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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 125330 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Luglio 10, 2016, 11:31:53 am »

Renzi spera nell’assist della Corte Costituzionale
I giudici della Consulta potrebbero cambiare l’Italicum permettendo al premier di riaprire i giochi con gli alleati

09/07/2016
Fabio Martini
Roma

Quell’idea di spacchettare il quesito del referendum istituzionale non era mai piaciuta a Matteo Renzi per una ragione personale: moltiplicando le domande nella scheda elettorale, sarebbe finito l’effetto-plebiscito, che tanto stava a cuore al presidente del Consiglio, quel sì o no al leader ancor prima che alla riforma. Ma ora che il risultato del plebiscito di autunno è diventato estremamente incerto, Renzi sta esplorando le strade che possano eventualmente portare a dividere il quesito in più punti, depotenziando l’effetto-plebiscito. Tanto è vero che della questione si è parlato due giorni fa nell’incontro con il Capo dello Stato Sergio Mattarella al Quirinale. A palazzo Chigi nessuna decisione al riguardo è stata presa, anzi prevale in Renzi una realistica presa d’atto delle corpose difficoltà normative, anche per il ritardo col quale è stata accarezzata l’ipotesi. Ma in Italia si sa: non è mai troppo tardi. 

Vicenda esemplare quella dello spacchettamento, perché nel «mondo di Renzi» da una settimana tutto si è rimesso in movimento, solide certezze sono state ridiscusse, a cominciare dalla più rassicurante di tutte: il rettilineo percorso verso le elezioni del 2018. Prima di partire (di buon umore, raccontano) per il vertice Nato di Varsavia, nelle ultime 78 ore, Renzi ha cambiato tattiche e strategie su diversi quadranti: elezioni anticipate, data per il referendum, possibili cambiamenti alla legge elettorale. Di regola indifferente alle istanze dei suoi alleati - in due anni e mezzo Renzi non ha mai pronunciato la parola coalizione riferendosi alla sua maggioranza - due giorni fa il presidente del Consiglio è stato costretto ad accertarsi con Angelino Alfano sulla tenuta dell’Ncd e una volta rassicurato sulle intenzioni dei 6-7 senatori frondisti, ha potuto a sua volta assicurare il Capo dello Stato Mattarella: «Giovedì prossimo sul ddl enti locali nessun problema di tenuta».

E proprio il referendum, per Renzi, è la cosa che conta più di ogni altra. Il primo traguardo verrà superato con successo giovedì, quando il Comitato per il sì presenterà alla Corte di Cassazione cinquecentomila firme di cittadini, la modalità più «democratica» tra quelle previste dalla Costituzione per chiedere un referendum confermativo.

E proprio nell’incontro con Mattarella sono emerse due novità. Il Capo dello Stato ha ricordato che il referendum istituzionale si svolgerà comunque nella data fissata, perché a differenza di quelli abrogativi, quelli confermativi non vengono rinviati in presenza di scioglimenti anticipati delle Camere. E d’altra parte la data del referendum resta ancora oggi «ballerina». Una vicenda tutta politica ma nella quale si condensano alcuni dati «caratteriali» di Renzi. Il primo è la tendenza del presidente del Consiglio a prendere tutte le scelte all’ultimo momento utile: per insicurezza? Per tenersi aperte tutte le strade possibili? Sta di fatto che Renzi ha curiosamente ripetuto in questi giorni che non spetta al governo fissare la data del referendum. In realtà la scelta spetta proprio al presidente del Consiglio che potrà decidere, con un margine di oscillazione di alcune settimane.

Ma anche su questa scelta incide un altro problema «caratteriale» di Renzi: quello di non apparire mai come uno che cambia idea, o che ci ripensa. Dopo aver auspicato pubblicamente la data del «due ottobre», ora il presidente del Consiglio ha fatto trapelare che nell’incontro con Mattarella, si sarebbe presa in esame la data del 6 novembre, uno slittamento progressivo verso quelle che a palazzo Chigi sono ritenute le date migliori: 13, 20 o 27 novembre. Date che Renzi potrà scegliere, senza interpretazioni o forzature della legge. Ma se si voterà a novembre, a quel punto la Corte Costituzionale (convocata il 4 ottobre) dovrebbe aver deciso sulla costituzionalità dell’Italicum. Una eventuale bocciatura da parte della Corte (si sussurra su capilista e premio di maggioranza, con previsioni già «condannate» dalla Consulta), consentirebbe al governo di riaprire i giochi sulla legge elettorale con la minoranza Pd e con le formazioni centriste.

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Da  - http://www.lastampa.it/2016/07/09/italia/politica/renzi-spera-nellassist-della-corte-costituzionale-SeTyWKlP1uNrbAQ0vM5O5N/pagina.html
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« Risposta #136 inserito:: Agosto 02, 2016, 05:03:20 pm »

Renzi vola a Rio con un occhio a Roma 2024 e un altro all'immagine.
Cancellato l’appuntamento a Ground Zero per Eataly: al suo posto visiterà una favela
Non si sa ancora se il premier userà il solito Airbus oppure il nuovo A330 preso con un leasing molti mesi fa da Etihad

02/08/2016
FABIO MARTINI
ROMA

Quattro giorni a Rio de Janeiro, con moglie e figli, nel clima eccitante dell’inaugurazione di un’Olimpiade: è il progetto che Matteo Renzi si era dato qualche settimana fa e al quale non ha voluto rinunciare nonostante l’infittirsi di eventi sanguinosi in giro per il mondo. Questa sera l’aereo di Stato decollerà da Fiumicino diretto verso il Brasile, per fare ritorno in Italia il 7 sera, ma proprio alla vigilia della partenza si è appresa una novità: per stemperare l’effetto «vacanza a Rio», il presidente del Consiglio ha fatto integrare il programma. Mettendo in scaletta la visita ad una onlus di San Salvador de Bahia, una comunità di missionari fiorentini, che accompagneranno il presidente del Consiglio nella favela Massara Nduba. In parallelo è stato invece cancellato un impegno «mondano» di Renzi a New York: la partecipazione all’inaugurazione di un nuovo Eataly al World Trade Center, ristrutturato dopo le devastazioni dell’11 settembre 2001. E, alla fine, con il babbo viaggerà soltanto un figlio. 
 
La visita alla onlus e alla favela conferiscono alla trasferta di Renzi una coloritura «sociale» che va ad aggiungersi alle altre motivazioni già presenti nella missione. Durante il suo soggiorno a Rio, il presidente del Consiglio promuoverà la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024. Incontrando il presidente del Cio, il tedesco Thomas Bach, e presenziando ad un mega-pranzo con i membri del Cio. Incontri in qualche modo obbligati, tanto più che una delle candidature concorrenti, Parigi, sarà sponsorizzata dal presidente francese François Hollande, che arriverà a Rio domani.
 
Ma l’agenda di Renzi a Rio prevede una lunga striscia di incontri con gli aitanti atleti italiani, incontri che si trasformeranno in altrettante foto e immagini tv. Renzi, incrociando le dita, conta di rilanciare a Rio la propria immagine «smart». E con l’aiuto di qualche medaglia d’oro, il premier potrebbe riproporre anche un’immagine di sé che gli è cara: quella del leader che porta bene, che accompagna le vittorie azzurre e che magari preferisce tenersi distante quando il risultato è più incerto. Esemplare sotto questo punto di vista quanto accadde nel settembre di un anno fa, quando Flavia Pennetta e Roberta Vinci approdarono, nella sorpresa generale, alla finale degli Us Open di tennis: Renzi, a bordo dell’aereo di Stato, partì immediatamente per gli Stati Uniti per presenziare alla finale, che avrebbe prodotto comunque una vincente italiana.
 Renzi partirà oggi, non si sa se a bordo del solito Airbus o col «nuovo» A330, preso in leasing molti mesi fa da Etihad e misteriosamente scomparso nelle brume della campagna romana. Nei giorni scorsi era stata ventilato un passaggio a New York, ma fino a ieri sera della tappa mancavano conferme ufficiali. 
 
Un argomento in più per i detrattori del presidente del Consiglio, che a Montecitorio si lanciavano in illazioni sulla «fuga» di Renzi nelle Americhe: un viaggio anticipato - si diceva - per non parlare delle nomine Rai che oggi e domani arriveranno in porto. Certo, Renzi sarà fisicamente lontano da viale Mazzini, ma sicuramente a Rio sarà più avvicinabile dai giornalisti di quanto non lo fosse negli ultimi giorni a Roma. 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/02/italia/politica/renzi-vola-a-rio-con-un-occhio-a-roma-e-un-altro-allimmagine-TKJBXtepoNmPsoT1rKfWOJ/pagina.html
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« Risposta #137 inserito:: Settembre 16, 2016, 11:38:00 pm »

In vista del referendum le Cancellerie puntano sulla stabilità dell’Italia
Francia e Germania: il rinnovamento in atto rafforza tutta l’Europa. Da Washington a Pechino, ecco chi scommette sulla tenuta del governo

14/09/2016
Fabio Martini
Roma

Era l’ultimo giorno di agosto, nei saloni della Ferrari a Maranello, Angela Merkel e Matteo Renzi parlottavano tra loro dopo il lungo bilaterale tra ministri dei due Paesi e poco prima di riprendere la strada di casa, la Cancelliera disse al presidente del Consiglio: «Caro Matteo, bisogna riconoscere che la stabilità del tuo governo fa bene all’Italia e anche all’Europa». Settantotto ore più tardi, poco prima dell’inizio del G20 a Huanghzou in Cina, il presidente cinese Xi Jinping, si congeda da Matteo Renzi con una promessa: «Ci vediamo di nuovo qui da noi, nel 2017».

Merkel e Xi Jinping, due personaggi agli antipodi, restituiscono un pensiero comune a tutte le cancellerie: per l’Italia stabilità prima di tutto. In questa fase non soltanto a Berlino e a Pechino, ma anche a Washington, a Parigi, a Bruxelles, l’auspicio è quello di una continuità di governo per il governo di Roma. In una Europa affaticata da una ripresa economica che non arriva mai; lacerata su come affrontare le ondate migratorie e con i Paesi-guida (Germania e Francia) in vista di elezioni politiche dall’esito incerto, Matteo Renzi e i suoi venti mesi consecutivi di governo vengono visti dalle cancellerie più importanti come una boa da salvaguardare.

Poche ore prima che l’ambasciatore americano a Roma John R. Phillips si producesse nelle due esternazioni che si sono trasformate in un caso politico, da Washington era arrivato un segnale forte. Con l’annuncio della Casa Bianca dell’invito da parte di Barack Obama a Matteo Renzi per la sera del 18 ottobre, ventuno giorni prima dell’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Invito accompagnato da un dato simbolico: quella con l’Italia sarà, per Obama, l’ultima visita di Stato ospitata alla Casa Bianca. Nella lettura informale dell’evento - da Washington - si sottolineava come l’invito contenesse anche un investimento strategico sull’Italia e sulla sua stabilità politica. Ma al tempo stesso si faceva sapere che l’invito di Obama a Renzi non andava interpretato come un «endorsement» in vista del referendum istituzionale di fine autunno in Italia.

 Poi, ieri mattina, è arrivata la doppia esternazione dell’ambasciatore Phillips: da una parte l’auspicio per la vittoria del Sì al referendum costituzionale, dall’altro - ancora più irrituale - il timore che gli investimenti americani possano allontanarsi in caso di vittoria del No. In poche ore si è sollevato un caso politico, che nella protesta contro l’ambasciatore americano ha visto uniti Sel e gli ex missini di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Cinque Stelle. La doppia esternazione pro-Renzi in poche ore si è dunque trasformata in boomerang, o in qualcosa che vi si avvicinava. E il presidente del Consiglio? A palazzo Chigi non erano stati informati da parte dell’Ambasciata americana sulle intenzioni di Phillips, ma una volta che le dichiarazioni sono entrate in «rete», Renzi ha evitato qualsiasi commento, anche informale. Nessun imbarazzo, si fa sapere da palazzo Chigi. Anche perché quel che ha mosso l’ambasciatore americano è un impulso spiegato da Massimo Teodori, autore di numerosi saggi sulla storia degli Stati Uniti: «Dopo gli anni settanta la politica americana verso un Paese tradizionalmente instabile come l’Italia è tutta centrata sulla stabilità, come dimostrano tutti i rapporti inviati dai diversi ambasciatori». 

Sorpresa in Renzi per il riverbero anti-americano di alcuni commenti alla sortita dell’ambasciatore e qualcosa in più della sorpresa, «per le dichiarazioni di un vicepresidente della Camera», che è arrivato a paragonare Renzi a un dittatore come Pinochet. Certo, il presidente del Consiglio sa che con un’opinione pubblica nella quale gli umori anti-establishment sono così forti, vedersi appoggiare da agenzie di rating e governi stranieri, può essere controproducente. Anche per questo palazzo Chigi ha optato per il silenzio.

 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/14/italia/politica/in-vista-del-referendum-le-cancellerie-puntano-sulla-stabilit-dellitalia-s6lTvCz2w81yMtbxNQRNaK/pagina.html
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« Risposta #138 inserito:: Ottobre 08, 2016, 04:47:26 pm »

Marino assolto sfida Renzi: “Adesso girerò l’Italia per dire no al referendum”
“La Costituzione è la Magna Charta, la riforma è scritta come il Milleproproghe. Con me ok alle Olimpiadi”


08/10/2016
Fabio Martini
Roma

Giù per strada, nel vicolo di Santa Chiara, i fans di Ignazio Marino fanno la «ola» - «I-gna-zio, I-gna-zio, I-gna-zio» - e lui, nella sua casa al primo piano, tira la tenda, guarda di sotto con gli occhi lucidi e dice al cronista: «Devo andare giù, mi scusi». Per l’ex sindaco di Roma è il giorno della rivincita, covata per mesi in un silenzio insolito per un personaggio dalla grande loquacità e con un’alta considerazione di sé. Dopo che il tribunale di Roma gli ha restituito l’onore, Ignazio Marino ha indetto una conferenza stampa a cento passi da Palazzo Chigi, un fuoco d’artificio di battute nel quale ha risparmiato colui che lui stesso ritiene il mandante della sua caduta.

Professore, pensa che il presidente del Consiglio le debba delle scuse? 
«Per farlo, bisognerebbe avere capacità d’analisi, umiltà e onestà».

Un capo di governo che favorisce le dimissioni del sindaco della capitale, è una cosa che non si era mai vista... 
«Non condivido chi ha parlato di golpe, ma il conto di certe azioni le paga il Paese, soprattutto quando riguardano la capitale di Italia. Qualcuno ora si dovrebbe guardare allo specchio e capire se ha la statura di statista e farsi un esame di coscienza».

Si candiderà alla segreteria del Pd? 
«No, col Pd mi sono preso un anno di riflessione, che finirà il 31 dicembre».

Ma si può immaginare che da domani lei diventerà uno degli alfieri della campagna referendaria per il No? 
«Ho inviti in oltre 20 città italiane. Dirò quel che penso sulla riforma: che il Senato va totalmente abolito e che la revisione non è stata studiata e votata come avevano fatto all’assemblea costituente. Basta guardare l’articolo 70: è stato scritto come un articolo di quello che in Parlamento chiamano il Milleproroghe! Visto l’articolo…, richiamando il comma 1... La Costituzione è la Magna Charta, è quella che tutti capiscono». 
Se lei fosse ancora sindaco, Roma sarebbe più vicina alle Olimpiadi? 
«Sì. Col progetto che illustrai al Cio e che era stato preparato dall’assessore Caudo - un Villaggio Olimpico che sarebbe diventato la Città della giustizia, una nuova metropolitana veloce, un parco fluviale - l’Italia avrebbe probabilmente vinto la nomination».

Prima della sentenza era così sicuro che sarebbe stato assolto? 
«Io ho sempre sostenuto il ruolo della magistratura anche da senatore, talora in contrasto con il mio gruppo. Poi mi sono trovato io all’attenzione dei magistrati e - sì è vero - mi sono interrogato ma ho mantenuto lo stesso atteggiamento. E il perché l’ho raccontato al giudice nella mia dichiarazione spontanea a porte chiuse...»

Irriferibile? 
«No. Ho detto: è la seconda volta che mi trovo in un’aula di giustizia. Da chirurgo ho operato per quasi 20 anni nello Stato della Pennsylvania, quello col più alto numero di cause legali per medici in tutto il pianeta. Era una notte del 1992, avevo appena finito un trapianto di fegato, stavo andando a casa e mi squilla il cerca-persone. Era il numero della terapia intensiva: mi spavento e faccio una cosa che non si deve fare: lascio la macchina davanti al pronto soccorso. Incontro Katy, l’infermiera, che mi dice: hai lavorato tutta la notte e ti avevamo preparato un caffè caldo... Le rispondo: ma voi siete matti, mi sono preso un colpo! Vado giù e la macchina non c’era più. Portata via dalla polizia con una multa da 400 dollari. Vado davanti al giudice che ascolta il mio racconto e mi dice: “Mi prometta che non lo farà più. Io: “Lo prometto”. Ha sbattuto il martello sul bancone e ha detto: “Ora si vada a riprendere i 400 dollari, perché lei è un bravo medico”».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/08/italia/politica/lo-sfogo-del-chirurgo-adesso-girer-litalia-per-dire-no-al-referendum-VVF95FA9xjBvCooCKD1nyM/pagina.html
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« Risposta #139 inserito:: Ottobre 10, 2016, 12:05:44 pm »

Il Pd vicino alla rottura e il dilemma di Renzi
Oggi in direzione deve scegliere se usare il bazooka o tendere la mano ai dissidenti, tra i quali avanza Marino

10/10/2016
Fabio Martini
Roma

Alle cinque della sera, davanti alla direzione del Pd, verrà formalizzata la separazione legale tra Matteo Renzi e la minoranza del partito in vista del referendum del 4 dicembre: sarà il primo atto di un possibile, clamoroso divorzio, tante volte annunciato, ma che una eventuale vittoria del Sì renderebbe concreto? Per ora una sola certezza: la opposizione interna - guidata da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo - ufficializzerà la decisione di votare “no”, al referendum: un comportamento elettorale clamoroso, anche perché capovolto rispetto alle indicazioni del partito e in contraddizione rispetto a come votarono in Parlamento molti degli esponenti della minoranza. La decisione è stata anticipata venerdì notte da Pier Luigi Bersani in un pubblico dibattito e in una intervista pubblicata ieri dal “Corriere della Sera”, dunque in anticipo con la attesa Direzione del Pd, convocata alle 17 di oggi per ascoltare la proposta di modifica della legge elettorale che avrebbe dovuto fare Matteo Renzi.

Questo anticipo rispetto alla liturgia ha consentito a Matteo Orfini, presidente del Pd, di infilzare l’ex segretario: «Non è scandaloso che Bersani voti No», ma sulle riforme «è sbagliato che invece di cercare fino alla fine una soluzione si lavori per la spaccatura». Ma la sostanza non cambia: oggi nulla vieta a Renzi di presentare la propria proposta di mediazione, provando a mettere in difficoltà la minoranza con proposte “ragionevoli”, come l’abolizione dei capolista bloccati. Ma lo farà? Oppure preferirà caricare il bazooka contro la propria minoranza, evidenziandone le contraddizioni? Ieri sera Renzi non aveva deciso quale privilegiare tra le due opzioni e all’ultimo momento potrebbe decidere per una sintesi. 

Vicenda significativa, quella interna al Pd, perché la minoranza potrebbe trascinare sulla propria posizione una quota significativa dell’elettorato democratico (un quinto? Un quarto?), anche se la partita per la vittoria al referendum sembra destinata a giocarsi in un campo più vasto. E da questo punto di vista nelle ultime ore sono emerse due novità: da una parte la decisione di Renzi di personalizzare ancora di più la campagna referendaria, dall’altra l’emersione dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. Liberato dal peso processuale, come possibile alfiere-portavoce del No. 

La super-personalizzazione da parte del presidente del Consiglio è stata confermata con la decisione di accettare anche l’invito dell’” Arena”, il talk show della domenica su RaiUno, Incalzato dalle domande e dalle interruzioni di Massimo Giletti, che non ha voluto smentire il ruolo di intervistatore scomodo, il presidente del Consiglio ha lanciato due messaggi. Il primo: «Se vince il No, non cambia niente per il Paese. Continueremo con il Parlamento più costoso e più numeroso». Il secondo mirato contro la minoranza del Pd: «Nel partito è un anno e mezzo che mi danno contro, l’unico obiettivo è attaccarmi», «ma quando uno vota per antipatia mostra di avere scarsa visione per il Paese. Bersani ha votato sì tre volte a questa riforma. Ma se lui cambia idea per il referendum, ciascuno se ne farà una opinione». Altrettanto significativo il “ritorno” di Ignazio Marino. Intervistato da Lucia Annunziata su RaiTre, l’ex sindaco, oltre a picchiare duro su Renzi e i renziani, si è riproposto con un profilo «liberal», da alfiere dei diritti civili, da sostenitore tradito dei valori meritocratici del primo Renzi. Un profilo diverso da quello “comunista” della minoranza Pd e anche per questo più temibile. Come conferma la grandinata di richieste di partecipare ad iniziative, piovute su Marino da tutta Italia.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/10/italia/politica/bersani-dichiara-il-no-il-grande-attacco-a-renzi-e-il-dilemma-del-premier-s5NHBaznJt42lJ0BSuB9KK/pagina.html
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« Risposta #140 inserito:: Novembre 18, 2016, 09:46:17 am »

Renzi, attacco all’Ue per vincere il referendum
Svolta contro Bruxelles “nemica” in una battaglia che vuol essere popolare
La riduzione dei balzelli di Equitalia non ha pagato nei sondaggi

Pubblicato il 17/11/2016
Fabio Martini
Roma

L’Europa «cattiva», tra tante rughe, ha mostrato il suo volto buono: ha inaspettatamente promosso le spese eccezionali per terremoto e migranti. Ma il presidente del Consiglio ha continuato a tenere il punto. Come se non fosse accaduto. Perché da due giorni Bruxelles è stata «promossa» a nemico stabile. Quanto durerà nessun lo sa, ma si tratta di una novità nella politica europea dell’Italia e soprattutto è una svolta nella strategia comunicativa di Matteo Renzi. 

Impegnato nella battaglia della vita, quella del referendum costituzionale voluto dal governo. Dopo due anni e mezzo di ottimismo a getto quotidiano, il presidente del Consiglio ha deciso di riconvertire almeno una parte del suo messaggio positivo in chiave rivendicativa. Antagonista. 

Contro un nemico: l’Europa egoista e burocratica. Certo, già lo aveva fatto nel passato, con accenti di verità e con scossoni salutari, vista la progressiva eclissi della dottrina dell’austerità. Ma stavolta il duello con Bruxelles è diverso perchè nelle settimane scorse si è silenziosamente consumato quello a palazzo Chigi qualcuno ha ribattezzato “l’ottobre nero”. Matteo Renzi vive di adrenalina e non usa espressioni così pessimistiche, eppure ha assistito con un crescendo di «sorpresa» ad un fenomeno dai tratti quasi misteriosi, che si è stratificato nelle ultime settimane. Più Renzi spingeva l’acceleratore di provvedimenti gratificanti per milioni di cittadini e più i sondaggi restavano fermi. Le pensioni e le quattordicesime a più di due milioni di pensionati? L’'effetto sui sondaggi non è stato apprezzabile. La riduzione dei balzelli di Equitalia? L’effetto sui sondaggi, se c’è stato, non ha avuto un effetto evidente. La riduzione del canone Rai per milioni di italiani? I bonus? Lo spostamento del dibattito referendario dal plebiscito al merito? Gli effetti, se ci sono stati, non risultano quantificabili. Per non parlare dell’accoglienza regale tributata a Renzi alla Casa Bianca. Un “ottobre nero” ma anche un novembre che a metà mese non ha aperto spiragli: ieri sera, Renzi è stato aggiornato sui sondaggi più attendibili e per il momento il buon vantaggio del No (tra 4 e 8 punti, secondo gli istituti) resta invariato, anche se ancora “scalabile”.

Dopo due mesi di campagna elettorale è come se l’emittente dei messaggi si fosse opacizzata, è come se l’efficacia della narrazione renziana e del suo artefice avessero perso mordente e credibilità. La causa è una “overdose” da ottimismo esasperato? O una diffusa corrente di «antipatia» verso Renzi, come ipotizzato da un amico come Oscar Farinetti? In attesa di risposte concrete dalle urne del referendum, per provare ad invertire la rotta, due giorni fa Renzi ha maturato la decisione - covata per settimane - di convertire una parte dei messaggi positivi in chiave rivendicativa. Contro un nemico: l’Europa egoista e burocratica. E d’altra parte nella “narrazione” renziana i nemici hanno sempre avuto un ruolo da protagonisti. Renzi ha usato per la prima volta l’espressione «gufi» il 12 marzo 2014, quando era presidente del Consiglio da appena 19 giorni, era saldissimo e nessuno lo insidiava. Ora tocca di nuovo all’Europa incarnare il ruolo di capro espiatorio.

Il “numero” di due giorni fa sul (futuribile) veto al bilancio comunitario dimostra che il presidente del Consiglio ne vuole fare un cavallo di battaglia nel rush finale della campagna referendaria. Come conferma la (non) reazione di Renzi alla decisione di ieri della Commissione europea che ha promosso le spese eccezionali per terremoto e migranti, compreso il via libera per le scuole tante volte evocate dal capo del governo come prova della cattiva volontà degli euroburocrati. Dunque, l’Europa “cattiva” ha mostrato il suo volto buono, ma Renzi non ha “ringraziato”, lasciando a Padoan il compito di compiacersi pubblicamente.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/17/italia/politica/renzi-attacco-allue-per-vincere-il-referendum-blNDuDfw14UES2pmwM1TAN/pagina.html
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« Risposta #141 inserito:: Novembre 20, 2016, 11:48:30 am »

Renzi in campagna permanente: “Ci servono 15 milioni di voti”
Raffica di impegni elettorali per il presidente del Consiglio. “I sondaggi hanno già sbagliato”.
E glissa sull’ipotesi dimissioni

Pubblicato il 19/11/2016
Ultima modifica il 19/11/2016 alle ore 07:41

FABIO MARTINI
ROMA
A mezzogiorno se ne è andato dal palazzo della Cancelleria di Berlino senza dire una parola, lasciando i giornalisti con i microfoni in mano. Poco prima Matteo Renzi aveva incontrato per due ore i capi di governo di Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna convocati per un summit crepuscolare: l’addio a Barack Obama, appositamente arrivato dagli Stati Uniti. Ma Renzi ha fatto di tutto per far scivolare questo evento, che forse rischiava di “schiacciare” la sua immagine su quella dell’Obama uscente: silenzio all’uscita e persino sul sito del governo, solitamente generoso di immagini del leader, soltanto otto foto e un breve video. 
 
Significativamente è iniziata così una delle giornate più tambureggianti di Matteo Renzi che oramai da due mesi sta conducendo quella che probabilmente resterà come la più massiccia campagna elettorale nella storia della Repubblica. Una giornata che racconta il personaggio e il suo impegno totale e super-personalizzato alla causa del Sì: alle 8 del mattino partenza per Berlino; dalle 10 alle 12 summit per salutare Obama; alle 13 di nuovo in volo per Roma; alle 16 convegno dei giovani dell’Ncd di Alfano; alle 18,15 conferenza stampa sui 1000 giorni; alle 1930 a “La 7” da Lilli Gruber; alle 21 decollo per Bari, alle 22,15 manifestazione per il Sì nel capoluogo pugliese. 
 
Da Obama ad Alfano, da palazzo Chigi a Bari vecchia, in tutte le occasioni Renzi si è sforzato di mostrarsi sorridente, spiritoso, non aggressivo, che mette persino nel conto una sconfitta al referendum, come se la cosa non lo turbasse più di tanto e dunque con un’immagine capovolta rispetto a quella - onnipresente, auto-elogiativa, aggressiva con tutti i dissenzienti - che gli ha drasticamente ridotto i consensi, al punto che - a 17 giorni dal voto - tutti i sondaggi (nessuno escluso) danno in testa il No. «Nel 2016 i sondaggi non hanno azzeccato un solo risultato, non è che devono iniziare questa volta - scherza -. La partita è aperta».
 
Un Renzi soft che ha lanciato messaggi soft, decisamente ambivalenti. Utilizzerà il consueto escamotage di tanti politici di produrre messaggi ansiogeni? «Se evochiamo la paura, non andiamo da nessuna parte», dice nella conferenza stampa di palazzo Chigi ma poco prima aveva detto: «Se si fanno le riforme, il Pil va su, senza le riforme sale lo spread». Aggiungendo: «E’ logico che sia così», una chiosa soggettiva, per ora non dimostrata. Ambivalente anche nelle risposte alla domanda: se vince il No, lascia o non lascia palazzo Chigi? Ecco le diverse risposte di Renzi: «Rispetteremo il risultato con grande tranquillità», «Cosa accadrà al governo? Lo sapremo solo vivendo...»; «questo governo è nato per fare le riforme, ma verificheremo la situazione politica...». Una risposta in dissolvenza che non è diventata più chiara, quando Renzi ha detto in tv: «Chi fa il premier deve sperare che chi viene dopo farà meglio, certo io non sono nato per fare un governo tecnico. Se si cambia e si continua ci sono, se si torna alla grande accozzaglia che è la base politica del No, che sono sempre i soliti politici, se vogliono galleggiare, che gestiscano loro il paese. Io non sono capace a fare inciuci e accordicchi». 
 
Dunque, Renzi non dice più, neppure in queste ultimi giorni, che la vittoria del No comporta le sue dimissioni irrevocabili da palazzo Chigi. Si lascia la porta aperta. Ovviamente sperando che vinca il Sì. E anzi Renzi ha svelato anche le sue stime: «Si vince, secondo le mie previsioni, con il 60 per cento di affluenza, con 15 milioni di voti per il «Sì» o per il «No», quindi è fondamentale portare tanta gente a votare». Le firme false dei grillini in Sicilia? «È un problema loro, io sono garantista». Se vince il sì al referendum nel Pd ci sarà spazio anche per chi ha votato no? «Non c’è ombra di dubbio, il Pd è un partito democratico, che vinca il sì o il no partirà la fase congressuale».
 
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« Risposta #142 inserito:: Dicembre 02, 2016, 06:28:55 pm »

Prodi: “Una decisione sofferta. E Matteo dimentica l’Ulivo”
L’ex premier: correndo sotto i portici di Bologna ho pensato di dover parlare. Preoccupazione per la stabilità internazionale
Il 13 febbraio 1995 Romano Prodi lancia L’Ulivo, alleanza fra il centro e la sinistra. Alle elezioni politiche del 1996 L’Ulivo si afferma come coalizione vincitrice e Prodi viene nominato Presidente del Consiglio dei ministri

Pubblicato il 01/12/2016
FABIO MARTINI
ROMA

Il Professore sembra un uomo sollevato: «Sì, è stata una decisione sofferta. Certo, da tempo avevo deciso come votare, ma stamattina, correndo sotto i portici a Bologna, ho definitivamente maturato la convinzione che fosse giusto rendere pubblico il mio voto, anche se da diversi anni ormai non prendevo posizione su temi di politica italiana». Le prime parole di Romano Prodi, pronunciate poco dopo aver scritto la nota per le agenzie, restituiscono il background emotivo di una decisione sofferta, che gli è costata, ma che alla fine è stata liberatoria. Un endorsement per Renzi? La svolta a favore del Sì, che potrebbe ribaltare le sorti di una partita ancora in bilico? Le duemilaottocento battute scritte dal Professore per la sua nota pro-Sì sono un distillato di orgoglio, una rivendicazione della sua battaglia storica per «una democrazia decidente e bipolare», ma anche il più severo ritratto di Matteo Renzi che sia stato mai scritto da una personalità del centrosinistra. Al punto che, se gli si chiede se il suo Sì sia scandito a prescindere dal governo, Romano Prodi risponde con un monosillabo: «Sì».
 
Decisione «sofferta» quella del Professore: in questi anni il suo profilo di uomo padano, concreto, razionale è stato messo a dura prova da esperienze così originali da diventare proverbiali. Il Professore ha vinto per due volte le elezioni con un Berlusconi in pieno vigore politico e per due volte i governi guidati da Prodi sono stati mandati all'aria dai suoi stessi alleati. In lui hanno lasciato il segno i cinque, interminabili mesi trascorsi in solitudine a Palazzo Chigi da presidente dimissionario all’inizio del 2008; ma anche la «chiamata» di Pier Luigi Bersani che nel 2013 lo candidò (senza rete) alla Presidenza della Repubblica, senza «calcolare» il tradimento dei 101. E negli ultimi anni l’attuale presidente del Consiglio ha tenuto Prodi a distanza, in particolare nella vicenda della Libia, dove l’ex premier era stato invocato dalle fazioni locali come uomo di mediazione.
 
Certo, il rapporto tra Prodi e Renzi, formalmente mai intaccato, non è si è mai trasformato in amicizia. Ma neppure in ostilità. I due ogni tanto si parlano, l’ultima volta è stata due settimane fa in occasione del breve passaggio in Sardegna del presidente cinese Xi Jinping. Proprio perché il rapporto personale scorre lungo un binario a scartamento ridotto, ma scorre, nei giorni scorsi Prodi era infastidito dall’idea che qualcuno potesse interpretare il suo riserbo sul referendum come una forma di rancore verso Renzi. Dunque, non una questione personale verso Renzi, ma invece una forte riserva politica, che Prodi ha distillato nella sua nota con espressioni molto secche, rimproverando a Renzi una «leadership esclusiva, solitaria ed escludente», accusandolo di aver cancellato l’esperienza dell’Ulivo, «come se le cose cominciassero sempre da capo». E imputando al governo di aver gettato «il Paese nella rissa», con la stabilità, «inutilmente messa in gioco da un’improvvida sfida» e provocando «turbolenza qualsiasi sarà il risultato di questo referendum». Parole in cui si coglie l’eco di una forte preoccupazione per quello che potrebbe accadere all’Italia a livello internazionale e sui mercati. 
 
Romano Prodi e Arturo Parisi, l’«ideologo» del bipolarismo e dell’Ulivo si espongono per il Sì, spinti dalla paura che la vittoria del No possa riaprire la strada alla «palude» del proporzionale, al ritorno del Partito nella versione «decotta» dei post-comunisti. Ecco perché nella nota di Prodi c’è anche una stilettata per Massimo D’Alema: «C’è chi ha poi strumentalizzato» la storia dell’Ulivo, «rivendicando a sé il disegno che aveva contrastato».
 
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« Risposta #143 inserito:: Dicembre 02, 2016, 06:38:38 pm »


Il Censis e l’Italia di Renzi: “Governo e società, due populismi contrapposti”
Il ritratto del Paese nel cinquantesimo Rapporto sulla salute sociale: grande «divaricazione» tra governo e corpo sociale

Pubblicato il 02/12/2016
Ultima modifica il 02/12/2016 alle ore 11:23
Fabio Martini
Roma

Sostiene il Censis nel suo cinquantesimo Rapporto sulla salute sociale del Paese: l’Italia contemporanea, l’Italia di Matteo Renzi, vive il suo problema più serio nella «divaricazione» tra il governo e il corpo sociale, entrambi impegnati in una rincorsa populista, con una «reciproca delegittimazione» che finisce per accentuare la crisi più grave di tutte, quella delle istituzioni. Dall’Unità d’Italia in poi e per molti decenni proprio le istituzioni - dalla scuola ai carabinieri, dall’esercito ai Comuni, dall’alta burocrazia alla magistratura - hanno rappresentato la spina dorsale del Paese, ma oggi quei soggetti sono «inermi», «incapaci di svolgere il loro ruolo di cerniera», propensi a lasciare il campo agli altri due poli: potere politico e corpo sociale. 

Oramai da mezzo secolo il Censis e il suo animatore Giuseppe De Rita - una delle ultime autorità intellettuali del Paese - puntualmente ripropongono un affresco fuori dal coro, talvolta profetico sul mutare delle dinamiche sociali, politiche ed economiche di un Paese del quale sono stati sempre raccontati, oltre ai vizi, anche le potenzialità e le virtù nascoste. Nel Rapporto presentato quest’anno si racconta un nuovo, interessante fenomeno, l’emergere di una «seconda era del sommerso», «sostanzialmente diverso» da quello profilato e concettualizzato proprio dal Censis negli anni Settanta e fatto di tanti lavori nuovi, di un sommerso come «ricerca di più redditi», alimentati da occupazioni saltuarie, private, differenti da quelle che 40 anni fa fecero grande la piccola impresa italiana. 

E si racconta anche di un «rintanamento», ognuno a casa sua, della politica e del corpo sociale, due soggetti che «coltivano emozioni e ambizioni solo rimirandosi in se stessi». In mezzo «non vogliono sedi di potere» e neppure la «cerniera delle istituzioni» e dunque «si destinano a una congiunta alimentazione di populismo». Ma così - sostiene De Rita nelle sue “Considerazioni generali” - «la dialettica sociale si inceppa», «il potere politico e il corpo sociale non comunicano, coltivano il proprio destino in una sfida di reciproche delegittimazioni, prevalentemente mediatiche e intrise di rancoroso narcisismo». Di referendum De Rita non parla, ma le due Italie del Censis, pur non sovrapponibili a quelle del Sì e del No, vi somigliano molto.

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« Risposta #144 inserito:: Dicembre 06, 2016, 04:32:48 pm »

Renzi, dimissioni studiate per “rimettersi in cammino” verso le elezioni.
Le ipotesi per il futuro
Nel discorso della sconfitta il leader ha ritrovato un tocco umano che aveva perduto. Nuovo governo: in pole Padoan e Grasso

Pubblicato il 05/12/2016
Ultima modifica il 05/12/2016 alle ore 15:24

Fabio Martini
Roma

Il corposo voto di “sfiducia” degli italiani lo ha spinto fuori da palazzo Chigi e ora il piano di Matteo Renzi è quello di trasformare la sconfitta al referendum nella sua vittoria alla prossime elezioni Politiche. Certo, non sarà facile, ma il progetto è lineare: anzitutto indicare al Capo dello Stato il candidato più gradito per palazzo Chigi e subito dopo, fatto il nuovo governo, Renzi intende «rimettersi in cammino», come ha detto ieri sera nel suo commosso commiato, Questo significa restare alla guida del Pd, provare ad anticipare il congresso, vincere le Primarie e proiettarsi verso le prossime elezioni come leader del Pd. Certo, non sarà una passeggiata, ora nel Pd il boccino passa al nuovo “centro”, formato dagli ex Ppi di Dario Franceschini e gli ex Ds di Andrea Orlando, Maurizio Martina, Matteo Orfini. Proveranno a spodestare il segretario? 

Operazione non semplice quella di Renzi, ma proprio a questo tragitto prelude l’uscita da “statista” del premier: mollando senza indugio la sua poltrona, il segretario del Pd intende ricostruirsi una sua “verginità”. Esattamente come fece nel 2012, quando fu sconfitto da Pier Luigi Bersani alle Primarie del Partito democratico. E proprio sul discorso di “accettazione della sconfitta”, Renzi costruì la sua rivincita alle Primarie poi vinte contro Gianni Cuperlo. Ecco, perché ieri notte Renzi ha risparmiato qualsiasi recriminazione nei confronti dei suoi avversari, a cominciare dai suoi compagni di partito. 

E alla costruzione del “nuovo” Renzi può contribuire anche quel frammento di commozione che il premier uscente ha manifestato, mentre ringraziava e salutava moglie e figli. Commozione sicuramente autentica, ma che colma uno dei deficit di immagine di Matteo Renzi, leader senza anima, che in questi mesi ha provato ad affettare emozione in circostanze drammatiche. Ma senza mai riuscire a restituire l’immagine di leader “umano”, come invece gli suggerivano i suoi consiglieri.

 Matteo Renzi questo pomeriggio si dimetterà e probabilmente indicherà al Capo dello Stato le preferenze sue e del Pd per il prossimo inquilino di palazzo Chigi. Quando Renzi vedrà Mattarella, i mercati si saranno già espressi e in caso di reazione molto “aggressiva” e speculativa, la bilancia potrebbe pendere verso un governo affidato alla guida del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma senza terremoti finanziari, il favorito resta il presidente del Senato Pietro Grasso, soluzione “naturale” in quanto seconda carica dello Stato. 

Un’altra incognita riguarda la squadra di governo. Un esecutivo-fotocopia verrebbe vissuto da Renzi come un affronto: ecco perché è possibile che si vada verso qualche ricambio: Dario Franceschini potrebbe assumere il decisivo dicastero delle Riforme, mentre un avvicendamento potrebbe investire il ministero dell’Interno e dell’Università.

Certo, ad un addio così brusco, Matteo Renzi non aveva mai voluto credere. Ma quando la sconfitta è diventata batosta, a mezzanotte e un quarto del 5 dicembre, si presentato davanti alle telecamere, con la moglie Agnese a pochi passi e lui - sempre così granitico - si è commosso, la voce si è incrinata quando ha dovuto annunciare l’addio. E, per una volta leggendo dagli appunti che aveva preparato nelle ore precedenti, Matteo Renzi si è congedato da statista: «Si può perdere un referendum, ma non si perde il buon umore. Io ho perso e lo dico a voce alta, nella politica italiana non perde mai nessuno, andiamo via senza rimorsi». E ha annunciato che oggi pomeriggio sarà al Quirinale per rassegnare le dimissioni. E ha fatto capire di restare in politica: «Questi mille giorni sono volati, ora per me è tempo di rimettersi in cammino».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/05/italia/speciali/referendum-2016/renzi-mi-assumo-io-tutta-la-responsabilit-il-mio-governo-finito-kyuBiTkt1WFzk7bBMUEqlN/pagina.html
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« Risposta #145 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:22:03 pm »

Pd, patto tra le minoranze anti-voto. Così Matteo si ritrova accerchiato
Bersani e D’Alema con Franceschini e Orlando. Si va verso un governo a guida dem
Il Pd al Colle senza segretario.
Renzi non farà parte della delegazione che sabato salirà al Colle per le consultazioni. Ci saranno il vice Guerini, il presidente Orfini e i capigruppo Rosato e Zanda

Pubblicato il 09/12/2016
Fabio Martini
Roma

Lui, nel primo giorno da presidente dimissionario, ha cercato di sublimare l’onta dell’addio, interpretando il ruolo del politico lontano dal Palazzo e facendo vita di famiglia nella sua Pontassieve. Ma il Renzi bravo papà è soltanto una parte della realtà: mai come in queste ore la «fronda» dentro il Pd sta provando a diventare maggioritaria e mai come in queste ore il presidente dimissionario - che sente la tempesta in arrivo - sta brigando per provare a pilotare la crisi di governo verso l’esito più gradito. Renzi è interessato ad un governo che spiani la strada verso l’obiettivo che lo interessa di più: essere il candidato premier del Pd in vista delle prossime elezioni politiche.

Ma Renzi deve fare i conti con un Capo dello Stato che intende svolgere senza interferenze il suo ruolo. Renzi lo ha capito e infatti, da Pontassieve, ci tiene a far sapere: «Col Quirinale c’è un patto di ferro». Ma deve fare i conti soprattutto con la novità che temeva e della quale lui stesso non ha ancora tutte le coordinate: è in atto un autentico terremoto all’interno del Pd. Un terremoto destinato a ridisegnare la geografia del partito. Per effetto di una doppia novità. La prima: una parte della maggioranza «renziana» - la corrente di Dario Franceschini e quella del Guardasigilli Andrea Orlando - ha fatto un passo di lato, rompendo politicamente con il segretario-presidente. Rottura significativa perché le due correnti hanno una forte presenza nei gruppi parlamentari, tanto è vero che sono «franceschiniani» entrambi i capigruppo, quello dei deputati Ettore Rosato e quello dei senatori Luigi Zanda

Ma la seconda novità è la più corposa, la più pericolosa per Renzi: il duo Franceschini-Orlando ha stabilito in queste ore un patto di consultazione con la minoranza che fa capo a Pier Luigi Bersani e anche, ecco l’ultima sorpresa, con Massimo D’Alema, molto attivo nella cucitura. Una sorpresa perché da anni ormai le due maggiori personalità della sinistra Pd, Bersani e D’Alema, avevano rotto politicamente. Certo, è presto per capire se il nuovo asse di centro-sinistra abbia i numeri per mettere in minoranza il leader. Per il momento, non all’interno della Direzione del Pd, che infatti Renzi ha voluto in seduta permanente, elevandola così a organo deliberante durante la crisi di governo. Più incerta la situazione nei gruppi parlamentari. La corrente di Franceschini (che raggruppa in prevalenza ex popolari, ma anche personalità ex ds come Piero Fassino e la ministra Roberta Pinotti) conta su una novantina di deputati (su 301), ai quali vanno aggiunti i deputati vicino ad Orlando (una quindicina) e quelli delle minoranze, venticinque. Si arriva a malapena a 140 deputati, dunque ne mancherebbero una decina per superare la quota non soltanto simbolica del 50%. Stesse proporzioni al Senato. Anche perché con Renzi sono ancora schierati Matteo Orfini e il ministro Maurizio Martina.

Per Renzi un occhio al partito e un occhio al Quirinale. Al termine della prima giornata di consultazioni, il presidente dimissionario ha preso atto che si sta aprendo la strada per un governo guidato da una delle personalità che lui stesso ha fatto trapelare 24 ore fa: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan o quello degli Esteri Paolo Gentiloni. Due nomi che Renzi ha «calato» per verificarne l’«effetto» e anche per chiudere la strada alla candidatura di Dario Franceschini. Ma su Padoan, lo stesso Renzi ha molte riserve - troppo collegato a D’Alema, dicono a Palazzo Chigi - mentre su Gentiloni, che pure ha l’aplomb «giusto», si stanno annidando le perplessità della fronda interna, perché troppo vicino a Renzi. Ecco perché, nelle ultime ore sono risalite le quotazioni di Graziano Delrio, figura di possibile compromesso per un governo a tempo. Fino ad elezioni che avrebbero già una data: 4 giugno 2017.

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« Risposta #146 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:40:46 pm »

Renzi, dimissioni studiate per “rimettersi in cammino” verso le elezioni.
Le ipotesi per il futuro
Nel discorso della sconfitta il leader ha ritrovato un tocco umano che aveva perduto. Nuovo governo: in pole Padoan e Grasso

Pubblicato il 05/12/2016
Ultima modifica il 05/12/2016 alle ore 15:24
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Il corposo voto di “sfiducia” degli italiani lo ha spinto fuori da palazzo Chigi e ora il piano di Matteo Renzi è quello di trasformare la sconfitta al referendum nella sua vittoria alla prossime elezioni Politiche. Certo, non sarà facile, ma il progetto è lineare: anzitutto indicare al Capo dello Stato il candidato più gradito per palazzo Chigi e subito dopo, fatto il nuovo governo, Renzi intende «rimettersi in cammino», come ha detto ieri sera nel suo commosso commiato, Questo significa restare alla guida del Pd, provare ad anticipare il congresso, vincere le Primarie e proiettarsi verso le prossime elezioni come leader del Pd. Certo, non sarà una passeggiata, ora nel Pd il boccino passa al nuovo “centro”, formato dagli ex Ppi di Dario Franceschini e gli ex Ds di Andrea Orlando, Maurizio Martina, Matteo Orfini. Proveranno a spodestare il segretario? 

Operazione non semplice quella di Renzi, ma proprio a questo tragitto prelude l’uscita da “statista” del premier: mollando senza indugio la sua poltrona, il segretario del Pd intende ricostruirsi una sua “verginità”. Esattamente come fece nel 2012, quando fu sconfitto da Pier Luigi Bersani alle Primarie del Partito democratico. E proprio sul discorso di “accettazione della sconfitta”, Renzi costruì la sua rivincita alle Primarie poi vinte contro Gianni Cuperlo. Ecco, perché ieri notte Renzi ha risparmiato qualsiasi recriminazione nei confronti dei suoi avversari, a cominciare dai suoi compagni di partito. 

E alla costruzione del “nuovo” Renzi può contribuire anche quel frammento di commozione che il premier uscente ha manifestato, mentre ringraziava e salutava moglie e figli. Commozione sicuramente autentica, ma che colma uno dei deficit di immagine di Matteo Renzi, leader senza anima, che in questi mesi ha provato ad affettare emozione in circostanze drammatiche. Ma senza mai riuscire a restituire l’immagine di leader “umano”, come invece gli suggerivano i suoi consiglieri.

 Matteo Renzi questo pomeriggio si dimetterà e probabilmente indicherà al Capo dello Stato le preferenze sue e del Pd per il prossimo inquilino di palazzo Chigi. Quando Renzi vedrà Mattarella, i mercati si saranno già espressi e in caso di reazione molto “aggressiva” e speculativa, la bilancia potrebbe pendere verso un governo affidato alla guida del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma senza terremoti finanziari, il favorito resta il presidente del Senato Pietro Grasso, soluzione “naturale” in quanto seconda carica dello Stato. 

Un’altra incognita riguarda la squadra di governo. Un esecutivo-fotocopia verrebbe vissuto da Renzi come un affronto: ecco perché è possibile che si vada verso qualche ricambio: Dario Franceschini potrebbe assumere il decisivo dicastero delle Riforme, mentre un avvicendamento potrebbe investire il ministero dell’Interno e dell’Università.

Certo, ad un addio così brusco, Matteo Renzi non aveva mai voluto credere. Ma quando la sconfitta è diventata batosta, a mezzanotte e un quarto del 5 dicembre, si presentato davanti alle telecamere, con la moglie Agnese a pochi passi e lui - sempre così granitico - si è commosso, la voce si è incrinata quando ha dovuto annunciare l’addio. E, per una volta leggendo dagli appunti che aveva preparato nelle ore precedenti, Matteo Renzi si è congedato da statista: «Si può perdere un referendum, ma non si perde il buon umore. Io ho perso e lo dico a voce alta, nella politica italiana non perde mai nessuno, andiamo via senza rimorsi». E ha annunciato che oggi pomeriggio sarà al Quirinale per rassegnare le dimissioni. E ha fatto capire di restare in politica: «Questi mille giorni sono volati, ora per me è tempo di rimettersi in cammino».

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« Risposta #147 inserito:: Dicembre 17, 2016, 02:42:22 pm »

Pubblicato il 15/12/2016 - Ultima modifica il 15/12/2016 alle ore 07:23

FABIO MARTINI

Per la prima volta nella mia vita mi sono veramente vergognato di essere italiano. Il giorno della formazione del nuovo governo, del giuramento e della votazione alle Camere, tutte le tv hanno presentato uno spettacolo «unificato» di uno squallore unico. Squallido per la ripetizione continua di critiche personali, sempre le stesse, senza una sola parola costruttiva. 

Io ho vissuto momenti di rigore oggi inaccettabile: sarà anche stato eccessivo, ma sarebbe bene ricordare che una battuta su De Gasperi e una innocua vignetta dove si vedeva Einaudi che passava in rassegna una fila di bottiglie di vino Nebbiolo delle sue tenute in Piemonte hanno fatto condannare Guareschi a un anno di galera. De Gasperi ed Einaudi, faccio notare, erano uomini di Stato che rispettavano le istituzioni. Quando un «onorevole» dopo la votazione alla Camera ha definito il governo «una banda di delinquenti» avrei voluto vedere i suoi colleghi dell’altra parte gridare il loro disappunto, la presidente della Camera farlo espellere, il capo del governo dire, subito, che lo avrebbe denunciato. Non è successo nulla, tutto è proseguito serenamente, io ho spento la televisione e mi è scappato un «Vaffa…» per tutti.

Bella lettera, compresa l’imprecazione finale che può apparire greve ma rende l’idea. Ci sono tanti italiani che coltivano idee politiche le più diverse, ma vorrebbero che i loro rappresentanti le portassero avanti con nettezza ma dignità, senza bisogno di ripetere che gli avversari sono criminali. E invece lo spettacolo andato in scena in queste ore nei due rami del Parlamento dimostra una certa inadeguatezza dei diversi schieramenti: si può accusare il governo di essere inadeguato, ma non c’è nulla di delinquenziale nel chiedere la fiducia al Parlamento e ottenerla. E d’altra parte chi si sente ingiustamente investito da accuse assurde, se ne sta al coperto, per evitare di essere investito da una raffica supplementare di insulti via web. È la stagione dei codardi, quelli che si nascondono sulla Rete e chi urla in Parlamento, ma per un’inversione dei toni non è mai troppo tardi.
 
Fabio Martini, inviato per la politica italiana, già redattore del «Messaggero», autore di saggi per le riviste del «Mulino» sul carattere consociativo e «tifoso» dei giornalisti, co-autore di «Roma nascosta», «L’opposizione al governo Berlusconi» (Laterza), «Veltroni, il piccolo principe» (Sperling). 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/15/cultura/opinioni/secondo-me/insulti-sul-web-e-urla-in-parlamento-basta-con-questa-stagione-di-codardi-HmVkS59K6jeLni2J7XY4HK/pagina.html
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« Risposta #148 inserito:: Gennaio 06, 2017, 03:03:48 pm »

Il crepuscolo della tv renziana, nel mirino c’è Campo Dall’Orto   
La nemesi: la nemica Berlinguer condurrà il talk show in prima serata

Pubblicato il 04/01/2017 -  Ultima modifica il 04/01/2017 alle ore 10:51

Fabio Martini
ROMA

L’addio di Carlo Verdelli, il giornalista che avrebbe dovuto ridisegnare l’informazione televisiva pubblica, segna il punto più acuto della crisi della Rai «renziana», la Rai che Matteo Renzi un anno e mezzo fa ha affidato alle cure di un manager di sua fiducia, Antonio Campo Dall’Orto. Una crisi che dura da mesi e che, nell’ottica dell’ex premier, consumerà il suo passaggio più paradossale e doloroso tra qualche settimana: a metà febbraio un nuovo talk show di RaiTre, in onda il martedì sera, sarà affidato a Bianca Berlinguer, che l’ex presidente del Consiglio alcuni mesi fa aveva fatto allontanare dalla direzione del Tg3. Una sorta di nemesi: sia pure dietro le quinte, Renzi si era battuto anche per cancellare un talk show come «Ballarò» e far allontanare il suo conduttore, Massimo Giannini, considerato ostile. Una movimentazione che alla fine ha prodotto un plateale boomerang: il programma che ha sostituito «Ballarò» - «Politics» - ha chiuso anticipatamente e per far risalire gli ascolti il direttore generale, il «renziano» Campo Dall’Orto, ha dovuto richiamare la ex direttora del Tg3. Una sequenza eloquente: la Rai tutta «politica» di Renzi non è mai nata e la Rai, più ambiziosa, di Campo Dall’Orto si sta sgretolando.

Tutto era iniziato il primo luglio del 2015. Renzi, presidente del Consiglio già da un anno e mezzo, alla Humboldt Universität di Berlino era stato chiamato a pronunciare un discorso sul futuro dell’Europa, impegno assolto ma con una breve digressione nel corso della quale il capo del governo aveva definito i talk show «un pollaio senz’anima». Un’accusa all’informazione televisiva, ritenuta faziosa e chiassosa, ma anche il preannuncio di una offensiva. La «striscia» che segue è eloquente. Pochi giorni dopo il discorso di Berlino viene nominato, su suggerimento del governo, il nuovo Cda della Rai: alla presidenza va la giornalista Monica Maggioni, già direttora di Rainews, mentre la direzione generale è affidata ad Antonio Campo Dall’Orto, un passato da manager televisivo oltreché frequentatore abituale della «Leopolda». Il 22 dicembre 2015 il Parlamento approva una legge di riforma della governance della Rai che assegna all’amministratore delegato un super-potere: quello di indicare i direttori di rete e delle testate giornalistiche. 

E infine le nomine: il 19 febbraio 2016 il cda indica i nuovi direttori di Rete e dunque anche di RaiTre, la «bestia nera» di Renzi. Tutto sembra pronto per la «nuova» Rai targata Renzi e il programma «ideologico» lo spiega l’amministratore delegato in un’intervista al «Foglio». Per Campo Dall’Orto i nuovi talk show non dovranno «eccitare o indignare», ma invece informare meglio. Un programma molto innovativo, e per concretizzarlo RaiTre chiama un giornalista di Sky, Gianluca Semprini. Il format si rivela subito senza novità rispetto al passato, ma la vera condanna viene dagli ascolti: ogni settimana «Politics» è nettamente superato da «Di Martedì, il «talk» della «Sette» condotto da Giovanni Floris. 
Meno politica l’operazione-Verdelli. Già direttore della «Gazzetta dello Sport», già vicedirettore del Corriere della Sera», inventore della fortunata formula di «Vanity», espressione di un giornalismo «pop alto», Verdelli è chiamato da Campo Dall’Orto per ridisegnare il piano editoriale della Rai. Una missione impegnativa, tant’è che i nuovi vertici mettono da parte l’ambizioso piano preparato dal direttore uscente Luigi Gubitosi con la razionalizzazione delle testate e la riduzione dei costi, per lanciare quello di Verdelli. Ma ora si riparte da capo: tutto da rifare, tutto cancellato.

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« Risposta #149 inserito:: Gennaio 17, 2017, 11:11:49 am »


Gentiloni ha deciso: “Non ci sarà nessuna manovra correttiva”
Bruxelles prepara la lettera per il debito eccessivo. Disappunto a Palazzo Chigi per l’iniziativa Ue
Il premier Paolo Gentiloni risponde duramente all’Ue che invierà lettere all’Italia su deficit e debito eccessivo

Pubblicato il 17/01/2017
Fabio Martini
Roma

La prima, grossa grana della sua vita da capo del governo, Paolo Gentiloni ha deciso di affrontarla, stando ben attento a non abbassare la guardia. Per il momento nessuna dichiarazione ufficiale davanti alla lettera di «richiamo» in arrivo dalla Commissione europea che, senza invocarla esplicitamente, alluderebbe ad una manovra correttiva della Legge di stabilità di 3 miliardi e 400 milioni di euro. 

Ma la prima reazione del presidente del Consiglio è stata di «disappunto», di forte sorpresa per la tempistica dell’iniziativa europea. Gentiloni ritiene al limite del surreale l’approccio rivendicativo col quale Bruxelles guarda all’Italia, in settimane nelle quali sta cambiando radicalmente il quadro internazionale. 

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Con un presidente degli Stati Uniti come Donald Trump che sembra prepararsi a guardare all’Europa con un approccio potenzialmente dissolutorio, con la premier inglese Theresa May che oggi finalmente spiegherà come intende pilotare la Brexit, con la Francia a rischio-Le Pen, in sostanza con un contesto così movimentato, il nuovo presidente del Consiglio ritiene miope la richiesta della Commissione all’Italia di ridurre dello 0,2% il proprio deficit. Con una battuta del tutto informale, Gentiloni ha paragonato un atteggiamento di questo tipo a quello del pianista che continua a suonare nel saloon mentre attorno a lui imperversa una rissa.

E con questo spirito, confidato nei contatti informali di queste ore, Gentiloni ha deciso la linea per i prossimi giorni: come sempre in questi casi con Bruxelles si apre una trattativa, «l’Italia non ha alcuna intenzione di aprire guerre con nessuno», infrangere le regole o di lanciarsi nel burrone dell’extra-deficit. Ma al tempo stesso non ha alcuna intenzione - ecco il punto dirimente - di ipotizzare manovre, manovrine o aggiustamenti. 
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Al termine di una trattativa che si intende condurre senza rigidità, si rifaranno i conti e, nel caso, si ritoccheranno i numeri del Documento di economia e finanza, ma al momento nulla cambia. Anche perché, ma su questo a palazzo Chigi sono attentissimi ad evitare polemiche, la Commissione è parsa avere un approccio benevolo nei confronti di alcuni Paesi (Spagna e Portogallo e non solo) che hanno sfondato i parametri.

Certo, la posizione di Palazzo Chigi per il momento è espressa in modo informale e dunque è prematuro rilevare un discostamento da quanto dichiarato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: «Vedremo se sarà il caso di prendere misure ulteriori per sostenere i conti pubblici ma come ho sempre detto la via maestra per abbattere il debito è la crescita». Prematuro capire se sia la riproposizione della dialettica -sempre civile - tra Renzi e Padoan o se invece il ministro abbia volutamente esposto una posizione più negoziale. 

Certo, Gentiloni intende presentarsi domani a Berlino per il bilaterale con Angela Merkel con il suo stile, così diverso da quello di Matteo Renzi, ma anche con un messaggio chiaro: l’Italia è quella di prima. Rispetto alla stagione di Renzi, non si fa un passo indietro. Un Paese fondatore che continua a considerarsi in credito e non in debito rispetto a Bruxelles, anche alla luce del dossier immigrazione: è vero che su questo fronte la stagione invernale non fa testo, ma nei primi giorni del nuovo anno gli arrivi in Italia sono triplicati rispetto al periodo corrispondente dello scorso anno. 

D’altra parte il preannuncio dell’invio della lettera da parte della Commissione europea fa parte degli eventi messi nel conto. A novembre l’esecutivo Ue aveva pubblicato un’opinione attendista sulla manovra per il 2017 rilevando che il bilancio italiano era a rischio rispetto alle regole del Patto di stabilità. Nelle prossime settimane la Commissione pubblicherà il rapporto sul debito pubblico: un altro fronte sul quale l’Italia rischia grosso.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/17/economia/gentiloni-ha-deciso-non-ci-sar-nessuna-manovra-correttiva-V5sq6LrWws6ryUCWHeCAGL/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20170117.
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