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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 125087 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Gennaio 18, 2017, 06:12:03 pm »

Effetto Gentiloni, tornano i ministri
Nel giro di due settimane i dicasteri sono tornati a parlare, a proporre e ad agire in prima persona. È la fine del “centralismo” renziano?

Pubblicato il 17/01/2017 -  Ultima modifica il 17/01/2017 alle ore 13:40
FABIO MARTINI

C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico nel nuovo governo: i ministri, soprattutto quelli competenti, sono tornati a parlare, a proporre, ad agire in prima persona. Col risultato che nel giro di due settimane sono venuti alla luce diversi piani operativi. Quello per i migranti, preparato (e spiegato) dal ministro dell’Interno Marco Minniti. Quello sui nuovi livelli di assistenza pubblica preparato (e spiegato) dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin. La nazionalizzazione del Monte dei Paschi di Siena seguirà le linee preparate dal ministero dell’Economia guidato da Pier Carlo Padoan. Il ministro delle Sviluppo Economico Carlo Calenda e quello delle Infrastrutture Graziano Delrio hanno tenuto “botta” ai tedeschi nella rovente polemica sulla questione delle emissioni delle auto Fca. 
    
Sembra un fenomeno scontato ma si tratta di una novità. Per quasi tre anni, sotto la guida di Matteo Renzi, ogni provvedimento era scandito da due imperativi: la “centralità” in termini di presenza e di immagine del presidente del Consiglio, la scansione temporale dei provvedimenti sulla base della loro comunicazione. La “centralità” del premier aveva finito per oscurare i propri ministri: tutti i principali provvedimenti settoriali – dal Jobs Act alle riforme istituzionali, da quelle dei diritti a quelle dell’ordine pubblico – finivano per identificarsi col presidente del Consiglio, che li presentava e rilanciava in conferenze stampa, slides, lanci sul web. 
 
Col nuovo governo, i singoli ministri sono tornati a “respirare”: il nuovo ministro dell’Interno Marco Minniti, che da molti anni si occupa prevalentemente di sicurezza, nel giro di pochi giorni ha prodotto un piano organico sulla questione migranti, mentre in termini di immagine, è stato lui, prima ancora del presidente del Consiglio, a “mettere la faccia” sulla brillante operazione di polizia che ha portato allo scontro a fuoco nel corso del quale è morto l’autore della strage di Berlino. Certo, un maggior protagonismo da parte dei ministri può avere il suo rovescio della medaglia, come dimostrano le dichiarazioni di alcuni ministri e infatti a palazzo Chigi non sono state apprezzate alcune sortite (non solo quella di Poletti sui giovani emigranti italiani), ma la maggior libertà è un prezzo da pagare per avere una squadra più motivata. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/17/italia/politica/effetto-gentiloni-tornano-i-ministri-q4s5g5kn3HKd4uvWTAuq1K/pagina.html
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« Risposta #151 inserito:: Gennaio 18, 2017, 10:43:35 pm »

Il patto con Gentiloni. E Renzi ora spinge per il reddito minimo
Mosse e tempi concordati con l’ex premier. “Pensiamo al presente”
Introducendo la riunione, Gentiloni ha pronunciato una frase significativa: «Decidiamo e raccontiamo quel che facciamo più che quel che faremo»

Pubblicato il 15/01/2017
Ultima modifica il 15/01/2017 alle ore 07:29
Fabio Martini
ROMA

Dal Policlinico Gemelli lo hanno dimesso alle 9,50, ha fatto una capatina a casa e poco prima di mezzogiorno Paolo Gentiloni si è presentato a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri. Una sequenza che intende essere eloquente e che comunque ha un valore simbolico: il presidente del Consiglio sta bene, si ricomincia come prima. Mentre passava dal cortile di palazzo Chigi al primo piano, un dettaglio fermato da una telecamera, racconta l’uomo Gentiloni: il presidente del Consiglio è solo, apre una porta e avvertendo con la coda dell’occhio una persona dietro di lui, ha rallentato e trattenuto la maniglia. Gesto minimo ma che indirettamente aiuta a spiegare l’accoglienza affettuosa che gli hanno riservato ministre e ministri al suo ingresso nel salone del Consiglio.

E, introducendo la riunione, Gentiloni ha pronunciato una frase significativa: «Decidiamo e raccontiamo quel che facciamo più che quel che faremo». Un’indicazione nel segno del pragmatismo da parte di chi vuol far bene, ma non sa quale sia l’orizzonte temporale del governo. L’ orizzonte sarà deciso, in base alle condizioni politiche, da Matteo Renzi, segretario del partito più forte del Parlamento. Tanto è vero che due giorni fa, quando Renzi è andato a trovare Gentiloni presso il Reparto di Cardiologia, i due hanno chiacchierato del futuro, trovandosi d’accordo sulle questioni essenziali. I due, effettivamente, hanno deciso di muoversi all’unisono. Come un tandem. Renzi ha bisogno di Gentiloni per realizzare quelle misure programmatiche che connotino il Pd in vista della campagna elettorale e Gentiloni ha bisogno di Renzi per svolgere il suo compito «con dignità», come dice lui. 

 L’ex presidente del Consiglio ha interpretato la sconfitta al referendum soprattutto come un segno di protesta da parte di alcune fasce sociali e geografiche (giovani, ceto medio impoverito, Sud) alle quali ora invece vuole parlare, vestendo i panni del leader che cerca di dare una risposta a quelle fasce di nuova emarginazione. Con provvedimenti eloquenti. Come il “reddito minimo garantito”, al quale stanno lavorando nell staff di Renzi. L’ex premier ha sempre escluso di poter caldeggiare il “reddito di cittadinanza”, che sta a cuore ai Cinque Stelle e che rappresenta controindicazioni significative: prevede un trasferimento universale e permanente a ogni individuo che rispetti requisiti minimi di appartenenza a una comunità, ma senza alcuna limitazione connessa alla condizione economica. Una misura che avrebbe un costo stratosferico (oltre 300 miliardi) ed è per questo motivo che al Pd stanno lavorando al “reddito minimo garantito”, che cioè sia in grado di assicurare a chiunque sia in età lavorativa un’integrazione che lo porti a un livello minimo accettabile. 

Naturalmente ciò che più sta a cuore a Renzi, è arrivare allo scioglimento anticipato delle Camere. Ma anche in questo caso c’è una novità: il segretario del Pd pubblicamente continuerà a tenere il punto - se non lo facesse la prospettiva si affloscerebbe - ma si sarebbe fatto meno tranchant: Renzi vuole la rivincita ma non a tutti i costi, non al costo di perdere un’altra volta. E comunque, avrebbe detto, entro febbraio si decide, in base alle trattative con i partiti. Prima di andare allo showdown delle elezioni anticipate, al Pd vogliono capire quale compromesso si potrà raggiungere con Berlusconi sulla legge elettorale, anche perché Renzi non vuole passare alla storia come il leader che riporta il proporzionale in Italia e al tempo stesso vuole uno strumento che gli consenta di governare e di incidere. Intanto il governo in carica, con provvedimenti su scuola e unioni civili, continua a marciare con un passo realizzativo “renziano” e Gentiloni, non avendo ricevuto veti da parte dei medici, ha deciso di confermare l’impegno a Berlino del 18, un bilaterale Germania-Italia con Angela Merkel.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/15/italia/politica/il-patto-con-gentiloni-e-renzi-ora-spinge-per-il-reddito-minimo-dq4UrqvJ7MUHVN678iWyaL/pagina.html
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« Risposta #152 inserito:: Gennaio 23, 2017, 11:12:23 am »

Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della classe media”
L’ex premier: “Brexit vince nei sobborghi, Trump nel Midwest, il populismo sfrutta le diseguaglianze. L’Europa mostri energia come quando ha imposto a Apple il pagamento della maxi-multa”


Pubblicato il 23/01/2017
FABIO MARTINI

È domenica pomeriggio e nella sua casa bolognese di via Gerusalemme Romano Prodi ha appena cominciato a dire la sua sulle prime esternazioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, «dichiarazioni che già segnalano una rottura senza precedenti nella storia americana», quando gli squilla il cellulare. La suoneria fa scattare un vigoroso Inno alla gioia di Beethoven (che è anche l’inno europeo) e il Professore sorride: «Eh sì, sono un vetero!».

Trump scommette sulla dissoluzione dell’Europa? 
«Se Trump ha pensato bene a quel che diceva in questi giorni - e sicuramente ci ha pensato - la sua scommessa è quella di spaccare ancora di più l’Europa. Nel suo attacco alla Germania come Paese dominatore in Europa, c’è la consapevolezza che quel Paese è il collante europeo. Ma c’è anche qualcosa di più. La Germania è sempre stata la prima della classe in Europa, ha sempre avuto un rapporto organico con gli Stati Uniti, è stata la prima ad applicare le sanzioni alla Russia, anche contro i propri interessi materiali immediati. In un rapporto nel quale la forza è stata determinata dalla fedeltà e anche viceversa». 
 
L’Europa per ora riflette... 
«Riflette? A me pare che l’Ue non abbia proprio reagito davanti a dichiarazioni di Trump che segnano una rivoluzione nei rapporti con l’Ue. L’Europa è per ora inesistente. Mi meraviglia che nessuno abbia avvertito l’urgenza di un vertice straordinario. Penso invece che occorra reagire in fretta. Anzitutto organizzando un “contropiede” sulle sanzioni alla Russia...». 
 
Contropiede in che senso? 
«Nel senso che occorre togliere immediatamente le sanzioni alla Russia. Di questo sono fortemente convinto. Puoi sacrificarti per politiche solidali ma se la solidarietà non c’è più, non ha senso perseverare. La saggezza di un proverbio calabrese dice: chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Giochiamo d’anticipo, senza lasciare agli Stati Uniti un ruolo privilegiato nei rapporti con la Russia».
 
Di difesa comune europea si parla da anni, un passettino alla volta, Ma sembra una chimera... 
«E invece su questo terreno bisognerà verificare se dalle parole si passerà ai fatti. Ma se Trump dovesse confermare la sua linea sulla Nato, occorre preparare subito un progetto comune di difesa europea. Tra l’altro in questo frangente non occorrerebbe, in una prima fase, neppure accrescere le spese perché si possono ottenere risultati importanti, unificando risorse comuni sotto un solo comando».
 
Perché la Germania finora non ha reagito agli affondi di Trump? 
«Mi sentirei di proporre, più che un sospetto, un dubbio. Ragionando su quel che leggo, le ripetute interviste di accreditati esponenti tedeschi, filtra l’idea che possa essere la Germania a voler abbandonare l’euro. Comincia a nascere in me il dubbio che la Germania si tenga una strategia di riserva: fare da sola». 
 
Nella vittoria di Trump c’è anche una risposta alle diseguaglianze che colpiscono la classe media americana: una «sensibilità» più progressista che liberista? 
«Trump, ma anche il populismo europeo, interpretano il malessere della classe media, ma anche operaia. Guardi che è un fenomeno chiarissimo: la Brexit vince nei sobborghi popolari e non a Londra; Trump nel Mid West, certo non a New York o in California. E il Movimento Cinque Stelle? Vince nelle borgate romane, non ai Parioli! In questi anni si è salvata soltanto la parte medio-alta, mentre è aumentata la distanza tra ricchi e poveri. Il recente rapporto dell’Oxfam è un richiamo impressionante quando dice che otto Paperoni hanno lo stesso livello di ricchezza di 3 miliardi e mezzo di persone. Cosa aspettiamo a reagire? Aspettiamo la rivoluzione? Non è meglio cercare la giustizia prima che avvenga la rivoluzione?».
 
La sinistra per ora assiste e perde posizioni: come reagire? 
«Anzitutto cercando di capire che cosa accade. Trump si è impadronito di questo malessere, pur appartenendo - lui e i suoi principali collaboratori - alla parte privilegiata della società americana. Il malessere è tale che basta la denuncia, anzi la denuncia più è “nuda” e meglio è. Se la denuncia ha radici ideologiche non funziona. Marine Le Pen si afferma quando “uccidendo” il padre e le radici ideologiche, riesce a parlare alla borghesia frustrata ma anche agli operai di Marsiglia. Lo stesso vale per i Cinque Stelle: né di destra né di sinistra. Mentre la Lega, che ha mantenuto una radice ideologica, ha messo limiti alla sua protesta. E sarebbe difficile capire il successo di Trump tra gli evangelici estremisti così come tra i cattolici praticanti: c’è una grande paura che va interpretata». 
 

Si può tornare al Welfare degli Anni Cinquanta e Sessanta? 
«Serve un riformismo attivo: il lavoro è poco mobile, il capitale scappa e i vecchi schemi faticano a riequilibrare. Quando eravamo ragazzi, il tema era: più tasse o più Welfare? Da 35 anni in qua è restata in campo solo la ricetta del meno tasse e la sinistra ha rincorso».
 
Concretamente parlando? 
«Un esempio. La Commissione europea ha avuto un momento di gloria quando ha imposto alla Apple di pagare all’Irlanda una multa per 13 miliardi di euro di tasse non pagate. Verrebbe da dire: bene. Ma si andrà sino in fondo? La Apple ha 250 miliardi di dollari di liquido...».
 
E se parte una stagione protezionista? 
«Se prendiamo alla lettera ciò che dice Trump l’effetto sarà disastroso. Ma impostare una politica puramente protezionistica come quella nei confronti della Cina è ragionare con una logica irrealistica, del tipo: stai fermo che ora ti picchio! Tutti reagirebbero. Penso e spero che Trump, alla prova dei fatti, sarà più prudente». 
 
Qualcuno ha letto le sue dichiarazioni sull’Ulivo come un ritorno in campo... 
«Questa possibilità non esiste assolutamente. Ma in un mondo pieno di crepe l’Ulivo può tornare a essere un elemento di coesione politica e sociale».
 
In questa stagione così emotiva, l’Italia può giovarsi di un capo del governo che è un personaggio antiretorico e freddo? 
«Non è freddo. È calmo. Per questo nel mio governo, con Gentiloni abbiamo lavorato bene assieme. Ho grande fiducia in lui».

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« Risposta #153 inserito:: Gennaio 24, 2017, 06:21:56 pm »

Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della classe media”
L’ex premier: “Brexit vince nei sobborghi, Trump nel Midwest, il populismo sfrutta le diseguaglianze.
L’Europa mostri energia come quando ha imposto a Apple il pagamento della maxi-multa”
Pubblicato il 23/01/2017

FABIO MARTINI

È domenica pomeriggio e nella sua casa bolognese di via Gerusalemme Romano Prodi ha appena cominciato a dire la sua sulle prime esternazioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, «dichiarazioni che già segnalano una rottura senza precedenti nella storia americana», quando gli squilla il cellulare. La suoneria fa scattare un vigoroso Inno alla gioia di Beethoven (che è anche l’inno europeo) e il Professore sorride: «Eh sì, sono un vetero!».

Trump scommette sulla dissoluzione dell’Europa? 
«Se Trump ha pensato bene a quel che diceva in questi giorni - e sicuramente ci ha pensato - la sua scommessa è quella di spaccare ancora di più l’Europa. Nel suo attacco alla Germania come Paese dominatore in Europa, c’è la consapevolezza che quel Paese è il collante europeo. Ma c’è anche qualcosa di più. La Germania è sempre stata la prima della classe in Europa, ha sempre avuto un rapporto organico con gli Stati Uniti, è stata la prima ad applicare le sanzioni alla Russia, anche contro i propri interessi materiali immediati. In un rapporto nel quale la forza è stata determinata dalla fedeltà e anche viceversa». 
 
L’Europa per ora riflette... 
«Riflette? A me pare che l’Ue non abbia proprio reagito davanti a dichiarazioni di Trump che segnano una rivoluzione nei rapporti con l’Ue. L’Europa è per ora inesistente. Mi meraviglia che nessuno abbia avvertito l’urgenza di un vertice straordinario. Penso invece che occorra reagire in fretta. Anzitutto organizzando un “contropiede” sulle sanzioni alla Russia...». 
 
Contropiede in che senso? 
«Nel senso che occorre togliere immediatamente le sanzioni alla Russia. Di questo sono fortemente convinto. Puoi sacrificarti per politiche solidali ma se la solidarietà non c’è più, non ha senso perseverare. La saggezza di un proverbio calabrese dice: chi pecora si fa, il lupo se lo mangia. Giochiamo d’anticipo, senza lasciare agli Stati Uniti un ruolo privilegiato nei rapporti con la Russia».
 
Di difesa comune europea si parla da anni, un passettino alla volta, Ma sembra una chimera... 
«E invece su questo terreno bisognerà verificare se dalle parole si passerà ai fatti. Ma se Trump dovesse confermare la sua linea sulla Nato, occorre preparare subito un progetto comune di difesa europea. Tra l’altro in questo frangente non occorrerebbe, in una prima fase, neppure accrescere le spese perché si possono ottenere risultati importanti, unificando risorse comuni sotto un solo comando».
 
Perché la Germania finora non ha reagito agli affondi di Trump? 
«Mi sentirei di proporre, più che un sospetto, un dubbio. Ragionando su quel che leggo, le ripetute interviste di accreditati esponenti tedeschi, filtra l’idea che possa essere la Germania a voler abbandonare l’euro. Comincia a nascere in me il dubbio che la Germania si tenga una strategia di riserva: fare da sola». 
 
Nella vittoria di Trump c’è anche una risposta alle diseguaglianze che colpiscono la classe media americana: una «sensibilità» più progressista che liberista? 
«Trump, ma anche il populismo europeo, interpretano il malessere della classe media, ma anche operaia. Guardi che è un fenomeno chiarissimo: la Brexit vince nei sobborghi popolari e non a Londra; Trump nel Mid West, certo non a New York o in California. E il Movimento Cinque Stelle? Vince nelle borgate romane, non ai Parioli! In questi anni si è salvata soltanto la parte medio-alta, mentre è aumentata la distanza tra ricchi e poveri. Il recente rapporto dell’Oxfam è un richiamo impressionante quando dice che otto Paperoni hanno lo stesso livello di ricchezza di 3 miliardi e mezzo di persone. Cosa aspettiamo a reagire? Aspettiamo la rivoluzione? Non è meglio cercare la giustizia prima che avvenga la rivoluzione?».
 
La sinistra per ora assiste e perde posizioni: come reagire? 
«Anzitutto cercando di capire che cosa accade. Trump si è impadronito di questo malessere, pur appartenendo - lui e i suoi principali collaboratori - alla parte privilegiata della società americana. Il malessere è tale che basta la denuncia, anzi la denuncia più è “nuda” e meglio è. Se la denuncia ha radici ideologiche non funziona. Marine Le Pen si afferma quando “uccidendo” il padre e le radici ideologiche, riesce a parlare alla borghesia frustrata ma anche agli operai di Marsiglia. Lo stesso vale per i Cinque Stelle: né di destra né di sinistra. Mentre la Lega, che ha mantenuto una radice ideologica, ha messo limiti alla sua protesta. E sarebbe difficile capire il successo di Trump tra gli evangelici estremisti così come tra i cattolici praticanti: c’è una grande paura che va interpretata». 
 

Si può tornare al Welfare degli Anni Cinquanta e Sessanta? 
«Serve un riformismo attivo: il lavoro è poco mobile, il capitale scappa e i vecchi schemi faticano a riequilibrare. Quando eravamo ragazzi, il tema era: più tasse o più Welfare? Da 35 anni in qua è restata in campo solo la ricetta del meno tasse e la sinistra ha rincorso».
 
Concretamente parlando? 
«Un esempio. La Commissione europea ha avuto un momento di gloria quando ha imposto alla Apple di pagare all’Irlanda una multa per 13 miliardi di euro di tasse non pagate. Verrebbe da dire: bene. Ma si andrà sino in fondo? La Apple ha 250 miliardi di dollari di liquido...».
 
E se parte una stagione protezionista? 
«Se prendiamo alla lettera ciò che dice Trump l’effetto sarà disastroso. Ma impostare una politica puramente protezionistica come quella nei confronti della Cina è ragionare con una logica irrealistica, del tipo: stai fermo che ora ti picchio! Tutti reagirebbero. Penso e spero che Trump, alla prova dei fatti, sarà più prudente». 
 
Qualcuno ha letto le sue dichiarazioni sull’Ulivo come un ritorno in campo... 
«Questa possibilità non esiste assolutamente. Ma in un mondo pieno di crepe l’Ulivo può tornare a essere un elemento di coesione politica e sociale».
 
In questa stagione così emotiva, l’Italia può giovarsi di un capo del governo che è un personaggio antiretorico e freddo? 
«Non è freddo. È calmo. Per questo nel mio governo, con Gentiloni abbiamo lavorato bene assieme. Ho grande fiducia in lui».

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« Risposta #154 inserito:: Gennaio 26, 2017, 12:22:05 pm »

Renzi e il piano per il voto: “Niente ostacoli alle urne, ma Gentiloni va coinvolto”
Il segretario Pd pensa a un listone con Pisapia e Alfano
Il segretario del Pd è pronto per il voto, ma «senza fretta». Vorrebbe un passaggio parlamentare che certifichi l’impossibilità di accordi in Parlamento per poi andare alle urne in estate

Pubblicato il 26/01/2017
Fabio Martini
Roma

È euforico, di nuovo su di giri. Come nei giorni in cui era il padrone della politica italiana. Certo, una volta Matteo Renzi sarebbe apparso in tv a raccontare a tutti la sua versione dei fatti, ma per ora la «cura» del silenzio continua. Il segretario del Pd ovviamente ha parlato a lungo con i suoi amici e nel pomeriggio, una volta letto il comunicato della Corte Costituzionale, Renzi ha esclamato: «Ragazzi, ma questo è un trionfo!». Nella sua lettura, la Consulta non ha toccato il cuore dell’Italicum e ha «soltanto» cancellato il ballottaggio: «Ma quale Legalicum!», commentava ieri sera un Renzi talmente affezionato al suo «Italicum», che l’ex premier ora accarezza la tentazione di utilizzarlo per andare ad elezioni anticipate. Quando? «Calma e gesso», confidava ieri sera l’ex premier, perché non si può cavalcare la questione elettorale con le tragedie ancora in corso. Dunque, escluso il voto subito, in primavera, ma da ieri al Nazareno l’11 giugno è considerato più vicino. Quella che Renzi ha messo in cantiere è una «escalation soft». 

Il suo disegno, tracciato a caldo dopo la sentenza della Consulta, si dipana in tre mosse. Primo: mettere la sordina alla corsa al voto. «Non facciamoci prendere dalla fretta», dice Renzi, perché a suo avviso sarebbe un errore madornale dare l’impressione al Paese di guardare a questioni di bottega, mentre è ancora forte l’emozione collettiva per i morti d’Abruzzo. E infatti, ieri pomeriggio, un renziano doc come Francesco Bonifazi è stato costretto proprio da Renzi a cancellare in un baleno un tweet considerato troppo «oltranzista». Poco dopo la diffusione del comunicato della Consulta. Bonifazi aveva scritto: «E adesso non ci sono più alibi. Votiamo e vediamo chi ha i numeri nel Paese». Fuori mood: bocciato.

 La seconda mossa del piano Renzi prevede l’approdo in Parlamento, nel giro di qualche settimana, dei progetti di riforma elettorale, col Pd che spingerà per il ripristino del Mattarellum, la legge maggioritaria con i collegi. In quel frangente il Pd prenderà atto quel che è noto da settimane: una maggioranza per far passare una riedizione del Mattarellum non esiste. E a quel punto scatterebbe il terzo tempo del piano: il Pd proverà ad armonizzare il Consultellum-1 (la legge per il Senato, ricavata da una vecchia sentenza della Consulta) e il Consultellum-2, la legge elettorale per la Camera ricavata dalla pronuncia di ieri della Corte Costituzionale. Se anche questo tentativo fallisse per le divisioni tra i partiti, a quel punto si aprirebbero le porte ad una scenario del quale Renzi ragionava ad alta voce: «L’attuale normativa per il Senato, che prevede una soglia all’8% per le coalizioni, ha un forte effetto maggioritario». E dunque, ma questo Renzi non lo dice neppure in «casa», non resterebbe che votare con i due «Consutelli». E aggiunge: «Una soluzione che piace a Forza Italia...».

 

LEGGI ANCHE - Ma le urne non sono scontate 

 

A quel punto bisognerebbe preparare le truppe «ritagliate» su due leggi di impianto proporzionale. Ragionava ieri Renzi: «Poiché si va verso una legge con quell’impianto lì e poiché alla Camera bisognerà presentare una lista coalizionale», già nelle prossime ore si intensificheranno i contatti con la «lista Pisapia» e con i centristi raccolti attorno ad Angelino Alfano. Con loro Renzi si misurerà anche in Primarie di coalizione? Questione ancora non decisa, ma intanto nelle segrete stanze già si discetta su quanti capolista bloccati (salvati dalla Consulta) si possano assegnare alle tre forze nel futuro «Listone». Mentre Lorenzo Guerini sta già preparando le liste del Pd ieri sera circolava la prima stima della lista coalizionale il 75% dei bloccati al Pd e il restante 25% diviso tra le due ali. 

Certo, per uno show down, restano molti problemi che Renzi conosce bene: l’ostilità dentro al Pd di una area - più larga della minoranza - alle elezioni anticipate. Ma anche la difficoltà a «sfiduciare» un governo guidato da un esponente del Pd, Paolo Gentiloni che ha approvato provvedimenti importanti, che sta operando senza intoppi e che sta dimostrando la massima lealtà verso Renzi. L’ex premier, pur restando diffidente per natura verso tutto e tutti, ieri sera confidava che in vista di uno scioglimento anticipato delle Camere serve un’operazione corale, «dal presidente del Consiglio fino a tutti gli esponenti della maggioranza del partito». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/26/italia/politica/renzi-e-il-piano-per-il-voto-niente-ostacoli-alle-urne-ma-gentiloni-va-coinvolto-vaRaNjWKI4ALLC3tZcTBVM/pagina.html
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« Risposta #155 inserito:: Gennaio 29, 2017, 08:52:00 pm »


La linea di Gentiloni: “Avanti con dignità, ma niente barricate”
Il premier non brigherà per arrivare al 2018
Al netto delle dietrologie, Gentiloni e Renzi si parlano, si scambiano informazioni, continuano a collaborare senza apparenti riserve

Pubblicato il 27/01/2017 - Ultima modifica il 27/01/2017 alle ore 10:13

Fabio Martini
Roma

Nel suo studio al piano nobile di Palazzo Chigi Paolo Gentiloni non sgualcisce il suo aplomb neppure davanti all’accelerazione verso le elezioni impressa dalla Consulta. Dice il presidente del Consiglio: «Il lavoro da fare non manca, continueremo a farlo come se non avessimo una scadenza a breve termine, ma è del tutto pacifico che non sono io a decidere la durata del governo, perché ci rimetteremo alle decisioni del Parlamento, qualunque esse siano». E dunque, decide la maggioranza. Come sempre, nella storia della Repubblica. Con la differenza che stavolta il presidente del Consiglio non intende muover foglia per poter restare. Una novità non da poco.

Ma un eventuale scioglimento anticipato delle Camere, da 48 ore lo scenario più probabile, non sarà una passeggiata. E poiché si passerà comunque attraverso quattro sponde, Pd-governo-Parlamento-Quirinale, a Palazzo Chigi escludono «qualsiasi coinvolgimento» dell’esecutivo nella «cottura» della nuova legge elettorale, anche se nessuno può scartare la necessità di una futura tessitura tra presidente del Consiglio e Capo dello Stato nel momento in cui si dovesse arrivare al «dunque». Ma intanto il primo messaggio, sia pure indiretto, il governo lo ha già dato: in queste ore i ministri si sono tenuti a distanza dalla questione-elezioni, a conferma che nella partita politica che sta per aprirsi - soprattutto fuori il Parlamento - l’esecutivo intende restar fuori.

LEGGI ANCHE - “Alle urne l’11 giugno”. Renzi blinda le liste Pd e spaventa i bersaniani 

E d’altra parte Matteo Renzi - al di là della sua naturale sospettosità verso tutti, sa che Paolo Gentiloni rispetterà il patto che lo ha portato a palazzo Chigi, sa che il presidente del Consiglio non brigherà per restare, sa che non cercherà assi o intese sotterranee a dispetto del leader del Pd. Nelle ore decisive della scelta del suo successore a Palazzo Chigi, Renzi preferì Gentiloni ad altri (Padoan, Delrio) per una ragione per lui decisiva: la certezza di trovarlo leale nel momento della stretta decisiva, quando si valuterà se si debbano sciogliere o meno le Camere.

 
Certo, quel che conta sono i comportamenti pubblici, mentre quel che i due amici pensano nella sfera più intima per il momento sembra aver una scarsa incidenza. Si racconta che Renzi resti diffidente nei confronti di ogni espressione che esca da esponenti del governo e che il segretario del Pd tende ad interpretare come volontà di far proseguire l’attività dell’esecutivo. Al netto delle dietrologie, i due si parlano, si scambiano informazioni e continuano a collaborare senza apparenti riserve. 

Per parte sua Gentiloni ha deciso di vivere l’inattesa stagione a palazzo Chigi, come dice lui, col massimo della «dignità» possibile. Nella cura nella preparazione dei provvedimenti e nello stile di governo. Nell’ultimo Consiglio dei ministri, i suoi colleghi sono rimasti spiazzati quando ha chiesto a tutti cosa pensassero su una misura che riguardava la scuola elementare. Collegialità ma anche valorizzazione delle competenze di ognuno, una discontinuità forte rispetto a Renzi. 

Dopo i piani operativi emersi nelle scorse settimane (migranti, nuovi livelli di assistenza pubblica), i decreti (Mps, Abruzzo), il presidente del Consiglio sta preparando nuove carte e nuovi dossier. Di nuovo banche, di nuovo confronto con l’Europa («di correzione alla manovra non si parla, semmai possiamo toccare il Def»), forse un decreto-bis sul terremoto. E quel reddito di inclusione che sarà la prima impronta tutta del nuovo governo. 

Ma c’è un altro fronte sul quale Gentiloni sta segnando una discontinuità rispetto al precedente governo: nei rapporti con le personalità più rilevanti della stagione dell’Ulivo. Giorni fa si è incontrato con Romano Prodi e con una certa frequenza si parla con Arturo Parisi che di quella esperienza politica è stato l’«ideologo». Oggi Gentiloni sarà a Madrid dove incontrerà il primo ministro spagnolo Rajoy, mentre domani parteciperà al vertice dei Paesi mediterranei nel segno dell’anti-austerity, promotore il primo ministro greco Alexis Tsipras.

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« Risposta #156 inserito:: Febbraio 01, 2017, 08:34:42 pm »


Gentiloni decide: niente tasse ma sì a una mini-correzione
Stasera il governo invierà la lettera attesa dall’Ue, senza risposte puntuali. Renzi si lamenta dell’atteggiamento “poco tosto” del ministro dell’Economia
Il leader del Pd, Matteo Renzi con il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni

Pubblicato il 31/01/2017 - Ultima modifica il 31/01/2017 alle ore 09:08
Fabio Martini
Roma

Non è una di quella lettere che si scrivono di getto, belle pulite, senza neppure una correzione. L’epistola che questa sera il governo italiano invierà alla Commissione europea in risposta alla richiesta di una correzione di bilancio, sarà emendata fino all’ultimo minuto, anche se ieri pomeriggio il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ne hanno deciso il senso politico: a Bruxelles si farà capire che il governo italiano non intende fare manovre correttive; che per coprire lo sbilancio denunciato da Bruxelles (circa 3,4 miliardi) non saranno decise nuove tasse e dunque - ecco il senso - la trattativa con la Commissione continua. In altre parole nella lettera non saranno contenute risposte puntuali e dettagliate ai rilievi e soltanto al termine di un’ulteriore istruttoria - ma questo non sarà contenuto nel testo della lettera - si immagina una possibile convergenza. 

E qui sta il punto politico: Gentiloni e Padoan (ma anche Renzi) hanno scartato lo scenario dello scontro frontale, quello che immaginava le eventuali sanzioni di Bruxelles come un’arma da utilizzare in campagna elettorale. Dunque si va verso una mini-correzione, del valore ancora indefinito: anziché lo 0,2%, si scenderà all’0,1%? O ancora più in basso? In questi casi il governo dovrà limare spese per una somma tra il miliardo e il miliardo e mezzo.

Cifre simboliche, ma esattamente simbolico è il senso della trattativa in corso tra Roma e Bruxelles: alla Commissione europea stavolta non hanno intenzione di darla vinta al governo italiano e dunque se la resistenza dovesse proseguire, scatterebbe la procedura di infrazione con relative sanzioni. Gentiloni e Padoan lo hanno capito, non intendono subire la procedura e per questo hanno deciso di andare incontro a Bruxelles. Ovviamente cercando di spuntare lo “sconto” maggiore possibile. 

In questi giorni si è molto ricamato sulle pressioni di Matteo Renzi sul duo Gentiloni-Padaon. Al segretario del Pd sono state attribuite posizioni oltranziste, favorevoli ad una rottura con Bruxelles, in modo da rendere più credibile un’eventuale contesa elettorale giocata in chiave anti-Bruxelles. Ma Renzi, nel suo discorso di rientro in campo dopo 50 giorni di silenzio, ha totalmente glissato su tutte le questioni politiche più rilevanti, compresa la risposta da dare a Bruxelles. Da quel che si sa Renzi si è lamentato per un atteggiamento non sufficientemente “tosto” da parte del ministro dell’Economia, ma in fin dei conti ha condiviso con i suoi amici Paolo e Pier Carlo la decisione politica fondamentale: quella di non tirare la corda con la Commissione europea. Anche perché stavolta, a differenza che in passato, a rompere la corda sarebbe Bruxelles.

Ma Renzi resta e vuol restare nella cabina di regia. Oggi si vedrà con Padoan, l’occasione per dare qualche indicazione e proprio ieri, dopo una lunga astinenza, il leader del Pd è tornato a scrivere sul nuovo blog e non sono stati casuali i suoi riferimenti a questioni tributarie: «Se dopo le elezioni torneremo al Governo dovremo riprendere il ragionamento dall’Irpef e non solo da quella. L’ultima volta che è aumentata l’Iva era il settembre 2013, prima del nostro arrivo: quella volta lì ricordatevela bene perché deve restare l’ultima». Un modo per stare sulla palla ma al tempo stesso, dicendo «se torneremo...», l’indiretta conferma che quello in carica è considerato alla stregua di un “governo amico”. Come i democristiani definivano gli esecutivi guidati da uno di loro, ma ai quali la fiducia era concessa con molte “riserve”.

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« Risposta #157 inserito:: Febbraio 03, 2017, 08:32:49 pm »

L’Ulivo: ieri tradito, oggi rimpianto
In questi giorni viene ricordata come una sorta di “età dell’oro” della sinistra italiana, ma quando l’Ulivo era in campo, tra il 1995 e il 2008, quasi tutti i leader provenienti dal Pci minarono quella proposta politica

Pubblicato il 02/02/2017 - Ultima modifica il 02/02/2017 alle ore 10:20

FABIO MARTINI

L’Ulivo? Sembra essere diventata una sorta di ”età dell’oro”. Soprattutto per Pier Luigi Bersani, già ministro nei due governi Prodi, ma anche esponente di punta di quella corrente politico-culturale che viene dal Pci e che ha dato vita a partiti in continuità con quella tradizione, il Pds e i Ds. Da qualche settimana è tutto un fiorire di nostalgie evocative: «Serve un nuovo Prodi», «Se Renzi va alle elezioni, nasce un nuovo Ulivo». Ora è un’esperienza rimpianta, ma quando l’Ulivo era in campo, tra il 1995 e il 2008, quasi tutti i leader “comunisti” minarono quella proposta politica. Nel 1998, dopo che Rifondazione ebbe ritirato il suo appoggio al primo governo Prodi, l’ex Capo dello Stato Francesco Cossiga offrì il proprio appoggio a quella esperienza a patto che si “sciogliesse” l’Ulivo: Romano Prodi e Arturo Parisi dissero no, Massimo D’Alema (nuovo presidente del Consiglio), Walter Veltroni (ex vice-premier col Professore e diventato segretario Ds) e Pier Luigi Bersani (confermato ministro) dissero sì. Nella stagione che inizia nel 2005, col ritorno di Prodi in Italia dopo aver guidato la Commissione europea, l’Ulivo segna due passi avanti: nasce il Pd e la nuova leadership di verso Palazzo Chigi di Prodi viene investita con Primarie di coalizione.

Quando, nel 2008, il governo Prodi deve subire di nuovo la sfiducia di Rifondazione comunista, il Pd guidato da Walter Veltroni, anziché contrastare duramente quella manovra che porta alla caduta del governo, stipula con i comunisti un patto di non belligeranza in vista delle successive elezioni anticipate. E nel 2013, quando si tratta di eleggere il nuovo Capo dello Stato, Romano Prodi è in Africa per una missione Onu e finisce per ritrovarsi improvvisamente candidato alla presidenza della Repubblica, ma in un contesto del tutto casuale, stritolato in una guerra sorda tra i due principali notabili: Bersani (forte di un buon rapporto personale) lo candida dalla sera alla mattina e D’Alema che apertamente osteggia il Professore. Il resto è storia più recente: quando Giorgio Napolitano (nel frattempo riconfermato Capo dello Stato) si dimette nel gennaio 2015, il segretario del Pd Matteo Renzi decide di tagliar fuori Forza Italia e il centro-destra e potendo candidare un esponente della propria parte, non chiede la disponibilità a Romano Prodi, troppo “ingombrante”. E anche Renzi ogni tanto citerà la stagione dell’Ulivo. Nei momenti di difficoltà. Esattamente come gli ex comunisti. 

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« Risposta #158 inserito:: Febbraio 03, 2017, 08:36:51 pm »

Elezioni 2017, sarà la sfida delle “coalizioni-bonsai”
Se la nuova legge elettorale ricavata dalla bocciatura da parte della Consulta dell’Italicum, subirà modifiche di piccola entità, si rischia un risultato simile a quello del 2013, con M5S, Pd e centro-destra al 30 per cento

Pubblicato il 01/02/2017 - Ultima modifica il 01/02/2017 alle ore 09:42

Fabio Martini

Le elezioni anticipate, da tenersi nel prossimo giugno, sembrano più vicine ma sembra avvicinarsi un risultato elettorale “nullo”, quantomeno molto simile a quello del 2013, che aveva “regalato” una legislatura senza una maggioranza chiara. Al momento, secondo tutti i sondaggi, nessuno escluso, si fronteggiano tre forze equivalenti, tre “coalizioni” attorno al 30 per cento, nessuna delle quale al momento pare in grado di svettare. Pd e piccoli alleati, centro-destra e Cinque Stelle rappresentano al momento tre blocchi-bonsai. 

Se, come pare probabile, la nuova legge elettorale ricavata dalla bocciatura da parte della Consulta dell’Italicum, subirà modifiche di piccola entità – al massimo la possibilità di coalizzarsi – nessun incentivo sarà in grado di far lievitare le forze in campo. Incognite ma anche prospettive di crescita riguardano tutti e tre i blocchi. Dentro al Pd sembra profilarsi una lacerazione all’interno del gruppo dirigente e naturalmente l’entità di una eventuale scissione si potrà misurare sulla base delle personalità interessate: se oltre a Massimo D’Alema dovesse unirsi anche l’ex segretario Pier Luigi Bersani, allora l’ipotesi di una forza del 5-8% finirebbe per incidere sul risultato finale del Pd, col rischio di collocare il partito di Renzi al terzo posto nella “classifica” post-elettorale. 

Il centro-destra, pur presentando liste diverse, finirà per coalizzarsi? A quel punto – dicono tutti i sondaggi – il 30% non sarebbe una chimera e anche il secondo posto. I Cinque Stelle? Per ora la poco brillante prova alla guida della Capitale non sembra averne fiaccato la spinta, ma sarà così anche davanti alla possibilità di un processo alla sindaca di Roma? Incognite e chances che sembrano indicare una sola certezza: elezioni ravvicinate non consegneranno un vincitore chiaro.

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« Risposta #159 inserito:: Febbraio 13, 2017, 12:38:47 pm »

Renzi e il referendum: agli italiani piacevano le singole riforme, non chi le ha proposte
Indagine Itanes: ciascuno dei provvedimenti aveva consenso maggioritario, ma la personalizzazione voluta dal premier non ha giovato ai risultati
Pubblicato il 11/02/2017 - Ultima modifica il 11/02/2017 alle ore 11:44
Fabio Martini

Era un legittimo sospetto, ora c’è la «prova»: agli elettori i singoli aspetti della riforma costituzionale piacevano tutti, nessuno escluso, in particolare la riduzione dei senatori convinceva il 71,3% degli italiani, eppure una volta chiamati ad esprimersi sull’intero «pacchetto-Renzi» quel giudizio si è clamorosamente rovesciato e il 4 dicembre il No ha nettamente vinto. È uno dei tanti dati che emergono da un’indagine Itanes, l’istituto che da dieci anni produce le ricerche più fondate sugli orientamenti politici degli italiani, perché basate non su sondaggi settimanali, ma su un campione costante di tremila persone, interpellate periodicamente.

La ricerca, presentata dal presidente dell’Itanes Paolo Bellucci ad un convegno sul referendum costituzionale che si è svolto nel Rettorato della Sapienza, offre diversi spunti interessanti anche se il più significativo resta la dimostrazione della distanza tra il gradimento per le singole riforme e il giudizio sul complesso dei provvedimenti. Le principali riforme istituzionali incontravano il favore maggioritario degli interpellati: la riduzione dei senatori del 71,3% degli interpellati, l’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi del 58,3%, l’abolizione del bicameralismo paritario del 52,3%, il contestatissimo Italicum del 52, 7%. Ma poi alla domanda quale fosse il «giudizio complessivo» su queste riforme, soltanto il 39,4% ha dato una risposta positiva. 

Come è stato possibile? «Se il referendum convince ma non vince, come è stato osservato nel convegno – spiega il professor Bellucci – è perché nelle due modalità di ragionamento del nostro cervello, quello sistematico-razionale e quello più periferico, secondo scorciatoie euristiche, ispirate alle circostanze, ebbene, stavolta ha prevalso questa seconda opzione». 

Una ricerca che dovrebbe suggerire qualche riflessione sull’utilità di sfidare nuovamente, a breve termine e con le stesse armi, un sentimento collettivo così sfuggente.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/11/italia/politica/renzi-e-il-referendum-agli-italiani-piacevano-le-singole-riforme-non-chi-le-ha-proposte-p19oNjvT9UlqJlbdixPNcP/pagina.html
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« Risposta #160 inserito:: Febbraio 14, 2017, 05:32:35 pm »


Patto con Franceschini, Renzi vince Congresso subito e voto dopo l’estate
Sfida in Direzione, passa la linea del segretario. L’accordo: niente elezioni a giugno
Un Matteo Renzi un po’ diverso dal solito, ieri alla direzione Pd: è riuscito ad ottenere ciò che più desiderava (Primarie entro due mesi), ma senza strappare in modo plateale con i suoi agguerriti avversari interni

Pubblicato il 14/02/2017
Fabio Martini
Roma

E alla fine dopo tanta attesa (mediatica), si è materializzato un Matteo Renzi un po’ diverso dal solito: l'ex premier è riuscito ad ottenere ciò che più desiderava (Primarie entro aprile), ma senza strappare in modo plateale con i suoi agguerriti avversari interni, per esempio evitando di stuzzicarli con nomignoli irrisori. Una piccola prova di stile che in realtà preannuncia un cruento duello dialettico sulla possibile scissione della minoranza. La Direzione del Pd era chiamata a decidere su due questioni: da una parte modalità e data del congresso del partito, dall’altra durata della legislatura e dunque del governo. Al termine di una riunione svolta in un clima teso ma senza cadute di stile da tutte le parti, Matteo Renzi è riuscito a far passare (con 107 voti a favore e 12 contrari) un documento che, attraverso vari passaggi vari statutari, apre la strada ad un congresso del Pd che culminerà nella sfida finale delle Primarie, quasi certamente il 30 aprile. Fa parte invece delle intese raggiunte dietro le quinte (col ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini), l’altra decisione strategica: quella di rinunciare all’ipotesi di elezioni anticipate a giugno. 

LEGGI ANCHE - Orlando: “Attento Matteo andando avanti così rischi l’incidente frontale” 

L’accordo dentro la maggioranza del Pd è che si andrà a votare comunque dopo l’estate: in autunno se sarà conveniente per il Pd o più probabilmente a scadenza naturale, nel febbraio del 2018. Renzi, come è naturale, ha tenuto coperto il patto con Franceschini e in direzione ha detto: «Se si voterà a giugno, a settembre o a febbraio non riguarda l’essenza del Pd». Ma quel che stava più a cuore a Renzi era riuscire a far partire l’iter per la convocazione di un congresso che, salvo colpi di scena, dovrebbe rieleggerlo leader del Pd per altri quattro anni, restituendogli il controllo pieno della “macchina del partito”. Ma proprio questo probabile ritorno di un Renzi con pieni poteri è destinato ad accelerare una decisione sulla permanenza del Pd da parte dei due personaggi che incarnano l’anima “post-comunista”, Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani. L’ex segretario, alla domanda se fosse probabile una scissione, ha risposto con un enigmatico: «Vedremo...». 

 LEGGI ANCHE - L’ultimo azzardo del leader 

Formalmente la decisione di convocare in tempi accelerati il congresso spetta a fine settimana all’Assemblea nazionale del Pd, davanti alla quale Matteo Renzi si presenterà dimissionario, altra questione pacifica sebbene si sia molto ricamato su questa opzione. Ma nella discussione dei prossimi giorni e mesi peserà molto il dibattito che si è svolto ieri nella direzione, che era stata convocata fuori sede. Matteo Renzi aveva aperto le danze, provando a volare alto: sia nella ribadita autocritica per il risultato negativo del 4 dicembre («parlano di rivincita ma il referendum era una finale secca e purtroppo l’ho persa») ma anche nell’impostare le sfide del partito: «Improvvisamente è scomparso il futuro dalla narrazione politica italiana, l’Italia sembra rannicchiata nella quotidianità». Più di maniera l’annuncio che «si chiude un ciclo alla guida del Pd», così come gli attacchi in codice a Massimo D’Alema, quando Renzi ha auspicato una Commissione d’inchiesta sulle banche: «Per mesi si è parlato solo di due o tre banchette toscane» e invece per il segretario del Pd più interessanti sono i casi delle banche pugliesi o di Antonveneta. Tutta in chiave congressuale la rivendicazione del consuntivo politico: «Ho preso un Pd che aveva il 25 per cento e nell’unica consultazione politica lo abbiamo portato al 40,8». 

LEGGI ANCHE - La direzione del Pd vota la linea di Renzi: “Congresso subito”. Scissione più vicina 

Ma ora per Renzi l’incognita sta nella capacità di tenere dentro il Pd l’ala “post-comunista”: perderla sarebbe uno smacco e per questo il segretario ha descritto in termini paradossali i recenti zig-zag della minoranza: «De Luca ha detto che siamo dei masochisti, io non posso essere sadico: va bene tutto ciò che serve per creare un clima per sentirsi a casa, ma quando si ha paura di confrontarsi con la propria gente, io credo che l’ennesimo passo indietro non sarebbe capito neanche dai nostri». Durante il dibattito si è candidato alla segreteria del Pd il governatore della Puglia Michele Emiliano, mentre quello della Toscana Enrico Rossi non ha ancora sciolto la “riserva”.

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« Risposta #161 inserito:: Febbraio 19, 2017, 11:06:45 am »

Le scissioni che hanno cambiato la storia e quelle diventate un flop

Pubblicato il 18/02/2017
Ultima modifica il 18/02/2017 alle ore 10:18

Fabio Martini

La storia della sinistra italiana è segnata da una striscia senza fine di strappi, spesso dolorosissimi, ma caratterizzati da una differenza essenziale: alcune scissioni hanno interpretato una necessità “storica”, lasciando un segno indelebile nelle vicende politiche e sociali; altre, fatte sulla spinta di una necessità della “cronaca” o per effetto di divisioni personalistiche, hanno finito per avere un respiro corto e alla lunga si sono trasformate in un flop, un danno per lo schieramento che si immaginava di rafforzare. Se è presto per capire come si concluderà la diatriba in atto all’interno del Pd, ancora più prematuro è prevedere se l’eventuale scissione apparterrà agli eventi storici o ai flop: ma i precedenti possono aiutare a capirlo.

La prima grande separazione nella storia della sinistra italiana è quella che nel 1921 porta la frazione comunista a lasciare il Partito socialista nel congresso di Livorno, che infatti da allora viene proverbialmente associato al termine scissione. Il nucleo raccolto attorno ad Amedeo Bordiga e ai più giovani Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti si separa dal ceppo socialista in nome del mito della “rivoluzione d’ottobre”, della violenza rivoluzionaria, dell’Internazionale comunista. I fatti si incaricheranno di dimostrare che quella scelta interpretava una “necessità” storica, condivisa da milioni di persone, in Italia e fuori. Certo la storia, alla lunga, avrebbe dato ragione al capo dei socialisti riformisti, Filippo Turati, che a Livorno ai compagni che lasciavano il partito, indirizzò parole fraterne e profetiche: «La miseria, il terrore e la mancanza di ogni libero consenso in Russia produrrà decenni di patimenti e povertà, un paradosso per un Paese così ricco di risorse», «la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto» e «quando anche voi avrete impiantato il partito comunista in Italia, sarete forzati (lo farete, perché siete onesti) a ripercorrere la nostra via, la via dei socialtraditori». In Russia e in Italia andò come aveva profetizzato Turati, ma è altrettanto vero che la scissione del 1921 diede vita ad un partito, il Pci, che avrebbe segnato profondamente per 70 anni la vita politica e sociale italiana e che sarebbe diventato la più grande forza comunista dell’Occidente. 

Molto importante e interprete delle “necessità” della storia anche la scissione di palazzo Barberini, quella che nel 1947 portò i socialisti “autonomisti” di Giuseppe Saragat a lasciare il Partito socialista guidato da Pietro Nenni, nella convinzione che fosse strategicamente sbagliata l’alleanza stretta con il Pci stalinista di Togliatti. La scissione fu esiziale per il consolidamento di una forza socialista autonoma in Italia, ma i socialdemocratici, pur con un’identità sempre più sbiadita, contribuirono ai governi centristi guidati da De Gasperi, protagonisti della rinascita del Paese, la più poderosa della storia nazionale. 

Sempre ai danni del Psi la scissione che nel 1963 portò alla nascita del Psiup, in dissenso dalla scelta di Nenni di dar vita a governi di centro-sinistra. Ispirata dai “carristi” che avevano preso posizione favorevole all’URSS in occasione della repressione della rivolta in Ungheria, i psiuppini si fecero il loro partito, costituirono una piccola nomenclatura, ma senza mai distinguersi dal Pci, chiusero i battenti dopo 8 anni e più tardi il più carismatico di loro, Lelio Basso, confessò che quella scissione era stato un errore. 

L’ultima scissione importante risale al 1991: contestando lo scioglimento del Pci, nasce il Partito della Rifondazione comunista che per qualche anno intercetta, con risultati significativi, gli elettori che credono in una rinascita del comunismo, ma anche in questo caso a far la differenza è la “necessità” storica: nel 1921 il comunismo era un mito per milioni e milioni di persone, nel ventunesimo secolo per tanti è un incubo, per altri non evoca più qualcosa di trascinante.

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« Risposta #162 inserito:: Febbraio 26, 2017, 12:03:38 pm »

Lo sfogo di Padoan: “Basta destabilizzarci. Resto se acceleriamo su riforme incisive”
Il ministro dell’Economia ai suoi: “Andiamo avanti su privatizzazioni e sgravi” Le dimissioni sarebbero interpretate a Bruxelles come un rompete le righe

Pubblicato il 26/02/2017 - Ultima modifica il 26/02/2017 alle ore 09:14

FABIO MARTINI
ROMA

Nei tre anni e quattro giorni sin qui vissuti da ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan non si è mai concesso una licenza, un diverso parere espresso in pubblico. E anche in questi giorni - durante i quali sta confidando l’urgenza di una svolta riformista nel governo in assenza della quale, per quanto lo riguarda, tutto è possibile - il ministro dell’Economia resta quello di sempre: ordinato, rispettoso della catena di comando, per nulla incline alle esternazioni destabilizzanti. Le sue idee le ha sempre espresse a porte chiuse e con Matteo Renzi non sono mancate discussioni e divergenze anche significative, anche se poi una volta decisa una linea, si tirava dritto. Con Paolo Gentiloni, se non altro perché ne condivide l’aplomb e il lessico levigato, Padoan ha un dialogo più franco.

In questi giorni, dopo una missione a Bruxelles e a Parigi, il ministro dell’Economia si è fatto più riflessivo, meno ottimista sul quadro, si è reso conto che a Bruxelles il no al referendum ha lasciato il segno, ha rappresentato un colpo all’immagine di un’Italia proiettata su un cambiamento accelerato e da quelle parti la possibile «gelata» delle riforme strutturali fa paura, molta più paura di un punto di Pil in più o in meno. «Il nostro problema - ha spiegato Padoan ai suoi collaboratori - non è tanto la correzione di aprile, ma se siamo in grado di ripartire con una strategia di riforme incisive».
 
Le tensioni interne 
L’occasione per farlo, secondo il ministro dell’Economia, è il Def, il Documento di economia e finanza, che dovrà avere un profilo ambizioso e riformatore e che dovrà essere completato entro il 30 aprile, guarda caso lo stesso giorno nel quale si svolgeranno le Primarie del Pd. E qui si apre un altro capitolo dolente, ad avviso di Padoan. Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le iniziative destabilizzanti da parte del Pd nei confronti del Mef: dal documento anti-tasse dei 38 deputati «renziani» - non molti per la verità - sino alla convocazione di Padoan e di Gentiloni davanti alla Direzione del Pd. E lì due esponenti di punta della maggioranza del partito, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e il presidente Matteo Orfini, hanno punzecchiato Padoan su un tema tutt’altro che secondario. Delrio aveva detto: «Ho dei problemi a privatizzare le Frecce delle Ferrovie con dentro il trasporto pubblico regionale. Lo dico a Pier Carlo...». E Renzi: «Non possiamo spremere ulteriormente i cittadini. Il tema di non aumentare le tasse è un principio di serietà».
 
Scelte condivise
Un quadro di piccole ma ripetute destabilizzazioni che non piace a Padoan: un Def strategico, con dentro riforme impegnative (privatizzazioni ben fatte, decontribuzioni strutturali per i nuovi assunti, una scuola veramente formativa), ha bisogno di coperture e dunque di scelte condivise. Ecco perché in questi giorni il ministro non ha mai usato esplicitamente la parola «dimissioni», ma semmai ha chiarito un concetto: «Resto se siamo nelle condizioni di un mettere in campo un Def coraggioso, capace di accelerare le riforme». Anche perché in questi tre anni Padoan ha messo la faccia, senza mai «smarcarsi» su compromessi non sempre condivisi, ma non coltivando ambizioni politiche per il «dopo», intende lasciare un segno su questa stagione. 
 
Il premier Gentiloni 
La prima conseguenza di queste considerazioni, si è vista negli ultimi giorni Il presidente del Consiglio, in conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha cambiato passo, usando parole forti, per lui inusuali: «Il governo prosegue nel suo cammino sulle riforme e lo ha fatto con decisioni molto rilevanti, dalla tutela del risparmio alla sicurezza urbana alle diverse misure sul terremoto. Il governo, lo dico oltre che agli italiani anche a Bruxelles, è al lavoro. Con determinazione forse non colta del tutto da qualcuno». Certo, Gentiloni conta sul senso di responsabilità di Padoan, ma sa che un (eventuale) forfeit del ministro dell’Economia sarebbe un prezzo troppo alto da pagare. A Bruxelles e a Berlino verrebbe interpretato come un «rompete le righe». Perché in Europa di Padoan si fidano. Come ha lasciato intendere un duro, come il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schaeuble: «Non ho intenzione di ammonire l’Italia in pubblico, Padoan è uno dei migliori ministri in Europa».

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« Risposta #163 inserito:: Febbraio 28, 2017, 11:24:10 pm »


Prodi e l’amarezza per la scissione. Medita un appello in extremis
«Riunirsi per riunirsi non serve». Telefonata con Bersani
Un momento della festa dell’Ulivo al Palalottomatica di Roma nel 2004 quando il Pd aveva ritrovato l’unità intorno a Prodi

Pubblicato il 17/02/2017
Ultima modifica il 17/02/2017 alle ore 07:27

Fabio Martini
Roma

Per ora il Professore non vuole prendere un’iniziativa pubblica, perché la divisione che sta dilaniando il Pd, gli suscita soprattutto «amarezza». Ma in queste ore, nelle quale si sta consumando uno dei progetti più importanti della sua vita politica, Romano Prodi sta seriamente meditando se intervenire, con un appello in extremis. A favore non tanto di una generica unità, perché «riunirsi per riunirsi non serve a nulla». E neppure a favore di una delle parti in gioco. Ma di un progetto politico, di una forza politica - l’Ulivo, oggi il Pd – che si dimostri ancora capace di affrontare i «problemi veri» per «riformare una società che è diventata profondamente ingiusta». E ovviamente in tanti lo cercano. Per esempio Pierluigi Bersani, non Matteo Renzi. 

L’altra mattina, a un amico di Bologna che gli chiedeva con quale sentimento seguisse questa vicenda, il Professore gli ha mostrato alcune immagini che risalgono alla giornata forse più festosa della stagione dell’Ulivo: sono le foto della kermesse al Palalottomatica di Roma, il 14 febbraio 2004, quella nella quale il Prodi «tradito» sei anni prima dai suoi alleati, tornava in Italia, richiamato dopo aver guidato per cinque anni la Commissione europea. Foto di leader plaudenti – D’Alema, Fassino, Rutelli, Parisi, Boselli, Amato - e di un palazzo dello Sport gremitissimo, mentre suonavano le note di «Una vita da mediano». Una kermesse rimasta insuperata, a sinistra, come suggestioni e entusiasmo della platea (l’avevano organizzata Paolo Gentiloni e Gianni Cuperlo) e d’altra parte gli effetti si videro subito: il centrosinistra vinse in 12 Regioni su 14 e poi le elezioni politiche del 2006.
 
Fino ad oggi il Pd - nato nel 2007 - era riuscito a sopravvivere a corpose dosi di veleno: la prematura caduta del governo Prodi nel 2008, sempre per mano «amica»; la brusca caduta elettorale nel 2013 sotto la guida di Pierluigi Bersani; la doppia bocciatura delle candidature al Quirinale di Franco Marini e Romano Prodi da parte dei grandi elettori. Poi il Pd aveva ripreso quota dopo la vittoria alle Europee del 2014 sotto la guida di Matteo Renzi che però da presidente del Consiglio non ha mai cercato la collaborazione e il consiglio del Professore. A parte la vicenda del Quirinale, Renzi lasciò cadere la richiesta, avanzata con una lettera riservata, da parte delle principali fazioni libiche di affidare una mediazione al Professore.

Contatti col contagocce e questo spiega come mai in questi giorni Renzi non abbia composto il numero del cellulare di Romano Prodi per chiedergli un appello per l’unità del partito. Diverso il rapporto con Pierluigi Bersani: a dispetto della leggerezza con la quale l’allora leader del Pd lanciò Prodi nella mischia del Quirinale senza che il Professore avesse brigato per essere candidato, tra i due c’è è un rapporto amichevole. Tra emiliani. Nato durante il primo governo dell’Ulivo (1996-1998) e rafforzato durante l’esecutivo dell’Unione: nel maggio 2008, il giorno nel quale Prodi lasciò palazzo Chigi dopo l’arrivo di Berlusconi, gli unici ministri presenti al commiato erano Giulio Santagata e Pierluigi Bersani. 

Da più parti arrivano richieste al Professore per un appello unitario. Prodi ci sta pensando. Ma sia lui che Arturo Parisi, l’altro padre dell’Ulivo e della «democrazia governante», sono amareggiati, come non capitava da tempo. Anche perché loro e non soltanto loro, in queste ore ricordano una semplice verità: i progressisti in Italia sono andati per la prima volta al governo in tutto il dopoguerra grazie all’Ulivo nel 1996 e sono riusciti a vincere le elezioni soltanto un’altra volta. Il leader era sempre lo stesso. 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/17/italia/politica/prodi-e-lamerezza-per-la-scissione-medita-un-appello-in-extremis-IDt6Po4oVbVCZzoKI5rfxL/pagina.html
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« Risposta #164 inserito:: Marzo 03, 2017, 04:27:55 pm »

FABIO MARTINI
ROMA

Nelle ultime ore il vento è sensibilmente girato e si capisce anzitutto dalle piccole cose. Ieri mattina Matteo Renzi, senza dirlo a nessuno, ha fatto un’improvvisata a Taranto per incontrare i lavoratori dell’Ilva e il reggente del Pd in città, Costanzo Carrieri, ha scritto su Twitter: «Vergognati di non avvisare il partito». Certo, lo sgarbo di un singolo non può far testo, ma il venir meno di un self control lessicale di solito precede fenomeni politici più corposi. Nel Pd non siamo al «25 luglio», alla rivolta di una intera classe dirigente nei confronti del capo, ma il doppio terremoto - le tessere taroccate in Campania e la vicenda di papà Renzi - sta scuotendo il nucleo più vicino al segretario. 
 
In particolare gli ex Popolari raccolti attorno a Dario Franceschini si sono riuniti e stanno ragionando se non sia il caso di chiedere un gesto di responsabilità ai tre sfidanti: rinviare le Primarie. Facendo leva su un ragionamento elementare: con un Pd impelagato sulla questione delle possibili infiltrazioni camorristiche sulle tessere in Campania e costretto alla difensiva dalla vicenda Consip, affrontare una dura battaglia intestina, «sarebbe profondamente autolesionistico», come confida uno dei big della corrente. Certo, in quest’area del partito la convinzione è che dal punto di vista giudiziario, la vicenda Consip non sia destinata a sviluppi clamorosi, meno che mai ai danni del leader del Pd. 
 
Ma i principali alleati del segretario sono preoccupatissimi dall’idea di «sposare» Renzi e ritrovarsi poi ad appoggiare un candidato «azzoppato» e perciò nelle prossime ore eserciteranno una offensiva, in vista di un passaggio dirimente: lunedì 6 marzo saranno presentate le mozioni dai candidati alla guida del Pd, che dovranno essere successivamente sottoscritte dai parlamentari. Anche su questo fronte la raccolta» dei renziani fa segnare qualche difficoltà: da indiscrezioni non confermate pare che i deputati pronti a sottoscrivere la mozione-Renzi siano circa 190, ma considerando che quelli di Area-Dem (Franceschini-Fassino) sono una novantina, i «renziani» doc sarebbero un centinaio, non molti di più di quelli che si preparano ad appoggiare il ministro Andrea Orlando.
 
Una contabilità relativamente interessante, soprattutto rispetto a quella che preoccupa il governo Gentiloni. Dopo la durissima condanna di Denis Verdini, capofila del gruppo di Ala, al Senato spesso decisivo per le sorti del precedente esecutivo, i numeri della maggioranza tornano a «ballare», in particolare in vista della votazione della mozione di sfiducia dei Cinque Stelle nei confronti del ministro Luca Lotti: cosa faranno gli scissionisti del Pd? «Vedremo», dice Alfredo D’Attorre e significa che non hanno ancora deciso. Hanno invece deciso come votare alle Primarie gli amici di Enrico Letta. L’ex presidente del Consiglio che confida di essere «preoccupatissimo» dal quadro interno e internazionale e pensa sarebbe utile una «ricucitura», intende restare fuori dalla contesa congressuale ma i parlamentari a lui vicini (Marco Meloni, Carlo Dell’Aringa, l’ex ministro Maria Chiara Carrozza, l’eurodeputata Alessia Mosca) e diversi consiglieri regionali e amministratori locali hanno deciso di schierarsi con Andrea Orlando, in quanto candidato col profilo più unitario. 
 
Ieri Matteo Renzi ha proseguito il suo giro d’Italia senza fare dichiarazioni ai Tg, ostentando tranquillità e digitando messaggi a metà tra il descrittivo (A #Matera sui cantieri della Capitale della cultura 2019 #incammino”) e i consueti superlativi: «In terra di Puglia, confrontandosi con gli abitanti della meravigliosa Castellaneta #incammino». Oggi a Roma sarà interrogato suo padre Tiziano, al termine di 78 ore, durante le quali sono stati fatti girare verbali, sono trapelate indiscrezioni, con una «cottura» tipica in queste circostanze. Il segretario del Pd fa sapere di essere tranquillo, di confidare nella giustizia, ma in queste ore è diventata chiara anche a lui, la «gabbia» nella quale rischia di trovarsi: con il clima di sospetto che circola in Italia, Renzi farebbe fatica ad essere creduto là dove dichiarasse di essere del tutto inconsapevole delle trame organizzate da amici e parenti toscani; al tempo stesso sa che, per la psicologia collettiva degli italiani, prendere le distanze dal proprio padre, potrebbe essere ancora più dannoso.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/03/italia/politica/ora-nel-pd-si-smarcano-gli-uomini-di-franceschini-matteo-rinvia-le-primarie-eyGWEe9b2a0h86ucWn1l3I/pagina.html

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