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Autore Discussione: Gianfranco PASQUINO ...  (Letto 49187 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 24, 2008, 05:03:05 pm »

Pd: soluzione congresso

Gianfranco Pasquino


Molti erano i chiamati, molto pochi quelli che sono arrivati, a Roma, all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Eppure, l’Assemblea aveva un ordine del giorno importante: l’elezione della Direzione. Quando su circa tremila componenti dell’Assemblea, certamente troppi, ne pervengono fra 600 e 800, allora c’è sicuramente un problema (forse più di uno), non organizzativo, non logistico, ma politico.

La grande maggioranza dei componenti non disdegna l’onore di “fare parte” dell’Assemblea del Pd, ma, purtroppo, non si cura di “prendere parte” alle sue attività. È un segnale che ha due interpretazioni possibili. La prima è la delega, più o meno convinta, al gruppo dirigente, quello, per intenderci, che, al tavolo della Presidenza, mentre Veltroni pronunciava il suo discorso, si sprofondava nella lettura dei quotidiani oppure parlava al telefonino. Per questi delegati assenti (assenteisti?), dopo la sconfitta. non c’è nulla su cui riflettere, nulla da rimproverare/rsi, nulla da fare. Semplicemente, la sconfitta non la si poteva evitare. Ne conseguono delusione e/o rassegnazione. Dunque, non è neppure il caso di discuterne, individuarne le cause, approntare una strategia diversa. Sono, credo, atteggiamenti gravi che spiegano l’afasia/apatia dell’opposizione. La seconda interpretazione è che gli assenti, almeno una parte di loro, impossibile dire quanto piccola oppure grande, hanno deliberatamente deciso, magari anche ricordandosi di precedenti, non felici, esperienze, di non partecipare ad un evento pre-confezionato, nella consapevolezza di non avere la possibilità di cambiare nulla.

La lista della Direzione, inemendabile e, se posso permettermi, non impeccabile, è stata calata dall’alto esattamente come erano stati formati i comitati per Statuto, Manifesto dei Valori, Codice Etico. Quello che molti (o pochi) dentro il Partito Democratico e, in verità, anche fuori, vorrebbero non è una resa dei conti, ma almeno un rendiconto di tutto quello che non ha funzionato con la conseguenze assunzione di responsabilità e la possibilità di formulare una linea politica che la dura lezione dei fatti impone che sia significativamente, qualitativamente diversa. Nel frattempo Veltroni dovrebbe cercare le modalità per rilanciare il sostegno molto ampio e diffuso, ben oltre gli argini di partito, che ebbe per la sua elezione popolare, per coinvolgere attivamente quegli elettori anche per sfidare il dissenso che non viene espresso apertis verbis, a voce alta, chiara e forte, ma che striscia nelle dichiarazioni e che si annida nelle Fondazioni. Le operazioni culturali, se è questo quanto faranno le oramai numerose fondazioni, proliferate al di fuori di un Partito che non ha affatto proceduto al rimescolamento delle culture politiche sulle quali è nato, sono, non una “risorsa”, ma una sfida diretta contro il segretario e contro il partito in quanto struttura e luogo, potenziale, di elaborazione culturale. D’altronde, in mancanza di un modello organizzativo chiaramente delineato, che avrebbe qualche possibilità di radicarsi sul territorio, con tutti gli aggiustamenti per tenere conto delle differenze di aree, ovvero di essere presente e di fare politica, le correnti rappresentano qualche cosa di facile da costruire e di sperimentato.

Probabilmente, esiste una maggioranza a sostegno di Veltroni, che, più che sostenerlo, lo ingabbia. Sicuramente, non c’è grande sostegno per le idee di Arturo Parisi, che rimane l’interprete autentico dell’Ulivo che fu e del Partito Democratico che dovrebbe essere. Emarginarle con fastidio, quasi con punte di autoritarismo burocratico, ha poco di “democratico”, ancor meno se l’emarginazione si accompagna all’augurio che Parisi se ne vada. Qualcuno, forse, ricorda che il pregio maggiore dei grandi partiti è consistito e continua a consistere nella valorizzazione del dissenso, non nel dileggio, e che le idee si valutano, non guardando ai numeri che le sostengono, ma al loro merito. La via d’uscita, da perseguire non soltanto perché è probabilmente l’unica, ma soprattutto perché contiene molti elementi positivi, è la convocazione del primo Congresso Nazionale del Partito Democratico. Per farlo bisogna disporre di un elenco, non gonfiato, di iscritti, non fasulli, magari garantendo pari dignità a tutte le posizioni. Quanto ai tempi, la primavera del 2009 è una stagione propizia: un Congresso democratico, caratterizzato da un confronto di idee e con esito aperto, può anche sprigionare effetti positivi di mobilitazione elettorale, per le amministrative e le europee.

Infine, i leader (posso fare riferimento a John e a Robert Kennedy e, persino, con la speranza, a Barack Obama?) non nascono a tavolino, ma emergono nel conflitto fra persone e fra linee politiche, non fra prospettive di carriera che, purtroppo, la legge elettorale nazionale incoraggia in maniera sgradevole e riprovevole e con conseguenze pazzesche di conformismo. Mi sembra che nel Partito Democratico, il conflitto, ancorché sotterraneo, esista e che possa costituire, come hanno sempre sostenuto i grandi teorici delle liberaldemocrazie, il lievito del cambiamento. Mi attendo, dunque, le persone democratiche, queste sì sarebbero "coraggiose", che vogliano impegnarsi senza rete per dare alle idee le gambe sulle quali camminare.

Pubblicato il: 24.06.08
Modificato il: 24.06.08 alle ore 8.26   
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« Risposta #61 inserito:: Luglio 01, 2008, 06:31:45 pm »

Come fare l´opposizione

Gianfranco Pasquino


Imbarcatasi in una offerta prematura di dialogo generale/generico, senza paletti, senza priorità, senza proposte, con il governo di Berlusconi, l´opposizione del Partito Democratico si è immediatamente trovata stretta in una quasi paralizzante tenaglia. Da un lato, collocata sulla trincea più favorevole poiché antiberlusconiana di lungo e sperimentato corso, si trova l´Italia dei Valori di Di Pietro che non è esclusivamente espressione e referente di nient´affatto disprezzabili girotondini i quali, a prescindere dalle opinioni di Follini, non possono essere considerati un «incubo».

Dall´altro, si crogiolano gli ineffabili sostenitori "senza se e senza ma" del governo (nella stampa e nell´opinione pubblica) che denunciano del tutto strumentalmente le apparenti contraddizioni del Pd che loro gradirebbero fosse non soltanto dialogante, ma subalterno e connivente. Tuttavia, chiarite le differenze con Di Pietro e respinte con fastidio le critiche pelose dei berlusconeggianti, il problema di come fare opposizione, anzitutto,in Parlamento, ma anche, democraticamente, nelle piazze, esiste e deve essere affrontato. Non serve farsi confortare da numeri e da percentuali fantasiosamente interpretate che metterebbero il Partito democratico sullo stesso livello di consenso di altri partiti socialisti e socialdemocratici europei, molti dei quali sono attualmente al governo, la maggior parte lo sono stati anche a lungo e per lo più hanno prospettive piuttosto realistiche di tornarvi presto. Semmai, bisognerebbe, prestando grande attenzione ai contesti politici e istituzionali, analizzare come fanno opposizione i partiti di sinistra in Europa. Servono, invece, interventi incisivi e efficaci che caratterizzino l´opposizione del Partito Democratico non per la sua propensione al dialogo, ma per la sua capacità di contrasto e di costruzione di un´agenda diversa da quella del governo. Naturalmente, questa duplice meritevole operazione richiede che il partito eviti sia qualsiasi unanimità dietro al leader, che non potrebbe che essere fittizia e di facciata, ma non produttiva e che, in particolare, riscontrerebbe notevoli difficoltà a produrre e valorizzare idee ed iniziative originali, sia qualsiasi frammentazione in Fondazioni e altri strumenti che intendano caratterizzarsi come luoghi alternativi per il confronto di idee e di proposte, ma anche di critiche che, invece, debbono nell´istanza decisiva esprimersi negli organismi propriamente di partito.

Respingere nettamente tutti i decreti e i disegni di legge che riguardano i problemi personali del Presidente del Consiglio è un´attività democratica essenziale che va motivata con riferimento al merito di ciascun provvedimento, ma anche perché quei provvedimenti stravolgono il funzionamento del Parlamento e sono molto probabilmente forieri di scontri istituzionali, non meno gravi perché prevedibili, messi in conto, se non addirittura voluti. Si farebbe torto alle menti avvocatesche dei consiglieri di Berlusconi pensandola diversamente, ovvero come se fossero inattesi incidenti di percorso. Nessun dialogo è possibile su leggi e decreti ad personam che si configurano come fattispecie del l´irrisolto e, occasionalmente, drammatico conflitto d´interessi, gigantesco macigno sul percorso che condurrebbe al l´affermarsi di una democrazia davvero "liberale", intessuta di diritti e di doveri. Qualsiasi limitato e circoscritto dialogo non può che iniziare e svilupparsi su tematiche di interesse nazionale, ovvero relative al sistema socio-economico italiano, sulle quali forse dovrebbero riflettere anche le associazioni industriali, alcune delle quali, a partire dal vertice, appaiono già troppo appiattite sulle preferenze del governo. Non è affatto detto che l´iniziativa sulle tematiche della crescita economica, dei contratti, dei salari, della Pubblica Amministrazione debba rimanere nelle mani del governo, anche se, ovviamente, e, in una certa misura, giustamente, il governo parte avvantaggiato. Tuttavia, un´opposizione compatta, numericamente forte, competente per quel che riguarda i lavori e i regolamenti parlamentari e gli argomenti sui quali vuole sviluppare la sua azione, anche sfidando i sindacati del pubblico impiego, avrebbe molte probabilità di essere incisiva.

Scrivere un´agenda alternativa delle priorità del Paese, di quello che, come spesso si dice, interessa davvero gli italiani, è non soltanto possibile, ma indispensabile. Sarebbe leggermente meno complicato se il Partito Democratico definisse con chiarezza a chi, evidentemente non a tutti gli italiani, intende rivolgersi. Mi piacerebbe sottolineare l´opportunità di individuare i ceti sociali ai quali, seppur senza preconcette chiusure, il Pd dovrebbe fare riferimento, per esempio, nell´affrontare con determinazione la "questione salariale". La decisione di Veltroni, annunciata ieri dalla lettera all´Unità, di riportare selettivamente la proposta, il confronto e l´ascolto in un rinnovato viaggio fra gli elettori, anche come modo di radicare idee strutture del Partito Democratico, contiene le potenzialità di un miglioramento dell´attività di opposizione. Ovunque, nei sistemi politici occidentali, questo prezioso compito democratico di contrasto e di controproposta, di riscrittura dell´agenda politica, tocca, anzitutto alla leadership, del Partito e dei gruppi parlamentari, ma, nel contesto italiano attuale, vi si potrebbero concretamente esercitare tutte le Fondazioni sorte nei dintorni del Partito Democratico, per sollecitarlo e per coadiuvarlo, in special modo quelle fondazioni che si definiscono rosse e riformiste.
Da subito.



Pubblicato il: 01.07.08
Modificato il: 01.07.08 alle ore 11.53   
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 05, 2008, 09:50:24 am »

Statisti non si diventa

Gianfranco Pasquino


Seguire la densissima cronaca sia giudiziaria che più o meno rosa delle gesta di Silvio Berlusconi, dei suoi avvocati, dei suoi corifei e dei comunicatori amici è un’impresa quasi disperata, sicuramente disperante. Nel dinamismo che caratterizza tantissima parte della sua vita, di imprenditore e di politico, di uomo pubblico e di amante della famiglia, è difficile scorgere un filo rosso (sic) che spieghi le sue mosse in una strategia di lungo periodo che non sia quella di soddisfare la sua personale enorme vorace vanità.

Naturalmente, questa vanità non può in nessun modo essere soddisfatta unicamente nell’ambito del privato e ha strabordato, sarei tentato di scrivere inevitabilmente, nel pubblico. Di qui la spiegazione della sua “discesa in campo”: non soltanto salvare le sue aziende, addirittura salvare l’Italia. Come è stato autorevolmente scritto da Albert O. Hirschmann, la politica non dà la felicità, ma qualsiasi ritorno nel privato, per chi ha gustato i frutti, non soltanto della popolarità, ma del potere politico, è sempre difficilissimo e amaro. Questa considerazione vale, comprensibilmente, anche per troppi politici di professione del centro-sinistra. Silvio Berlusconi, però, è di gran lunga più in là, molto più avanti dei professionisti del teatrino della politica nel quale ha una parte da assoluto protagonista.

La sua fame di potere e di visibilità è incomprimibile e si manifesta in tutte le modalità, come abbiamo visto nelle foto degli incontri internazionali e nelle conferenze stampa, compresa la modalità telefonica che leader più prudenti dovrebbero da qualche tempo sapere tenere sotto controllo, intercettazioni o no. Non sono interessato agli aspetti personali, voyeuristici e boccacceschi delle telefonate, che peraltro fanno parte quasi di una concezione di vita mai negata, intercorse per piazzare veline e dare voti sulle loro eventuali e speciali competenze. Sono, invece, preoccupato dalla sequela di forzature, di tensioni, di conflitti che quelle telefonate, da un lato, segnalano, dall’altro, producono. So perfettamente, ma non mi pare di essere in affollata compagnia, che la fattispecie più generale è costituita dall’irrisolto conflitto di interessi, ma se lo scontro politico, che, purtroppo, sta degenerando in scontro istituzionale con il Primo ministro che coinvolge il Presidente della Repubblica, la Magistratura, il Parlamento e la stampa (il quarto potere), è giunto a questi livelli, molto dipende anche dalla incomprimibile bulimia vitalistica di Silvio Berlusconi .

Qualcuno vorrebbe mettere fine allo scontro procedendo a qualche scambio, più o meno virtuoso: stop immediato alla pubblicità/pubblicazio delle intercettazioni e rapida accettazione del lodo Schifani in cambio della ripresa, che sarebbe in verità un inizio, di una “normale” dialettica politico-parlamentare. Lo scambio avrebbe conseguenze politiche discutibili, ma soprattutto non ci sarebbero garanzie che verrebbe effettivamente portato ad una sua positiva conclusione.

Il Presidente del Consiglio sembra volere una sorta di scontro finale, che avrebbe voluto annunciare per televisione con un “Messaggio alla Nazione” attraverso il quale regolare i conti, dall’alto della sua maggioranza, non grandissima, ma, apparentemente, fin troppo compatta, con tutte le altre istituzioni. Metterebbe a rischio, forse non del tutto consapevolmente, il delicato equilibrio fra istituzioni che caratterizza tutte le democrazie di buona qualità e che non si ritrova nella versione della democrazia che i berluscones e, purtroppo, ampia parte del loro elettorato, sembrano avallare e volere imporre come unica e autentica.

No, bisogna dire e ripetere: nessuna vittoria elettorale e nessuna maggioranza parlamentare di qualsivoglia entità pongono il capo del governo al di sopra e al di fuori delle leggi, tanto meno della Costituzione. Chiamare in causa l’affare Clinton-Lewinsky significa dimenticare che il Presidente americano venne indagato per le sue menzogne e non fece mai nessuna velata minaccia contro le istituzioni che indagavano legittimamente, persino con puntiglio partisan alquanto eccessivo, sui suoi misfatti che certamente non mettevano a rischio il quadro costituzionale Usa. Quanto a Jacques Chirac, il Presidente francese era in effetti protetto, fintantoché rimaneva in carica, da uno “scudo”, ma quello scudo non era stato frettolosamente e opportunisticamente approntato dalla sua maggioranza a favore della sua persona con riferimento a reati pregressi. Altri casi di salvaguardia giuridica delle alte cariche dello Stato non mi sono noti, né mi pare vengano precisamente sbandierati dal centro-destra.

Gli uomini di Stato sanno dove e quando debbono arrestarsi per il superiore bene delle istituzioni. Qualcuno ha creduto che Berlusconi volesse inaugurare la sua second life con una trasformazione sobria, serenamente e pacatamente, in uomo di Stato che si prepara per salire al Quirinale e intende mostrarsene degno. Purtroppo, non è così, ma quello che inquieta non è soltanto la futura prospettiva di un immutato Berlusconi al Quirinale. Piuttosto, è il prezzo che le istituzioni rischiano di pagare qui e adesso per cancellare le vicende giudiziarie e le avventure personali di Silvio Berlusconi lungo il cammino di quel tentativo di ascesa.

Pubblicato il: 04.07.08
Modificato il: 04.07.08 alle ore 13.19   
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« Risposta #63 inserito:: Luglio 08, 2008, 10:10:03 am »

La politica del bordello

Gianfranco Pasquino


Di bordello, nella variante lessicale più favorevole, ovvero confusione vivace e dinamica, Umberto Bossi sicuramente se ne intende, e non sono pochi i leghisti che, in base alla loro mai dismessa concezione del partito di lotta e di governo, fanno regolarmente leva sulla confusione politica. Qualche volta, in tempi recenti, Bossi e, persino, absit iniuria verbis, Calderoli, sono apparsi a fronte di alcuni esagitati berluscones, sperimentati uomini di governo, pronti a sopire le tensioni e i conflitti (quelli dai quali non hanno nulla da guadagnare).

Pensare, però, che le loro rare e scherzose prese di distanza dalla maggioranza e dal Presidente Berlusconi rappresentino il segnale di una qualche crisi prossima ventura che impedirà al governo di giungere a fine legislatura è francamente eccessivo; sembra soltanto un fin troppo pio desiderio. Da un lato, Bossi ha imparato che tirare troppo la corda può avere effetti negativi anche sulle tematiche alle quali tiene maggiormente, quasi costitutivamente, che non sono soltanto il federalismo, ma anche i controlli sull’immigrazione e un giro di vite sulla sicurezza. Dall’altro, sembrerebbe che, almeno secondo i sondaggi di Renato Mannheimer (Corriere della Sera, 6 luglio), non soltanto sia cresciuta la fiducia degli italiani in Berlusconi fino a raggiungere il 56 per cento, una percentuale davvero elevata, ma che addirittura il 61 per cento degli italiani dia una valutazione positiva dell’operato del governo. Secondo i sondaggi di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 6 luglio), il Presidente del Consiglio è, invece, come tutti i maggiori leader politici, in netto calo di popolarità, dal 61 al 46 per cento (Veltroni dal 65 al 41), ma tutti i provvedimenti del governo, ad eccezione di quelli sulla giustizia ad uso personale, ottengono un gradimento superiore al 60 per cento. Quanto al consenso per i partiti, in declino è il Pd, dal 33 al 29, stabile il PdL al 37,5, mentre cresce di poco la Lega, e di parecchio, dal 4,4 al 7,4, Di Pietro.

In un certo senso, le voci critiche, molto quella di Di Pietro, meno quella di Bossi traggono qualche vantaggio, che potrebbe essere effimero, dall’attuale fase «bordello». È difficile dire quanto il bordello politico, e non solo, possa durare. Se il passato insegna qualcosa, la risposta è che non è destinato a sparire nello spazio di un’estate. Tuttavia, sarebbe improvvido impostare qualsiasi politica di opposizione sulla semplice attesa che il governo si faccia erodere il consenso da beghe interne. Certo, tentare di approfondire le poche contraddizioni che emergano fra gli alleati di Berlusconi è un’operazione doverosa, anche per bloccare alcuni dei provvedimenti peggiori che il governo sta facendo passare a tambur battente. Non sarei preoccupato dal fatto che Di Pietro sfrutta il suo spazio politico in maniera spregiudicata. Nel momento decisivo il suo approdo non potrà essere che una rinnovata alleanza con il Partito Democratico. Insomma, per dirla con una espressione celebre, sia la Lega che Italia dei Valori godono di alcuni momenti di «ricreazione» politica, ma i dati strutturali suggeriscono che i problemi italiani non si trovano dove questi due movimenti sono meglio attrezzati e più credibili.

In Padania e nel resto dell’Italia, le tematiche socio-economiche, la questione salariale, il diminuito potere d’acquisto delle pensioni continuano ad essere un fenomeno grave, non destinato a scomparire nella foresta di Nottingham (dove operava il vero Robin Hood). Se non c’è crescita complessiva, non ci sarà nessuna redistribuzione di risorse: diventeremo tutti (meglio, quasi tutti) più poveri. Sarà anche perché gli italiani sanno fare di conto che la più alta percentuale di approvazione dei provvedimenti del governo viene riscossa dall’abolizione dell’Ici. Allora, lasciando alla Lega e a Di Pietro il lavoro di punture di spillo che sanno svolgere con qualche abilità, sembrerebbe più opportuno che il Partito Democratico insista con sue proposte nette, precise, originali che riguardino sia il taglio delle spese che imbrigliano la crescita (a partire dal settore del pubblico impiego: non è peccato dare ragione al ministro Brunetta) sia gli investimenti che producano posti di lavoro produttivi. Magari anche i girotondisti potrebbero scoprire quale è l’asse principale (non l’unico) sul quale, chiamando Berlusconi e Tremonti a risponderne, sviluppare un’incisiva, coordinata e paziente azione di opposizione.


Pubblicato il: 07.07.08
Modificato il: 07.07.08 alle ore 8.21   
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« Risposta #64 inserito:: Luglio 15, 2008, 10:19:31 pm »

Riforme, chi decide il dialogo


Gianfranco Pasquino


In sé e per sé il dialogo, ovvero la comunicazione di idee, di proposte, di soluzioni, fra qualsiasi maggioranza e qualsiasi opposizione non è né buono né cattivo: è «normale», praticamente inevitabile.

Ma se la comunicazione non è accompagnata da una seria considerazione di quelle idee, proposte e soluzioni, è anche perfettamente inutile. Non rende migliore il governo; non rende più efficace l’opposizione; non accresce la statura politica dei proponenti; non ridimensiona l’insoddisfazione dei cittadini; e non diminuisce il disagio della loro vita quotidiana.

Nelle democrazie di buona qualità si dà per scontato che qualche volta, se e quando lo vorrà, il governo instaurerà un dialogo con l’opposizione confrontandosi sui suoi provvedimenti, magari approfittandone per appropriarsi senza troppi scrupoli di quanto di buono l’opposizione avrà suggerito. Ma, naturalmente, un’opposizione intelligente rivendicherà la bontà delle sue proposte plagiate dal governo. Altre volte, il governo andrà per la sua strada e l’opposizione giustamente non si limiterà a fare la faccia feroce, ma, alzando il tiro delle sue critiche e delle sue controproposte, organizzerà, nei casi più gravi, anche liberatorie manifestazioni di massa. Infatti, è sempre utile che l’opposizione cerchi di mantenere un collegamento stretto fra la sua attività parlamentare e la sua mobilitazione sociale che la rivitalizza.

Nel caso italiano, il non meglio precisato "dialogo" non ha mai costituito la modalità prevalente dei rapporti fra governo e opposizione. Purtroppo, le modalità prevalenti sono state rappresentate da scambi, spesso impropri e a scapito della finanza pubblica, da collusioni, da, come si è anche troppo spesso denunciato, tentativi di inciucio, più o meno mal riusciti. Adesso che la maggioranza di destra ha risolto (congelato, posposto) i problemi giudiziari del principale esponente del suo schieramento con brutalità e senza ricorso a nessun dialogo e che sta affrontando con altrettanta brutale semplificazione i problemi della sicurezza dei cittadini, come se dipendessero dalla schedatura dei bambini rom, Bossi rilancia la sua versione del dialogo. Gli preme, come ha dichiarato a chiarissime lettere, avere anche i voti della sinistra, pardon, del Partito Democratico, per fare un po’ di federalismo, fiscale e quant’altro, altrimenti il rischio è che, per quanto ancora scosso dalla sconfitta, il Partito Democratico riesca a ri-organizzarsi quel poco che basta per contrastare, con prevedibile successo, quelle eventuali riforme ricorrendo ad un referendum costituzionale che non necessita di quorum. Nel frattempo, convocando un vasto stuolo di Fondazioni e di "esperti" costituzionali di vari gradi di nobiltà e di flessibilità, D’Alema va al suo personale dialogo con l’UDC di Casini, il quale non aspetta altro che un sano e integro sistema elettorale tedesco, accompagnato dal Cancellierato. Incidentalmente, viene offerto un assetto complessivamente nient’affatto originale, per quanto sperimentato, certamente gradito anche alla Lega, poiché prevede un Senato delle Regioni, e che ha dimostrato di funzionare, anche se è molto distante da quanto elaborato, con molte oscillazioni e troppe furbizie, dai veltroniani, e dalla attuale posizione ufficiale del PD. A chi toccherà poi l’onere e l’onore, se non il piacere, di "dialogare" con il Popolo delle Libertà e il suo capo?

Non mi permetterei mai di dire altezzosamente che i problemi del paese sono altri. Questa affermazione è soltanto parzialmente corretta. Infatti, è certamente vero che i problemi del paese sono anche altri, ma pervenire ad un assetto istituzionale equilibrato fra rappresentanza politica, decisionalità governativa e controllo parlamentare, sarebbe comunque un notevole e raccomandabile passo avanti. Rimango, però, molto curioso di sapere se queste profferte di accordi, nelle quali si materializza il dialogo, servano in qualche modo, e in quale modo, all’opposizione e agli interessi, alle preferenze e agli ideali che intende rappresentare. E, più importante, se quelle profferte possano essere totalmente staccate e svincolate da tutte quelle materie, alcune già pregresse, ma nient’affatto risolte, altre, l’Alitalia, per esempio, il DPEF, i salari, sulle quali il governo, la Lega di Bossi e del Ministro Maroni compresa, non manifestano nessuna inclinazione a discutere, a confrontarsi, eventualmente a riconoscere la bontà delle controproposte dell’opposizione nonché delle obiezioni e delle critiche della Commissione Europea e del Parlamento Europeo. Insomma, questo dialogo selettivo, che blinda alcune materie e che viene deciso e pilotato dal governo soltanto se e quando gli conviene, non mi pare proprio configurare il migliore dei mondi possibili.

Pubblicato il: 15.07.08
Modificato il: 15.07.08 alle ore 8.42   
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« Risposta #65 inserito:: Luglio 18, 2008, 05:40:27 pm »

Per non dargliela vinta

Gianfranco Pasquino


A suo tempo, poco più di dieci anni fa, Berlusconi rovesciò con stizza il tavolo della Bicamerale poiché neppure l’ennesima, forse la dodicesima, bozza di riforma del sistema giudiziario lo soddisfaceva. Sulla forma di governo e sulla forma dello Stato vennero dette (e scritte) in quella Bicamerale molte proposte, anche contraddittorie, delle quali i protagonisti dovrebbero probabilmente rammaricarsi.

Ma se facessimo una anche superficiale perlustrazione delle proposte degli accademici, in special modo dei tardi intellettuali di riferimento dei leader politici, il rammarico, in qualche caso, la vergogna potrebbe estendersi a macchia d’olio. Dunque, invece di criticare D’Alema per le sue incoerenze passate, bisognerebbe sottolineare che la proposizione del modello tedesco ha quantomeno due pregi. Il primo è che investe tutto il sistema: forma di Stato, forma di governo, bicameralismo, legge elettorale. Il secondo pregio è che è un sistema sperimentato che ha funzionato ad alti livelli qualitativi e che le Grandi Coalizioni, curiosamente criticate anche da chi, magari, era a favore del compromesso storico, sono scelte politiche, praticabili in qualsiasi sistema, anche in quelli bipartitici, che non discendono necessariamente dagli assetti istituzionali. Naturalmente, è possibile e, persino, auspicabile contrapporre al disegno di D’Alema, cioè, meglio, di quattordici circa Fondazioni e centri di ricerca, un altro disegno che sia ugualmente sistemico e altrettanto sperimentato (il semipresidenzialismo francese lo è), ma non riformette a spizzichi destinate a cambiare a seconda delle circostanze e delle preferenze dei dirigenti politici che le commissionano.

Al momento, comunque, un minimo di realismo consiglia di tenere soprattutto conto del fatto che i berluscones che interpretano e eseguono i desiderata del capo non sono disponibili a nessun confronto (o dovrei scrivere "dialogo"?) su qualsivoglia proposta istituzionale di un qualche respiro. Al massimo, sono interessati a rendere difficilissima la rappresentanza dei partiti piccoli nel Parlamento Europeo e a scovare un qualche espediente per impedire che si vada al prossimo referendum elettorale. Nulla di tutto questo, a mio modo di vedere, deve essere concesso gratis dal Partito Democratico al Popolo delle Libertà, ma neanche alla Lega e all’UDC.

Certo, una maggioranza parlamentare compatta, se tale riuscirà a rimanere su queste tematiche, ha molte probabilità di averla vinta, in negativo. Ma, una buona opposizione propositiva potrebbe svolgere quella pedagogia istituzionale e costituzionale finora inadempiuta a causa delle divisioni nel centro-sinistra, offrire alternative, vendere carissima la pelle.

Sono consapevole che l’opinione pubblica italiana, da un lato, è relativamente poco interessata alle riforme istituzionali, anche se ha saputo, chiamata alle urne, difendere la Costituzione; dall’altro, probabilmente, ha molti motivi di critica nei confronti del funzionamento della magistratura. Confondendo le carte in tavola, il pool di avvocati-parlamentari del Presidente del Consiglio sta già lavorando a quella riforma complessiva che, con fortuna e tempismo, Berlusconi ha subito lanciato approfittando dell’arresto di Ottaviano Del Turco.

Inevitabilmente, contrastare punto per punto il tentativo del Popolo della Libertà e della Lega (connivente fintantoché non si opporrà in maniera palese in Parlamento) è diventata una priorità che può fare passare in secondo piano qualsiasi riforma sistemica della forma di Stato e di governo a meno che l’opposizione metta in grande rilievo due fatti tanto semplici quanto decisivi. Il primo fatto è che in Italia il problema della giustizia che incide maggiormente sulla vita dei cittadini riguarda le lentezze esasperanti e i costi della giustizia civile riguardo alla quale sarebbe bello ascoltare qualche proposta riformatrice da parte degli stessi magistrati. Possibile che fra di loro non nasca un folto movimento di "coraggiosi"? Il secondo fatto è che nei sistemi politici contemporanei, l’equilibrio fra i tre poteri, esecutivo, legislativo, giudiziario, e la misura in cui sono in grado di garantire reciproci freni e contrappesi caratterizzano e definiscono la qualità della democrazia. Dunque, non sono accettabili, neppure per quello che riguarda il potere giudiziario, né riformette né riformone ad hoc.

Nella situazione italiana, non è oramai neppure più accettabile un equilibrio che appare insoddisfacente, poco dinamico, costoso, in termini di tempi della giustizia, per i cittadini e per il sistema politico. Opporsi, in maniera motivata e non soltanto conservatrice, agli interventi contro la magistratura vagheggiati da Berlusconi è assolutamente necessario. Contrapporsi alle conseguenze sistemiche di quegli interventi è possibile soltanto proponendo e disegnando un nuovo sistema di freni e contrappesi che non si fa fatica a ritrovare né nel contesto tedesco né in quello francese e che, pertanto, consentirebbe di tenere insieme una riforma complessiva del sistema politico-istituzionale, chiara nella sua impostazione, sufficientemente prevedibile nei suoi esiti non pregiudizievoli per i delicati equilibri democratici.

Pubblicato il: 18.07.08
Modificato il: 18.07.08 alle ore 12.54   
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« Risposta #66 inserito:: Luglio 22, 2008, 11:24:48 pm »

Opposizione vuol dire

Gianfranco Pasquino


L´opposizione del Partito Democratico e quella dell´Italia dei Valori debbono ragionare, senza farsi illusioni, come se il governo di destra durasse per tutta la legislatura. Debbono anche non trascurare le ambizioni del presidente del Consiglio di essere eletto, appena possibile, al Quirinale. In special modo, nessuna illusione deve essere nutrita sulle probabilità che la Lega metta in crisi il governo al quale partecipa con ministri in posizione di rilievo. Lo «scambio» fra Popolo delle Libertà e Lega, con la riforma della giustizia che procederà in una camera mentre, in contemporanea, nell´altra camera si farà strada il federalismo, fiscale e più, deve essere criticato non in quanto scambio, ma per i contenuti, anticipati e prevedibili, della riforma-addomesticamento della giustizia e per i meno prevedibili e i meno noti meccanismi del federalismo che, incidentalmente, dovrà essere accompagnato quantomeno dalla riforma del bicameralismo. È giusto che le opposizioni si propongano di evidenziare e di approfondire le, molto eventuali, contraddizioni all´interno della maggioranza di governo.

Qualsiasi spazio si apra in Parlamento deve essere sfruttato, ma quel che più conta è il collegamento fra la battaglia parlamentare, quotidiana e di lungo corso, e l´opinione pubblica, proprio nella prospettiva del completamento dei cinque anni di legislatura. In un certo senso, l´operazione da condurre, che può passare attraverso anche manifestazioni tipo Piazza Navona, è in senso lato, ma molto concreto, pedagogico-culturale.

Negli oramai quindici anni trascorsi dal crollo del sistema partitico, dalla comparsa di nuovi attori politici e dalla trasformazione dei vecchi, le forze sociali e economiche si sono dislocate in maniera prima del tutto imprevista dalla sinistra, poi sottovalutata nella sua durata e nella sua intensità. Tutti (o quasi) hanno constatato la comparsa di elementi corposi di demagogia e di populismo, nonché di egoismo delle diverse categorie, elementi che erano stati, bene o male, tenuti sotto controllo, seppure in maniera diversa, ma non debellati, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista. Affascinati oppure accecati dalla tesi della "società liquida", pochi hanno provato ad esaminare le vittorie elettorali della destra, non soltanto nelle regioni del Nord, come il prodotto della comparsa di un nuovo blocco sociale al quale la figura dell´imprenditore Silvio Berlusconi dà espressione e la carica di Presidente del Consiglio offre la necessaria e desiderata traduzione governativa. Allora, le contraddizioni da evidenziare e da approfondire è meglio cercarle nel composito, ma non per questo meno solido, blocco sociale della destra, piuttosto che nella sua rappresentanza parlamentare. Questo blocco sociale non sembra particolarmente interessato alle tematiche etiche e dei valori, tantomeno inquietato dagli sfregi che Bossi e troppi berluscones infliggono alla Nazione e alle istituzioni. D´altronde, tutte le statistiche internazionali segnalano che è l´Italia nel suo complesso a non avere alti standard di moralità accompagnati da un´alta incidenza di corruzione. E Nando Dalla Chiesa ha fatto benissimo a ricordare sulle pagine de "l´Unità" che sono molti, forse già troppi, i casi nei quali anche la sinistra è colpevole di non avere tenuto alta la guardia nei confronti della corruzione e di avere lasciato che circolino al suo interno anche non marginali episodi di conflitto di interessi. La corruzione e il conflitto di interessi sono da combattere "senza se e senza ma", magari anche evitando di mostrare eccessivo compiacimento per quanto onesta, seria, eticamente superiore sia la sinistra, ma per disarticolare il blocco sociale della destra ci vuole altro. L´attenzione deve essere indirizzata in maniera mirata a quello che il governo promette e a quello che fa, non fa, fa male per l´economia e per il welfare. Non entro nei dettagli che economisti e sociologi autorevoli hanno già variamente criticato, ma qui stanno per l´appunto le contraddizioni. Agli occhi dei componenti del blocco sociale della destra bisogna fare vedere e provare che la crescita del paese, e quindi del loro fatturato, presente e futuro, non è affatto dietro l´angolo (come pensava e plaudiva la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia), che la competitività del paese non sarà possibile senza investimenti nell´ istruzione e nella ricerca, spese che, invece, il governo Berlusconi taglia, che tagliare la spesa pubblica (e magari anche i costi della politica) è auspicabile nella prospettiva di investire quanto si risparmia, che, infine, il pubblico, tanto deprecato dalla maggior parte dei componenti del blocco sociale della destra, può anche essere ridimensionato, ma l´obiettivo deve essere molto più ambizioso: renderlo efficiente. Aggiungerei, ad uso di coloro, soprattutto al Nord, che pensano, una volta conseguito il federalismo fiscale, di potere fare a meno di una politica nazionale, che siamo e continueremo ad essere nella stessa barca.

Predicare tutto questo sarà difficile; farlo è indispensabile. L´opposizione ha qualche probabilità di disarticolare il blocco sociale della destra confrontandosi con le proposte del governo e con le aspettative dei settori sociali che lo hanno ripetutamente sostenuto per quindici lunghi anni. Mostrare capacità di comprensione dei problemi e proporre soluzioni capaci di combinare la ristrutturazione del settore pubblico con la crescita e con l´efficienza sono le due leve con le quali sarà possibile disarticolare il blocco sociale della destra.

Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 13.06   
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« Risposta #67 inserito:: Luglio 28, 2008, 11:22:20 pm »

Nessuna Rifondazione

Gianfranco Pasquino


L’esperimento della Sinistra Arcobaleno, affrettato dalla scadenza elettorale e nato in stato di necessità, senza una guida visibile e convincente, privo di un progetto, non poteva avere successo. La inaspettata, ma meritata, scomparsa dal Parlamento degli esponenti di quello che fu soltanto un cartello elettorale è stata decretata, non dal terremoto provocato dal «voto utile».

Ma dalla decisione degli elettori che era davvero inutile votare coloro che non avevano (non hanno) ancora deciso quali debbono essere i loro comportamenti politici, quanta lotta e quando, quanto governo e quando, per quale sinistra, per quali prospettive. Nessuno, infatti, può negare alla sinistra il diritto di manifestare in piazza e di formulare politiche alternative. Ma, quando si è al governo, il dissenso non si esprime con Ministri e segretari di partito che vanno in corteo e le politiche alternative si formulano, eventualmente, nelle sedi governative e parlamentari. Certamente anche per la schizofrenia dei comportamenti e della dichiarazioni dei loro dirigenti, compreso l’allora Presidente della Camera dei Deputati, più della metà dell’elettorato congiunto dei partiti che diedero vita alla Sinistra Arcobaleno li abbandonò al momento del voto del 13 aprile 2008. Appare improbabile che, al termine della stagione dei loro piccoli congressi, quell’elettorato abbia ascoltato messaggi convincenti e stia preparandosi a tornare. Senza nessun barlume di innovazione, i Verdi e i Comunisti Italiani hanno sostanzialmente optato per la continuità delle loro organizzazioni e persino della loro leadership (magari qualche volta qualche dirigente si dimettesse assumendosi la responsabilità delle sconfitte elettorali e non cercasse di imporre il suo successore).

Alla luce dell’esito di un congresso combattuto fra opzioni e posizioni alquanto differenti e distanti, Rifondazione comunista che, in quanto struttura più radicata e più solida, potrebbe (ri)prendere la guida di un processo di rinnovamento della sinistra radicale, antagonista, alternativa (a che cosa?) o comunque preferisca definirsi, sembra non riuscire a guardare avanti, a offrire ad uno sparso elettorato di sinistra qualcosa di politicamente nuovo. Salvare l’identità, peraltro, non meglio definita (ancora puramente e duramente "comunista"? a giudicare dal canto di "Bandiera rossa" la risposta è certamente affermativa) può servire nel migliore dei casi a garantire qualche carica elettiva locale e, a seconda di dove verrà collocata la soglia di sbarramento, anche europea. Ma questo è il passato quando le cariche elettive erano essenziali per il radicamento del partito. Non si è intravista nessuna elaborazione di un futuro politico possibile, nessuna effettiva "rifondazione" di un pensiero nuovo, di una strategia di sinistra originale, neppure nell’emotivo discorso di Bertinotti. Dunque, la maggioranza, per quanto risicata, di Rifondazione ritiene che il governo di destra durerà cinque anni e che la guerra contro le politiche di destra potrà, anzi, dovrà essere condotta in maniera orgogliosamente identitaria.

È una brutta notizia anche per il Partito Democratico poiché le alleanze necessarie per continuare a governare a livello locale senza regali per la destra diventeranno inevitabilmente più difficili e conflittuali. Non potranno sicuramente essere costruite intorno a stanche ripetitive rituali riaffermazioni di identità invece che facendo preciso riferimento a programmi da stilare e a politiche da attuare. Forse, la notizia non è del tutto brutta per i Verdi e per i Comunisti Italiani che, avendo messo in piazza la loro indisponibilità e, più probabilmente, incapacità di cambiare/cambiarsi, non correranno il rischio di essere sfidati nella organizzazione di qualcosa di diverso e di migliore della Sinistra Arcobaleno. Ma, che cosa può essere diverso e migliore se nessuno dei tre partitini ha osato indicare un futuro appetibile e percorribile? A ciascuno la sua identità e la sua nicchia, anche se è facile prevedere che i voti continueranno ad essere pochini.

Soprattutto, però, la notizia è pessima per tutti quegli elettori che ritengono che le loro opinioni e le loro preferenze non sono rappresentabili dal Partito Democratico, ma che avrebbero maggiore peso e potrebbero esercitare qualche influenza grazie ad un’organizzazione di sinistra capace di pensare e di agire nell’ottica dell’elaborazione di un programma di governo, anche con necessarie radicalità sui valori e sui diritti, e della conseguente assunzione di responsabilità che comincia proprio, nella migliore tradizione della sinistra e del comunismo italiano, dal modo di fare opposizione. Rifondazione comunista ha perso l’occasione. Non ha saputo compiere questo passo. Non è neppure un passo indietro: è uno stallo triste. Troppo passato, nessuna Rifondazione.

Pubblicato il: 28.07.08
Modificato il: 28.07.08 alle ore 8.45   
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« Risposta #68 inserito:: Agosto 04, 2008, 07:42:36 pm »

Alleati contro la verità

Gianfranco Pasquino


La commemorazione della strage alla stazione di Bologna si presta ogni anno regolarmente a tentativi di riscrivere quanto è stato accettato in via definitiva in sede giudiziaria attraverso cinque processi. Il tentativo più insidioso, ma non per questo meglio fondato, è quello che mira a individuare presunte responsabilità di una qualche pista, più o meno rossa, che coinvolga i palestinesi e qualche terrorista sciolto, ma che, soprattutto, consenta di togliere dalla lapide posta alla stazione la qualificazione «fascista».

In assenza di elementi nuovi che sono, come ha mostrato sulle pagine de l’Unità l’approfondita ricostruzione effettuata da Gigi Marcucci, alquanto sporadici e labili, la verità giudiziaria deve fare testo e costituisce, pertanto, il massimo di verità storica alla quale è finora stato possibile pervenire. Fino a che erano soltanto qualche ex-fascista e qualche ex-democristiano bolognesi alla ricerca di facile pubblicità a sostenere, senza uno straccio di elemento nuovo di una qualche rilevanza, la cancellazione dell’aggettivo «fascista», il problema si poneva esclusivamente sul piano della pur deprecabile polemica politica contingente ed effimera. Ad eccezione dei giorni intorno al 2 agosto, i “revisionisti” non si sono mai dedicati all’approfondimento dei loro sospetti. Invece, quando è il messaggio del Presidente della Camera a suggerire la necessità di indagare su un’altra pista, allora la questione diventa molto più delicata.

Da un lato, è curioso che sia proprio Gianfranco Fini, di cui non ricordo precedenti interventi in materia, a farsi sostenitore di una tesi al momento fragilissima. Proprio lui che ha fatto molto per allontanare la sua Alleanza Nazionale da un passato torbido, fatto anche di azioni teroristiche, si preoccupa oggi di un aggettivo che non dovrebbe più in nessun modo riguardare il suo partito tantomeno in proiezione futura. Perché attirare incautamente l’attenzione su un’attribuzione che i giudici hanno ritenuto credibile e definitiva? Forse soltanto per ricompattare l’ala dura del partito, con agganci in alcune frange esterne, che morde il freno dovendo sostenere e ingoiare provvedimenti sgraditi del governo in materia di giustizia? Dall’altro, forse, è persino paradossale che sia il capogruppo del Popolo della Libertà alla Camera, Fabrizio Cicchitto, agli inizi degli anni Ottanta cacciato dal Psi ad opera di Craxi perché trovato iscritto alla loggia P2, ad avallare il messaggio di Fini, con tutta probabilità anche per conto di Berlusconi. Quand’anche esistesse una pista diversa da quella fascista, rimane il caso di ricordare che i giudici hanno condannato per depistaggio più di un agente dei servizi segreti, appartenenti alla P2. Perché mai i piduisti avrebbero dovuto “coprire” i palestinesi e le responsabilità di qualche residuale terrorista rosso? Infine, è interessante notare che a questa opera di improbabile riscrittura dei fatti non si è in nessun modo prestato il rappresentante del governo, il ministro per l’Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi. Al contrario, subito criticato da qualche estremista ex-democristiano, Rotondi ha sottolineato l’importanza dell’antifascismo e dell’impegno civile della città di Bologna. Non è affatto un gioco delle parti poiché il ministro, che ha parlato a braccio, persino interloquendo, nella misura del possibile, con parte della piazza, esprimeva certamente le sue convinzioni personali, ma non poteva non impegnare anche, proprio per il suo ruolo e il suo compito, la posizione del governo. A maggior ragione, dunque, risultano oscure le motivazioni di Fini e il sostegno non richiesto, ma subito concesso, da Cicchitto, anche lui una new entry nel complesso e doloroso discorso di quanto ancora non sappiamo sulla strage di Bologna.

Qualcuno potrebbe affermare che il Presidente del Consiglio non può che appoggiare sia Bossi sia Fini quando costoro hanno delle difficoltà con le componenti più estremistiche dei loro rispettivi partiti. E che, dal canto suo, Fini ha bisogno di quell’appoggio e ha sfruttato l’occasione forse più controversa. Eppure “fascista” è una connotazione che non dovrebbe disturbare più il Presidente della Camera. Anzi, potrebbe consentigli di “depurare” Alleanza Nazionale da eventuali scorie rimaste. Sarebbe meglio per tutti, piduisti compresi, se possono permetterselo, rivolgere l’attenzione alla ricerca non di altri, improbabili esecutori della strage fascista, ma dei mandanti. I molti deliberati depistaggi e il passare degli anni rendono sempre più difficile illuminare quello che rimane il punto oscuro della strage di Bologna: chi ha armato, autorizzato, coperto gli stragisti? Con quali motivazioni si è potuto dare mandato per l’esecuzione della più sanguinosa strage della storia italiana? I giudici possono con impegno e meticolosità produrre una verità. Lo hanno fatto. I politici di vertice dovrebbero avere il compito, non di spostare l’attenzione dai fatti accertati e di inquinarli, ma di sgombrare il campo dagli ostacoli tuttora frapposti all’individuazione dei mandanti.

Pubblicato il: 04.08.08
Modificato il: 04.08.08 alle ore 11.32   
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« Risposta #69 inserito:: Agosto 11, 2008, 10:00:48 pm »

Un partito più Democratico

Gianfranco Pasquino


Non è soltanto una preoccupazione estiva, di vacanze che, in modo speciale, per il governo e il suo capo, si presentano particolarmente rilassate (hanno ottenuto tutto e di più), ma il Partito Democratico continua ad apparire, a quasi un anno dall’elezione del suo segretario, una struttura non completata. Anzi, sembra, da un lato, ricadere, soprattutto a livello locale, sui tradizionali, collaudati, ma non spesso brillanti moduli del funzionamento passato, dall’altro, non avere una bussola per il futuro. Ha certamente ragione Antonio Padellaro nel notare qualche disinvoltura collaborativa di troppo manifestata da alcuni esponenti non marginali del Partito Democratico, che magari, si sono sentiti abbandonati o non abbastanza valorizzati, ma il problema rimane. Aggiungerei che è apparso anche in sede parlamentare quando il PD non ha saputo prendere una chiara posizione sul conflitto di attribuzioni sollevato dalle due camere nel caso Englaro. Su un argomento di tale rilevanza, un grande partito elabora una posizione propria oppure concede a ciascuno dei suoi parlamentari di argomentare la sua posizione in «scienza e coscienza» (come ha fatto, in maniera eccellente, Barbara Pollastrini) comunicando in questo modo a tutti gli elettori informazioni di notevole importanza e anticipando una propria posizione legislativa, sperabilmente capace di ampliare gli spazi di libertà delle persone.

Non è chiaro in che modo la raccolta di cinque milioni di firme e la manifestazione di massa del 25 ottobre potranno contribuire al rilancio di quella che è stata e ha le potenzialità per continuare a essere una grande operazione politica. L’obiettivo ultimo, e neppure il più importante, del Partito Democratico non può essere semplicemente la semplificazione del sistema partitico, e neppure la cancellazione della pur criticabile sinistra-sinistra, che, nel frattempo, ha dimostrato con i suoi congressi di non avere imparato niente e i cui dirigenti si preparano, come se niente fosse accaduto, a rioccupare molte cariche elettive, nelle amministrazioni locali e nel Parlamento europeo approfittando dei relativi sistemi elettorali proporzionale. L’obiettivo ultimo del PD che bisogna conquistare e ribadire giorno per giorno è quello di costruire e fare funzionare un grande partito democratico e riformista. Entrambi gli aggettivi mi paiono fortemente appannati e quanto al sostantivo sembra che di partiti ce ne siano diversi a livello locale, che vanno per la loro strada, non, peraltro, per accertata libertà federalista, ma per egoismi localistici. Per di più, non soltanto sarebbe inutile nasconderselo, ma sarebbe anche controproducente, esiste una corrente di pensiero, non tanto sotterranea, che già mette in conto una crisi della leadership di Veltroni e una sua possibile-probabile sostituzione se l’esito delle elezioni della primavera 2009 non sarà confortante. Quell’esito negativo non è affatto predeterminato, anche se i sistemi proporzionali renderanno meno incisivo l’appello al voto utile, ma il contro-esito positivo deve essere intelligentemente e pazientemente costruito. A mio modo di vedere, è venuto meno lo slancio iniziale poiché troppe decisioni importanti non sono state discusse nelle sedi apposite. Troppo spesso il gruppo dirigente ha preferito fare quadrato intorno a Veltroni, e lo stesso Veltroni, invece di giocare in campo aperto e di reagire con proposte e con sfide, ha preferito farsi proteggere. Troppo spesso le decisioni sulla composizione di alcuni organismi dirigenti sono state preconfezionate e hanno dovuto essere digerite, per, sempre riprovevole, carità di partito, lasciando non pochi mugugni che si traducono poi in minore attivismo, se non, addirittura, in disimpegni.

Quando, poi, la critica, a mio parere, fondata, è stata portata da Arturo Parisi direttamente sulle modalità visibilmente poco democratiche della gestione dell’ultima poco frequentata Assemblea del PD, si è preferito guardare al dito (lo stesso Parisi) piuttosto che alla luna da lui indicata, ovvero a un clamoroso calo di partecipazione, e criticarlo duramente, persino sul piano personale, quasi che colui che più si è battuto per l’idea del Partito Democratico intenda affossare il partito e non, piuttosto, farne davvero un Partito, che sia davvero Democratico. Invece di reagire con proposte concrete e anche con opportune correzioni di linea, il gruppo dirigente si limita a esternare qualche preoccupazione per lo sfarinarsi del partito in più o meno attive Fondazioni di studi e di ricerche i cui risultati, peraltro, non potranno dare profitto e lustro al partito, neanche lo volessero i «fondatori», poiché non esistono sedi apposite nelle quali procedere alla discussione e alla valorizzazione di quei risultati. Le Feste dell’Unitá (con qualsiasi altro nome si chiamino, «ma non è un piccolo particolare»), così poeticamente difese da Ugo Sposetti, potrebbero, anzi dovrebbero essere non soltanto luogo di sano divertimento, ma di altrettanta sana discussione politica. Sembra, invece, che nella maggior parte dei casi, gli organizzatori abbiano deciso di evitare confronti senza rete e di non invitare ospiti non allineati. Però, è soltanto dal conflitto, aperto ed esplicito, argomentato e giustificato, su idee, posizioni, progetti (e le materie, anche quelle che approderanno in Parlamento, non mancano) che il Partito Democratico riuscirà a ricevere nuovo slancio e che il suo segretario, se lo vorrà, potrà ottenere materiale per riflettere e per ridefinire le modalità di funzionamento degli organismi dirigenti e le modalità di attuazione della stessa linea politica. L’estate che non è finita è ancora in grado di portare buoni consigli e migliori propositi.

Pubblicato il: 11.08.08
Modificato il: 11.08.08 alle ore 8.10   
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« Risposta #70 inserito:: Agosto 18, 2008, 11:19:20 pm »

A proposito di Regime


Gianfranco Pasquino


Hanno ragione (o torto) tutti (o quasi). Come si può negare a "Famiglia Cristiana" il diritto di criticare il governo per le impronte ai bambini rom? Non si può e non si deve.

Magari "Famiglia Cristiana" potrebbe mostrare (quasi) la stessa sensibilità e la stessa caritatevole attenzione verso le donne e gli uomini quando si discute di questioni di vita e di morte, di tematiche bio-etiche, di libertà di scegliere, anche dolorosamente.

Allora, sicuramente, il Vaticano non la sconfesserebbe poiché le sue posizioni riflettono (senza quasi) esattamente quelle del Pontefice e della Conferenza Episcopale Italiana che, inoltre, vengono, piuttosto strumentalmente, sostenute da tutto il centro-destra italiano, a cominciare dal capo del governo. Quando si passa allo scenario politico italiano, “Famiglia Cristiana” ha davvero bisogno di citare il confratello cattolico progressista francese “Esprit” per sostenere che il fascismo potrebbe (quasi) rinascere in Italia? Sarebbe preferibile che il settimanale cattolico italiano si assumesse limpidamente le sue responsabilità e facesse sapere ai suoi lettori esattamente come la pensa. Naturalmente, a fare dell’Italia un paese fascista e di Berlusconi un Mussolini contemporaneo non possono essere sufficienti né i pareri di alcuni intellettuali e registi né le azzardate comparazioni degli storici. Per esempio, né Mussolini né Hitler furono eletti dai rispettivi cittadini. Quanto al Führer, venne nominato Cancelliere dal presidente Hindenburg; poi le successive elezioni tedesche furono tutto meno che libere competizioni elettorali. Questo non significa affatto che il fascismo, con un altro nome e con altre caratteristiche, non possa fare la sua ricomparsa, in primis, in Italia. Potrebbe anche avere il volto del berlusconismo e tradursi in un consenso, più o meno passivo (una specialità italiana), prodotto dalla televisione (eppure gli italiani hanno anche altre fonti di informazione, non soltanto l’autorevole settimanale inglese, “Economist” ed “Esprit”, ma anche la fin troppo esaltata internet, i viaggi all’estero, i soggiorni di studio, le esperienze lavorative in Europa e, per esempio, in Cina), diffuso, ovattato, opportunistico.

Un regime fa la sua comparsa, oppure viene deliberatamente creato, quando chi governa approfitta della situazione favorevole e costruisce/impone condizioni nelle quali l’opposizione non riuscirà più ad avere decenti possibilità di sconfiggere e di sostituire il governo. Non mi pare che questo sia avvenuto nel corso del precedente quinquennio di governo del centro-destra (2001-2006) e non vedo segnali in questo senso. Alcune politiche del governo sono assolutamente deprecabili, ma nessuna, a mio modo di vedere, ha finora ridotto le possibilità dell’opposizione di esprimere, manifestare, organizzare il suo dissenso e comunicarlo all’opinione pubblica italiana, e internazionale, che, peraltro, troppo spesso inadeguatamente informata, non capisce che cosa sta succedendo in Italia. Il problema che vedo emergere è, piuttosto, il prodotto di alcuni vecchi vizi italiani: un po’ di opportunismo, magari «dolce», vale a dire mostrarsi compiacenti con chi detiene il potere politico, e un po’ di trasformismo, magari «mite», vale a dire, salire agilmente sul carrettino del vincitore. Capisco che è difficile fare opposizione in una condizione di chiara minoranza e che è ancora più doloroso, per chi è abituato ai privilegi del potere, pensare di rimanere per cinque lunghi anni a «pane e cicoria». Tuttavia, questa è inevitabilmente la condizione delle opposizioni nei sistemi politici democratici, dall’Inghilterra alla Spagna, dalla Francia alla Svezia, paesi nei quali, è vero, non ci sono né Berlusconi né Bossi, ma dove qualche governante potente ha pure esercitato con ferrea durezza il potere acquisito. Se e quando l’opposizione non riesce a impostare il suo lavoro con intelligenza e lungimiranza, ma anche con la necessaria intransigenza, rischia che dai suoi ranghi escano coloro che sono ambiziosi e che si sentono poco e male utilizzati. Qualche volta è un problema di uomini, e delle loro debolezze. Più, spesso, però, è un problema di inadeguata distribuzione di compiti e di insufficiente progettualità. Ciononostante, neppure qualora l’opposizione non riesca a trovare il suo ruolo e a rilanciarsi l’esito automatico in Italia sarà un novello fascismo. Ne seguirebbe, forse, un blando e grigio autoritarismo, neppure troppo cattivo e severo, selettivo nei suoi premi e nelle sue punizioni, insofferente delle proteste europee, ma, in definitiva, costretto a stare abbastanza in riga proprio dalla necessità di non fuoruscire dall’Unione Europea. Non sarebbe un futuro radioso, ma non è neppure un futuro inevitabile. È compito e responsabilità dell’opposizione e dei suoi dirigenti individuare e sfruttare i punti deboli del governo e informare e convincere l’opinione pubblica, ovvero quella sua parte più attenta e più disponibile, che con un altro governo staremmo tutti meglio. Ci sono cinque anni per attuare, senza andare sopra le righe, diventando di conseguenza poco credibili, e senza defezionare per amore di visibilità, di prestigio, di potere, questa faticosa opera di persuasione democratica.

Pubblicato il: 18.08.08
Modificato il: 18.08.08 alle ore 6.19   
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« Risposta #71 inserito:: Agosto 24, 2008, 09:55:06 pm »

Spezzatino alla Padana

Gianfranco Pasquino


Non è per niente vero che le alternative ad una riforma amministrativa, burocratica e politica delle Stato italiano si riducano ad un brillante accentramento delle funzioni alla francese e al semifederalismo alla tedesca, come lo aveva giudicato a suo tempo l´allora ideologo della Lega Gianfranco Miglio. Per rimanere alle esperienze europee, si potrebbe guardare allo statuto delle autonomie spagnole e all´efficace processo di devolution di rappresentanza politica, poteri e funzioni dal Parlamento di Westminster.

Oppure alle assemblee scozzese, gallese e nordirlandese, ciascuna delle quali ha scelto, entro determinati limiti, compiti e uoli che pensava di saper svolgere meglio degli inglesi. Sarà anche opportuno ricordare che, guardando ai fondamentali, qualsiasi soluzione venga prescelta nel contesto italiano attuale, è assolutamente fuori luogo parlare di federalismo quando qualcuno riesce a strappare funzioni e soldi allo stato e all´amministrazione centrale. Quand´anche lo si facesse in maniera efficace questo tipo di intervento sarebbe nel migliore dei casi una fattispecie di devolution. E´ persino fastidioso dovere sottolineare ancora una volta che il federalismo originale e vero nasce dal basso, quando le autonomie locali, Comuni, Province ed eventualmente Regioni, decidono di concedere allo stato e all´amministrazione centrale (come fecero le classiche tredici colonie americane) quei poteri e quelle funzioni che altrimenti loro stesse non sarebbero in grado di esercitare in maniera tale da migliorare la qualità della vita dei loro cittadini. Infatti, che si tratti di federalismo oppure più correttamente di devolution, l´obiettivo, preferibilmente denunciato in maniera chiara e perseguito in maniera trasparente, meglio se accompagnato da qualche criterio esplicito e preciso di valutazione, deve essere per l´appunto la qualità della vita dei cittadini.

Se questi sono i fondamentali e, senz´ombra di dubbio, lo sono, è molto curioso e altrettanto pericoloso, che più che di funzioni e di competenze, si discuta di tasse quasi esclusivamente per sostenere che debbono rimanere prevalentemente laddove, più precisamente nelle regioni, vengono pagate. Comunque, quand´anche si giungesse ad un sedicente federalismo fiscale, sarebbe indispensabile costruire un federalismo competitivo perché soltanto la competizione fra gli organismi "federalizzati" consentirebbe ai cittadini di valutare e scegliere a ragion veduta. E´ sufficiente pensare all´istruzione che, affidata alle singole regioni, supponendo che tutte e non soltanto la metà di loro siano in grado di dotarsi e di fare funzionare sistemi scolastici di eccellenza, dovrebbe produrre una vasta circolazione di studenti da regione a regione alla ricerca dell´istruzione migliore per i loro obiettivi personali e secondo i loro talenti individuali.

Sarebbe anche il caso di porre in maniera problematica l´interrogativo relativo alla capacità delle regioni attualmente esistenti. Alcune di loro sono palesemente artificiali e quasi totalmente inefficienti e si potrebbe anche proporne fruttuosi accorpamenti eventualmente sotto forma di macroregioni. Altre, quelle a statuto speciale, risultano ultrabeneficate senza giustificazioni che tengano più. Per molte il rischio è di trovarsi a svolgere nuovi compiti probabilmente non richiesti da loro, ma imposti dall´alto. Se esistessero davvero i federalisti e non si trattasse, invece, di avventurosi avventurieri padani alla ricerca di qualche colpo di dubbio prestigio, tutti questi problemi, unitamente ai costi della crescita inevitabile di apparati burocratici, dovrebbero essere squadernati davanti all´opinione pubblica. Forse, si potrebbe anche dettare una nuova agenda basata sulle municipalità che rappresentano le autonomie storiche con le quali la quasi totalità degli italiani si identifica con notevole soddisfazione e compiacimento. E´ sperabile che i commentatori, che tardivamente si sono accorti dei problemi, e che i politici, che dovranno formulare le soluzioni, acquisiscano al più presto tutti i dati e facciano due conti. In caso contrario, giungeremmo soltanto faticosamente e costosamente a cucinare un indigeribile spezzatino alla padana.

Pubblicato il: 24.08.08
Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.43   
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« Risposta #72 inserito:: Settembre 25, 2008, 04:47:32 pm »

Chi ha paura delle Primarie

Gianfranco Pasquino


Un partito si impianta, si costruisce, si rafforza e, persino, si espande quando le sue procedure di reclutamento degli iscritti sono inclusive, vale a dire aperte ad un seguito potenziale molto ampio, e le sue procedure di selezione dei dirigenti e dei candidati sono altrettanto aperte, ma anche trasparenti e competitive. Nel suo Statuto nazionale (e, per quello che è possible saperne, anche negli Statuti regionali), il Partito Democratico afferma solennemente principi.

Il primo, che tutte le cariche monocratiche debbono essere contendibili. Il secondo, che le primarie debbono costituire lo strumento principale per scegliere le candidature a quelle cariche, ovvero per consentire agli iscritti e, forse anche agli elettori potenziali di partecicpare ai processi di selezione. Naturalmente, almeno in una certa misura, è comprensibile che il passaggio dalla lettera (e dallo spirito) degli statuti alla pratica risulti in non poche realtà locali alquanto complicato e conflittuale. Tuttavia, almeno su un punto, dovrebbe essere reso chiaro e ribadito che non si può tornare indietro. Qualora ci sia più di una candidatura ad una carica elettiva si debbono indire elezioni primarie e non come qualcuno ha sostenuto convocare «robuste e sane (a parere di chi?) assemblee cittadine» che non sono menzionate da nessuna parte nello Statuto e che certamente sarebbero tutto meno che mobilitanti per gli iscritti e gli elettori. A Firenze, grazie al fatto che il sindaco non è rieleggibile, la situazione sembra chiarissima. Si sono variamente manifestate diverse candidature e, dunque si dovranno tenere elezioni primarie per sceglire fra di loro il prossimo candidato sindaco. Rimane, però, da specificare un punto chiave: saranno primarie ristrette ai soli iscritti al Partito Democratico oppure saranno primarie di coalizione aperte sia a candidature non del Pd, ma espresse da partiti disposti a governare con il Pd, sia agli elettori dei partiti coalizzabili? Comunque si decida, ed esistono buone ragioni per entrambe le opzioni, un altro punto dovrebbe essere chiaro o chiarito. I dirigenti dei partiti, a cominciare dal Pd, hanno il diritto di esprimersi a favore di una candidatura piuttosto che di un’altra, ma nessuno di loro può impegnare il partito in quanto tale. A Bologna e in tutte le situazioni nelle quali vi sia un sindaco in carica che aspira al secondo mandato, la situazione è più complessa. E, infatti, non mancano le tensioni. Il principio generale dello Statuto nazionale deve essere fatto valere senza tentennamenti e senza eccezioni. La carica è contendibile. Dunque, se qualcuno vuole candidarsi, bisogna, anzitutto, che si faccia avanti e alzi la mano, come ha detto Arturo Parisi, ma subito dopo quell qualcuno deve darsi da fare per raccogliere il numero di firme stabilite dal regolamento del Partito Democratico. Per il sindaco in carica, la raccolta di firme non dovrebbe essere necessaria, ma questo non significa affatto che il sindaco possa firmare, come ha provocatoriamente dichiarato un paio di volte Cofferati, per il suo eventuale oppositore, che sia uno o più di uno.

Leggo che, un po’ dappertutto serpeggia il timore di primarie laceranti che conducano poi alla sconfitta nelle elezioni amministrative. Sembra che sia già anche successo così, ma mi riserverei di approfondire se la causa della sconfitta non fosse un partito già diviso piuttosto che il prodotto di primarie male congegnate e peggio praticate. Mi parrebbe ovvio che chi si candiderà alle primarie debba assumere il nobile e solenne impegno ad appoggiare chiunque conquisterà la candidatura. Continuo anche a pensare che un partito che si chiama “democratico” debba essere costituito da persone, gentildonne e gentiluomini, che si comportano in maniera democratica, accettando il verdetto espresso dagli elettori e che sappiano che un Partito cresce quando vince le elezioni e che, dunque, la vittoria del prescelto dalle primarie servirà a tutto il partito e quindi anche a candidate sconfitti nelle primarie. Non voglio, in conclusione, in nessun modo negare che le primarie sono uno strumento che produce anche tensione e delusione. Penso, poiché molti richiamano le primarie presidenziali Usa (ma quelle italiane dovrebbero essere piuttosto paragonate alla scelta dei candidati governatori Usa), al sofferto discorso di “concessione” splendidamente pronunciato da Hillary Clinton. Ma, le primarie producono anche informazioni sulla biografia politica dei candidati, sui programmi e sulle priorità. Non sono mai “concorsi di bellezza” e, infine, lanciano, sulla coda della mobilitazione conseguita, una campagna elettorale che parte con l’abbrivio. I cittadini coinvolti non soltanto saranno più soddisfatti, ma probabilmente saranno anche disponibili a partecipare attivamente per fare vincere il candidato prescelto.

Pubblicato il: 25.09.08
Modificato il: 25.09.08 alle ore 8.38   
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« Risposta #73 inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:30:03 pm »

Salviamo il Parlamento


Gianfranco Pasquino


Non faccio nessuna fatica a criticare, se necessario, stigmatizzare le pulsioni decisioniste del Presidente del Consiglio. Credo che sia un comportamento assolutamente doveroso in chiave di difesa, altrettanto doverosa, della democrazia parlamentare. Magari sarebbe anche utile che questa difesa non venisse affidata ai troppi commentatori e riformatori che, nell’ambito del centro-sinistra, hanno nell’ultimo decennio inseguito le formule dell’inesistente e pericoloso «premierato forte».

Dovrebbero tacere anche i sostenitori del presidenzialismo poiché spesso la versione da loro sostenuta non era affatto quella statunitense, dove Congresso, Corte Suprema e poteri degli Stati (non soltanto "federalismo fiscale") costituiscono reali freni e contrappesi.
In una democrazia parlamentare, i contrappesi all’eventuale, altrove molto raro, strapotere del governo è spesso dato, non esclusivamente dalle prerogative del Parlamento, dirò meglio dei due rami del Parlamento che hanno compiti, funzioni e poteri diversi, ma dagli stessi parlamentari di maggioranza: altri sistemi elettorali, altra cultura politica. Nominati da Berlusconi (e da Fini e da Bossi), i parlamentari della maggioranza di destra sono ovviamente ultradisciplinati, anche se, talvolta, non proprio assiduamente presenti. Adesso, apprendiamo dalla fonte autorevole del loro capo che a stare in aula, ad ascoltare, anche se distrattamente, i colleghi dell’opposizione, a votare, vengono colti dalla depressione. In questo caso, molti, altrove, cambierebbero professione.

Invece, il Presidente del Consiglio vanta una formula migliore, davvero decisiva: porre sostanzialmente fine ai dibattiti parlamentari, accelerare i lavori attraverso una drastica riforma dei regolamenti, procedere per decreti-legge. Dopodiché, la felicità torna nei cuori dei parlamentari di maggioranza e, presumibilmente, dei cittadini italiani. Altrove, penso, ad esempio, alla patria della democrazia parlamentare, l’Inghilterra, gli Speakers delle due Camere agirebbero da severi e inflessibili difensori del ruolo del Parlamento e dei poteri dei singoli parlamentari. Il governo, il loro governo, dovrebbe attenersi alle regole vigenti e non gli sarebbe consentita nessuna prevaricazione. Oltre ai regolamenti scritti, opererebbero a moderare il governo (che, incidentalmente, in Inghilterra è composto da un solo partito), anche una cultura politica rispettosa dell’opposizione guidata da un Primo ministro ombra, legittimata, alla quale vengono riconosciuti spazi di visibilità e di intervento.

È auspicabile che in Italia anche il Presidente del Senato Schifani segua l’esempio del Presidente della Camera Fini, che attendiamo alla prova dei fatti, e non accetti che la sua Camera venga ridotta a passacarte in una ultraveloce catena di montaggio legislativo. Magari uno sguardo alla Costituzione, ad esempio, in materia di decretazione d’urgenza (art. 77) facendone rispettare i requisiti di "necessità e urgenza" nonché di omogeneità e quindi respingendo i famigerati decreti-omnibus la cui omogeneità consisterebbe soltanto nella proroga di date di scadenza. Oppure ricordando al governo l’art. 76 che scrivo per esteso sicuro di dare un aiuto ai parlamentari della maggioranza talmente depressi da non volerlo leggere tristi e soli: "L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti" (il corsivo è mio). Naturalmente, è del tutto lecito essere critici dei tempi e dei modi di funzionamento del Parlamento italiano a suo tempo correttamente pensati per garantire governo e opposizione, ma soprattutto per consentire un confronto dal quale entrambi traggono vantaggio e che serve in special modo agli elettori affinché ottengano elementi con i quali valutare la capacità e coerenza del governo nell’attuare il suo programma e la capacità e l’originalità delle proposte dell’opposizione e l’esercizio della sua funzione di controllo. Per questa ragione, qualsiasi riforma abbia in mente Berlusconi e qualsiasi proposta venga dal suo apposito gruppo di studio, l’Assemblea rappresentativa, sia nelle democrazie parlamentari sia in un’eventuale democrazia presidenziale, deve prevedere un ruolo specifico e rilevante per l’opposizione, nonché, aggiungo, anche una legge elettorale che, meglio se con i collegi uninominali, consenta l’accesso al parlamento a candidati/e che garantiscano di sapere anche essere autonomi rispetto al governo e all’opposizione, perché vogliono esprimere le esigenze e le preferenze dei loro elettori.

Nella loro asfittica concezione di democrazia guidata e attenta soltanto ai sondaggi, molti parlamentari della maggioranza (nonché lo stesso Presidente del Consiglio) sono temporaneamente usciti dalla depressione per protestare contro l’assimilazione fatta da Walter Veltroni fra putinismo e berlusconismo. Hanno ragione: il putinismo non è ancora stato conseguito nella situazione italiana. Ma l’obiettivo del berlusconismo, ogni volta che si esprime in materia di istituzioni dalle critiche al Presidente della Repubblica alle minacce alla Corte Costituzionale per finire con il ridimensionamento del Parlamento e l’emarginazione dell’opposizione, sembra proprio essere una qualche forma di regime simile a quella tenacemente e pazientemente, ma anche con la violenza, costruita dall’ "amico Vladimir".
Cosicché, pur consapevoli delle inadeguatezze del Parlamento e della farraginosità del suo funzionamento, è imperativo difenderne il ruolo di contrappeso nei confronti di qualsiasi maggioranza e di qualsiasi capo del governo.



Pubblicato il: 06.10.08
Modificato il: 06.10.08 alle ore 11.44   
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« Risposta #74 inserito:: Dicembre 18, 2008, 05:05:37 pm »

Politica di oggi e saggezza dei Costituenti

di Gianfranco Pasquino


Nonostante abbia scritto un libro intitolato Sistemi politici comparati, non sono in grado di citare un solo caso straniero nel quale il capo del governo va, per di più periodicamente, a presentare il libro di un giornalista di regime. Nonostante sia convinto che la religione, qualsiasi religione, possa avere, se lo desidera un ruolo pubblico, non conosco nessun caso in cui l'ex-Presidente della Conferenza Episcopale sia andato a presentare il libro di un parlamentare in dibattito con uno dei capi dell'opposizione. I due maggiori critici del teatrino della politica hanno, in questi giorni, dimostrato, se ce ne fosse ancora stata la necessità, di essere autorevoli protagonisti su quella ribalta.
È probabile, che molti italiani abbiano così trovato una conferma ai loro sentimenti antipolitici, e sperabilmente, anche di laicità, proprio nella commistione politica, giornalismo, religione. Dal teatrino della politica hanno, però, anche ricevuto delle informazioni importanti. In primis che il capo del governo, approfittando del conflitto di straordinaria intensità, anche questo senza paragoni nelle democrazie occidentali, fra le procure di Catanzaro e Salerno, intende finalmente riformare la giustizia. Come se nei suoi anni di governo non ci avesse mai provato e come se non costituiscano esempi preclari di "riforma della giustizia" i lodi che lo hanno messo al sicuro!
La presentazione di un libro è l'occasione più propizia per lanciare una riforma che gli italiani attendono da tempo: rendere la giustizia più giusta, la magistratura più efficiente. Purtroppo, non sembrano essere questi gli obiettivi prioritari del capo del governo. L'efficienza della magistratura verrà piuttosto garantita attraverso il suo controllo politico ad opera del Ministro della Giustizia e la sua subordinazione all'indirizzo che il Ministro vorrà dare ai reati da perseguire.
Per fortuna, i Costituenti che non utilizzavano il loro tempo per presentare libri e neppure per recensioni "incrociate" (tu recensisci il mio libro, io farò lo stesso con il tuo) hanno previsto una efficace clausola di salvaguardia per qualsiasi riforma costituzionale. L'art. 138 consente una facile richiesta di referendum confermativo la cui validità non è subordinata a nessun quorum. Non c'è dubbio che la compatta maggioranza di Berlusconi alla Camera e al Senato consentirà l'approvazione di qualsivoglia riforma della giustizia riguardo alla quale sarebbe interessante conoscere non soltanto i "no" delle correnti della magistratura, ma anche le proposte alternative.
Dopodiché, l'opposizione, ovvero il Partito Democratico la cui visione riformatrice non è ancora dato di conoscere, chiederà un referendum contro. Finalmente, si aprirà, magari anche alla prossima presentazione di libri di quel giornalista, un dibattito pubblico che offra ai cittadini il materiale indispensabile a decidere. Grazie ai Costituenti.

13 dicembre 2008     
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