione. È giusto e normale che i Paesi possano avere ambizioni diverse e che a queste ambizioni ci siano risposte diverse, mantenendo il progetto comune». E ha indicato due strade per il riscatto: saper costruire un’Europa sociale per rispondere alla sfida delle diseguaglianze e al tempo stesso un’Europa della Difesa, più compatta e organizzata davanti alla minaccia del terrorismo islamico. 
 
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È presto per capire se novità così ambiziose si concretizzeranno, ma i quattro Paesi-guida dell’Unione hanno indicato una strada che è tutta dentro le regole dei trattati e che al tempo stesso richiede una forte volontà politica. Quella che i quattro hanno fatto aleggiare tra le mura della reggia di Versailles. Con un messaggio forte: o ci muoviamo, o crolla tutto. A tre settimane dalle celebrazioni del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957, l’appello arriva dai leader di Italia, Francia, Germania e Spagna, le prime quattro potenze demografiche ed economiche del continente, unite nel dire all’unisono che lo status quo dell’Unione non è più accettabile. 
 
Davvero originale lo scenario nel quale si è consumato un passaggio, che è prematuro definire storico, ma che ha fatto segnare novità nei toni e nelle parole. Il programma prevedeva che i quattro capi di Stato e di governo di Francia, Germania, Italia e Spagna pronunciassero altrettante dichiarazioni poco prima di vedersi a cena, negli splendidi saloni del palazzo di Versailles. Ma come scenario per le dichiarazioni, il protocollo francese aveva scelto un’angusta sala stampa, di rara bruttezza, tra laminati dorati, cavi e cartongessi.
 
A dispetto del contesto Paolo Gentiloni ha pronunciato un breve intervento, sei minuti, col quale si è candidato nel ruolo di «regista» in vista delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, celebrazioni che si svolgeranno il 25 marzo in uno scenario, il Campidoglio, carico di storia persino più di Versailles. 
 
Il presidente del Consiglio, che già da ministro degli Esteri aveva insistito sulla strada delle più velocità, nel suo discorso ha detto: «Abbiamo bisogno di un’Europa sociale, che guardi alla crescita e agli investimenti. Un’Europa in cui chi rimane indietro non consideri l’Ue come una fonte di difficoltà ma come una risposta alle proprie difficoltà. E non siamo ancora a questo livello». E al tempo stesso, ma sullo stesso piano, «servono passi avanti nella difesa comune» per «proteggere la nostra sicurezza» dalla minaccia terrorista. 
 
Unico tra i quattro a parlare a braccio, Gentiloni ha pronunciato una frase che più di altre ha suscitato il muto consenso degli altri con sguardi di approvazione: «L’Europa - ha detto il presidente del Consiglio - è la più grande superpotenza commerciale, e quindi bisogna avere la capacità di promuovere gli scambi in un momento in cui questo sembra passato di moda». E ancora: «Un eccesso di sovranità concepita in modo ostile produce disastri» ed in questa fase «all’Europa si aprono spazi imprevisti e maggiori». E ha chiuso così: «L’Unione riparte dal popolo europeo».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/07/esteri/la-ricetta-di-gentiloni-per-la-svolta-giustizia-sociale-e-difesa-rafforzata-t


Titolo: FABIO MARTINI. Alla corte di Matteo torna una figura antica:...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 13, 2017, 12:36:40 pm
Alla corte di Matteo torna una figura antica: l’intellettuale organico, schierato col leader
Grandi applausi della platea del Lingotto per gli interventi schieratissimi di Beppe Vacca, Biagio De Giovanni e Massimo Recalcati

Pubblicato il 12/03/2017
Ultima modifica il 12/03/2017 alle ore 13:04

Fabio Martini
Torino

Il più appassionato di tutti è stato Beppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, fine storico di cultura togliattiana, che nel passato aveva pronunciato autentici anatemi nei confronti di Matteo Renzi, ma un notevole pathos è stato dispiegato anche dal filosofo napoletano Biagio De Giovanni e dallo psicoanalista Massimo Recalcati. 

Nell’appuntamento del Lingotto - che corrisponde al lancio della campagna congressuale di un singolo esponente del Pd, Matteo Renzi - è tornata a materializzarsi una figura antica nella tradizione politica italiana: l’intellettuale organico. Figura significativa, a partire dagli anni della guerra fredda e che trovò “ospitalità” nel rigidissimo Pci di osservanza sovietica e anche nel Pci più aperto degli anni Settanta-Ottanta, con modalità che diventavano evidenti al grande pubblico con gli appelli a votare il partito in occasione delle elezioni. 

L’originalità di quella stagione non consisteva tanto nella partecipazione alla contesa politica, ma nell’approccio spesso acritico di quegli intellettuali. Una stagione che sembrava tramontata, ma che al Lingotto ha trovato una fiammata di ritorno. Protagonisti tre intellettuali tra loro diversi. Biagio De Giovanni, filosofo napoletano, già europarlamentare del Pci, è l’unico che abbia salutato come salutare l’avvento di Matteo Renzi sin dal 2014. Più tormentato il cammino di Beppe Vacca, storico apprezzato e tradotto anche all’estero e che ha sempre accompagnato la lettura e le successive riletture dei grandi personaggi della storia comunista, in particolare Antonio Gramsci, alla luce dell’attualità politica. 

Già da tempo vicino a Matteo Renzi è invece lo psicoanalista Massimo Recalcati, che nell’ultima Leopolda si rivolse con intimità al leader, «Matteo...», con una interpretazione personale della disciplina psicoanalitica, che nella tradizione italiana dei pionieri (Musatti, Perrotti, Servadio) ha sempre dovuto subire un rapporto molto conflittuale con il potere: dal fascismo alla Chiesa cattolica, dal Pci al mondo accademico.
 
Fassino: “Il Pd disponibile a lavorare con chi condivide le nostre idee”

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/12/italia/politica/alla-corte-di-matteo-torna-una-figura-antica-lintellettuale-organico-schierato-col-leader-UkS0Og6NpQnEfqHMLFViOL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Dall’Olanda alla Francia, dalla Grecia alla Spagna, il carisma...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 12:33:51 pm
Dall’Olanda alla Francia, dalla Grecia alla Spagna, il carisma perduto della sinistra europea
Nel risultato delle elezioni olandesi c’è un dato che interpella la sinistra europea e la sua crescente difficoltà a interpretare le istanze progressiste e anti-populiste.
Come mai?


Pubblicato il 16/03/2017 - Ultima modifica il 16/03/2017 alle ore 10:35

FABIO MARTINI
Nel risultato delle elezioni olandesi c’è un dato che interpella la sinistra europea e la sua crescente difficoltà ad interpretare le istanze progressiste e anti-populiste. Una delle sorprese del voto olandese si chiama Jesse Klaver: 30 anni, padre di origine marocchina, madre metà olandese e metà indonesiana. Europeista, Klaver quadruplica i voti dei suoi Verdi, che diventano la prima forza progressista in Olanda, grazie allo slogan «Voglio indietro la mia Olanda». Quindi un’Olanda più tollerante, ma anche attenta ai valori sociali, un tempo salvaguardati, lì e altrove, dai socialisti. 

Anche in altri grandi Paesi europei i socialisti arrancano. In Francia quasi certamente non arriveranno al ballottaggio alle Presidenziali in programma a cavallo tra aprile e maggio; in Spagna il vecchio e glorioso Psoe, reduce da ripetuti ridimensionamenti elettorali, è costretto a far da stampella esterna al governo di Mariano Rajoy; in Italia il Pd, che era alle ultime elezioni europee del 2014, il primo partito dell’Unione, si è frantumato; in Grecia, oramai da anni il Pasok dei Papandreu è stato spazzato via dall’effetto-Tsipras; nel Regno Unito la leadership radicale di Jeremy Corbin resiste ma senza prospettive a breve di riscatto; in Austria l’alternativa ai populisti è stata incarnata, non dai socialisti (anche lì eredi di una solida tradizione) ma da un presidente Verde. 
 
L’unico Paese nel quale la tradizione socialdemocratica fa segnare un risveglio è la Germania dove l’apparizione sulla scena di Martin Schulz ha riportato la Spd su livelli competitivi rispetto alla Cdu di Angela Merkel. Un’eccezione spiegata da un mix – la “novità” in Germania della figura di Schulz e il richiamo a valori più tradizionali del partito – che al tempo stesso indica l’importanza di leadership credibili. Da questo punto di vista è eloquente l’abisso di carisma che separa i leader forti del socialismo europeo degli anni Ottanta-Novanta (Brandt, Mitterrand, Gonzalez, Soares, Palme, Craxi, Blair, Papandreu, fino a Gerard Schroeder) e quelli attuali. Ma la vicenda olandese fa capire che l’interclassismo popolare del socialismo tradizionale non basta più e altre forze, almeno per ora, sono più attrezzate nell’intercettare valori immateriali da contrapporre a quelli delle forze populiste.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/16/esteri/dallolanda-alla-francia-dalla-grecia-alla-spagna-il-carisma-perduto-della-sinistra-europea-TT263BeE0EiH7vgfqjIphI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. L’allarme di Gentiloni: il vertice di Roma può diventare un flop
Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 05:11:57 pm
L’allarme di Gentiloni: il vertice di Roma può diventare un flop
Il premier italiano avverte la Commissione: “A giudicare la politica si crea dissenso”

Pubblicato il 11/03/2017 - Ultima modifica il 11/03/2017 alle ore 07:19

Fabio Martini
Inviato a Bruxelles

A Bruxelles, con Paolo Gentiloni, è arrivata un’altra Italia rispetto a quella di Matteo Renzi. Un fatto di stile, e da queste parti, certe cose contano. Due giorni fa, durante la discussione preliminare tra i 28 capi di Stato e di governo, il presidente del Consiglio italiano si è rivolto indirettamente a Jean-Claude Juncker, lamentandosi di quanto la Commissione europea aveva scritto nel suo ultimo report circa i «rischi politici» che correrebbe l’Italia in questo frangente: «Sono questioni che vanno affrontate con una certa sensibilità», ha detto Gentiloni e in ogni caso «le elezioni non sono sinonimo di instabilità, ma di democrazia». Comunque, attenzione, perché certi report di Bruxelles, se non ben calibrati, «hanno un impatto sull’opinione pubblica». Di queste parole, certo garbate ma proprio per questo più penetranti in un consesso come quello europeo, nulla è trapelato, nulla è stato fatto filtrare da Palazzo Chigi, mentre nel passato le sortite di Renzi durante questi summit avevano un impatto esterno in «diretta» e almeno pari al fuoco polemico realmente espresso.

I timori 
Ma il Consiglio europeo si è chiuso con qualche pensiero per il capo del governo italiano in vista delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma del 1957. Un vertice che si può raccontare partendo dall’ultima «istantanea». Nel gran salone del Consiglio, la signora Beata Szydlo, primo ministro della Polonia, si avvicina a Paolo Gentiloni e si congeda con un sorriso: «Ci vediamo a Roma...». 

Certo, i polacchi sono affezionati alla capitale del cattolicesimo e d’altra parte, la Szdylo non ha del tutto tirato giù la saracinesca, nel corso della discussione tra i 27 capi di governo, sul (controverso) Documento col quale, il 25 marzo, l’Italia intende suggellare le celebrazioni per i Trattati di Roma. Una sorpresa l’atteggiamento non ostruzionistico della Szdylo, soprattutto dopo quel che era accaduto nelle 24 ore precedenti e che sembrava potesse compromettere in modo rovinoso il Vertice celebrativo di Roma. 

Un esito infelice che peraltro non si può del tutto escludere dopo quanto accaduto nella prima giornata di questo Consiglio. Nel pomeriggio del 9, si era consumata la brusca rottura tra tutta l’Unione e i polacchi che, da soli, hanno votato contro la rielezione del loro connazionale Donald Tusk come presidente del Consiglio europeo. 

Proprio perché così irritati i polacchi - e con loro gli altri Paesi di Visegrad - saranno un osso durissimo per Paolo Gentiloni. Il presidente del Consiglio, in perfetta continuità con Matteo Renzi, ha deciso di trasformare la celebrazione in un evento diverso dalla consueta passerella che va in scena di queste occasioni. L’ambizione del governo italiano è quella di dare un senso, un’impronta all’evento. 

L’obiettivo 
Un obiettivo che il presidente del Consiglio intende raggiungere attraverso due passaggi: inserire nella Dichiarazione finale alcuni concetti qualificanti, in particolare sulle «due velocità» e al tempo stesso ottenere la firma di tutti e 27 i capi governo in calce al documento e non limitarsi ad una generica adesione da parte dei rappresentanti delle istituzioni europee. Ma il muro dell’Est rischia di inficiare l’ambizione di Roma. E dunque, l’appuntamento del 25 marzo in Campidoglio, quello che un anno fa Matteo Renzi aveva immaginato come un «arco di trionfo» per la propria immagine e per la propria leadership, rischia di trasformarsi nel primo passaggio critico per Paolo Gentiloni, che è arrivato alla vigilia dei suoi primi 100 giorni con un invidiabile score: nessun incidente politico.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/11/italia/politica/lallarme-di-gentiloni-il-vertice-di-roma-pu-diventare-un-flop-JVCFip8Hk5FbMqVYgjJzGK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il vero obiettivo di Pisapia: federare tutti i progressisti che..
Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 05:38:49 pm

Il vero obiettivo di Pisapia: federare tutti i progressisti che non stanno con Renzi
Prodi, Bersani e Cuperlo seguono con simpatia il battesimo del Movimento dell’ex sindaco, che si rivolge ai tanti elettori “senza casa”
Pubblicato il 10/03/2017 - Ultima modifica il 10/03/2017 alle ore 14:06

Fabio Martini

Nel Brancaccio, il grande teatro romano che dopo la caduta del fascismo ospitò i primi, memorabili comizi di Alcide De Gasperi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti, sabato 11 marzo prende il via un’operazione politica molto più ambiziosa di quanto finora sia apparso: l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia battezza il suo “Campo progressista”, un movimento che intende rivolgersi a quell’elettorato di centro-sinistra che nel passato ha seguito con speranza le vicende dell’Ulivo e del primo Pd, ma che ora si sente senza “casa”. L’obiettivo, non dichiarabile in modo esplicito, è quello di dar vita ad una “fusione” calda tra ambienti e tradizioni culturali che in gran parte si erano ritrovati nel progetto originario del Pd (e anche alla sua sinistra) e che in questa fase faticano a ritrovarsi sia in Matteo Renzi che negli scissionisti di Bersani.

A Pisapia guardano con simpatia, grazie a contatti informali, personaggi diversi ma non distanti tra loro come Romano Prodi, Pierlugi Bersani, Gianni Cuperlo, Susanna Camusso. Con una idea che potrebbe prendere corpo: fare di Pisapia il federatore di tutta l’area progressista che non si riconosce in Matteo Renzi. E infatti alla manifestazione del Brancaccio, Pisapia ha invitato personalità che appartengono ad aree diverse: prodiani (come Sandra Zampa e Franco Monaco), democratici del Pd (come il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti che parlerà), democratici-progressisti, come Roberto Speranza, mentre tra i consiglieri di Pisapia c’è Bruno Tabacci, già assessore della giunta milanese e già presidente della Regione Lombardia quando apparteneva alla sinistra Dc.

Ma la parola d’ordine di Pisapia sarà «autonomia», un bene che l’ex sindaco ritiene prezioso, soprattutto nei confronti dei soggetti più strutturati che si collocano alla sinistra del Pd ma anche dentro al partito di Renzi. Alla manifestazione parlerà soltanto Pisapia, ben consapevole di potersi giocare tre carte: pur non essendo “nuovo”, l’ex sindaco di Milano è l’unico personaggio a sinistra non usurato; è personalmente inattaccabile. Ma soprattutto - e questo è il suo vero asso - il modello Milano si è rivelato l’unico concorrenziale rispetto alla predicazione dei Cinque Stelle, nella città meneghina confinati ad un 10% che li rende politicamente e culturalmente marginali.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/10/italia/politica/il-vero-obiettivo-di-pisapia-federare-tutti-i-progressisti-che-non-stanno-con-renzi-pzPkeskPSKiYjvqqVSWI0O/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Gentiloni rassicurante al giro di boa dei 100 giorni: “Ora avanti
Inserito da: Arlecchino - Marzo 23, 2017, 11:03:05 am

Gentiloni rassicurante al giro di boa dei 100 giorni: “Ora avanti con le riforme”
Tra decisioni impopolari e bisogno di apparire stabile, il premier dovrà sciogliere il nodo del rapporto con Renzi
Nonostante il governo sia un’edizione fotocopia di quello di Matteo Renzi, con Gentiloni ne è cambiato lo stile

Pubblicato il 20/03/2017
Fabio Martini
Roma

È la sua indole. Nei primi tre mesi di leadership di governo, Paolo Gentiloni ha puntualmente spento ogni focolaio di enfasi e ogni tentazione all’auto-elogio. Ma alla vigilia di un evento spartiacque come i primi cento giorni del suo esecutivo, il presidente del Consiglio è disposto a a riconoscere la sua soddisfazione: «Era doveroso in questa fase impegnarsi a rassicurare e a dare stabilità. Ma lo abbiamo fatto senza rallentamenti, abbiamo proseguito l’impegno riformatore, prendendo decisioni cruciali in campi importanti: la tutela del risparmio, l’immigrazione, la sicurezza urbana, la povertà, gli interventi per il terremoto». E davanti alla prospettiva dei prossimi cento giorni, sulla carta assai più complicati dei primi, Paolo «il calmo» (definizione di Romano Prodi), dimostra di crederci: «Avanti tutta con le riforme», dice il presidente del Consiglio, con una prima concessione all’ottimismo della volontà.

Decisionismo soft 
Dopodomani scadono i primi cento giorni di un governo che quando nacque, il 12 dicembre scorso, oltre ad un palese deficit di legittimazione popolare, sembrava dovesse restare sotto tutela. Matteo Renzi ammise di aver «straperso» il referendum, ma - dimettendosi da capo del governo ottenne un esecutivo-fotocopia rispetto al proprio. Eppure, nei suoi primi cento giorni il nuovo governo - senza venir meno alla lealtà verso Renzi - ha assunto una propria fisionomia: disegnata dalle decisioni assunte e dallo stile del suo leader.

Gentiloni non oserebbe mai usare una parola tabù in Italia come decisionismo, che oltretutto evoca una caratteristica attribuita al suo predecessore. Ma è pur vero che nei primi cento giorni il governo ha preso due decisioni che il precedente esecutivo, iper-sensibile al consenso, aveva rimosso: il 23 dicembre il governo - mettendo nel conto le critiche per il «soccorso ai banchieri», vara il decreto salva-risparmio per salvaguardare i correntisti più esposti e le banche a rischio bancarotta. Erano trascorsi appena 9 giorni dalla fiducia in Parlamento e quella decisione fulminea era stata imposta da un imperativo finanziario: non si poteva attendere oltre, dopo i ripetuti rinvii da parte del governo precedente. Il 10 febbraio il Consiglio dei ministri, in questo caso sfidando i detrattori dei Cie, approva le linee guide dei provvedimenti sui migranti voluti dal ministro dell’Interno Marco Minniti. 

Il potere di Renzi 
E alla stessa categoria - il decisionismo soft e senza proclami - appartiene la più recente decisione “contropelo” di Gentiloni: abolire per decreto voucher e codice appalti in modo da evitare i referendum della Cgil. Una linea fortemente consigliata da Renzi («in vista dei ballottaggi alle amministrative non possiamo rompere con le forze alla nostra sinistra»), ma poi è toccato a Gentiloni fare un decreto legge che - come aveva immaginato - gli ha procurato critiche corali da tutte le associazioni imprenditoriali e artigianali. E proprio il rapporto con Matteo Renzi, per il governo è un punto dolente, che chiama in causa altre due parole-chiave dei cento giorni: lealtà con Renzi, ma anche dipendenza dal segretario del Pd. Il quale, coerente con la sua «dottrina», nei contatti riservati con Gentiloni e con Padoan nelle settimane scorse li ha invitati a vendere cara la pelle con Bruxelles, un atteggiamento che ha finito per irritare il ministro dell’Economia, che ha tenuto per sé il proprio malumore. Ma proprio questo fronte - Gentiloni lo sa bene - è quello destinato a creare in futuro le maggior turbolenze, se è vero che si sta ragionando attorno ad una manovra che in autunno potrebbe toccare quota 25 miliardi.

Un premier rassicurante 
Uno scenario pieno di incognite che potrebbe mettere in crisi il sentimento più forte suscitato dal presidente del Consiglio: apparire rassicurante e al tempo stesso rassicurare l’opinione pubblica. Un messaggio evocato in un passaggio chiave nella storia del governo: domenica 5 marzo, il presidente del Consiglio si fa intervistare da Pippo Baudo a Domenica In, il talk show nazionalpopolare. Archiviato lo spettro di elezioni anticipate a giugno, in 47 minuti di intervista, Gentiloni vara la sua «operazione-simpatia», esce dalla dimensione «protetta» dei primi mesi e dimostra di voler affrontare la nuova stagione con un profilo più personale, che lo porta a «sdoganare» la parola chiave: «Se dovessi scegliere un aggettivo per il governo, direi: rassicurante». Evocando quella virtù, indirettamente contrapposta all’ansia trasmessa dal suo predecessore - significa che Paolo Gentiloni non teme più reazioni temperamentali da parte di Matteo Renzi.

I prossimi 200 giorni 
Eppure i prossimi duecento giorni potrebbero rivelarsi più complicati dei primi cento. Il perché lo spiega Giorgio Tonini, presidente della Commissione Bilancio del Senato, una delle «teste pensanti» del mondo renziano: «Questo governo ricorda quello di fine legislatura di Amato nel 2000: guida autorevole, manovra un po’ cedevole, rinvio dei nodi più importanti. In assenza di un chiaro mandato popolare ad inizio legislatura, la vittoria di Renzi alle Europee aveva consentito una simulazione di quel mandato. Ma ora siamo tornati al dualismo partito-governo, il potere si sposta sul partito e, come nella Prima Repubblica, i governi mediano... Gentiloni fa un lavoro egregio, equilibrato, saggio, ma persistendo l’assenza di un chiaro mandato popolare, non sarà semplice gestire la fine della legislatura».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/20/italia/politica/gentiloni-rassicurante-al-giro-di-boa-dei-giorni-ora-avanti-con-le-riforme-kTNGIlzHfOYb3MRy5KNEcO/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170320.


Titolo: F. MARTINI. Il pressing di Renzi sul premier. Obiettivo: sconto da 10 miliardi..
Inserito da: Arlecchino - Marzo 29, 2017, 08:12:49 am
Il pressing di Matteo Renzi sul premier. Obiettivo: sconto da dieci miliardi

Dal Def dovrebbe restare fuori il rialzo dell’Iva nel 2018.
Ma la Commissione chiede impegni precisi sulle riforme

Il primo passaggio per il governo Gentiloni è quello del Def (10 aprile).
Il secondo è la correzione di bilancio da 3,4 miliardi (in realtà un miliardo sarà scomputato per il terremoto), da “calare” dopo Pasqua

Pubblicato il 28/03/2017 - Ultima modifica il 28/03/2017 alle ore 08:02

ALESSANDRO BARBERA, FABIO MARTINI

Oramai ci siamo. Le prime, vere Forche Caudine del governo Gentiloni si stanno avvicinando: mancano due settimane alla presentazione in Parlamento del Documento di economia e finanza, che prefigurerà la mega-manovra autunnale per il 2018, e il presidente del Consiglio ha cominciato a calare le sue carte. E lo ha fatto, tenendo conto del pressing di colui che quasi certamente sarà confermato segretario del Pd: Matteo Renzi e che in vista delle elezioni del 2018 non vuole mettere la “faccia” su misure impopolari. Parlando ai presidenti delle Regioni, Paolo Gentiloni ha detto: «Ci sono norme e vincoli europei che non dobbiamo dare per intoccabili, c’è un margine di negoziato. Certamente da qui all’autunno la discussione con Bruxelles sarà aperta e potrà produrre risultati, sapendo che da un lato dobbiamo mantenere gli equilibri, dall’altro dobbiamo ottenere una cornice europea più realistica». 

Lessico gentiloniano, ma sostanza “renziana”: cara Bruxelles ci prepariamo ad un lungo e duro negoziato per strappare nuova e necessaria flessibilità. A Bruxelles la discussione è aperta, e non da oggi, ma il governo italiano - questa ò l’inconfessabile scommessa - immagina che un vero scongelamento della “dottrina” dell’austerity sia destinato a concretizzarsi nel caso in cui le elezioni in Francia e Germania dovessero confermare la leadership delle forze europeiste. A quel punto - concordano in via informale Gentiloni, Padoan e Renzi - sono destinati ad aprirsi margini, di entità al momento imponderabile, ma tali da consentire una manovra che non strozzi in culla i primi sintomi di ripresina italiana.
 
Ecco perché Gentiloni proietta il “redde rationem” all’autunno, ben sapendo però che prima di allora si preparano passaggi molto delicati. Arrivare all’autunno - confidano a palazzo Chigi - non sarà una passeggiata di salute. Ma invece una “via crucis” in tre stazioni di passione. Il primo passaggio è quello del Def (10 aprile). Il secondo è la correzione di bilancio da 3,4 miliardi (in realtà un miliardo sarà scomputato per il terremoto), da “calare” dopo Pasqua e il terzo è la preparazione della manovra per il 2018, la cui entità è ancora tutta da determinare. Passaggi sui quali Matteo Renzi, dopo i primi congressi di Circolo del Pd, sentendosi di nuovo l’azionista di maggioranza del governo, ha chiesto una correzione di bilancio senza aumenti di imposte dirette o indirette, anche perché - ha avvisato l’ex premier - la “manovrina” dovrà essere presentata in Parlamento attorno al 20 aprile e una decina di giorni prima delle Primarie del Pd è “vietato” rendere malmostosi gli elettori. Ma prima ancora della “manovrina” arriverà il Def, sul quale Renzi ha chiesto garanzie precise: si può arrivare a fine legislatura - ha spiegato - «se eviteremo di parlarci addosso» e «sarebbe un errore politico aumentare l’Iva». 
 
Ecco perché, dopo il pressing renziano, nel Def dovrebbe restare fuori il rialzo dell’Iva nel 2018 e invece compreso un quasi obbligo di fatturazione elettronica, misura destinata a rendere plastica - e subito esigibile - l’azione anti-evasione del governo. E soprattutto dovrebbe essere previsto un deficit nominale all’1,8%, dunque più alto rispetto all’1,2% già promesso a Bruxelles con le tabelle dello scorso anno, ma comunque di nuovo in calo rispetto all’attuale 2,2%. Un marchingegno capace di recuperare circa 10 miliardi di flessibilità che però la Commissione concederà solo in cambio di impegni precisi sulle riforme: il via libera alla legge sulla Concorrenza, nuove privatizzazioni, maggiore impegno sul fronte produttività. Se si evitasse in autunno una legge di Bilancio troppo pesante, potrebbe sfumare la tentazione di elezioni anticipate in giugno o in settembre: in pubblico Renzi continua a traguardare la legislatura alla scadenza naturale e in privato confida che «sarà molto difficile andare ad elezioni anticipate», soprattutto per la volontà del Capo dello Stato, contrario a pericolosi “vuoti d’aria”. L’unica incognita che Renzi contempla non riguarda il Pd: «Certo, davanti ad un serio incidente parlamentare provocato da altri...».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/28/italia/politica/il-pressing-di-matteo-renzi-sul-premier-obiettivo-sconto-da-dieci-miliardi-BVusUwWAJKnmHF1wMM8XtM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Giovanni Sartori aveva fondato la scienza politica in Italia a...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 05, 2017, 05:05:17 pm
Un politologo anticonformista che fustigava la politica

Pubblicato il 04/04/2017 - Ultima modifica il 04/04/2017 alle ore 19:08

FABIO MARTINI

Giovanni Sartori aveva fondato la scienza politica in Italia a metà degli anni Cinquanta, ma soprattutto l’aveva indirizzata su un binario molto poco italiano: quello della ricerca empirica e non ideologica, dunque mantenendo la politologia su un terreno sempre distinto e distante da quello della politica. Un tratto originale per la politologia italiana che, a parte alcune recenti eccezioni, ha sempre mantenuto tratti di indipendenza dalla politica. 

Uomo fuori dagli schemi 
Fiorentino, sanguigno, uomo fuori dagli schemi, da tutti gli schemi, Sartori aveva contribuito a questa connotazione «autonomistica» sia nella stagione iniziale, quando a Firenze riuscì a far istituire la prima cattedra di Scienza politica in forte polemica con l’establishment accademico di scuola idealistico-crociana, sia nella stagione più divulgativa, quando pubblicò per diversi anni editoriali per Il Corriere della Sera, commenti mai prevedibili, mai schematizzabili. Sue tante definizioni fulminanti, che hanno fatto scuola, come il Mattarellum, ma anche alcuni ritratti di personalità della politica italiana. 
 
Quel ritratto di Renzi 
Profetico, in particolare, il suo ritratto di Matteo Renzi. Proprio nei giorni nei quali, all’inizio del 2014, il segretario del Pd era diventato presidente del Consiglio, Sartori pennellò un ritratto che si sarebbe rivelato anticipatore. Disse allora: «Renzi vende velocità che non può rispettare. Sono cose che incantano il pubblico: un mese faccio questo, un mese faccio quello. Fa ridere, io ho molti dubbi. L’uomo è molto contento di se stesso e questo gli dà forza, ma si sgonfierà rapidamente nel fare. Mi dispiace, perché abbiamo bisogno di uno bravo». E ancora: «Il giovane è un peso piuma. Parla molto e parla bene, è svelto, è sveglio, è intelligente. Si muove con velocità, ma dietro manca quello che i latini chiamavano gravitas».
 
Gli allievi 
Importante il contributo di Sartori, raccolto da tanti suoi allievi - a cominciare dai più significativi come Gianfranco Pasquino e Domenico Fisichella - della scienza politica intesa, non solo come scienza empirica che produce conoscenza ma anche come scienza che si può applicare alla realtà politica.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/04/italia/politica/un-politologo-anticonformista-che-fustigava-la-politica-F6cx6vNugvZYzZ5Kl4o69J/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Dai sondaggi sui Comuni l’incubo dei grillini: stare fuori dai...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2017, 06:28:26 pm
Dai sondaggi sui Comuni l’incubo dei grillini: stare fuori dai ballottaggi
Nelle città un bipolarismo centrosinistra-centrodestra
I sondaggi via via commissionati localmente a istituti come Ipsos ed Euromedia, restituiscono un quadro nazionale diverso dalle aspettative

Pubblicato il 10/04/2017 - Ultima modifica il 10/04/2017 alle ore 07:55

FABIO MARTINI
ROMA

Mancano 30 giorni alla presentazione dei candidati-sindaco per le Comunali dell’11 giugno, ma i sondaggi commissionati localmente a istituti come Ipsos ed Euromedia, restituiscono un quadro nazionale diverso dalle aspettative: il Pd soffre in diverse città - e si sapeva - ma il Movimento Cinque Stelle per ora resta al palo in tutto il Nord e al Centro.
 
Mentre il centrodestra sembra poter andare ai ballottaggi quasi ovunque. Certo le elezioni locali (almeno fino a Roma e Torino) sono quelle nelle quali i Cinque Stelle si sono sempre mossi con maggiore difficoltà. Ma se davvero i seguaci di Grillo entrassero in pochi ballottaggi - frenando la loro irresistibile ascesa - a quel punto la «rinascita» di un dualismo tra centro-sinistra e centro-destra potrebbe avere certo un «effetto». Un effetto politico? O almeno psicologico? 
 
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Di certo, quello di giugno è un test, come sempre accade in Italia, interessante perché coinvolge città spalmate su tutto il territorio nazionale. Otto sono sopra i centomila abitanti (Genova, Monza, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Taranto e Verona), due sono capoluoghi di regione (L’Aquila e Catanzaro), ci sono città politicamente interessanti come la Parma dell’ex pentastellato Federico Pinzarotti, la Piacenza di Pierluigi Bersani, la Taranto dell’Ilva; città toscane come Lucca, Pistoia e Carrara; oltre a città come Alessandria, Asti, Cuneo, La Spezia, Lecce, Trapani. 
 
È curioso: in vista di un test così sfaccettato convergono le analisi-previsioni di due personaggi che seguono la vicenda da ottiche molto diverse. Dice Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e responsabile enti locali del Pd: «Diciamo la verità. Dopo il 4 dicembre si poteva temere una frantumazione in vista delle amministrative e invece, senza andare sui giornali per le polemiche locali, riusciremo a presentare il centro-sinistra unito quasi ovunque e pensiamo di potercela giocare. La sorpresa potrebbe essere che quasi dappertutto la sfida si preannuncia tra centro-sinistra e centro-destra». Dice Pippo Civati, leader di «Possibile» e battitore libero della sinistra: «Si va verso queste amministrative senza alcuna sperimentazione, senza nessuna scommessa ambiziosa, con Articolo 1 alleato quasi ovunque del Pd al primo turno, in un contesto che potrebbe finire per riproporre un bipolarismo centro-sinistra e centro-destra».
 
Riflessioni a freddo che, nel prevedere uno stallo (locale) dei Cinque Stelle, coincidono con i tanti sondaggi realizzati a livello locale. Ad esempio in due importanti città venete come Padova e Verona: in entrambe i sondaggisti quotano i Cinque Stelle sotto il 20 per cento. Dice Paolo Giaretta, che è stato uno dei sindaci più longevi nella storia di Padova: «Qui, ma anche a Verona, i Cinque Stelle non sfondano. Da una parte la Lega ha coperto quell’area del dissenso populistico di “destra”, quello di “sinistra” non è mai stato forte e il tessuto politico e sociale è meno deteriorato che altrove».
 
Il test politicamente più importante è Genova. La città di Beppe Grillo; la città nella quale il centrodestra (in occasione delle Regionali) ha ritrovato un’insperata unità sull’asse Salvini-Toti; la città medaglia d’oro della Resistenza dove la sinistra (comunista, socialista e «piddina») ha lasciato sempre poco spazio agli altri. Il Pd dopo faticosa trattativa ha scelto un indipendente (spostato a sinistra), l’assessore Gianni Crivello, che dovrà vedersela con il candidato del centro-destra, un manager agguerrito come Marco Bucci che ha rimesso in sesto Liguria Digitale. I Cinque Stelle quanto saranno competitivi dopo la guerra al loro interno? E nella Parma del «ribelle» Pizzarotti? «Il sindaco - riconosce Albertina Soliani, già sottosegretaria nel governo Prodi - si presenta con un discreto consuntivo e il centrosinistra con un candidato che si muove con equilibrio. Un clima di confronto positivo. I Cinque Stelle? Non si sa ancora se si presenteranno...». E se i sondaggi suggeriscono l’M5S in corsa a Carrara, secondo Rocco Palese, già sfidante di Vendola alle Regionali pugliesi, «anche a Taranto, città segnata dalla vicenda-Ilva, è certo che andranno al secondo turno, mentre a Lecce sarà di nuovo scontro tra il Pd e il centrodestra, che qui può vincere al primo turno». E il Pd, oltre a rischiare a Genova, Piacenza e Monza? Renzi - dopo aver già perso nella sua Toscana Livorno, Arezzo, Grosseto, Sesto Fiorentino, Orbetello, Montevarchi - ha rinunciato a candidati renziani a Lucca, Pistoia e Carrara: pur di spuntarla si contenterà di tre personalità molto lontani dal giro renziano.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/10/italia/politica/dai-sondaggi-sui-comuni-lincubo-dei-grillini-stare-fuori-dai-ballottaggi-DfkI7o5fjHZhUbP586CEYK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. l’Airbus “nascosto” da Renzi è un jet senza effetti speciali
Inserito da: Arlecchino - Aprile 21, 2017, 11:41:51 pm
Aereo di Stato, svelato il mistero: l’Airbus “nascosto” da Renzi è un jet senza effetti speciali
Racconto dall'interno dell’A340, diretto a Washington e a lungo congelato dall’ex premier per paura delle polemiche anti-casta.
Gentiloni lo ha sdoganato, ponendo fine ad una vicenda paradossale: dotazioni da volo di linea, senza accessori o allestimenti particolari

Pubblicato il 19/04/2017 - Ultima modifica il 19/04/2017 alle ore 14:59

FABIO MARTINI
IN VOLO VERSO WASHINGTON
Alla fine si potrebbe dire: tanto rumore per nulla. A mezzogiorno del 19 aprile 2017, le porte del chiacchieratissimo aereo di Stato si sono aperte ai giornalisti al seguito del presidente del Consiglio in viaggio verso Washington ed ecco la sorpresa: l’Airbus 340 della Etihad è un normale volo di linea, con le poltrone in tessuto, il corridoio né piccolo né grande, i consueti teleschermi della classe turistica mentre per le “autorità” non è previsto né letto né doccia, come nel vecchio A319. 
 
Per la prima volta i giornalisti che seguono palazzo Chigi hanno avuto accesso al nuovo aereo, nell’estate 2015 annunciato da Matteo Renzi e successivamente “nascosto” in un hangar per timore delle polemiche anti-casta. Ma alla prova dei fatti il chiacchieratissimo super-jet non ha nulla di speciale: è un A340, della stessa categoria degli aerei di Stato utilizzati dai principali capi di governo europei. 
 
Nessun effetto speciale o allestimento “personalizzato” 
La storia del jet è a suo modo esemplare. Dimostra quanto importante per Matteo Renzi sia stata (e su altre questioni ancora sia) la sfida-concorrenza con i Cinque Stelle per la conquista di un’opinione pubblica sensibile agli “sprechi” o presunti tali. Al punto che, anziché rivendicare la legittimità della scelta di un jet simile a quello di altri Stati, fino all’arrivo di Gentiloni, si è preferito congelare per più di un anno l’aereo in un hangar. Tutto era iniziato nel luglio del 2015, quando Renzi aveva annunciato ai giornalisti: «Ad ottobre andremo in Sudamerica con un aereo più grande, l’abbiamo già ordinato…». Sensibile agli status symbol, Renzi aveva fatto l’annuncio con un filo d’orgoglio, anche perché il nuovo jet andava a sostituire il vecchio A319 (in servizio dal 1999, governo D’Alema) che sulle tratte più lunghe costringeva a fastidiose pause per rifornimento. Nel giro di qualche settimana si scoprì che l’aereo scelto da palazzo Chigi era l’A340, un grande jet preso in leasing da Etihad. Una capienza di più di 300 passeggeri, una larghezza di 60 metri, con prestazioni al livello degli aerei a disposizione dei principali capi di governo del G20.
 
La paura della Casta 
Ma in tempi di grande sensibilità per tutto quello che riguarda Casta e spese facili, l’annuncio del premier aveva alimentato retroscena giornalistici e politici, alcuni dei quali dal sapore scandalistico, sulla grandeur di Renzi: tanto era bastato per congelare l’uso del mega-jet. Certo, al blocco avevano contribuito anche problemi legati all’equipaggio e al contratto di leasing, sta di fatto che da allora Renzi ha continuato ad usare il vecchio aereo. Nulla era bastato a far cambiare idea al presidente del Consiglio, neppure un incidente (del quale nulla si è saputo) nel quale era incorso l’anziano A319, al quale si era rotto in volo un finestrino della cabina di pilotaggio. Le ragioni del ricovero forzato in un capannone per la verità non hanno mai avuto una spiegazione ufficiale, ma il risultato di tanta “timidezza” è stata una prolungata immobilizzazione del super-jet con molteplici inconvenienti funzionali ed finanziari, a cominciare dal fatto che nel frattempo il contratto con Etihad continuava a correre. All’inizio del suo mandato, Gentiloni ha deciso di sbloccare l’aereo sfruttandone a pieno gli standard tecnologici e di sicurezza. A quel punto anche il Capo dello Stato ha iniziato ad utilizzarlo, con giornalisti al seguito. Ora è caduto l’ultimo tabù: anche i giornalisti che seguono il presidente del Consiglio sono stati ammessi a bordo. Previo pagamento. Secondo il regolamento a suo tempo voluto dal governo Prodi.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/19/italia/politica/aereo-di-stato-svelato-il-mistero-lairbus-voluto-da-renzi-un-jet-senza-effetti-speciali-zVMWjEaRlCVqPFnFj4qf5M/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La svolta di Pisapia: se Matteo rifiuta l’alleanza noi saremo ...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 29, 2017, 12:43:33 pm
La svolta di Pisapia: se Matteo rifiuta l’alleanza noi saremo concorrenziali al Pd
L’ex sindaco: “No al modello Melenchon, la nostra sarà una sinistra ragionevole”


Pubblicato il 29/04/2017 - Ultima modifica il 29/04/2017 alle ore 07:31

FABIO MARTINI
ROMA

Giuliano Pisapia è un uomo mite, lento e meditativo davanti alle decisioni più importanti della sua vita. Capitò quando si candidò sindaco di Milano, ma anche quando decise di non ricandidarsi. Lunghi ed interiori «stop and go», ma poi una volta deciso, non è più tornato indietro. È capitato anche in questi giorni, quando è stato chiamato a prendere una decisione che potrebbe cambiare la storia della sinistra italiana. Il ragionamento che Pisapia ha fatto in una riunione con i tanti segmenti che si muovono a sinistra e che lui stesso ripete in queste ore è questo: se Matteo Renzi continuerà a rifiutare la proposta di costruire una coalizione e di stringere un’alleanza con le altre forze di centrosinistra, a quel punto sarà inevitabile che nasca un nuovo soggetto, destinato a fare «concorrenza» al Pd. In altre parole, potrebbe prendere forma il partito della «sinistra ragionevole», come Pisapia chiama l’area politica e sociale alla quale pensa.

 
Una grossa novità nella «postura» politica dell’ex sindaco. A Pisapia non interessa fare l’indipendente eletto nelle liste del Pd, come gli propone Renzi. Ma non gli interessa neppure - e questa è una novità - fare il Melenchon italiano e cioè il portavoce di un’area grintosa e minoritaria. Il suo progetto è più ambizioso ed è quello di creare una forza di centrosinistra, che al suo interno sia capace di integrare le personalità riformatrici della stagione del primo Ulivo (Romano Prodi e Pier Luigi Bersani e quella parte del mondo comunista che allora collaborò), l’associazionismo progressista, cattolici e laici, «voci civiche, moderate, ambientaliste», quella parte del Pd destinata ad entrare in sofferenza dopo che Renzi avrà guadagnato la leadership per altri quattro anni.
 
Si va verso un «altro» Pd? Pisapia non lo chiamerà mai così ma, al di là delle etichette, il progetto potrebbe risultare insidioso per Renzi. In principio l’idea di Pisapia era quella di coagulare l’area critica alla sinistra del Pd ma con cultura di governo. Sembrava che dopo la scissione di «Articolo 1», lo spazio politico del suo «Campo progressista» si fosse prosciugato. 
 
E invece una riuscita manifestazione al teatro Brancaccio di Roma l’11 marzo e un’abile tessitura con tutta l’area di sinistra ha rimesso in corsa Pisapia. Pierluigi Bersani, capofila degli scissionisti, ha fatto sapere all’ex sindaco che - se davvero deciderà di scendere in campo con un progetto condiviso - da parte sua è pronto a riconoscerne la leadership. Romano Prodi segue con simpatia le mosse di Pisapia e il Professore ha parlato del dopo-Primarie con Andrea Orlando, dopo averlo invitato a pranzo nella sua casa bolognese. Susanna Camusso è una vecchia amica di Pisapia. 
 
La sfida con Renzi nelle prossime settimane sarà tutta sulla legge elettorale. Per l’ex sindaco serve una legge che «dia un premio non alla lista ma alla coalizione, che consentirebbe in campo un’alleanza larga di centrosinistra». Renzi per ora resiste, ma se dovesse accedere a questa impostazione, a quel punto - ragiona a voce alta l’ex sindaco -«sarebbero coerenti Primarie di tutto il centrosinistra». Con una sfida ineluttabile: Renzi-Pisapia. Ma il (quasi) segretario del Pd non vuole il premio alla coalizione forse perché ha paura di perdere le Primarie di centrosinistra? Per ora si tratta di processi alle intenzioni e infatti Pisapia non si lancia su questo terreno.
 
Certo, il suo progetto è ancora pieno di incognite. I possibili grandi sponsor non mancano ma sono ancora alla finestra, da Romano Prodi fino a Pietro Grasso. Sul piano pratico l’ex sindaco può contare su personaggi di grande affidabilità come Bruno Tabacci, già presidente della Regione Lombardia e «archetipo» degli interlocutori moderati e competenti ai quali Pisapia pensa. Ma la strada da fare è ancora tanta. Renzi ha intuito che il progetto va delegittimato sul nascere e l’altro giorno ha detto che è impossibile allearsi con chi, come D’Alema, ha promosso una scissione. Raccontano che Pisapia abbia sorriso, ricordando che la scissione di Rifondazione non impedì a Bertinotti e Cossutta di far nascere il primo governo progressista della storia repubblicana. E a Prodi di accettarne e contrattarne i voti.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/29/italia/politica/la-svolta-di-pisapia-se-matteo-rifiuta-lalleanza-noi-saremo-concorrenziali-al-pd-J3ZJKRe9vvIGagGbpIDHoN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. E ora Gentiloni chiede una decisione chiara sulla legislatura
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2017, 05:32:34 pm
E ora Gentiloni chiede una decisione chiara sulla legislatura
Le preoccupazioni di Padoan sulla “tenuta” del sistema
Pubblicato il 01/05/2017 - Ultima modifica il 01/05/2017 alle ore 07:22

FABIO MARTINI
ROMA

Quando Matteo Renzi era presidente del Consiglio e si ritrovava a dover commentare a caldo vicende sulle quali preferiva glissare, per due volte preferì partire in missione all’estero. Difficile interpretare se anche questo intento ci sia nella trasferta in Kuwait di Paolo Gentiloni, partito ieri sera per una visita all’emiro Sabah al-Ahmad e al principe ereditario Nawaf Al-Ahmad. Ieri sera il premier si è complimentato pubblicamente con Renzi per la vittoria («Una bella giornata») ma prima di partire, il presidente del Consiglio ha depositato un messaggio ai naviganti, passato sotto silenzio, eppur significativo. 

Venerdì sera, intervenendo alla manifestazione di chiusura del Comitato Renzi, le parole di Paolo Gentiloni sono state queste: «Dobbiamo proseguire nel cammino delle riforme avviate e non perdere l’occasione di una ripresa che c’è. Sarebbe irresponsabile da parte nostra disperdere queste potenzialità, questo lavoro che è stato fatto». Gentiloni è un professionista del lessico politico e l’aggettivo da lui usato (irresponsabile) va inteso come un caldo invito - rivolto a tutti - ad assumere un atteggiamento responsabile. Ai partiti, ai ministri di punta del suo governo, anche a due ministri col quale intrattiene un rapporto di forte stima personale, Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda. Ma in qualche modo è un messaggio diretto anche a Matteo Renzi. Perché dopo le Primarie, a palazzo Chigi si attendono una parola chiara e definitiva - quale che sia - sulle due questioni essenziali per il futuro politico del Paese: la legislatura si chiude in anticipo o a scadenza naturale? E se si va avanti, quale legge di Stabilità nel prossimo autunno?
 
Certo, il presidente del Consiglio ha sempre riconosciuto al Pd e a Renzi non soltanto il ruolo di azionista di maggioranza, ma anche il diritto di tracciare le scelte fondamentali della legislatura. Paolo Gentiloni, anche di recente, ha ribadito a tu per tu con Renzi che per nessuna ragione cambierà atteggiamento. E il presidente del Consiglio sa pure, proprio perchè parla spesso con Renzi, che il leader del Pd non ha ancora deciso cosa sia meglio fare. Conosce le ragioni di Renzi e sa che a lui non dispiace la “finestra” del 27 settembre, lo stesso giorno delle elezioni in Germania. Ma una decisione non è presa. E per prenderla Renzi dovrà convincere i “notabili” del Pd - Dario Franceschini, Graziano Delrio in primis - ma anche le principali forze di opposizione. 
 
Ma a questo punto, a palazzo Chigi sperano che nel giro di qualche settimana si decidano le sorti della legge elettorale e della legislatura. Perché Paolo Gentiloni - ma pure al Quirinale - conoscono le preoccupazioni sulla “tenuta” del sistema economico-finanziario in particolare da parte di Pier Carlo Padoan. In tre anni e mezzo il ministro dell’Economia non hai lasciato affiorare in pubblico dissensi o incertezze, interpretando il proprio ruolo con una riservatezza e uno spirito di squadra che un tempo era proprio dei professionisti della politica. 
 
Nelle ultime settimane Padoan continua a coltivare, nel più assoluto riserbo, preoccupazioni per la manovra d’autunno. E al tempo stesso osserva con qualche perplessità le punture di spillo che gli dedica Matteo Renzi. L’altro giorno il leader in pectore del Pd, aveva detto a “Porta a Porta”: «Ho sempre nutrito una stima profonda per Pier Carlo Padoan. Ma i manuali di economia ignorano quello che è l’Italia di oggi». Come dire: il ministro è un teorico, ogni tanto privo di senso pratico e politico. Una “carezza” che Padoan ha puntualmente lasciato cadere, convinto, come sempre, che quel che conta è il dialogo a tu per tu. 
 
Con Gentiloni e con Renzi, al quale il ministro riconosce il ruolo di decisore primo della maggioranza. Su due cose Gentiloni e Padoan sono d’accordo: le decisioni strategiche le prende il Pd, ora con un leader rilegittimato, ma al tempo stesso sarebbe un errore interrompere il cammino dei due ultimi governi. Il presidente del Consiglio, l’altro giorno, è stato molto esplicito, più del solito: «Vorremmo tutti una crescita più forte. E tuttavia finalmente il Paese è tornato a crescere, la disoccupazione è tornata a calare e abbiamo una spinta nei consumi e in generale nel sentimento delle famiglie e delle imprese. I dati di oggi confermano questo percorso positivo». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/01/italia/cronache/e-ora-gentiloni-chiede-una-decisione-chiara-sulla-legislatura-TXZzwpbVsVAbRSTqmd39jL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Ecco come cambierà l’agenda del G7 di Taormina dopo Manchester
Inserito da: Arlecchino - Maggio 24, 2017, 11:39:09 am

Ecco come cambierà l’agenda del G7 di Taormina dopo Manchester
Il summit in programma il 26 e 27 maggio non verterà soltanto sul tema migranti come era previsto ma si concentrerà inevitabilmente sul terrorismo

Pubblicato il 23/05/2017 - Ultima modifica il 23/05/2017 alle ore 12:10

Fabio Martini

L’ agenda di un G7 non ha la rigidità di un’Assemblea delle Nazioni Unite o di un Consiglio europeo e anche per questo motivo, in queste ore, la presidenza italiana sta contattando gli altri sei Paesi che parteciperanno al summit di Taormina, il 26 e il 27 maggio, per valutare in che termini la questione del terrorismo vada trattata ed enfatizzata, alla luce dell’attentato di Manchester.

In attesa che il «giro d’orizzonte» sia completato una cosa è già acclarata: l’agenda del G7 cambierà. Naturalmente non saranno oscurati gli altri temi all’ordine del giorno, a cominciare dalla questione migranti, ma l’agenda cambierà. 

Cambierà la discussione tra i leader. E cambierà la dichiarazione finale. Obiettivo: trasmettere un messaggio forte e univoco da parte dei leader dei Sette Grandi dell’Occidente. 

Ovviamente cambierà anche l’atteggiamento dei leader e i messaggi alle rispettive opinione pubbliche: a Taormina saranno presenti i capi di Stato o di governo di Paesi che, in modo diverso, hanno subito attacchi durissimi da parte del terrorismo jhaidista. 
Su sette Paesi presenti, cinque hanno dovuto sopportare attentati molto gravi. Saranno infatti presenti, oltre al presidente del Consiglio italiano e al capo del governo giapponese, la premier inglese Teresa May, il presidente americano Donald Trump, il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera Angela Merkel, il primo ministro canadese Justin Trudeau. Cinque Paesi che, anche in tempi recenti, hanno subito attacchi molto pesanti e i cui leader porteranno contributi significativi nella messa a punto di una strategia capace di contenere azioni come quella di Manchester.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/23/esteri/ecco-come-cambier-lagenda-del-g-di-taormina-dopo-manchester-bHtTxiCRp0wcTmlQhvMXNI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Gentiloni torna indebolito e senza truppe da muovere
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 09:03:14 pm

Gentiloni torna indebolito e senza truppe da muovere
Inizia il conto alla rovescia
Lealtà a Renzi: “In Consiglio dei ministri non si fa politica”

Pubblicato il 28/05/2017 - Ultima modifica il 28/05/2017 alle ore 07:11

Fabio Martini
INVIATO A TAORMINA

Sull'aereo di Stato che dai «fasti» di Taormina lo fa planare a 700 chilometri all'ora verso gli «intrighi» di Roma, Paolo Gentiloni di tante cose chiacchiera con la moglie Manù, col capo staff Antonio Funiciello e col portavoce Filippo Sensi, tranne che della più grande novità che è apparsa sulla politica nazionale nelle ultime ore: il virtuale conto alla rovescia che si è ormai aperto sulla durata del suo governo.

Reduce da un G7 importante, «che ha fatto segnare differenze, ma dopo discussioni vere», in privato Gentiloni preferisce non parlare di quel che lo attende a partire da lunedì e si limita a sorridere, quando qualcuno - scherzando e parafrasando una celebre lamentazione del cardinale Pappalardo - butta lì una battuta: «Dum Taorminae consulitur, Roma expugnatur!» (Mentre a Taormina si discute, Roma viene espugnata. Sorride ma non entra nel vortice delle elucubrazioni o delle recriminazioni. E così sarà nelle prossime settimane.

La spirale senza ritorno 
Ma nelle ore precedenti, nelle pause di un G7 molto denso, Paolo Gentiloni ha capito e preso atto della doppia novità che si è consumata nelle ultime ore: prima c’è stato il patto Letta-Lotti sulla riforma elettorale alla tedesca e sullo scioglimento anticipato delle Camere, una massa critica importante ma non ancora decisiva. 

E qui si incastra la seconda novità: l’iscrizione dei Cinque Stelle al «partito» del tedesco-elezioni subito, una novità doppia che - se dovesse consolidarsi nel giro delle prossime ore - somiglia ad una spirale senza ritorno: la svolta che potrebbe portare allo scioglimento anticipato delle Camere. Con voto in autunno. Come vuole Renzi da diversi mesi e come sembrano volere, ecco la novità da scacco matto, anche Berlusconi e Grillo.

Lo scenario 
Uno scenario che Paolo Gentiloni ha già deciso come affrontare: se la maggioranza delle forze parlamentari approveranno una riforma elettorale e subito dopo decideranno che la legislatura può essere sciolta anticipatamente, il presidente del Consiglio non resisterà, ma non farà obiezioni. 

La frase topica 
Ai suoi, per fare capire come la pensa, ripete una frase: «In Consiglio dei ministri, non si fa politica». Come dire: le decisioni politiche strategiche le decide chi ha il «potere» politico. E anche stavolta Gentiloni si uniformerà al suo imperativo categorico: l’azionista di maggioranza è il Pd, il leader del Pd è Matteo Renzi e dunque è presto fatto.

Bandiera bianca? 
Certo, non siamo ancora allo sciogliete le righe. Gentiloni non alza bandiera bianca. Ecco perché ieri sera, arrivato a Roma, in prima battuta ha salutato positivamente l’emendamento sulla questione voucher, anche se il presidente del Consiglio sa che l’eventuale ritiro di Mpd dalla maggioranza, con Forza Italia a far da surrogato, sarebbe un elemento di indebolimento del quadro politico. Non siamo ancora allo sciogliete le righe e dunque Gentiloni non sa se nel patto Renzi-Berlusconi siano comprese anche le modalità con le quali portare il governo alle dimissioni. 

La lealtà al leader 
Per il momento Gentiloni non perde occasione per ribadire pubblicamente la propria lealtà a Matteo Renzi. Ieri pomeriggio, al termine del G7, Gentilioni ha tenuto la conferenza stampa finale e lo ha fatto da un podietto fatto collocare su uno scenario suggestivo, con il mare e lo sperone di Taormina alle spalle.

E il suo incipit è stato eloquente: «Voglio ringraziare il presidente Renzi che ha avuto l’idea di fare qui il vertice». E ancora: «Ha funzionato alla grande», «si è rivelata un’idea vincente». Certo, un ringraziamento dovuto, perchè effettivamente la proposta di Taormina era stata di Renzi, ma in politica - si sa - l’eleganza e la riconoscenza sono virtù rare, che per il momento non sembrano far parte, ad esempio, del “repertorio” del predecessore di Gentiloni a palazzo Chigi.

Nella conferenza stampa finale il presidente del Consiglio ha dato la sua lettura sul G7: un vertice «vero» anche perché le divisioni non sono state sottaciute. E ha provato a rivendicare come risultato positivo quello che proprio Gentiloni si era proposto come obiettivo non dichiarato: disinnescare tutte le mine che avrebbero potuto trasformare il G7 in un flop. 

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Da http://www.lastampa.it/2017/05/28/italia/politica/gentiloni-torna-indebolito-e-senza-truppe-da-muovere-inizia-il-conto-alla-rovescia-kMHVLSetfeAXNAjKHBPi9K/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Ora a Renzi torna la tentazione del voto anticipato: a novembre
Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2017, 10:08:07 am
Ora a Renzi torna la tentazione del voto anticipato: a novembre
Si potrebbe puntare all'abbinamento con le Regionali siciliane per provare a evitare una possibile ripresa dei Cinque Stelle
Il segretario Pd è di nuovo tentato di chiudere il prima possibile la legislatura. In cuor suo Matteo Renzi non ha mai archiviato l’idea
Pubblicato il 12/06/2017 - Ultima modifica il 12/06/2017 alle ore 11:30

FABIO MARTINI
ROMA

Ora la tentazione del «contropiede», di chiudere il prima possibile la legislatura è destinata a tornare. In cuor suo Matteo Renzi non l’ha mai archiviata.
 
E nelle ultime ore la scomparsa dei Cinque Stelle dai ballottaggi in quasi tutte le città fa tornare l’appetito al leader del Pd in vista di una accelerazione verso le elezioni anticipate. Ieri sera Matteo Renzi è rimasto silenzioso, arrivato in tarda serata al Nazareno e, pur non escludendo esternazioni in Rete durante la notte, il primo commento arriverà oggi.
 
Certo, ma nelle prossime ore il leader del Pd potrà legittimamente cantar vittoria, anche se sarà complicato legare la buona performance delle coalizioni e dei candidati di centrosinistra ad un effetto-Renzi per la semplice ragione che l’ex presidente del Consiglio non soltanto non si è fatto vedere nelle principali città chiamate al voto, ma non ha mai richiamato il valore politico di queste amministrative. E quanto al risultato delle liste del Pd, i primissimi dati (da verificare al termine dello spoglio) indicano risultati inferiori a quelli sin qui raggiunti dai Democratici nelle amministrative, competizione sempre poco favorevole ai partiti nazionali. 
 
Subito dopo la trasmissione degli exit poll alle 23, Renzi ha preferito non commentare a caldo le prime proiezioni, ma chi ha parlato con lui in queste ore consiglia di non sottovalutare la sincerità delle sue assicurazioni sulla durata della legislatura - e dunque del governo Gentiloni - ma al tempo stesso suggerisce di considerare ancora attivo il «piano B», a parole archiviato.
 
Con un’idea in più rispetto a quella circolata nelle settimane scorse: se non si farà a tempo a votare il 24 settembre, la subordinata può diventare il 5 novembre, data nella quale sono state fissate le elezioni regionali siciliane. Un abbinamento, Politiche-Regionali, che consentirebbe al Pd di assorbire ed evitare un passaggio ritenuto ad altissimo rischio: la vittoria dei Cinque Stelle in Sicilia. Un risultato temuto da Renzi ogni ragionevole misura, perché una vittoria dei «grillini» nell’ultimo test elettorale importante prima delle Politiche potrebbe determinare un effetto-trascinamento sulle elezioni nazionali, a quel punto imminenti.
 
Certo, l’analisi sia pure sommaria dei primi risultati elettorali non è molto gratificante per il Pd. Nella città più importante nella quale si è votato, Genova, al ballottaggio va Gianni Crivello un personaggio più vicino alla ditta» (gli ex Pci-Ds) piuttosto che a Renzi e oltretutto dai primissimi risultati delle liste, quella del Pd sembra destinato ad attestarsi su percentuali che potrebbero relegare il partito al peggior risultato della sua storia. A Parma, in quella che un tempo era l’Emilia «rossa», il candidato del Pd è al secondo posto, con un distacco che pare incolmabile dal sindaco Pizzarotti. A Palermo il sindaco uscente, Leoluca Orlando, potrebbe essere eletto al primo turno ma il Pd è entrato nella coalizione (forse) vincente soltanto a condizione di rinunciare al proprio simbolo. Più promettenti le situazioni a Verona e Catanzaro dove il centrosinistra dovrebbe andare al ballottaggio ma in entrambi i casi il risultato delle liste del Pd (per quel che valgono in elezioni comunali) risulta su percentuali non rilevanti. Ieri sera il primo commento a caldo da parte del Pd è venuto da Matteo Ricci, responsabile Enti locali: «Il M5S, se i dati sono confermati, non arriva al ballottaggio in molte città ed è questo il dato politico».
 
Test difficilmente decrittabile per le formazioni alla sinistra del Pd, La formazione nata dalla scissione del Pd, l’Mdp, nel 64% dei capoluoghi di provincia era alleato col Pd, in alcune città (Lodi. Cuneo, Asti, La Spezia) non era presente e non aveva candidati sindaci in realtà importanti, mentre a Genova e l’Aquila c’erano liste vicine ad Articolo Uno. 
 
Il test dunque sarà soltanto sul voto di lista, disponibile solo a partire da oggi. Anche se in una delle città importanti nelle quali si è votato, Catanzaro, Mdp appoggiava il civico Nicola Fiorita che sembra messo meglio del candidato del Pd per andare al ballottaggio.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/12/italia/politica/ora-a-renzi-torna-la-tentazione-del-voto-anticipato-a-novembre-YDex4cJ8YWU0HKsZld4t0I/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi vede Prodi e fa l’ulivista. Ma il Professore: “Troppi veti”
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2017, 11:21:02 pm

Renzi vede Prodi e fa l’ulivista. Ma il Professore: “Troppi veti”
Il segretario del Pd chiede aiuto: “Serve una lista per superare il 40%”.
Romano incontra anche Pisapia: “Rischio stallo sul nome del premier”

Pubblicato il 16/06/2017
Ultima modifica il 16/06/2017 alle ore 07:21

Fabio Martini
Roma

La sequenza tra i viottoli del centro di Roma racconta il “nuovo” Prodi, l’uomo che a 77 anni è diventato il personaggio più ricercato dai leader progressisti, quasi che la sua benedizione sia diventata il viatico per la “salvezza” politica dei suoi interlocutori. Sono le sei del pomeriggio, siamo a piazza Sant’Eustachio, a due passi dal Senato: il Professore, appena uscito da un convegno sulla Cina, cammina, un gruppo di signore lo saluta con calore e una moto inchioda, un ragazzo si toglie il casco e urla: «Forza Romano!». Lui sorride e si siede a mangiare un toast dopo 48 ore condotte a passo di carica e segnate da due incontri politici che lo hanno riportato alla stagione di quando il capo era lui: due giorni fa Prodi ha incontrato Giuliano Pisapia e ieri si è visto con Matteo Renzi, che gli aveva sollecitato un incontro.

E ora, seduto ad un tavolino, il Professore tira le somme di questa inattesa sequenza: «Con Renzi è stato un incontro lungo e cordiale e idem con Pisapia. Bisogna lavorare per l’unità ma purtroppo c’è il rischio dello stallo totale se si continua nella logica per la quale uno immagina che comunque il presidente del Consiglio lo farà lui, mentre gli altri immaginano che Renzi mai e poi mai potrà assumere la guida del governo». E a chi gli chiede che effetto gli faccia essere diventato in pochi giorni l’”oggetto del desiderio” dei capi attuali del centrosinistra, il Professore sorride: «L’essere ricercato ha come madre la grande confusione esistente e come padre l’essere disinteressato e quindi non pericoloso!».

Prodi minimizza ma la sequenza delle ultime 48 ore è eloquente: Renzi e Pisapia, avviati a contendersi gli stessi elettori con due liste contrapposte, hanno chiesto lumi al Professore, che si è ritirato dalla politica attiva dieci anni fa. Il primo approccio tre sere fa. Pisapia, dopo aver registrato una trasmissione nella quale aveva detto che sarebbe bello se Prodi potesse federare il centrosinistra, ha capito quanto infelice fosse stata la battuta e ha telefonato al Professore, anticipandogli tutto. E Prodi, scherzando, gli ha detto: «Ma il capo sei tu!». Una battuta in privato, non un’investitura, perché Prodi - per quanto tirato da tutti - per il momento non intende parteggiare per nessuna delle parti in campo. 

E proprio questa era una delle curiosità più brucianti di Renzi: fino a che punto intende spingersi il Professore? E infatti è stato il segretario del Pd a chiedere a Prodi di vedersi. Il Professore ha acconsentito, ma chiedendo a Renzi di andare a trovarlo: all’hotel Santa Chiara dove alloggia durante i soggiorni romani. All’incontro era presente anche Arturo Parisi, l’ideologo del bipolarismo e dell’Ulivo, che vede a rischio-eutanasia il progetto di una vita e proprio per questo “puntella” quei brandelli di maggioritario che ancora si possono tenere in vita. E proprio su questo terreno si è trovato un punto di intesa. Ha detto Renzi: «Romano, a questo punto modificare in modo significativo la legge elettorale sarà difficile, ma dobbiamo costruire una lista che punti al 40 per cento e ci consenta al di prendere il premio di maggioranza e di governare da soli». Una soluzione “ulivista” che piace a Prodi ma una lista di quel tipo passa attraverso un cartello, altamente improbabile date le tensioni in campo, con Pisapia-Bersani. Ed è per questo che ieri sera, tornando a Bologna, Prodi vedeva il rischio dello «stallo totale». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/16/italia/politica/renzi-vede-prodi-e-fa-lulivista-ma-il-professore-troppi-veti-jM15zYYfStb3VR88zzB8TM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La strategia dei piccoli passi di Gentiloni: “Soddisfatti, ma ora
Inserito da: Arlecchino - Giugno 25, 2017, 04:08:18 pm

La strategia dei piccoli passi di Gentiloni: “Soddisfatti, ma ora serve una svolta”
Per la prima volta la Libia citata come Paese chiave nella lotta all'immigrazione.
Il premier: la Commissione e i Paesi membri devono investire in cooperazione

Pubblicato il 24/06/2017 - Ultima modifica il 24/06/2017 alle ore 07:27

Fabio Martini
Inviato a Bruxelles

In pochi mesi molto è cambiato nel rapporto tra Roma e Bruxelles. Due «istantanee» restituiscono la novità: alle 9 del mattino il presidente del Consiglio incontra le centinaia di funzionari, dirigenti e diplomatici italiani che lavorano a Bruxelles, consuetudine per molti capi di governo europei ma non per gli italiani. Sei ore più tardi la cancelliera Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron, nella loro conferenza stampa congiunta, riconoscono che male ha fatto l’Europa a non ascoltare il grido di dolore italiano sulla questione migranti e che ora si dovrà fare il possibile per fronteggiare un fenomeno che non rappresenta più una semplice emergenza. 

SVOLTA SUI MIGRANTI 
Una postura diversa dal passato da parte di Germania e Francia, ma non ancora un cambio di atteggiamento, che si è riflessa nel documento conclusivo del Consiglio Europeo: i flussi migratori nel Mediterraneo Centrale, e in particolare dalla Libia, sono una «sfida permanente» e quindi non è più un’emergenza, ma un grave problema cronico per il continente, che investe tutti, e quindi non solo i paesi in prima fila, Italia su tutti.

Progressi in gran parte semantici, Paolo Gentiloni lo sa bene, ed infatti è attento a non enfatizzare, a misurare pragmaticamente i risultati contenuti nelle Conclusioni del Consiglio. Col consueto understatement dice: «L’Italia può ritenersi soddisfatta». E rientrando a Roma spiega ai suoi: «Per noi è stato essenziale mantenere gli impegni anche sulla vicenda immigrazione. La Commissione ha apprezzato e ora anche se dobbiamo accontentarci delle partite che si svolgono giorno per giorno e in questi due giorni non si doveva risolvere il problema dei flussi ma affermare una serie di concetti, il lavoro da fare è ancora molto». 

IL NODO LIBIA 
In particolare, nelle Conclusioni. La Libia viene citata come il Paese-chiave, e infatti l’impegno della Ue è cresciuto molto, dall’operazione Sophia all’assistenza alla Guardia Costiera libica, che negli ultimi due mesi - come ricorda Gentiloni - ha effettuato 8600 salvataggi, ai quali si sommano i 6 mila rimpatri verso altri Paesi africani effettuati dallo Iom. 
Certo, assistere il governo di Tripoli è essenziale, anche se - riconosce il presidente del Consiglio - la sua affidabilità non è la stessa che garantisce il governo turco, che poco più di un anno fa con il maxi intervento di 3 miliardi ha bloccato i flussi da est. E infatti Gentiloni usa parole misurate: «Se qualcuno pensa che le autorità libiche e quelle turche siano paragonabili fa una piccola forzatura: è evidente che oggi stiamo aprendo una strada e cercando di ottenere il massimo, inducendo la Commissione europea e Paesi membri a fare un investimento in cooperazione. Dobbiamo fare due mestieri: lavorare per sostenerlo e lavorarci per affrontare la questione migratoria». E poi con humour: «Se oggi qualcuno dicesse “Diamo 3 miliardi di euro alla Libia” bisognerebbe chiamare qualcuno da fuori e dirgli: “Prendetelo”».

LE SFIDE FUTURE 
La novità che promette sviluppi futuri è il concetto di rafforzamento di cooperazione regionale nelle operazioni di «Search and Rescue», che potrebbe prevedere in prospettiva il principio di ampliamento degli approdi, «anche se sappiamo bene che i problemi con cui ci dobbiamo confrontare non si risolvono con le conclusioni di un documento del Consiglio europeo». Le partite europee sono fatte di piccoli passi, a volte impercettibili, ma nella filosofia «gentiloniana», l’importante è imboccare una direzione.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/24/esteri/la-strategia-dei-piccoli-passi-di-gentiloni-soddisfatti-ma-ora-serve-una-svolta-1Rx6weKBkpRM5v2Is5D6RJ/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La rete di Pisapia trova nuove adesioni e tenta pezzi di Pd
Inserito da: Arlecchino - Giugno 25, 2017, 04:10:00 pm
La rete di Pisapia trova nuove adesioni e tenta pezzi di Pd
Oggi appuntamento a Napoli con Bersani e due prodiani doc
In campo Giuliano Pisapia parlerà oggi all'assemblea nazionale di Centro democratico dal titolo «Verso il nuovo centrosinistra» a Napoli

Pubblicato il 24/06/2017 - Ultima modifica il 24/06/2017 alle ore 07:08

Fabio Martini
Roma

Il crescente affollamento attorno al «treno» di Giuliano Pisapia sta decisamente accelerando la partenza dell’operazione politica imbastita dall’ex sindaco di Milano. Questa mattina, alla Stazione Marittima di Napoli, Giuliano Pisapia, Pier Luigi Bersani e Bruno Tabacci in qualche modo anticiperanno l’evento-clou, fissato il primo luglio a piazza Santi Apostoli a Roma, quando verrà battezzato il nuovo soggetto politico, «Insieme», voluto dall’ex sindaco. 

Da parte sua Pisapia, proprio per dare nuovo lievito all’operazione, sta definendo sempre più chiaramente l’identità del nuovo soggetto, ora parla di «una sinistra che sappia assumersi la responsabilità di governare», avversaria della «demagogia e del populismo». Un profilo che esclude derive radicali, taglia i ponti con la Sinistra del No e traccia l’identità di un soggetto riformista, chiamato a diventare il principale concorrente del Pd di Renzi. Sul suo stesso terreno. Contendendosi gli stessi elettori.

Proprio per questo motivo dietro le quinte tanti personaggi del centrosinistra, per ora riservatamente, stanno prendendo contatti con Pisapia, ma anche con Romano Prodi, per capire la consistenza dell’operazione. Non è detto che alla fine siano della partita, ma nei giorni e nelle settimane scorsi interessamenti sono arrivati da personalità provenienti da mondi molti diversi: ex Ds come Antonio Bassolino, i governatori del Lazio Nicola Zingaretti e del Piemonte Sergio Chiamparino. Ma anche esponenti cattolico-democratici come Leoluca Orlando, il vicepresidente del Parlamento europeo David Sassoli, l’ex presidente della Provincia di Trento Lorenzo Dellai. E tanti altri contatti, che per ora restano riservatissimi.

Ma il secondo effetto a breve determinato dall’operazione-Pisapia potrebbe determinarsi già a partire da domani. Nel Pd la fronda nei confronti di Matteo Renzi si sta ingrossando e, nel caso il risultato delle amministrative fosse sotto le aspettative, «nel partito si aprirà una discussione vera anche nel mondo degli ex popolari», confida uno dei personaggi più influenti di quella tradizione, che ha il proprio capofila in Dario Franceschini. Mentre fuori dal Pd, per tutto questo mondo, il «garante» è tornato ad essere Romano Prodi.

E un primo segnale verrà oggi da Napoli, con la convention di scioglimento del Centro democratico, guidato da Bruno Tabacci, già presidente (Dc) della Regione Lombardia, personaggio stimatissimo da Pisapia, che infatti lo volle al suo fianco come assessore al Bilancio. Oltre a Tabacci, che chiuderà, interverranno due prodiani doc come Sandra Zampa e Franco Monaco, mentre gli interventi clou saranno quelli di Pier Luigi Bersani e di Giuliano Pisapia, in questo sottolineando la doppia leadership del soggetto che sta per nascere. 

Dunque, sta per partire l’operazione-erosione del Pd? Dice Tabacci: «Il nostro ruolo in questo fenomeno è indiretto. Dentro il Pd i personaggi di peso o se ne sono andati o sono critici. Dai contatti che abbiamo, posso immaginare che da noi presto arriveranno, non dico troppi, ma tanti…». Nello stop and go che segna tutti i movimenti allo stato nascente, molto dipende da eventi simbolici. Romano Prodi, come aveva spiegato riservatamente a Renzi, non sarà il primo luglio in piazza Santi Apostoli dove verrà battezzato il nuovo soggetto di Pisapia. Ma non è escluso che all’ultimo momento il Professore possa mandare un messaggio. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/24/italia/politica/la-rete-di-pisapia-trova-nuove-adesioni-e-tenta-pezzi-di-pd-3QWXhoBL18E4j8Af0Vf3SK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. L’idea di Prodi: Letta candidato premier
Inserito da: Arlecchino - Giugno 28, 2017, 12:15:26 pm

La rottura dopo l’invito a Matteo a non correre per Palazzo Chigi
L’idea di Prodi: Letta candidato premier

Pubblicato il 28/06/2017

Fabio Martini
Roma

Si è fatta sera, Romano Prodi è appena tornato nella sua casa bolognese di via Gerusalemme, inseguito dai tanti – politici, giornalisti, amici - che da ore lo cercano per una interpretazione “più autentica” della nota che lui stesso ha diffuso qualche ora prima, con quella metafora della tenda che si allontana dai territori del Pd. Il Professore sorride: «Non parlo, non parlo, non parlo! Parla la nota. E ora mi ritiro in pace…». Una pace relativa. Da un mese Romano Prodi sta vivendo una seconda giovinezza: alle presentazioni del suo ultimo libro, la gente si mette in fila per ottenerne un autografo e quando compare in pubblico si alzano standing ovation che neppure quando era il leader dell’Ulivo... Ma il fenomeno più sorprendente che riguarda Prodi è quello dei politici ancora in campo che si sono messi in “fila” per ottenerne la laica “benedizione”: Matteo Renzi, Giuliano Pisapia, Enrico Letta. O che chiedono consigli: come Laura Boldrini o Carlo Calenda.

Lui finora ha ascoltato, si è limitato a dare suggerimenti e aveva deciso di soprassedere davanti alle inesattezze contenute in tanti articoli. Ma ieri mattina, oltre ad uno dei tanti “retroscena” che attribuivano al leader del Pd una rinnovata vocazione alla rottamazione, il Professore è rimasto infastidito dalla lettura del voto data da Renzi in un colloquio con il direttore del “Quotidiano Nazionale” Andrea Cangini, nella quale si sosteneva che «i migliori amici del Berlusca sono i suoi nemici, che invocano coalizioni più larghe…». In altre parole Renzi spiegava il netto, generalizzato calo del Pd con la strategia unitaria invocata da Prodi, una lettura che al Professore è apparsa una paradossale “chiamata”, un rovesciamento della realtà, una provocazione difficile da lasciar correre soprattutto da parte di chi sta provando a trovare un minimo comun denominatore in uno schieramento che, come dice Prodi, «è paralizzato dai veti».

Dunque, è stata una forte irritazione ad ispirare la nota del Professore con la metafora della tenda che si allontana dal Pd. «Io – dice Prodi – mi limito ad osservare che, in assenza di divergenze strategiche, nel centrosinistra se si continua sulle divisioni personali, si rischia lo stallo totale. Io non faccio il tifo per nessuna delle parti in gioco».

Ecco perché nel loro incontro riservatissimo di metà giugno all’hotel Santa Chiara Matteo Renzi, Romano Prodi e Arturo Parisi avevano cercato una possibile intesa sul futuro. E avevano esplorato una strada, che finora è rimasta inedita. Prodi, ma a sorpresa anche Renzi, avevano convenuto sul fatto che il leader del Pd al momento resta un elemento divisivo: con lui candidato a palazzo Chigi le due aree del centrosinistra sono destinate a guerreggiarsi.

Partendo da questa premessa Prodi aveva sostenuto – ma l’altro aveva annuito – che la cosa migliore è che Renzi si dedichi a potenziare e irrobustire il partito, mentre come candidato per palazzo Chigi si dovrebbe trovare un candidato che metta d’accordo tutte le aree del centro-sinistra. Per esempio Enrico Letta. Renzi non ha opposto, sul momento, resistenze a questa via d’uscita. Anche se in quelle ore era parso interessato soprattutto a capire se il Professore avesse intenzione di partecipare alla manifestazione di Pisapia-Bersani il primo luglio a Santi Apostoli. Prodi aveva spiegato a Renzi che lui intende svolgere un ruolo da collante, «sono una specie di Vinavil» e dunque non era sua intenzione essere in piazza.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/28/italia/politica/la-rottura-dopo-linvito-a-matteo-a-non-correre-per-palazzo-chigi-dppaW7jVU9JbAjxxFIcX2N/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi: “Pisapia era contro Prodi”. Ma la storia è andata ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 11, 2017, 10:04:16 am
Renzi: “Pisapia era contro Prodi”. Ma la storia è andata diversamente

Pubblicato il 09/07/2017 - Ultima modifica il 09/07/2017 alle ore 11:42

FABIO MARTINI

Tra le anticipazioni del suo nuovo libro, «Avanti», distribuite in queste ore ai vari giornali, è compreso un attacco all’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, annoverato (assieme a Massimo D’Alema) tra i nemici dell’Ulivo e di Romano Prodi.

Ma la storia è andata diversamente, anzi in modo capovolto, e almeno su questo punto, il libro sembra scritto frettolosamente. Nel 1998 quando Rifondazione comunista decise di votare la sfiducia al governo dell’Ulivo, Pisapia (eletto come indipendente nelle liste di Rrc) si dissociò e votò a favore dell’esecutivo Prodi, che però cadde. Pisapia votò dunque come i deputati degli scissionisti dal Prc, guidati da Cossutta, ma non per questo divenne «cossuttiano». 
 
Pisapia, per coerenza col mandato elettorale, si dimise da presidente della Commissione Giustizia (nonostante due volte i commissari avessero respinto le dimissioni) e si iscrisse al Gruppo Misto. Ma davanti alla novità del governo D’Alema, nato in contrapposizione a quello Prodi, Pisapia rientrò nel gruppo di Rifondazione per esercitare la sua opposizione ai nuovi esecutivi, nati in discontinuità con l’Ulivo. Tanto è vero che votò contro la guerra in Kosovo e contro la riforma dell’articolo quinto. Nel 2006, quando Prodi tornò a palazzo Chigi avrebbe voluto Pisapia come ministro di Grazia e Giustizia, ma per una serie di incastri, l’operazione non fu completata.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/09/italia/politica/renzi-pisapia-era-contro-prodi-ma-la-storia-andata-diversamente-x7rD1goyWdomn3jXHY6cdL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi ha deciso il “tesseramento balneare”: chi si vuole ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 11, 2017, 10:29:29 am
Renzi ha deciso il “tesseramento balneare”: chi si vuole iscrivere al Pd potrà farlo solo d’estate

Pubblicato il 05/07/2017 - Ultima modifica il 05/07/2017 alle ore 20:26

Fabio Martini

Matteo Renzi ha preso una decisione senza precedenti: chi si vorrà iscrivere al Pd nel 2017 dovrà farlo in un tempo brevissimo, probabilmente il più breve nella storia di un partito italiano. La finestra per tesserarsi resterà aperta tra il 17 di luglio e il 25 settembre, perché ad ottobre si terranno i congressi provinciali e quelli per il rinnovo degli organi dirigenti di base, i Circoli. Un tesseramento bruciante, della durata di 70 giorni, che si riducono a tre, quattro settimane se si escludono metà luglio e agosto.

Una procedura molto originale per almeno due motivi: mai – in un partito democratico - si era determinato un tesseramento “balneare”, limitato ai soli mesi estivi; mai si era ristretto il tempo in modo così drastico. Sulle ragioni della svolta per il momento circolano soltanto processi alle intenzioni: a caldo la meno benevola parla di Renzi che ha oramai deciso di andare “alla guerra” e che punta su un tesseramento “chi c’è, c’è”. Ma per ora si tratta di illazioni. L’unico effetto prevedibile di questa procedura è quello di circoscrivere drasticamente il bacino degli iscritti “spontanei”.
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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/05/italia/politica/renzi-ha-deciso-il-tesseramento-balneare-chi-si-vuole-iscrivere-al-pd-potr-farlo-solo-destate-W47hRGZFC6eot8rXifK0vM/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Lo stop di Pisapia: “Serve una formazione riformista”, non un...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2017, 05:42:26 pm
Lo stop di Pisapia: “Serve una formazione riformista”, non un fronte del No
L’ex sindaco di Milano, irritato per la delegittimazione imbastita da Mdp per l’abbraccio alla Boschi alla festa dell’Unità, ha rinviato l’incontro con i bersaniani: «Meglio riflettere che litigare».
La preoccupazione di fare una formazione che «parli» alla sinistra ma anche a Prodi e Letta


Pubblicato il 25/07/2017 - Ultima modifica il 25/07/2017 alle ore 17:05

FABIO MARTINI
ROMA
A questo punto la decisione finale – fare o no un soggetto riformista alternativo al Pd – è rinviata a settembre, ma Giuliano Pisapia confessa di sentirsi sollevato dopo l’annullamento del previsto incontro con Mdp: «Se ci fossimo incontrati in queste ore avremmo rischiato di litigare, invece così possiamo riflettere sul da farsi…». Ma l’annullamento dell’incontro con Roberto Speranza, lo ha deciso proprio Pisapia e dunque non è affatto detto che nelle prossime settimane tutto si risolva in un abbraccio tra le due anime di quest’area, quella con una vocazione di governo che fa capo all’ex sindaco di Milano e quella da “Rifondazione-Ds” che fa capo a Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema ed Enrico Rossi.

Uomo mite, ma non buonista, Pisapia stavolta è molto irritato, più del solito con chi ha provato a delegittimarlo per l’ormai celeberrimo abbraccio con Maria Elena Boschi alla festa dell’Unità. Chi lo conosce, ricorda la fermezza con la quale reagì alle insinuazioni di Letizia Moratti durante la campagna elettorale di Milano, una reazione che contribuì alla sua inattesa vittoria nel duello con l’allora sindaco.
 
E anche stavolta Pisapia non transige: dal suo punto di vista confondere un gesto gentile con una cedevolezza politica è un’insinuazione che l’ex sindaco comprende in qualche militante sul web, ma non nel gruppo dirigente di una formazione diretta da leader maturi e che conoscono le sue intenzione: «Voglio dar vita ad un’area alternativa all’attuale Pd».
 
Nella valutazione di Pisapia l’incontro fissato per oggi con Speranza si sarebbe risolto in un nulla di fatto, mentre invece dal suo punto di vista meritano riflessione ulteriore almeno tre punti: il profilo della nuova area, che Pisapia vuole riformista e con vocazione governativa, capace di intercettare anche gli elettori che guardano a Prodi e a Letta; il rapporto con l’esecutivo Gentiloni, escludendo colpi di mano, che avrebbero l’effetto di qualificare la nuova formazione come “crisaiola” e “sfascista”; il profilo organizzativo, che è difficile immaginare come incardinato sulle sole tessere. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/25/italia/politica/lo-stop-di-pisapia-serve-una-formazione-riformista-non-un-fronte-del-no-vwxSxUnLlvSeCDXYxqY7YK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il presidente di Confindustria: la competizione deve essere tra..
Inserito da: Arlecchino - Agosto 03, 2017, 05:34:03 pm
Boccia: “Il patriottismo economico fa male alla salute dell’Ue”
Il presidente di Confindustria: la competizione deve essere tra Europa e resto del mondo. Sì a un patto tra associazioni di imprese di Italia, Francia e Germania
Fincantieri ha chiuso i primi sei mesi del 2017 con un risultato positivo per 11 milioni, in aumento di 6 milioni rispetto al risultato del primo semestre 2016 in Borsa

Pubblicato il 31/07/2017

FABIO MARTINI
ROMA

Anche se le imprese dei grandi Paesi europei - spesso e fisiologicamente - entrano in conflitto tra loro, le organizzazioni imprenditoriali di Italia, Germania e Francia stanno provando ad imbastire una linea comune, sulla quale in particolare sta investendo il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia: «La regola che invocano i francesi nei confronti dell’Italia sulla questione-Fincantieri in realtà andrebbe utilizzata dall’Europa nei confronti del mondo esterno. Perché dobbiamo convincerci che la competizione non è tra i Paesi dell’Unione ma tra questi e il resto del mondo. Se la competizione è questa, allora possiamo combattere ad armi pari: costruendo campioni europei». 

 
Su questo siete d’accordo con le organizzazioni “sorelle” degli altri partner europei? Dopo aver intensificato i rapporti con Confindustria tedesca e con quella francese si può immaginare una pressione sui governi per evitare conflittualità dannose o addirittura una iniziativa comune? 
«Stiamo lavorando in questa direzione. Abbiamo condiviso con la Bdi tedesca la centralità della questione industriale in Europa, l’importanza della quarta rivoluzione industriale, la necessità di affrontare la questione bancaria partendo dalla garanzia comune dei depositi bancari. E con il presidente della Medef francese, che abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Parigi, stiamo sulla stessa linea di pensiero. A partire dai principali Paesi manifatturieri – Germania, Italia, Francia –, cui si aggiungeranno presto anche altri. Stiamo ponendo la questione industriale a livello europeo: un’Europa industriale con una visione economica comune. Per il 29 agosto i francesi di Medef hanno invitato le Confindustrie italiana e tedesca ad un loro importante convegno». 
 
L’improvvisa tensione tra i governi di Italia e Francia non va in una direzione diversa? 
«Non va nella direzione dell’Europa che immaginiamo. La competizione non è tra i Paesi dell’Unione ma tra tutta l’Unione e il resto del mondo. Tra l’altro, l’operazione Fincantieri va nella direzione dell’impresa europea che dobbiamo imparare a costruire anche per i benefici effetti strategici che comporta».
 
In Francia ha ripreso vigore il “patriottismo economico” anche perché ora c’è un governo forte e da noi meno? 
«Non sapremmo dire se la decisione di nazionalizzare Stx sia frutto di un governo forte. Ci sembra, piuttosto, di un esecutivo in cerca di consenso. La decisione assunta in precedenza con Fincantieri era quella giusta. Un governo davvero forte non la cambia per compiacere gli umori interni del Paese. Vorremmo che Macron dimostrasse anche in questo caso l’europeismo che ha messo nel programma che gli ha fatto vincere così bene le elezioni determinando un effetto positivo nell’intera Unione».
 
L’ iniziativa, ancora embrionale, delle associazioni imprenditoriali è sospinta anche da una serpeggiante tentazione al protezionismo e al ritorno alla presenza dello Stato dell’economia anche in Paesi di cultura liberista? 
«Dobbiamo assolutamente evitare che per ragioni di opportunità interna e mancanza di visione si vada verso pratiche di protezionismo perché al protezionismo degli uni si aggiungerebbe quello degli altri, con conseguenze assai negative sulle economie di tutti. Proprio in occasione del B7, che riunisce i principali Paesi industriali del mondo, tutte le Confindustrie partecipanti, compresa quella degli Stati Uniti, si sono espresse a favore del libero scambio e contro i protezionismi. Uno dei padri dell’Europa, il francese Jean Monnet, diceva: “I miei obiettivi sono politici, le mie spiegazioni sono economiche”. Se l’obiettivo politico è realizzare una grande stagione riformista europea a partire dall’economia non si può agire come la Francia vorrebbe con i cantieri Stx».
 
Nel comunicato del recente G7, su iniziativa americana e francese, si è fatto riferimento ad un mercato “giusto”, oltreché “libero”, che è la definizione tradizionale. Gli Stati si riprendono spazi in settori strategici? 
«Siamo convinti che il mercato debba essere aperto e libero, quindi siamo contro ogni forma di protezionismo, ma anche corretto, nel senso che bisogna combattere ogni forma di concorrenza sleale».
 
G li altri fanno i loro interessi, ma da noi i progressi dell’economia reale le pare che preannuncino una svolta? 
«In Italia non sappiamo raccontarci. Abbiamo approvato la migliore riforma delle pensioni, il Jobs Act, l’impianto di Industria 4.0 mentre altri Paesi, come la stessa Francia, sono indietro con le riforme. È vero, abbiamo molti problemi da fronteggiare, ma l’aumento dell’export, degli investimenti e finanche dell’occupazione sono fatti dei quali dover tener conto. Con l’alibi della politica debole perdiamo di vista i nostri punti di forza ed esaltiamo soltanto i punti di debolezza. I comportamenti dei ceti dirigenti del paese si riflettono sui nostri giornali e dobbiamo comprendere che all’estero ci leggono e ci conoscono anche per come ci rappresentiamo noi stessi. Se corriamo un rischio serio è smantellare le riforme prim’ancora che abbiano raggiunto gli effetti previsti. Ma perché questo non accada occorre vigilare».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/31/economia/il-patriottismo-economico-fa-male-alla-salute-dellue-abrViOAQpLKUUwgZII0xMI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Gentiloni sposa la linea Minniti: “Non si accoglie senza legalità
Inserito da: Arlecchino - Agosto 27, 2017, 09:03:01 pm
Gentiloni sposa la linea Minniti: “Non si accoglie senza legalità”
Il premier era stato informato dal Viminale del piano sugli sgomberi.
Pd in fermento.
Orfini: «Blitz inadeguato, non è un caso di ordine pubblico»
Pubblicato il 26/08/2017 - Ultima modifica il 26/08/2017 alle ore 11:15

FABIO MARTINI
ROMA

Nelle ultime settimane il profilo del governo sta cambiando. Il principio della legalità - dalle Ong agli sgomberi degli abusivi a Roma - sta corroborando l’immagine di “forza tranquilla” espressa sinora dalla figura del presidente del Consiglio: Paolo Gentiloni sta assecondando questa correzione e il silenzio-assenso sugli scontri di piazza a Roma lo conferma. Nessuna dichiarazione pubblica su una vicenda che, alla resa dei conti si è conclusa con qualche contuso e molte polemiche, ma l’appoggio alla linea Minniti da parte di Paolo Gentiloni (espressa personalmente al ministro), si riassume in due sostantivi: «L’accoglienza non può essere disgiunta dalla legalità». 

In altre parole soltanto governando i flussi si può garantire un’accoglienza umana per i migranti. Sia alle frontiere che nelle città, dove va salvaguardato il principio della legalità. Per Gentiloni questa deve essere - e deve restare - la linea di una sinistra di governo e infatti in queste ore il presidente del Consiglio insiste su una espressione che riassume “l’ideologia” del governo nei prossimi mesi: «Serve una conclusione ordinata della legislatura» su tutti i dossier, dalla politica per i migranti alla legge di Stabilità. 
 
A Palazzo Chigi nei giorni scorsi sono stati informati sulla decisione delle forze di polizia di intervenire e nessuna obiezione è stata opposta alla attuazione della direttiva del Viminale che prevede il progressivo svuotamento di tutte le occupazioni abusive. Naturalmente la gestione concreta degli interventi spetta a prefetto, questore e forze sul campo e su questo aspetto eventuali obiezioni e critiche non cambiano - nell’ottica del governo - l’opportunità dell’intervento. Dunque, il silenzio di queste ore del presidente del Consiglio è da intendersi come un silenzio-assenso alla linea della legalità interpretata dal ministro dell’Interno. 
 
Una linea che, dal punto di vista comunicativo, si traduce in un approccio sobrio, riassunto nel concetto: “parlino i fatti”. Un approccio molto evidente sulla vicenda degli sbarchi. Da metà luglio, come è noto, gli arrivi di migranti si sono drasticamente ridotti, con un calo del 72 per cento nel mese di agosto, ma Gentiloni e Minniti - con una differenza abissale rispetto al precedente governo - hanno omesso di sottolineare un dato così eclatante. Un omissis naturalmente a tempo, nella speranza che il dato si consolidi e diventi in modo inoppugnabile la conseguenza oggettiva delle scelte del governo. Una sordina che presidente del Consiglio e ministro dell’Interno hanno deciso di concerto.
 
Una “coppia”, quella Gentiloni-Minniti, che comincia a fare ombra alle altre “filiere” del Pd, quelle che si preparano a contendersi la gestione della campagna elettorale. Sotto questo punto di vista si può leggere la sortita fortemente critica da parte del presidente del Pd Matteo Orfini: «Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico». E ancora: «A essere inadeguata è stata anche la gestione da parte delle forze dell’ordine. Non si esegue uno sgombero con quelle modalità e non lo si fa senza una adeguata soluzione alternativa. Soprattutto, non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti».
 
Una posizione fortemente critica con la quale Orfini, da una parte si candida a “leader” della sinistra Pd, in coppia col ministro Maurizio Martina e dall’altra “prenota” un posto al sole nella battaglia interna, che si preannuncia durissima, per la conquista di uno spazio politico in campagna elettorale al fianco del leader Matteo Renzi. In vista di quell’appuntamento le varie aree - Orfini-Martina, Franceschini, Delrio - contenderanno lo spazio di visibilità al tandem che finora ha mostrato qualità politica e crescente consenso tra l’opinione pubblica: la coppia Gentiloni-Minniti.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/26/italia/politica/gentiloni-sposa-la-linea-minniti-non-si-accoglie-senza-legalit-OwbALsmwuTIKiggyaF5m9M/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Web tax e trattato di Dublino. Alla cena in libertà all’Eliseo...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 01, 2017, 05:48:26 pm
Web tax e trattato di Dublino. Alla cena in libertà all’Eliseo nasce l’avanguardia europea
Dopo il summit sui migranti, l’intesa fra i leader su alcuni temi cruciali dell’agenda comunitaria
Pubblicato il 30/08/2017

FABIO MARTINI
ROMA

Si era fatta sera, ma nel salone poco climatizzato dell’Eliseo, continuava a fare un caldo bestiale. A quel punto i cerimonieri della Presidenza della Repubblica hanno proposto ad Emmanuel Macron un cambio di programma per la cena: prepariamo fuori? Dopo il via libera presidenziale, i quattro capi di governo europei – il padrone di casa, la cancelliera Angela Merkel, Paolo Gentiloni e Mariano Rajoy – reduci dal vertice sui migranti con tre capi di governo africani, si sono accomodati nei giardini dell’Eliseo e si sono messi in «libertà». In tutti i sensi. Nell’abbigliamento (via le giacche), ma soprattutto con la mente: libera dagli schemi di un vertice formale. 
 
E dopo due ore di chiacchierate senza rete, lunedì sera, è affiorata un’ipotesi di lavoro, qualcosa in più di una suggestione: in vista del Consiglio europeo straordinario di Tallinn sul digitale fissato per il 28 settembre perché non mettere assieme le idee - e probabilmente anche un documento comune - sulla web tax? E perché non provare a sperimentare lo stesso metodo sulla controversissima, futuribile ma necessaria revisione del Trattato di Dublino sui migranti?
 
Sul far della notte i quattro leader hanno ripreso la via di casa, lasciando all’Eliseo l’embrione di qualcosa che non è un formale Direttorio a quattro, ma che potrebbe diventare un’avanguardia. Un’avanguardia che allunga il passo. 
 
Un (possibile) motore per l’Europa, un motore formato dai Paesi che preferiscono procedere ad una velocità più sostenuta. Un gruppo di testa - ecco il punto - pronto ad intensificare le cooperazione rafforzate e cioè la possibilità di realizzare una più forte collaborazione tra alcuni Stati su alcune materie, anche strategiche. Come la Difesa comune. 
 
Nel giro di cinque mesi è la seconda volta che i leader dei quattro Paesi si incontrano - la prima era stata a Parigi a marzo - e l’altra notte hanno deciso di rivedersi ancora con lo stesso formato: a Madrid a novembre. E d’altra parte la doppia velocità non è una novità, come dimostrano l’eurozona o il Trattato di Schengen, anche se si tratta di due cooperazioni rafforzate in senso lato. Naturalmente l’altra notte all’Eliseo non è stata assunta una decisione formale dei quattro Paesi e non si è neppure immaginata un’«ora X» dalla quale partire. Ma sin dalle prossime settimane gli sherpa sperimenteranno le possibili convergenze sulle questioni dove è possibile enucleare un’intesa. A cominciare dal digitale e dalla web tax.
 
Un metodo di lavoro che piace al presidente del Consiglio. Certo, il formato a quattro - Germania, Francia, Italia e Spagna - è stato caldeggiato in particolare da Angela Merkel che in questi anni ha costantemente appoggiato Rajoy, suo sodale nel Ppe. Ma la spinta a formare un gruppo di testa più largo nasce da Matteo Renzi, col suo vertice di un anno fa a Ventotene (in quel caso a tre) e d’altra parte l’ambizione di avere un posto al sole negli ultimi sei anni l’Italia se l’è guadagnato sul campo: con i «compiti a casa», con le riforme (pensioni e Jobs act), con un piano come il Migration compact, con il «pacchetto Minniti» sui migranti. E quanto a Paolo Gentiloni, quando ha ereditato la celebrazione del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma nel marzo scorso, tutta l’energia diplomatica è stata spesa per inserire nel comunicato finale proprio un riferimento all’«attualità» delle cooperazioni rafforzate.
 
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Titolo: FABIO MARTINI. Stx, a Fincantieri il controllo ai francesi il diritto di veto
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 01, 2017, 11:03:15 am
Stx, a Fincantieri il controllo ai francesi il diritto di veto
Con l’accordo gli italiani avranno il 50% più un voto, oltre alla guida operativa della società A Parigi il potere di blocco attraverso l’Ape. Oggi al vertice di Lione anche il nodo Tim
Pubblicato il 27/09/2017 - Ultima modifica il 27/09/2017 alle ore 16:18

FABIO MARTINI
INVIATO A LIONE

Scherzosamente (ma riservatamente) la chiamano “clausola salva-facce”. È l’escamotage che francesi e italiani hanno studiato per garantire una governance a Stx che consenta a entrambe le parti di cantar vittoria, soprattutto dopo aver mostrato i muscoli, gli uni e gli altri nelle settimane scorse. Escamotage complicato, che richiede ricami lessicali, ingegnerie azionarie, anche se la cosa che servirebbe di più a questo punto sarebbe garantire operatività e nuovi imput alla società contesa.

 Ma la politica ha la sua liturgia, compresa la massima riservatezza sui dettagli dell’intesa, che verrà resa nota oggi nel vertice Francia-Italia, anche se l’ultima indiscrezione segnala una novità rispetto a quanto trapelato sinora. Agli italiani andrebbe il 50 più uno nella plancia di comando e ai francesi il diritto di veto su diverse questioni strategiche, compreso gli assetti occupazionali. In altre parole la guida operativa sarebbe italiana, ma ai francesi spetterebbe un potere di blocco che sarebbe esercitato dall’Ape, l’Agence des partecipations de l’Etat. 
 
Non è detto che finisca così – anche ieri sera non si trovavano conferme ufficiali a questa soluzione – ma finalmente oggi nella Prefettura di Lione il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni scopriranno le carte al termine del vertice bilaterale, al quale parteciperanno diversi ministri.
 
Il vertice infatti è stato preceduto da trattative serrate su diverse questioni, visto che il “contenzioso” tra i due Paesi annovera diverse nodi da sciogliere. Oltre alla questione Stx, ci sono diversi dossier strategici in ballo. La questione Telecom-Vivendi, quella della Tav Torino-Lione, ma anche diversi altri capitoli. E proprio sulla vicenda Tim ieri si è consumato un passaggio importante: il governo era atteso a una decisione su una questione delicatissima: se esistano le condizioni per esercitare il golden power su quella parte della rete Telecom che riguarda le informazioni più sensibili. Da quel che trapela da palazzo Chigi l’opinione dell’apposito gruppo di coordinamento e soprattutto dei massimi esperti interpellati in via informale è quasi univoca: il governo può porre il veto. E se così fosse il governo potrebbe chiedere a Telecom di cedere almeno Sparkle.
 
Ma è stato il presidente del Consiglio a suggerire uno slittamento del parere: se fosse stato espresso ieri, avrebbe rappresentato uno spettacolare pugno nello stomaco per i francesi proprio in contemporanea col vertice di Lione. Per questo la decisione è stata posticipata. Ma quasi certamente l’orientamento sul sì verrà confermato. In questo modo confermando l’approccio pragmatico che il presidente del Consiglio ha voluto imprimere ai due dossier: niente dichiarazioni di guerra, profilo basso ma massima attenzione ai risultati: una gestione paritaria della vicenda Stx, che un mese fa sembrava molto difficile e una rivendicazione del diritto di veto su una rete che investe interessi sensibili per l’Italia.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/27/economia/stx-a-fincantieri-il-controllo-ai-francesi-il-diritto-di-veto-uwsGUP1Dp86677NvzEWWmN/pagina.html


Titolo: e"FABIO MARTINI. La nuova alleanza Roma-Parigi. Sarà il “Trattato del Quirinale"
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2017, 11:19:53 am
La nuova alleanza Roma-Parigi. Sarà il “Trattato del Quirinale”
La proposta di Macron: “Un patto come con Bonn nel 1963”.
Gentiloni soddisfatto: “Il rilancio dell’Europa riparte oggi da qui”

Pubblicato il 28/09/2017 - Ultima modifica il 28/09/2017 alle ore 07:12

FABIO MARTINI
INVIATO A LIONE

La pomposa Prefettura di Lione non è attrezzata per le cerimonie di Stato, Emmanuel Macron e Paolo Gentiloni passano in rassegna il picchetto camminando tra la ghiaia, ma il polveroso preliminare non inficia quel che accadrà nelle due ore successive: nel loro trentaquattresimo vertice Francia-Italia puntellano e consolidano un’amicizia a parole sempre fraterna, ma che era stata opacizzata in poche settimane dalle virate nazionalistiche di Macron su «migranti economici» e Libia e anche dalla repentina nazionalizzazione di Stx. I due presidenti, parlando in conferenza stampa, hanno molto valorizzato i due grandi dossier sbloccati – Stx e Lione-Torino – ma entrambi avevano concordato tra di loro un messaggio comune: declamare una forte spinta europeista a pochi giorni dal voto tedesco, che invece rischia di trasformarsi in un prolungato “ralenti”, persino in una gelata storica. 

E infatti Emmanuel Macron, riprendendo l’essenza del discorso “alto” pronunciato due giorni fa alla Sorbona, ha rilanciato un termine, con l’intenzione di “battezzarlo” e di farlo diventare proverbiale: «La rifondazione dell’Europa», sarà da edificare con la spinta di «un gruppo di Paesi amici» e questo processo che oggi appare in forse, per il presidente francese può essere innescato da «due Paesi ambiziosi come i nostri». A questo punto Paolo Gentiloni, con l’humour che ogni tanto gli affiora sulle labbra, ha aggiunto: «In Italia rifondazione ha un significato particolare…», alludendo (per chi poteva capire) al partito della Rifondazione comunista, per anni decisivo nella caduta dei governi progressisti. Ma poi il presidente del Consiglio ha abbracciato la spinta di Macron: «Ora è il momento dell’ambizione perché non avremo molte altre occasioni per questa rifondazione e ora invece le abbiamo: qualche vuoto geopolitico, Brexit, la sconfitta delle forze populiste in alcuni Paesi, una domanda di Europa che aumenta, una crescita di tutta l’eurozona». 
 
E a quel punto della chiacchierata pubblica tra i due Macron ha calato una proposta che sul momento è parsa estemporanea ma potrebbe non esserlo: ipotizzare tra Francia e Italia, un trattato strategico sull’esempio di quello fondamentale tra Parigi e Bonn, che venne sottoscritto nel 1963 all’Eliseo. Ha detto testualmente Macron: «Si può immaginare un Trattato del Quirinale, come quello dell’Eliseo!». Un patto a due che – laddove si concretizzi – potrebbe trasformarsi in qualcosa di molto più forte di una cooperazione rafforzata. E, a chiudere un duetto apparentemente casuale, Gentiloni ha chiosato: «Il rilancio europeo si fonda sulla forza dei rapporti bilaterali». A Roma prendono atto con soddisfazione della proposta, che tuttavia dovrà essere riempita di contenuti. E le prossime settimane, spiegano nel governo, serviranno a valutare quanto sia concreta e destinata ad avere seguito. 
 
Certo, la vigorosa spinta europeista espressa, anzi esibita, dai due Presidenti è un modo per esorcizzare la gelata tedesca, ma la comunione di intenti espressa in modo così stentoreo, fa dire a Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei e grande amico di Macron: «Sì, senza enfasi possiamo dirlo: la spinta europea riparte da Lione». Certo, un Macron bifronte: alato europeista e liberista nei discorsi “accademici”, protezionista e nazionalista nei fatti. Ma è anche un Macron che – in attesa degli orientamenti del nuovo governo tedesco – prova a diventare il motore della possibile “nuova” Europa. E i due Presidenti provano a valorizzare il lavoro comune già svolto: in particolare l’intesa – molto di intenti ma pionieristica – che è stata impostata nel summit di fine agosto a Parigi con alcuni Paesi africani, più Francia, Italia, Germania e Spagna. E infatti Paolo Gentiloni ha più volte accennato a quanto importante sarebbe sviluppare quelle intese che comunque già oggi «dimostrano la capacità dell’Europa di essere forza di stabilizzazione e di pace». Parole ascoltate, oltreché da Macron, dai dieci ministri dei due Paesi, confluiti a Lione e tra questi Marco Minniti, artefice primo della “svolta africana” dell’Italia. 
 
Tra i due presidenti, Macron e Gentiloni, sembra essersi cementato un feeling. In particolare Macron ha pubblicamente ammesso di aver “copiato” da Matteo Renzi il bonus per i diciottenni e Gentiloni se ne è detto «orgoglioso».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/09/28/economia/la-nuova-alleanza-romaparigi-sar-il-trattato-del-quirinale-O0rchcLJdJUfje1l0uc1ZK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Tutti contro Padoan per abbassare l’età della pensione ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 18, 2017, 07:02:13 pm

Tutti contro Padoan per abbassare l’età della pensione
No di Pd e Forza Italia al tetto di 67 anni voluto dal ministro
Isolato: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è impegnato in Europa per far scattare l’età pensionabile a 67 anni a partire dal 2019. Ma Pd, Lega e Forza Italia sono contrari a questa misura

Pubblicato il 18/10/2017 - Ultima modifica il 18/10/2017 alle ore 07:31

Fabio Martini
Roma

Alla fine Pier Carlo Padoan ha dovuto mettere la questione di «fiducia». Sull’età pensionabile a 67 anni, lunedì pomeriggio si è svolta in Consiglio dei ministri una discussione non trapelata all’esterno ma nel corso della quale due ministri e il presidente del Consiglio ci hanno messo, come si suol dire, la faccia. È stato Giuliano Poletti, ministro del Welfare, a proporre una revisione dell’automatismo che, a partire dal 2019 farà scattare il tetto dell’età pensionabile a 67 anni, ad un livello cioè che collocherebbe l’Italia “all’ avanguardia” in Europa. Il presidente del Consiglio ha detto la sua, tenendo sul non-intervento, ma lasciando uno spiraglio ad eventuali correzioni, ma a tagliare (momentaneamente) la questione, ha provveduto il ministro dell’Economia Padoan, che davanti ai colleghi ha spiegato senza sfumature che l’Italia si è impegnata su questo piano con Bruxelles, che lui personalmente si è esposto, che un passo indietro non sarebbe tollerabile. 

Eppure - ecco la novità - nei prossimi giorni potrebbe maturare un’iniziativa a livello parlamentare, incardinata sull’intesa tra due proverbiali duellanti - Cesare Damiano del Pd, già ministro dell’ultimo governo Prodi e Maurizio Sacconi, anche lui ex ministro ma dell’ultimo governo Berlusconi. Quanto alla Lega, Matteo Salvini, si è espresso con parole lapidarie: «Pensione a 67 anni? Una follia». Un’iniziativa «bipartisan» potrebbe rapidamente concretizzarsi, oltretutto sostenuta in modo compatto dai tre sindacati confederali che ieri sera hanno spedito un telegramma al presidente del Consiglio per chiedere un incontro urgente sulla legge di Bilancio, incontro che avrà come richiesta qualificante la modifica del tetto dell’età pensionabile.
 
E così, se Matteo Renzi darà via libera, si potrebbe concretizzare una norma che vada ad intaccare l’automatismo introdotto dalla legge Fornero, che a suo tempo previde per tutti i lavoratori un rapporto diretto tra adeguamento dell’età pensionabile e speranza di vita. Se sale l’aspettativa per tutti gli italiani, proporzionalmente sale anche l’età delle pensione. La revisione di questo parametro va fatta ogni tre anni sulla base dei dati Istat e il prossimo step è atteso per il 2019. La decisione deve essere formalizzata però entro fine novembre con un decreto direttoriale, un atto del ministero del Lavoro che non deve essere approvato dal Parlamento. 

Ma un rinvio è possibile, a condizione che lo preveda o una leggina o emendamento parlamentare, non “gratuito” alla legge di Bilancio. La via più percorribile è una norma-ponte che consenta di rinviare ogni decisione alla prossima primavera, quando dovrebbe essere in carica il primo governo della futura legislatura. Ma un’altra strada l’hanno indicata a suo tempo Damiano e Sacconi ed è una linea che è sostenuta anche dalla leader della Cisl Annamaria Furlan: «Non chiediamo la cancellazione dell’aspettativa di vita ma di rivederne il meccanismo a partire da quei lavoratori che hanno svolto mestieri più gravosi e per il quali l’aspettativa di vita è un po’ più bassa rispetto a quanto previsto dalle statistiche. Oltretutto Il meccanismo è tale che se l’aspettativa di vita sale, sale l’età pensionabile, ma se l’aspettativa scende, non diminuisce l’età pensionabile». Se l’iniziativa parlamentare dovesse concretizzarsi, al momento la linea di palazzo Chigi al momento è netta: in aula il governo esprimerà parere contrario. Perché l’innalzamento, come ha detto ieri sera Padoan, «è un obbligo di legge».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/18/economia/tutti-contro-padoan-per-abbassare-let-della-pensione-OhOvXn2vtQw1ca9IggXwTO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La scelta di Pisapia: una Lista Progressista autonoma, né con...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:14:24 pm
La scelta di Pisapia: una Lista Progressista autonoma, né con Renzi né con D’Alema
La Convention del Movimento fondato dall’ex sindaco si prepara a dare il via libera ad una offerta elettorale assieme ai Radicali di Emma Bonino e ad un arcipelago di forze civiche
Pubblicato il 11/11/2017 - Ultima modifica il 11/11/2017 alle ore 08:31

FABIO MARTINI
Con l’approssimarsi dello scioglimento delle Camere, si definisce sempre meglio l’offerta elettorale e si accelera la definizione di nuove Liste. 

Dopo la svolta nello schieramento di estrema sinistra, con la decisione di unire sotto la guida di Pietro Grasso tre spezzoni (Mdp, Sinistra italiana, Montanari&Falcone), domani a Roma anche il Campo progressista di Giuliano Pisapia definirà quel che è stato deciso oramai da una decina di giorni: la disponibilità a formare una Lista progressista, per dirla con le parole dell’ex sindaco di Milano, <autonoma sia dal Pd che dall’Mdp>. Destinati a confluire in questa Lista i Radicali italiani di Emma Bonino, i Verdi, personalità del mondo prodiano come Giulio Santagata, probabilmente il Psi di Riccardo Nencini, alcuni sindaci, una parte dell’associazionismo “civico”.
 
Una volta consolidata la scelta, che era presa da tempo a dispetto delle ricostruzioni giornalistiche che ipotizzavano un Pisapia “attratto” da Grasso, in quest’area resta da definire un punto: la nuova Lista autonoma dagli altri soggetti, dovrà spingersi fino a rifiutare alleanze tecniche col Pd nei collegi? Su questo punto le posizioni dei vari soggetti della Lista in formazione restano diverse: nessuno si fida di Renzi, ma la possibilità di offrire agli elettori delusi dal Pd un voto “utile” nei collegi, resta un’opzione non scartata.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/11/italia/politica/la-scelta-di-pisapia-una-lista-progressista-autonoma-n-con-renzi-n-con-dalema-Z0xkA1BJDIGHn4flnttVhN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Lista Pisapia-Bonino, prove generali in casa socialista nel nome
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:17:59 pm
Lista Pisapia-Bonino, prove generali in casa socialista nel nome dei “meriti e dei bisogni”
Psi, Radicali e l’ex sindaco di Milano, possibili animatori di una Lista alternativa al Pd alle prossime elezioni politiche, si ritrovano 35 anni dopo la Conferenza di Rimini del partito socialista, che fu un evento innovativo nella fase finale della Prima Repubblica

Pubblicato il 10/11/2017 - Ultima modifica il 10/11/2017 alle ore 16:14

FABIO MARTINI
ROMA
Nel moltiplicarsi di iniziative, contatti più o meno riservati per realizzare liste elettorali in occasione delle prossime elezioni politiche, si muove anche il Psi di Riccardo Nencini: in un convegno a Milano che rievoca uno dei momenti più felici del “nuovo corso” socialista negli anni Ottanta, prenderanno la parola anche Giuliano Pisapia e il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi, che assieme ai socialisti, a personalità del mondo prodiano, ai Verdi, potrebbero diventare presto i protagonisti di una Lista progressista limitrofa al Pd, ma al tempo stesso concorrente del partito di Renzi.
 
Il convegno celebra il trentacinquennale anniversario di uno degli eventi più felici di quel che fu il “nuovo corso” socialista e craxiano, tra il 1976 e il 1993: la Conferenza di Rimini del Psi. Passata alla storia come quella del “merito e del bisogno”, titolo della relazione introduttiva di Claudio Martelli, allora vicesegretario del Psi. Nella sua specificità di conferenza programmatica si trattò di un evento da allora mai più superato in termini qualitativi. 
 
Oltre alla relazione di Martelli, centrata sulla possibile alleanza tra soggetti sociali diversi (i “bisognosi” e i protagonisti del “merito”) e salutata da cinque minuti di ovazioni (ma Bettino Craxi restò seduto), vide la partecipazione di numerosi e non inquadrati intellettuali, come Luciano Gallino, Massimo Severo Giannini, Umberto Veronesi, Federico Stame, Francesco Alberoni, Stefano Silvestri, Aldo Visalberghi, Valerio Castronovo, Gianni Statera, Federico Mancini, Francesco Forte e altri più organici al Psi come Franco Reviglio, Giuliano Amato, Giorgio Ruffolo. Certo, la profetica relazione di Martelli non trovò traduzioni politiche immediate, ma nulla del genere si sarebbe ripetuto anche in altri partiti, né allora né in anni più recenti, come ha confermato, in termini di partecipazione intellettuale, anche la Conferenza programmatica del Pd di Portici.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/11/10/italia/politica/lista-pisapiabonino-prove-generali-in-casa-socialista-nel-nome-dei-meriti-e-dei-bisogni-UjChuKBRAAmbSFWOnyuFGK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il premier si smarca da Renzi e sottolinea tutte le differenze
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 29, 2017, 11:35:49 pm
Il premier si smarca da Renzi e sottolinea tutte le differenze

Una metamorfosi che era in corso da giorni. Alla fine il primo ministro riabilita anche il lavoro di Letta

Pubblicato il 29/12/2017
FABIO MARTINI
ROMA

L’ultimo giorno, proprio l’ultimo, Paolo Gentiloni si è sbloccato. Sciorinando inaspettatamente una raffica di battute “fuori linea”, il presidente del Consiglio ha lanciato un messaggio, un messaggio inatteso: io resto leale con Matteo Renzi, ma su diverse questioni importanti non la penso come lui. Un messaggio politico che, durante la lunga conferenza stampa di fine anno non si è mai concretizzato in una battuta direttamente ostile all’ex premier, ma si è dispiegato in diverse punzecchiature in codice. Scandite con uno stile brillante, auto-ironico, più rilassato del solito. 

Come la battuta sullo scioglimento anticipato delle Camere. Nei giorni scorsi Matteo Renzi aveva detto che per il Pd sarebbe stato meglio se la legislatura si fosse conclusa a giugno e Gentiloni, senza fare riferimento all’esternazione renziana, ha testualmente detto: «Sarebbe stato grave e devastante arrivare a interruzioni traumatiche della legislatura». Proprio così ha detto: devastante. Una specie di urlo nel placido lessico gentiloniano. Parlando invece della Commissione Banche, fortemente voluta da Renzi, il presidente del Consiglio ha fatto ricorso al suo proverbiale humour: «Vi devo dire che con sollievo ho registrato la fine delle audizioni...».

Nei centotrentacinque minuti della conferenza stampa di fine anno è dunque proseguita una metamorfosi del personaggio Gentiloni che era in corso da diverse settimane. Certo, lo stile dell’uomo resta quello di sempre e difatti durante l’incontro con i giornalisti il presidente del Consiglio ha dispiegato il consueto garbo, è stato attentissimo a non attaccar briga. Mostrandosi anti-retorico e minimalista: «Siamo fra i quattro o cinque giganti mondiali dell’export. A volte, come si dice a Roma, `nun ce se crede´, però è così; dovremmo tutti esserne più consapevoli». Come dire: con questo boom il governo c’entra poco e niente.

Uno stile da anti-eroe che ad un certo punto si è concretizzato in una battuta che di solito nessun presidente del Consiglio ha il coraggio di pronunciare: «La politica deve avere un certo ritegno nel considerare la ripresa economica del Paese come frutto di questa o quella iniziativa. L’Italia si è rimessa in piedi grazie soprattutto all’impegno degli italiani».

Ma in questa orgia di understatement, proprio nell’ultimo giorno della legislatura, Paolo Gentiloni ha liberato una striscia di battute che marcano la differenza tra lui e Matteo Renzi. Oltre a quelle sulla Commissione Banche e sulla gestione del caso-Visco da parte del Pd, durante la conferenza stampa Gentiloni ha dato la sua lettura sulla scissione dal Pd: «Credo ci sia stato un processo di deterioramento dei rapporti e per quanto si dica che in politica contano solo i programmi e le idee, contano molto anche i rapporti tra le persone». Una lettura che equipara i protagonisti delle due barricate e li “inchioda” a motivazioni prevalentemente personali. 
 

E sul futuro? Al riguardo il presidente del Consiglio ha pronunciato una delle sue espressioni anodine, che infatti non ha fatto titolo, ma che in bocca ad un uomo “parsimonioso” come lui, è parsa osè: «Per il momento c’è un premier c’è, che sono io!». Oltretutto il presidente del Consiglio non ha aggiunto la frasetta che al Pd qualcuno poteva aspettarsi: oggi ci sono ma nel futuro torno in “riserva”.

Eppure, la battuta più “discontinua” di tutte, Gentiloni l’ha dedicata ad Enrico Letta: «La legislatura ha dimostrato che in Italia c’è una sinistra di governo a servizio del Paese e questo si è visto nel governo Letta, in quello Renzi e in quello che io ho presieduto». Nel suo racconto, Renzi aveva puntualmente cancellato il governo Letta, quasi che la “rinascita” dell’Italia avesse avuto inizio con l’ascesa a palazzo Chigi dell’ex sindaco di Firenze. Quella di Gentiloni è una prima “riabilitazione”.

Eppure, anche se il presidente del Consiglio non può dirlo, sa bene che il suo futuro dipenderà dalle fortune elettorali del Pd. Ecco perché Gentiloni si è più volte speso per caldeggiare un successo elettorale della «sinistra di governo». Lo sa pure Renzi che ieri sera ha fatto sapere di aver apprezzato le parole di Gentiloni e la sua «forza tranquilla», di non considerarlo un rivale e chiedendogli di esporsi in tv in campagna elettorale. Un impegno che il premier prenderà con le molle.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/29/italia/politica/il-premier-si-smarca-da-renzi-e-sottolinea-tutte-le-differenze-VWzkRNrRvMzFHsQ2sGpMPP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. D’Alema inizia in Puglia il tour elettorale: “Legislatura ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 29, 2017, 11:38:54 pm
D’Alema inizia in Puglia il tour elettorale: “Legislatura costituente”
Prima tappa nel suo Salento, dove partì anche Prodi: «Non credete a Renzi, il nostro vero leader è Grasso»

Diverse le tappe fatte da D’Alema nella sua giornata in Puglia: Nardò, poi Ruffano, Patù, Tricase e infine Marina di San Gregorio.
Prima di una cena con gli elettori, la visita in una fabbrica di scarpe

Pubblicato il 28/12/2017

FABIO MARTINI
ROMA

C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico negli umori dell’opinione pubblica alla vigilia della campagna elettorale e se ne sta accorgendo Massimo D’Alema ogni volta che pronuncia questa battuta: «Vedete, io me ne sono andato per fare largo alle nuove leve, ma visti i risultati ho fatto male…». Puntualmente scatta l’applauso. Un battimani non solo politico: accanto ad un diffuso rancore, in giro sta cominciando ad affiorare anche una certa nostalgia per quelli di prima. Massimo D’Alema, tornando in campo, non immaginava di ritrovarsi in favore di vento. Per ora solo un venticello, ma vai a sapere. Ma è altrettanto vero che per D’Alema ci voleva un certo coraggio nel riproporsi una volta ancora, lui che nella vita ha fatto tutto: dal presidente del Consiglio al segretario del Pds, dal ministro degli Esteri al presidente della Bicamerale. 

E tornando, trent’anni dopo la prima volta, D’Alema ha deciso di ricominciare esattamente dove, nel 1987, tutto era cominciato: in Puglia. Eccolo a Tricase, nel tacco salentino: «Un tempo questo era un comune cattolico-democristiano: il Pci aveva due consiglieri comunali, la Dc 22…. Ricordo la prima volta che venni qui, negli anni Ottanta: mettemmo il palco fuori quella bellissima chiesa e quando i cittadini uscirono alla fine della messa, appena videro la falce e martello, scapparono. Sul sagrato della chiesa, l’unico che mi rimase ad ascoltare, era il parroco. Si chiamava don Tonino Bello. Stavolta mi ha invitato un gruppo cattolico e parlerò nel teatro parrocchiale».

Dalla bianchissima Tricase è partita la campagna elettorale del “candidato” D’Alema e proprio qui, ricorda lui, «iniziò il viaggio del pullman dell’Ulivo di Prodi» e dunque «si tratta di un luogo ad altissimo contenuto simbolico». Un mese prima della formazione delle liste, con grande anticipo su tutti gli altri, è partita la campagna dalemiana. Con un programma di appuntamenti che sembra tirato fuori dall’album dei ricordi: ore 11, Nardò, sala Cream&Caramel, incontro col mondo agricolo salentino; ore 14,30, Ruffano, Calzaturificio Mariapia, visita azienda e incontro con i lavoratori; ore 15, Patù, riunione con i volontari della campagna elettorale; ore 18,30 Teatro Tricase, apertura campagna elettorale; ore 21, Marina di San Gregorio, cena con gli elettori. 

Un porta a porta all’antica, che prelude ad un ritrarsi del D’Alema “nazionale”? Un suo auto-confinamento nel Salento, per lasciare spazio a Pietro Grasso? «Non presterò il fianco ai giochetti di Renzi, che continua a ripetere che il “vero capo” è D’Alema. Questo gioco se lo era inventato Berlusconi nel 2001, quando il candidato del centrosinistra era Rutelli. Renzi ripete stancamente, ma anche in questo è un imitatore. No, il leader è Grasso e presto si affiancheranno altre personalità importanti». Nella campagna di D’Alema sembra ben celata anche un’ambizione al momento inconfessabile: quella di riuscire a conquistare un collegio sulla carta impossibile per un piccolo partito come il suo. 

E magari di risultare l’unico, tra i Liberi ed eguali, capace di questo exploit in tutta Italia? «È molto difficile fare queste valutazioni, soprattutto con questa legge elettorale, sgangherata ed inefficace, che si presenta come uninominale maggioritaria, anche se poi gran parte degli eletti saranno votati di “risulta”. Certo, potrebbe contare il fatto che quando sono stato deputato del Salento, ho fatto tante cose per questa terra; che nel collegio di Gallipoli il centrosinistra perdeva e io vincevo. Però l’ultima volta che si è votato con i collegi era il 2001 e ora qui la squadra da battere è il centrodestra, che può mettere in campo uno squadrone».

E sul dopo-elezioni? Lo scenario proposto da D’Alema non segue la corrente di chi dà per scontata l’ingovernabilità: «Nessuno sarà in grado di disporre di una maggioranza per governare. Per questo penso che si aprirà una legislatura inevitabilmente costituente e si dovrà mettere mano ad alcune regole istituzionali e ad una legge elettorale, con un metodo – spero – meno arrogante e fallimentare di quello sinora dispiegato da Renzi». Un contesto – ecco la novità – dentro il quale Massimo D’Alema pensa che la sua lista farà la sua partita: «Si era sbagliato chi ci aveva immaginato come un gruppetto di vecchi comunisti. Noi avremo molte carte da giocare, non saremo una forza marginale». Anche se i Cinque stelle, dopo le elezioni, proponessero un governo col Pd («purché Renzi sia out», fanno sapere) e con Liberi ed eguali? «Per noi le discriminanti programmatiche e dei valori sono fondamentali e quindi molto dipenderà dagli orientamenti che preverranno nei Cinque Stelle…», dice un D’Alema che non scarta scenari. E già pregusta il ritorno in “serie A”.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/12/28/italia/politica/dalema-inizia-in-puglia-il-tour-elettorale-legislatura-costituente-BWS95Sdf10qUoQKM2TIpKO/pagina.html




Titolo: FABIO MARTINI. La parola “sinistra” scompare da tutti i simboli elettorali
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 21, 2018, 12:32:14 pm
La parola “sinistra” scompare da tutti i simboli elettorali

La salvano soltanto i trotzkisti di “Per una sinistra rivoluzionaria”.

E’ la prima volta dopo decenni che partiti dello schieramento progressista rinunciano volontariamente ad un termine storico

Pubblicato il 19/01/2018 - Ultima modifica il 19/01/2018 alle ore 08:45

FABIO MARTINI

Una volta definirsi di sinistra era un vanto, almeno per chi simpatizzava con quella parte. Ma è come se quel tempo si fosse consumato: per la prima volta dopo decenni gli italiani non troveranno (quasi) più la parola “sinistra” sulle schede elettorali del 4 marzo. 

I partiti di sinistra - di governo, di opposizione e antagonisti - hanno rimosso quell’auto-definizione. E dunque, avanti con i “democratici”, i “liberi ed eguali” e i fautori del “potere al popolo”, cancellando il termine “sinistra”. Per timore che faccia perder voti? Pensando che sia un lessico usurato? A salvare l’onore di una definizione così primordiale, toccherà ai due partiti trotzkisti, il “Partito Comunista dei Lavoratori” e “Sinistra Classe Rivoluzione” - riuniti in una lista dal nome antico: “Per una sinistra rivoluzionaria”. 

Il principale artefice del miracoloso salvataggio è un trtzkista di lunga durata come Marco Ferrando, leader del Pcdl: «La fine di una grande storia (il Pci) e di una piccola storia (Rifondazione) hanno contribuito ad ammainare una bandiera che obiettivamente soltanto noi terremo alta».

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Titolo: FABIO MARTINI. Notte tra urla e pianti in cui si è sfiorata la scissione: ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2018, 02:14:48 pm
Notte tra urla e pianti in cui si è sfiorata la scissione: nasce il PdR di Renzi

Orlando fa un sondaggio con Bonino

Pubblicato il 27/01/2018 - Ultima modifica il 27/01/2018 alle ore 09:27

FABIO MARTINI
ROMA

Tra urla e pianti, nella lunga e patetica notte consumata al Nazareno, sede del Pd, è diventato più chiaro quel che accadde 11 mesi fa, quando l’ala sinistra di Bersani e D’Alema lasciò il partito. Allora Matteo Renzi non fece nulla per impedire la scissione, perché già aveva in mente quel che ha messo in pratica nelle ultime 48 ore: la «normalizzazione» dei futuri gruppi parlamentari del Pd. I numeri hanno una loro eloquenza. Alle Primarie di maggio che lo avevano incoronato segretario, Matteo Renzi aveva ottenuto il 69,2% dei consensi popolari, ma ieri notte quando la direzione del Pd si è riunita per l’okay alle liste, quasi il 90 per cento dei posti «sicuri» appartenevano all’area del leader. Le minoranze congressuali (Orlando ed Emiliano) sono state strette all’angolo: avranno un manipolo di parlamentari, così come li avranno gli alleati più riottosi del segretario (Franceschini), ma si tratta di rappresentanze frammentate, piccole percentuali, gruppi destinati all’irrilevanza, quando arriverà l’ora delle grandi scelte. Una «libanizzazione» del dissenso interno che tornerà utile fra 40 giorni. 

Dopo le elezioni del 4 marzo incombono decisioni decisive nella vita del Pd e in quella personale di Renzi. Se il partito dovesse restare sotto il minimo storico, il 25,4% raggiunto nel 2013 da Bersani, potrebbe aprirsi un processo al leader e per Renzi disporre di una pattuglia parlamentare ad alta fedeltà rappresenta un’assicurazione sulla vita. E gruppi renziani serviranno anche davanti a scenari meno drammatici ma potenzialmente divisivi: quale governo? Quale maggioranza? Quale presidente del Consiglio? 

Pd, Orlando: “Liste sbagliate, ma combatteremo per vincere”
Naturalmente quando si fanno le liste per le elezioni più che ai massimi sistemi, i notabili di partito guardano ad interessi più prosaici. E nella giornata di ieri gli sherpa di Renzi hanno tirato la corda in modo così teso che ad un certo punto, senza che la notizia trapelasse, Andrea Orlando è stato costretto ad accarezzare un’idea clamorosa: lasciare il partito e trovare accoglienza elettorale nella lista «+Europa» di Emma Bonino. Uno degli amici del Guardasigilli ha fatto un sondaggio preliminare e non impegnativo ma poi l’ipotesi - che poteva diventare dirompente - è stata lasciata cadere. Almeno per ora.

È stata davvero una giornata di passione quella che si è consumata al piano nobile del Nazareno. L’orario di inizio dei lavori della Direzione è slittato per ben tre volte, dalle iniziali 10,30 si è via via andati sino alle 22,30: uno scivolamento di dodici ore, quasi un record. E a forza di rinvii l’«assedio» a Matteo Renzi si è fatto assillante: lo guatavano amici, nemici, alleati, semi-alleati. Qualcuno urlando («ci ha imbrogliato»), qualcuno piangendo. Un giovane democratico confida di aver visto Debora Serracchiani con gli occhi lucidi, ma chissà se era lei, chissà cosa è vero, o verosimile nel racconto di una delle giornate umanamente più intense nella storia del Pd. 

 

Lui, Matteo Renzi, ad un certo punto ha staccato il cellulare, per ore non ha risposto più agli sms, ha scritto e cancellato nomi di candidati assieme al suo amico Luca Lotti. Un assedio anche umano, come racconta lo stesso Renzi: «E’ una disperazione far fuori 150 uscenti... C’è quello che ti dice, ho il mutuo da pagare, l’altro che ti fa sapere che gli manca una legislatura per la pensione, un altro che accampa un buon motivo…». 

Damiano: “Fuori dalle liste del Pd? Non ho avuto rassicurazioni”
Certo, nella grande «mattanza» che ha accompagnato la febbrile fattura delle liste del Pd c’è stato anche un coté patetico. Ma il grande sospetto dei non-renziani è che, con la scusa del dimagrimento che doveva investire tutte le «aree» interne del Pd, il leader ne stesse approfittando per aumentare il proprio peso specifico, per dare un’accelerata a quel progetto di trasformazione del Pd in «PdR», quel «Partito di Renzi» che è la sintesi un po’ grossolana ma preferita dai detrattori del leader. I conti si potranno fare soltanto quando le liste saranno definitivamente vistate e approvate, ma ieri sera quando si è aperta la Direzione del Pd chiamata al formale via libera, i pesi interni erano ridistribuiti, con una presenza massiccia dell’area Renzi. Alle Primarie quell’area aveva conquistato il 69,2% dei consensi, contro il 20% di Andrea Orlando e il 10% di Emiliano: dei 200 posti “sicuri” (tra listini e collegi), quasi il 90% andranno a candidati vicini al segretario. In questo «correntone» di maggioranza, il 70-72% dei parlamentari sarebbero renziani doc, l’ 8-10% amici di Martina e Orfini, il 5-7% amici di Franceschini. Alle minoranze resterebbe il restante 10% . 

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Titolo: FABIO MARTINI. - GLI ITALIANI HANNO ALTRI PROBLEMI ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2018, 02:16:41 pm
A noi interessano i Progetti (contenuti esaustivi e poche chiacchiere) i personaggi che vanno e vengono interessano di meno.
Se non hanno giocato o sono stati in panchina, sono fatti loro.

Gli Italiani hanno ben altri problemi sulle spalle.

Anche di Renzi ci interessa conoscere soprattutto il suo renzismo (se esiste) e i relativi contenuti e programmi.
Il personaggio lo abbiamo seguito da qualche anno (circa tre) il CentroSinistra lo abbiamo condiviso da vent'anni.

Per noi ulivisti questo conta ci si può stancare di Renzi non del CentroSinistra (depurato da scorie obsolete).
ciaooo


Titolo: FABIO MARTINI. Gara di testimonial per lanciare Bonino. La sfida è superare il 3
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2018, 02:03:49 pm

Gara di testimonial per lanciare Bonino. La sfida è superare il 3 per cento
Da Calenda a Gentiloni. E arriva Staino: “Compagni delusi dal Pd, votate Emma”

Pubblicato il 04/02/2018 - Ultima modifica il 04/02/2018 alle ore 10:15

Fabio Martini
Roma

La speaker della “kermesse Bonino” lo annuncia come fosse uno di quegli intermezzi simpatici, di solito immaginati per scaldare le platee: «E ora una piccola sorpresa, un graditissimo fuori programma, un intervento di Sergio Staino…». Lui, uno degli ultimi simboli di una certa tradizione comunista italiana, si avvia lentamente verso il palco, poggiandosi su un bastone e sul braccio del radicale Riccardo Magi e una volta conquistato il microfono, si prende la scena, facendo due cose che nessuno si aspetta. Si produce in una raffica di battute irriverenti e penetranti su Matteo Renzi, Maria Elena Boschi ma soprattutto si rivolge agli elettori del Pd incerti se votare il partito guidato da Renzi: «Tanti mi dicono, il Pd non lo voto più… Bene, io farò di tutto perché possano votare “Più Europa”. Perché sono sicuro che più cresce “Più Europa” e più si fa bene al Pd!». E al culmine di un applaudito show, Staino ha aggiunto: «Qualcuno mi chiede: e tu perché stai ancora nel Pd? Perché se c’è uno che deve andar via, quello non sono io!».

Un discorso per iperboli eppure insidioso, quello di Staino, perché sul fronte Pd il nervo scoperto dei prossimi 26 giorni di campagna elettorale è esattamente questo: evitare che i tantissimi elettori delusi o incerti (si calcola siano circa due milioni e mezzo) possano votare liste concorrenti, anziché tornare sulla via di casa. Ecco perché proprio l’intervento del toscanaccio Staino ha finito per diventare il momento paradossalmente più significativo, in una Convention, quella che ha aperto la campagna di “Più Europa”, che pure ha fatto segnare altri momenti importanti. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro Carlo Calenda (di fatto diventato la “seconda punta” della lista Bonino) hanno tracciato un messaggio controcorrente: una parte del governo tifa per la leader radicale e perché la sua lista superi il 3 per cento. Anche se Paolo Gentiloni si è “limitato” a simpatizzare per la leader radicale: «Con Emma cammineremo insieme e possiamo vincere». 

Eppure l’intervento che, allo “Spazio Novecento” dell’Eur ha fatto la differenza, è stato quello di Staino. Incipit bruciante: «Avevo appena promesso ad Emma di venire qui, mezzora dopo mi ha telefonato il segretario Pd di Scandicci: sabato viene Renzi, mi raccomando! E io, da ipocrita, come sappiamo essere noi fiorentini, ne avete molti esempi..., gli ho risposto: come fò? Ho già un impegno... Dentro di me ho pensato: che culo!». E ancora: «Se me lo chiede Emma, sarei venuto pure a “Più Alto Adige” e il riferimento a Maria Elena è voluto! Vi sembra di buon gusto candidarsi in 5 posti blindati? È significativo del kitsch che ci affoga». Battute per D’Alema («c’è chi distribuisce mele avvelenate»), per Bersani («romanticismo patologico») e per Renzi: «Ha detto del suo programma “Cento passettini” ... Nell’Italia di Impastato e dei 100 passi, tu mi parli dei cento passettini? Ma come ti permetti?». 


Dopo il “salvatore” Bruno Tabacci (anche lui ha alluso al "voto utile”) i saluti di Anna Fendi, Stefania Sandrelli, Paolo Gentiloni e prima della chiusura della Bonino, il più applaudito è stato Carlo Calenda. Ha annunciato che sosterrà «in tutti i modi» «Più Europa» con una motivazione semplice: «La sfida è tra un’Italia seria e una cialtrona». E ha aggiunto una chiosa inusuale nella politica attuale: «Voterò nel mio collegio per Gentiloni ed Emma con entusiasmo: sono dei signori e nella vita questo conta».

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http://www.lastampa.it/2018/02/04/italia/cronache/lo-show-di-staino-compagni-delusi-dal-pd-votate-per-emma-Wxaa7bMY9q1eFrf6FDcj6J/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La strategia attendista di Renzi che oscura il ruolo di Minniti
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 09, 2018, 10:42:59 am
La strategia attendista di Renzi che oscura il ruolo di Minniti
Il leader Pd sembra in stand by. In attesa che passi la bufera di Macerata
Nei giorni scorsi il segretario del Pd ha escluso dalle liste elettorali alcuni uomini vicini al ministro Minniti
Pubblicato il 06/02/2018 - Ultima modifica il 06/02/2018 alle ore 07:14

FABIO MARTINI
ROMA

Al primo tornante impegnativo della campagna elettorale - l’offensiva del centrodestra sui migranti - Matteo Renzi si è messo in modalità «pausa»: né al contrattacco, né in difesa. È come se il leader del Pd aspettasse che la bufera passi, nella speranza che un tema tradizionalmente così scomodo per i progressisti si allontani dall’orizzonte elettorale. E infatti nelle ripetute e articolate esternazioni Renzi nella giornata di ieri, ha usato espressioni inusuali, che illustrano bene la posizione attendista del Pd. La prima: «Non si può pensare di buttare addosso alla Lega e a Salvini questa tematica perché è molto più grande e intensa». Una posizione garantista e anche un escamotage difensivo, per non essere sferzato più di tanto dalla Lega? La seconda espressione è altrettanto sfumata: «Davanti agli imprenditori della paura, quelli che scommettono e sobillano un’intera fetta di comunità, l’unica strada è l’estremismo del buon senso». La terza battuta riguarda il responsabile della sicurezza. Ha detto Renzi: «Certo mi fido di più di Minniti ministro dell’Interno che non di Salvini».

La sola idea di immaginare come plausibile un raffronto tra i due non sembra particolarmente gratificante per il ministro dell’Interno, ma c’è qualcosa in più: in queste ore Renzi è come se avesse rimosso l’azione svolta nell’ultimo anno da Marco Minniti. È come se avesse steso una sorta di omissis sui numerosi risultati incassati dal Viminale e da Palazzo Chigi su questa frontiera: diminuzione drastica degli arrivi, diminuzione dei morti in mare, coinvolgimento pieno dell’Ue sulla «dottrina Minniti», riflettori accessi del sistema-Onu sui lager libici.

Nella narrazione di Renzi l’occultamento di Minniti dura da giorni e si è indirettamente manifestato anche durante la formazione delle liste elettorali del Pd, con l’accantonamento di alcuni amici del ministro. Da parte sua Minniti, per ora, si è limitato a una dichiarazione a caldo, subito dopo aver riunito le autorità della sicurezza a Macerata. Definendo l’iniziativa di «stampo fascista e nazista» ma «di carattere individuale». Da quel momento Minniti si è ritirato nel suo riserbo istituzionale. E c’è un dettaglio in più che rende paradossali i rapporti lungo il triangolo Chigi-Viminale-Nazareno. Prima dei fatti di Macerata, nella compilazione delle liste, al Pd avevano deciso di spedire Paolo Gentiloni in una circoscrizione periferica: Ascoli-Macerata. Già prima dei fatti più recenti, si trattava di una circoscrizione in salita per il Pd, visto che comprende l’area colpita dal terremoto. Una collocazione che Gentiloni aveva accolto col proverbiale fatalismo, senza invocare «posti al sole».

Ma nell’attendismo di Matteo Renzi non c’è soltanto il rapporto sempre faticoso con le personalità di successo del suo schieramento. E non c’è soltanto un atavico complesso di inferiorità delle forze progressiste su questi temi. In queste ore sta accadendo qualcosa nelle rilevazioni dei sismografi dei sondaggi: dopo i due episodi di Macerata il tema migranti-sicurezza è letteralmente schizzato in testa alle preoccupazioni degli italiani. Ecco il motivo per il quale Silvio Berlusconi dopo una dichiarazione a caldo estremamente responsabile e misurata, due sere fa si è buttato nella mischia con un rilancio molto forte, quella richiesta di cacciare seicentomila irregolari dall’Italia.

Un’affermazione stentorea, non accompagnata da una illustrazione dettagliata delle misure che potrebbero rendere plausibile una «cacciata» di massa, visto che sinora un piano organico di rimpatri non è stato possibile per l’indisponibilità dei Paesi interessati. A Berlusconi, il leader del Pd ha preferito rispondere con altri argomenti: «I migranti sono una bomba sociale? Ma l’immigrazione dipende da due fattori: coi trattati di Dublino ogni Paese gestisce l’immigrazione da solo, ma quegli accordi che ora Berlusconi contesta li ha firmati lui nel 2003. E se in Italia arrivano i migranti è perché qualcuno ha fatto la guerra in Libia e il presidente del Consiglio era Berlusconi».

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/06/italia/politica/la-strategia-attendista-di-renzi-che-oscura-il-ruolo-di-minniti-mRIyb5hu5m8jp5xSohud4K/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Napolitano, sgambetto a Renzi. “Gentiloni uomo giusto per il bis”
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 25, 2018, 11:12:33 am
Napolitano, sgambetto a Renzi. “Gentiloni uomo giusto per il bis”

Il premier resta il più corteggiato: sempre alti i consensi nei sondaggi

Pubblicato il 22/02/2018

FABIO MARTINI
ROMA

Dopo Romano Prodi, Walter Veltroni, Emma Bonino e Carlo Calenda, un po’ a sorpresa anche l’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano si produce in un energico endorsement a favore di Paolo Gentiloni e indirettamente fa lo “sgambetto” a Matteo Renzi. Durante una cerimonia all’Ispi, l’istituto di studi di politica internazionale, il presidente emerito ha scelto parole impegnative per motivare un premio che veniva conferito al premier: «Paolo Gentiloni è divenuto punto essenziale di riferimento per il futuro prossimo e non solo nel breve termine, della governabilità e stabilità politica dell’Italia», «un’attitudine all’ascolto e al dialogo e uno spirito di ricerca senza preclusioni da ministro degli Esteri e poi da presidente del Consiglio». Un elogio che è arrivato a sottolineare virtù irrituali: «La qualità della sua educazione famigliare e scolastica gli offre strumenti importanti per operare ai più alti livelli anche in futuro».

Un’ escalation di dichiarazioni di “voto” per Paolo Gentiloni che si incrocia con una tentazione coltivata in silenzio da Matteo Renzi, ma alla fine scartata: rendere esplicito in extremis una clamorosa “incoronazione” del presidente del Consiglio. Una tentazione che aveva qualche buon motivo ma anche una controindicazione che lo stesso leader del Pd confida: «In caso di largo intese, che noi non cerchiamo ma che potrebbero rendersi necessarie, è del tutto evidente che il candidato unico di una coalizione, per andare a palazzo Chigi, deve essere espresso dalla coalizione più forte». In altre parole, Gentiloni ha più chances di restare in campo se mantiene il suo attuale profilo “bipartisan”, anziché essere il candidato di un partito e di una coalizione. E poi c’è un’altra ragione che Renzi ha spiegato così ai suoi: «Se noi cambiamo lo spirito e la lettera del nostro Statuto soltanto perché i sondaggi suggeriscono qualcosa, allora un partito non ha più senso». 

E tra i motivi che hanno sconsigliato un cambio di cavallo all’ultima ora, anche il timore di uno spaesamento tra gli elettori. È vero che è stabilmente elevata la fiducia che tutti i sondaggi attribuiscono a Gentiloni, tanto è vero che un mese fa un istituto tra i più quotati valutò in due punti percentuali in più una eventuale “cessione di sovranità” a favore del premier. Ma è altrettanto vero che nei comizi del Pd la presenza di Renzi - ovvero la sua evocazione da parte degli altri dirigenti - suscita ancora applausi e consensi e dunque esiste uno “zoccolo duro” da non deludere.

Certo, in queste ore Matteo Renzi sta cercando la carta per invertire una tendenza al ribasso che da sette mesi non si è più fermata. Anche perché negli ultimi giorni di campagna elettorale, Renzi lo sa bene, i numeri sono suscettibili di cambiamenti repentini e, come lui stesso ricorda, «nel 2013 nell’ultima settimana i Cinque Stelle recuperarono molti voti e il Pd ne perse». Oggi Renzi parlerà a Firenze e, annuncia, farà un discorso «alto, diverso dal solito».

A rendere il quadro ancora più incerto contribuisce una legge elettorale la cui traduzione dei voti in seggi parlamentari si sta rivelando un enigma. E proprio per questo motivo si sta intensificando la pressione anche da parte di personalità oramai fuori dalla mischia politica. Eppure, a dispetto di endorsement prestigiosi le chances per Gentiloni di una nuova stagione a palazzo Chigi sono legate a crescenti incognite. Certo, decisiva sarà la ripartizione dei seggi parlamentari tra i partiti, ma la novità che sta frenando le speranze dei fans di Gentiloni è un’altra ed appartiene alla sfera del non-detto: Berlusconi e Salvini, pur nella rivalità, hanno capito che se non raggiungeranno la maggioranza, dovranno convivere e spalleggiarsi nella ricerca di una soluzione per la guida di un governo - breve, di scopo o lungo - da condividere col Pd. E, al momento, il punto di intesa possibile non può non essere un premier vicino al centrodestra.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/22/italia/politica/napolitano-sgambetto-a-renzi-gentiloni-uomo-giusto-per-il-bis-NsG2VpHoMR3YZB5jwv6D7N/pagina.html


Titolo: F. MARTINI All’Eliseo in scena l’altro Pd con Gentiloni, Veltroni e Zingaretti
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 27, 2018, 05:43:48 pm
All’Eliseo in scena “l’altro Pd” con Gentiloni, Veltroni e Zingaretti
Il premier e l’ex leader del Pd, senza mai polemizzare con Renzi, hanno raccontato un partito democratico più inclusivo e più di sinistra rispetto a quello attuale

Pubblicato il 25/02/2018 - Ultima modifica il 25/02/2018 alle ore 18:13

FABIO MARTINI

Sul palco dell’Eliseo, teatro di eventi storici della sinistra italiana, i due hanno accettato di stare uno a fianco dell’altro: mentre Walter Veltroni parla, Paolo Gentiloni ascolta (e applaude) seduto su una poltroncina, con i due che si scambiano i ruoli, quando parla (e chiude) il presidente del Consiglio. Due discorsi “alti”, segnati dalla stessa concezione della politica e del partito e nei quali – pur in totale assenza di riferimenti critici nei confronti di Matteo Renzi –in controluce ha però preso corpo un “altro Pd”, con un approccio per alcuni aspetti diverso da quello proposto dall’attuale leadership. Un Pd più inclusivo al suo interno e un Pd che rivendica di essere “sinistra di governo”, espressione non amata da Renzi. Certo, due discorsi diversi: più di governo quello di Gentiloni, più attento alla realtà di partito, quello di Veltroni che già da qualche tempo sembra interessato ad un ritorno in campo come “salvatore della patria”.

Gentiloni: “Possiamo recuperare il distacco”
Una visione del Pd che sarà ribadita dalla chiusura della campagna elettorale nazionale e romana di Paolo Gentiloni: venerdì prossimo sarà a Santa Mara in Trastevere a fianco di Nicola Zingaretti, presidente uscente (e ricandidato) della Regione Lazio, ma anche una delle personalità alla quale guardano tanti ant i-renziani, dentro e fuori del Pd. Zingaretti non era all’Eliseo, ma significativamente “chiuderà” col premier nella piazza della Comunità di Sant’Egidio. Un orizzonte, quello “dell’altro Pd”. Sottolineato da alcune presenze non casuali nella sala dell’Elise: quella di Anna Finocchiaro, per anni una delle capofila dell’area ex Pci e oggi vicina ad Andrea Orlando e quella di Ugo Sposetti, che di quella corrente politica e culturale è da tempo “anima” e braccio operativo.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/25/italia/speciali/elezioni/2018/politiche/alleliseo-in-scena-laltro-pd-con-gentiloni-veltroni-e-zingaretti-LV2Gk9PrTM5QhnWMFnsReL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il segretario democratico al bivio con l’incubo dello stigma di..
Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2018, 12:10:24 am
MATTEO RENZI 
Il segretario democratico al bivio con l’incubo dello stigma di perdente 

(di Fabio Martini) 

All’età di 43 anni, dopo essere stato il più giovane capo del governo nella storia italiana, Matteo Renzi si gioca tutto. Un bivio prematuro, perché i leader di solito lo affrontano in età più avanzata. Per il segretario del Pd, salvo tracolli, a breve non è in discussione il controllo sul suo partito: quello è garantito dalla filosofia ispiratrice della legge elettorale, pensata per consentire a tutti i leader di ammortizzare le perdite. Per Renzi, in caso di sconfitta anche limitata, il vero rischio è un altro: restare in campo, ma con lo stigma del perdente di successo. Pronto a replicare nuove sfide, ma nel ricordo collettivo delle ferite precedenti. 

Certo, il destino politico del leader di Rignano dipenderà molto dal livello sul quale si fermerà l’asticella elettorale. Se il Pd si confermerà il primo gruppo parlamentare, Matteo Renzi sarà tra i leader che detteranno le regole del gioco e sarà lui, alle prossime elezioni, a giocarsi di nuovo la sua chance. Se invece, come indicavano i sondaggi prima del divieto di pubblicazione, la sua coalizione risulterà non la prima e neppure la seconda, ma la terza, con un distacco di una decina di punti dal centrodestra, tutto è destinato a complicarsi. 

Cinque anni fa l’allora leader del Pd Pierluigi Bersani scoprì che avevano votato per il suo partito 8 milioni e 646 mila elettori (pari al 25,4 per cento), ben tre milioni e mezzo in meno rispetto a cinque anni prima, quando il segretario era Walter Veltroni. Ma soprattutto si trattava del peggiore risultato nella storia del Pd e delle liste unitarie dell’Ulivo. Per Renzi stabilire un nuovo record al ribasso aprirebbe uno scenario ad alto rischio per sé e per il suo partito.

Per questo il voto conta ma conta anche la gestione del dopo-voto. Renzi ha già anticipato tre indicazioni che sono state sottovalutate. La prima: la colpa dell’eventuale flessione elettorale del Pd è tutta di D’Alema e Bersani. Ma affrontare il dopo-elezioni con una lettura riduttiva non aiuterebbe il rilancio del leader. La seconda promessa: se perdo, non mi dimetto. La terza: il Pd potrebbe andare all’opposizione. Si tratta di due affermazioni da non sottovalutare. Matteo Renzi, avendo intuito l’inconfessabile veto «ad personam» da parte di tutti gli altri leader per future maggioranze da contrarre con lui, potrebbe essere tentato dalla suggestione di rifarsi una verginità politica da leader dell’opposizione di un governo Tajani di centro-destra allargato ai «responsabili» di turno. Magari passando da un duello per la presidenza del Senato con Massimo D’Alema, che ha sussurrato questo scenario ad alcuni imprenditori toscani.



Titolo: FABIO MARTINI. Tajani: “Zuckerberg venga a spiegare. L’Europa rischia di sfascia
Inserito da: Arlecchino - Marzo 24, 2018, 03:01:04 pm
ESTERI
REUTERS
Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 21/03/2018.

Tajani: “Zuckerberg venga a spiegare. L’Europa rischia di sfasciarsi”

Il presidente del Parlamento Ue teme per le elezioni del 2019: “Servono regole chiare e forti altrimenti si mette in pericolo la libertà”
Alle sette della sera, nel suo ufficio al Parlamento europeo, il presidente Antonio Tajani ha appena fatto rilasciare dal suo computer il testo della lettera di invito al leader di Facebook Mark Zuckerberg e a caldo spiega così una convocazione che ha i caratteri della straordinarietà: «Gli chiediamo di spiegare i rapporti con Cambridge Analytica e di chiarire davanti ai rappresentanti di 500 milioni di europei come vengano utilizzati i dati personali da loro gestiti. Apprezzeremo molto se Zucke ... continua
FABIO MARTINI

Da - http://www.lastampa.it/2018/03/21/esteri/tajani-zuckerberg-venga-a-spiegare-leuropa-rischia-di-sfasciarsi-L31JXhejsxMTlwrrutYQoO/premium.html


Titolo: FABIO MARTINI. Renzi apre uno spiraglio al governo del presidente
Inserito da: Arlecchino - Aprile 14, 2018, 06:10:04 pm
Renzi apre uno spiraglio al governo del presidente

Rassicurazioni al Colle: il Pd può rientrare in gioco solo in quella formula

Pubblicato il 10/04/2018 - Ultima modifica il 10/04/2018 alle ore 09:23

FABIO MARTINI
ROMA

I resti di quel che fu il più potente esercito della passata legislatura, questa sera alle 18 risaliranno in disordine e senza grandi speranze le scale che portano alla mansarda del Nazareno, sede del Pd, per una riunione congiunta dei gruppi parlamentari. Per la prima volta dal 4 marzo i 111 deputati e i 52 senatori potranno discutere liberamente di politica, anche se non ci sarà Matteo Renzi, che parlerà all’Assemblea nazionale del 21 aprile e nel frattempo intende lasciare la briglia sciolta al partito. Un’analisi approfondita delle ragioni della sconfitta dovrà essere una volta ancora procrastinata, perché incombe la gestione del quotidiano. 

Dentro il Pd i posizionamenti sono chiari: Renzi, nel dimettersi, ha lasciato ai suoi «eredi» una linea talmente pronunciata (mai al governo con i Cinque stelle) che agli altri non è restato che farla propria. Con una correzione tattica che ha portato due ministri agli sgoccioli di mandato, Dario Franceschini e Andrea Orlando, a sostenere che non è possibile far finta di nulla davanti alle profferte di Luigi Di Maio.

Un’apertura ad un governo Pd-Cinque stelle? Oppure i ministri si mettono avanti col lavoro, in vista di scenari diversi? In altre parole, se le combinazioni attualmente in trattativa dovessero arenarsi, come ultima spiaggia potrebbe riprendere quota un «governissimo» con tutti dentro? Da 48 ore al Quirinale è sopraggiunta una rinnovata fiducia, nella convinzione che tutti i partiti, Pd incluso, possano dare una mano. E si confida che alla fine del secondo giro di consultazioni, possa rientrare in gioco tutto il Pd, Renzi incluso.

Ieri l’ex segretario era a Roma e prima che il presidente dei deputati Graziano Delrio andasse negli studi de La7 a registrare una puntata di «Otto e mezzo», i due hanno chiacchierato a palazzo Giustiniani, mettendo a punto alcune coordinate. Renzi si è detto convinto che Di Maio, Salvini e Berlusconi siano «incartatissimi» e che tatticamente parlando convenga al Pd lasciarli scannare. E dopo? In trasmissione Delrio ha tenuto il punto sulla questione di un governo M5S-Pd, perché «le differenze non scompaiono in pochi giorni» e dunque «non ci sono possibilità per un governo assieme perché le distanze sono troppo profonde».

Delrio non è stato interpellato sull’extrema ratio di un «governissimo», ma è stato lui stesso a fare qualche velato accenno a scenari diversi quando ha detto: «La discussione potrà diventare più matura, non nel senso che cambiamo il nostro posizionamento ma nel senso che potremo discutere nel merito delle proposte di programma». E ancora: oggi come oggi un governo con i Cinque stelle è impossibile e comunque un dialogo «richiede un ripensamento sostanziale del loro approccio» e fra un mese si vedrà. E interpellato sul rischio di elezioni anticipate, Delrio ha lasciato un altro spiraglio: «Io spero che ci siano zero possibilità di tornare al voto: non sarebbero la soluzione migliore». Oggi il primo test sugli umori dei parlamentari: dopo un mese è possibile una prima stima attendibile sulla loro collocazione interna; i «renziani doc» controllano circa metà del gruppo Camera e circa il 40% di quello Senato, mentre si è molto ingrossata l’area della maggioranza (Franceschini, Gentiloni, Martina, Delrio, Guerini) non del tutto allineata a Renzi e che al Senato controlla oltre il 40% del gruppo. La resa dei conti interna è appena cominciata.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/10/italia/politica/renzi-apre-uno-spiraglio-al-governo-del-presidente-WhKYtC2ix5q4ZEB3MnLwFP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Il Colle comincia a riflettere su un governo-ponte verso il voto
Inserito da: Arlecchino - Aprile 29, 2018, 09:55:48 pm
Il Colle comincia a riflettere su un governo-ponte verso il voto

Due gli scenari valutati: una prorogatio all’uscente Gentiloni, o esecutivo di nessuno per traghettare alle urne in autunno

Pubblicato il 28/04/2018 - Ultima modifica il 28/04/2018 alle ore 17:38

FABIO MARTINI
Il variopinto rifiorire di procedure da Prima Repubblica - dagli esploratori ai preincarichi - nei prossimi giorni potrebbe far lievitare anche il più vintage degli scenari: l’ipotesi di un governo balneare. Uno di quei governi messi lì per lasciar «decantare», per prendere un po’ di tempo, per traghettare il Palazzo da uno scenario all’altro. In questo caso per portare il Parlamento verso elezioni anticipate. Nell’ovattato riserbo del Quirinale in queste ore si continua a monitorare l'intensità dei veti contrapposti e i segnali restano poco incoraggianti. 

Ecco perché, assieme alla speranza di dare un governo stabile al Paese, si stanno cominciando ad esaminare anche gli scenari che potrebbero determinarsi in caso di fallimento del mandato esplorativo affidato al presidente della Camera e degli incarichi che dovessero seguire. E tra le ipotesi c’è anche quella che contempla la possibilità di elezioni in autunno.

 In questi primi 55 giorni post-elettorali Sergio Mattarella si è trovato a fronteggiare scenari senza precedenti nella storia della Repubblica: in 72 anni mai era mancata una maggioranza in entrambe le Camere.

Mai era diventata così plausibile la possibilità di una legislatura sciolta nel giro di pochi mesi e senza aver potuto dare la fiducia ad un governo. Tanto è vero che nelle ultime 48 ore nel Transatlantico i peones più ingenui e i parlamentari più esperti si ritrovano a condividere lo stesso destino: chiedersi quanto siano plausibili le prime date che circolano per le elezioni. C’è il «partito» del 23 settembre, quello del 30 settembre e quello dell’11 novembre. 

Fantapolitica? Certamente non sono date che escono dal Quirinale, dove però stanno soppesando tutte le ipotesi su un eventuale tragitto per arrivare allo scioglimento anticipato. Diversi scenari, ma senza aver optato per uno in particolare. L’enigma irrisolto ruota attorno ad un bivio ricco di implicazioni politiche e costituzionali. Sarebbe opportuno approdare ad elezioni con un governo, quello Gentiloni, già da mesi in carica per l’ordinaria amministrazione e che vi resterebbe addirittura per tutta la legislatura senza avere una maggioranza? Oppure si punta ad un governo che sia espressione della legislatura in corso anche se non dovesse ottenere la fiducia? Più opportuno Gentiloni o un «governo di nessuno»?

Apparentemente interrogativi da legulei, in realtà questioni che potrebbero porsi nel giro di qualche giorno. Nel cinquattaquattresimo giorno di post-elezioni, col Palazzo in attesa del risultato delle elezioni in Friuli Venezia Giulia, hanno proseguito a correre voci e boatos di segno opposto. Al Quirinale quella di ieri è stata registrata come una giornata senza novità, i contatti informali non hanno fatto registrare avanzamenti e comunque al Colle di solito si prendono con le molle le voci di giornata. E si preferiscono studiare precedenti e opportunità politiche. In questo caso - ecco il punto dolente - un precedente uguale a quello in corso non esiste: le legislature, anche le più corte, hanno espresso tutte governi gratificati dalla fiducia parlamentare. 

Non è dato sapere se Sergio Mattarella e Paolo Gentiloni sinora abbiano affrontato la questione ma negli ultimi giorni il tema sta diventando attuale. In base ai precedenti, in caso di scioglimento anticipato, il Capo dello Stato ha davanti a sé due scenari possibili: far «gestire» le elezioni dal governo che attualmente è in carica per il disbrigo degli affari correnti, naturalmente dopo un avallo sostanziale da parte di tutte le forze politiche. Oppure, formare un governo, farlo giurare (da quel momento è in carica) e fargli gestire le elezioni. Sia nel caso di fiducia accordata dal Parlamento, ma anche in caso di sfiducia, ipotesi da non scartare visto il clima di veti incrociati.

I precedenti raccontano che in due casi si è andati allo scioglimento anticipato delle Camere, sotto la guida di governi passati in Parlamento ma senza ottenerne la fiducia. Il caso più clamoroso risale al 1987. Amintore Fanfani, uno dei «cavalli di razza» democristiani, alla guida di un monocolore Dc, fu bocciato dal suo stesso partito ma restò in carica per 102 giorni, dei quali 56 pre-elettorali. Nel 1972 lo stesso destino era capitato a Giulio Andreotti, che rimase in carica dal 18 febbraio al 26 giugno. Precedenti tutti democristiani. 

Ai quali aggiungere quello del primo governo balneare della storia repubblicana: lo formò Giovanni Leone nell’estate del 1963. Cinquantacinque anni fa. Seguirono poche altre repliche e sembrava che quegli esecutivi stagionali non dovessero più tornare. Nessuno avrebbe potuto immaginare che il primo Parlamento dominato da due forze anti-establishment potesse essere traghettato da un esecutivo balneare.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/28/italia/il-colle-comincia-a-riflettere-su-un-governoponte-verso-il-voto-zQbLjQ3f1hkHo7JeeNYnlL/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Pd, è partita la sfida a Renzi.
Inserito da: Arlecchino - Maggio 20, 2018, 11:48:34 am
Pd, è partita la sfida a Renzi.

Verso una “semifinale” tra due ex Ds: Martina e Zingaretti

La platea del “parlamentino” saluta con due ovazioni il segretario reggente, che entra il lizza per la futura leadership, in concorrenza col governatore del Lazio Nicola Zingaretti.

Entrambi vengono dai Democratici di sinistra.

Pubblicato il 19/05/2018 - Ultima modifica il 19/05/2018 alle ore 16:30

Fabio Martini

Due ovazioni inattese e liberatorie hanno lanciato la volata verso la nuova leadership del Pd. All’Assemblea nazionale stava parlando Maurizio Martina, confermato reggente ancora per qualche mese, e dopo i compromessi tra i notabili del partito, che poco prima avevano rinviato l’ora delle scelte “irrevocabili”, tutti si aspettavano un intervento senza asperità. E invece Martina ha spiazzato (e acceso) la platea, quando ha detto: «Chiedo di poter lavorare insieme a voi per poter portare in maniera ordinata e forte il Pd a quell’appuntamento», quello del congresso, «senza la fatica dei detti e non detti anche tra di noi. Non ho l’arroganza di pensare di fare da solo questo lavoro. Ma se tocca a me, anche se sono poche settimane, tocca a me...». A quel punto è partito l’applauso e Martina, con un effetto scenografico per lui inusuale, ha ribadito: «Tocca a me, tocca a me». A quel punto l’applauso si è trasformato in ovazione. 

Un’ovazione liberatoria per quella parte di Assemblea che vive un rapporto conflittuale con l’ex segretario Renzi. E la “notizia” dell’Assemblea è proprio l’area sempre più estesa di “non allineati” sui vari territori che dopo la stagione renziana si stanno spostando. Come ha dimostrato il voto dell’Assemblea sul cambio dell’ordine del giorno: ha avuto molti più voti del previsto. E la conferma di quanto sia estesa questa area “non allineata” e non-renziana si è avuta appena Martina ha concluso il suo intervento. Dalla platea è partito un coro: «Se-gre-ta-rio, se-gre-tario». Un successo personale che può rilanciare proprio Martina verso una possibile “semifinale” dentro l’area anti-Renzi, che è formata da personaggi di sensibilità diverse: oltre agli oppositori “istituzionali” - Andrea Orlando e Michele Emiliano - ministri come Dario Franceschini, Marco Minniti, Carlo Calenda - ex leader di partito come Walter Veltroni e Piero Fassino - e in posizione defilata Paolo Gentiloni. Rispetto al quale Renzi fa sapere di aver concordato la regia dell’Assemblea. In realtà i due non si parlano da diverse settimane e il presidente del Consiglio si è più volte speso per sostenere Martina. 

Gran parte del fronte non-renziano ha già individuato in Nicola Zingaretti il personaggio in grado di sfidare alle Primarie il candidato “renziano” e, nel caso, lo stesso Renzi. Nel passato su Zingaretti, che viene dal Pci e dai Ds, ha pesato un deficit di carattere che gli è valso il soprannome di “saponetta” e anche tra i suoi amici c’è ancora chi dubita sulla sua determinazione nel momento in cui fosse chiamato a sciogliere la riserva. Anche Martina viene dai Ds: nelle settimane, probabilmente mesi, nei quali continuerà ad esercitare la “reggenza” si giocherà le sue chances per contendere a Zingaretti il ruolo di sfidante al candidato renziano.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/19/italia/pd-partita-la-sfida-a-renzi-verso-una-semifinale-tra-due-ex-ds-martina-e-zingaretti-9b4aNglJOjJU59Y9CKAFfK/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. L’esordio di Giuseppe Conte in Parlamento: In Europa a testa altA
Inserito da: Arlecchino - Giugno 08, 2018, 04:52:14 pm

L’esordio di Giuseppe Conte in Parlamento: “In Europa a testa alta”

Oggi il discorso per la fiducia, ecco alcune espressioni chiave: “cambiamento”, “a Bruxelles la nostra casa”

Pubblicato il 05/06/2018

Fabio Martini
Roma

A mezzogiorno il professor Giuseppe Conte entrerà per la prima volta nella sua vita in un’aula parlamentare e illustrerà, da presidente del Consiglio, il discorso programmatico di un governo che si presenta come il più discontinuo col passato degli ultimi decenni. Nell’aula del Senato tante “prime volte” concentrate in pochi minuti: ecco perché il primo discorso parlamentare di Giuseppe Conte è già diventato un evento. Un’attesa della quale hanno piena consapevolezza il novizio presidente del Consiglio, ma anche i due vicepresidenti - Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Ecco perché il testo dell’intervento - preparato dal professor Conte - è stato visto e rivisto dalla “cabina di regia” pentastellata e da quella leghista. 

Con i primi particolarmente sensibili nell’enucleare le parole-chiave destinate a lasciare il segno e a creare le suggestioni “giuste”. Certo, il testo finale sarà rivisto per l’ultima volta questa mattina poco prima di essere mandato in stampa, ma nella versione finale erano ben impresse alcune espressioni, destinate ad indirizzare l’evento. La parola-chiave naturalmente sarà «cambiamento», declinata in tutti i capitoli programmatici, che derivano dal “Contratto”, una sorta di mantra per il nuovo governo.

Ma un’attenzione speciale sarà dedicata a concetto di Europa, che - ecco la novità - dovrebbe essere “liberata” da ogni connotazione “criminalizzante”. Salvo abrasioni dell’ultima ora, Conte dirà che «l’Eurora è la nostra casa», che il suo governo andrà a Bruxelles «a testa alta», perchè gli italiani «hanno contribuito a fondarla l’Unione», ma che bisogna voltare drasticamente pagina, perché l’«Europa deve diventare per davvero più vicina ai cittadini». E il nuovo governo intende mettere alla prova l’Unione, chiedendo il «superamento» del regolamento di Dublino sul collocamento dei migranti. 

Nel discorso saranno presenti tutti i punti programmatici qualificanti (giovani, reddito di cittadinanza, pensioni, semplificazione e deburocratizzazione, appalti nel segno della legalità e delle regole) ma anche alcune sottolineature. Come «il carcere duro per i grandi evasori». La flat tax? Dovrebbe essere realisticamente annoverata come «obiettivo» senza crono-programmi stringenti. Un discorso destinato ad essere setacciato ai raggi x, anche se inevitabilmente tutti gli occhi saranno puntati su Giuseppe Conte: sulle cose che dirà e su come le dirà. Finora il professore pugliese ha letto alcuni brevissimi interventi, continuando a restare un “oggetto misterioso” per gran parte dell’opinione pubblica.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/06/05/italia/lesordio-di-giuseppe-conte-in-parlamento-in-europa-a-testa-alta-bn7q59E1MN0SyS8EJB0FAP/pagina.html


Titolo: Mattarella e la trincea “istituzionale”, quattro presidenti per difendere Tria
Inserito da: Arlecchino - Luglio 25, 2018, 05:06:20 pm
Mattarella e la trincea “istituzionale”, quattro presidenti per difendere Tria

Dopo le uscite di Di Maio e Salvini, il Quirinale chiederà sostegno ai vertici dello Stato per blindare il ministro dell’Economia

Pubblicato il 25/07/2018

FABIO MARTINI
ROMA

Le recenti, battagliere esternazioni dei due capi della maggioranza Luigi Di Maio e Matteo Salvini sul rapporto con Bruxelles in vista della prossima Legge di Stabilità sono state prese molto sul serio dal Capo dello Stato. Pur non rappresentando dichiarazioni di guerra nei confronti dell’Ue e pur proiettando in un futuro imprecisato il superamento dei vincoli europei, il tono arrembante delle dichiarazioni ha indotto il Quirinale ad accendere i riflettori sul percorso che porterà alla stesura della Legge di Bilancio. Ecco perché il Capo dello Stato, per Costituzione garante del rapporto tra Italia e Ue in rapporto ai vincoli di bilancio, ha deciso un giro informale di incontri. Col presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha già visto e con la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e con quello della Camera Roberto Fico, che incontrerà nei prossimi giorni, al fine di prevenire degli attriti che potrebbero portare a una crisi di governo.

Naturalmente il Capo dello Stato non ha alcuna intenzione di interferire sul percorso legislativo e neppure su quello che precede la presentazione alle Camere del testo della Legge di stabilità, ma la sua moral suasion sarà indirizzata ad evitare un combinato disposto di norme fuori dai parametri e di dichiarazioni che suscitino pericolosi corti circuiti. Anzitutto con la Commissione europea. Ma anche con i mercati. Da Bruxelles la raccomandazione che ha raggiunto anche il Quirinale negli ultimi giorni è chiara: davanti ad atteggiamenti di sfida la prima sanzione verrebbe dai mercati e dallo spread. Una sanzione sostanziale che rischierebbe di manifestarsi prima di quella formale da parte della Commissione europea, chiamata a pronunciarsi in autunno sul progetto di Legge di Stabilità che il governo è tenuto a presentare entro il 15 ottobre.
 
Se l’imperativo del Capo dello Stato è scongiurare corti circuiti pericolosi per la stabilità del Paese, del tutto conseguente la sintonia tra il Quirinale e il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Nell’intreccio di dichiarazioni ed interviste ad opera dei principali ministri del governo, proprio Tria non ha dato margini ai “contestatori” di Bruxelles.

In una intervista al “Washington post”, il ministro dell’Economia ha messo a verbale alcune affermazioni inequivocabili. La prima: «Non c’è nessuna discussione sul fatto che l’Italia appartenga o meno all’Ue o all’Eurozona». Come finanziare una riforme costosa come la flat tax? «Se abbassi alcune tasse devi aumentare il gettito proveniente da altre tasse».

Dichiarazioni che, non soltanto al Quirinale, sono parse distanti da quelle dei due leader di governo, ma anche da un personaggio influentissimo tra i Cinque Stelle come Davide Casaleggio. Il vicepremier Matteo Salvini ha annunciato: «Andremo oltre i numeri Ue». Una frase che può voler dire tante cose: al momento opportuno può essere rincarata ma anche occultata. Certo, Salvini ha usato parole di sfida, anche rispetto a tabù che finora sono stati tollerati in silenzio: «Cercheremo di cambiare anche alcuni numeri scelti a tavolino a Bruxelles, che molti paesi Ue - come Francia, Spagna e Germania - ignorano bellamente». E Di Maio, pur usando espressioni da Prima Repubblica («Non dobbiamo tirare a campare») si è messo sulla stessa sintonia, indicando come obiettivo la modifica dei «parametri europei».

Posizioni distanti da quelle di Tria e che ripropongono quella solitudine dei ministri dell’Economia che è una caratteristica di molti degli “inquilini” di via Venti Settembre. Nel passato diversi di loro, compreso Pier Carlo Padoan (solidissimo e apparentemente imperturbabile), sono stati presi dalla tentazione di gettare la spugna davanti alla generale ostilità che circonda tutti i propugnatori di una spesa misurata. È ancora presto per capire se un sentimento di questo tipo abbia preso anche il ministro Tria, ma indubbiamente il “monitoraggio” del Capo dello Stato e la sua iniziativa con i tre presidenti (Consiglio, Senato e Camera) se non può essere banalizzata come una “blindatura” del ministro dell'Economia, segnala però un sostegno di Mattarella a Giovanni Tria.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/07/25/italia/mattarella-e-la-trincea-istituzionale-quattro-presidenti-per-difendere-tria-h3pwgkeoNQdBHqHFvownzO/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Genova, slitta la revoca della concessione ad Autostrade
Inserito da: Arlecchino - Settembre 12, 2018, 05:08:02 pm
Genova, slitta la revoca della concessione ad Autostrade
Venerdì il decreto per la ricostruzione: lavori affidati a Fincantieri. Il governo prende tempo per la fase due

Pubblicato il 12/09/2018

Fabio Martini
Roma

Ora c’è anche l’annuncio ufficiale: l’operazione piazza pulita decisa dal governo sulla vicenda Autostrade va avanti con due distinti decreti ma in due tempi tra loro molto sfalsati. E in questa scansione potrebbe celarsi la sorpresa: il ripensamento del governo sull’ipotesi di revocare unilateralmente tutte le concessioni ad Autostrade. Il primo tempo dovrebbe consumarsi già venerdì con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri di un decreto-legge che affiderà la ricostruzione del ponte di Genova, cancellando Autostrade e assegnando l’opera ad un soggetto «a prevalente partecipazione pubblica dotato di adeguate capacità tecniche come Fincantieri», come ha annunciato in Parlamento il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Dunque, il prescelto è Fincantieri, gigante (pubblico) della cantieristica italiana ed europea, ma senza uno specifico know how nella realizzazione di grandi opere.

Soltanto fra qualche mese dovrebbe scattare la fase-2: la revoca della gestione sull’intera rete autostradale agli attuali concessionari. Misura hard e foriera di ricorsi, tanto è vero che - ecco la possibile novità - il ministro Toninelli si è fatto più sfumato su questa seconda opzione. Il ministro ha detto che «questo governo farà di tutto per rivedere integralmente il sistema delle concessioni e degli obblighi convenzionali », ma poi anziché riferirsi all’obiettivo della nazionalizzazione della rete autostradale, a sorpresa ha fatto riferimento per il futuro a più concessionari. Come ora. Ha detto che in futuro «tutti i concessionari saranno vincolati a reinvestire buona parte degli utili nell’ammodernamento delle infrastrutture, dovranno rispettare in modo più stringente gli obblighi di manutenzione a loro carico e dovranno comprendere che l’infrastruttura non è una rendita finanziaria, ma un bene pubblico che il Paese». 

Toninelli, che nella sua audizione nella Commissione Ambiente, ha lasciato cadere punture di spillo e provocazioni dei parlamentari di opposizioni e si è proposto con uno standing da ministro, ha dunque contemplato un futuro con più soggetti. Un indizio che conferma come su questo tema si stiano confrontando due linee: quella del no integrale ad Autostrade, espresso da Luigi Di Maio, quello più attento alle compatibilità giuridiche del presidente del Consiglio Conte e quella per il momento ancora imperscrutabile della Lega. Certo, il Salvini di nuovo fiammeggiante di queste ore, continua a sparare a zero su Autostrade («Paghi, faccia dieci passi a lato e chieda scusa che non l’ha ancora fatto bene»), ma lo fa, concentrandosi sulla questione della ricostruzione del ponte. La linea di tutto il governo è questa: Autostrade paghi e alla ricostruzione ci penseranno altri. In altre parole si immagina di dar corso a quanto previsto dalla Convenzione nella parte che attribuisce gli oneri finanziari al concessionario, ma glissando su chi debba realizzarli. La Convenzione unica di Autostrade infatti assegna al gestore l’obbligo «del mantenimento della funzionalità delle infrastrutture concesse attraverso la manutenzione e la riparazione tempestiva delle stesse».
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Da - http://www.lastampa.it/2018/09/12/italia/genova-slitta-la-revoca-della-concessione-ad-autostrade-aPuSs4S0fNn4LZOQejmyDN/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. Zingaretti, l’ex “sor Tentenna” lancia la corsa per guidare i
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2018, 11:29:53 pm
Zingaretti, l’ex “sor Tentenna” lancia la corsa per guidare il Pd

Felpatissimo, c’è chi dice anche troppo, molto legato a Roma e all’intreccio particolare tra radici ebraiche, cattoliche, laiche. Non ha mai criticato Renzi, ma non aveva visto arrivare Minniti

Pubblicato il 13/10/2018

FABIO MARTINI

Oramai è diventato l’araba fenice del Pd. Che ci sia, ciascun lo dice, dove sia (e chi esattamente sia), nessun lo sa. In politica da 30 anni, Nicola Zingaretti è sempre rimasto rintanato nella cuccia romana e lontano dai riflettori televisivi, un profilo che da oggi sarà costretto a dismettere. Alla ex Dogana di Roma il Governatore del Lazio lancerà la sua candidatura alla guida del Pd con la Convention di due giorni “Piazza Grande”. A chi, nelle settimane scorse, gli suggeriva di uscire dal Raccordo Anulare, lui ha tagliato corto: «No, la facciamo a Roma». Si sente più sicuro nella sua città, una scelta che i suoi fan escludono sia da attribuire alla proverbiale attitudine del loro Nicola: il deficit di coraggio e di grinta. Una nomea fondata su precedenti che gli hanno guadagnato l’attribuzione di nomignoli spiritosi: “sor Tentenna”. O anche “er saponetta”. Piero Fassino, uno dei pochi padri nobili del Pd, si scioglie in un rassicurante sorriso: «Ho parlato con Nicola, gli ho chiesto se stavolta sia determinato ad andare sino in fondo. L’ho visto molto deciso».

Ci credono - e ci sperano - quasi tutti coloro che hanno già depositato la loro silenziosa fiche sul suo nome, Paolo Gentiloni, Walter Veltroni, Dario Franceschini, Andrea Orlando. Da 48 ore a turbare l’ascesa di Zingaretti, c’è Marco Minniti, candidato alla guida del Pd da 13 sindaci vicino a Matteo Renzi. Una candidatura insidiosissima per il Governatore del Lazio, anche perché le radici politiche sono le stesse. Spiega Peppino Caldarola, già direttore dell’Unità: «Strano destino: dopo prediche rottamatrici, due comunisti doc concorrono per un partito che vorrebbe essere il più lontano possibile dal Pci». 

Zingaretti è un ex giovane felpatissimo. Quando ha annunciato di essere pronto a correre, ha detto: «Io ci sono», «ma sono il primo a dire che il problema fondamentale non è il segretario». L’ imperativo categorico? Sostituire la «rabbia con la passione». Cinquantatré anni, romano, fratello di Luca - il celebre commissario Montalbano - Nicola Zingaretti dietro alle spalle ha una di quelle famiglie romane, «fecondo intreccio di radici ebraiche, cattoliche e di cultura laica» e che lui racconta con garbo: «Siamo tre fratelli uniti, grazie anche ai nostri genitori che ci hanno sempre ricordato che siamo qui per caso: il 16 ottobre 1943, quando ci furono le deportazioni degli ebrei a Roma, i nazisti entrarono in casa di mio nonno, ebreo, da qualche giorno nascosto in un convento. Trovarono mia madre, attaccata alla gonna di nostra nonna, che disse il suo nome da ragazza. Si salvarono».

Da quando era segretario dei “pulcini” comunisti, Zingaretti ha sempre mantenuto i tratti del dirigente medio del Pci: buon senso, mai un gesto anticipatore, lessico impersonale. Una volta Antonio Bassolino chiese ad un compagno napoletano ben introdotto a Roma: «Ma come è questo Zingaretti? In direzione sorride sempre…». Nel 2012 pubblicamente annuncia la sua candidatura a sindaco di Roma, un’impresa che si presenta accidentata e così quando un compagno gli annuncia per telefono, «sarai candidato alla Regione», la leggenda vuole che il buon Nicola esulti per lo scampato “pericolo”. Ma Zingaretti – anche grazie a Goffredo Bettini e al suo staff – elettoralmente si rivela un fuoriclasse: è eletto presidente della provincia di Roma, e per due volte Governatore del Lazio. 

Quando Renzi era il “capo”, Zingaretti non lo ha mai criticato: «Con lui ho sempre avuto un rapporto sereno, perché franco». Ma ora Zingaretti è chiamato a cambiare marcia. I due giorni di “Piazza Grande” sembrano una fotocopia della Leopolda renziana: dieci gruppi tematici di lavoro, dal palco amministratori locali, video emozionanti (ricordo di Martin Luther King, alla presenza della figlia Bernice), lezioni (Nando Dalla Chiesa), un solo big (Paolo Gentiloni) accanto al padrone di casa. 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/10/13/italia/zingaretti-lex-sor-tentenna-lancia-la-corsa-per-guidare-il-pd-G5Sep4lmlSx39M3JBwybdI/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La “nuova” Cgil, unitaria, progressista e anti-governativa
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 28, 2019, 05:13:43 pm
La “nuova” Cgil, unitaria, progressista e anti-governativa

Pubblicato il 23/01/2019 - Ultima modifica il 23/01/2019 alle ore 15:10

FABIO MARTINI
ROMA
La «nuova» Cgil, nel segno di Maurizio Landini, si preannuncia unitaria, progressista e anti-governativa. L’accordo notturno tra le due «anime» del più grande sindacato italiano e che ha consentito il via libera alla leadership di Maurizio Landini, ha un aspetto organizzativo e di organigramma ma anche un significato politico. La Cgil che esce dal congresso di Bari sarà sicuramente più unitaria, sia nel rapporto con gli altri sindacati confederali sia al suo interno. Il messaggio che la segretaria uscente Susanna Camusso e il nuovo leader danno alla sinistra politica (al Pd ma anche all’ex Leu) è nel segno dell’unità: il sindacato ha diverse sensibilità ma al momento decisivo sa trovare una sintesi.

L’attualità va raccontata. Aiutaci a farlo sempre meglio
Una Cgil anche più unitaria rispetto al passato, nel rapporto con Cisl e Uil e su questo Camusso nella sua relazione è stata più esplicita che nel passato. Una Cgil progressista, perché nel patto interno che comprende l’ala che ha sostenuto Vincenzo Colla nella sua corsa alla segreteria, decisivo è stato l’atteggiamento trattativista del sindacato pensionati, che anche in termini anagrafici incarna l’anima tradizionalista della Cgil, che nel passato è stata per decenni la principale casa della sinistra. Un freno rispetto alla tentazione di andare incontro alle simpatie di tanti iscritti – che hanno votato Lega e Cinque stelle – che avrà un riflesso anche nella linea politica rispetto al governo.

Dopo diversi mesi di stanf-by rispetto al nuovo esecutivo, nelle ultime settimane la Cgil aveva intensificato la conflittualità. E ora Landini è chiamato ad interpretarla. Lui che, assieme alla Camusso e al sindacato pensionati – è il vincitore del congresso, è ora chiamato a dare corpo alle novità maturate nelle ultime settimane e lo farà nel discorso che pronuncerà domani mattina davanti ai delegati.

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Da - https://www.lastampa.it/2019/01/23/italia/la-nuova-cgil-unitaria-progressista-e-antigovernativa-qxPKtfNJN5VfqpTuOdrYOP/pagina.html


Titolo: FABIO MARTINI. La mossa di Zingaretti nella partita delle elezioni: Si vada al..
Inserito da: Arlecchino - Aprile 22, 2019, 04:32:30 pm
La mossa di Zingaretti nella partita delle elezioni: “Si vada subito al voto”
Il Pd getta il proprio peso puntando sul voto anticipato e soprattutto prova a snidare il governo sulla vicenda dell’imprenditore Arata

ANSA
Pubblicato il 19/04/2019 - Ultima modifica il 19/04/2019 alle ore 20:44

FABIO MARTINI
In una scena politica occupata completamente da Salvini e Di Maio, il leader del Pd Nicola Zingaretti esce dall’angolo con una doppia mossa significativa: chiede le elezioni anticipate e chiede al presidente del Consiglio di riferire sulla spinosa vicenda dalla presunta assunzione del figlio dell’imprenditore Arata da parte del sottosegretario della Lega Giancarlo Giorgetti. Zingaretti esce allo scoperto con una dichiarazione su Facebook: «Hanno portato il Paese nel pantano. Se non ce la fanno e litigano su tutto è meglio che vadano a casa e che si torni al voto dando la parola agli italiani. Basta con le ipocrisie e i giochi di palazzo”. Dichiarazione importante: Zingaretti vanta un rapporto stretto col Capo dello Stato e la sua presa di posizione, che comprende la possibilità di elezioni anche entro l’estate, evidentemente non è destinata a urtare il Quirinale. Ma le difficoltà nelle quali si trova la Lega paradossalmente allontanano lo scenario delle elezioni a giungo, quello che Salvini aveva accarezzato negli ultimi giorni.

Oltretutto in una nota attribuita a fonti del Pd, si attacca anche sul fianco più scoperto della Lega: “Dopo le recenti rivelazioni della stampa secondo la quale il figlio dell’imprenditore Arata, indagato insieme al sottosegretario Siri, sarebbe stato assunto recentemente dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giorgetti, il presidente Conte non può nascondersi e ha il dovere di presentarsi in Parlamento per chiarire una vicenda che getta inquietanti ombre sul Governo. Le ipotesi di indagine della Magistratura sono gravissime e impongono al Governo di fare chiarezza”.
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Da - https://www.lastampa.it/2019/04/19/italia/la-mossa-di-zingaretti-nella-partita-delle-elezioni-si-vada-subito-al-voto-2NIQARfiUwGSpiEPGNizsN/pagina.html