LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Arlecchino - Maggio 21, 2007, 06:57:15 pm



Titolo: Gianfranco PASQUINO ...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 21, 2007, 06:57:15 pm
Un anno e tre errori
Gianfranco Pasquino


«Né minimalismo né trionfalismo»: questa è la posizione più corretta da assumere nel valutare i risultati del primo anno di governo dell’Unione guidata da Romano Prodi. Il minimalismo non è davvero mai stato il punto forte dei componenti dell’Unione (e, se me lo permette, neppure del presidente del Consiglio). Invece, purtroppo, di espressioni trionfalistiche, non soltanto, malauguratamente, al momento dell’entrata in carica, ne abbiamo sentite anche troppe. Il problema non è che molti di noi, elettori dell’Unione, preferiremmo un sano e sfumato realismo. Il problema è che, da un lato, molti elettori della Casa delle Libertà si sono sentiti un po’ presi in giro da un governo con 24mila 500 voti di maggioranza, mentre, dall’altro lato, parecchi elettori dell’Unione vedevano il trionfalismo, ma non vedevano quella legislazione che era stata loro promessa.

Si spiega così perché il governo e il suo capo siano caduti fin dall’inizio al di sotto del 50 per cento di popolarità e di apprezzamento, ruzzolando qualche volta anche parecchio al di sotto. Non trattandosi di una maledizione biblica, questi sondaggi, che sono da prendere sul serio sia per la loro provenienza scientifica, accertabile in Renato Mannheimer e Ilvo Diamanti, sia per la loro serie storica, dicono che il problema è grosso.

Dal canto suo, lo stesso Prodi è costretto a dichiarare di dovere affrontare ostacoli significativi tanto che neppure un decimo delle proposte di legge del suo governo sono state finora approvate e che, per il resto, l’attività legislativa del governo si esplica con il ricorso a decreti leggi, che non è mai un buon modo di governare. Eppure, su non poche tematiche il governo ha operato soddisfacentemente e i rispettivi ministri riscuotono un buon successo personale, in particolare: in politica estera (D’Alema) e nelle attività produttive (Bersani) - ma non voglio fare un elenco puntiglioso anche perché so perfettamente che, talvolta, il voto non alto di alcuni ministri deriva dalla scarsa conoscenza del loro operato e dalla bassa visibilità dei loro ministeri, non dall’incompetenza e nemmeno da loro personale incapacità. Qualche volta, però, la bassa votazione, come per Mastella, colpisce sia il fatto (quel mal congegnato indulto) che il promesso, ovvero una crisi di governo per le più svariate ragioni: dai Dico alla legge elettorale al conflitto di interessi, e l’elenco del fantasioso Mastella non si arresterà certamente qui. Tuttavia, non basta un uomo solo, per quanto molto loquace, a spiegare l’insoddisfazione e la delusione di un elettorato. Propongo che si cerchino i motivi del disorientamento di una parte dell’elettorato che ha votato Unione in alcuni fenomeni specifici, a mio parere, particolarmente importanti.

Governare non consiste mai esclusivamente in quello che si fa; molto più spesso è come lo si fa: non soltanto la sostanza, ma anche la carenza di sostanza e lo stile. Naturalmente, ciascun plotone di insoddisfatti e di delusi esprime la sua specifica lamentela. Qualcuno sottolinerà l’urgenza di una buona legge sul conflitto di interessi. Altri vorranno vedere una molto diversa legge elettorale. Qualcuno si aspettta politiche del lavoro più incisive, con interventi vigorosi sulla Pubblica Amministrazione. Altri ancora vorrrebbero vedere abbattuti i costi della politica oramai saliti a livelli intollerabili. Infine, ma temo che l’elenco non sia affatto finito, altri vorrebbero sapere quali sono le priorità del governo Prodi. Talvolta sono le politiche fatte che producono delusione e reazione perché toccano interessi costituiti, ma li toccano male, senza averli fatti precedere da una adeguata argomentazione. Talvolta, sono le politiche da fare, come la irrinunciabile riforma delle pensioni che inquieta, per la confusione delle proposte, alla quale contribuiscono i leader sindacali, una parte di elettorato. Lo stile di governo dell’Unione sembra, a proposito di giustificazione dei provvedimenti adottati, piuttosto quello di un pollaio, mentre abbiamo perso le tracce del Portavoce Unico.

Temo, da ultimo, e voglio metterli in chiarissima evidenza, che tre fattori, non tutti strettamente collegati all’azione di governo, appesantiscano l’Unione, ma soprattutto offuschino la figura del Presidente del Consiglio. Il primo fattore è la costruzione tormentata e frettolosa del Partito Democratico. Su un punto non ho dubbi: Prodi deve assumere senza tentennamenti la leadership del Pd perché questa è la novità annunciata a chiare lettere: coincidenza del capo del partito con il capo del governo. Secondo punto: Prodi ha fatto molto male a dichiarare che, comunque finisca questa sua seconda esperienza alla guida del governo, uscirà di scena. Automaticamente ha indebolito la sua posizione agli occhi di molti elettori e di molti gruppi, persino nell’Unione, un po’ come, si parva licet, è successo con le dimissioni preannunciate da Tony Blair, peraltro un Primo ministro molto vigoroso, operativo e brillante. Infine, terzo punto, al quale ho già variamente fatto riferimento, se l’Unione vuole migliorare le sue prestazioni e ottenere valutazioni più elevate, è assolutamente indispensabile, non soltanto, come dicono un po’ tutti, che venga ridotto il tasso di litigiosità interna, ma si innalzi il profilo politico del suo leader. Un capo di governo non è mai, ovvero non dovrebbe mai essere, come una volta ha detto di sentirsi Prodi, un assistente sociale. È una autorità, ovvero la più alta carica di governo nel sistema politico italiano. Dunque, in quanto tale deve imparare a esprimersi e a operare con autorevolezza e solennità. Il tempo per apprendere ancora c’è; spero che non manchi, per malposte motivazioni, la volontà.

Pubblicato il: 21.05.07
Modificato il: 21.05.07 alle ore 10.39   
© l'Unità.


Titolo: Ds e Dl La «rivolta» dei giovani: lista alle primarie
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 10:20:07 pm
Ds e Dl La «rivolta» dei giovani: lista alle primarie

La delusione per la mancanza di under 30 dal Comitato dei 45 del futuro Partito Democratico

 
MILANO — Arrabbiatissimi. Furenti. Delusi. Tanto che adesso affilano le armi per una «vendetta»: presentare il 14 ottobre (primarie del Pd) la loro lista. Tutta di giovani. Pina Picierno, segretaria nazionale giovani Dl, e Fausto Raciti, suo omologo per i Ds, ci stanno pensando dall'altro ieri, giorno di ufficializzazione del Comitato dei 45. Da allora sono sul piede di guerra: tra i prescelti, infatti, non figura un solo under 30. E questa decisione ha fatto esplodere proteste un po' dappertutto.

In Piemonte i giovani dl hanno annunciato di essere pronti «a restituire le tessere a Roma per i metodi seguiti. Che hanno portato all'assenza di giovani e di esponenti piemontesi». In Calabria, invece, i giovani dl hanno deciso «di autosospendersi dal partito». Come spiega Luigi Madeo, calabrese e responsabile nazionale organizzativo della Margherita: «Loiero inserito nel Comitato? Siamo a disagio. Non sono rappresentati né i Ds né i Dl calabresi. E invece è entrato lui, l'uomo dello strappo. Per non parlare della mancanza di giovani. Noi contestiamo il metodo usato. La nostra sfida? Sarà alle primarie, sperando che facciano un regolamento che ci consenta di partecipare».

Maldipancia anche in Sicilia. E in Lombardia, dove ieri, al congresso regionale dei giovani dl, c'era grande delusione per la scelta di escludere gli under 30 dal Comitato. Spiega Pina Picierno: «È stata un'assurdità. Le donne, invece, che hanno fatto lobby, poi alla fine l'hanno spuntata. E noi ragazzi? Noi che lavoriamo dentro i partiti, o anche fuori, e che abbiamo meno di 30 anni? Niente. Cancellati. Ma il Pd non doveva essere il partito dei giovani? Invece qui l'età media supera il mezzo secolo. Complimenti per il coraggio». La pupilla di Ciriaco De Mita, vicina anche a Dario Franceschini, non ha voglia però di attaccare a muso duro i big dl. Però chiarisce che la protesta non si fermerà qui. E avverte: «Ora il nostro percorso per la Costituente sarà autonomo e molto diverso. Sarà veramente aperto, inclusivo, e darà spazio a chi ha voglia di partecipare».

Fausto Raciti, leader della Sinistra giovanile, usa toni simili a quelli di Picierno: «Siamo davvero arrabbiati, è ovvio. Ma alla Costituente del Pd ci faremo prendere in considerazione, ne siano pur certi. Intanto stiamo organizzando la prima assemblea nazionale dei giovani del Pd, a giugno, a Roma. Ma resta tutta la nostra preoccupazione per il sistema usato: vuol dire che si sono solo riempiti solo la bocca, finora, con la parola "giovani". Ma poi alla fine nel Comitato dei 45 hanno inserito solo i professionisti della società civile. Non ci sono i giovani, quindi, ma c'è Slow Food. E ci sono Dini e Amato. Complimenti davvero».

Raciti però non ci sta ad accettare le decisioni delle segreterie nazionali: «Noi non vogliamo i giovani cooptati, come dice Parisi, e per questo il 14 ottobre ci misureremo candidandoci. Ma per far questo ovviamente chiediamo regole certe. Primo: confermare il voto per chi ha 16 anni; secondo: gli under 30 devono poter votare al prezzo di 1 euro; terzo: seggi aperti anche davanti a tutte le scuole e le università. E vediamo, poi, alla fine chi la spunta. Perché siamo proprio stufi di fare sempre e solo i donatori di sangue».

Angela Frenda
26 maggio 2007
 


Titolo: L'appello sul blog di Luca Sofri
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2007, 10:21:13 pm
L'appello sul blog di Luca Sofri «Dieci giovani per il Comitato del Pd»

«Meraviglia per la totale assenza di persone che abbiano meno di quarant'anni: ecco qualche suggerimento»   
 
L'appello su Wittgenstein


La rabbia passa anche, e forse soprattutto, sul web. Dopo la delusione dei giovani Ds e Dl per l'assenza di under 30 dal Comitato del futuro Partito Democratico (alla faccia di certe dichiarazioni rilasciate prima, durante e dopo i congressi della Quercia e della Margherita), online si moltiplicano le critiche e gli appelli. Come quello che è possibile sottoscrivere sul blog di Luca Sofri (www.wittgenstein.it).

MERAVIGLIA - «Care persone del Comitato per il Partito Democratico - si legge - ci risolviamo a scrivervi perché abbiamo letto nelle parole di alcuni di voi un disagio in cui ci siamo riconosciuti sui primi passi del Partito Democratico.(...). Ci sembra inevitabile la meraviglia per la totale assenza in questo comitato di persone che abbiano meno di quarant'anni, e per la presenza di sole quattro persone nate dopo gli anni Cinquanta. Accidente assai spiacevole, per un organismo che ha come priorità il rinnovamento e la sfida con il futuro. In Italia ci sono 28 milioni di persone che hanno meno di quarant'anni. Tra di voi, neanche una (...). Aggiungiamo subito altri dieci nomi, scelti tra i molti che nella politica e nella società hanno già dimostrato capacità o sostegno popolare ampi e convincenti, e che siano per anagrafe e sensibilità rappresentativi anche dell'altra metà degli italiani: dieci sono pochi, ma è qualcosa. Fatto 45, si fa 55»

I NOMI - Ed ecco i nomi proposti per il comitato del Pd dai firmatari dell'appello di Wittgenstein: «Giuseppe Civati, consigliere regionale della Lombardia; Carlo Antonio Fayer, consigliere comunale a Roma; Mario Adinolfi, giornalista; Sandra Savaglio, astronoma; Matteo Renzi, Presidente della Provincia di Firenze; Anna Maria Artoni, imprenditrice; Ivan Scalfarotto, dirigente d'azienda; Alessandro Mazzoli, Presidente della Provincia di Viterbo; Marta Meo, architetto; Michela Tassistro, Istituto Nazionale di Fisica della Materia; Eleonora Santi, staff del Sindaco di Roma; Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale; Pierluigi Diaco, giornalista; Marco Simoni, economista; Lorenza Bonaccorsi, Capo della Segreteria del Ministero delle Comunicazioni; Gianni Cuperlo, deputato». Una "lista" sostenuta non solo da persone tra i venti e i quarant'anni. «Perché escludere delle generazioni - spiegano - è una sciocchezza».

26 maggio 2007
da corriere.it


Titolo: Re: Gianfranco Pasquino Un anno e tre errori
Inserito da: Arlecchino - Maggio 28, 2007, 10:14:55 pm
POLITICA

Colloquio con Carlo Azeglio Ciampi: "stop al qualunquismo, può travolgere tutto"

Per l'ex capo dello Stato l'Italia di oggi è "infinitamente migliore" di quella di Tangentopoli

"Sì, la politica deve riformarsi ma è sbagliato evocare il '92"

di MASSIMO GIANNINI

 

"Ma sì, non c'è dubbio che la politica sia in difficoltà, così come non c'è dubbio che nel Paese ci sia un clima di scontento. Ma per favore, evitiamo di farci travolgere tutti da un'ondata di qualunquismo". Come lo Scalfaro del decennio passato, Carlo Azeglio Ciampi pronuncia il suo sommesso "non ci sto". E nel pieno di una tornata di elezioni amministrative che misura l'indice di prossimità tra gli elettori e gli eletti, e quindi il grado di fiducia del Paese nei confronti di chi lo governa, l'ex presidente della Repubblica entra a modo suo nel campo minato dei "costi della politica", per parlare di quella che ormai si definisce la "crisi della politica". Non la nega, ma la circoscrive: "Cerchiamo di non esagerare - dice - non è vero che l'Italia del 2007 è come quella del '92. Pur con tutti i suoi problemi e i suoi limiti, il Paese di oggi è infinitamente migliore di quello di allora...".

Da una parte caste chiuse che si riproducono per partenogenesi e oligarchie autoreferenziali che confliggono tra loro. Dall'altra corpi sociali in deficit di rappresentanza e cittadini semplici spremuti dalle tasse. Di là privilegi, di qua sacrifici. In mezzo, la marea montante dell'anti-politica, la voglia malsana di far collassare un sistema che non si sa riformare. Lo spettro della gogna mediatica, il fantasma delle monetine dell'Hotel Raphael. La liquidazione di un'intera classe dirigente, la tentazione di uno sbocco tecnocratico. Ma è davvero questa, l'orrenda rappresentazione dell'Italia di oggi, secondo la declinazione un po' forzata costruita sulle parole di Massimo D'Alema?

Ciampi, che non è un politico ma ha vissuto suo malgrado nel Palazzo negli ultimi quindici anni, non accede a questa visione, che parte dal pessimismo sulla mala-politica ma rischia di sconfinare nel nichilismo dell'anti-politica: "Sta succedendo qualcosa di strano. In pochissimo tempo, siamo passati da un panorama sociale caratterizzato da cielo nuvoloso, a un clima da tempesta imminente. Io, onestamente, questo clima non lo respiro. Vedo che c'è in giro un'insoddisfazione diffusa. Dico con assoluta convinzione che non si può non condividere un certo allarme, per i ritardi sulle riforme, per le inefficienze del sistema e per i costi dell'apparato politico. Ma insisto: non si può fare di tutta un'erba un fascio. E non si possono fare paragoni azzardati con un passato che, per fortuna, è davvero alle nostre spalle".

L'ex Capo dello Stato se lo ricorda bene, quel passato. Nel '93 fu proprio lui a camminare tra le macerie di quel terribile '92, quando i giudici di Milano rasero al suolo Tangentopoli, il Paese sfiorò la bancarotta finanziaria. Oggi Ciampi invita tutti a non fare accostamenti troppo azzardati, che finirebbero solo per alimentare i focolai di qualunquismo. Quelli non furono solo gli anni del simbolico linciaggio di piazza contro Bettino Craxi. Ma anche quelli dell'avviso di garanzia quotidiano per i ministri in carica. Anche quelli del contrattacco mafioso, con le stragi di Falcone e Borsellino e poi gli attentati di Roma, Milano e Via dei Georgofili a Firenze. Ciampi visse quella drammatica stagione prima da governatore della Banca d'Italia, poi da premier. Per questo, oggi può dire: "Di problemi ne abbiamo tanti, ancora. Ma quanta strada abbiamo fatto, da allora...".

Questo invito alla prudenza nei giudizi, tuttavia, non vuole nascondere le convulsioni che la nomenklatura sta vivendo. E meno che mai vuole occultare le persistenti aberrazioni della partitocrazia. "Anch'io ho letto "La Casta", il libro che oggi sta avendo giustamente questo grande successo. Anch'io resto colpito di fronte a certe storie di sperpero del pubblico denaro. Del resto, la lotta agli sprechi e il risanamento delle finanze dello Stato sono stati la missione della mia vita. L'obiettivo di tagliare drasticamente certe spese inutili è giusto. Così come è sacrosanta la necessità di dare risposte serie e immediate alla sana indignazione dell'opinione pubblica. Tutti dobbiamo impegnarci di più, per tentare di risolvere questo problema. Ma in questa fase dobbiamo evitare di essere travolti in una campagna di discredito che investe tutto il sistema politico. Questa non aiuta, anzi peggiora solo le cose".

Ciampi cita un esempio che lo riguarda da vicino, e che in queste settimane ha finito per porre anche lui al centro di qualche velenosa polemica: le spese del Quirinale. "Vede - osserva il presidente emerito - quello è un tipico esempio di come un problema generale, se affrontato in modo semplicistico, finisce per stravolgere il giudizio su un problema particolare. Io non discuto la fondatezza dei dati sulle spese del Quirinale, riportati dal libro di Stella e Rizzo e amplificati in questi giorni dai giornali. Ma io dico che, per potere dare un giudizio obiettivo, bisogna distinguere tra dati effettivi e dati contabili. E allora, se davvero negli ultimi anni i costi del Colle sono aumentati dell'80%, questo è proprio il frutto di una dinamica non effettiva, ma solo contabile. Tra il 2001 e il 2002 infatti decidemmo che per ragioni di trasparenza i cosiddetti "comandati" presso la Presidenza della Repubblica, che avevano lo stipendio base pagato dalle Amministrazioni di competenza più un'integrazione finanziata dal Quirinale, fosse interamente pagati dallo stesso Quirinale. Dal punto di vista dei costi generali dello Stato, fu solo una partita di giro. Ma ecco che se si scorpora questo importo dai costi del solo Quirinale, si scopre che quel clamoroso aumento delle spese non c'è stato affatto".

Il ragionamento dell'ex capo dello Stato non serve a dimostrare che tutto va bene così. Al contrario, Ciampi ripete: "Dobbiamo fare di più". Ma proprio per questo aggiunge: "Io, nel mio settennato, la mia parte l'ho fatta. Primo: il compenso del presidente della Repubblica, sempre uguale dal '96, anno di inizio del grande risanamento, non è mai aumentato ed anzi, d'accordo con il mio predecessore Scalfaro, decidemmo di sottoporlo a tassazione piena, mentre prima era esentasse. Secondo: proprio allo scopo di monitorare al meglio le spese, istituì un Comitato dei revisori, composto da tre funzionari della Corte dei conti e della Ragioneria. Insomma, su questo terreno non accetto lezioni proprio da nessuno. La mia storia parla per me...". Ciampi ci tiene a ribadirlo, proprio nei giorni in cui, soprattutto da una destra becera e populista, partono certe campagne avvelenate, per esempio sui trattamenti pensionistici di politici, amministratori e grand commis dello Stato. Anche su questo versante, il presidente emerito ha qualcosa da dire: "La mia denuncia dei redditi è pubblica. Agli atti della Presidenza del Consiglio. Basta consultarla, per vedere che il mio reddito principale è una generosa pensione della Banca d'Italia, dove ho lavorato per 47 anni. Credo di averla meritata, in tutta onestà". Premesso questo, lui stesso conviene sulla necessità di intervenire su certi privilegi, su certi trattamenti "speciali", che riguardano sia i parlamentari, sia soprattutto gli amministratori locali. Ma anche qui, "bisogna intervenire dove è necessario, senza mettere tutti nello stesso calderone". Come se tutti fossero ladri, grassatori, disonesti.

A questa deriva Ciampi non vuole arrendersi. Teme che, per questa via, si arrivi a soluzioni imprevedibili e nefaste per i destini della Repubblica. Registra anche lui gli effetti del manifesto politico di Montezemolo. Riflette anche lui sulle prese di posizione di Mario Monti, a proprosito delle differenze tra "tecnici" e "politici". E da tecnico a sua volta prestato alla politica commenta: "Vede, in Italia la discesa in campo dei "tecnici" deriva indubbiamente da una certa debolezza della politica. Io non colpevolizzo i tecnici, in assoluto. Ma c'è tecnico e tecnico. Per me, come dimostra la mia vicenda, quando un tecnico è chiamato dalla politica si deve mettere al servizio del Paese. E non deve farsi prendere dal desiderio di potere. Deve limitarsi a compiere al meglio il suo incarico, e poi ritirarsi in buon ordine. Io l'ho sempre fatto. Lo feci nel '93 da presidente del Consiglio, quando in molti volevano che il mio governo diventasse 'sine die', e invece andai dal presidente della Repubblica a rimettere il mio mandato. Lo feci nel '96 da ministro del Tesoro, prima col governo Prodi e poi col governo D'Alema, a cui scrissi una lettera per dirgli che restavo ancora al mio posto ma solo perché "l'euro è un matrimonio celebrato, ma non ancora consumato", e per questo rimasi fino all'avvenuta consumazione del rito. Lo feci nel 2006 da presidente della Repubblica, quando resistetti alle sirene di chi mi chiedeva di restare al mio posto, e invece risposi di no, perché avrei introdotto un precedente inedito nella nostra storia, introducendo una forma di "monarchia repubblicana" che mal si confà alla nostra democrazia e alla nostra Costituzione". Anche oggi, quindi, per Ciampi dovrebbe valere la stessa regola. Se la "crisi della politica" dovesse riprodurre l'emergenza di una "supplenza" tecnica al governo, l'unico principio che dovrebbe valere sarebbe questo: rendere il proprio servizio al Paese, e poi fare un passo indietro.

Ma questa, nella valutazione di Ciampi, è un'emergenza che la politica non dovrebbe consentire. L'anomalia della "surroga" è e deve restare un'eccezionalità. Nonostante le contraddizioni in cui si dibatte, la politica di oggi ha i mezzi e gli strumenti per dare le risposte che i cittadini si aspettano. E per riaffermare il proprio "primato". A Ciampi è piaciuta molto, la vecchia battuta che gli disse l'Avvocato Agnelli, ricordata su queste colonne quattro giorni fa da Ezio Mauro: "Se fallisce lei, dopo c'è solo un cardinale, o un generale...". Secondo il presidente emerito, quel tempo è finito. E non deve mai più tornare.

(28 maggio 2007) 

da repubblica.it


Titolo: Gianfranco Pasquino UN MONITO INASCOLTATO
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2007, 12:05:03 pm
UN MONITO INASCOLTATO
di Gianfranco Pasquino

Neanche i risultati dei ballottaggi portano conforto al centrosinistra. La vittoria dei suoi candidati, nuovi e vecchi, alla provincia di Genova e nelle città di Pistoia e di Piacenza non significa affatto che nelle due settimane trascorse dal primo turno vi sia stata una mobilitazione elettorale e una ripresa politica. Infatti, in alcuni ballottaggi cruciali, come a Parma e a Lucca, dove, pure, i candidati del centrodestra non erano i sindaci in carica e quindi non godevano di particolari vantaggi di posizione, il centrosinistra non riesce ad ottenere un ribaltone.

Anzi, anche in questo secondo turno, si direbbe, a giudicare anche dall’aumento delle percentuali di astensionisti, che, nonostante gli appelli lanciati dai leader dei partiti a superare la delusione per le non brillantissime prove del governo nazionale, gli astensionisti di sinistra abbiano, per così dire, riconfermato il loro voto, ovvero se ne siano rimasti a casa. Naturalmente, questo è un problema più del centrosinistra, che ha bisogno dell’e ntusiasmo di tutti i suoi elettori, che del centrodestra. Però, quando Berlusconi smetterà di cullarsi nel sogno di una spallata al governo, che non è ovviamente venuta dalle elezioni amministrative, potrebbe anche rendersi conto di un paio di fatti molto rilevanti. Primo fatto: se gli astensionisti (di sinistra) hanno voluto mandare un messaggio ovvero dare una lezioncina al loro governo, questo non significa affatto che abbiano intenzione di votare per il centrodestra in eventuali elezioni politiche anticipate. Anzi, la loro astensione dice «delusione nei confronti del governo», ma, anche, «nessuna disponibilità a passare al centrodestra».

Secondo fatto: i partiti del centrodestra sono, in questo momento, in verità da qualche tempo, effettivamente maggioranza nel paese reale. Ma lo sono anche perchè il centro-destra lucra sulla delusione degli elettori del centro-sinistra. In proprio, non può vantarsi di nulla. Non ha nessuna proposta politica originale e innovativa. In Parlamento, soprattutto al Senato, si caratterizza per le sue gazzarre di vario tipo, meglio se teletrasmesse. E non certamente per essere un’opposizione propositiva. Non è neanche, a giudicare dal perdurante distacco di Casini, la cui Udc ha comunque molto poco da festeggiare, un’opposizione coesa. L’altra faccia della medaglia è che i dirigenti del centro-sinistra continuano imperterriti a suonare la loro lira, ciascuno per la sua piccola nicchia di elettori, mentre Roma, ovvero Palazzo Chigi, sta bruciando, di litigi, di intercettazioni, di mancanza di idee, persino di incapacità di formulare una visione condivisa e convincente per il prosieguo della legislatura. Mettere in ordine nelle finanze dello Stato è un compito meritorio anche se molti cittadini a livello locale, colpiti da qualche balzello inaspettato, possono non avere gradito.

Dire in maniera chiara e forte quale linea si perseguirà per rendere complessivamente l’Italia migliore dovrebbe adesso essere la priorità di Prodi e dei partiti che lo sostengono. Invece, sembra che le energie di un pò tutti gli uomini e le donne di partito e di governo si disperdano nel sostenere, da una parte, nel rifiutare, dall’altra, il Partito democratico che, oggi, è piuttosto un problema che una soluzione per il centro-sinistra e per il governo. Il quadro complessivo rimane, pertanto, nient’affatto promettente.

12 Giugno 2007
 
da ilpiccolo.repubblica.it


Titolo: Gianfranco Pasquino Dietro i veleni
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2007, 12:08:14 pm
Dietro i veleni
Gianfranco Pasquino


Difficile districarsi fra intercettazioni e smentite, fra investigazioni e dichiarazioni, fra (in)azione del governo e iperattivismo dei poteri forti. Per quel che riguarda tutta la faccenda delle intercettazioni e della loro pubblicazione sui quotidiani, la mia posizione è di assoluta fiducia nella magistratura e di richiesta che, eventuali violazioni del segreto istruttorio o altro, vengano non soltanto opportunamente, ma, data la delicatezza dei temi trattati, rapidamente sanzionate. Da quel che si riesce a capire, che non è molto e non è neppure detto che sia tutto, le radici di rapporti corrotti fra alcuni protagonisti affondano nel tempo e sono la conseguenza di escrescenze nate in rapporti perversi fra affari, logge massoniche, politici, che non sono mai state del tutto scoperte e sradicate.

Inevitabile è la sensazione, che si va, purtroppo, diffondendo, che il mancato sradicamento dipenda dal fatto che i coinvolti sono troppi e sono ancora in posizioni di potere, non soltanto affaristico, ma anche politico. Quanto ai poteri forti, penso che quando i politici ne parlano intendano riferirsi al mondo industriale, ad alcune aziende giornalistiche, forse, ma, naturalmente, a seconda di chi parla, alla stessa Chiesa, nonché a cordate che coinvolgono i servizi segreti e qualche associazione segreta. Naturalmente, quella che è un’accusa: tramare contro la politica e, in special modo, contro il governo, andrebbe corroborata da prove, preferibilmente abbondanti e inoppugnabili. Invece, quello che si percepisce è, che da un lato, queste prove sono, al massimo, indizi, spesso labili, non per questo non degni di essere accumulati e approfonditi. Dall’altro lato, che insinuazioni, ammiccamenti, silenzi fanno parte di una dura e soffocata lotta politica che taglia quasi trasversalmente la coalizione dell’Unione, con molti che non si espongono perché perseguono almeno un paio di obiettivi non dichiarabili.

Al contrario, nel centro-destra che, sottolineiamolo, non sta affatto meglio, essendosi molti e non marginali suoi esponenti spesisi nella difesa dell’ex-Governatore Fazio e, di conseguenza, di molti dei misfatti che stanno venendo alla luce grazie alle intercettazioni, si preferiscono sopire le tematiche e le eventuali responsabilità, et pour cause: in larga misura, quello degli affaristi è un mondo a loro molto contiguo, parente e cliente. Impegnata a conseguire traguardi fin troppo, per le sue dimensioni e energie, ambiziosi, buona parte dell’Unione combatte su due fronti che, inevitabilmente, si intersecheranno e che, probabilmente, simul stabunt simul cadent, rischiano cioè di avere effetti controproducenti l’uno sull’altro, di travolgersi vicendevolmente. Da un lato, è in corso la battaglia per la leadership del prossimo Partito Democratico nella consapevolezza che un minimo di coerenza vorrà che presto si giunga alla coincidenza delle due cariche, capo del partito e capo del governo, nella stessa persona. Dall’altro, si colloca uno stato di disagio dentro il governo e nei confronti di Prodi che, però, sa di essere più forte che nel 1998, meno sostituibile in parlamento grazie alla sua selezione/legittimazione attraverso le primarie e la totale consapevolezza che dopo di lui, fino a prova contraria, si staglia un altro governo guidato da Berlusconi (che è uno dei motivi per i quali Casini non ha nessuna fretta ad accelerare eventuali crisi di governo).

Naturalmente, i cosiddetti “poteri forti” pensano e agiscono in maniera del tutto particolaristica e di breve respiro pensando di ottenere qualche guadagno da un governo e da una politica deboli. Anzi, possono essere forti, non perché godano di vantaggi di posizione o risorse maggiori di quelle che un governo dovrebbe sapere mobilitare, ma perché il governo oscilla e non sa dove andare. I poteri sono forti perché la politica è debole. La soluzione non è oggi, ma non lo era neppure ieri, quella di affidare il potere politico al detentore di enorme potere economico, una soluzione profondamente illiberale e, incidentalmente, anche disfunzionale, come è stato ampiamente dimostrato dall’andamento dei conti pubblici e di quelli delle famiglie nel periodo 2001-2006, per chi volesse operare in un sistema economico decente. In democrazia, l’unico potere forte è quello del governo che detta le regole e le fa rispettare. Se non ci riesce, per di più trovandosi in una transizione politica e istituzionale che sembra non sapere e non volere affrontare e risolvere, ne segue un esito già acutamente e dolorosamente individuato da Antonio Gramsci: proliferano i germi della degenerazione. Temo che i governanti italiani, troppo intenti a combattere battaglie per linee politiche e istituzionali incrociate, stiano colpevolmente trascurando le conseguenze dei loro comportamenti e delle loro omissioni.

Pubblicato il: 18.06.07
Modificato il: 18.06.07 alle ore 8.42   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco Pasquino. Eppure qualcosa si muove
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2007, 12:14:07 am
Una firma per la riforma

Gianfranco Pasquino


Accompagnata da critiche, ma anche da diffuse manifestazioni di sostegno politico, come quelle autorevoli di Piero Fassino, di Walter Veltroni e di Arturo Parisi, sta giungendo in dirittura d’arrivo la raccolta delle firme per il referendum elettorale. Nonostante alcuni non meditati pareri contrari, l’esito del ritaglio possibile della legge porcella, patrocinata dall’unanimemente non rimpianto ministro Calderoni, ma oggi ancora difesa da Berlusconi, non curante dei molti inconvenienti che emergono periodicamente, migliora leggermente un impianto pessimo. Purtroppo, con lo strumento referendario, almeno nell’interpretazione che ne ha finora dato la Corte Costituzionale, proprio non si può fare di più.

Quanto ai contenuti, eliminare le candidature multiple è certamente un passo doveroso. Cambiare la destinazione del premio di maggioranza al Senato dalle singole regioni a livello nazionale servirebbe ad evitare conseguenze che definirei, con un eufemismo, curiose. Infine, destinare il premio di maggioranza alla Camera al partito che ottiene più voti dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, incoraggiare a formare qualcosa di più e di meglio delle attuali coalizioni eterogenee e, sicuramente, sfiderò l’ira (e il ricatto) di Mastella e le preoccupazioni dei nanetti del centro-sinistra, a ridurre il numero dei piccoli partiti e a ridimensionarne il potere spesso del tutto sproporzionato rispetto al consenso elettorale.

Per quanto la mia posizione generale in materia di referendum sia che si tratta di uno strumento costituzionale dotato di una sua autonomia ed efficacia anche decisionale, non, dunque, semplicemente, uno stimolo, so, anzi, sappiamo tutti, almeno tre cose. Primo, che, comunque, per quanto politicamente «trasversale» (questa è una buona notizia, soprattutto se la trasversalità si riversasse nella ricerca di una buona legge elettorale) nella raccolta delle firme, il referendum può ancora essere fatto fallire, nullificato dalla chiamata ad opera di alcuni partiti ad una opportunistica astensione. Non mancano i precedenti, come nel 1999 e nel 2000. Secondo, che il Parlamento mantiene, entro certi limiti, peraltro non strettissimi, la facoltà di riformare l’esito a condizione che non stravolga gli obiettivi dichiarati, perseguiti e, eventualmente, conseguiti dai referendari. Terzo, che se lo «stimolo/pungolo» funziona(sse), il Parlamento avrebbe ancora la possibilità di scrivere e di approvare una legge elettorale prima del fatidico periodo 15 aprile-15 giugno 2008 quando dovrebbe svolgersi il referendum.

Contate e certificate le firme e dichiarati ammissibili i quesiti, potremmo attenderci una accelerata sul fronte della riforma elettorale, una sorta di vampata riformatrice. Purtroppo, le premesse non sono promettenti. Il ministro Vannino Chiti ha fatto, credo, più volte, il suo giro delle molte chiese partitiche, ma di punti di convergenza ne ha registrati abbastanza pochi e non tutti buoni. Infatti, se la convergenza dovesse prodursi soltanto su una legge proporzionale che piaccia a tutti perché tutti salva, allora, meglio lasciare perdere, e soprattutto non effettuare nessuna convergenza su un disegno di legge che garantisca la rinascita di un centro, tanto più forte quanto più confuso (nel gergo politico, il prodotto di un’ammucchiata).

È vero che la legge elettorale dovrebbe trovare un consenso ampio quanto possibile in Parlamento, ma è anche vero che il governo e persino il capo del governo Prodi si erano trovati in prima linea a denunciare il porcellum come «anti-democratico, incostituzionale, antipatriottico». Dunque, non sarebbe affatto riprovevole se il governo stesso, attraverso il suo ministro competente, delineasse i punti fermi di una buona riforma (da parte mia continuerò a tessere l’elogio del doppio turno francese in collegi uninominali) e poi la sottoponesse all’esame delle apposite Commissioni Affari Costituzionali. Semplicità e trasparenza potrebbero indurre a consigli e propositi, non soltanto buoni, ma anche incisivi e riformatori. Altrimenti, il discorso riprenderà, a referendum consumato, da posizioni ancora meno favorevoli ai piccoli partiti.

In conclusione, mi pare opportuno sottolineare che, anche se qualcuno minaccia la crisi di governo se venisse toccata la sua rendita di posizione, la sua è un’arma spuntata. Non ci sarà, ha autorevolmente garantito il Presidente della Repubblica, che sa e può, nessuno scioglimento anticipato se il Parlamento non avrà per tempo proceduto all’approvazione di una nuova e decente legge elettorale. Dunque, i riformatori parlamentari hanno le spalle opportunamente coperte. Sapendo, poi, che la pistola referendaria è davvero carica e utilizzabile, adesso debbono dimostrare di sapere scrivere e fare approvare una buona legge elettorale che serva a migliorare i rapporti fra elettori e eletti e a eleggere bene il Parlamento. Non mi pare un compito, né tecnicamente né politicamente, difficile.

Pubblicato il: 15.07.07
Modificato il: 15.07.07 alle ore 14.40   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco Pasquino Una sinistra alla Willy Brandt
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2007, 03:28:19 pm
Una sinistra alla Willy Brandt
Gianfranco Pasquino


Prosegue il dibattito de l’Unità sulla «sinistra smarrita» aperto da Bruno Gravagnuolo. Su idee, strategie e forme politiche della sinistra nel quadro dell’economia globale e dell’egemonia liberista. Fino ad oggi sono intervenuti Michele Prospero, Roberto Gualtieri, Paolo Leon, Giuseppe Tamburrano, Adriano Guerra, Claudia Mancina, Piero Ignazi, Luciano Gallino.



Lo spazio organizzativo della sinistra in Italia è stato coperto per tutto il secondo dopoguerra dal Partito comunista, mentre il Partito socialista “copriva” gran parte dello spazio dell’elaborazione politica di soluzioni riformiste. La sinistra italiana non era affatto “smarrita”, semplicemente, ma malamente e seriamente, divisa. Oggi, quei due partiti non esistono più, ma idee e pratiche di sinistra continuano a circolare, minoritarie, osteggiate, espulse dal processo che porterà al Partito Democratico.

Credo che Bruno Gravagnuolo convenga, però, che nessun discorso sulla sinistra debba mai limitarsi a guardare al caso italiano nel quale, peraltro, mi trovo d’accordo con lui, la sinistra sta per sparire. Non si tratterà, come all’inizio degli anni novanta, quando in Europa ci si chiedeva con brillante gioco di parole «What is left?», di puro e rimediabile smarrimento, ma di triste, sostanziale scomparsa. D’altronde, se le parole significano qualcosa, Democratico è diverso (ed è anche meno qualificante) di Democratico di sinistra. Tuttavia, è molto difficile per chi non ha mai apprezzato e, al contrario, ha costantemente criticato, sia che fosse collocato dentro il Pci oppure che si trovasse nei Quaderni Piacentini e in Lotta Continua, come inadeguate le grandi socialdemocrazie occidentali, ripensare la sinistra, i suoi valori, i suoi ideali, le sue politiche concrete.

Naturalmente, nulla di tutto questo può essere minimamente ritrovato nel «Manifesto dei Valori» del Partito Democratico che, incidentalmente, dovrebbe già essere considerato superato dal «Manifesto dei coraggiosi per le riforme» (e dal programma “democratico” enunciato da Veltroni al Lingotto). Ma interventi più o meno estemporanei non ricostruiscono nessuna sinistra. Eppure, ne sappiamo molto di che cosa la sinistra (social-democratica) è stata e che cosa può continuare ad essere grazie ai suoi partiti, ai suoi governi, alle sue centinaia di milioni di elettori reali.

Il punto centrale, nonostante tutte le critiche che gli sono state rivolte, raramente condivisibili, è quello che ha reso giustamente famoso il libretto di Bobbio, «Destra e sinistra» (da ultimo 2004): l’eguaglianza. La destra accetta le gerarchie; la sinistra persegue le eguaglianze storicamente possibili. Declino e preciso la tematica lungo due versanti. In primo luogo, credo che la sinistra debba prendere le mosse dall’eguaglianza delle opportunità e non porsi il problema dell’eguaglianza di esiti poiché deve sapere anche favorire i talenti e premiare i meriti, consentendo a chiunque di perseguire la propria ricerca di eguaglianza (e di felicità, che non si trova in politica). Secondo, l’eguaglianza di opportunità si persegue e si consegue attraverso un uso accorto, intelligente e flessibile della politica. Come ha scritto con grande acume Giorgio Ruffolo, la sinistra di questo secolo (del millennio parlerò un’altra volta...) accetta l’economia di mercato, naturalmente, quando i suoi operatori ne rispettano le regole, ma non la società di mercato. Infatti, interviene con la politica a produrre e riprodurre quelle eguaglianze necessarie a costruire una società giusta.

La conseguenza è che la politica della sinistra deve appoggiarsi su un consenso democratico, a monte, quando vince le elezioni, ma anche a valle, quando la sinistra al governo decide e poi, argomentando, giustificando, persuadendo, va successivamente a conquistarsi il consenso politico-elettorale. Per tutto questo, la sinistra fa leva su regole, procedure, istituzioni che consentano la competizione trasparente fra proposte e schieramenti.

L’orizzonte della sinistra non è quello della durata di un governo. La sinistra non vive lo spazio di una legislatura. Per questo si occupa della solidarietà fra generazioni e, naturalmente, della mobilità sociale. Dunque, la riforma del welfare e, più concretamente, del sistema pensionistico, non è un semplice affare contabile, anche se dei conti bisogna per l’appunto tenere conto, come sostiene Luciano Gallino, in qualche modo contraddicendo Guglielmo Epifani, che non ha offerto criteri alternativi a quello della “calcolatrice” per effettuare politiche riformiste. È, invece, sempre, una faccenda di giustizia sociale, in questo caso fra generazioni, non tanto a futura memoria. Un discorso simile vale sia per la formazione permanente dei lavoratori e per la flexicurity, i cui effetti positivi sembrano sfuggire a troppi studiosi italiani, sia per gli investimenti in special modo in istruzione.

Ma, davvero, la sinistra che vorremmo deve caratterizzarsi con riferimento ad un programma chiaro, preciso, articolato e, soprattutto, lungo, corposo, massiccio in modo da tenere occupati tutti i suoi intelligentissimi e prolificissimi intellettuali di riferimento (sia chiaro che mi ci metto anch’io)? Dove sono finite le emozioni, non tutte inventate da Walter Veltroni? La sinistra è, da un lato, capacità di comprendere e di “empatizzare”; dall’altro, voglia di organizzare, di progettare e di rischiare. Sul secondo elemento, la sinistra italiana, ma non quelle europee, da Mitterrand a Blair, non è mai stata troppo brillante. Ha piuttosto praticato la guerra di posizione e, comunque, non si è mai assunta la responsabilità delle sconfitte. Incidentalmente, lasciando da parte molti altri elementi critici, Craxi non fu sinistra europea perché non organizzò la sua politica e non accettò mai rischi. Quanto alla comprensione e all’empatia, le caste dei politici di sinistra hanno perso la loro credibilità. Al livello più elevato di comprensione e di empatia collocherei, come esempio luminoso e non soltanto perché desidero che non venga mai dimenticato, il gesto di un grande politico di sinistra, il socialdemocratico Willy Brandt quando si inginocchiò ad Auschwitz. Altri tempi, altri politici, altra sinistra.

Pubblicato il: 19.07.07
Modificato il: 19.07.07 alle ore 13.00   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco Pasquino. Eppure qualcosa si muove
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2007, 05:43:55 pm
Eppure qualcosa si muove

Gianfranco Pasquino


È giusto essere esigenti con il governo Prodi. Ha promesso molto, non solo in termini di sostanza, ma anche di stile. Cosicché, anche, da un lato, i provvedimenti per la riduzione dei troppi e ingiustificati costi della politica, dall’altro, maggiore attenzione all’etica in politica, sono risposte da dare presto sia all’elettorato del centrosinistra sia a quei settori che sanno e vogliono giudicare senza partito preso. Lentamente, qualcuno fra noi, esigenti, ma anche impazienti, aggiungerebbe sicuramente, fin troppo lentamente.

Magari anche con qualche compromesso che avremmo preferito non venisse fatto, però il governo Prodi sta effettivamente risolvendo i più urgenti problemi del Paese. L’economia migliora da tutti i punti di vista e la riforma delle pensioni è un passo avanti importante, ancorché non definitivo. Le liberalizzazioni, che certamente potranno essere spinte più in là, stanno già dando buoni risultati. In politica estera, l’Italia ha riacquisito un ruolo dignitoso a livello europeo e nel Medio-oriente. Se davvero dobbiamo guardare al bicchiere e lo facciamo senza pregiudizi, lo vedrei pieno al 60-65 per cento. Però, i pregiudizi esistono, non sono tutti infondati, meritano di essere discussi e eventualmente sfatati.

Farebbero molto male Prodi, i suoi ministri e i suoi consiglieri se trascurassero i sondaggi, concordemente negativi, sulla popolarità e sul rendimento del presidente del Consiglio e del governo, che sembrano addirittura aprire spazi alla comparsa di un uomo forte, il quale, ad ogni buon conto, non potrebbe che presentarsi come un politico decisionista, persino di centro-sinistra, e non come, anche se gli aspiranti non mancano, un leader autoritario. Fino ad oggi, seppure con qualche lentezza e esitazione di troppo, la mediazione di Prodi ha funzionato in maniera ragionevolmente apprezzabile, in particolare, se teniamo conto che deve costantemente affrontare due problemi che hanno radici diverse, ma profonde: una strutturale e una comportamentale. La radice strutturale, che è, pertanto destinata a fare la sua ricomparsa, è rappresentata dalla risicatissima maggioranza in Senato, con la presenza di molti senatori (e capetti dei partitini) aspiranti al loro giorno di massima gloria: fare cadere il governo perché loro sono anime belle, pacifiste, operaiste, sinistre. La radice comportamentale dei problemi del governo, più diffusa e, quindi, a mio modo di vedere, alquanto più pericolosa, è rappresentata da coloro che, nel loro irrefrenabile bisogno, politico, elettorale e, forse anche narcisistico, di distinguersi esacerbano i conflitti interni, tirano la corda senza calcolare le conseguenze.

La risposta di metodo del governo, che sintetizzo nel portavoce unico e nei dodici punti di Caserta, non ha finora ridimensionato la microconflittualità che, rilevo non tanto incidentalmente, verrà ridotta soltanto quando diminuirà il numero dei loro portatori, sani e malati (questa osservazione mi consente di dare il benvenuto al raggiungimento del quorum delle firme referendarie). La risposta di sostanza è proseguire lungo la strada delle riforme. È una strada quasi obbligata, ma non per questo meno impervia. Riguarda il sistema radiotelevisivo e dei media, magari prendendo subito in serissima considerazione i suggerimenti che vengono dalla Commissione europea riguardo il disegno di legge Gentiloni. Riguarda il conflitto di interessi, problema cruciale in una democrazia liberale, che non fa male soltanto alle viscere degli antiberlusconiani integrali, ma allo stesso modo di fare politica. Riguarda, senza esaurire l’elenco, la legge elettorale. Prodi si vanta di essere un passista. Commetteremmo un errore se gli chiedessimo di accelerare il ritmo oppure di impegnarsi in spasmodiche volate. L’affollatissimo gruppone politico e ministeriale nel quale si trova non sarebbe comunque capace di creare il famoso “treno” di cui approfittano i grandi velocisti. Gli chiediamo di procedere metodicamente, attraverso mediazioni possibili e argomentazioni convincenti, senza trionfalismi, magari accettando le critiche, persino quelle distruttive, che contengano elementi utili.

Da ultimo, il centro-sinistra nel suo insieme dovrebbe sapere che l’elezione di un segretario del Partito Democratico potrebbe avere, anche se non desiderati, effetti destabilizzanti e che la futura legge elettorale non sarà priva di conseguenze sulla possibile trasformazione dello schieramento parlamentare a sostegno del governo. Qualsiasi legge proporzionale, a prescindere dalla sua nazionalità, alla tedesca o all’italiana, non servirà a rafforzare Prodi, ma darà una immeritata chance sia ai sedicenti coraggiosi che agli aperturisti furbetti. Nel centro-sinistra chi vuole sfuggire allo scenario prospettato da Arturo Parisi («Nuove alleanze, nuove elezioni») deve rafforzare il bipolarismo, magari scrutinando severamente chi si chiama fuori e chi vorrebbe farsi chiamare dentro. Ma a dettare le condizioni sarà il capo del governo in carica, a maggior ragione se continua a dimostrare, anche a noi, esigenti e impazienti, di sapere governare e di riuscire a riformare.

Pubblicato il: 25.07.07
Modificato il: 25.07.07 alle ore 13.58   
© l'Unità.


Titolo: Michele Salvati Una coalizione alla svolta
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2007, 07:41:02 pm
Governo e riforme

Una coalizione alla svolta

di Michele Salvati

 
Credo che bisogni tener distinto, per quanto è possibile, il giudizio sulle riforme di cui il Paese ha bisogno dalla valutazione di quanto è possibile fare, date le circostanze politiche. Queste possono essere fatte coincidere con i condizionamenti che il governo subisce dalla eterogenea alleanza che lo sostiene.

In questo caso, il recente accordo sulla previdenza può persino ricevere una valutazione positiva: poteva andar peggio e il governo ha avuto il merito di piegare le posizioni più oltranziste presenti nella coalizione che lo sostiene e nel sindacato. Se ci si attiene al primo criterio — il bene del Paese — il giudizio non può che essere negativo, sia dal punto di vista degli equilibri di bilancio pubblico, sia da quello dell'equità: ci sono impieghi assai più urgenti ed equi dei dieci miliardi che ci costeranno nei prossimi anni la trasformazione dello scalone in scalini, l'attenuazione dell'aumento previsto nell'età della pensione per poche decine di migliaia di lavoratori e le altre misure su cui è avvenuto l'accordo tra governo e sindacati. Ammesso che dieci miliardi bastino. E ammesso che l'accordo non venga rimesso in discussione a settembre. Francesco Giavazzi e Nicola Rossi, nei loro commenti dei giorni scorsi su questo giornale, si sono attenuti al primo criterio e in buona misura condivido le loro valutazioni negative. Eugenio Scalfari, nel suo articolo di domenica scorsa su Repubblica, si attiene sostanzialmente al secondo, e da questo fa discendere un apprezzamento per come Prodi e il governo si sono mossi nelle difficili circostanze che si trovavano a fronteggiare.

Se il primo criterio di giudizio — il bene del Paese secondo criteri di efficienza e giustizia ampiamente condivisi— pecca di astrattezza, il secondo — quanto bravo è stato Prodi a farcela, nonostante il sindacato e i partiti estremi della sua coalizione — pecca di partigianeria o di giustificazionismo: mica ce l'ha ordinato il dottore di tenerci questa coalizione o di ottenere l'assenso del sindacato su tutte le principali politiche economiche e sociali che il governo ritiene giusto intraprendere. Sempre tenendo distinti i due piani di giudizio, il loro conflitto richiede di conseguenza che se ne affronti un terzo. Per non mettere in gioco troppe variabili — altrimenti dovremmo valutare la capacità di far riforme da parte del centrodestra, anch'essa non molto elevata a giudicare dall'esperienza della scorsa legislatura — partiamo dall'ipotesi che questo governo duri o comunque la legislatura non si interrompa. Il terzo piano di giudizio può allora essere condensato in questa domanda: esiste la possibilità che, in futuro, e su temi cruciali come la politica estera e le politiche economico-sociali, i condizionamenti dei partiti della sinistra estrema e di alcuni settori del sindacato siano meno pressanti e di conseguenza il governo possa produrre le riforme di cui il Paese ha bisogno? Ci sono due grossi fatti politici in corso di gestazione. Il primo è la riforma elettorale: l'altro ieri scadeva la raccolta delle firme per il referendum, è quasi certo che le firme risulteranno sufficienti e molto probabile che la Consulta autorizzerà il voto nella prossima primavera. Dunque, o si terrà il referendum, o il parlamento farà una nuova legge elettorale, o cadrà il governo e, forse, avrà termine la legislatura. Il secondo fatto politico riguarda la nascita del Partito Democratico, in sostanza l'unificazione dei riformisti del centrosinistra. Non potrebbero questi due fatti indebolire seriamente le componenti meno riformistiche della coalizione e del sindacato e dar luogo ad una nuova fase di questo governo, o addirittura a un nuovo governo, che sappia attuare le riforme di cui il Paese ha bisogno? Il referendum è un'occasione straordinaria per ridurre il potere di condizionamento dei piccoli partiti, estremisti o meno. E il Partito Democratico ha un interesse vitale a presentarsi come partito delle riforme, a mostrare il più presto possibile che la sua nascita fa differenza. Resterebbe sempre la debolezza numerica della maggioranza, probabilmente accentuata da qualche cedimento sul lato sinistro della coalizione nel caso dovesse attuarsi una svolta riformista. Ma, com'è già accaduto dopo la caduta del primo governo Prodi, nell'autunno del 1998, un qualche «straccione di Valmy» potrebbe essere disponibile a sostenere il governo e ad evitare l'interruzione della legislatura. Stiamo però entrando nel regno delle fantasticherie estive e forse è opportuno fermarsi qui.

26 luglio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Fini, il problema è Berlusconi
Inserito da: Arlecchino - Luglio 30, 2007, 05:10:52 pm
Fini, il problema è Berlusconi

Gianfranco Pasquino


Chi vuole migliorare il funzionamento del sistema politico italiano deve porsi prioritariamente, anche se in aggiunta alla riforma elettorale e alle riforme istituzionali, il compito di ristrutturare il sistema dei partiti. So benissimo che istituzioni, regole elettorali e tipologie di partiti si influenzano reciprocamente, ma sono anche consapevole che, per i dirigenti di partito, se e quando lo vogliono, è più facile partire dalla ristrutturazione della loro organizzazione che dalla trasformazione di regole per cui debbono trovare consensi più ampi e, qualche volta, trasversali.

Anche se in maniera che rimane da decifrare, il percorso che porta verso il Partito Democratico ha innescato reazioni nello schieramento di centro-destra. Casini pensa di cavarsela in maniera indolore se gli riuscirà di strappare ai fin troppi proporzionalisti del centro-sinistra un luccicante sistema elettorale tedesco. Invece, Fini ritiene che sia opportuno andare verso un partito unificato del centro-destra, non soltanto contrappeso al Partito Democratico, ma anche concorrente più credibile e più agguerrito, in una versione che viene spesso definita «gollista». Oltre che opportuno un nuovo grande partito di centro-destra potrebbe essere indispensabile se passasse il referendum che attribuisce un cospicuo premio di maggioranza al partito singolo che avrà più voti.

Con qualche rivelatrice incertezza linguistica, già Berlusconi aveva qualche tempo fa indicato il partito «unico» come sbocco della Casa delle Libertà, purché fosse chiaro che la leadership doveva rimanere nelle sue mani. Poi, non se ne fece niente a riprova che il Cavaliere non è né un costruttore di istituzioni né un riformatore della politica. Adesso, che la bandiera del partito unificato del centro-destra l’ha presa in mano il leader di Alleanza Nazionale, i collaboratori di Berlusconi minimizzano e evadono. La prospettiva di Fini viene abitualmente definita dai commentatori, è difficile dire quanto strumentalmente, come quella della costruzione di un partito gollista di centro-destra, oggi ulteriormente celebrato non soltanto a causa della vittoria di Sarkozy, ma in special modo con riferimento alla spregiudicatezza e incisività del suo stile di leadership. Le ipersemplificazioni ovvero gli errori anche gravi di qualsiasi attribuzione di caratteristiche e qualità golliste alla destra italiana sono numerosi. Il gollismo non ha mai avuto nulla da spartire con una destra di origini fasciste che, anzi, combatté intransigentemente e dalla quale fu osteggiato fino ad arrivare ad alcuni tentativi di assassinio del Gen. De Gaulle. Rispetto all’estrema destra francese, i gollisti hanno sempre fatto valere la «disciplina repubblicana»: nessun alleato su quel fianco e nessuna desistenza, neppure quando sarebbe risultata elettoralmente utile, come,ad esempio, con i candidati di Le Pen nel 1997. Inoltre, costitutivamente il gollismo consistette in un’efficace combinazione di «compagnons de la Résistance» e di tecnocrati di classe medio-alta. Non sfruttò nessun rapporto privilegiato con la religione. Nella sua area politica non ebbe concorrenti. Infine, diede vita ad un assetto costituzionale fortemente innovativo.

Dal canto suo, inevitabilmente, tralasciando tutte queste differenze, Fini deve continuare nella sua meritoria opera di «depurazione» di Alleanza Nazionale dai residui di un passato, per molti nient’affatto superato, che fu neo-fascista. In più, deve fare i conti con Berlusconi e il suo movimento politico Forza Italia che spregiudicatamente si accoda, quando gli fa comodo, ai neocon e ai teodem, che ha poco senso dello Stato, che non può permettersi di abbandonare l’estremismo populista della Lega. Eppure, per quanto assediato da populismo, patrimonialismo e cattolicesimo, lo spazio politico per un moderno partito di destra, sempre assente in Italia (anche se dovremmo ritenere tale la confortante esperienza della Destra Storica), esiste. Probabilmente, ne è consapevole anche Berlusconi che, però, teme sia la presa di distanza di Casini, ma non la contrasta con la proposta di un sistema elettorale coerentemente maggioritario, sia la sfida di Fini sia la deriva leghista. Cosicché il paradosso è che chi, come Berlusconi, ha il potere politico di lanciare l’operazione «moderno partito di destra» ai confini con la visione gollista di uno Stato forte, efficiente, modernizzatore, preferisce lasciare lucrare le sue rendite di posizione antipolitiche, populiste, favorite dall’inadeguatezza dell’apparato statale italiano. Chi, invece, come Fini, deve, anche per ragioni legate all’evoluzione complessiva dello schieramento partitico italiano (e europeo), accelerare un’aggregazione della destra, potenziare, senza clientelismo, la macchina statale, formulare una visione nazionale, non ha abbastanza potere politico per imporla e qualche volta è costretto ad accettare fin troppi compromessi. Per di più, si ha la non peregrina impressione che, dentro Alleanza Nazionale, siano annidati non pochi berluscones che stanno a guardare, ma che rimangono sempre pronti a rispondere, al momento opportuno, al richiamo del Cavaliere. Non è la prima volta che Fini lancia la sfida. Resta da vedere con quanta intensità e con quanto impegno riuscirà a sostenerla.


Pubblicato il: 30.07.07
Modificato il: 30.07.07 alle ore 7.49   
© l'Unità.


Titolo: GIANFRANCO PASQUINO...
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2007, 10:40:05 pm
L’esempio della Margherita

Gianfranco Pasquino


È già possibile sostenere che, dal punto di vista dell'ispirazione ideale del Partito Democratico, alcuni dirigenti della Margherita stanno offrendo una interpretazione più movimentata e più interessante della competizione per la leadership di quella data dal gruppo dirigente dei Democratici di Sinistra.

Infatti, dopo la, del tutto paleo burocratica e francamente ingiustificabile, esclusione di Furio Colombo (che fa male a non accettare la riammissione), per i Democratici di Sinistra, è rimasto in gara il solo Walter Veltroni.

A ragione, molti si chiedono quanto più trascinante e entusiasmante sarebbe stata la competizione se anche Bersani, come aveva preannunciato, avesse messo in campo le sue idee e la sua persona per un partito di combattimento.

A maggior ragione, l’opzione Bersani sarebbe servita a precisare tanto le differenze, di priorità, di toni, di stile e qualità di leadership, quanto le convergenze, su un terreno che, dissodato da una pluralità di candidature, non avrebbe prodotto lacerazioni.

Invece, la presenza di un candidato unico dei Ds alla segreteria nazionale del Partito Democratico è stata subito interpretata a livello locale, con grande naturalezza e con grande sollievo, come il via libera all'imitazione: un candidato unico dei Ds (prima che si sciolgano...) alle varie segreterie regionali. Come soluzioni di questo tipo riescano ad attrarre energie nuove, a suscitare consenso aggiuntivo, ad accrescere e a rendere incisiva la partecipazione politica, a produrre rinnovamento generazionale e di genere, mi risulta del tutto incomprensibile.

Forse, sarebbe stato utile mandare dal vertice un inequivocabile segnale «rompete le righe» incoraggiando da subito e per tutta la fase di preparazione delle candidature e di campagna elettorale per l'Assemblea Costituente, la contaminazione politica e culturale.

Adesso, il test si sposta sulla formazione delle liste nei 475 e sui loro collegamenti che mi auguro saranno variegati, originali e fantasiosi. È sperabile che non tutti vogliano già saltare sul carro del vincitore annunciato il quale ha sicuramente capito che non ha proprio nulla da guadagnare da ammucchiate indiscriminate di liste a suo favore.

Di fronte al monolitismo dei Ds, la Margherita ovvero, meglio, alcuni suoi dirigenti hanno scelto, non so se per virtù o per necessità, un'altra strada. Vero è che Franceschini è stato abilissimo a mettersi fulmineamente nel ticket con Veltroni (incidentalmente, scrutando nei regolamenti di ticket non ho visto neppure l'ombra, mi sbaglio?), ma le candidature di Rosy Bindi e di Enrico Letta sembrano dettate da preoccupazioni genuinamente politiche e programmatiche conformi ad una visione dinamica e propulsiva del Partito Democratico (alla quale sarebbe stato utile anche l'apporto della candidatura di Arturo Parisi).

Con malizia, vorrei rilevare come, la casa di provenienza di Bindi, Franceschini e Letta, ovvero la Dc, garantisse non pochi spazi di competizione per la leadership, sempre molti di più e più aperti di quelli storicamente offerti dal Pci. Credo che dobbiamo essere grati soprattutto a Rosy Bindi, per avere dato corpo alle due indicazioni di fondo - sparigliare e contaminare - che potrebbero fare del Partito Democratico una struttura politica davvero nuova e dinamica, trasparente e attraente.

Il ticket Veltroni-Franceschini dà, inevitabilmente, magari anche contro la loro volontà (attendo spiegazioni convincente), ma oggettivamente, l'impressione che si tratti di una fusione di (gruppi) dirigenti appena ringiovaniti. E fusione non significa contaminazione.

La candidatura di Rosy Bindi offre, invece, la grande occasione di sparigliare il gioco della leadership e di iniziare, come sembra abbiano compreso alcuni diessini, anche un concreto procedimento di contaminazione culturale. Aggiungo che mentre Veltroni e Franceschini, da un lato, e Letta, dall'altro, hanno impostato le loro candidature quasi come se si trattasse di scegliere il futuro candidato alla carica di Presidente del Consiglio (e di Vice-presidente), formulando proposte programmatiche in qualche caso alternative a quelle del programma dell'Unione e delle priorità del documento di Caserta, Rosy Bindi, senza rinunciare ad esporre alcune sue idee, sulle quali è possibile confrontarsi e misurare la disponibilità alla contaminazione, ha messo in chiaro che concorre alla carica di segretaria del Partito Democratico.

Ecco, questo è certamente il punto di maggiore importanza.

Che tipo di partito, vale a dire con quale organizzazione, con quale radicamento, con quale distribuzione territoriale del potere, con quale democrazia interna, desiderano costruire Veltroni-Franceschini e Letta? Le pure scarne indicazioni di Bindi, unitamente alla sua disponibilità in caso di vittoria a lasciare la carica di Ministro per dedicarsi a tempo pieno al Partito, e la sua stessa decisione di entrare in una competizione per la leadership che sembra(va) già scontata, sono un messaggio confortante per tutti coloro che, in questi anni, e negli anni a venire, vorrebbero avere un veicolo politico dinamico, flessibile, decentrato la cui leadership sia, come ripete numerose volte il pur tanto (e giustamente) criticato «Manifesto dei Valori» (verrà riscritto?), non attribuibile dall'alto, ma effettivamente contendibile.

Pubblicato il: 03.08.07
Modificato il: 03.08.07 alle ore 8.18   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO Pd, nuovo partito nuovo programma
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2007, 10:59:48 pm
Pd, nuovo partito nuovo programma

Gianfranco Pasquino


Finora, chi piú, Veltroni, chi meno, anche per minori mezzi a loro disposizione, Rosy Bindi ed Enrico Letta, i tre maggiori candidati alla segreteria del Partito Democratico, si sono espressi su tematiche generali, su elenchi di politiche, anche belle, da fare, sulla loro visione di quello che un governo piuttosto che un partito, nuovo, dovrebbe fare. Non c’é niente di male in questo: piú idee, buone, circolano, meglio é anche per l’insieme del centro-sinistra. È anche giusto adoperarsi affinché un partito, soprattutto in ragione della sua novitá, riesca a dotarsi di un programma di respiro e di lungo periodo. Era qualcosa di cui, ad esempio, i socialdemocratici tedeschi si sono sempre vantati, salvo poi avere non pochi problemi nel tradurre in pratica il loro programma “fondamentale”.

Tuttavia, un partito a vocazione maggioritaria ha quasi il dovere di formulare un programma nuovo, diverso e persino aggiuntivo rispetto a quello vigente dell’Unione. Peró, non dimentichiamo che questa effervescenza programmatica implica un rischio che Bindi ha subito cercato di sventare. Il rischio é che il leader del partito democratico prossimo venturo, attrezzato (appesantito?) dal suo programma, non finisca per apparire, inevitabilmente, persino contro le sue intenzioni e contro la sua volontá, come il successore designato al capo dell’attuale governo, Romano Prodi, per di piú se confortato da qualche milione di voti di coloro che si iscriveranno al partito.

Anche una volta che fossimo soddisfatti dalla sfida programmatica fra i candidati, rimarrebbe quello che considero essere il problema vero. L’esigenza di un nuovo partito nasce dalla constatazione che i due, neppure troppo vecchi, partiti contraenti hanno espresso e maturato, dello stallo del loro consenso elettorale che non cresce, anzi risulta stabilizzato a livelli piuttosto insoddisfacenti. Lo stallo potrebbe essere conseguenza di programmi inadeguati, ma potrebbe anche essere, questa é, comunque, la mia opinione, un problema che deriva dalla inadeguatezza e fragilitá della struttura dei due partiti. Qualche anno fa, sulla scia dell’ennesima sconfitta elettorale nel Nord, Fassino e Bersani avevano lanciato l’idea di un partito del Nord, alla quale si era inmediatamente dichiarato disponibile anche Enrico Letta. Recuperare nel Nord, insediarvisi efficacemente, a partire da Milano, non é soltanto un’operazione elettoralistica, é soprattutto una grande, eccitante operazione politica di enorme rilievo. Significa riannodare rapporti con settori avanzati della societá (di cui, peraltro, il Nord non ha l’esclusiva, ma certamente una importante sovrarappresentanza). Significa ottenere input e legittimazione aggiuntiva.

Quell’idea non é mai, colpevolemnte, stata tradotta in effettiva e tenace pratica e il centro-sinistra continua ad annaspare nel Nord, a perdere regolarmente, ad essere debole, in qualche cosa irrelevante, se non inesistente. Chi desidera ricostruire la politica in regioni dove l’antipolitica continua ad essere sulla cresta dell’onda, sará oportuno dotarse di un’organizzazione partitica all’altezza della sfida. In materia, non ho finora sentito parole adeguate da Veltroni, Bindi, Letta. Quanto al rinnovamento del partito, alcune regole interne dovranno essere molto rigorosamente formulate affinché si sappia in base a quali criteri il nuovo partito recluterá, promuoverá, sostituirá i suoi dirigenti e i suoi candidati alle cariche elettive: quote e limite ai mandati? Si dice che troppi candidati nelle liste a sostegno dei tre papabili segretari stiano posizionandosi per il futuro prossimo, addirittura costruendo liste istituzionali. Sarebbe stato bello, come ho letto in un sito ulivista (www.welfarecremona.it) se fosse stata introdotta la regoletta che almeno la metá dei partecipanti all’Assemblea Costituente si impegna a non ricoprire cariche elettive nei prossimi cinque anni, e quindi a non fare regole che possano giovare soprattutto a loro.

Infine, si é giá aperto il problema della struttura correntizia del prossimo partito. Molte opinioni, ma anche storie comuni e condivise, culture politiche che, invece di contaminarsi, si proteggono, troppo difficile imporre vera competizione e ricambio: sono queste le giustificazioni per accettare la presenza di correnti, che inevitabilmente vorranno posti e cariche, ma quanto ferreamente organizzate?. Quale é in materia la posizione dei candidati alla segreteria del Pd? Un partito di correnti, come dimostró spesso brillantemente la Democrazia Cristiana, non é certamente il male assoluto. Non é altrettanto certamente, come dimostró il Psi prima di Craxi, neppure il bene assoluto. Allora dicano i candidati che cosa sono disposti ad accettare e che cosa vogliono, invece, contrastare e impedire. Insomma, credo che sia legittimo esigere nei prossimi due mesi che tutti i candidati delineino il modello di partito da loro preferito e lo discutano in pubblico. Magari anche in confronti “all’americana” che consentano ai loro elettori di farsi piú che un’idea e anche in base alle conoscenze acquisite decidano se votarli oppure no. Il resto verrá, in parte, ma solo in parte, affidato all’Assemblea Costituente dove é molto preferibile arrivare con progetti di modelli in avanzato stato di formulazione poiché 2.500 partecipanti non potranco certamente scendere nei dettagli. Chi vuole un partito nuovo e lo promette ha anche il dovere di dire quanto nuovo e come potrá essere in termini di struttura, di radicamento, di cultura politica, di democrazia interna.

Pubblicato il: 18.08.07
Modificato il: 18.08.07 alle ore 11.17   
© l'Unità.


Titolo: PASQUINO - Primarie? No. Elezione diretta
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2007, 03:31:48 pm
Primarie? No. Elezione diretta

Gianfranco Pasquino


Qualcuno o, forse, troppi hanno sottovalutato i problemi che sono insiti nella costruzione di un partito nuovo. È un'operazione molto rara e raramente riuscita con successo. Purtroppo, invece di riflessioni approfondite, che pure erano state richieste e, persino, offerte, vi sono state accelerazioni frettolose che, come vediamo da qualche settimana e come, temo, ci accorgeremo ancora di più nel prossimo mese, provocano tensioni e conflitti che, a determinate condizioni, potrebbero essere evitati, anche perché non sono affatto conflitti creativi.

Intendo fare un po’ di chiarezza su alcuni aspetti importanti.

Il primo è la definizione corretta dell'evento del 14 ottobre. Non saranno elezioni primarie, come furono quelle del 16 ottobre 2005 quando, fra una pluralità di candidati, gli elettori designarono Romano Prodi quale sfidante di Berlusconi per Palazzo Chigi. Saranno, invece, elezioni vere e proprie del segretario (del capo) del Partito Democratico. In concomitanza e, aggiungo, inopinatamente, si eleggeranno anche tutti i segretari regionali. Questa concomitanza fa piazza pulita di qualsiasi propensione, pure espressa da Veltroni, ad avere un partito federale con le organizzazioni regionali che godano di forte autonomia dal centro. Il rischio è che, a livello regionale, emergano i posizionamenti che Veltroni giustamente critica, ma che non sembra vedere proprio dove hanno già luogo.

Contrariamente a quel che ha scritto Ceccanti, ritengo che le regole possano essere discusse e debbano anche, quando esiziali, essere cambiate. Per quel che riguarda l'abbinamento della elezione del segretario nazionale con quella dei segretari regionali, la regola può essere subito cambiata poiché la scadenza di presentazione delle candidature è il 12 settembre. Una volta ascoltati gli umori e i suggerimenti dell'Assemblea Costituente, anche in materia di quale partito costruire, si potrà, in un secondo tempo, procedere ad una migliore scelta dei segretari regionali. Segretari eletti in concomitanza con il segretario regionale sono tutto meno che garanzia di partito federale. Al contrario, rischiano di essere e di volere essere dei potenti rappresentanti in sede regionale del segretario nazionale (in uno scambio, non virtuoso, di voti).

Il secondo punto che sollevo è quello della competizione fra candidati. Sicuramente, è aspra, ma non esageratamente tale. Lo è anche perché, ed è un peccato che Veltroni non se ne sia accorto, ci sono troppi suoi pretoriani, autorizzati o furbescamente auto-autorizzatisi, che vogliono correre sulle code del potenziale vincitore, salire sul bandwagon (anzi, sul carro del, probabilissimo, vincitore, si sono già installati). Per evitare che questo deleterio fenomeno si estenda a macchia d'olio, suggerirei a Veltroni di non procedere lui personalmente (operazione di stampo alquanto notabilare) alla nomina delle quattrocento personalità che desidera partecipino all'Assemblea Costituente, ma di dare indicazione ai suoi numerosi comitati elettorali che siano loro ad aprire le liste collegio per collegio, magari, visto che si è rinunciato troppo presto ad indire opportune primarie a questo livello, giustificando le candidature prescelte e proponendo anche, lo so che sarà molto difficile, se non improbabile, candidature di dissenzienti rispetto alle opinioni prevalenti in materia di organizzazione del partito, di riforme istituzionali, di alleanze di governo. Poiché queste opinioni esistono sarebbe opportuno e fecondo poterle ascoltare in sede di Assemblea Costituente.

In genere, i dibattiti aspri e i conflitti fra personalità dovrebbero non soltanto diffondere informazioni, ma anche condurre alla mobilitazione dell'elettorato potenziale. Questo è il terzo punto che elaboro. Dopo averne fatto grande e improprio uso, qualcuno sostiene oggi che non dovremmo fare nessun paragone con le primarie del 2005. Ho già detto che quella del 14 ottobre non sarà affatto una primaria, ma sarà una concretissima elezione popolare diretta del segretario, incidentalmente, del tutto inusitata nei partiti politici, che mira ad ottenere l'apporto non soltanto degli iscritti ai due partiti contraenti, ma di tutti gli elettori dei Ds e della Margherita. Allora, perché mandare un segnale di preoccupazione e di debolezza sostenendo che l'asticella deve essere fissata al milione di partecipanti? Facciamo un po' di conti. Ricordo che alla Camera per la lista «Uniti nell'Ulivo» è stata votata da 11 milioni e 930 mila elettori; e al Senato, la somma dei voti di Margherita e Ds giunge a 9 milioni e mezzo ai quali credo sia giusto aggiungere 1 milione e 400 mila circa di elettori delle liste Insieme per l'Ulivo. Aggiungo che il 14 ottobre potranno votare anche i sedicenni. Perché, allora, dobbiamo autoingannarci o autodeprimerci (a meno che non si tratti di mettere le mani avanti...) sostenendo che un milione di votanti sarà già un successo? Meno di due milioni e mezzo costituirà, a mio parere, un clamoroso insuccesso. Sia chiaro, però, che se è giusto sostenere che sono i candidati alla segreteria del Partito Democratico che debbono suscitare la partecipazione, è ancora più giusto affermare che saranno i dirigenti locali che, continuando nelle loro lotte intestine, nelle loro discriminazioni, nelle loro preclusioni, nelle loro spartizioni a tavolino, proponendo candidature uniche, bloccate ed esclusive, finiranno per impedire un'alta partecipazione.

Spero che dire tutto questo adesso, a voce alta, chiara e forte, non venga considerato un delitto di lesa maestà di nessuno. Tutti nel centro-sinistra, se vogliono continuare a governare, hanno interesse a che nasca un buon Partito democratico. E alcune critiche perseguono e mirano a conseguire anche questo esito.

Pubblicato il: 27.08.07
Modificato il: 27.08.07 alle ore 10.16   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - La politica delle feste
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2007, 06:50:30 pm
La politica delle feste

Gianfranco Pasquino


Tradizionalmente, le feste di partito o di capi di partito (la Telese di Mastella) servono sia a incoraggiare e mobilitare i simpatizzanti che a formulare qualche idea politica nuova, sottoporla a confronto, farla circolare sulle pagine dei giornali e in qualche spot nei telegiornali. Le Feste dei partiti che ci sono e anche di quelli che non ci sono più (i Popolari ad Assisi allietati dalla visita del predicatore del Pd: Walter Veltroni) e che non ci sono ancora (il Partito Democratico) sono tuttora in corso.

Fare il punto proprio adesso non è facile, ma può essere utile a capire il senso delle cose.

La Festa dell’Unità fornisce passerella e applausometro, per chi arriva ad un appuntamento con il nuovo soggetto e anche per chi lascia cariche nel vecchio partito. Non sembra che il superamento del vecchio sia già avvenuto e, personalmente, continuo a non capire come funzioni l’imprevisto (dai regolamenti) ticket Veltroni-Franceschini. Se questo è l’esito previsto e prevedibile, allora sarebbe utile sottoporlo ad un giudizio dei militanti e, magari, ad un confronto con i dissenzienti. Sembra che i grandi assenti dai confronti siano i segretari regionali potenziali dei quali persino «l’Unità» lamenta lo scontro dalla Lombardia alla Campania e alla Calabria e, finalmente anche in Emilia. Ma dovremmo forse preferire l’unanimismo, segnale perfetto di una fusione a freddo, oppure non sta avvenendo obtorto collo proprio quello che vorremmo: una bella competizione intorno all’idea di un partito diverso sia dai Ds, giunti stremati, sia dalla Margherita, mai del tutto fiorita? Finalmente, Veltroni ci ha anche detto che vuole un partito federale, ma se poi i segretari saranno tutti veltroniani per vocazione, per spartizione, oppure per investitura, quanto federale riuscirà mai a diventare e rimanere il Partito Democratico?

Certamente, la Federazione non si trova sulla sinistra, vale a dire nella Sinistra Democratica, che si barcamena tra l’essere inevitabilmente risucchiata da Rifondazione, il partito che non molla, e tentare di elaborare un riformismo socialista che non ha mai gradito e che come contrappasso non riesce neppure ad immaginare. La Margherita si divide, forse per colpire meglio, ma anche si riallinea, naturalmente, come meglio sa, in correnti costruite intorno a persone. Non sappiamo, però, né quanto sono né dove porteranno i coraggiosi del nuovo conio. La politica di nuove alleanze, in verità, non particolarmente coraggiose, viene sicuramente condotta con spregiudicatezza da Mastella che, quando non annuncia il suo ritiro dal governo, contratta sia una nuova lista, almeno con l’Udc, se non anche con pezzi della Margherita, per le elezioni europee, sia una nuova legge elettorale. Dalle dichiarazioni di Fassino, D’Alema e, persino, di Veltroni, sembrerebbe che, comunque, Mastella abbia già ottenuto una bella legge elettorale tedesca (che, inesorabilmente, dovrebbe servire anche alla vanificazione del referendum elettorale). Tuttavia, sarà dura inventarsi un marchingegno giuridico-costituzionale che obblighi ad alleanze preventive e soprattutto che punisca i successivi cambi tipo ribaltone. Infatti, la legge elettorale tedesca è accompagnata dal voto di sfiducia costruttivo che consente proprio di cambiare alleanze in parlamento senza procedere a crisi al buio (ma Mastella agisce alla luce del sole!).

Nel frattempo, Veltroni ha opportunamente e preventivamente smentito di volere succedere, senza previe elezioni, a Romano Prodi, ma o fa il segretario organizzativo e allora dovrebbe raccontarci molto di più sul partito che vorrebbe e che costruirà, oppure, in re ipsa, è destinato ad essere percepito e a diventarne sfidante/successore. Altrimenti, perché continua a scrivere sui grandi quotidiani nazionali tutto il suo programma politico, di cose da fare, di leggi da approvare, di politiche da attuare? Insomma, è opportuno che le feste continuino, almeno fino alla fatidica data del 14 ottobre, quando si avranno, insisto, non primarie, ma delle belle elezioni dirette per il segretario del Pd e per i segretari regionali (brutta combinata).

Incidentalmente, non ho fatto la previsione di due milioni e mezzo di elettori. Ho detto che quella è la soglia alla quale deve mirare chi vuole un Partito Democratico solido, in buona salute, vigoroso. E, allora, feste o non feste (a meno che la festa al governo non la facciano gli allegri dimostranti del 20 ottobre), è imperativo che la elaborazione programmatica e politica, ma, alla luce della povertà del «Manifesto dei Valori», di cui, più o meno fortunatamente, nessuno parla, anche ideologica, continui. Spero con esiti di più alto profilo.

Pubblicato il: 03.09.07
Modificato il: 03.09.07 alle ore 10.22   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Partita a scacchi
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2007, 05:31:49 pm
Partita a scacchi

Gianfranco Pasquino


È in atto una complicata operazione in più stadi che può condurre alla ristrutturazione del sistema politico e istituzionale e ad un rinnovamento, almeno parziale, della classe politica. Questa operazione, non necessariamente tutta prodotto del processo che condurrà alla nascita del Partito democratico, intreccia referendum e riforma elettorale, formazione delle alleanze e ricambio di leadership. Può avere conseguenze sul governo.

Alcune scadenze sono oramai fissate. Il 14 ottobre si avrà l’elezione del segretario del nuovo Partito democratico. Incidentalmente, leggo che molti dei suoi futuri dirigenti immancabilmente sottolineano che sarà un partito «a vocazione maggioritaria» e, poiché non posso fare a meno di pensare che non sarebbe un’idea brillante quella di creare un partito a vocazione minoritaria, credo che si tratti di uno scongiuro. Prendo atto e capisco che la vocazione maggioritaria potrebbe avere più che un aiutino dall’esito del referendum elettorale. Ma, allora, perché tentare di vanificare il referendum attraverso l’elaborazione di un marchingegno che, deformato da alcune inopinate clausolette, non ha quasi nessuna relazione con la legge elettorale tedesca?

Sembrerebbe che tutto il discorso sulla futura legge elettorale abbia, almeno in questa fase, due obiettivi. Da un lato, in entrambi gli schieramenti i partiti grandi (presumibilmente, entrambi a vocazione maggioritaria) cercano di rassicurare quelli piccoli, ma decisivi: sulla sinistra Rifondazione, sul centro-sinistra l’Udeur, che sempre minaccia crisi di governo, sulla destra la Lega.

Dall’altro lato, si tratta di guadagnare tempo. Veltroni ha bisogno di tempo per strutturare il partito nuovo di cui diventerà fra breve il capo, magari dicendo anche a chiarissime lettere che tipo di partito intende costruire dal punto di vista dell’organizzazione, del radicamento, dei referenti sociali. Prodi è disposto a concedere molto tempo perché in questo modo potrà continuare ad esercitare la leadership di governo. Finché si discute di legge elettorale e, ancora di più, se mai si giungesse ad un accordo bipartisan, qualsiasi crisi di governo è da escludere. Chi non ha tanto tempo da perdere è Berlusconi che, infatti, sulla base dei soliti classici, ma mai del tutto errati sondaggi, sa che sta invecchiando e che non può sperare di essere ancora il leader della Casa delle Libertà nel 2011. Tuttavia, la sua fretta non è condivisa da Fini che, invece, sente che il passare del tempo gli giova. Serve a depurare Alleanza Nazionale da pericolosi residui del passato e anche a cuocere a fuoco lento Casini e Tabacci che hanno affidato praticamente tutta la loro strategia all’approvazione di una legge elettorale proporzionale.

Non è casuale che Berlusconi accetti tatticamente una legge elettorale gradita da Bossi e non sgradevole per Fini (il quale, peraltro, è favorevole anche al referendum), ma strategicamente pensi che la situazione migliore per lui sia di tornare alle urne il prima possibile con la balorda legge vigente appena ritoccata.

Nel frattempo, però, stimolato dalla costruzione del Partito Democratico e consapevole che il premio di maggioranza bisognerà pure conquistarlo sul campo, Berlusconi non rinuncia all’idea di un grande Partito delle Libertà che, nascesse anche soltanto come somma di Forza Italia e Alleanza Nazionale, sarebbe non soltanto «a vocazione maggioritaria», ma quel che più conta diventerebbe assolutamente competitivo con il Partito Democratico. Quanto a Fini, nel nuovo partito porterebbe a compimento la sua strategia di legittimazione complessiva riuscendo persino ad approdare nel Partito Popolare Europeo.

Naturalmente, tutti questi processi incontrano ostacoli e hanno oppositori, i più determinati dei quali, per ragioni diverse, sono Rifondazione Comunista e l’Udc. Poiché le aspettative dei leader sono differenti e spesso conflittuali, continueranno anche le tensioni nella consapevolezza che le ambizioni degli uomini (e, talvolta, anche delle donne) possono talvolta spingere a commettere errori di tempi e di modi. Ad ogni buon conto, la fondazione del Partito Democratico costituirà sicuramente il passaggio più delicato che potrebbe influenzare a cascata sia la ridefinizione degli schieramenti nella sinistra e nella destra sia la riscrittura di alcune regole elettorali e istituzionali.

Delicatissimo è il compito del centro-sinistra: governare e riformare in una fase in cui i suoi assetti politici e le regole del gioco stanno per cambiare creando notevole incertezza e ansia, ma anche significative opportunità, un po’ in tutti i protagonisti politici. D’altronde, il sistema politico italiano ha l’assoluta necessità di intraprendere la strada del cambiamento che, altrove in tutta Europa, ha visto l’emergere di leadership nuove, più giovani e più dinamiche.

Pubblicato il: 06.09.07
Modificato il: 06.09.07 alle ore 9.53   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... La sinistra si preoccupi
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2007, 10:45:12 pm
La sinistra si preoccupi

Gianfranco Pasquino


Non c’è molto da rallegrarsi se un comico porta in piazza decine di migliaia di persone che vanno a firmare dei disegni di legge di iniziativa popolare (sarà poi opportuno entrare nei dettagli della loro formulazione). C’è ancora meno da rallegrarsi se queste persone si collocano a sinistra e credono di contribuire alla riforma della politica seguendo slogan e blog prodotti da Beppe Grillo, non propriamente, come ha notato Massimo Cacciari, un autore paragonabile ad Aristofane. D’altronde, quella dello scrittore greco non era effettivamente antipolitica.

Era bensì una critica severa delle modalità con le quali veniva fatta la politica, allora limitata a qualche decina di migliaia di cittadini, con il fine della catarsi, della trasformazione positiva. Se e quando le iniziative di Grillo e, a suo tempo, anche di non pochi girotondisti, hanno successo, la sinistra farebbe meglio a preoccuparsi.

È vero che la vena dell’antipolitica corre in maniera neanche troppo carsica lungo tutta la storia dell’Italia unitaria, ma è anche vero che, per lo più, si incontrava con pulsioni qualunquiste e con manifestazioni populiste prodotte dalla destra, anche e soprattutto da famosi giornalisti e da loro elogiate. Peraltro, non tutta la critica dell’establishment politico (oggi definito "casta"), dei politici di professione e dei modi di fare politica, in Italia, spesso largamente deprecabili, può essere fatta ricadere in un concetto spesso vago come "antipolitica". Tanto per cominciare, l’antipolitica è anche critica della cattiva politica e viene nutrita dai politici quando fanno fronte comune nei confronti delle critiche rivolte ai loro comportamenti. Dirò più esplicitamente che troppo di frequente, ad esempio, su indulto e finanziamento statale dei partiti, sul diniego di autorizzazioni a procedere e sulla difesa dei loro privilegi, anche abitativi, i politici italiani parlano in maniera autoelogiativa di politiche bipartisan, ma in realtà contribuiscono molto materiale all’antipolitica ("sono tutti eguali"). Quando si contrappone una società, che sarebbe civile, vibrante, integra, ad una politica che sarebbe, tutta, incivile, moscia e inquinata, si offre un efficace assist proprio agli antipolitici. Quando si manovrano le istituzioni e si piegano le regole, elettorali e partitiche, alle convenienze temporanee si alimenta l’antipolitica.

Tuttavia, chi fra i politici voglia sostenere che la società italiana non è nel suo complesso abbastanza civile, che non è affatto vibrante, e quando "vibra" lo fa anche per cause sbagliate, che non è purtroppo neppure estranea alla ricerca di privilegi e all’uso della corruzione, deve avere tutte le carte in regole. Dopodiché, deve anche impegnarsi in due tipi di attività molto esigenti e molto dispendiose. In primo luogo, sta un’attività pedagogica, educativa che si espleta con le parole, con le dichiarazioni, con i discorsi, ma, come sanno tutti gli insegnanti, in special modo con la coerenza dei comportamenti, con lo stile di vita. Invece, nel teatrino della politica, troppi attori recitano ruoli molto diversi da quelli dei docenti della buona politica, della dignità della politica, dell’importanza della politica. Il compito educativo non è neppure cominciato e non può esaurirsi in prediche senza seguito di comportamenti rigorosi. Il secondo tipo di attività che può, non sconfiggere definitivamente e completamente l’antipolitica, ma ridurla ad un fenomeno minoritario, consiste nel riformare regole e istituzioni.

Anche in questo caso le propensioni bipartisan sembrano spesso celare il tentativo di proteggere gli interessi di tutta la classe politica a scapito della competizione aperta e rischiosa, dell’incertezza degli esiti (e dei seggi), del potere politico degli elettori. Le proposte degli antipolitici di sinistra sembrano troppe volte alquanto contraddittorie: dalla difesa della Costituzione che costeggia la sua mummificazione al limite temporale ai mandati elettivi che, insieme all’acqua sporca dei parlamentari graditi ai vertici dei partiti (in questi giorni, non posso esimermi da mettere in questa categoria anche i futuri segretari regionali del Partito Democratico scelti dall’alto o colà negoziati), butterebbe via anche tutti coloro che vengono eletti e rieletti perché sono rappresentanti attenti alle preferenze dei loro elettori e legislatori competenti e efficaci. L’antipolitica di sinistra non seppellirà con una risata né la cattiva politica italiana né la democrazia. Ma, sicuramente, non riuscirà neppure in nessun modo a migliorarla con slogan semplicistici e con proposte apparentemente attraenti, ma nella pratica controproducenti.

Forse è il caso che il dibattito sul Partito democratico, a livello nazionale e nelle regioni, tenendosi lontano da prediche buoniste, chiarisca quali saranno le opportunità di partecipazione incisiva dei cittadini alla vita del partito e quanta sarà la loro influenza.

Certo, la politica democratica ha bisogno e merita qualche volta di essere sollecitata dai movimenti, associazioni, gruppi, ma se non esistono regole appropriate per tradurre quelle sollecitazioni in comportamenti coerenti e verificabili, in premi e in punizioni, la critica della politica potrà anche essere amaramente divertente, ma finirà soltanto per contribuire ad un’antipolitica che di democratico (e di sinistra) avrà poco o nulla.

Pubblicato il: 10.09.07
Modificato il: 10.09.07 alle ore 13.17   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Il Pd e il sindacato
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2007, 06:32:12 pm
Il Pd e il sindacato

Gianfranco Pasquino


Altrove, nell’Europa alla quale vale la pena guardare, ovvero quella dove le esperienze socialdemocratiche hanno migliorato la qualità della vita, l’asse portante del riformismo è stato costituito da un rapporto stretto fra il partito di sinistra e il sindacato. Questo rapporto garantiva governabilità e riforme, graduali e importanti. È facilmente ipotizzabile che, in Italia, la frammentazione sindacale, con i sindacati che cercavano e davano sponde ai loro partiti di riferimento, non soltanto abbia compresso le eventuali, troppo spesso minoritarie, potenzialità riformiste.

Ma che abbia anche contribuito alla mancata formazione di un partito riformista.

Nel dibattito a tutto (troppo) campo sul Partito democratico, fra contaminazioni culturali e spartizioni politiche, lo spazio dato alla riflessione sul rapporto che il nuovo partito dovrà cercare di instaurare con i sindacati è stato finora minimo, se non quasi inesistente. Il massimo che Epifani si è finora consentito è stato un non entusiastico omaggio verbale al Pd. D’altronde, i tre maggiori candidati e, se non si adombrano, i tre minori candidati non hanno praticamente parlato di sindacato, essendo per tutti molto più facile e meno impegnativo discutere, più o meno vagamente, di ingiustizie e di disuguaglianze, di precari e di (mancanza di) lavoro.

Adesso, il Comitato centrale della Fiom-Cgil butta sul campo il suo molto corposo, neanche tormentato, «no» agli accordi relativi al welfare. Subito, il segretario di Rifondazione Giordano coglie la palla al balzo e dichiara che sarà il suo gruppo parlamentare a farsi, questo è il senso, «cinghia di trasmissione» delle istanze della Fiom. I sindacalisti Cremaschi e Rinaldini vedono, invece, nel loro «no» una espressione alta di autonomia del sindacato.

Sarebbe fin troppo facile sottolineare che né Luciano Lama né Bruno Trentin, forse perché erano entrambi, con modi e con stili diversi, ma con la stessa passione, autonomamente e convintamente riformisti, sarebbero affatto stati d’accordo, come dimostrarono in circostanze molto più complesse e dolorose. Raramente il «no» mi sembra un segnale di autonomia (dai partiti) né un apporto riformista. La risposta riformista dovrebbe essere prevalentemente un «sì, ma...», con il ma che suggerisce, avendo accettato il terreno del confronto, come andare più avanti, più a fondo, facendo tesoro di quanto già ottenuto.

Naturalmente, se, con tutto il rispetto, ma anche con tutto il mio dissenso, si trattasse soltanto della Fiom e di Rifondazione e di tutti coloro che, alla ricerca di un radicamento sociale che non hanno, tenteranno di strumentalizzare il «no» della Fiom, dovremmo preoccuparci del futuro del governo, nella speranza, nutrita sia da Prodi e Fassino che da Epifani che i lavoratori ratificheranno. Tuttavia, quel che è in gioco non è tanto la ratifica dell’accordo, ma la strategia complessiva dei rapporti fra il Partito democratico e i sindacati.

Non sarebbe il caso che, a cominciare dai candidati alla segreteria, i più autorevoli fra gli esponenti del futuro Pd, nel quale entreranno i rappresentanti di gruppi dirigenti che hanno storicamente avuto buoni rapporti con la Cgil, con la Cisl e, un po’ meno, con la Uil, delineassero quale futuro, che non sia né subalterno (vedo un gran numero di ex-sindacalisti in cariche istituzionali e governative di rilievo) né di inutilmente orgogliosa autonomia dovrebbe stabilirsi fra partito e sindacato?

Non sarebbe il caso che il governo dell’Unione, senza pensare né a rimpastarsi (tremenda, ma possibile e non imprevista, conseguenza delle fatidiche incoronazioni del 14 ottobre) né a snellirsi, chiarisse che esiste una strategia di medio periodo di riforma complessiva del welfare, aggiungendo e sottolineando che è già cominciata. Un sindacato autonomo, ma riformista, è in grado di differire sue eventuali conquiste aggiuntive, che, naturalmente, non otterrà con nessun governo di destra, al fine di costruire su quanto di buono, ed è molto, come ha intelligentemente messo in evidenza Bruno Ugolini sull’Unità del 12 settembre, è già stato ottenuto.

Insomma, quella parte di sindacato che rilancia non offre nessuna prospettiva riformista. Quella parte di sinistra che blandisce in maniera subalterna quei sindacalisti non soltanto rende un pessimo servizio ai lavoratori, ma, peggio, gioca con il fuoco della crisi di governo. Quanto ai futuri dirigenti del Pd sarebbe bello sentirli affrontare di petto l’argomento «rapporto fra partito e sindacato» hic et nunc, ora e adesso, se davvero il Partito democratico vuole essere riformista. È un rapporto che non si risolve distribuendo cariche prestigiose ai sindacalisti e co-optandoli nella «casta», ma formulando la visione di un sistema socio-economico più giusto che può essere costruito, riforma dopo riforma, soltanto grazie alla cooperazione di un sindacato riformista. Il percorso, in special modo per chi non vuole imparare dalle concrete esperienze socialdemocratiche, mi sembra ancora lungo e accidentato. Proprio per questa ragione è opportuno cominciare adesso senza aspettare il verdetto del 14 (o del 20) ottobre.

Pubblicato il: 13.09.07
Modificato il: 13.09.07 alle ore 9.23   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Chi ha paura del Tribuno
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2007, 12:28:10 am
Chi ha paura del Tribuno

Gianfranco Pasquino


La sequenza della più recente ventata di antipolitica, nonostante sia stata lunga, nervosa e accentuata, è stata colpevolmente trascurata dai politici, in special modo da quelli di governo. Infatti, né Berlusconi né Bossi hanno molto da temere da chi, come Beppe Grillo, porta il suo messaggio, che ha fortissime componenti di critica partitica e di antipolitica, nel cuore della sinistra: la città di Bologna e la Festa dell’Unità. L’antipolitica di Berlusconi e Bossi affonda le sue radici in un altro pubblico e mira a bersagli già condivisi e interiorizzati dal suo pubblico.

Ossia: tutta la politica, in generale, contrapposta ai loro interessi personali, tutti i partiti della sinistra e, naturalmente, i politici di professione. E, nonostante, le tre o quattro legislature accumulate dalla maggioranza dei parlamentari di Forza Italia e della Lega, costoro riescono ancora a sfruttare il loro appello contro lo Stato, contro i suoi balzelli, che ci sono, e contro le sue leggi, farraginose e numerosissime, contro la burocrazia, composta anche da nullafacenti, contro la lottizzazione, pure da loro ampiamente praticata.

Quanto alla sequenza, tutto comincia con l’eccessivo trionfalismo di qualcuno nell’Unione per una vittoria elettorale tutto meno che trionfale. Continua con un indulto trasversale basato su motivazioni parecchio discutibili e su cifre alquanto ballerine. Passa attraverso una finanziaria molto cangiante, ma poco convincente. Culmina con la fulminea crisi di governo del febbraio 2007, risolta soltanto dalla competenza istituzionale del Presidente Napolitano.

Torna a manifestarsi con un balletto senza senso e senza contenuti sulla riforma della legge elettorale. Esplode con la pubblicazione del libro di Stella e Rizzo, La casta (sui privilegi dei politici), pur preceduto da Teodori, Soldi & partiti (1999) e da Salvi e Villone, Il costo della democrazia (2006), ma non seguito da nessun provvedimento concreto. Sarà anche vero che, come ha dichiarato, un po’ troppo frettolosamente il presidente della Camera Fausto Bertinotti, l’antipolitica di Grillo colma «un vuoto della politica».

Da parte mia, ho sempre pensato che i vuoti della politica vanno individuati per tempo e colmati dalla politica stessa, per essere precisi dalla buona politica che è quella che sa depurarsi delle tossine che, anche una tutt’altro che buona società, continua ad iniettarle.

Troppo facile, adesso, sostenere, da un lato, che sarà la costruzione del Partito democratico a risolvere il problema con una bacchetta magica che nessuno ha ancora visto; dall’altro, che i partiti non possono essere attaccati tutti indiscriminatamente. Ma se nessuno dei partiti reagisce discriminando il praticabile dal demagogico, allora la critica se la meritano tutti.

Tuttavia, Grillo e la stragrande maggioranza dei suoi compagni di blog, in piazza e davanti ai loro computer, attaccano, qualche volta aggrediscono, di preferenza, la sinistra, i partiti di sinistra, i politici di sinistra. Lo considero un omaggio, e tale deve effettivamente essere poiché la destra non colma nessun vuoto di politica. Anzi, approfondisce la voragine dell’antipolitica, praticamente senza rischi. Sono i politici di professione e, se vogliamo, per vocazione, che debbono avere il coraggio e l’intelligenza di dare subito risposte concrete. Altrimenti, si dovrà prendere atto che la politica è anche impotente.

Dunque, se ne può fare a meno, sostituendola con i «poteri forti» (ma ho dubbi sulla loro esistenza e sulla loro reale forza) oppure con demagoghi, che, alla fine della ballata, non fanno mai ridere se non a un prezzo sociale molto elevato. Tagliare subito i costi della politica, e anche i posti della politica: per esempio, una volta fatto il Pd, D’Alema e Rutelli dovrebbero rinunciare subito alla loro carica di Vice-Premier poiché i loro due partiti non esisteranno più e non avranno più bisogno di rappresentanza.

Riformare la legge elettorale, magari, se non si riesce a fare di meglio, cancellando con un tratto di penna la vigente legge porcata di Calderoli, per ritornare al pur imperfetto Mattarellum che aveva almeno il piccolo pregio di eleggere tre quarti dei parlamentari in collegi uninominali (con una clausola aggiuntiva: il requisito di residenza).

Infine, forse, consentendo una vera apertura delle liste per l’Assemblea Costituente collegate all’elezione diretta (per favore, non scrivete mai più primarie) del segretario del Pd e, dunque, accogliendo personale non politico che si guadagna il suo personale bollino blu non da investiture dall’alto, ma dalla capacità di ottenere consenso nella sua circoscrizione. In politica, e anche in antipolitica, i tempi contano.

Oramai sembra che per la debolezza della politica siano i Grillo-boys a dettare l’agenda. Tuttavia, quell’agenda la si può riscrivere, secondo le linee che ho esposto sopra. Ma l’attuazione di alcuni provvedimenti, d’altronde già preceduta da un’estenuante fase di gestazione, deve essere immediata.

Non credo che moriremo di antipolitica, essendoci sempre chi praticherà l’accanimento terapeutico su partiti languenti.

Spero che alcuni partiti riacquistino la dignità perduta, non soltanto perché sono fatti da persone perbene (dopo avere escluso condannati e inquisiti), ma, in special modo perché saranno riusciti a ristrutturarsi attraendo persone competenti di ogni età e di entrambi i generi con percorsi professionali di tutto rilievo.

Pubblicato il: 18.09.07
Modificato il: 18.09.07 alle ore 8.34   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Governo: poche scelte, chiare e certe
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2007, 04:12:54 pm
Governo: poche scelte, chiare e certe

Gianfranco Pasquino


A fronte delle più recenti, peraltro, quasi tutte previste e sostanzialmente inevitabili, difficoltà, la posizione ufficiosa di Prodi sembra oscillare, come scrive l’Unità, fra la «cocciutaggine del fare» e la tentazione di «mandare tutti al diavolo». A volte, personalmente, ho avuto l’impressione che, in via ufficiale, Prodi volesse comunicare che intende «governare come se niente fosse» e «completare il disegno della legislatura».

Temo, purtroppo, che non sia possibile né l’una né l’altra cosa, ovvero che sia indispensabile tenere conto di molto di quello che è già succeduto e operare sapendo che sarebbe quasi miracoloso giungere al termine naturale della legislatura. Di conseguenza, appare molto saggio riuscire fin da subito a delineare una strategia alternativa fatta di poche, precise e rapide mosse. Sarebbe anche bello potere tralasciare tutti gli elementi dirompenti che la faticosa e farraginosa costruzione del Partito democratico ha introdotto nella vita del governo, ma proprio non si può. Spalancare gli occhi sulla dinamica, almeno temporaneamente, molto destabilizzante del Pd mi pare atto doveroso e dovuto. Incidentalmente, era davvero così urgente, qualificante e pressante per Veltroni dichiarare, un paio di giorni prima del dibattito in Senato sulla Rai, la sua preferenza per una soluzione, "Fondazione più Amministratore Unico", mai espressa in precedenza, mai confrontata con i governanti?

L’ombra di un governo tecnico o istituzionale incombe sul futuro molto prossimo di questa legislatura. Quel governo potrebbe trovarsi, proprio come toccò a Ciampi nel 1993-1994, a dovere svolgere due compiti ineludibili: riformare la legge elettorale, fare una finanziaria non elettorale. Sappiamo che il Presidente Napolitano ha già correttamente e opportunamente annunciato che la crisi del governo Prodi non aprirà affatto la strada ad elezioni anticipate che non potranno tenersi con una legge elettorale pessima da troppi punti di vista, sulla quale, peraltro, non si possono scaricare gli inconvenienti di una maggioranza numericamente infima al Senato (con qualsiasi altra legge, infatti, al Senato il centro-sinistra sarebbe in minoranza).

Dunque, ponendo fine ad interminabili balletti, dentro la maggioranza e con il centro-destra, che, oramai è chiaro, non allungano la vita del governo, credo sia giunto il momento che il Ministro Chiti prenda l’iniziativa e , in assenza di meglio, proponga di cancellare la porcata di Calderoli & friends e semplicemente di ritornare al Mattarellum. Non era una ottima legge, ma, visto che in questo Parlamento non si riesce a fare di meglio, vale la pena resuscitarla, per ragioni di tempo e per non consegnare il compito ad un governo tecnico che, preda di molti piccoli ricatti, rischierebbe di fare di peggio.

In secondo luogo, il governo Prodi deve, comunque, impostare una legge finanziaria che tenga conto del fatto che potrebbe essere il suo ultimo lascito e, dunque, del tutto comprensibilmente, non dovrà comportare sacrifici e oneri aggiuntivi per l’elettorato senza, peraltro, diventare una finanziaria elettorale, ovvero ricca di regalini che poi finiremmo per pagare tutti, ma in special modo i settori meno privilegiati dell’elettorato.

A proposito di privilegi, tagli secchi, sicuri, solidi, come quelli prospettati dal Ministro Lanzillotta, ai costi della politica consentono di rispondere a preoccupazioni, manifestate da molti settori della società italiana, che non sono soltanto "antipolitiche", ma, persino, di etica e di austerità. Infine, so perfettamente che non poche componenti del centro-sinistra e forse anche parecchi elettori del centro-destra si aspetterebbero la soluzione di due altri problemi, fra loro collegati, che incideranno sulla campagna elettorale e sulla vita politica successiva al voto: il conflitto di interessi e l’assetto delle televisioni. Mi si risponderà che non esiste una maggioranza parlamentare, meno che mai al Senato, in grado di approvare disegni di legge decenti.

Colpevolmente tenuti a bagnomaria, quei disegni di legge vanno riesumati, snelliti e messi immediatamente nelle commissioni parlamentari, a partire dalla Camera dove il governo gode di una maggioranza ampia. Nonostante straordinari, diabolicamente ripetuti errori di comunicazione e nonostante la sua incapacità di operare come coalizione coesa, il governo ha fatto un lavoro complessivamente apprezzabile. Potrebbe cominciare a pensare in che modo rivendicare positivamente il suo risanamento di un’economia lasciata in cattivo ordine e stato dal precedente governo e in che modo costruire uno schieramento più coeso, più solidale e più sobrio dell’attuale coalizione che ha vinto per un soffio nel 2006, ma che non è affatto automaticamente detto che debba perdere nel 2008. I sondaggi sono lì per essere smentiti da una efficace e intelligente campagna elettorale.

Non è giusto tentare di prolungare la sopravvivenza del governo con cedimenti a chi dimostra di avere maggiore potere di ricatto. Sopravvivere si può, governando, ovvero facendo poche scelte chiare e belle. Perseguire interessi nazionali in quel che rimane di tempo di governo sarebbe un ottimo inizio di una campagna elettorale per la quale, comunque, il centro-destra deve risolvere due problemi enormi: il perimetro della coalizione e la sua leadership.

Pubblicato il: 23.09.07
Modificato il: 23.09.07 alle ore 13.05   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Babele a Roma
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2007, 04:53:29 pm
Babele a Roma

Gianfranco Pasquino


Qualche tempo fa ho visto un film, Tredici giorni, non particolarmente brillante, infatti, ha avuto poco successo nelle sale, ma altamente istruttivo da più punti di vista. Al centro della narrazione stava il Presidente degli Stati Uniti d’America, John Fitzgerald Kennedy, che doveva rispondere all’installazione a Cuba di missili sovietici probabilmente dotati di testate nucleari. Il Presidente aveva convocato nella famosa Sala Ovale della Casa Bianca non più di una decina fra consiglieri, generali e ministri (fra i quali, il fratello Robert, Ministro della Giustizia).

Non soltanto, il dibattito, come è confermato da tutti i resoconti, era intenso e aspro, ma nessuno dei partecipanti mostrava alcun timore reverenziale nei confronti del Presidente. Anzi, in più occasioni il Presidente veniva criticato, ovviamente con la proposizione di argomenti contrari alla sua posizione e con motivazioni specifiche. Alla fine, toccò al Presidente prendere la decisione, «chiamando» quello che poteva anche non essere un bluff sovietico e Kruscev decise di ritirare i missili.

Qual'è la parte istruttiva del film Tredici giorni? In primo luogo che i grandi leader non si circondano di «yes men», ma di consiglieri la cui autorevolezza e la cui competenza permettono loro di contraddire anche un Presidente degli Usa. In secondo luogo, che il grande leader vuole essere contraddetto per impararne di più. Se tutti gli dicessero «sì, hai ragione», le motivazioni di una decisione e la sua validità non potrebbero essere saggiate. In terzo luogo, che se una sede è decisionale, allora i partecipanti debbono essere pochi. Al di sopra di una certa soglia, probabilmente dieci o dodici partecipanti, la procedura decisionale diventa farraginosa, confusa, poco produttiva. Anche il cosiddetto «inner Cabinet» inglese, vero luogo decisionale, ha per l'appunto un basso numero di partecipanti. Infine, la decisione è formulata e presa dal capo dell'esecutivo.

Qualche lettore si chiederà dove va a parare questa narrazione che non è soltanto una premessa. Anzitutto, intende essere una critica, nient'affatto sommessa, ma esplicita, ai riti dell'attuale governo italiano (i precedenti li ho criticati a tempo debito) celebrati in incontri pletorici quasi che il coinvolgimento di tutti possa portare a decisioni migliori o, quantomeno, disinneschi i dissensi. No, le decisioni troppo negoziate non sono affatto migliori e, quanto ai dissensi, quando la riunione non è neppure ancora terminata, i dissenzienti hanno già trovato modo di rilasciare dichiarazioni alle radio e, preferibilmente, con buona pace delle serie parole del Presidente Napolitano, alle televisioni nel tentativo, spesso coronato da successo, di comparire nei telegiornali.

Naturalmente, conosco anche la replica alla mia critica. La coalizione di governo è ampia, oh, yes, e composita. Bisogna tenere conto di tutti i punti di vista. D'altronde, è lo stesso schieramento sociale del centro-sinistra che si esprime in una molteplicità di rappresentanti. Dulcis in fundo, se poi Prodi si definisce «assistente sociale» della sua maggioranza, non c'è più nulla da paragonare a processi decisionali anglosassoni, ma neppure, per non andare troppo lontano, francesi. Si aggiunga che, per coinvolgere un po' tutti, non soltanto ci sono all'incirca, poco più poco meno, 35 mila candidati all'Assemblea Costituente del Partito Democratico, ma l'Assemblea che, dunque, non potrà essere che molto marginalmente una sede decisionale, se non per linee estremamente semplificatorie, avrà duemilacinquecento componenti. Certamente, un grande esperimento di massa, la cui qualità dovrebbe essere freddamente valutata in seguito, e per fortuna che il segretario del Partito democratico, se ottiene almeno il 50 per cento dei voti di tutti coloro che si recheranno alle urne il 14 ottobre, sarà eletto direttamente.

Il fatto è che la sinistra, al governo e nel paese, non riesce a sfuggire alla tentazione di rappresentare la frammentazione (ma il rispecchiamento non è mai rappresentanza) e non riesce ad approdare a due lidi molto raccomandabili: la competizione e la decisione. Si ha vera competizione quando tutti «corrono» senza reti di sicurezza, ad esempio, non si fanno cooptare come capolista in liste bloccate, dopo avere proposto e promesso «primarie sempre» e teorizzato la «contendibilità» di tutte le cariche. Si ha competizione quando chi perde esce, almeno per un giro, senza necessariamente, se davvero fa politica per passione, uscire dal giro. Quanto alla decisione, chi è a capo di un governo (o di un partito) ha l'onere e l'onore di prendere le decisioni, certamente dopo avere ascoltato, ma non necessariamente ceduto in maniera tale da produrre soltanto decisioni di minimo comune denominatore.

La decisione guarda avanti.

È una sintesi proiettata nel futuro, ma, naturalmente, può essere riformata a ragione veduta. Se, come il Ministro Bersani ha dichiarato fin troppe volte, la politica ha una marcia in meno della società (a mio parere, non sempre e non dappertutto, neppure nel Nord!)) e nel distacco si manifestano e proliferano i germi dell'antipolitica, allora è chiaro che vertici di governo, per di più allargati, non sono mai uno strumento che aumenti la velocità della politica. Anzi, sembrano fatti apposta per confermare le critiche politiche e antipolitiche. E quando la politica non è la soluzione dei problemi di un paese, della sua spesso frammentata, autoreferenziale e egoista società, diventa rapidamente un problema per quella società e per le opportunità di costruire una buona politica. Semplificare e rendere trasparente è possibile, a cominciare dai vertici. Forse, adesso, è addirittura indispensabile.

Pubblicato il: 27.09.07
Modificato il: 27.09.07 alle ore 8.58   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Un onorevole video
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2007, 05:01:26 pm
Un onorevole video
Gianfranco Pasquino


Chi va ovvero, appare in televisione vince (quel poco o quel tanto che può: notorietà e elezioni); chi non va perde. Questa vulgata, esageratamente diffusa e condivisa fra politici, commentatori, giornalisti, fa davvero troppo onore alla tv e troppo disonore ai cittadini italiani. È una vulgata primitiva fondata su basi friabili e che, soprattutto, non riesce a differenziare fra capacità, prestazioni e messaggi. È vero che i cittadini italiani e, a questo punto, praticamente tutti i cittadini delle democrazie che chiamerò, per brevità, «avanzate», traggono la maggior parte delle loro informazioni politiche dalla tv.

Ma questo non significa affatto che non abbiano, prima e dopo la ricezione delle informazioni televisive, altre fonti di informazione e di discussione politica. Anzi, sappiamo che le hanno a cominciare dall'ambiente familiare e dagli amici a proseguire con i colleghi di lavoro e con i preti e a finire, last but not least, con gli attivisti politici, ovvero con tutti coloro che hanno voglia di parlare di politica, sanno come farlo. Sottovalutare queste dinamiche di comunicazione significa avere capito poco o nulla delle società complesse che non sono fatte da individui isolati e atomizzati, ma che, invece, sono innervate da reti familiari, amicali, associative estese e influenti. In secondo luogo, il telespettatore, pardon, la telespettatrice non si limita affatto a registrare il numero di comparsate che ciascun politico fa sulle varie reti televisive che, comunque, lei telespettatrice non frequenta con assiduità, ma, semmai, con selettività. Al contrario, valuta le prestazioni.

In televisione non basta esserci. Bisogna sapere che cosa dire e, magari, esercizio supremo, imparare a come dirlo in maniera essenziale e efficace. Non è un peccato tentare di padroneggiare il mezzo di comunicazione. Anzi, è un utile apprendimento che serve a comunicare quanto è politicamente rilevante. In terzo luogo, e qui ha pienamente ragione il Presidente Napolitano che può, in totale e convincente coerenza con i suoi comportamenti quando non era ancora arrivato al Quirinale, raccomandare astinenza e sobrietà. Non soltanto bisogna evitare di infliggere ai telespettatori una overdose di proprie presenze, ma è anche opportuno essere selettivi rispetto al teatrino televisivo in cui si compare.

Per intenderci, è preferibile evitare di trovarsi fra nani e ballerine ovvero in una puntata che segue il delitto di Garlasco e che precede il dibattito sul, peraltro interessante e rivelatore, lato B delle concorrenti a Miss Italia. Al proposito, però, il problema non è esclusivamente dei politici; è, in special modo, dei giornalisti e, più in particolare, del servizio pubblico ovvero della Rai. Sembra che i giornalisti televisivi debbano chiedere alle segreterie dei partiti quale politico invitare e qualche volta ricevano anche liste di persone non gradite a quelle segreterie e quindi da non invitare.

Capisco che chi non ha il coraggio non se lo può dare, soprattutto se il posto glielo ha fornito e può sottrarglielo la lottizzazione. Ma, allora, non venga data la colpa delle pessime trasmissioni televisive sulla politica alla televisione in quanto tale. Venga, quella colpa, spartita in misura da determinare fra politici e giornalisti. Già Renzo Arbore sapeva che «no, no, la Rai non è la Bbc», ma dalla Bbc, servizio pubblico, due reti in chiaro, due digitali, abbiamo molto da imparare.

Qui mi limito ad un esempio, che credo calzante per l'argomento e per la trattazione che se ne potrebbe fare anche in Italia, adesso. Dopo le dimissioni di Blair, era evidente che Gordon Brown sarebbe diventato Primo Ministro se fosse stato prescelto dai parlamentari laburisti e, eventualmente, dagli iscritti, come capo del partito. Non mi soffermo sulle implicazioni di questo procedimento per coloro che parlano di elezione diretta del Primo ministro. Designato il capo del partito, si imponeva la scelta del suo vice che, in pratica, sarebbe diventato quello che noi chiameremmo segretario organizzativo del New Labour. Candidati quattro uomini e due donne, tutti con una carriera politica e, persino ministeriale, di qualche rilevanza, la decisione di tenere dibattiti pubblici fu subito accettata.

Probabilmente, il più importante di questi confronti si tenne nel programma giornaliero di approfondimento della Bbc chiamato Newsnight alle 22:30. Il più «cattivo» dei giornalisti responsabili quel programma interrogò, questo è il verbo giusto, i sei candidati sulle ragioni per le quali pensavano di essere qualificati a diventare il vice di Gordon Brown al partito e su quale sarebbe stato il loro apporto al partito. Per completezza dell'informazione vinse una delle due donne, ottenendo una maggioranza risicata (50, 8 per cento circa) dei voti espressi dagli iscritti al New Labour. Che c'azzecca la Bbc con l'elezione del vice-segretario del New Labour?

Questo è esattamente quello che un servizio pubblico televisivo deve fare. Quanto succede nel partito al governo e, eventualmente, anche nel partito all'opposizione, è rilevante per il sistema politico nel suo insieme. Per estensione, anche se so di chiedere molto, ma nient'affatto troppo, RaiTre potrebbe ottimamente organizzare un dibattito fra i sei candidati alla segreteria del Partito Democratico. D'altronde, La7 sta già offrendo approfondimenti quotidiani sul «Cantiere democratico». Le votazioni del 14 ottobre, comunque vadano, sono un evento importante per la politica italiana, e non soltanto per il centro-sinistra e per il governo. Quando poi Forza Italia, la Casa delle Libertà o il Partito delle Libertà dovranno scegliere il loro capo, RaiTre coprirà anche quell'evento alle condizioni decise dal giornalista che modererà il dibattito.

Non bisogna avere paura della televisione. Non bisogna demonizzarla. Semplicemente, bisogna imparare, sia da parte dei politici che da parte dei giornalisti, ad usarla (non abusarla) e a farne uno strumento che migliora la politica e che sconfigge l'antipolitica. Manipolando un po' la situazione vorrei concludere sottolineando quanto importante è stata la tv nell'evidenziare il profondo disagio del popolo birmano oppresso da una feroce dittatura militare. La televisione serve anche cause nobili e giuste. Il resto lo deve fare la politica.

Pubblicato il: 01.10.07
Modificato il: 01.10.07 alle ore 8.32   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Primarie, più elettori per tutti
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2007, 11:19:44 pm
Primarie, più elettori per tutti

Gianfranco Pasquino


I gentiluomini, secondo un efficace detto inglese, non litigano sulle cifre. Dibattono sulle idee. Qualche volta, gentiluomini e gentildonne, possono essere obbligati a dare i numeri, ma, allora, lo fanno in maniera documentata, argomentata e comparata. Quanti saranno gli elettori che si recheranno a votare il 14 ottobre per designare il segretario nazionale e i segretari regionali del Partito democratico è sicuramente un quesito importante. A sua volta, l’esito numerico avrà un impatto sul lancio e sullo slancio del partito.

Credo che si debba partire, per valutare correttamente quell’esito, da alcuni punti fermi. Primo, le votazioni del 14 ottobre, nonostante quello che i giornalisti e persino i candidati vanno dicendo e, ancora più tragicamente, compare sulla scheda, non sono elezioni primarie e, dunque, non vanno paragonate con le primarie del 16 ottobre 2005 fra gli elettori dell’Unione che, allora, furono anche mobilitati da un intenso e comprensibile sentimento antiberlusconiano. Il paragone è del tutto improprio e va lasciato cadere. Altrettanto improprio, oserei persino dire stupido, è il paragone con le primarie fra gli iscritti al Partito socialista francese che designarono Ségolène Royal come candidata alla Presidenza della Repubblica francese. Comunque, se si vogliono utilizzare quelle primarie per un paragone decente, lo si dovrebbe fare con i partecipanti all’elezione degli ultimi segretari dei DS e della Margherita. A fronte di un massimo del 30-35 per cento degli iscritti italiani che andarono a votare nelle loro sezioni, sta un luminoso 75 per cento degli iscritti socialisti francesi.

Secondo punto, il 14 ottobre sono chiamati a votare gli iscritti, i simpatizzanti, gli elettori dei DS e della Margherita nonché tutti coloro che abbiano almeno sedici anni e che condividano il progetto del Partito Democratico. Si tratta di una platea, a giudicare dai voti ottenuti dai due partiti nelle elezioni politiche del 2006, che raggiunge gli 11-12 milioni di elettori (più un paio di milioni di under 18). Dunque, se votasse un milione di loro, che, incidentalmente, è all’incirca la somma degli iscritti a DS e Margherita, avrebbe votato meno del 10 per cento del loro elettorato. A me, francamente, pare una percentuale alquanto bassa. Questa è la descrizione della situazione. Non è basata su nessun sondaggio, ma su dati duri. Non è una previsione, che, allo stato, mi pare difficilissima e di non particolare interesse politico.

Si debbono aggiungere due considerazioni a favore di coloro che ritengono che un milione sia un successo. In una fase in cui l’ondata dell’antipolitica sembra solidamente e continuativamente elevata, di quella cifra o poco più ci si potrebbe anche accontentare. Però, Rosy Bindi ha alzato l’asticella e Veltroni la ha accusata di volere fargli/farsi del male. Fassino, pure, ha alzato, con l’ottimismo della volontà, l’asticella ad un livello che anche a me (spero che il segretario dei DS si rallegri di questa nostra inusuale coincidenza di pensiero) pare congruo e raggiungibile: 2 milioni e mezzo-3 milioni. Intendo queste cifre non come una previsione, ma come un obiettivo da conseguire e per il quale i Democratici dovrebbero tutti, se credono nel progetto, rimboccarsi le maniche e correre.

Ho l’impressione, invece, che, da un lato, Bindi implichi che, con un solo milione di votanti, Veltroni sarebbe un segretario dimezzato o, quantomeno, deboluccio. Implicazione, temuta e respinta da Veltroni, ma, a mio parere, piuttosto scorretta. Pochi votanti significa non tanto critica a Veltroni (non è tutta colpa sua se i sondaggi dicono che vincerà alla grande), ma mancata condivisione del progetto democratico da elettori che non sono, evidentemente, stati raggiunti e convinti non soltanto da Veltroni, ma neppure dalla stessa Bindi, da Letta, da Adinolfi e da Gawronski. Meno di un milione di votanti avrebbero perso tutti i candidati; due milioni o più avranno vinto gli indomabili elettori del futuro PD, che non si sono fatti scoraggiare nemmeno dalle inopinate e tremende liste bloccate (approvate da quali "saggi"?) In sostanza, mal comune, dolori per tutti. E, anche tenendo conto delle attenuanti climatiche, ovvero l’intensa e persistente pioggia dell’antipolitica, bisognerà che i "Democratici" si interroghino su che cosa non ha, non avrà funzionato. Delegittimare a priori la vittoria di Veltroni non legittima automaticamente il Partito Democratico al contrario. Peggio che mai, un Partito democratico non viene reso più appetibile se si batte sull’esistenza di un, non previsto dalle regole, ticket Veltroni-Franceschini né se si afferma che tutti i candidati avranno un posto di rilievo, dopo le votazioni. A prescindere che un posto di rilievo Bindi e Letta già ce l’hanno, e lo manterranno, toccherà legittimamente a Veltroni farsi una squadra che sappia fare radicare e funzionare un partito democratico davvero. Più che dalle inclusioni sarei preoccupato dalle esclusioni discriminatorie. Queste sì fanno subito scendere il numero dei potenziali partecipanti e dei futuri iscritti. Per il momento limitiamoci a dare pochi numeri dichiarando che quanto più elevati saranno i partecipanti tanto meglio sarà per il Partito Democratico (per il governo…, non so). Poi, magari, studieremo meglio l’esito, nelle sue basi sociali, nelle sue motivazioni politiche, nelle sue esigenze organizzative.

Pubblicato il: 04.10.07
Modificato il: 04.10.07 alle ore 9.23   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Veronica bipolare
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2007, 11:32:28 pm
Veronica bipolare

Gianfranco Pasquino


La politica, non soltanto «in ultima istanza», consiste in rapporti fra persone. Questi rapporti possono essere improntati alla stima e al disprezzo, alla fiducia e all’inganno, alla demonizzazione e all'affetto. Quanto più nei rapporti fra le donne e gli uomini in politica e fra tutti coloro che, a vario titolo, anche parentale, sono coinvolti nella politica, predominano rapporti di taglio negativo tanto peggiore sarà la politica di quel sistema politico. Finirà per inacidire i rapporti fra gli stessi elettori e per imbarbarire il clima sociale complessivo.

Questo è successo in Italia nell’ultimo quindicennio, non tutto per colpa del bipolarismo e del sistema elettorale abbastanza maggioritario e nient’affatto esclusivamente a causa della discesa in campo di Berlusconi. Anche alcuni settori di sinistra, nella politica, nel giornalismo, nella magistratura, hanno cooperato al deterioramento dei rapporti interpersonali.

E lo hanno fatto in maniera eccessiva e assolutamente criticabile.

Curiosamente, però, questo loro odio contro Berlusconi non si è ancora tradotto nella cancellazione delle leggi ad personam (suam) che Berlusconi, anche per proteggersi dalla sinistra, ha fatto approvare nel precedente parlamento. Sembrerebbe che l'odio politico accechi e impedisca di scrivere buone leggi, non punitive, ma rigorose, sul conflitto d'interessi, che non è solo di Berlusconi, sull'ordinamento giudiziario e sul sistema dell'informazione.

In questo quadro, potrebbe benissimo essere che l'omaggio rivolto da Walter Veltroni a Veronica Lario abbia qualcosa di strumentale e, quindi, sia da considerarsi inopportuno. Potrebbe anche essere, e preferisco interpretarlo in questo modo, un'espressione di stima, che non va a scapito delle suscettibili e gelose signore diessine, e anche un modo di suggerire che è tempo di valutare le persone, anche la moglie del capo dell'opposizione, con riferimento alle loro opinioni e non al loro status, alla loro collocazione. Il bipolarismo non viene reso mite annacquandolo nelle sue regole, a cominciare da quelle elettorali, e nei suoi meccanismi istituzionali, ovvero impedendo, grazie alla introduzione di qualche ignota variante di sistema elettorale proporzionale, che dal momento del confronto elettorale emergano, in maniera chiara, vinti e vincitori.

La mitezza è una modalità di rapporti che le persone possono decidere di applicare fra loro. Al sistema politico si confa, piuttosto, la chiarezza degli esiti. Sicuramente, quando gli elettori percepiscono che, al di là delle legittime e persino auspicabili differenze fra le visioni e le scelte politiche, i dirigenti di partito, i parlamentari, i ministri e i ministri «ombra», si stimano ovvero, quantomeno, non si odiano visceralmente, impareranno anche a rispettare le differenze fra loro stessi. Chi vota diversamente da me (e sono tanti...) potrà anche non essere, e non diventare, un mio amico, ma non è necessariamente un mio acerrimo nemico con il quale non prendere mai un caffé.

Naturalmente, ridurre il livello del conflitto interpersonale e apprezzare le opinioni altrui non significa automaticamente andare a convergenze programmatiche né ad assorbimenti. Non significa tentare furbesche incursioni nel territorio «nemico» oppure inglobare senza nessun discrimine tutti i dissenzienti dello schieramento opposto. Al contrario, è proprio quando le differenze politiche appaiono e rimangono chiare che i buoni rapporti fra le persone politiche consentono agli elettori di capire meglio di che cosa effettivamente si tratta e, quindi, di riuscire a decidere, a votare, a ragion veduta.

Fintantoché troppi politici, molti giornalisti (vespe, vespine e vespone) e alcuni magistrati penseranno che ha ragione e vince chi alza di più la voce e urla, magari accompagnando i suoi suoni con qualche insulto, non sarà facile per nessuno distinguere le offerte politiche e programmatiche alternative. Da questo punto di vista, la pacatezza e la ragionevolezza di Veltroni (purtroppo, non altrettanto praticate da alcuni suoi fin troppo stretti collaboratori, al vertice e in periferia) sono da apprezzare. Il limite ai tentativi di espandere il consenso va, però, trovato, delineato e mantenuto con netto riferimento alle proposte programmatiche, alle priorità e alle modalità con le quali le politiche verranno poi applicate. Insomma, la distensione nei rapporti personali e politici non deve essere la premessa né di grandi coalizioni (evito espressamente il termine «ammucchiata») né di collusioni programmatiche.

Se la presuntuosa rigidità, che la sinistra esibisce molto spesso e sulla quale si misura con malcelato piacere in maniera aspra e conflittuale, non si configura come l'atteggiamento che preferiamo, e, incidentalmente, non paga, neppure il lassismo programmatico e, me lo lasci dire Veltroni, il buonismo superficiale sono virtù. Ben vengano rapporti politici-personali improntati alla mitezza purché le scelte politiche siano caratterizzate da un'austera e severa, nient'affatto accondiscendente, visione.

Pubblicato il: 09.10.07
Modificato il: 09.10.07 alle ore 8.27   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Regole per coabitare
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2007, 11:41:11 pm
Regole per coabitare

Gianfranco Pasquino


Dopo le cosiddette primarie vinte da Veltroni vengono logicamente e inesorabilmente le secondarie, fra lo sfidante Veltroni e il detentore della carica Prodi. L’esercizio più difficile comincia adesso. Come evitare che quella che è stata molto impropriamente definita «coabitazione» fra il capo del governo di centrosinistra e il capo del, di gran lunga maggiore, partito della coalizione conduca a uno scontro probabilmente esiziale per entrambi e sicuramente mortale per tutta la coalizione?

Anzitutto, Prodi e Veltroni debbono immediatamente acquisire la consapevolezza che il governo deve durare con quel minimo di snellimento del suo ipertrofico e non più giustificabile organico ministeriale che gli consentirebbe di essere più agile nelle sue politiche poiché il suo crollo porterebbe ad elezioni anticipate che il Partito Democratico non soltanto non potrebbe vincere, ma che causerebbero un grave contraccolpo ad un soggetto nascente ancora gracile.

Secondo, rompendo con tutta la precedente tradizione democristiana che prevedeva che il segretario del partito fosse il più determinato degli sfidanti e il più probabile dei successori del «suo» capo del governo, Veltroni e Prodi dovrebbero subito addivenire ad una chiara divisione di compiti.

Anche se, forse, il lavoro organizzativo è quello che meno gli piace in assoluto, Veltroni dovrebbe in special modo dedicare quelle energie che gli rimangono dopo avere compiuto le sue irrinunciabili funzioni di sindaco di Roma, a irrobustire il partito, facendo flessibile leva sui segretari regionali.

Tre milioni e più di cittadini che hanno approvato il progetto di fusione dei Ds e della Margherita non fanno ancora un partito. Poiché, come ho ripetuto molte volte, peraltro, con esito sostanzialmente nullo, tutti i candidati hanno accuratamente evitato di parlare dell’organizzazione di partito che vorrebbero, questa è adesso la priorità. Forse Veltroni potrebbe ripartire dalle molto intelligenti indicazioni formulate da Marina Sereni (l’Unità, 12 ottobre) e declinarle concretamente. Forse sarebbe opportuno che in Assemblea Costituente si discutesse almeno nelle sue linee generali di eventuali modelli alternativi di partito. Forse sarebbe il caso che, per disinnescare alcune probabili tensioni, Prodi venisse immediatamente nominato Presidente del Partito e magari individuasse fra i suoi collaboratori qualcuno che sappia qualcosa di partiti e della loro organizzazione.

Terzo, anche se ho trovato eccessiva l’enfasi veltroniana su tematiche di programma che troppo spesso sembravano, e temo volessero essere, alternative rispetto a quelle presenti nel programmo ufficiale dell’Unione e alle politiche che il governo Prodi sta formulando e attuando, è indubbio che una sottile elaborazione programmatica deve caratterizzare anche il Partito democratico. Probabilmente, senza tornare a nessuno degli eccessi partitocratici italiani, Prodi dovrebbe previamente concordare con Veltroni le tematiche sulle quali il segretario del Partito Democratico è autorizzato a discutere con i segretari degli altri partiti.

Toccherà poi ad un gruppo ristretto di ministri valutare gli esiti delle nient’affatto riprovevoli consultazioni e contrattazioni svoltesi fra i segretari dei partiti. Naturalmente, queste consultazioni dovrebbero essere caratterizzate da una certa riservatezza affinché eventuali fallimenti non abbiano ripercussioni sul governo e gli eventuali, sperabilmente più numerosi, esiti positivi non appaiano esclusivamente opera dei segretari di partito.

Da ultimo, è inevitabile che qualche tensione fra il capo del governo e il capo del partito sia comunque destinata a emergere. Queste tensioni sono in re ipsai, vale a dire nella realtà delle cose che, a ragion veduta, avrebbero consigliato più prudenza e tempi più lunghi per la costruzione del Partito Democratico. È inevitabile che Veltroni appaia non soltanto come il prossimo sfidante del candidato della Casa delle Libertà (più passa il tempo meno è facile e chiaro individuare chi sarà). È ancora più inevitabile che Veltroni sia percepito come il successore designato di Prodi.

Allora, l’ultima regoletta ovvero l’ultimo consiglio pratico per evitare che le tensioni di questa inedita forma di coabitazione degenerino in scontri deleteri per entrambi è che nessuno dei due critichi l’altro in pubblico, ma, al tempo stesso, che nessuno dei due risparmi all’altro le necessarie critiche in privato.

Se vogliamo davvero diventare, come ha memorabilmente suggerito Massimo D’Alema, un paese «normale», è imperativo che, almeno fino a quando non sarà possibile avere la perfetta coincidenza fra la carica di segretario del partito maggiore del governo e la carica di capo del governo, in caso di dissenso sia quest’ultimo a prevalere. In questa difficile fase, bisogna che nell’azione di governo ubi Prodi Veltroni cessat. Cedendo il passo, Veltroni acquisirà il credito necessario a diventare a sua volta capo del governo e, allora, a fare appello e a esigere, credibilmente, la disciplina della coalizione.

Pubblicato il: 17.10.07
Modificato il: 17.10.07 alle ore 13.02   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Se la crisi galoppa
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2007, 11:41:42 pm
Se la crisi galoppa

Gianfranco Pasquino


Le crisi serpeggianti e striscianti si possono subire nella speranza sia di fatti positivi sia di logoramento degli avversari oppure si possono affrontare nel tentativo di superarle creando situazioni nuove e migliori. La crisi del governo Prodi c’è. È in atto. In un certo senso, anche senza infierire guardando l’andamento della popolarità del capo del governo, la crisi c’è stata praticamente fin dall’inizio di questa esperienza di governo. Paradossalmente, la crisi non ha affatto impedito che su quasi tutti gli indicatori il governo sia riuscito a produrre miglioramenti e in quasi tutti i settori a fare delle riforme.

Tuttavia, le aspettative di una caduta si sono fatte sempre più numerose e non vengono contrastate efficacemente, nei fatti. Cosicché la crisi si intorbida, si avvelena e si incammina su una strada davvero rischiosa.

Da un lato, vero o no, ma sicuramente plausibile, Berlusconi conduce la sua campagna, non acquisti, ma di “ricollocazione politica” di alcuni senatori del centro-sinistra che manifestano il loro disagio dopo la nascita del Partito Democratico. Così operando, Berlusconi alimenta in maniera spregiudicata l’antipolitica, legittima ex-post il ribaltone che rovesciò il suo governo nel 1994 e, naturalmente, pone premesse alquanto fradice per nuove elezioni. Per di più ha fretta poiché il tempo che passa gli gioca contro: biologicamente, non essendo più lui, nonostante i ritocchi, un ragazzino; politicamente, se mai qualcuno nel centro-sinistra riuscisse ad andare a più o meno coraggiose alleanze di nuovo conio e se mai nel centro-destra venisse condotta fino in fondo la battaglia per il cambio (che a me pare improbabile) della leadership. Poco interessato, e commette un grave errore, alla funzionalità del sistema politico, Berlusconi chiede a gran voce nuove elezioni subito subito praticamente con lo stesso sistema elettorale che, pure non del tutto responsabile dell’esito sbilenco del 2006, è pessimo in sé, nelle sue clausole relative ai premi di maggioranza e nelle sue modalità di formazione delle liste di candidati.

Questo, ovvero la legge elettorale, è il terreno su cui il governo avrebbe dovuto operare con lungimiranza, costanza e, se necessario, in splendido isolamento. Invece, a sua volta, il governo ha lasciato degenerare la situazione con la conseguenza che, come ha autorevolmente, ma soprattutto correttamente, segnalato il capo dello Stato Giorgio Napolitano, il crollo dell’attuale governo non condurrà a nuove elezioni, ma alla formazione di un esecutivo incaricato di formulare una legge elettorale decente. Il fuoco di sbarramento preventivo contro il sistema elettorale tedesco sembra, in caso di crisi del governo Prodi, destinato a fallire. Infatti, un governo tecnico non avrebbe nessuna possibilità di trovare una maggioranza parlamentare a sostegno del maggioritario a doppio turno francese, mentre da Rifondazione alla Lega, dall’Udeur a parte di Forza Italia e, forse, anche del Partito Democratico, vi sarebbe una grande convergenza sul sistema tedesco che è il vero, e unico, cavallo di battaglia dell’Udc di Casini e di Tabacci.

Credo di dovere sottolineare che, persa la battaglia sul doppio turno, sarà il caso di combattere sulla trincea tedesca della soglia del 5 per cento per l’accesso al Parlamento, nella consapevolezza che il sistema tedesco non tollera premi di maggioranza e non può implicare dichiarazioni coatte e preventive di alleanze di governo, tantomeno la loro costituzionalizzazione.

Il punto di approdo di tutto questo consegnerà, con molta probabilità, ma poca certezza preventiva, all’Udc, naturalmente se otterrà un adeguato seguito elettorale, una posizione doppiamente importante. Da un lato, Casini e Tabacci si troverebbero a fare da cerniera fra un centro-destra che li guarda con sospetto e un centro-sinistra nel quale la maggioranza vorrebbe cooptarli. Dall’altro, potrebbero volere porsi, questa volta con qualche fondamento, come luogo di riaggregazione, parlamentare, successiva al voto, della diaspora democristiana, parte della quale si trova anche dentro Forza Italia.

Sarebbe, però, tutto il sistema partitico a venirne ridisegnato. Sembra che Rifondazione Comunista continui a preferire contare i suoi voti e i seggi che conquisterà autonomamente con la proporzionale alla possibilità di fare parte della coalizione di governo, pagando il prezzo di un chiaro impegno programmatico. Dal canto suo, invece, Fini e la maggioranza di Alleanza Nazionale temono la possibilità di essere esclusi, in quanto non più necessari, da qualsiasi coalizione nella quale i centristi di vario colore potranno dettare le alleanze. Questo legittimo timore spiega il sostegno dato da Fini al referendum elettorale e la sua propensione ad appoggiare un sistema elettorale maggioritario.

Naturalmente, è del tutto legittimo che ciascuno dei protagonisti si comporti tenendo conto dei suoi interessi concreti che, qualche volta, riguardano la loro stessa sopravvivenza. Qui la presunta “ferocia” del bipolarismo non c’entra un brutto niente. È il particolarismo che produce la comparsa della crisi e fa sprofondare il sistema politico. Se il governo non prende atto esplicitamente della crisi e non accelera l’approvazione di una nuova legge elettorale oppure, non opta, come sarebbe più semplice, per il ritorno, con un paio di ritocchi, al Mattarellum, le probabilità che Napolitano debba convincere i parlamentari della bontà di un governo tecnico per la riforma elettorale crescono in maniera esponenziale. E, in assenza di iniziative trascinanti, non basterà nessuna affermazione entusiasta concernente la grande novità del Partito Democratico se i suoi dirigenti, dentro e fuori del Parlamento, non avranno saputo proporre una iniziativa concreta, fattibile in tempi brevi, che l’attuale governo conduca in porto, preparandosi anche a sovrintendere alle elezioni anticipate. Altrimenti, la crisi politica da serpeggiante rischia di diventare galoppante, a tutto vantaggio dei “signori della porcata”.

Pubblicato il: 23.10.07
Modificato il: 23.10.07 alle ore 8.37   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... Boccata di ossigeno
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2007, 06:48:21 pm
Boccata di ossigeno

Gianfranco Pasquino


Come spesso e fortunatamente succede, a fronte di un pericolo grave, qualcuno nel centro-sinistra opera attivamente per sventarlo. Non c'è nessun dubbio che le recentissime tristi votazioni in Senato abbiano ulteriormente allertato le componenti pensanti del centro-sinistra (che, evidentemente, faccio fatica a chiamare Unione...) sull'incombente minaccia di una crisi terminale della maggioranza. Si aggiunga che erano prevedibili alcune conseguenze della rapida costituzione del Pd e dell'incoronazione a larghissima maggioranza del suo segretario.

Per esempio, che avrebbero rappresentato di per sé, anche contro la volontà dei Costituenti e del loro capo, una sfida diretta al governo e al Presidente del Consiglio. Infine, la ripetuta rivendicazione fatta da Veltroni del Partito Democratico come organismo a vocazione maggioritaria (sulla quale ho già esercitato la mia ironia non riuscendo a capire quale partito desideri sminuirsi dichiarandosi "a vocazione minoritaria") è destinata a suscitare forti ostilità nel campo del centro-sinistra, fra i «cespugli» o poco più che non vogliono essere fagocitati. Difficile diventa chiedere loro unitarietà di comportamenti rivendicando al tempo stesso la volontà di correre e di vincere da soli le prossime consultazioni elettorali, sperabilmente da tenersi alla scadenza naturale.

Per il momento, è possibile e giusto sottolineare che Veltroni ha solennemente garantito l'appoggio del Partito Democratico al governo (ma poteva dire diversamente?) e che Prodi ha richiesto esplicitamente questo appoggio anche in qualità di Presidente del Pd. Quel che segue è tutto da costruire tenendo conto dei rapporti di forza, di coloro che non chiamerò nemici interni, ma concorrenti, delle critiche, friendly e no, che vengono dall'esterno. Purtroppo, al Senato la maggioranza è sempre appesa ad un filino di voti e, anche in questo caso, come ho spesso sottolineato, rischia di sfilacciarsi piuttosto verso il centro che verso la sinistra (definita antagonista mentre è consapevole di dovere operare come «collaborazionista», anche perseguendo i suoi particolaristici interessi). Stando così le disponibilità politiche, il rischio che corre il Partito Democratico consiste nello scivolare un po' troppo verso il centro aprendosi ad incursioni, almeno programmatiche, dai centristi di ogni appartenenza, a partire da quelle sulla necessaria futura legge elettorale. Il sistema elettorale tedesco ratificherebe la vittoria di queste forze, mentre una riforma complessiva, sistemica, di tipo tedesco, come quella prospettata da D'Alema, cancellierato più Senato simil-Bundesrat, avrebbe un segno leggermente, ma significativamente diverso.

Quanto ai concorrenti interni all'Unione, a prescindere, ma soltanto temporaneamente, dalle elaborazioni programmatiche, talvolta divergenti, formulate nel suo percorso dal candidato Veltroni, è inevitabile che, di volta in volta, in qualsiasi occasione il governo Prodi dovrà procedere a scelte, i mass media vorranno esplorare e sapere che cosa ne pensa il Pd (ovvero Veltroni, che non potrà affatto defilarsi). E, altrettanto naturalmente, per ritagliarsi uno spazio a scapito di Rifondazione Comunista senza peraltro allontanarsi troppo dal Pd e per riuscire a darsi un profilo convincente, invece di quello attuale, alquanto basso e opaco, anche la Sinistra Democratica dovrà entrare in questa pericolosa concorrenzialità all'interno dell'Unione. La sfida al governo viene anche da fuori del suo perimetro. Inevitabilmente, un governo che ha vinto per un pugno di voti non è in condizioni di vantarsi di avere un largo sostegno popolare e neppure fra molti gruppi che contano. Un governo che fa riforme sa, oppure dovrebbe avere imparato, che colpire interessi costituiti genera reazioni, ma anche che non fare riforme produce delusioni. Né il governatore della Banca d'Italia, il Mario Draghi che conosco abbastanza bene, né il Presidente della Confidustria, l'estroverso Luca Cordero di Montezemolo hanno aspirazioni politiche, nel senso di conquista di cariche di governo, ma, inevitabilmente, hanno concezioni e danno valutazioni politiche. Il governo Prodi sembra talvolta non avere spalle abbastanza larghe da accogliere quelle critiche. Toccherà probabilmente al Partito Democratico e a Veltroni ricevere e replicare in quanto rappresentativi dell'asse centrale della coalizione di governo.

In definitiva, almeno in linea teorica e temporaneamente, dopo la prima riunione dell'Assemblea Costituente del Partito Democratico, il governo dovrebbe avere ricevuto, senza trionfalismi, una boccata di indispensabile ossigeno. Il resto, a partire dalla strutturazione del partito a livello locale, dove si conquista, si allarga, si stabilizza il consenso politico, appare tutto da costruire, magari senza scorciatoie, senza centralismi e senza egoismi. Salvo qualche inconveniente, forse inevitabile, ovvero, strascico del passato e effetto di coazioni a ripetere, forse no, se si fosse abbandonata la tentazione di controllare l'avvenimento, è possibile che il Partito Democratico in progress riuscirà a garantire maggiore solidità al governo. Tuttavia, è augurabile che la prova del fuoco non sia troppo ravvicinata nel tempo.

Pubblicato il: 29.10.07
Modificato il: 29.10.07 alle ore 14.18   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Società liquida partito solido
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2007, 04:00:30 pm
Società liquida partito solido

Gianfranco Pasquino


Le società occidentali contemporanee sarebbero diventate, sostengono alcuni sociologi, «liquide». Dunque, tentare di organizzarle, in maniera duratura, nell’ambito di strutture politiche permanenti, sarebbe buttare tempo, risorse, energie in una missione impossibile.

Quanto ai loro elettorati, sarebbero, con un’affermazione che contraddice le frequenti vittorie degli incumbents, ovvero di candidati, partiti, coalizioni, già in carica, diventati preda di volubilità e “volatilità”. Non li si potrebbe più conquistare durevolmente intorno alla visione complessiva di società che un partito riesce ad elaborare. Pertanto, bisognerebbe accontentarsi di offrire a questi esigenti e mutevoli elettorati un progetto destinato a durare lo spazio di un’elezione, al massimo di un mandato. Eppure, secondo un’altra corrente di studi, che mi pare alquanto più rigorosa, convincente e dotata di radici più profonde nel pensiero democratico, risalenti almeno fino a Tocqueville, una caratteristica cruciale delle società che hanno dato vita a regimi democratici consiste in special modo nella esistenza di una molteplicità di associazioni di lunga durata. Anzi, più numerose e compatte sono le associazioni più denso è il capitale sociale tanto migliore è la qualità della vita democratica. Fra le associazioni si collocano naturalmente anche i partiti politici che, in qualche caso, si collocano in posizione di preminenza. Se si ha addirittura una situazione di loro dominio il rischio è, però, di scivolare nella partitocrazia.

In occasione delle primarie del 16 ottobre 2005, per la scelta del candidato del centro sinistra alla carica di Presidente del Consiglio, troppi analisti e commentatori politici furono colti di sorpresa dall’altissimo numero di partecipanti. Con qualche ritardo si scoprì che esisteva una relazione piuttosto stretta fra la presenza dei partiti e la densità delle associazioni, da un lato, e la numerosità degli elettori, dall’altro. Una simile, ma forse anche meno giustificabile, sorpresa ha fatto la sua ricomparsa in occasione della recente elezione diretta del Segretario nazionale e dei segretari regionali del Partito Democratico. Anche in questo caso, i dati suggeriscono che la forza organizzata dei due partiti che si sono fusi e la densità del tessuto associativo che fa loro più o meno indirettamente riferimento sono positivamente responsabili dell’afflusso degli elettori. Dunque, la società italiana è molto meno liquida di quanto si pensi. Ciò rilevato, non bisogna dimenticare che esistono anche molti indicatori che suggeriscono l’esistenza di un problema italiano alquanto serio: quello della frammentazione sociale. Un partito a vocazione maggioritaria deve porsi il molto importante compito di come organizzare la società, al tempo stesso, riducendone la frammentazione.

Mi pare francamente sorprendente che si pensi ad un partito leggero, che interpreto come non interessato agli iscritti, tale forse per galleggiare sulla società liquida, che non abbia una ampia base territoriale e che non sia dotato di luoghi e sedi precise e certe che garantiscano partecipazione influente alla grande maggioranza di coloro che il 14 ottobre 2007 sono andati a votare e, se ricordo bene il regolamento, si sono “pre-iscritti” al Partito democratico. Vogliamo lasciarli “fluttuare”? Pensiamo che saranno soddisfatti dalla promessa di partecipazione alle primarie prossime venture per le cariche elettive, non soltanto di governo, ma anche di rappresentanza (ricordo che è l’esistenza dei collegi uninominali che può migliorare la qualità del ceto politico e favorire partecipazione prolungata e incisiva) e anche per le cariche nelle, certamente divenute molto meno importanti, strutture di un partito leggerino (ma dotato, sarà opportuno ricordarlo, di un leader a possente legittimazione popolare)? Crediamo che i “pre-iscritti” al Partito democratico accetteranno allegramente di essere in qualche modo “ghettizzati” in forum tematici dove, inevitabilmente, avranno la parola gli esperti e gli operatori, ma di politica si finirà per discutere poco e, se non su quella specifica tematica, si finirà anche per contare poco? Credo, invece, che tenendo conto delle molte esperienze europee, nelle quali i partiti, non soltanto quelli di sinistra, fanno tesoro di un preciso radicamento sul territorio e offrono rappresentanza a quanto esiste di rilevante su quel territorio, non si possa e non si debba fare a meno delle iscrizioni. Non parliamo di tessere e di eventuali (possessori di) pacchetti di quelle tessere, ma teniamo nella massima considerazione le donne e gli uomini che vorranno iscriversi perché desiderano partecipare, non soltanto alla scelta dei dirigenti, ma alla elaborazione della linea politica del partito, alla sua pubblicizzazione, alla sua attuazione concreta, a partire dal basso.

Non tanto incidentalmente, è proprio in questo modo, con il radicamento sul territorio, che un partito a vocazione maggioritaria definisce e trova la sua base sociale, le dà organizzazione e coerenza e da quella base ottiene stimoli, suggerimenti e sostegno continuativo. Allora, se si vuole sfuggire alla malposta alternativa fra un partito leggero e un partito solido, che i critici, ovvero coloro che preferiscono un partito del leader, sminuiscono come “pesante”, non elaboriamo proposte fumose. La risposta a quei tre milioni e più di cittadine e cittadini che si sono recati a votare per il segretario nazionale e per i segretari regionali del Partito Democratico consiste nella creazione di sedi e luoghi di partecipazione continuativa e incisiva alla vita di un’organizzazione radicata sul territorio, basata su iscrizioni formali e sulla circolazione delle cariche direttive, aperta a tutti coloro che si identifichino come elettori potenziali del partito (in altri tempi li avrei definiti “simpatizzanti”), disposta in maniera tale da garantire il massimo di democrazia decisionale. Gli iscritti, in special modo se partecipanti, debbono potere effettivamente contare, tutte le volte che lo vorranno.

Pubblicato il: 05.11.07
Modificato il: 05.11.07 alle ore 8.41   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Tedesco, o tutto o niente.
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2007, 09:23:55 am
Tedesco, o tutto o niente

Gianfranco Pasquino


È giusto e, talvolta, persino salutare che i dirigenti di partito pongano gli obiettivi da conseguire e che gli esperti elaborino le alternative praticabili, al plurale. Infatti, nessun problema politico-istituzionale ha mai una unica soluzione, tanto meno una soluzione perfetta. Dovremmo avere tutti imparato che ciascun sistema elettorale è inserito in un contesto istituzionale e partitico più ampio che retroagisce sul sistema elettorale stesso e che, pertanto, è assolutamente indispensabile tenere conto di queste retroazioni. In secondo luogo, dovremmo sapere che in nessuna, ma propria nessuna, forma parlamentare di governo, sono gli elettori a scegliere il governo. Anzi, il pregio delle forme parlamentari di governo è la loro flessibilità tanto nella formazione delle coalizioni quanto nella scelta e nella sostituzione del capo del governo.

Nessun parlamento deve essere sciolto anticipatamente se è in grado di cambiare la maggioranza di governo e il suo capo in maniera operativa.

Questi cambiamenti potranno anche essere considerati limiti negativi del parlamentarismo, che alcuni vorrebbero “razionalizzare”, ma gli studiosi sono unanimi, invece, nel considerarli elementi positivi. Anzi, i due sistemi politici dai quali gli attuali riformatori elettorali vorrebbero estrarre un improbabile e, a mio modo di vedere, sciagurato ibrido, ovvero quello tedesco e quello spagnolo, hanno nient’affatto casualmente adottato meccanismi di sfiducia costruttiva che consentono a determinate condizioni proprio il cambiamento delle coalizioni di governo e la sostituzione del capo del governo.

Da questo punto di vista, che è quello corretto, è un peccato che Massimo D’Alema non abbia insistito nel suggerire l’adozione integrale del modello istituzionale tedesco: sistema elettorale proporzionale con clausola di sbarramento al 5 per cento, voto di sfiducia costruttivo e Bundesrat (ovvero una seconda Camera composta da un numero ristretto di rappresentanti delle Regioni).

Certo, non sappiamo i dettagli della concreta proposta che, esautorando così in maniera plateale il ministro dei Rapporti con il Parlamento e delle Riforme Istituzionale, Veltroni farà aIle altre forze politiche. Sappiamo, però, quanto è sufficiente per sostenere che, comunque, i sistemi elettorali proporzionali si “sposano” con la competizione bipolare esclusivamente quando i partiti intendono dare vita ad una competizione di questa natura. Abbiamo capito che i partiti italiani non gradiscono il bipolarismo che loro stessi hanno sgangheratamente costruito con sistemi elettorali, Mattarellum e Porcellum, variamente inadeguati e da alcuni studiosi, a cominciare da Sartori e, non da ultimo, anche da me, preventivamente criticati. È ragionevole che i partiti vogliano contare con precisione il loro seguito elettorale, proprio come un buon sistema elettorale proporzionale consentirebbe loro di fare. Deve, però, essere chiaro come il cristallo che la formazione, la stabilità, la durata, l’efficacia di un governo e la sua eventuale sostituzione non possono in alcun modo essere conseguite da nessun sistema elettorale proporzionale (anzi, da nessun sistema elettorale in assoluto). Debbono, invece, essere perseguite con altri, possibili e nient’affatto deprecabili, strumenti istituzionali e attraverso adeguate e coerenti strategie di alleanze partitiche. Con il sistema elettorale tedesco, che, grazie alla strutturazione dei partiti, ha garantito stabilità, alternanza e competizione bipolare, ma anche la possibilità, come dal 2005 ad oggi e, dal 1966 al 1969, di Grandi Coalizioni), si ottengono buoni risultati, tutti o quasi non immediatamente acquisibili dal sistema partitico italiano come è attualmente congegnato. Con il sistema elettorale spagnolo, che, incidentalmente, ha effetti restrittivi sul numero dei partiti anche perché i deputati da eleggere sono 350 (trecentocinquanta), si rende difficile la sopravvivenza dei partiti piccoli, ma non di quelli geograficamente concentrati. Non a caso sia Aznar (Partito Popolare) che Zapatero (Partito Socialista) si sono appoggiati su un partito regionalista catalano, pagandone ovviamente un prezzo programmatico (che l’Italia inevitabilmente pagherebbe alla Lega, e non solo). Dunque, il sistema partitico spagnolo non è, tecnicamente e nel suo funzionamento, un sistema perfettamente bipartitico.

Da un ibrido ispano-tedesco è impossibile dire che cosa verrà fuori. Meglio non sperimentare. Se davvero bisogna tenere conto delle preferenze sia dell’Udc sia di Rifondazione Comunista, mentre qualcuno maliziosamente sostiene che in questo modo potrebbe venire resuscitata la pratica dei due forni, allora si scelga non soltanto il sistema elettorale tedesco, nella sua integrità, ma l’intero modello istituzionale della Germania. Quanto al mantenimento, ovvero al conseguimento di un effettivo ed efficace bipolarismo, non lo si cerchi in sistemi che non possono garantirlo e non se ne faccia un feticcio. Piuttosto lo si lasci alle capacità dei dirigenti di partito, alle loro promesse e alle loro responsabilità che gli elettori sapranno poi premiare o punire. Quanto a quelli come me che preferiscono, come si dice pour cause, ovvero con molte buone ragioni, il sistema elettorale francese e il modello istituzionale della Quinta Repubblica, sapremo valutare e apprezzare non un qualsivoglia pasticcio giustificato da flessibili e disponibili consiglieri di turno, ma una chiara scelta formulata e difesa dal dirigente politico che la ritiene migliore. Il resto verrà affidato, come direbbe Machiavelli, alla «realtà effettuale».

Pubblicato il: 12.11.07
Modificato il: 12.11.07 alle ore 9.23   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ... La strana crisi di Dini
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2007, 06:22:06 pm
La strana crisi di Dini

Gianfranco Pasquino


La maggioranza ottiene l’approvazione della importante legge Finanziaria, ma Dini e altri quattro senatori annunciano che è necessario un nuovo quadro politico. Potranno logicamente ottenerlo soltanto quando il governo uscirà battuto, anche grazie al loro voto contrario su qualche tematica di grande rilievo programmatico e politico, come, ad esempio, l’approvazione del protocollo sul welfare. Giunto al punto più alto del suo successo, il governo Prodi appare diventato, in un certo senso, un governo a termine.

Certo, chi esplori la lunga e spesso deprimente storia della dinamica dei governi italiani, delle loro difficoltà e delle loro crisi, potrebbe sostenere che la dichiarazione di voto di Dini differisce poco da quanto nel maggio 1989 pronunciò, con molta arroganza, il vice-segretario del Partito Socialista Claudio Martelli a proposito del governo guidato da Ciriaco De Mita: «quando il tram arriva al capolinea scendono tutti, proprio tutti, anche il conducente». Allora lo scenario politico-istituzionale consentì - per quanto non facilmente, infatti, la crisi fu molto lunga e tormentata - la ricostituzione di un governo di pentapartito guidato da Andreotti, con composizione poco mutata. Per un insieme di ragioni politiche e istituzionali, le opzioni perseguibili nell’attuale situazione italiana appaiono almeno parzialmente diverse e diversificate.

Lo scenario aperto dalla dichiarazione di fuoruscita dall’Unione di cinque senatori potrebbe consentire, al momento opportuno, a Casini, probabilmente in accordo con Fini, e a Berlusconi, appena si sarà ripreso dal clamoroso fallimento della sua “spallata”, di andare dal Presidente della Repubblica a chiedere, presumibilmente con modalità e con toni differenti, le dimissioni del governo. Poiché siamo oramai lontani dalla fase della Repubblica che ho evocato all’inizio, al momento, tuttavia, la decisione di pilotare la crisi o di effettuare un rimpasto sta tutta nelle mani del nient’affatto sfiduciato Presidente del Consiglio Romano Prodi. Dal canto suo, il Presidente della Repubblica non potrà che rispondere a chi lo interrogasse in materia che, in assenza di una esplicita e limpida sconfitta del governo, eventualmente tradottasi in un voto su una mozione di sfiducia, il governo Prodi rimane legittimamente in carica. Anzi, la sua operatività e quella della sua maggioranza appaiono comprovate dall’approvazione della Finanziaria. D’altronde, il Presidente Napolitano farà anche rilevare che per qualsiasi eventuale scioglimento anticipato del Parlamento manca la condizione essenziale da lui molto precisamente posta in occasione della crisetta del febbraio 2007, ovvero la formulazione e l’approvazione di una legge elettorale decente senza la quale sarebbe un errore politico e una imprudenza istituzionale tornare alle urne. Manca anche la limpida constatazione, che può venire soltanto da una sconfitta del governo, dell’inesistenza di una maggioranza operativa. Peraltro, neppure le dimissioni del governo Prodi implicherebbero lo scioglimento anticipato immediato del Parlamento.

Altri esiti sono possibili proprio perché, mi pare opportuno ricordarlo a quanti continuano a ritenere, sbagliando, che nelle democrazie parlamentari si ha l’elezione popolare diretta del governo e che, dunque, qualsiasi sostituzione del governo e del suo capo costituisce una violazione, un tradimento del rapporto instaurato con gli elettori, i governi italiani si fondano sulla fiducia del Parlamento e possono essere cambiati in e dal parlamento. Potrebbe, infatti, aversi un rimpasto del governo Prodi che risponderebbe alle richieste avanzate da più parti di uno snellimento della compagine governativa. Potrebbe anche esserci un allargamento della maggioranza, in contrasto, però, salvo cambiamenti di opinione, con le posizioni finora dichiarate dall’Udc e da Casini poiché la loro pregiudiziale massima consiste nella caduta di Prodi e quella minima nella legge elettorale proporzionale alla tedesca. Potrebbe, infine, anche nascere un governo nuovo, sull’asse portante dell’Unione, con un nuovo Primo ministro. Quest’ultima soluzione appare non impossibile, ma molto complicata alla luce del fatto che il capo del partito più grande, ovvero Walter Veltroni, non è al momento parlamentare. Peraltro, né Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 né Lamberto Dini nel 1994 erano parlamentari quando salirono a Palazzo Chigi. Semmai, il problema di Veltroni consiste nella presumibile incompatibilità, se non istituzionale, certo funzionale e anche etica, fra la carica di sindaco di Roma e quella di Presidente del Consiglio.

In definitiva, la situazione politica e istituzionale è tornata ad essere tremendamente imbrogliata. Nessuna pasticciata riforma elettorale potrà mai porre termine ai pasticci politici che derivano dalla protezione e dalla promozione di interessi personali o personalistici. Tempo fa avrei concluso con l’invito a porre mano alle riforme costituzionali. Oggi persino quella strada, percorsa con troppi opportunismi, mi pare fuorviante. Sembra venuta l’ora di un vero e proprio cambio di regime che esige una leadership politica all’altezza della sfida.

Pubblicato il: 18.11.07
Modificato il: 18.11.07 alle ore 15.22   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - La retromarcia del Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2007, 06:55:43 pm
La retromarcia del Cavaliere

Gianfranco Pasquino


Per negare di avere commesso gravi errori politici e per tentare di farli dimenticare rapidamente, Berlusconi ha rilanciato. Il Partito Italiano del Popolo Libero (o come si chiamerà, i «pubblicitari» di Mediaset sono sicuramente già al lavoro per trovare un nome altrettanto efficace di Forza Italia) intende offrire l’impressione di qualcosa di nuovo anche se, evidentemente, alla luce delle reazioni degli ex-alleati della Casa delle Libertà, non può che iniziare dall’ossatura di Forza Italia. Nonostante frettolose analisi, Forza Italia è, in effetti, un partito, vale a dire un’organizzazione di uomini (molti) e di donne (poche) che presenta candidature alle elezioni, a tutti i livelli, dai Comuni all’Europarlamento, che ottiene seggi e conquista cariche.

I candidati che vincono,e, ma anche quelli che hanno perso per poco, mantengono tutto l’interesse a fare funzionare l’organizzazione e a diffondere il marchio, anche soltanto per rimanere in politica.

Per di più, a prescindere dagli errori di Berlusconi e dalle sue sbruffonate, gli elettori di Forza Italia esistono e, probabilmente, esistono anche elettori degli altri partiti di centro-destra che non sarebbero affatto disposti a vedere i loro partiti andarsene distanti da Forza Italia e da Berlusconi, come hanno dimostrato i risultati delle elezioni del 2006. Anche se sommerso dai fischi di Alleanza Nazionale, aveva ragione Cicchitto a ricordare, nient’affatto retoricamente, a quei militanti di An che, senza un rapporto con Forza Italia, non potrebbero andare da nessuna parte. Mentre Bossi e la Lega sanno benissimo che Berlusconi è il più sensibile ai loro interessi e alle loro richieste, Alleanza Nazionale e persino l’Udc sembrano avere dimenticato che nei loro gruppi dirigenti e ancor più nel loro elettorato esiste un nucleo duro di berlusconiani. Infine, anche senza essere truccati o esagerati, i sondaggi continuano a dare esistente una maggioranza complessivamente favorevole al centro-destra nel suo insieme.

Naturalmente, tra i sondaggi e le elezioni anticipate che Berlusconi reclamava a gran voce ci starebbe, anzitutto, una campagna elettorale che, se condotta in ordine sparso, potrebbe non giovare né a Forza Italia né al centro-destra. In secondo luogo, sta anche l’eventuale riforma elettorale oppure il referendum. Le variabili politiche si incrociano con le variabili istituzionali.

Questa lunga premessa consente di capire meglio perché Berlusconi abbia deciso di prendere atto che, come sostengono da qualche tempo i suoi ex-alleati, la Casa delle Libertà non esiste più. Non c’è dunque neppure più bisogno di un sistema elettorale che imponga la formazione di coalizioni non omogenee decisive per vincere, in difficoltà per governare. Se bisognerà contarsi, deve avere finalmente ragionato Berlusconi, allora il sistema elettorale tedesco, presumo considerato nella sua interezza, potrebbe costituire una buona soluzione.

In questo modo, da un lato, Berlusconi va incontro all’Udc di Casini, che vuole fortemente proprio quel sistema elettorale, dall’altro, dà la sua disponibilità anche a Veltroni su una proposta chiara e, come stanno i rapporti di forza nel Parlamento, rapidamente praticabile. Costruire il bipolarismo non è necessariamente compito del sistema elettorale. Anzi, sono le modalità di competizione e di collaborazione fra i partiti che danno vita e linfa al bipolarismo. Magari non è il bipolarismo quello che desiderano l’Udc, l’Udeur e altri (nel centro-sinistra), ma il Partito del Popolo avrebbe, pensa Berlusconi, voti e seggi sufficienti a convincere qualche alleato riluttante, a entrare in trattative dopo il voto, se non addirittura a essere il perno di una nuova alleanza di governo.

La vera novità, che potrebbe cambiare il volto di questa legislatura e, forse, addirittura del sistema politico italiano, è costituita dal riconoscimento da parte di Berlsuconi, tardivo, ma non fuori tempo massimo, che nello schieramento di centro-sinistra esistono persone con le quali il capo di Forza Italia potrebbe dialogare. La prova immediata è data dalla riforma elettorale che potrebbe essere la premessa di un ritorno alle urne, magari non altrettanto immediato se Veltroni e Violante insistessero, come forse dovrebbero, ad accompagnare quella riforma, in special modo se tedesca, con meccanismi di stabilizzazione del governo, ovvero con la sfiducia costruttiva (che regolamenta e rende difficili i tanto temuti «ribaltoni») che richiede una riforma costituzionale. Resta tutto da vedere.

Per il momento, tuttavia, è lecito concluderne che la costruzione del Partito Democratico ha messo in moto un processo di cambiamento e di ristrutturazione anche nel centro-destra; che la disciplina e la presenza dei senatori del centro-sinistra hanno efficacemente segnalato che il governo può anche durare per parecchio tempo; che i tentativi di Berlusconi di sovvertire con la piazza o con la «persuasione» l’esito delle elezioni dell’aprile 2006 sono falliti. Si sta per aprire una nuova fase che, con l’obiettivo di riforme di alto profilo sistemico, potrebbe vedere rapporti imprevisti e impensati fra i maggiori partiti italiani. Senza precorrere i tempi e senza pregiudicare i modi, una Grande Coalizione che sappia fare le riforme istituzionali e economiche necessarie in tempi relativamente contenuti potrebbe non essere del tutto riprovevole. In fondo, sospendendo il giudizio, in Germania questa è la situazione attuale.

Pubblicato il: 20.11.07
Modificato il: 20.11.07 alle ore 8.19   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO Riforma, non compromesso
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2007, 12:02:17 am
Riforma, non compromesso

Gianfranco Pasquino


Quando la politica vive di indiscrezioni, intercettazioni, notizie concordate non è sorprendente che qualcuno giunga a ipotizzare che il vero interrogativo dell’incontro fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi consiste essenzialmente nell’andare a vedere chi dei due è più furbo e riuscirà meglio a ingannare l’altro. Lo schema, secondo le anticipazioni di alcuni commentatori, è semplice.

Da un lato, avremmo il buonista, che si è fatto, sono parole sue, “tosto” e che ha interesse a guadagnare tempo, per rafforzare la sua creatura: il Partito Democratico, e per prolungare la vita al governo; dall’altro, sta l’uomo di spettacolo, che non ha tempo da perdere perché la vecchiaia incombe e che, confortato persino da sondaggi non suoi, vuole tornare subito alle urne e dare una bella lezione anche ai suoi inquieti alleati giovanotti. Veltroni, dunque, rilancia. Non basta fare la riforma elettorale. Bisogna ampliare il discorso ad alcune, coerenti e compatibili, riforme istituzionali e bisogna anche procedere alla revisione dei regolamenti parlamentari. Berlusconi minimizza. Al massimo, si ritocchi la legge elettorale cambiando le sciagurate (ma da lui a suo tempo frettolosamente accettate e avallate) modalità di attribuzione del premio di maggioranza al Senato, e si torni a votare di corsa.

Oppure, subordinata che qualche suo consigliere gli suggerisce prudentemente, si faccia una Grande Coalizione, evidentemente escludendo Prodi. Da ultimo, ha, peraltro, improvvisamente segnalato disponibilità sul sistema spagnolo i cui effetti di potenziamento dei partiti grandi dipendono anche dal fatto che in Spagna vengono eletti soltanto 350 deputati. Se i negoziati hanno un senso, qualcuno dovrebbe rinunciare a qualcosa e, dunque, nessuna delle proposte dovrebbe essere formulata come irrinunciabile. Soprattutto, nessuno dei due eventuali contraenti dovrebbe avere come retropensiero quello di “fregare” l’altro, fermo restando che entrambi non sono proprio novellini. Il fatto è che, al momento, il negoziato sembra essere impostato su piani diversi.

Veltroni ha sostanzialmente sposato una composita (ma, in effetti, dovrei dire confusa) proposta di legge elettorale che molti, quasi sicuramente a ragione, ritengono che sia stata tagliata su misura per il Partito Democratico, ovvero per un partito che dovrebbe avere non meno di 25-28 per cento dei voti, distribuiti in maniera sostanzialmente omogenea sul territorio nazionale. Una formula di questo genere può servire in maniera egualmente soddisfacente anche il Partito del Popolo, che partirebbe da uno zoccolo di all’incirca il 30 per cento dei voti o poco più. Come viene letto dai partiti piccoli del centro-sinistra, ma anche dagli altri partiti del centro-destra, questo sistema elettorale sembrerebbe congegnato per ridurli a più miti pretese.

Visto da fuori, con la pretesa di porsi, come vorrei fare, al di sopra dei contendenti/contraenti, mi pare che entrambi perseguano obiettivi di corto respiro che non porterebbero a cambiamenti risolutivi e sicuramente migliorativi del funzionamento del sistema politico italiano. Entrambi poi dichiarano che vogliono mantenere il bipolarismo, rendendolo, almeno nelle parole di Veltroni, più “mite”. Ma in assenza di un sistema elettorale maggioritario accuratamente congegnato, il bipolarismo diventa poco probabile. E, nella pratica, risulta abitualmente piuttosto un prodotto, consapevole e voluto, della capacità dei partiti medio-grandi e dei loro leader di riuscire ad imporre e mantenere, eventualmente anche con una legge elettorale non troppo proporzionale, una competizione bipolare, non rigida (ovvero senza alleanze precostituite), non costrittiva, non bloccata da ricatti.

Sullo sfondo stanno coloro che dicono che con Berlusconi non si può trattare fino a che non si è fatta (ma a che cosa è servito un anno e mezzo di governo?) una legge sul conflitto di interessi e non si è riformato in maniera decisiva il sistema delle telecomunicazioni. Sono due esigenze puramente e semplicemente democratiche. Infine, in un futuro oramai imminente si staglia il referendum elettorale che i piccoli partiti temono come esiziale per la loro sopravvivenza, anche se, forse, stanno facendo soltanto un po’ di manfrina. Infatti, come è oramai noto e risaputo, i referendum abrogativi possono essere facilmente fatti fallire per mancanza di quorum, ed è tutto da dimostrare che il popolo del Pd e il popolo delle Libertà accorrerebbero entusiasti alle urne nella consapevolezza che, da un lato, i piccoli partiti del centro-sinistra farebbero cadere il governo e, dall’altro, Udc e Lega prenderebbero furiose distanze da Berlusconi.

Non è, dunque, possibile sperare in nulla di positivo dalle trattative in corso che, comunque, non finiranno venerdì? Senza sotterfugi e senza retropensieri, magari con un po’ più di trasparenza, entrambi i capi dei due maggiori partiti potrebbero porsi obiettivi, al tempo stesso, ambiziosi, e fare sapere agli italiani che tipo di sistema politico vorrebbero: tedesco ovvero, se interpreto correttamente i sospiri di Fini al termine dell’incontro con Veltroni, francese (e, stando alla più recente, improvvisata dichiarazione di Berlusconi, spagnolo) e avanzare una chiara proposta di legge elettorale, semplice, già collaudata, facile da approvare e che non espropri e non manipoli gli elettori come ha fatto il Porcellum. In definitiva, ho l’impressione che riformare la legge elettorale e le istituzioni italiane di rappresentanza e di governo richieda non soltanto una visione coerente, ma anche molto coraggio politico. Chi non risica non rosica. E, naturalmente chi ha più da rischiare in questa fase e nel prevedibile futuro è il governo dell’Unione.

Pubblicato il: 29.11.07
Modificato il: 29.11.07 alle ore 8.37   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Ritorno al passato
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2007, 11:15:36 pm
Ritorno al passato

Gianfranco Pasquino


Sono tornati i vecchi tempi della politica italiana quando le crisi di governo venivano annunciate in sede extraparlamentare e poi, con calma, registrate in Parlamento.

Fa poca differenza che, questa volta, il messaggio provenga dalla più alta carica della Camera dei Deputati e sia ammantata di un ragionamento come sempre articolato, ma non necessariamente condivisibile poiché alquanto ideologico, sul ruolo della sinistra oggi, in Italia e in Europa.

Il messaggio lanciato da Bertinotti, che si dichiara «intellettualmente» già «oltre l’Unione», ma «politicamente» ancora no, impone una riflessione sia sul futuro del governo che sul ruolo e sui compiti del Partito Democratico.

Bertinotti rimanda la resa dei conti a gennaio: una verifica, naturalmente, programmatica; forse, un rimpasto; meno probabilmente, uno snellimento del governo Prodi; addirittura, una crisi in piena regola. Personalmente, credo che le verifiche sulla stato di attuazione di un programma a suo tempo concordato anche da e con Rifondazione Comunista possano costituire strumenti utili per valutare quanto ha fatto un governo e quanto è ancora possibile fare, aggiungendo nuovi progetti all’agenda. Tutto questo, però, diventa più difficile e, alla fine, sostanzialmente, impraticabile, se una delle componenti importanti della coalizione di governo, decide di operare in una prospettiva diversa, ovvero in direzione del momento più favorevole per il suo distacco.

In questa lunga transizione politico-istituzionale, Rifondazione ha costantemente vissuto (e prosperato) tra una preferenza per caratterizzarsi come opposizione che chiede di più, il famoso "oltre" (non so, quindi, se scrivere "radicale", "antagonista", "alternativa") e una necessità: quella di sostenere selettivamente e, dal maggio 2006, di partecipare in prima persona all’attività di governo. Nella pratica non ha mai risolto la contraddizione; nel pensiero l’ha sempre esaltata. Eppure, dovrebbe essere chiaro che, anche se è vero che, ma bisognerebbe dimostrarlo, il governo Prodi potrebbe/dovrebbe fare di più, è esclusivamente da posizioni di governo che si affrontano con un minimo di possibilità di successo i temi che lo stesso Bertinotti enfatizza, vale a dire i salari e il precariato. Incidentalmente, un discorso molto simile vale per le confederazioni sindacali che, nelle loro critiche al governo, dimenticano che qualsiasi politica che intenda rilanciare lo sviluppo, ampliare le basi occupazionali, migliorare i salari, si gioverebbe del loro impegno a differire alcune rivendicazioni e a partecipare, lasciando da parte malposte concezioni di autonomia, attivamente ai processi di cambiamento innescati dall’Unione.

Se i nodi del governo Prodi, del disagio di Rifondazione, delle rivendicazioni dei sindacati, vengono al pettine adesso dipende da due fenomeni. Il primo è che ci sono notevoli movimenti/smottamenti nel centro dell’Unione, dove si collocano non soltanto il mobilissimo Mastella, ma anche l’inquieto Dini e quattro senatori che fanno a lui riferimento. Rifondazione intuisce che l’asse del governo rischia di scivolare verso il centro. Naturalmente, sottovaluta che il suo disimpegno, per il momento "intellettuale" ma, in seguito, inevitabilmente, "politico", darebbe una forte accelerazione all’eventuale scivolamento verso il centro. Il secondo fenomeno che potrebbe avere creato disagio nei Rifondatori non è costituito soltanto dalla formazione del PD, partito che dichiara un po’ troppo ad alta voce la sua vocazione maggioritaria, ma dalla sensazione che Veltroni voglia favorire questa vocazione con una legge elettorale tagliata, nella misura del possibile, sui panni del PD (e del Popolo delle Libertà). Tuttavia, Rifondazione sa che a perdere di più dalla riforma di cui si parla sarebbero i "nanetti" e che, tutto sommato, Rifondazione rimarrebbe in termini di seggi grosso modo com’è oggi, ma acquisterebbe forse un peso politico maggiore. Il suo peso politico potrebbe essere ancora più consistente se la riforma elettorale approdasse al sistema tedesco che non la obbligherebbe a nessuna alleanza preventiva, ma le consentirebbe di drenare voti dai piccoli e, a determinate condizioni, di diventare l’alleato privilegiato del PD (se Veltroni guardasse a sinistra dove dovrebbe anche incontrare i sindacati finora un po’ troppo trascurati).

Con queste considerazioni in mente, Bertinotti, il cui ruolo istituzionale dovrebbe pure comportare una qualche presa di distanza dalla politica di governo e di opposizione, anche di quella del suo partito, ha deciso di ricollocarsi nel cuore del dibattito politico. Tuttavia, finisce per dare un contributo che non è né rilevante alla soluzione dei problemi che il governo deve affrontare né positivo per qualsiasi riflessione che si apra a sinistra. È un contributo di "schieramento" che rischia sostanzialmente di affossare il governo dell’Unione senza necessariamente fare crescere quella sinistra che, magari, esiste nella strategia intellettuale di Bertinotti, ma che non ha e non potrà avere nessun successo se, unitamente ai sindacati, non riuscirà a chiarire i passaggi attraverso i quali tradursi in una politica di progresso. Dall’opposizione si lucra, forse, qualche consenso; di sicuro, nonostante leggende comuniste troppo spesso ripetute nel passato, al massimo, si esercitano poteri di veto, ma non si riesce a riformare un bel niente.



Pubblicato il: 06.12.07
Modificato il: 06.12.07 alle ore 9.06   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Una sinistra, troppe sinistre
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2007, 03:14:26 pm
Una sinistra, troppe sinistre

Gianfranco Pasquino


Gli Stati Generali convocati da Rifondazione Comunista, Pdci, Verdi e Sinistra Democratica costituiscono un appuntamento impegnativo. Si svolge all’ombra del segnale un po’ inquietante, lanciato da Fausto Bertinotti, tempestivamente e non casualmente, di certo inteso a segnare i confini e a indicare le prospettive. Secondo il loquace Presidente della Camera, il governo guidato da Prodi è come un “poeta morente”, anche se la sua morte effettiva può tardare. La eventuale costruzione di una sinistra tipo arcobaleno si inserisce in una situazione nella quale il centro-destra si è spappolato e il PD si è, invece, aggregato, ma è ancora nella fase di risoluzione dei problemi che qualsiasi partito deve affrontare.

Problemi come statuto, struttura, manifesto dei valori, codice etico, e si è lanciato verso riforme, istituzionali, elettorali, regolamentari che incideranno anche sulle fortune della sinistra arcobaleno. In queste condizioni e con la prospettiva di doversi prepararsi ad una eventuale e vicina campagna elettorale, la Sinistra arcobaleno deve offrire non soltanto una risposta organizzativa, comunque, di notevole importanza, ma, in special modo, una risposta politica che non sia egoistica e esclusivamente mirata alla sopravvivenza di ceti politici e di sigle.

Sarebbe ingeneroso, ma anche fattualmente sbagliato, sostenere che nel 2005-2006 e, finora, al governo, nel suo insieme la variegata Sinistra non abbia dato un contributo di impegno e di disciplina nei momenti significativi, ovvero di rischio per la durata in carica del governo. Nella maggior parte dei casi, ad eccezione della crisetta del febbraio 2007, i pericoli per il governo hanno fatto piuttosto la loro comparsa nei pressi del centro, fra i centristi più o meno di tipo “demdem” (molto “democristiani”) e teodem.

Tuttavia, quello che i partiti di sinistra che tentano finalmente una qualche forma di riorganizzazione non hanno voluto e probabilmente saputo fare riguarda la modernizzazione della loro cultura politica. Non si tratta soltanto di partecipare all’azione di governo e di sostenerla, anche se Rifondazione lo fa con grande esibita sofferenza. Si tratta soprattutto di aprire un confronto di tipo pedagogico con quella parte di elettorato che questi piccoli partiti di sinistra rappresentano e che sembrano volere, da un lato, incapsulare, dall’altro, blandire in maniera persino troppo ossequiosa. Eppure, che debba essere il partito, anche se piccolo, a guidare le “masse” è sicuramente un principio di azione politica alquanto noto alla maggior parte dei loro dirigenti politici (e praticato con vigore nel passato). Proprio per questo la Sinistra che verrà fuori dalla nuova aggregazione dovrebbe rispondere con precisione e approfonditamente alla domanda relativa ai suoi rapporti con quell’elettorato: ascoltarlo passivamente, sapendo che le giunge soltanto la voce dei più militanti di quei settori, oppure interloquire spiegando quali sono le prospettive di un’organizzazione politica che si definisce di sinistra in Italia, oggi e domani?

È comprensibile che la Sinistra arcobaleno cerchi di mantenere una sua presenza adeguata in Parlamento e che, di conseguenza, rifugga da un sistema elettorale proporzionale che abbia forti dosi di “disproporzionalità” come ha, più o meno incautamente, rivelato Veltroni a proposito della sua idea di legge elettorale. Il dilemma, però, non può essere accantonato. Consiste nella chiara alternativa tra ottenere rappresentanza parlamentare, ma trovarsi all’opposizione, potendo esprimere con tutte le mani libere le proprie preferenze economiche, sociali, politiche, con scarsissima capacità di incidere sulle scelte effettive, oppure contrattare quelle preferenze per conciliarle in un programma di governo che potrà essere attuato d’intesa con il Partito Democratico, ovviamente sapendo che non è il programma massimo di nessuno. Il rischio è che le varie componenti della Sinistra arcobaleno che sta per nascere preferiscano salvare la loro consistenza percentuale, probabilmente neppure tutta, senza affrontare nella teoria i nodi del loro compito politico e rifiutando nella pratica (cosa che rarissimamente avviene nelle altre sinistre radicali europee) di sporcarsi quelle mani libere nell’ardua opera di governare, in coalizione con il Partito Democratico, le contraddizioni di una società frammentata, individualista, egoista. Allora, il morente non sarà soltanto il governo, ma la stessa prospettiva di cambiamento che pure dentro quella sinistra molti vorrebbero suscitare e fare progredire.

D’altronde, anche nella ipotesi, che viene sollevata da alcune dichiarazioni e da alcuni comportamenti dei dirigenti della sinistra (e anche delle confederazioni sindacali), di un possibile ravvicinato ritorno alle urne, è augurabile che il centro-sinistra vi arrivi con il minimo di tensioni fra le sue componenti e soprattutto, contrariamente a quanto avvenne per un lungo anno dopo la netta sconfitta del 2001, pronto fin da subito a fare un’opposizione politica e programmatica di alto livello e di grande qualità. Insomma, anche se non si vuole e non si sa stare al governo, la Sinistra arcobaleno, e no, dovrebbe prepararsi culturalmente persino a stare all’opposizione nella maniera più efficace per rappresentare, non soltanto a parole, il suo composito elettorato.

Pubblicato il: 08.12.07
Modificato il: 08.12.07 alle ore 7.13   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Un leader c’è: Nichi Vendola
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2007, 07:26:16 pm
Un leader c’è: Nichi Vendola

Gianfranco Pasquino


«Unita, plurale, federata»: è una prospettiva della sinistra che, altrove, ovvero nella vicina Francia, grazie al coraggio, alla leadership, all’azione di François Mitterrand è stata coronata da successo. A tale proposito, mi fa piacere ricordare agli esponenti della sinistra-arcobaleno che il successo della gauche plurielle è stato notevolmente facilitato dal semipresidenzialismo, con elezione diretta del presidente della Repubblica.

Ma anche dal sistema elettorale a doppio turno che premia le aggregazioni, incoraggia le coalizioni, garantisce il bipolarismo, consente l’alternanza, dà molto potere agli elettori. Probabilmente, gli elettori italiani, almeno quelli della variegata galassia di sinistra, vogliono, come scrive il Manifesto approvato a conclusione degli Stati Generali della Sinistra, non disdegnando la governabilità, più autorevolezza e legittimità (che, in democrazia, sono sempre e soprattutto la conseguenza delle consultazioni elettorali), ma desiderano anche che la rappresentanza politica abbia stretti rapporti con la rappresentanza sociale. Dunque, qualche indicazione in più sul ruolo dei sindacati, che non possono continuare a trincerarsi dietro un muro di sdegnosa autonomia, risulterebbe utile. In Francia, la CFDT costituì deliberatamente uno straordinario organismo di sostegno e di legittimazione delle politiche della sinistra governante. Se, qui, in Italia, le diverse sensibilità di sinistra e ambientaliste sapranno, in tempi che, inevitabilmente, debbono essere molto ristretti, dare vita ad un’unica organizzazione attraverso ampi processi di consultazione, di coinvolgimento, di partecipazione incisiva, anche il Partito Democratico e il governo Prodi saranno obbligati a tenerne conto.

Questa sinistra-arcobaleno rimette al centro dell’attenzione politica e governativa due temi che, per ragioni diverse, sono egualmente importanti: il lavoro e la laicità. È giusto che sia così, ma molto conta come i due temi verranno concretamente declinati nella consapevolezza che, dentro il Partito Democratico, entrambi costituiscono frequente occasione di scontro. In quanto “arcobaleno” questa sinistra dà notevole e opportuno rilievo all’ambiente che, anche preso a sé, potrebbe informare da solo tutto un programma di governo. Particolarmente importante è la dichiarazione esplicita della disponibilità ad assumersi responsabilità di governo (nonché, appena un po’ sibillinamente, l’impegno a sostenere l’attuale governo «per il tempo della legislatura che resta»).

I Manifesti contano, soprattutto quando sono scritti in maniera partecipata e appassionata e sono trasparentemente discussi e approvati. Tuttavia, molto spesso nell’interpretazione del pensiero e delle possibilità di un’organizzazione politica bisogna guardare anche ai simboli e agli umori.

Pietro Ingrao merita applausi per il suo percorso, peraltro tutto, senza ripensamenti, comunista, ma, sicuramente, mai di accettazione di responsabilità di governo e della conseguente necessità di tenere conto delle compatibilità fra le forze da “mettere in campo” e gli obiettivi da perseguire. Icona del passato, Ingrao non può certamente assumere il ruolo di padre nobile di una sinistra che voglia governare.

Sono assolutamente consapevole della litania classica di molti settori di molte sinistre per le quali prima viene il programma poi il resto e, talvolta, da ultimo, la leadership. Incidentalmente, non è stato questo il percorso delineato e completato dal leader del Partito Democratico. Ma la sinistra-arcobaleno ha effettivamente un grande bisogno di leadership. Se sarà quella del presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, accolto con ripetuti e intensi applausi, rappresenterà, da un lato, l’innovazione, dall’altro, la capacità di trasformare una sinistra sociale in una leadership di governo (a suo tempo, incoronata da primarie vere). Prudente (e, finalmente, “misurato”), Bertinotti si è limitato a dichiarare che con questi Stati Generali la sinistra-arcobaleno si è tuffata, immagino, nel mare di una difficile politica, lasciando intuire che il problema è imparare a nuotare. Poiché non erano pochi i presenti agli Stati Generali che avevano già avuto oppure occupano attualmente cariche di governo, il problema della sinistra-arcobaleno si trova piuttosto, penso, nelle propensioni dei suoi dirigenti a differenziarsi, per ricerca di visibilità, e a blandire qualsiasi gruppo che si muova nei loro dintorni dai no global al “no Dal Molin” quando, invece, dovrebbero interloquire, educare, guidare, spiegare come risolvere le contraddizioni. In definitiva, però, anche coloro che sanno nuotare debbono porsi delle mete e indicare degli approdi. Mentre la sinistra-arcobaleno nuota mi parrebbe opportuno segnalare che, senza il suo apporto, non soltanto il Partito Democratico non avrebbe abbastanza voti-seggi per governare, ma pezzi di società italiana rimarrebbero privi di rappresentanza sociale e politica.

Pubblicato il: 10.12.07
Modificato il: 10.12.07 alle ore 8.13   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Ecco una legge per tutti
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2007, 06:01:24 pm
Ecco una legge per tutti

Gianfranco Pasquino


Il dibattito sulle proposte di riforma dell’attuale legge elettorale mi pare che si sia incartato. Non c’è da scandalizzarsi se gli obiettivi particolaristici dei partiti si traducono, da un lato, nel tentativo di quelli grandi, entrambi «a vocazione maggioritaria», di darsi un piccolo-medio premio, e, dall’altro, nella resistenza dei partiti medio-piccoli ad accettare qualsiasi legge elettorale che, più o meno giustificatamente, li ridimensioni.

Per superare le resistenze e per non frustrare le speranze, sarebbe necessaria una proposta che non consenta a nessuno di potere valutare immediatamente, con un margine di errore minimo, vantaggi e svantaggi, propri e altrui. La ragione dell’impasse va trovata, a mio modo di vedere, nella difficoltà di conciliare il mantenimento del bipolarismo con una legge elettorale proporzionale senza incidere sulla auspicabile proporzionalità e, forse, senza neppure distorcerla. Cosicché, da un lato, protestano, a ragione, i bipolaristi, alcuni dei quali, non tutti in verità, sono anche favorevoli ad una legge effettivamente maggioritaria; dall’altro, si sollevano i proporzionalisti che non vedono perché i partiti già grandi debbano essere ancora più premiati.

So perfettamente che, in definitiva, la legge elettorale costituisce proprio il terreno sul quale i politici valutano non soltanto il loro consenso, ma anche il loro potere e che, di conseguenza, un’opinione tecnica, per quanto accuratamente formulata (come la mia...), è destinata ad incidere poco. Però, vorrei cimentarmi con una proposta non bizzarra, mettendo comunque in guardia tutti: la mia preferenza prima continua ad essere per il sistema maggioritario a doppio turno, francese, appena ritoccato. Ciò detto, poiché appare accertato che nel Parlamento attuale, qualora fossero lasciati soli a decidere, i parlamentari opterebbero per una legge proporzionale, ne prendo atto e suggerisco quanto segue. Il sistema elettorale dovrebbe essere a doppio turno. Nel primo turno, vengono assegnati quattrocento seggi con metodo proporzionale in quaranta/cinquanta circoscrizioni equilibrate, eventualmente con l’inserimento di una clausola di esclusione del quattro/cinque per cento. Le liste sarebbero composte da non più di otto, dieci candidature. All’assenza del voto di preferenza, che giustifico per evitare lotte, scontri, conflitti dentro ciascuna lista e probabile formazione di correnti, si potrebbe ovviare sancendo il principio di primarie facoltative, a richiesta di un certo numero di elettori. Al secondo turno, verranno assegnati 75 seggi al partito o alla coalizione che ottiene più voti e 25 seggi al partito o alla coalizione giunti secondi (per incoraggiare la formazione di una opposizione e darle rilevanza e consistenza). È probabile, ma non ne farei un vincolo, che i partiti o le coalizioni avranno tutto l’interesse a pre-designare il loro candidato alla carica di Presidente del Consiglio. L’esistenza di un premio di maggioranza assegnato al partito o alla coalizione che ottiene più voti al secondo turno spingerà verso il bipolarismo ovvero lo preserverà. Inoltre, il voto espresso al primo turno consentirebbe tanto ai partiti quanto agli elettori di avere una idea abbastanza chiara dei rapporti di forza intercorrenti e quindi, li incoraggerà a scegliere se e quali coalizioni formare (i partiti) e se e quali coalizioni votare (gli elettori).

La semplice esistenza del doppio turno consente di fare circolare molte utili, persino decisive informazioni politiche. Infine, il partito o la coalizione vincente potrebbero vantare una legittimazione elettorale esplicitamente espressa. Il bipolarismo costruito in questo modo non sarebbe né rigido, in quanto il partito o la coalizione vincente potrebbero decidere se e come aprirsi ad altri apporti parlamentari, né feroce, nella consapevolezza che le coalizioni durano lo spazio di una legislatura (ovvero, eventualmente, ma non molto probabilmente, anche meno, se si volesse introdurre il voto di sfiducia costruttivo). Questo sistema elettorale ha alcuni pregi rispetto alle proposte circolanti. Anzitutto, è facile da capire nei suoi meccanismi e persino da valutare nelle sue probabili conseguenze, senza in alcun modo ridurre l’incertezza sull’esito. In secondo luogo, grazie al doppio voto, che può anche essere disgiunto, conferisce grande potere agli elettori. In terzo luogo, minimizza gli svantaggi prevedibili per i piccoli partiti che, grazie alla ampia componente proporzionale, avranno sicuramente rappresentanza in Parlamento, e conferisce un vantaggio (il premio di maggioranza) ai grandi, ma soltanto se sapranno conquistarselo visibilmente nella competizione del secondo turno. Ricordo che al doppio turno e al premio di maggioranza l’elettorato italiano si è ormai positivamente abituato grazie ai sistemi elettorali usati per l’elezione dei sindaci, senza nessun inconveniente. Non andrei fino a sostenere che il sistema che propongo possa essere definito con la terminologia un po’ fuorviante che fa riferimento all’elezione del “sindaco d’Italia”, ma, insomma, ci va abbastanza vicino. Comunque, mi auguro che costituisca la mossa che spariglia alcune carte dei politici e restituisce molto potere agli elettori. Questo, alla fine della ballata, è il criterio che merita di contare più di tutti gli altri.

Pubblicato il: 14.12.07
Modificato il: 15.12.07 alle ore 9.00   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - La chance di Veltroni
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2007, 10:54:51 pm
La chance di Veltroni

Gianfranco Pasquino


Non deve sorprendere del tutto che, alla ricerca di una buona legge elettorale che dia stabilità e forza al governo, Veltroni si sia anche espresso molto favorevolmente rispetto al maggioritario a doppio turno francese e all’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica. Proprio su questo binomio si era più volte arrivati vicinissimi a un accordo addirittura nel febbraio 1996 poco prima dello scioglimento del Parlamento. E anche nella commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica e il suo sistema elettorale registrarono ampie convergenze. Dunque, l’indicazione di Veltroni, che dovrebbe godere di un ampio sostegno fra gli ex Democratici di Sinistra e, in parte, fra gli ex Margheriti, a cominciare da Arturo Parisi, non deve essere interpretata soltanto come un omaggio transeunte al presidente Sarkozy in visita a Roma.

È, invece, la presa d’atto che sulla sua precedente proposta pesavano molte, probabilmente insuperabili, obiezioni e che, altrimenti, avrebbe fatto la sua comparsa un modello tedesco, per di più ritoccato che Veltroni, ma non soltanto lui, pensa finirebbe per dare potere davvero eccessivo ad un eventuale centro post-democristiano.

Il maggioritario a doppio turno francese possiede molte delle qualità, se non addirittura tutte, cercate da Veltroni e apprezzate anche da Fini e, quando i suoi consiglieri rifletteranno a fondo, probabilmente convincenti anche per Berlusconi. Garantisce che la competizione elettorale e ancor più l’esito del voto saranno bipolari, e sappiamo che la conservazione di un bipolarismo sostenibile costituisce un obiettivo degno di essere perseguito . Grazie all’esistenza di collegi uninominali e al doppio voto, attribuisce notevole potere agli elettori consentendo loro di scegliere il candidato preferito al primo turno, mentre, al secondo turno, la convergenza di voti su un candidato vale anche come chiara indicazione di preferenza per una coalizione.

Il doppio turno, debitamente consegnato, vale a dire fondato sulla possibilità di passare al secondo turno garantita ai primi quattro classificati al primo turno (in modo che nessuno, candidato e partito, si senta automaticamente escluso dalla stipulazione di soglie percentuali irraggiungibili), non svantaggia automaticamente i partiti medio-piccoli, meno che mai se sono geograficamente concentrati (dunque, la Lega non corre rischi eccessivi). Semmai, svantaggia i partiti che non siano in grado di trovare alleati o non vogliano farlo. Inoltre, non avvantaggia necessariamente e automaticamente i partiti grandi (obiezione appropriatamente rivolta contro il cosiddetto «vassallum») che, comunque, sono in condizione di decidere se e con chi fare alleanze e desistenze. Infine, non può esserci nessun dubbio sul fatto che il doppio turno alla francese vanifica del tutto il referendum elettorale.

Giustamente, il Presidente Napolitano ha sottolineato la validità complessiva della Costituzione italiana, una signora che porta ottimamente i suoi sessant’anni, ma che potrebbe con qualche ritocco eliminare le sue visibili rughe. La Costituzione della Quinta Repubblica francese sta per compiere cinquant’anni. Di rughe non se ne vedono. Ha garantito stabilità politica e efficacia decisionale; ha imposto una sana e produttiva competizione bipolare e ha consentito, anzi, facilitato alternanza secondo le preferenze degli elettori.

È un modello istituzionale che, preso nella sua interezza, eliminerebbe quasi immediatamente e quasi completamente le rughe e le imperfezioni della nostra Costituzione per quello che riguarda la sua parte già originariamente più debole: la forma di governo, come segnalarono fin d’allora i Costituenti più avvertiti. Mi parrebbe opportuno che Veltroni esplorasse a fondo il grado di consenso che può trovarsi a sostegno di una riforma, non particolaristica, ma davvero sistemica. Se quel consenso verrà utilizzato con impegno e determinazione, verrà il tempo della riforma. Credo che, nonostante alcune difficoltà, si stia aprendo una reale finestra di opportunità che un leader dotato del consenso di Walter Veltroni dovrebbe volere e sapere sfruttare con l’obiettivo finalmente di migliorare la struttura e il funzionamento del sistema politico italiano.

Pubblicato il: 23.12.07
Modificato il: 23.12.07 alle ore 15.04   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Tutti gli scogli di Romano
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2007, 05:14:36 pm
Tutti gli scogli di Romano

Gianfranco Pasquino


Acquietatesi ovvero, meglio, fallite le spallate di Berlusconi, l'anno nuovo si apre con la spintina preannunciata dal senatore Dini sotto forma di sette punti programmatici alternativi. Se la Giunta per le elezioni al Senato procederà, come, probabilmente, dovrebbe, ad una riassegnazione di seggi in seguito alla documentata richiesta della Rosa nel Pugno, la spintina di Dini risulterà ancora più fievole, quasi un sospiro. Tuttavia, il pur operoso governo di Prodi dovrà comunque procedere all'incontro collegiale da più parti richiesto poiché le insoddisfazioni di Rifondazione sono molto più preoccupanti, molto più fondate e molto più temibili delle inquietudini di Dini. Direi anche che, quando si riferiscono al potere d'acquisto dei salariali, le richieste della Sinistra-Arcobaleno sono anche più rilevanti e più degne di essere prese in considerazione.

Inoltre, poiché, come ha opportunamente sottolineato il Presidente del Consiglio, i voti contano più delle interviste e, al Senato, Rifondazione di voti ne ha parecchi, la rinegoziazione degli accordi di governo dovrà tenere in maggior conto le condizioni di vita e di lavoro dei salariati.

Talvolta, però, le interviste (e le dichiarazioni) sono premesse e promesse di voti e di non-voti cosicché il governo non dovrebbe neppure sottovalutare, nel loro impatto potenzialmente alquanto grave, le richieste, peraltro non adeguatamente motivate, del Cardinale Bertone, ministro degli Esteri dello Stato del Vaticano, affinché i cattolici italiani non vengano avviliti, svantaggiati, mortificati nel Partito democratico. Non mancheranno, infatti, le occasioni nelle quali qualche teo-dem, saldamente insediato nel Pd e tutt’altro che privo di sostegno sotterraneo nella maggioranza di governo, e fuori, rivendicherà un suo insopprimibile voto di coscienza, come si dice, «a prescindere». E se questi sono problemi, apparentemente abbastanza trascurati, più specificamente del Partito Democratico, non va dimenticato che producono immediate conseguenze sulle votazioni al Senato (nonché su qualche tentativo di ridefinizione del perimetro della maggioranza).

L’altro problema del Pd (e del funzionamento del sistema politico) si chiama referendum elettorale. In materia le oscillazioni di Veltroni non hanno contribuito a chiarire né la linea né gli atteggiamenti complessivi dei Democratici, ed è un peccato che non abbiano neppure trovato una sede dove venire ampiamente e preventivamente affrontati. Inoltre, dopo la fiammata dell’abituale, tanto intenso quanto confuso, dibattito su formulette peraltro non del tutto incomprensibili da non irritare i partner minori della coalizione di governo («nanetti», per usare la terminologia di Sartori), abbastanza inquieti e, comunque, non disposti a farsi suicidare senza combattere), lo scivolamento verso il referendum potrebbe essere inarrestabile. Dunque, anche la decisione della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum elettorale è un elemento di cui tenere conto, senza scandalizzarsi delle pressioni, visibili e quindi apertamente criticabili, che vengono dai soliti noti antireferendari e proporzionalisti all’osso. Più gravi mi sembrano i rilievi fatti, sotto specie di dottrina, da ex-giudici politicamente schierati. Ma anche questi politicizzati rilievi meritano di essere discussi e, eventualmente, in punto di diritto e di precedenti, contrastati e rigettati. Giustamente il governo e il suo capo se ne curano il meno possibile, anche se, in verità, Prodi qualche parolina sulla legge elettorale l’ha pur detta. Le distanze più grandi, però, intercorrono fra l’ipotesi originaria di Walter Veltroni, il sistema tedesco sponsorizzato da Massimo D’Alema e il doppio turno francese sostenuto da Arturo Parisi, poiché queste leggi elettorali si riferiscono a sistemi politici e istituzionali piuttosto differenti e, dunque, potrebbero, se portati alle loro logiche conseguenze, configurare, tecnicamente e senza scandalo, un cambiamento di regime. Alla fine, nella ineludibile corsa ad ostacoli che il governo Prodi deve affrontare, la legge elettorale è l’ostacolo più elevato. In qualche modo, prima della fine di marzo, per evitare e vanificare il referendum, oppure, dopo il 15 giugno, a referendum eventualmente vittorioso, il Parlamento dovrà mettere mano alla legge elettorale. Anche se, a fini polemici, spesso lo si dimentica, il Parlamento mantiene la facoltà di scrivere una legge elettorale, ovviamente con vincoli, peraltro più politici che istituzionali, persino a referendum avvenuto. E lo ha già fatto, addirittura in maniera surrettizia. Prima di allora, comunque, il governo avrà avuto il tempo di fare, altre riforme, altri interventi, altre leggi. Per durare, non basta, però, fare. Bisogna fare mirando al soddisfacimento di interessi diffusi e non particolaristici. Bisogna fare costruendo consenso e fiducia. Non ho dubbi che questo è il proposito del Presidente del Consiglio per l’anno 2008 al quale mandiamo l’augurio di tenere in maggiore conto le inevitabili critiche, stimolo e suggerimento di alternative praticabili, che gli saranno sicuramente più utili dei troppi ipocriti omaggi.

Pubblicato il: 31.12.07
Modificato il: 31.12.07 alle ore 6.37   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO ...Le mezze riforme
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2008, 06:54:01 pm
Le mezze riforme

Gianfranco Pasquino


La riforma elettorale sta rapidamente diventando il test cruciale del Partito Democratico. A mio parere non è altrettanto importante né delle tematiche etiche né di quelle del lavoro, che sappiamo essere molto controverse, ma, poiché potrebbe condurre a una crisi di governo e alla fine della legislatura, merita, al momento, maggiore attenzione. Non è del tutto inutile ricordare che il punto di partenza, un testo elaborato in via riservata da pochi consiglieri di Veltroni, per quanto molto propagandato, non ha riscosso enorme successo.

Nella Commissione Affari Costituzionali del Senato, poi, si sta già discutendo di un altro testo.

Su un argomento tanto delicato come quello di una legge elettorale che dovrebbe ristrutturare l’intero sistema partitico italiano, era opportuno, forse addirittura indispensabile coinvolgere tutto il partito altrimenti che senso ha chiamarlo “democratico”? Dalle oscure stanze è uscito un testo confuso che ha lanciato un duplice, pericoloso, messaggio: primo, favorire il partito “a vocazione maggioritaria”, ovvero lo stesso Pd, ma anche colui che si autointerpreta come il vero “maggioritario”, cioè il partito di Berlusconi (qualsiasi nome assuma); secondo, ridurre il potere di contrattazione dei partiti minori fino ad annullarlo, se non persino cancellare quei partiti. Sullo sfondo, raramente evocato e quasi mai argomentato rimangono le due motivazioni più importanti per una riforma o una qualsiasi legge elettorale: dare più potere agli elettori (quel potere oggi ridotto dal porcellum ad una crocetta di ratifica delle scelte effettuate dai dirigenti dei partiti), migliorare il funzionamento del sistema politico.

Le reazioni negative di un po’ tutti coloro che sarebbero stati colpiti e forse anche annientati dal cosiddetto vassallum erano assolutamente prevedibili e anche molto comprensibili. In nome di che cosa dovrebbero sacrificarsi? Alle reazioni negative degli esperti, invece, si è dato poco spazio e nessuna risposta. Per di più, i sostenitori, talvolta essi stessi fra gli elaboratori del vassallum, hanno aggiunto all’indifferenza e insofferenza alle critiche altrui una serie di raffiche di loro critiche, ingiustificate, ad alcuni modelli esistenti, da tempo utilizzati in altri sistemi politici e il cui rendimento è giudicato un po’ dappertutto alquanto positivo (tanto è vero che non esiste in quei sistemi un dibattito sulle riforme elettorali). Qualcuno, ad esempio, continua a dipingere il sistema elettorale tedesco (che, sarà bene ripeterlo, non è affatto misto: metà maggioritario metà proporzionale, ma è tutto proporzionale con sogli di sbarramento al 5 per cento) in maniera preoccupantemente caricaturale come se conducesse inesorabilmente a Grandi Coalizioni consociative. Ecco i dati.

In poco meno di sessant’anni di esistenza della Repubblica Federale Tedesca, si sono verificate due esperienze di Grande Coalizione: 1966-1969 e l’attuale iniziata nel 2005. La competizione è sempre stata bipolare. Il Cancelliere è sempre stato il leader del partito maggiore della coalizione (o espresso da quel partito). Anche oggi sarebbe possibile un’alternativa numerica, ovvero un governo Spd, Verdi e Sinistra, se non fosse che tra Spd e Sinistra (composta anche da scissionisti della Spd) lo iato è forte. L’esempio fatto da Veltroni nell’intervista a Repubblica: il Pd al 32 per cento (ovvero con un guadagno dello 0,7 per cento rispetto al 2006); la Sinistra Arcobaleno al 9 per cento, non porta affatto a fare nessun governo con il centro. Significa soltanto che il centro-sinistra ha perso le elezioni, non per colpa del sistema tedesco, ma per mancanza di voti. Naturalmente, i leader dei partiti italiani potrebbero buttare a mare tutto il buono del sistema tedesco, ma la responsabilità dovrebbe ricadere sulla politica delle alleanze da loro perseguita. Mi pare un omaggio troppo grande al Partito di Casini e Tabacci sostenere che diventerà l’arbitro dell’esito elettorale, a meno non si tema che vi siano già, dentro il Partito Democratico, molti che desiderano una soluzione di governo collocata nei pressi del centro dello schieramento.

Quanto al semipresidenzialismo francese, non basta continuare a dire che sarebbe, accompagnato dal doppio turno elettorale, in via del tutto ipotetica, il sistema migliore e poi perseguire una strada che porta dappertutto (incidentalmente, non è prevedibile dove), ma sicuramente non a Parigi. Da nessuna cocktail a pluralità di ingredienti alla spagnola, alla tedesca, all’italiana, potrà sbucare un qualsiasi doppio turno. Ed è anche meglio non parlare di elezione diretta del Primo Ministro, formula che fuoriesce dai modelli parlamentari di governo e che, utilizzata tre volte in Israele, è stata prontamente e intelligentemente abbandonata.

Insomma, tedesco nella sua interezza, francese nella sua completezza: questi sono modelli esistenti in sistemi politici non troppo dissimili da quello italiano, sistemi dei quali conosciamo pregi, molti, e difetti, pochi e che saremmo in grado di imitare. Certo non rimedieremo all’eventuale sorpasso spagnolo imitando un sistema politico nel quale c’è una monarchia e la cui Camera bassa ha 350 rappresentanti. La politica non è l’arte del possibile, ma la capacità di creare le condizioni di quel che è possibile. Sarebbe preferibile che un partito democratico iniziasse il complesso processo di creazione di quelle condizioni attraverso estese consultazioni al suo interno. Poi, se vuole essere il fulcro di una coalizione di governo (come è nel contesto attuale) ne discuta con i potenziali alleati al fine di formulare una o più proposte agli altri interlocutori parlamentari, dichiarandosi pronto a recepire il meglio delle eventuali critiche e controproposte. Questa è la via democratico-parlamentare alla riforma elettorale. Meno promettente è la via del fatto compiuto e dichiarato attraverso improvvise e improvvisate (molti ricorderanno il Franceschini proporzionalista di pochi anni fa) interviste.

Pubblicato il: 07.01.08
Modificato il: 07.01.08 alle ore 13.42   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Hanno perso Tutti
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2008, 11:19:17 pm
Hanno perso Tutti

Gianfranco Pasquino


La rinuncia sdegnata di Papa Ratzinger alla visita e all’intervento in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università La Sapienza non costituisce la vittoria di nessuno. Anzi, è un’occasione (di chiarimento) perduta. Rimane importante conoscere le procedure decisionali del Senato Accademico (presidi e altri) che ha deciso, con quali maggioranze e con quali motivazioni?, di invitare il Papa addirittura, in una prima fase, a tenere una lectio magistralis, poi derubricata a intervento.

Se le procedure sono state correttamente interpretate, coloro che si erano opposti all’invito e hanno perso, avrebbero dovuto mobilitarsi per tempo e fare una sana opera di controinformazione, come si conviene a docenti universitari colti e competenti. Quanto al Papa, la sua rinuncia ne intacca l’immagine di combattente. Incessantemente definito teologo e filosofo dai corrispondenti italiani in Vaticano, gli era stato affidato l’importante compito di affrontare il tema, estremamente significativo per i fedeli di ogni credo religioso, alcuni dei quali immersi nello «scontro di civiltà», della moratoria relativa alla pena di morte.

Avrebbe, da teologo e da filosofo, forse anche da logico, potuto sfruttare l’evento per respingere con fermezza, grazie alla sua cultura, qualsiasi paragone del tutto improprio con la cosiddetta moratoria sull’aborto.

Un test più complicato e, al tempo stesso, più importante, per l’attuale condizione dei rapporti fra la politica italiana e la Chiesa cattolica, attendeva Ratzinger. A partire dalla Conferenza Episcopale Italiana, all’interno della quale si fa molta fatica a distinguere reali differenze di opinioni, la rivendicazione più insistente e più alla moda è quella del cosiddetto ruolo pubblico della religione, anzi, delle religioni al plurale, poiché non ci si dovrebbe riferire alla sola confessione cattolica, per quanto, in questo paese, maggioritaria. Al contrario, tocca non soltanto ai laici, ma ai rappresentanti delle confessioni religiose più grandi impegnarsi per difendere i diritti delle minoranze religiose, tutte. È certamente pubblico il ruolo di una religione che esprime le proprie posizioni e preferenze su tutte le problematiche che la politica deve affrontare. Naturalmente, lo spazio della sfera pubblica è, per definizione, luogo di confronto anche conflittuale di una pluralità di preferenze. Altrettanto naturalmente chi interviene nella sfera pubblica deve argomentare e giustificare le sue preferenze ed, eventualmente, la loro superiorità, se il suo obiettivo è persuadere coloro che la pensano diversamente.

Chi interviene nella sfera pubblica si espone a critiche, che, a loro volta, debbono essere ugualmente argomentate in maniera trasparente, ragionevole e ragionata. Si fa davvero fatica a pensare che la religione cattolica in Italia, i suoi rappresentanti, il Papa abbiano scoperto soltanto oggi di avere un ruolo pubblico e sostengano di esercitarlo da poco, per di più lamentandosi di un presunto mancato riconoscimento di questo diritto ovvero del loro ruolo. Tuttavia, dovrebbe essere evidente che non si dà ruolo pubblico della religione, ma qualcos’altro, di diverso e di pericoloso, quando gli esponenti titolati di quella religione pretendono di dettare comportamenti alla politica, a tutti i politici, ai politici che, più o meno coerentemente, affermano di richiamarsi alla fede (cattolica). In questo caso, siamo di fronte a interferenze che possono essere variamente sanzionate: dall’opinione pubblica, dall’elettorato, dagli altri politici.

In particolare, la protezione della apertura e della competitività dello spazio pubblico sarà il nobile compito dei politici che ritengono che il bene comune non sta a monte delle decisioni e non è mai predefinito, ma è il prodotto complesso di un insieme di procedimenti, di accordi e conoscenze. Meno che mai si possono giustificare coloro che in politica, invece di «rappresentare la Nazione (termine più ampio e comprensivo di qualsiasi credo religioso) senza vincolo di mandato», affermano di seguire la propria coscienza che troppo spesso coincide a priori e a posteriori con le affermazioni, le indicazioni, le imposizioni delle autorità religiose.

Ecco, il Papa teologo e filosofo avrebbe avuto giovedì la grande opportunità, se avesse accettato quella che era diventata una sfida, di tornare a confrontarsi con il pensiero del suo connazionale Jürgen Habermas, proprio sul concetto di spazio pubblico. Sarebbe stato ancora più bello se, in materia, avesse anche accettato il contraddittorio, proprio come si esige e si addice a uno spazio pubblico, e allora gli assenti avrebbero torto. Con la sua rinuncia, il Papa teologo e filosofo ha privato tutti coloro che riconoscono alla religione un ruolo della possibilità di sapere se lui pretende che nello spazio pubblico esista soltanto una voce e soltanto una verità, oppure se è disposto all’ascolto. Un’occasione perduta da accogliere senza entusiasmi con un silenzio critico.


Pubblicato il: 16.01.08
Modificato il: 16.01.08 alle ore 8.11   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Conto alla rovescia
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2008, 11:09:42 pm
Conto alla rovescia

Gianfranco Pasquino


Nonostante le critiche a eventuali compromessi, ancora una volta la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili quesiti referendari che riguardano le leggi elettorali italiane.

Criticata, anche dal suo interno, per una incerta giurisprudenza in materia referendaria, specificamente elettorale, la Corte ha mandato un messaggio chiaro, vedremo poi come verrà motivato: i tre quesiti sottoposti dal Comitato Guzzetta-Segni non vanno contro nessun principio costituzionale. Semmai, sono proprio alcuni cardini del vigente Porcellum che avrebbero dovuto essere preventivamente sottoposti ad un controllo di costituzionalità. Adesso, i partiti a vocazione maggioritaria possono rallegrarsi. Infatti, il premio in seggi che alla Camera consentirà il conseguimento di una comoda maggioranza più che assoluta verrà attribuito al più grande dei partiti a prescindere dalla percentuale di voti ottenuti che, comunque, non sarà infima. Già sappiamo che, anche nella peggiore delle circostanze, oggi sia il Partito Democratico sia il Popolo delle Libertà dovrebbero essere al di sopra del 30 per cento dei voti. Non sarebbero molto distanti dalle percentuali elettorali che, in alcuni paesi dove si vota con il sistema maggioritario semplice (ovvero nei cui collegi si vince il seggio anche con la maggioranza relativa), vengono superate non di molto dal partito che guadagna la maggioranza assoluta dei seggi.

Certamente, i partiti piccoli hanno molto di che lamentarsi. Se stanno al disotto del 4 per cento rischiano di sparire del tutto. Comunque, hanno perso quasi interamente il loro potere di ricatto nei confronti dei partiti grandi. In un certo senso è giusto così; ovvero è meglio così. Da un lato, ne potrebbe conseguire una positiva spinta all’accorpamento dei piccoli partiti in special modo se non sono fra loro troppo palesemente eterogenei. La riduzione della frammentazione significherà anche probabile contenimento della conflittualità nel governo. Dall’altro lato, però, è ipotizzabile che né il Partito Democratico né il Popolo della Libertà intendano agire senza rete, vale a dire che entrambi, in una misura che è difficile da definire, tenteranno di trovare (temo che il termine giusto sia “imbarcare”) il maggior numero possibile di alleati: effetto grande ammucchiata che svuoterebbe il senso e l’obiettivo del quesito referendario.

A bocce ferme, sia Veltroni sia Berlusconi, se trovassero l’accordo su una buona formula elettorale, dispongono di uno strumento molto incisivo di persuasione nei confronti dei loro potenziali alleati ponendo l’alternativa secca fra la riforma da loro concordata oppure l'esito referendario. Nella pratica, però, il gioco è molto più complesso tanto nella fase di avvicinamento al referendum quanto al momento del voto referendario e nella presa d’atto delle sue conseguenze. Qualcuno dei piccoli potrebbe decidere che, non volendo lasciarsi “suicidare” dal referendum, preferisce fare cadere il governo. Ma, a questo punto, il guardiano della Costituzione, ovvero il Presidente della Repubblica, imporrebbe comunque al Parlamento di approvare una legge elettorale prima di tornare alle urne. Di nuovo, l’eventuale accordo fra i due grandi partiti diventerebbe decisivo. Qualcuno potrebbe contare sulla difficoltà quasi decennale dei referendum di conseguire il quorum. È questo, a mio modo di vedere, il rischio più grave, anche in termini di delegittimazione e di dimostrazione che i partiti non hanno più la capacità di convincere i loro elettori di quanto importante è la loro partecipazione.

Dopo il referendum, nel quale la vittoria dei “sì” mi pare assolutamente prevedibile, toccherebbe comunque al Parlamento il compito delicato di tradurre (non tradire) in maniera decente l’esito dei quesiti in norme. Ma i partiti grandi avrebbero maggiori capacità di “persuasione”, soprattutto se sapessero accompagnarla a qualche scelta tecnica facilmente comprensibile e ad una visione complessiva del sistema politico desiderabile. Troppe variabili m’inducono a ritenere che l’ammissione dei quesiti da sola non è ancora sufficiente ad imporre un’unica precisa scelta, che si tratti della riforma, della crisi di governo, dello stallo. Quello che sappiamo di sicuro è che, per tornare all’iconografia referendaria, la pistola del referendum non è più sul tavolo. Adesso è carica, è sollevata ed è puntata. Tuttavia, non è chiaro da chi e contro di chi è puntata e chi abbia l’ardire e il potere di premere il grilletto. In assenza di un, al momento imprevedibile, scatto di leadership, le circostanze e le contingenze della politica partitica sembrano ancora in grado di occupare la scena fino all’inizio dell’estate.

Pubblicato il: 17.01.08
Modificato il: 17.01.08 alle ore 8.23   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Governo tecnico purché serva
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2008, 05:54:49 pm
Governo tecnico purché serva

Gianfranco Pasquino


Anche a futura memoria, è molto opportuno il richiamo intransigente del Presidente del Consiglio Romano Prodi. In una democrazia parlamentare, le crisi di governo si aprono in Parlamento e, eventualmente, in Parlamento debbono cercare e trovare una soluzione. Sia la maggioranza e l’opposizione sia, in special modo, l’elettorato hanno il diritto di conoscere dalla viva voce dei protagonisti come e perché si è rotto il patto di governo e quali alternative propone l’opposizione.

Fintantoché l’Italia sarà una democrazia parlamentare, senza nessun raffazzonato marchingegno di elezione diretta del capo del governo, le esigenze poste da Prodi dovranno essere rispettate. Purtroppo, nel passato lo sono state pochissimo, spesso più per qualche secondo fine che per rispetto della Costituzione.

Fra le soluzioni parlamentari alla crisi che è comunque da considerarsi già aperta, non si trova necessariamente l’immediato ritorno alle urne. Infatti, la Costituzione italiana specifica che può nascere qualsiasi governo purché abbia la fiducia delle due Camere e che lo scioglimento del Parlamento viene deciso dal Presidente della Repubblica «sentiti i Presidenti delle Camere» i quali dovrebbero comunicargli l’esistenza di una maggioranza operativa in entrambi i rami del Parlamento. Qui si trova lo spazio, perfettamente costituzionale, per la formazione di un governo istituzionale oppure tecnico (non sono la stessa fattispecie), ma non democristiano-balneare. Naturalmente, se, da un lato, le componenti dell’Unione non lo votano, nessun nuovo governo è possibile. Allo stesso modo, se i quattro partiti del centro-destra, anche in ordine sparso, non convergono su una compagine di governo sostenuta almeno in parte dall’ex-Unione, il Parlamento non riuscirà a dare vita ad un altro governo e toccherà a Prodi condurre il paese a nuove elezioni.

In verità, sembrerebbe essere questa la preferenza di Prodi che mi pare si scontri sia con le aspettative di Veltroni sia, quel che più conta, con le preferenze, non personali, ma istituzionali, del Presidente della Repubblica. Dovrebbe essere del tutto evidente e accertato che, a referendum incombente, il Parlamento italiano non ha saputo, a causa di veti e di egoismi incrociati, produrre un testo chiaramente migliore dell’attuale legge proporzionale con maldestro premio di maggioranza e altrettanto chiaramente non tagliato su misura per nessuno, neppure per i partiti a «vocazione maggioritaria». La dichiarazione solenne di Napolitano in occasione della crisetta del febbraio 2007 obbliga, però, prima che possano venire indette elezioni anticipate a rivedere in maniera, magari non ottimale, ma decente, la legge elettorale vigente.

La reciproca sfiducia fra i due schieramenti e, persino, fra ciascuna componente al loro interno, suggerisce che anche al fine di formulare e fare approvare quella sola, ma indispensabile, riforma, è imperativo dare vita ad un governo, forse tecnico, forse istituzionale, quasi certamente a termine, altrimenti non potrebbe avere neppure una limitatissima fiducia dal centro-destra. Esistono due interessanti, ma probabilmente irripetibili, precedenti. Il governo Ciampi, nato sull’onda del referendum elettorale (ma non solo) del 1993 venne chiamato dal Presidente Scalfaro a sovrintendere alla scrittura della nuova legge elettorale e a preparare una legge finanziaria decente. In quel periodo, Napolitano era Presidente della Camera dei deputati.

Anche grazie all’apporto di autorevoli personalità, Ciampi adempì con successo al suo compito e lasciò allo scadere di un anno. L’altro esempio è quello del governo guidato da Lamberto Dini (gennaio 1995-febbraio 1996). Meno autorevole quanto alla sua composizione, Dini rese un ottimo servizio al paese con la riforma delle pensioni, ma si arenò sul terreno istituzionale.

Il problema attuale non è forse tanto che manchino le personalità anche istituzionali per guidare un nuovo governo tecnico quanto che gli eventuali «tecnici», dotati di competenze elettorali e economiche, sui quali si potrebbe fare affidamento sembrano tutti troppo schierati, se non addirittura chiaramente impegnati nel perseguimento di loro obiettivi politici e personali. Eppure, dalla crisi in cui è precipitata la classe politica parlamentare non si può che uscire stimolando la parte migliore di quella stessa classe a tenere comportamenti «sistemici» e individuando fuori di essa coloro che abbiano a loro volta una visione sistemica.

Non resta che fare molti auguri al Presidente della Repubblica. Il compito di Napolitano risulta alquanto più difficile di quello, a suo tempo svolto egregiamente, di Scalfaro. Ma non c’è ragione di pensare che Napolitano non saprà suggerire la soluzione più adeguata, vincendo le troppe deprecabili resistenze personalistiche.


Pubblicato il: 23.01.08
Modificato il: 23.01.08 alle ore 8.19   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO Proviamo a vincere
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:28:22 am
Proviamo a vincere

Gianfranco Pasquino


Non bisogna mai sottovalutare l’intelligenza dell’elettorato. È un errore, politico e democratico, commesso molto frequentemente e ripetutamente da troppi politici e intellettuali di sinistra che, quando vince la destra, accusano gli elettori di non avere capito, o peggio, e quando vince la sinistra non si preoccupano di mantenere quello che hanno promesso, oppure di spiegare perché non riescono a realizzarlo. Naturalmente, non è vero che gli elettori hanno sempre ragione, ma gli esiti elettorali sono sempre da rispettare, da analizzare e da capire.

Probabilmente, si andrà presto ad elezioni anticipate. Se non si trova nessun preventivo accordo parlamentare, ma sarebbe davvero opportuno che i difensori del parlamentarismo dimostrassero la loro autonomia e la loro influenza dettando l’agenda dei lavori, saranno gli uscenti Presidente del Consiglio Romano Prodi e Ministro degli Interni Giuliano Amato a sovrintendere all’intero procedimento elettorale. Sarebbe certamente molto meglio se almeno un piccolo pacchetto di revisioni facilmente condivisibili fosse apportato alla legge elettorale vigente. Incidentalmente, anche una volta che si fosse votato con la legge Porcellum, il referendum rimarrà innescato come una lunga miccia destinata a deflagrare nella primavera del 2009. Meglio sarebbe dare vita ad un governo chiaramente pre-elettorale (il Presidente Napolitano è abbastanza generoso da scusare la mia interferenza), guidato da una personalità dotata di una biografia politica degna di rispetto, capace anche di tenere l’economia sulla retta via, che faccia le poche migliorie assolutamente indispensabili. Il resto dovrà essere affidato agli uomini e alle donne dei partiti ai quali spetterà di scegliere le candidature e le strategie.

L’elettorato ovvero, meglio, la sua parte che può essere decisiva, è sicuramente interessato a valutare quanto il governo ha fatto, con quali conseguenze e con quali prospettive. Credo sia giusto, per quanto difficile, che la leadership di governo del centro sinistra rivendichi le sue riforme, mentre il Partito Democratico e il suo leader metteranno il silenziatore alle loro promesse al rialzo, e chieda il voto sia sulla continuazione di un programma non del tutto realizzato sia per alcuni punti nuovi di particolare importanza. C’è sempre un vantaggio, per quanto piccolo, a favore di coloro che hanno governato: sono in grado di presentare un bilancio e di chiedere di essere valutati sulle loro prestazioni. Inevitabilmente, la destra continuerà a riproporre le sue promesse che non possono allontanarsi troppo da quanto dichiarato nella precedente campagna elettorale e che debbono a loro volta essere valutate con riferimento al quinquennio 2001-2006.

Chi crede che l’elettorato è intelligente, pensa, valuta, si orienta, non può e non deve dare per scontata la vittoria del centro-destra. Deve, invece, impegnarsi a proporre e a controbattere tenendo conto delle delusioni degli italiani che riguardano non soltanto quello che è stato fatto, ma anche il come è stato fatto. La campagna elettorale costituisce anche, per chi sa come farlo, un grande esercizio di democrazia: dialogo, interazione, voto basato sul circuito “offerte dei partiti-risposte degli elettori-controproposte dei partiti”. Esiste una ricca e promettente possibilità di dialettica democratica nella quale si sperimenta la leadership sapendo che contano non le suggestioni oniriche, ma la realizzabilità delle promesse e la credibilità della leadership stessa.

Dopo le primarie dell’ottobre 2005 che consegnarono a Prodi la candidatura a Palazzo Chigi, mancarono molti elementi che avrebbero consentito di mantenere lo slancio di partecipazione e di entusiasmo, gli americani direbbero il “momentum” (lo slancio) a favore del centro-sinistra. Non è in nessun modo possibile dimenticare che, se la legge elettorale rimarrà grosso modo tale e quale, bisognerà evitare nella maniera più assoluta (e non soltanto perché lo Statuto del Partito Democratico prevede le primarie per le candidature) di affidare ad alcuni pochi leader, meno che mai ad un uomo solo, il compito di selezionare i candidati e le candidate con bilancini partitocratici. E' importantissimo, in special modo per riannodare i rapporti con un elettorato deluso e depresso, ma anche per consentirgli di partecipare efficacemente e di impegnarsi nella campagna elettorale, che, ovunque possibile, si tengano elezioni primarie. Invece di raccontare che già non c’è più tempo si dedichino subito le energie ad approntare strumenti e sedi.

La politica cammina sulle gambe delle donne e degli uomini. Quasi un migliaio di candidature selezionate con criteri democratici sarebbero/saranno messaggeri efficaci del centro-sinistra, sia che si presenti come coalizione ristrutturata, sia che ciascun partito presenti le sue liste e, allora, il mio suggerimento vale soprattutto per il Partito Democratico. Bisogna tornare a parlare di politica con gli elettori, smettendo di parlare di cariche, di posti, di ruoli e di “solidarietà” fra dirigenti. Il centro-sinistra non può dare per preventivamente scontata la sua sconfitta (come fece, candidando l’allora sindaco di Roma, che non aveva avuto ruolo alcuno nei governi della legislatura 1996-2001) e neppure specularmente la vittoria del centro-destra. Potrebbe sicuramente succedere che neppure con una campagna elettorale intessuta di pochi essenziali punti programmatici e di pedagogia politica, il centro-sinistra riuscirà a vincere, ma avrà almeno sfruttato onestamente la grande opportunità di costruire le premesse di trasformazioni più profonde a non troppo futura memoria.

Pubblicato il: 27.01.08
Modificato il: 27.01.08 alle ore 6.52   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - La forza del Porcellum
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2008, 06:39:13 pm
La forza del Porcellum

Gianfranco Pasquino


Nelle difficili, quasi disperate, consultazioni, è probabile che il presidente del Senato Marini abbia toccato con mano quanto distanti fossero e quanto aspramente si confrontassero e si scontrassero due esigenze. Da un lato, stavano le esigenze, non tutte fra loro pienamente compatibili, del centro-destra e, in special modo di Berlusconi: andare a elezioni il prima possibile, ovvero subito. Non c’era spazio in queste esigenze per qualsivoglia riforma della legge elettorale.

Non c’era spazio né per una nuova legge né per migliorie possibili e, poiché notissime e condivisibili, rapidamente fattibili, alla pur pessima legge vigente. D’altronde, il ragionamento (è un modo di dire) di tre capi del centro-destra su quattro (anche se Casini non può chiamarsi fuori né per il passato né per il presente) è semplice: la legge l’hanno fatta loro e non è davvero il caso che la sconfessino platealmente proprio adesso. Dall’altro lato, stava il centro-sinistra, con i suoi ritardi, le sue contraddizioni, la sua incapacità di decidere che cosa davvero voleva tranne affidarsi, magari anche con l’intercessione dei suoi agguerriti teo-dem, alla Provvidenza e guadagnare tempo.

In parte, ovviamente, il tempo che il centro-sinistra fosse riuscito a guadagnare poteva essere messo al servizio anche di una esigenza particolaristica: consentire nella misura del possibile, che non è molta, il rafforzamento del Partito Democratico (esattamente quello che Berlusconi vuole impedire). In parte, invece, quel tempo avrebbe permesso e facilitato una riformetta decente del sistema elettorale tale da dare più potere agli elettori e da produrre un esito politico più soddisfacente in special modo per il funzionamento futuro di governo e Parlamento. A questo punto, comunque, i dirigenti del centro-sinistra e, in special modo, quelli del Partito Democratico potrebbero decidere di comportarsi come se una legge migliore fosse già in esistenza, per esempio, affidando ai loro elettori la selezione con le primarie di almeno una parte delle candidature al Parlamento, decidendo con maggiore chiarezza gli impegni e le alleanze fino a, addirittura, correre ciascuno per conto suo magari evitando suicidi a catena.

Sulle esigenze particolaristiche del centro-destra e su quelle in parte sistemiche del centro-sinistra continua ad incombere il referendum elettorale, richiesto da ottocentomila e più elettori. Infatti, anche dopo che si sarà votato con l’attuale legge elettorale, il referendum elettorale non risulterà in nessun modo vanificato. Verrà semplicemente spostato nel tempo. Dovrebbe, comunque, tenersi nel 2009. Per ricorrere alla metafora finora prevalente, la pistola referendaria continuerà ad essere carica anche se il centro-destra intrattiene l’idea che le polveri si bagneranno sotto un pesante acquazzone di voti e che le pallottole finiranno per arrugginirsi. È una idea particolaristica soltanto parzialmente sostenuta dall’argomentazione che l’elettorato avrebbe già espresso il suo verdetto a favore del loro governo, certamente legittimo. Anzi, un elettorato incattivito dalla scarsa considerazione del suo attivismo partecipatorio potrebbe dare comunque la sua spallata referendaria. L’eventuale governo di centro-destra tenterà di chiamarsi fuori, ma la legge elettorale sarebbe, lei sì, certamente “delegittimata”, comunque pesantemente ritoccata. Inoltre, un problema sistemico continuerebbe a sussistere derivante dall’ormai abituale disprezzo del centro-destra per le istituzioni, le procedure, le regole, mai tutte esclusivamente formali, di una democrazia che vorremmo vitale e complessa, presa sul serio. Su questo terreno, senza infingimenti, senza furbizie, senza doppi giochi, si misura non la pure importante leadership politica, che consiste nel costruire, guidare, fare funzionare i partiti e le coalizioni, ma le decisive leadership istituzionali, quelle che hanno a cuore la qualità delle regole del gioco. Si diventa statisti quando, ovviamente senza distruggere le proprie preferenze e le proprie opportunità politiche, si riesce a costruire un sistema istituzionale migliore, attraverso il quale avere appropriate opportunità di governare per poi lasciarlo in condizioni più avanzate ai propri successori. Giusta era, dunque, la preoccupazione di D’Alema relativa al contorto ingorgo referendario elettorale, anche se purtroppo non tutti nel centro-sinistra hanno manifestato per tempo eguali sensibilità sistemiche. Comprensibili, ma non del tutto giustificabili e certamente né apprezzabili né sistemiche sono state le reazioni del centro-destra. Adesso anche i non molti dirigenti del centro-destra che non hanno condiviso frettolosità e accelerazioni antisistemiche si sono ridotti a rilanciare, in maniera poco credibile, una fantomatica legislatura costituente (dal 1992, a parole, lo sono state un po’ tutte, dunque: nessuna). Neanche tutto il centro-sinistra potrebbe, in materia, dopo le sue acrobatiche proposte di variegate leggi elettorali, permettersi di lanciare la prima pietra. In campagna elettorale, mancando, fortunatamente, il tempo di scrivere inutilmente monumentali programmi elettorali, sarà il caso di non dare troppo spazio alle riforme elettorali e istituzionali non fatte, per concentrarsi piuttosto a rivendicare documentatamente e insistentemente quanto di buono il governo ha comunque compiuto in economia. Le qualità dell’esperienza, della competenza e della credibilità altrove contano e vincono. Perché in Italia no?

Pubblicato il: 05.02.08
Modificato il: 05.02.08 alle ore 12.33   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Se il Pd va da solo
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2008, 11:12:07 pm
Se il Pd va da solo

Gianfranco Pasquino


Qualche volta il coraggio, anche quello politico, sconfina nella temerarietà, e rischia di sprofondarvi. Esprimere «vocazione maggioritaria» per un partito di medio-grandi dimensioni è sicuramente comprensibile, in qualsiasi situazione politico-istituzionale quel partito si trovi ad operare. Naturalmente, quando si sa di avere bisogno di alleati, la vocazione maggioritaria non dovrebbe essere esibita come un’arma per ridurre tutti gli alleati, a prescindere dai loro comportamenti, a mitissimi consigli. «Correre da soli» è un nobile proposito, addirittura, qualche volta, ad esempio, laddove vengono utilizzati sistemi elettorali maggioritari, un imperativo politico. Sappiamo, però, che, purtroppo, non si è pervenuti in Italia ad un sistema elettorale maggioritario (ad un solo oppure a due turni) a favore del quale non era possibile trovare una maggioranza né fuori né dentro il centro-sinistra.

Del tutto improprio e fuorviante, quindi, è qualsiasi eventuale paragone fra il Partito Laburista inglese e il Partito Democratico che, incidentalmente, ha respinto proprio le caratterizzazioni laburiste e socialdemocratiche.

Il problema da affrontare come «correre da soli» e come affermare la propria «vocazione maggioritaria» deve tenere conto dei vincoli sistemici, politici e istituzionali vigenti. È nell’ambito di questi vincoli che deve essere trovata la soluzione, se non ottimale, almeno soddisfacente. È probabile che «correre da soli» sia un’affermazione che contiene tre elementi: un segnale mandato ai riottosi alleati governativi, l’indicazione che si sarebbe cercata una formula elettorale in grado di valorizzare le corse da soli, la sfida rivolta a Forza Italia-Partito del Popolo nella ipotesi che Berlusconi l’accettasse volendo ridurre le pretese dei suoi punzecchianti alleati. Era, fin dall’inizio, la premessa più vacillante.

Adesso che la campagna elettorale sta cominciando sembra opportuno procedere ad un ripensamento di tutt’e tre gli elementi. In un batter d’occhio, la Casa delle Libertà si è ricomposta sotto la guida del Cavaliere che non ritiene affatto di dovere correre da solo: primum vincere. Quanto ad alcuni degli alleati riottosi del centro-sinistra che hanno dato il loro decisivo contributo alla caduta del governo, per loro, né come singoli né come partitini, non può più esserci nessuna disponibilità ad accettarli come partner. Per altri, invece, non soltanto alleati leali, ma anche già intenzionati, quando si presentò l’occasione, a convergere nel Partito Democratico, questa disponibilità deve esserci. Includere l’Italia dei Valori e i Radicali nel Partito Democratico non sarebbe affatto un cedimento e neppure una violazione alla coerenza delle precedenti affermazioni. Sarebbe, invece, un’azione logica e proficua.

Se si fosse fatta, senza troppe giravolte, una legge elettorale di tipo spagnolo o tedesco, «correre da soli» avrebbe significato contare i propri voti e avrebbe permesso di fare, dopo il voto, come avviene nella maggioranza delle democrazie parlamentari, alleanze numericamente possibili e politicamente, e programmaticamente plausibili. Il Porcellum rende qualsiasi propensione alla corsa da soli non soltanto rischiosissima, ma, al limite, deleteria. Veltroni potrebbe pensare, ma sicuramente non dovrebbe dichiararlo, che esistono sconfitte onorevoli, persino accompagnate da una confortante percentuale di voti, che consentirebbero di semplificare lo schieramento partitico, di rafforzare il Partito Democratico, di prepararsi alla rivincita ottimamente attrezzati. Il ragionamento è comprensibile e non sarebbe difficile trovare qualche esempio, anche, seppure un po’ improprio, nel contesto inglese, a sostegno di una strategia di lungo periodo.

Ma non siamo inglesi e non abbiamo né, come ho sottolineato, il loro sistema elettorale né il fair play che ne caratterizza la politica. Cinque anni all’opposizione di un governo guidato da Berlusconi, sostenuto dai partiti di Fini e Bossi e da quel che resta dell’UDC di Casini, sembrano a molti nel centro-sinistra, anche a quelli che non hanno mai demonizzato il Cavaliere, di insostenibile pesantezza dal punto di vista dei programmi del centro-destra, delle sue concrete politiche, delle sue posizioni internazionali.

Ricordiamo tutti l’importante distinzione formulata da Max Weber fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità. Ciascuno di noi può rimanere coerente con le proprie idee fino a pagarne, con convinzione, un prezzo personalmente elevato. Ma il politico ha il dovere di attenersi all’etica della responsabilità. Non conta soltanto il fatto che il Partito Democratico perda, per coerenza (e per ostinazione, il difetto con il quale molti hanno bollato il comportamento finale di Romano Prodi), in maniera cospicua, le prossime elezioni. Piuttosto, conta per molti di noi che numerosi ceti sociali già svantaggiati non otterranno adeguata rappresentanza in Parlamento e non godranno più di sufficiente protezione.

Insomma, è possibile, applicando l’etica della responsabilità, ovvero tenendo in massimo conto le conseguenze prevedibili della propria strategia, ripensare alle modalità (che, è mio fermo convincimento, dovrebbero includere anche primarie che consentano la partecipazione attiva dei «democratici» alla selezione delle candidature parlamentari) con le quali presentarsi alle elezioni, non per testimoniare la propria coerenza, ma per offrire rappresentanza e, se possibile, governo ad un sistema politico e ad una società che continuano ad averne davvero bisogno.

Pubblicato il: 07.02.08
Modificato il: 07.02.08 alle ore 8.05   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Primarie Pd: «Yes, we can»
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2008, 07:55:25 pm
Primarie Pd: «Yes, we can»

Gianfranco Pasquino


Un partito, in special modo se relativamente nuovo e in fase di consolidamento, come il Partito Democratico, ha l’imperativo politico-organizzativo e deve avere la concreta possibilità di costruire un gruppo dirigente capace di operare con continuità e efficacia in Parlamento e, eventualmente, al governo. In quest’ottica, dunque, non possono essere ascoltate le sirene, più o meno consapevolmente populiste, che invocano mannaie collegate indiscriminatamente al numero di legislature già fatte.

La rara specie degli ottimi parlamentari di lungo corso non deve assolutamente cadere sotto quelle mannaie e neanche deve essere sottoposta alla riconferma democratica attraverso le primarie. Ma, una volta costituito un ristretto e autorevole gruppo dirigente parlamentare, al Senato e alla Camera, per la selezione dei rimanenti tre quarti dei parlamentari non è davvero convincente opporre la formuletta burocratica del «non c’è più tempo» contro le richieste eventuali di alcuni settori del partito, ovvero degli aderenti e dei simpatizzanti. Inoltre, se il Partito Democratico si considera davvero federale e vuole vivere come tale, allora il Coordinamento nazionale deve rinunciare coerentemente e completamente alla facoltà di vietare eventuali consultazioni primarie. Anzi, laddove i segretari regionali o i coordinatori e le coordinatrici provinciali ritengano di avere tempo, modi e capacità di organizzare primarie eque e efficaci, è giusto che venga loro consentito di farlo. Subito.

L’onda lunga delle “primarie per Prodi” nell’ottobre 2005 si infranse e si spense, da un lato, su una legge porcata a lunghe liste di candidature bloccate, dall’altro, sulla decisione che le primarie di coalizione non potessero essere fatte altrimenti non si sarebbe attribuita adeguata (sic) rappresentanza parlamentare agli alleati dei Ds e della Margherita. Andò così malamente e colpevolmente perduto l’effetto di mobilitazione e entusiasmo che elezioni primarie per almeno la metà delle candidature avrebbero sicuramente suscitato (e si giunse alle elezioni del 2006 depressi e tristi). La legge porcata è viva e vitale e si appresta a celebrare suoi nuovi disastrosi trionfi, ma il Partito Democratico può sventarne alcuni se dà la parola alla sua base. Lo sappiamo è una base che vuole partecipare, non soltanto per motivazioni democratiche, ma anche per vincere che, naturalmente, è una delle tutt’altro che poco nobili motivazioni politiche.

Non è affatto difficile stabilire, nelle situazioni che se lo possono permettere, penso ad almeno una circoscrizione della Lombardia, all’Emilia-Romagna e alla Toscana (ma sono certo che anche in altre aree del paese esistano e si manifesterebbero apprezzabili pulsioni “primarie”) perché è come andare a primarie di mobilitazione e selezione. Quando esistano associazioni di qualsiasi tipo, ovviamente democratiche e progressiste (vorrei anche aggiungere “laiche”), che vogliano sottoporre candidature accompagnate da un numero di firme a sostegno, né troppo basso, per evitare il folclore, né troppo alto, per consentire una pluralità di espressioni, è diffusa la consapevolezza che gli strumenti già esistenti, le tecniche già utilizzate pochi mesi fa, gli attivisti impegnati siano in grado di garantire un rapido svolgimento delle primarie, nell’arco di non più di tre settimane. Si tratta di pervenire alla predisposizione di elenchi di candidature che contengano più nominativi del numero dei parlamentari da eleggere e affidare la scelta a chi vorrà recarsi alle primarie, con il solito contributo in Euro, servirà in parte per le spese della campagna elettorale nazionale, in parte per quelle delle organizzazioni di partito che avranno fatto le primarie. Chi andrà a votare alle primarie esprimerà una sola preferenza. Verranno in questo modo individuate sia le candidature per Camera e Senato (ovviamente, salvaguardando le poche posizioni di rilievo nazionale) sia l’importantissimo ordine di lista con le candidate e candidati più votati che verranno collocati in testa. Tutto questo è, insisto, allegramente e rapidamente fattibile.

È probabile che, dal livello del loft nazionale, non si riesca a vedere e a capire con chiarezza quanto importante sia per ciascun ambito locale, dove si fa politica giorno dopo giorno, disporre dell’opportunità di utilizzare le primarie come strumento di informazione per il Partito Democratico al fine di raggiungere un elettorato più ampio e che, ponendo a disposizione di quell’elettorato una scelta importante, lo coinvolga attivamente nella campagna elettorale. Lo slancio delle primarie svolte per la selezione dei parlamentari durerebbe per tutta la compagna elettorale e consentirebbe di “sfruttare” tensione, impegno, partecipazione diffusi. Il Partito Democratico non si troverebbe a “correre da solo”, ma sarebbe calorosamente accompagnato da centinaia di migliaia di simpatizzanti soddisfatti dall’avere potuto scegliere il/la “loro” parlamentare e vogliosi di contribuire al suo successo. Non manca il tempo per le primarie purché non manchi la volontà, in questo caso, davvero, “politica”. Sì, possiamo.

Pubblicato il: 10.02.08
Modificato il: 10.02.08 alle ore 8.03   
© l'Unità.


Titolo: Il Valore dei Radicali
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 02:25:08 pm
Il Valore dei Radicali

Gianfranco Pasquino


A questo punto sappiamo che il Partito Democratico non correrà davvero tutto solo e soletto, ma sarà accompagnato da Di Pietro e dai Radicali. Dunque, in termini di rappresentanza, di moralità, di competenza, sarà accompagnato molto bene da coloro che, senza, ovviamente, esserne gli unici depositari, hanno combattuto, in special modo, i Radicali, lunghe e nobili battaglie in nome di valori e di diritti che in Italia hanno sempre incontrato molti ascolti.

Prendiamo atto della saggezza dei «negoziatori» dai quali arriva quella che è senz’altro una buona notizia. D’altronde, sia Di Pietro sia i Radicali, in particolare con Pannella, avrebbero già voluto partecipare all’atto fondativi del Partito Democratico, vale a dire, alla competizione per l’elezione del segretario del Partito. Malamente frustrate, le loro intenzioni, allora, erano di impegnarsi nella costruzione di una organizzazione politica più ampia, più «mossa» e più articolata di quella derivante dal solo incontro fra Democratici di Sinistra e Margherita.

Si sono anche caratterizzati come leali alleati del governo dell’Unione. Oggi, le lodevoli e apprezzabili intenzioni del movimento dell’Italia dei Valori e dei Radicali consistono nella disponibilità a di contribuire sia ad una campagna elettorale che continua ad essere molto difficile sia alla ridefinizione dello schieramento partitico italiano.

Naturalmente, nella decisione di stringere un accordo figurano, per entrambi contraenti, anche inevitabili esigenze di sopravvivenza politica e di presenza parlamentare. Ma è opportuno, è giusto, è positivo che le idee di Antonio Di Pietro e di Emma Bonino (sì, lo so, sto deliberatamente personalizzando, ma in maniera positiva, data la rilevanza delle due figure, l’analisi politica) abbiano anche una tribuna parlamentare dalla quale esprimersi e, eventualmente, con un risultato favorevole, una tribuna governativa nella quale mettere a frutto le loro capacità, il loro impegno e il loro indubbio senso dello Stato.

A questo punto, il Partito Democratico si presenta non soltanto, se posso permettermi di rilevarlo, più «democratico», ma anche più forte percentualmente (non dimentichiamo che parlando di «rimonta» segnaliamo anche che sappiamo di essere ancora indietro) e molto più soddisfacentemente articolato dal punto di vista politico e culturale nonché sicuramente più rappresentativo di un elettorato d’area che su molte tematiche apprezza le posizioni dei Radicali. Chi vuole effettivamente un partito plurale che sia laico e che rappresenti una opinione pubblica che pensa che le tematiche etiche fanno concretamente parte di un esauriente dibattito elettorale poiché partiti e parlamentari debbono dichiarare all’elettorato come la pensano e indicare le soluzioni che auspicano, non può che rallegrarsi che, con i Radicali, il confronto interno al Partito Democratico si arricchisca e che esista un contrappeso a posizioni teo-dem fino ad oggi persino troppo preminenti e premiate.

Questa campagna elettorale ha anche bisogno di attivisti convinti che perseguano quella che una volta veniva definita la pratica dell’obiettivo, ovvero l’individuazione di tematiche che potrebbero essere decisive e di priorità chiaramente delineate. Credo che si possa contare sul contributo di idee dei radicali e sulla partecipazione dei loro molti militanti che, distribuiti sul territorio, sanno ancora organizzare importanti attività di connessione con un elettorato che non è necessariamente tutto teledipendente e che, quando lo è, merita di essere esposto a opinioni contrastanti.

Insomma, l’accordo fra Partito Democratico e Radicali contiene molti elementi positivi e promettenti. L’immagine del Partito Democratico si è arricchita e precisata. In alcune regioni, che potrebbero essere decisive, si riapre la competizione per il premio di maggioranza. Adesso non resta che sfruttare al meglio una ritrovata unità di intenti di chi è fermamente convinto che un Partito democratico, laico, che vuole perseguire giustizia e moralità ha la possibilità di fare spostare qualche milione di elettori che condividano questi obiettivi. Con il permesso di Obama, ripeterò, senza retorica e senza eccessi, senza illusioni e senza ipocrisie, che con il nuovo schieramento di forze, molto si può effettivamente fare.

Pubblicato il: 22.02.08
Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.16   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Una campagna comparativa
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2008, 05:42:38 pm
Una campagna comparativa

Gianfranco Pasquino


La campagna elettorale è stavolta cominciata alquanto sottotono. Naturalmente, se il sottotono fosse la conseguenza benvenuta della decisione di entrambi i maggiori contendenti di rinunciare ad attacchi personali e agli insulti, potremmo anche rallegrarci e sperare che questa situazione continui fino al giorno delle elezioni.

Specchio delle mie brame chi è il più bravo del reame? Quelle che negli Stati Uniti d’America vengono definite campagne "negative" (nella quale, sentendosi in caduta, sta scivolando Hillary Clinton), condotte con spot televisivi offensivi e ingannevoli, talvolta, addirittura falsi, non soltanto possono essere molto sgradevoli, ma non comunicano informazioni politiche rilevanti e finiscono, talvolta, come nel 2004, per inquinare drammaticamente l’esito del voto. Tuttavia, è inevitabile che se uno dei contendenti ricorre alla campagna elettorale negativa anche l’altro sia costretto a incamminarsi lungo quella strada e a rispondere, magari non colpo su colpo, ma con l’obiettivo di svuotare gli argomenti truffaldini usati contro di lui. In caso di conflitti negativi di questo genere, è difficile dire quanto la moderazione paghi. Esiste, però, anche un altro tipo di campagna elettorale che vorrei definire, spero senza scandalizzare nessuno, con il termine derivante dalla pubblicità, campagna comparativa. In questa fattispecie, l’uno o l’altro dei contendenti, se non, meglio, tutt’e due, spiegano, con dati, cifre, fatti, valutazioni di costi e conseguenze, le proprie proposte politiche confrontandole puntigliosamente con quelle del suo avversario, e nessuno dei due rinuncia a ricordare all’elettorato quanto ottimamente abbia governato lui e quanto pessimamente abbia governato l’altro.

Qualsiasi elettorato, la cui attenzione all’inizio della campagna è per forza di cose alquanto limitata, sarà comunque esposto a questi messaggi comparati e quasi certamente interessato alle indicazioni e valutazioni sufficientemente precise che ne conseguono. Tanto è vero che la novità iniziale della campagna elettorale di Veltroni è consistita proprio in chiara e netta contrapposizione della corsa solitaria del Partito Democratico paragonata sia al passato convulso e conflittuale dell’Unione sia ad un centro-destra a sua volta ancora composito e confuso. L’effetto di aggregazione esercitato dal PD sul Popolo delle Libertà è da valutare positivamente e la competizione, con buona pace di Bertinotti e di Casini, viene sicuramente vista dall’elettorato come chiaramente bipolare e non prodromo di nessuna Grande Coalizione. Proprio per queste ragioni, chiarezza di scelte e alternatività di leadership, mi sembra che fin da adesso, Veltroni dovrebbe intraprendere e perseguire con determinazione una campagna comparativa. Non contrapporrei l’età e neppure discuterei di esperienza politica. Sono entrambe tematiche sulle quali è giusto che gli elettori diano valutazioni diverse con pesi diversi. Non sarei neppure preoccupato dall’emergere di eventuali critiche alla demonizzazione dell’avversario che, probabilmente, Veltroni vuole evitare, ma che ne frenano lo slancio e il confronto. Si ha demonizzazione quando l’avversario viene attaccato nella sua persona e si rivangano avvenimenti del passato che, per quanto magari anche veramente svoltisi, tendono a metterlo in cattiva luce come uomo e non come politico e come candidato. La rinuncia alla demonizzazione, quand’anche non del tutto condivisa nell’elettorato di alcuni settori del centro e della sinistra, è positiva in sé. Inoltre, evita che emergano sul versante delle destra atteggiamenti vittimistici che, in parte, possono fare presa su alcuni settori di elettorato indeciso, specialmente se nutrito di antipolitica. Ma un conto è rinunciare alla demonizzazione, un conto qualitativamente diverso è abbandonare del tutto un confronto fra le capacità di governo dei due contendenti. In questo caso, tenere basso il tiro della critica mirata e documentata nei confronti dell’antagonista Berlusconi rischia di essere un errore con conseguenze anche gravi, soprattutto se la rimonta, appena iniziata, vuole continuare gradualmente. Comincia il tempo nel quale non solo dovranno venire sottoposti a confronto i più importanti (preferibilmente non tutti, se non si vuole fare confusione nell’elettorato) punti programmatici e fatte emergere le effettive priorità, con i loro costi e i loro presumibili miglioramenti sulla vita dei cittadini, ma la comparazione dovrà estendersi proprio alle qualità personali e politiche dei contendenti. Bisognerà, insomma, che Veltroni ricordi agli elettori le promesse non mantenute del suo oppositore, detto chiaramente, di Silvio Berlusconi, gli inconvenienti, in materia economica e costituzionale, del suo lungo periodo di governo (2001-2006), il bassissimo profilo e prestigio della sua politica estera e, in special modo, quella condotta in Europa dal suo governo e dai relativi ministri. Non basta, infatti, presentarsi con proposte buone, per quanto sicuramente meglio definibili e migliorabili. Diventa imperativo procedere con determinazione ad un confronto personale e politico con il candidato Silvio Berlusconi, chiamato in causa con il suo nome e cognome e con tutte le sue inadeguatezze come governante. La campagna comparativa promette di essere più interessante, più coinvolgente e, con tutta probabilità, in special modo quando si arriverà agli ultimi dieci decisivi giorni precedenti il voto, anche molto più efficace.

Pubblicato il: 25.02.08
Modificato il: 25.02.08 alle ore 8.33   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - Se Zapatero se Veltroni
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2008, 03:27:52 pm
Se Zapatero se Veltroni

Gianfranco Pasquino


In un mondo globalizzato, nel quale le informazioni circolano ampiamente e liberamente e rimbalzano su una pluralità di strumenti: televisioni, radio, internet, telefonini e, non necessariamente ultimi, i quotidiani e i settimanali, è possibile che quanto succede nei diversi sistemi politici, in particolare, in quelli più importanti, influenzi un po’ dovunque gli avvenimenti e le opinioni dei cittadini più attenti. Questa impennata di informazioni e di attenzioni è, poi, naturalmente, più probabile in occasioni elettorali quando la posta in gioco è piuttosto consistente. Nel fine settimana che sta arrivando, gli elettori spagnoli dovranno scegliere, in una competizione chiaramente bipolare (pur tenendo conto che, poi, anche i voti della sinistra e di alcuni partiti regionalisti potranno avere un certo, al momento indefinibile, peso nella Camera dei deputati), fra il Partito socialista del Presidente del governo José Luis Zapatero e il Partito Popolare di Mariano Rajoy, attualmente all’opposizione. Nei duelli televisivi, Zapatero ha avuto, seppur di poco, la meglio, ma, come dovremmo avere già imparato, le elezioni si vincono e si perdono anche «semplicemente» portando alle urne tutti i propri elettori. Nel frattempo, negli Stati Uniti d’America si stanno dipanando appassionanti elezioni veramente primarie per la scelta della candidatura democratica (quella repubblicana sembra già essere appannaggio del settantunenne eroe di guerra John McCain) alla Presidenza della Repubblica. È innegabile che quella parte di elettorato italiano che vota a sinistra senta affinità per il Psoe e per i Democratici Usa e abbia molta simpatia per i loro candidati. Non è una manifestazione di provincialismo quanto, semmai, di opportuno consapevole cosmopolitismo: quanto succede altrove interessa anche l’Italia e può influenzarne la politica e l’economia. Non è questione di ideologia, ma di convinzioni simili, di collocazione, di politiche che, certamente con qualche diversità, dai socialisti spagnoli ai democratici americani, sono, nei limiti del possibile, non troppo diverse, ma piuttosto lontane da quelle dei Popolari spagnoli e dei Repubblicani americani. E’ anche fuori di dubbio che gli elettori potenziali del Partito Democratico italiano preferiscano, non soltanto, «ma anche», per il nome del partito, i candidati democratici USA e, almeno per le posizioni politiche e nel confronto con i Popolari, abbiano una chiara propensione a sperare nella riconferma di Zapatero al governo della Spagna.

Ma, quanto quegli avvenimenti possono incidere sulla campagna elettorale italiana e sul suo esito il 13 e 14 aprile? Non c’è nessun dubbio che le vittorie dei Democratici Usa hanno abitualmente esercitato un effetto positivo sulle fortune dei partiti riformisti delle democrazie occidentali. Per utilizzare un termine oggi molto diffuso, quelle vittorie aprivano la strada alla speranza di cambiamenti praticabili, una strada sulla quale diventava più facile per i riformisti incamminarsi e che veniva percorsa anche con la benevola attenzione dei democratici USA. Che Walter Veltroni creda nella possibilità che una eventuale, nient’affatto improbabile, vittoria di Obama, risulti importante anche per le sorti del Partito Democratico italiano e, in special modo, che esistano affinità da evidenziare e da sfruttare, appare lampante fin dal ricorso allo slogan inventato da Obama e cantato dai suoi sostenitori: «Yes, we can». Un democratico alla Casa Bianca, soprattutto quel democratico che, come ha scritto Empedocle Maffia nell’introduzione ai discorsi del Senatore dell’Illinois, rappresenta «l’ultima declinazione del sogno americano», darebbe un segnale politico di grande importanza a favore del cambiamento. Tuttavia, per le elezioni italiane arriverebbe troppo tardi. Invece quello che succederà in Spagna domenica 9 marzo può influenzarci più direttamente e più immediatamente. A confronto con un possente Partito Popolare, sostenuto con vigore e furore dalla Chiesa cattolica, Zapatero non ha manifestato nessun cedimento in materia di laicità. Ha anche attuato politiche economiche di sviluppo tanto che la Spagna si sta avvicinando all’Italia a grandi falcate. Ha persino mirato al contenimento e alla riduzione delle disuguaglianze, in parte inevitabili ogniqualvolta si vivano situazioni di notevole accelerato sviluppo. Una vittoria della destra, che agita la sua campagna negativa basata sulla paura, ringalluzzirebbe il Popolo berlusconiano delle Libertà e i sedicenti atei più o meno devoti. Al contrario, la seconda vittoria di Zapatero e del Partito Socialista Operaio Spagnolo, sarebbe di conforto in Italia a quanti, e sono molti, credono che un partito riformista sia in grado di attuare politiche innovative e con quelle politiche, che sono buone perché non scontentano affatto tutti, sia possibile vincere e rivincere le elezioni.

Se si può fare in Spagna, perché non anche in Italia?


Pubblicato il: 05.03.08
Modificato il: 05.03.08 alle ore 8.37   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - La lezione di un galantuomo
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2008, 03:46:25 pm
La lezione di un galantuomo

Gianfranco Pasquino


No, Romano Prodi non è, come sostiene Galli della Loggia sul Corriere della Sera - quotidiano che lo aveva prima esplicitamente endorsed, appoggiato all’americana, per la penna del suo stesso direttore, poi, spesso, fatto acidamente criticare dai suoi editorialisti - un imbarazzante nonno che un ingrato centro-sinistra ovvero, meglio, gli smemorati, non a caso, ex-comunisti avrebbero già messo in soffitta, e non esclusivamente per ragioni elettorali. Non è neppure un disoccupato, un nonno per tutte le stagioni e per tutte le cariche, come ha pensato qualche fantasioso giornalista, a corto di idee, candidandolo a sindaco di Bologna. La risposta di Prodi è stata del tutto prevedibilmente negativa, e la motivazione già allora apprezzabile: dedicare più tempo ai suoi nipotini. Adesso ne sappiamo di più, con parole che sembrano venire dall’Ecclesiaste: c’è un tempo della politica, nazionale e internazionale e c’è un tempo dell’impegno altruistico anche fuori dalla politica (e non necessariamente nelle banche e nei consigli di amministrazione, peraltro non necessariamente luoghi riprovevoli). Proprio chi, come me, lo ha criticato più di una volta, su questo giornale (e altrove) per le sue concezioni politiche e per le sue modalità d’azione e di comunicazione, ha non soltanto il dovere, ma anche il diritto di ricordare, anche e soprattutto agli immemori smemorati del centro-sinistra italiano, quanto in Parlamento e nel Paese, dobbiamo ai governi guidati da Romano Prodi e a lui stesso, personalmente.

Senza la sua disponibilità, per due volte il Paese e noi avremmo dovuto subire (sì, è esattamente il verbo che considero maggiormente appropriato) governi guidati da Berlusconi e, nel secondo caso, ovvero nel 2006, avremmo corso il serio rischio di un abbozzo di regime: dieci possibili anni consecutivi di governo del centro-destra nonché la loro conquista di tutte le cariche, Presidenza della Repubblica compresa, e la fuoruscita dell’Italia dal consesso dell’Europa che conta. Senza Romano Prodi (e senza l’intelligenza politica di Beniamino Andreatta) l’avvicinamento fra ex-democristiani e ex-comunisti e l’esperienza dell’Ulivo, prodromo del Partito Democratico sarebbero semplicemente stati impossibili. Soltanto la pazienza politica e personale di Prodi unitamente, se si vuole, alla sua tenacia, hanno permesso la durata e persino la innegabile, perché testimoniata da cifre e da riconoscimenti internazionali, opera di risanamento dell’economia italiana dentro una coalizione altrimenti portata ai litigi e alle differenziazioni personalistiche al limite del narcisismo. Aggiungo, particolare nient’affatto banale, che, quando vado in giro per conferenze, ma anche quando sono in coda al supermercato, sento spesso dire che Romano Prodi è una brava persona, non un esponente della “casta”. Non è un’affermazione frequente quando il discorso cade su persone che hanno ricoperto prestigiose cariche di rappresentanza e di governo. Né si deve dimenticare che, non soltanto in Italia, sono rarissime le fuoriuscite dalla politica che non vengano contrattate e scambiate con qualche altra visibile carica di potere e altamente remunerativa. Dovrei forse menzionare il ruolo acquisito dall’ex-cancelliere tedesco Gerhard Schröder in Gazprom o quello conferito all’ex-Primo ministro inglese Tony Blair, inviato speciale in Medio Oriente?

Certamente amareggiato, Romano Prodi esce, senza cercare rivincite e ricompense, dalla scena politica italiana, alla quale ha dato molto, e dalla quale, oltre alle amarezze, ha anche ricevuto molto. Un giorno, non troppo lontano, dovremmo, credo, interrogarci su quello che non ha funzionato nei governi di Prodi o, meglio, nelle alleanze composite a suo fondamento. Il Partito Democratico sta tentando una risposta politica abbastanza coraggiosa: meglio meno, ma meglio (in termini di compagni di strada e di governo), che non esaurisce il problema. È una risposta che, senza sottovalutarne le difficoltà, Prodi condividerebbe, magari interrogandosi se non sarebbe stato possibile anche prima tentare soluzioni coraggiose. La scelta di non ricandidarsi, di non dare facili armi alle destre, di non cercare altre cariche, certamente praticabili, costituisce una lezione non soltanto politica, non soltanto di stile, ma anche di sostanza che merita rispetto e apprezzamento. Dovrebbe essere accompagnata, appena saremo usciti dalla tormenta elettorale, da un’operazione di verità e da una rivendicazione dei successi.

Nel decennio di una transizione politico-istituzionale incompleta, forse sottovalutata da Prodi (e dai suoi, non sempre all’altezza, consiglieri) nella sua gravità e nella ricerca di soluzioni, sono stati i due governi di Romano Prodi che hanno, prima, portato l’Italia nell’Euro e, poi, ricondotto l’Italia nei parametri di Maastricht. Vedremo se i prossimi governi sapranno fare meglio, mentre Prodi, con il nostro augurio, si impegnerà non soltanto ad essere un nonno premuroso, ma anche a diventare un operatore internazionale in grado di esprimere le sue capacità e la sua non formale solidarietà.

Pubblicato il: 10.03.08
Modificato il: 10.03.08 alle ore 8.17   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO - La lezione spagnola
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2008, 06:00:15 pm
La lezione spagnola

Gianfranco Pasquino


Gli elettorati della Spagna e della Francia confermano ovvero, per chi non ci avesse mai creduto, lanciano un messaggio alto e chiaro: i partiti socialisti non hanno perso nessuna spinta propulsiva. Quando governano, come il Partito Socialista Operaio Spagnolo, sono anche in grado di rivincere le elezioni. Dopo una sconfitta elettorale, peraltro meno drammatica di quello che è stato detto, sanno, come i socialisti francesi, rimettersi al lavoro e riacquistare importanti posizioni. Dalla Francia delle molte migliaia di comuni, il Parti Socialiste francese potrà, una volta definita la spinosa questione della leadership, prendere lo slancio per tornare all’Eliseo presidenziale.

Tutti coloro che, per decenni, hanno ripetuto alcuni logori slogan sulla fine delle socialdemocrazie, sul logoramento delle loro esperienze, sulla necessità di un superamento e, addirittura, sull’imperativo di ricercare una “terza via” fra le socialdemocrazie reali e i comunismi realizzati, sono sempre stati in errore. È dimostrato che la terza via non esiste(va), e non soltanto perché il punto di riferimento comunista è miserevolmente crollato. La via socialdemocratica (o democratico sociale, se così preferisce chiamarla Zapatero) è ancora percorribile con successo, anche inserendovi, come è non soltanto giusto, ma anche opportuno, gli adattamenti resi necessari dalla storia e dalla configurazione politica di ciascun Paese.

Per saperne di più e capire meglio quello che succede nei socialisti, in Spagna e in Francia, dovremmo, anzitutto, ricordare che, per ragioni diverse, i due partiti, pur avendo una storia politica lunga, rinascono all’inizio degli anni Settanta: il PS francese nel 1971, mentre il PSOE ricompare alla superficie nel corso della transizione spagnola alla democrazia (1977-1982). Non hanno, dunque, il peso di un passato, ma si ricostruiscono nelle sfide e con riferimento ad un elettorato nuovo, diversificato, “moderno”. Al loro interno, alcune classiche divisioni sociologiche, di collocazione nel mondo del lavoro e del consumo, sintetizzate come “materialisti” contro “post-materialisti”, hanno poco spazio e creano poche tensioni. Altrove, ricordo che il New Labour, non a caso ribattezzato con questo termine, viene abilmente guidato da Tony Blair, e dal sociologo Anthony Giddens, oltre i confini del passato materialista. L’approdo non è stato esclusivamente la conquista di una parte dell’elettorato inglese di centro, ma è soprattutto consistito nell’acquisizione di una cultura di governo che si traduce in soluzioni concrete e nella fiducia di elettori che non sono definibili “spazialmente” (centro, destra, sinistra), ma con riferimento alle loro aspettative riformiste.

Naturalmente, una volta al governo le politiche riformiste, sociali, economiche, culturali, anche di laicità e libertà, bisogna attuarle e il loro successo, in Spagna e, con qualche maggiore difficoltà, in Francia, a causa della sua struttura sociale, parecchio simile a quella italiana, e ancora di più in Gran Bretagna, alimenta le vittorie elettorali, nonostante l’ostilità e l’alto “gradimento” dei vescovi spagnoli. È giusto rallegrarsi se i socialisti e i laburisti vincono in Europa, e se i Democratici vinceranno negli Stati Uniti d’America. Ma mi pare ancora più giusto riflettere se non ci sia ancora qualcosa di utile e di importante proprio nella definizione di socialista.

Qualche volta, Pierluigi Bersani ricorda ai Democratici del suo partito che bisogna usare la parola “sinistra”. Qualche tempo fa aveva anche annunciato la sua preferenza per la costruzione di un partito da combattimento. Non tutti (è un eufemismo) pensano che il Partito Democratico di Veltroni sia effettivamente diventato un partito di combattimento né che si sia organizzato per diventarlo. Molti ritengono che “socialista” sia un aggettivo che evoca politiche e prospettive più chiare e, forse, più trascinanti dell’aggettivo “riformista”. I due aggettivi potrebbero anche convivere purché vengano usati in maniera concomitante. Ralf Dahrendorf ha scritto che il Ventesimo secolo è stato il secolo socialdemocratico. In parte, certamente sì; in parte, probabilmente no, ma il punto è che le socialdemocrazie si sono insediate come grandi organizzazioni politiche e come competenti partiti di governo in quel secolo e hanno prodotti incisive politiche di riforme sociali (welfare) e economiche (keynesismo). Innovando su quelle politiche, senza rinnegarle, esiste ancora un ampio spazio socialdemocratico.

Prendendo la terminologia a prestito da Zapatero, molti nel Partito Democratico italiano e nei suoi dintorni sarebbero lieti di definirsi democratici sociali e di agire di conseguenza, proponendo politiche coerenti che perseguano, grazie alla crescita economica e alla consapevolezza culturale, la riduzione delle disuguaglianze sociali, di opportunità e di esiti. Si potrebbe fare.

Pubblicato il: 11.03.08
Modificato il: 11.03.08 alle ore 11.56   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. L’ultima settimana
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 06:32:44 pm
L’ultima settimana

Gianfranco Pasquino


I sondaggi rilevano che la percentuale di italiani indecisi, non soltanto per quale partito votare, ma anche se votare il 13-14 aprile, ruota intorno al trenta per cento dell’elettorato. È una cifra più elevata del passato che si spiega, in parte, con la più limitata offerta partitica in queste elezioni, in parte, con la non particolarmente brillante e trascinante campagna elettorale finora condotta dalle due maggiori formazioni politiche.

Sappiamo che le campagne elettorali servono ai partiti, anzitutto e soprattutto, a ri-motivare i propri elettori e, soltanto in seguito, a cercare di convincere e “convertire” gli elettori degli altri partiti, dell’altro schieramento, senza scontentare e perdere i “propri”.

Nella attuale situazione sia il Partito Democratico sia il Popolo delle Libertà, a causa della loro relativa novità, debbono andare alla ricerca e alla raccolta del maggior numero di coloro che furono elettori dei loro precedenti schieramenti politici. Inoltre, il Partito Democratico deve fare i conti con i delusi dalla propria esperienza di governo terminata in maniera brusca e triste dopo un troppo lungo logoramento.

In generale, gli indecisi non rappresentano un blocco unico e coeso, ma sono la somma di elettori che hanno preferenze politico-elettorali non molto solide e non particolarmente intense. Sono probabilmente anche elettori che, in maniera più o meno consapevole, non hanno ancora dedicato sufficiente attenzione alla campagna elettorale poiché debbono fare fronte e risolvere altri, più urgenti e più importanti problemi quotidiani. Naturalmente, molti di loro hanno inclinazioni politiche e partitiche che, in un certo senso, finiranno per “resuscitare” in mancanza di altri stimoli quando sentiranno di dovere decidere se e per chi votare.

Il fenomeno non è affatto nuovo poiché, non soltanto in Italia, una componente non marginale degli elettori indecisi inizia a fare davvero attenzione alle proposte in campo, ai leader, ai partiti che intendono votare e alle eventuali conseguenze del loro voto (“utile” o di “testimonianza” di una appartenenza, di classe, religiosa, territoriale, amicale) all’incirca nella settimana precedente l’appuntamento elettorale. Allora, al fine di uscire elegantemente dalla loro indecisione, quegli elettori guarderanno qualche programma televisivo specifico, ascolteranno qualche dibattito radiofonico, leggeranno qualcosa di più dei semplici titoli degli articoli dei quotidiani, e, non da ultimo e senz’altro in maniera non meno influente, parleranno di politica con le persone delle quali si fidano, fra parenti, amici, colleghi di lavoro (quasi non oso aggiungere opinion-maker). Riusciranno in questo modo ad arrivare davanti alla cabina elettorale senza sentirsi in imbarazzo con un’opinione adeguatamente formata, pronti a tracciare la fatidica “X”.

Proprio perché la loro indecisione attuale dipende dalla loro più o meno deliberata mancanza di attenzione per la campagna elettorale, gli indecisi non sono probabilmente stati influenzati da fenomeni quali la formazione delle liste (con i ciarrapichi di turno), dalle affermazioni nobili e altisonanti dei leader o dalle loro gaffe (come quella sull’invito alle ragazze precarie a sposarsi presto e bene). Qualcosa di politicamente rilevante arriva alle loro orecchie soltanto per essere quasi subito dimenticato ed è improbabile che gli eventi di questi giorni conteranno in maniera decisiva fra tre settimane al momento del voto. Se le cose stanno così, non è conveniente rincorrere e motivare gli indecisi adesso. Conviene, invece, ad esempio a Veltroni, tentare di raggiungere tutti coloro che nel 2006 abbiano già votato per l’Unione e convincerli che con il Partito Democratico avranno un futuro sicuramente migliore. Saranno poi gli elettori sicuri e decisi del Partito Democratico a funzionare come volàno per raggiungere gli indecisi, per coinvolgerli e, se necessario, per convertirli.

È essenziale conservare per gli ultimi dieci giorni della campagna elettorale alcuni degli argomenti politici più importanti e più interessanti, magari anche semplici, positivi e più rumorosamente efficaci perché imprevedibili. Bisogna anche evitare di commettere errori, che sarebbero irreparabili e, conoscendo l’antagonista, la sua fantasia, i suoi giochi di prestigio (sperando anche che non abbia esaurito le sue gaffe), prepararsi a indovinare e a contrastare il coniglio (delle libertà) che cercherà di estrarre dal suo cappello.

Pubblicato il: 16.03.08
Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.45   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. I cattolici e le sirene
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 12:18:59 am
I cattolici e le sirene

Gianfranco Pasquino


Quando sento parlare di voto cattolico, mi pare di tornare ai (bei?) tempi in cui la sinistra, ovvero il Partito Comunista, cominciava le sue campagne elettorali affermando che, oltre ai cattolici, era necessario rafforzarsi fra le donne e i giovani e, naturalmente, anche nel Mezzogiorno. Se, poi, le elezioni erano andate male, su Rinascita venivano convocati gli intellettuali organici che facevano apparire dotte analisi su ciascuno di quei gruppi.

Il tutto culminava con la riunione solenne del Comitato Centrale nella quale il segretario forniva la sua incontrovertibile interpretazione e dava la linea a futura memoria. Naturalmente, allora i cattolici avevano, se lo volevano, il loro partito di riferimento con forti propensioni ad una interpretazione laica della politica, ma capace di rappresentarne efficacemente le preferenze economiche, sociali, politiche.

Oggi, pensare che la maggioranza dei cattolici italiani abbia un voto che può essere chiesto e può essere ottenuto con riferimento esclusivo o dominante alla loro appartenenza o, meglio, pratica religiosa mi pare alquanto, se non parecchio, sbagliato. Certamente, una parte rilevante di cattolici praticanti e organizzati in, peraltro non floridissime associazioni (tranne, ovviamente, Comunione e Liberazione) - comunque, non più del 30 per cento della popolazione, dell’elettorato - valuta al momento del voto le proposte dei diversi partiti e schieramenti anche, ma tutt’altro che esclusivamente, con riferimento ad alcune tematiche sulle quali la Chiesa e i suoi vescovi hanno espresso posizioni nette e, (troppo) spesso, ultimative. Per molti altri cattolici, invece, lo ha rilevato con la consueta affidabilità il sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato su la Repubblica del 17 marzo, il voto non è condizionato né, tanto meno, determinato, esclusivamente da tematiche in senso più o meno lato, religiose. Infatti, la scala delle priorità dei cattolici contempla, in maniera molto simile a quella di larghissima parte dell’elettorato italiano, altri problemi, urgenti, rilevanti, che debbono essere affrontati e risolti dai partiti in parlamento. Dunque, non è opportuno tentare di attrarre il voto cattolico come se fosse un blocco omogeneo, indifferenziato, orientato a esprimere comportamenti compatti. È, invece, corretto tenere conto di alcune esigenze, ad esempio, le politiche a sostegno della famiglia, l’istruzione, il lavoro, che attireranno l’attenzione dei cattolici, ma che sono sostanzialmente presenti, con pesi non dissimili, sull’agenda di quasi tutti gli elettori italiani.

Pensare che i cattolici debbano ricevere attenzione particolaristica e mirata, esclusiva e isolata, perché da loro dipenderebbe l’esito complessivo del voto, mi pare costituisca una decisione politica non sufficientemente fondata e, probabilmente, ingiustificabile. I cattolici hanno molte “divisioni” (in senso militare, quelle che Stalin pensava che il Papa non avesse), ma vanno in ordine sparso, alcune attratte sicuramente e soddisfacentemente dall’Udc di Casini. Altre seguono percorsi ispirati dalle loro condizioni di vita e dalle loro aspettative che, insisto, non sono sostanzialmente differenti da quelle dell’elettorato in generale. Quindi, andranno un po’ a destra, dentro il Popolo delle Libertà, ma certamente anche verso il Partito Democratico, addirittura più di un terzo, secondo i dati di Diamanti, pochissimi nella Sinistra Arcobaleno perché il voto dei cattolici non è mai estremo/estremista. Apprezzeranno, queste divisioni di cattolici, di essere trattati come elettori effettivamente e concretamente adulti e emancipati, attenti alle qualità dei leader e dei candidati, attratti da proposte programmatici chiare e convincenti, desiderosi di buon (e stabile) governo. Insomma, il loro voto viene conquistato, uno per uno e non in blocco, proprio come quello delle donne, dei giovani, del Mezzogiorno. Una efficace combinazione di proposte credibili raggiunge e convince cattolici e non cattolici. La ricerca del voto cattolico, con ossequio ai pronunciamenti dei vescovi e del Papa (che immagino favorevole al sistema elettorale tedesco), finisce rapidamente per sembrare strumentale, comunque, è un indicatore di subalternità culturale che comporta il rischio del contraccolpo.

Un Partito come quello Democratico deve limitarsi a segnalare la rilevanza del suo programma per il governo del Paese e, se del caso, dell’esistenza di candidati cattolici al suo interno. I voti dei cattolici che desiderano cambiamenti moderati, ma credibili, come quelli, molto più abbondanti, dei non-cattolici, vi confluiranno senza particolari difficoltà.

Pubblicato il: 20.03.08
Modificato il: 20.03.08 alle ore 13.28   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Voto strategico perché insisto
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2008, 05:56:45 pm
Voto strategico perché insisto

Gianfranco Pasquino


Decine di milioni di elettori italiani hanno fatto regolarmente uso del voto disgiunto tutte le volte che se ne è loro presentata la possibilità: per Camera e Senato votando con la proporzionale, per i collegi uninominali di Camera e Senato e la lista proporzionale quando si è votato (1994, 1996, 2001) con il Mattarellum, per Comuni, Province, Regioni, Quartieri. Sanno come farlo, guardando liste e candidati e tenendo conto delle priorità; e, naturalmente, decidono di conseguenza.

Qualche volta l’indicazione viene, per così dire, dall’alto, come nel 1996 quando il Pds suggerì, selettivamente, al suo elettorato di convergere sulla lista proporzionale guidata da Dini per farle superare la fatidica soglia del 4 per cento. Con successo. Né si deve dimenticare la riprovevole esperienza delle liste civetta di cui, nel 2001, si avvalsero Berlusconi e, in misura minore, anche alcuni partiti del centro-sinistra (con la conseguenza che alla Camera dei deputati non vennero attribuiti undici, e poi dodici rappresentanti). Nella letteratura elettorale internazionale, sia il voto disgiunto che il voto strategico, vale a dire orientato non solo, ma anche a fare perdere i candidati e i partiti più sgraditi sono, come è noto a (quasi) tutti gli studiosi di politica, ampiamente studiati. In generale, si può dire che votare disgiunto e strategico è una prerogativa dell’elettore che, magari con un aiutino dei suoi dirigenti ovvero degli opinion-makers, si orienterà in quel senso perseguendo una pluralità di obiettivi.

Il caso tedesco è, da questo punto di vista, esemplare. Da sempre i due partiti più grandi hanno fatto confluire voti sui due partiti più piccoli, che fossero loro alleati per la conquista del governo, in modo da fare loro superare la soglia del 5 per cento. Senza moralismi e senza infingimenti, il voto disgiunto e strategico (sottolineo questo aggettivo perché significa che l’elettore vuole perseguire uno o più obiettivi) fa legittimamente parte del repertorio degli strumenti democratici. Sfruttare gli inconvenienti e i punti deboli di una pessima legge elettorale, soprattutto dopo avere tentato, seppure malamente, di riformarla, è un’operazione raccomandabile anche perché potrebbe poi condurre ad un sistema elettorale decente. Dunque, i suggerimenti che stanno variamente circolando sulla carta e sul web affinché un certo numero di elettori collocati nel centro-sinistra cerchino, in alcune regioni, votando alla Camera per il Partito Democratico e orientando al Senato il loro voto sulla Sinistra Arcobaleno di ridurre il numero di seggi che potrebbe essere conquistato dal Popolo delle Libertà, sono tutt’altro che campati in aria.

È ovvio che gli iscritti al Pd dovrebbero seguire la linea del partito, anche se sappiamo che non è sempre stato così, ma nella vasta e composita platea dei partecipanti all’elezione popolare diretta del segretario Veltroni circolavano umori dei più diversi tipi, alcuni dei quali potrebbero volersi tradurre, insisto senza scandalo e senza biasimo, senza ferite alla democrazia elettorale, in un voto disgiunto e, al tempo stesso, strategico. Al Senato, sembra probabile che, da soli, né il Pd né il Pdl otterranno la maggioranza assoluta dei seggi. Dovranno, pertanto, cercare alleati.

Lo faranno da una evidente posizione di forza poiché il numero dei loro seggi sarà certamente elevato, ma sappiamo anche che la tentazione dei partiti piccoli, ma decisivi, di ricorrere al «ricatto» è, in Italia, regolarmente irresistibile. Un certo numero di elettori sono, poi, anche preoccupati dalla prospettiva, corrisponda oppure no alla realtà, di un accordo «grandi intese» fra Veltroni e Berlusconi. Altri vorrebbero un partito democratico più laico e spostato più a sinistra, ma, al tempo stesso, desiderano, «senza se e senza ma», la sconfitta di Berlusconi.

Incidentalmente, anche questo, del voto negativo ovvero contro, è un fenomeno riscontrabile e riscontrato in moltissime elezioni, a cominciare da quelle negli Usa, sempre senza scandalo e senza profluvio di dichiarazioni moralistiche. Dunque, molti elettori si chiedono se non sia utile togliere seggi al Popolo delle Liberà, responsabile di avere scritto una legge pessima e di essersi opposto alla sua riforma, con l’obiettivo di consentire una rappresentanza più ampia a componenti non inclini ad accordi con «il principale esponente dello schieramento loro (sicuramente) avverso». Come spesso succede in politica, i principi, anche quelli eventualmente ottimi, debbono fare i conti, durissimi, con la realtà. Giusta è la volontà del Pd di ottenere il massimo possibile dei voti. Ma quei voti si vedranno e si conteranno in maniera più visibile per l’elezione della Camera dei Deputati.

Per il Senato, nessuno chiede indicazioni precise e vincolanti che vengano direttamente dal segretario. Meglio, però, rifuggire dagli anatemi, in special modo se formulati su inesistenti teorie, contro chi intrattiene l’idea di votare disgiunto. Lasciamo all’elettorato di sinistra di decidere come comportarsi laddove un voto disgiunto e strategico appare in grado di avere conseguenze rilevanti (e positive) anche nei rapporti fra Partito Democratico e Sinistra Arcobaleno.

Pubblicato il: 07.04.08
Modificato il: 07.04.08 alle ore 8.13   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO Attacco al Quirinale, uno scambio perverso
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 12:44:50 am
Attacco al Quirinale, uno scambio perverso

Gianfranco Pasquino


Sarà anche un’ipotesi di scuola quella avanzata da Silvio Berlusconi (sì, lo so, «il principale esponente dello schieramento a noi avverso») di dimissioni del Presidente della Repubblica che consentirebbero l’elezione di un candidato/a del Partito Democratico alla Presidenza del Senato.

A me sembra, invece, una sorta di scambio improprio, da un lato, irricevibile, dall’altro, che nessuno può e nessuno dovrebbe garantire, a futura memoria. Non si capisce poi di quale scuola, presumibilmente istituzionale, Berlusconi stia parlando. Le sue due precedenti esperienze di governo, come potrebbero testimoniare i due Presidenti della Repubblica che hanno operato in quei difficili tempi, non sembrano essere state caratterizzate da nessuna culturale istituzionale. Semmai, abbondarono i tentativi di forzature di norme non abbastanza assimilate da lui stesso e dai suoi alleati di maggiore riferimento, ovvero dalla Lega.

Vi furono riproposizioni di leggi, appena cosmeticamente ritoccate, che il Quirinale aveva rimandato con le sue accurate annotazioni e indicazioni. Vi furono elusioni clamorose, come quelle riguardanti l’informazione e il conflitto di interessi. Ma il coronamento istituzionale della scuola frequentata da Berlusconi e Bossi, nonché da Calderoli, è rappresentato dalla legge elettorale vigente che, a mo’ di nemesi, incombe sull’esito numerico (e politico) del Senato (che, incidentalmente, "pareggio", dal punto di vista tecnico, non sarà comunque) e quindi sulla stessa possibilità di governare del capo del Popolo delle Libertà.

È vero che alcune scuole istituzionali dagli insegnamenti approssimativi hanno anche fatto la loro comparsa sul versante del centro-sinistra. Per fortuna, le loro proposte, a cominciare dal "premierato forte" e a continuare con la marmellata elettorale ispano-tedesca, con qualche escursione similfederalista, non si sono fortunatamente tradotte in pratiche. Ma lo scambio perverso che Berlusconi propone contiene qualche componente sbadatamente sovversiva.

Manda, anzitutto, un messaggio al Presidente Napolitano assicurandogli difficili rapporti istituzionali con il suo eventuale governo. Forse, se ne avesse voglia, il Presidente potrebbe fare sapere, in maniera più o meno diplomatica, ad entrambi i principali esponenti degli schieramenti che si contrappongono, che, secondo la Costituzione tuttora vigente, spetta a lui, a prescindere dai nomi impropriamente scritti sui simboli elettorali dei due partiti a vocazione maggioritaria, il delicato compito di "nominare" il Presidente del Consiglio. E, sarebbe costituzionalmente dignitoso se i nominabili/nominandi non arrivassero al Quirinale con un gigantesco, e irrisolto dalla buffa legge approvata dalla maggioranza berlusconiana, conflitto d’interessi. In secondo luogo, nessuno è in grado di prevedere quale sarà la maggioranza del Senato e sarebbe istituzionalmente gravissimo predeterminarne il primo importante atto: l’elezione del suo (della sua) Presidente.

Terzo, continuo ad essere dell’opinione, che mantengo con coerenza istituzionale, che l’elezione dei Presidenti delle Camere possa, senza scandalo, essere piena facoltà della maggioranza che ha vinto le elezioni se ha ottenuto il numero sufficiente di seggi. Il problema non è, secondo me, quello delle modalità di queste elezioni. Riguarda, invece, le qualità personali di autorevolezza, indipendenza di giudizio, competenza di coloro che verranno prescelti.

Le precedenti scelte del centro-destra, forse a causa del limitato pool di personalità fra le quali è in condizione di pescare, non hanno brillato, come dimostrano anche i percorsi successivi, più o meno politicamente rilevanti, degli ex-Presidenti. Probabilmente, la risposta migliore, perché più facilmente comprensibile, che deve essere data a Berlusconi quando propone l’improponibile scambio è: "non esiste". Tuttavia, il contrasto deve essere reso evidente anche sul piano della vera e propria cultura istituzionale. Chi vince le elezioni acquisisce il potere di governare e di fare molte importanti nomine. Non ha, invece, nessun legittimo potere di squassare le istituzioni. Non ha neppure quello di intimidire le cariche elette secondo i criteri delineati nella Costituzione: dalla Presidenza della Repubblica alla Corte Costituzionale.

L’ipotesi della "scuola" di Berlusconi non ha modo di fare breccia e di trovare accoglimento perché è assolutamente estranea alla lettera e allo spirito delle Costituzioni democratiche. Purtroppo, però, quella sua stessa scuola, per quanto dotata di un sapere approssimativo e vacillante, che tradurrà in qualche riforma costituzionale assolutamente da non incoraggiare neppure per telefono, ha inviato il suo messaggio chiaro e semplice: preparatevi a anni di conflitti inter-istituzionali. È augurabile che il Partito Democratico e la Sinistra Arcobaleno, unitamente ai loro intellettuali di riferimento, rispondano senza nessuna furbizia tattica e senza nessuna apertura di credito, ma con la rivendicazione della divisione dei ruoli, dei compiti, dei poteri e della attribuzione di precise responsabilità.

Pubblicato il: 11.04.08
Modificato il: 11.04.08 alle ore 15.25   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Quel grande vuoto alla sinistra del Pd
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2008, 06:09:38 pm
Quel grande vuoto alla sinistra del Pd

Gianfranco Pasquino


Quando la sconfitta numerica assume proporzioni notevoli e implica addirittura la sparizione di un partito dalla rappresentanza parlamentare, i primi ad interrogarsi e a criticarsi debbono essere i dirigenti di quel partito. La Sinistra Arcobaleno è stata una creatura artificiale, raffazzonata, senza programma, senza orizzonte, con molti rancori e pochi obiettivi.

Non poteva fare breccia neppure più nel suo elettorato collocatosi a cavallo fra disorientamento e irritazione, politica e sociale. Sicuramente, la Sinistra Arcobaleno è anche stata penalizzata dal voto utile che, evidentemente, non ha saputo contrastare spiegando a sua volta quanto utile, e per fare che cosa, avrebbe comunque potuto essere il voto espresso per le sue liste (e i suoi, non propri nuovissimi e convincentissimi, candidati). Adesso, qualcuno potrebbe rallegrarsi della scomparsa della Sinistra Arcobaleno a livello nazionale, e il Presidente della Confindustria Montezemolo lo ha subito fatto, ma non è stato l’unico. Troppo facile. Rimane, però, che a livello locale la Sinistra Arcobaleno ancora esiste, conta ed è attualmente determinante per la formazione e per il funzionamento di non poche giunte con il Partito Democratico. Avendo imparato la lezione, potrebbe smetterla di creare destabilizzazioni per puro egoismo partitico e, qualche volta, per esibizionismo personalistico, e dovrebbe, invece, cercare di dimostrare che la sua esistenza in quanto soggetto politico è utile, qui e adesso, ma anche nel prossimo futuro.

Dovrebbe anche preoccuparsi della dinamica del suo ex-elettorato. Infatti, i dati nazionali e quelli, più disaggregati a livello regionale e provinciale, rivelano che, aggiungerò “purtroppo”, non è affatto vero che tutti i voti mancati alla Sinistra Arcobaleno sono finiti sulle liste del Partito Democratico. Sembra addirittura che una parte di quei voti fra protesta e antipolitica abbia trovato uno sbocco credibile e accettabile nella Lega (ancora, dunque, come disse memorabilmente Massimo D’Alema, una «costola della sinistra»?) Incidentalmente, il Partito Democratico si sarà anche incamminato sulla strada giusta, ma il suo 33 per cento, per un partito a vocazione maggioritaria, non costituisce affatto un punto di approdo entusiasmante (è persino meno del 35 per cento ovvero della soglia che aveva posto Goffredo Bettini). Per andare più su a competere con il centro-destra sono indispensabili percentuali parecchio più elevate e qualcosa potrebbe venire proprio da un elettorato di sinistra che altrimenti sembrerebbe destinato a disperdersi in maniera deprimente e deludente.

Dal punto di vista sistemico, per quanto la rappresentanza politica e parlamentare che la Sinistra Arcobaleno ha saputo offrire ai suoi elettori non fosse, come ha dimostrato il loro comportamento di voto, abbastanza soddisfacente, è assolutamente fuori di dubbio che quell’elettorato, fra molti umori e pulsioni anche da contrastare con fermezza, esprimeva radicamento, preferenze, interessi, esigenze che qualsiasi organizzazione politica di sinistra ha l’obbligo di cercare di capire e di rappresentare adeguatamente. Un conto, infatti, è respingere, doverosamente, le pressioni e i condizionamenti posti da un ceto politico come quello della Sinistra Arcobaleno, schierato a difesa in special modo del suo status e dei suoi privilegi. Un conto molto diverso è cercare di ampliare, da parte del Partito Democratico, il perimetro della sua rappresentanza politica e sociale. Paradossalmente, questa operazione che, a mio parere, è tutt’altro che contraddittoria con il radicamento del partito, ma funzionale ad esso, potrebbe essere più facile se, necessariamente, svolta dall’opposizione, selezionando temi e problemi che, ovviamente e inevitabilmente, il nuovo governo di Berlusconi metterà ai margini, ma che, in un Paese caratterizzato dalle grandi disuguaglianze economiche e sociali, geografiche e generazionali, risultano essenziali per qualsiasi partito progressista (oh, quanto vorrei scrivere «socialista-socialdemocratico»).

Insomma, il Partito Democratico deve porsi il compito di garantire, alle sue condizioni e con le sue prospettive, rappresentanza politica a quegli interessi e quelle preferenze che la Sinistra Arcobaleno ha, per suo demerito e nonostante gli avvertimenti, definitivamente perduto. Non soltanto il Partito Democratico adempirà ad un importante compito sistemico, anche se mi pare del tutto eccessiva e persino allarmistica qualsiasi preoccupazione per l’insorgenza di comportamenti violenti da quegli elettori poco rappresentanti, ma ne trarrà vantaggi politici e elettorali di cui ha molto bisogno. “Andare oltre” il consenso attuale significa per il Pd anche spingersi deliberatamente e consapevolmente fino a raccogliere e educare, proprio così, un elettorato che, per condizioni sociali e per aspettative di vita, è comunque collocabile nel terreno che la sinistra deve frequentare, movimentare e rappresentare.

Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 8.18   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Pd, la voce del Nord
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 05:41:09 pm
Pd, la voce del Nord

Gianfranco Pasquino


In qualsiasi forma riuscisse a presentarsi, il fantomatico Partito Democratico del Nord andrebbe comunque a cozzare contro la struttura federale che, almeno sulla carta, dovrebbe già caratterizzare il Partito Democratico attualmente esistente.

Inoltre, due problemi dovrebbero, se del caso, essere immediatamente risolti, prima ancora di partire per la spedizione alla conquista del Nord (ovvero, meglio, del suo elettorato), quelli relativi ai confini geografici e alle eventuali macroaggregazioni regionali.

Geograficamente collocata nel Nord, l´Emilia-Romagna ha pochissimo a che spartire, politicamente e socialmente, culturalmente e forse anche economicamente, con le altre regioni del Nord, in special modo con Lombardia e Veneto. Quanto alla macroaggregazioni regionali, qualsiasi scelta in direzione del partito del Nord che mettesse insieme tutte le regioni al di sopra del Po darebbe ragione a chi sostiene che la Padania è separata e distinta dal resto del paese e che merita non soltanto il federalismo fiscale, ma, prima o poi, anche l´indipendenza (non conteneva proprio questo elemento il nome del gruppo parlamentare leghista alla Camera: "Lega Nord per l´Indipendenza della Padania"?) Già credo che la sinistra abbia fatto molto male a inseguire la Lega sul terreno scivoloso e confuso di un mai meglio precisato federalismo. Suggellare tutto questo percorso sbagliato con una chiara separazione del Partito Democratico del Nord da altri eventuali, divenuti inevitabili, partiti, del Centro rosso (ancorché un po´ sbiadito) e del Sud, con qualche difficoltà di collocazione, ad esempio, del Lazio, mi parrebbe altamente problematico e poco produttivo. Invece, il compito da affrontare quanto prima riguarda le modalità di strutturazione e di funzionamento del Partito Democratico già esistente.

In una certa misura hanno ragione coloro che mettono in evidenza alcune contraddizioni, ad esempio, il carattere federalista di un partito i cui segretari regionali sono, però, stati "benedetti" o assegnati dal centro, cosicché, poi, non hanno brillato per iniziative autonome e e originali, e la selezione delle candidature, ovvero, in pratica la nomina dei parlamentari, senza che sia stato consentito a sufficienza agli elettorati democratici locali di esprimere, attraverso ben congegnate e efficaci elezioni primarie, anche in maniera vincolante, le loro preferenze. Tuttavia, l´inconveniente di fondo riguarda le modalità di fare politica nel Nord e, di conseguenza, di riuscire a raggiungere o no quell´elettorato che oramai da un quindicennio, con alti e bassi, continua a preferire la Lega e il Popolo di Berlusconi.

La struttura che il Partito Democratico vorrà darsi, sperabilmente abbastanza presto in un congresso nazionale, dovrà tenere conto di esigenze di flessibilità e di rispecchiamento di realtà locali diversificate. Ma, soprattutto, dovrà prendere atto che per ricostruire una politica credibile e attraente, bisogna ripartire molto concretamente dal territorio. Dovranno essere le varie zone del Nord ad esprimere leadership politiche vincenti, come hanno già saputo fare con Massimo Cacciari e con Sergio Chiamparino, e come sarà opportuno estendere anche alla selezione delle candidature parlamentari. Bisognerà investire non su personalità, più o meno prestigiose, ma estranee alla politica e destinate, se non vincono (Milano docet) ad abbandonarla, affinché costruiscano con pazienza, giorno dopo giorno, un tessuto connettivo che aderisca alle preferenze di quelle componenti degli elettorati che il Partito Democratico intende rappresentare. Sarà, in qualche caso, un lungo e duro lavoro di opposizione, di diffusione di messaggi e di formulazione di proposte effettuato capillarmente sul territorio (questa è, in effetti, la parola chiave). Non potrà essere affidato a chi non ha né la competenza né la disponibilità a garantire presenza e impegno difficilmente coronabili con rapido e clamoroso successo.

Gli annunci sul Partito del Nord, che abbiamo già ascoltato anche da dirigenti degni di stima e credibilità: da Fassino a Bersani nonché a Cacciari, non bastano e forse non servono. Una nuova politica nel Nord, ma non necessariamente soltanto per il Nord, potrà essere prodotta soltanto da chi nel Nord vive, lavora, combatte e ne comprende le esigenze. I tempi non possono essere brevi e non c´è scorciatoia tanto meno se appare puramente linguistica, lessicale, e non riesce a diventare robustamente organizzativa.

Pubblicato il: 21.04.08
Modificato il: 21.04.08 alle ore 14.55   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Su cosa giura Bossi
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2008, 10:53:54 pm
Su cosa giura Bossi

Gianfranco Pasquino


La politica è comunicazione, verbale e simbolica, di idee e di comportamenti, libera e fantasiosa. L’unica discriminante fra l’accettabile e il censurabile è stabilita, come deve sempre esserlo, dalla Costituzione, quella italiana. Secondo la Costituzione spetta al Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, nominare i ministri. Sulla Costituzione giurano i ministri, tutti, e dichiarano, così, fedeltà alla Repubblica, che, art. 5, è «una e indivisibile», e riconoscono che la bandiera della Repubblica, art. 12, «è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso». Tutto il resto sono parole. Non per questo, tutte le parole debbono essere lasciate scorrere, con indifferenza. Infatti, non sempre le parole «volano»; al contrario, qualche volta sono più pesanti delle pietre. Certo, è giusto replicare al figlio di Gheddafi che i ministri italiani vengono indicati da chi ha vinto elezioni democratiche, sconosciute alla Libia, e sono scelti dal Primo ministro che ha ottenuto quella carica in quanto capo di una maggioranza parlamentare e che la conserverà fino a quando quella maggioranza lo sostiene.

Ma è altrettanto giusto richiamare i ministri e tutte le autorità di governo a comportamenti consoni con l’importanza della loro carica e coerenti con i dettami della Costituzione.

Non ho nessun dubbio che, senza clamore, ma con chiarezza e intransigenza, il Presidente Napolitano, che nelle molte cariche di rilievo istituzionali da lui ricoperte ha sempre dimostrato assoluta correttezza politica, ricorderà questi elementari, ma essenziali, principi sia al Primo ministro che ai ministri da lui scelti. Qualcuno sostiene che, a fronte delle "sparate" della Lega e, in special modo, del suo capo Umberto Bossi, ma anche di troppi altri principali esponenti del centro-destra, abbiamo troppo spesso abbassato la guardia e lasciato correre con la conseguenza che l’opinione pubblica vi si è quasi assuefatta. All’estero, invece, continuano a stupirsi delle tiepide reazioni italiane nei confronti delle affermazioni e dei comportamenti di alcuni politici del centro-destra e guardano alla politica del nostro paese con incuriosita preoccupazione. Naturalmente, noi ne sappiamo di più. Vale a dire che possiamo sostenere che quelle della Lega sono frasi esagerate alle quali, almeno finora, non hanno fatto seguito comportamenti reprensibili e pericolosi. I passamontagna sono rimasti nei cassetti e i trecentomila fucili probabilmente non si trovano neppure in tutte le armerie della Padania. Quelli della Lega sono talvolta discorsi da osteria, ma oppure, forse perché in quelle osterie padane si fa politica anche in questo modo. E’ poi vero che diventati Ministri, gli esponenti della Lega hanno esercitato il loro mandato, più o meno efficacemente, secondo gli orientamenti e attuando le politiche della coalizione di cui fanno parte. Siamo, dunque, di fronte ad una semplice, seppur deplorevole, doppiezza della Lega: smodati in piazza, moderati al governo? Dovremmo allora continuare a lasciare che quelle parole volino e a concentrare l’attenzione esclusivamente sui comportamenti? Non dovremmo, piuttosto, attrezzarci per contrastare dall’opposizione affermazioni pesanti e sconcertanti che si collocano tra propaganda e provocazione? Per quanto tardiva, la battaglia per un linguaggio politico rispettoso degli avversari politici, interni e esterni, senza discriminazioni "di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" (art. 3 della Costituzione), mi pare doverosa. Sarebbe anche il caso che anche il centro-sinistra, non soltanto perché e quando si trova all’opposizione, tentasse da subito di ristabilire alcuni criteri di comportamenti anche politicamente corretti e di dichiarazioni, al contrario, politicamente inaccettabili, e eventualmente li applicasse anche a coloro che si muovono scompostamente nei suoi dintorni, a cominciare da coloro che, con scarsissima immaginazione, non trovano di meglio che bruciare le bandiere degli USA e di Israele. Se vuole avere successo, la battaglia per una politica verbale decente non dovrebbe essere di una sola parte, partigiana. Anzi, sarebbe utile e appropriato se il prossimo Primo Ministro (unitamente ai Presidenti di Senato e Camera) si unisse a questa battaglia e smettesse di minimizzare la portata e l’impatto di ogni e di tutte le dichiarazioni truculente, ma le condannasse fermamente e le impedisse. Magari è comunque poco, ma la riforma della politica passa anche, ovviamente non soltanto, di qui.

Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 8.16   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. La prova dei fatti
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2008, 05:18:19 pm
La prova dei fatti

Gianfranco Pasquino


Non mi sembra il caso discutere se Silvio Berlusconi sia oppure no diventato più buono. Con il verbo frequentemente utilizzato dai politici, dirò che l’argomento non mi appassiona. Certamente, lo stile personale e politico conta e le modalità con le quali si instaura un rapporto con l’opposizione e il suo principale esponente possono fare una differenza per il funzionamento del sistema politico e per l’azione di governo.

Tuttavia, è facile mostrarsi con il volto sorridente quando si sono vinte le elezioni ed è comunque possibile governare con una maggioranza molto ampia. Resta, però, da vedere con quale stile e con quali modalità verranno affrontate le dure prove del governo. Per quanto abile, il mix vecchio e nuovo nella compagine del governo "PdL più Lega" non sembra contenere innovazioni programmatiche significative. Alla prima prova dei fatti, quella relativa all’immigrazione e collegata alla criminalità, il Ministro degli Interni Roberto Maroni che, pure, rappresenta un esempio di "usato sicuro" (nel senso che sappiamo con ragionevole sicurezza quali sono i limiti della sua azione politica) è, primo, ritornato alla legge Fini-Bossi, per, subito dopo, introdurvi qualche importante clausola di sospensione concernente le badanti e le colf. Meglio così, per quanto, azioni e eccezioni di questo tipo non configurino strutturalmente nessuna soluzione duratura. Promessa in campagna elettorale, l’abolizione dell’ICI dovrebbe già fare la sua comparsa nei prossimi giorni, ma il Ministro Tremonti sarà probabilmente obbligato a chiarire in che modo i comuni, privati di quell’introito nient’affatto marginale, riusciranno a fare fronte ai loro compiti. Nel frattempo, incombe sulle finanze locali anche la prospettiva di un non meglio precisato "federalismo fiscale", ugualmente promesso in campagna elettorale e per il quale, ovviamente, la Lega non sarà disponibile a fare sconti. Nei prossimi giorni il governo Berlusconi terrà, come solennemente pre-annunciato dal suo capo, una riunione del Consiglio dei ministri a Napoli. Non sembra che all’ordine del giorno vi sarà la situazione dello smaltimento dei rifiuti che, dopo mesi e anni di colpevole incuria, non può neppure più essere considerata una emergenza, ma che, ovviamente, necessita di una soluzione in tempi rapidissimi. Non basteranno i sorrisi di Berlusconi dopo che la "monnezza" ha fatto parte della sua campagna elettorale anche per conquistare la Regione Campania (come è puntualmente avvenuto), il Presidente del Consiglio ha il dovere politico di enunciare la soluzione, mentre il Ministro degli Interni dovrà garantire che quella soluzione venga attuata mantenendo l’ordine pubblico. Quanto all’Alitalia, anch’essa nient’affatto una emergenza, ma un problema da tempo noto, avendo Silvio Berlusconi, unitamente ai vociferanti difensori del Nord, nella Lega e nel Popolo delle Libertà, reso impossibile la vendita a Air France e annunciato l’esistenza di una "cordata" italiana, il Presidente del Consiglio deve sentirsi politicamente impegnato affinché la soluzione venga alla luce prestissimo e venga ancora più rapidamente messa in atto anche per evitare ulteriori cospicui esborsi di denaro pubblico. Al momento, questa è, ovvero, più precisamente, non può non essere l’agenda del governo. Deriva, infatti, dalla situazione del paese e dalle promesse fatte dalla destra durante la campagna elettorale.

Naturalmente, il governo ombra dell’opposizione ha, a sua volta, il dovere, non di attendere sulla riva del fiume, ma di pungolare, criticare, controproporre. Se il Partito Democratico avesse vinto le elezioni, con ogni probabilità le problematiche dei rifiuti, dell’immigrazione, delle tasse, dell’Alitalia (peraltro già quasi conclusa) si sarebbero inesorabilmente trovate sulla sua agenda. E’ giusto, però, come ha fatto il Primo ministro ombra, sottolineare che sull’agenda dell’opposizione nonché dei lavori parlamentari bisognerà (im)porre anche la questione dei salari e delle pensioni, magari aggiungendovi qualche concreta indicazione di come ridistribuire la ricchezza contribuendo al rilancio della crescita economica. Anche la RAI e più in generale il riordino del sistema televisivo, che incrocia il nient’affatto scomparso conflitto di interessi del Presidente del Consiglio Berlusconi, meritano di trovare spazio nell’agenda dell’opposizione per confluire, naturalmente, in quella dei lavori parlamentari. Non è, infatti, questione di buonismo né di rapporti personali fra i principali esponenti dei due maggiori schieramenti. E’, semplicemente, ma crucialmente, una questione democratica, di pluralismo e imparzialità dell’informazione, che non può essere nascosta dietro nessun sorriso e nessun ammiccamento. Fa piacere che la destra, seppure da posizioni di forza, peraltro conferitele democraticamente dall’elettorato abbia toni concilianti e si esprima con affermazioni dialoganti. Ma, al di là di qualsiasi espressione verbale, adesso il confronto si fa sulla cultura e sull’azione di governo. Senza neppure essere particolarmente esigenti, credo che i primi passi suggeriscano che la destra non ha compiuto molti progressi. A occhio, si direbbe che l’atmosfera nel paese reale sia un misto di attendismo e di rassegnazione, oltre che, fra i suoi elettori, di soddisfazione. Proprio per questo una sana, pacata e intensa discussione sui fatti, sui non fatti e sugli eventuali misfatti risulterà positiva sia per l’opposizione sia per il governo, se la sua disponibilità non è soltanto di facciata, sia per l’opinione pubblica.


Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 12.51   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Riforme, la parola al Pd
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 05:12:43 pm
Riforme, la parola al Pd


Gianfranco Pasquino


Gli anniversari della nascita della Repubblica nei quali giustamente si celebra la Costituzione italiana hanno avuto toni e temi diversi nel corso di sessant’anni. In maniera eccessiva, per almeno un ventennio, la Costituzione è stata considerata positivamente non tanto per la sua architettura, per il suo contenuto, per la sua sostanza, quanto, per la sua origine, indubitabilmente l’antifascismo, e per il metodo, la convergenza, sottolineata in maniera esagerata, delle tre grandi culture politiche: liberale, cattolico-democratica, socialcomunista, nella sua elaborazione.

Nascondendone i conflitti, che esistettero e che, pure, nella formulazione degli articoli e nella scelta delle soluzioni istituzionali, furono spesso fecondi, si finì con il rendere molto difficile qualsiasi discussione sulla efficacia specifica di alcuni degli articoli della Costituzione e sulla eventuale necessità di un loro possibile aggiornamento. Nei primi vent’anni, non senza buoni motivi, la parola d’ordine della grande maggioranza dei politici e dei giuristi fu «attuare la Costituzione». Dopo il Sessantotto che, sviluppandosi senza nessuna attenzione alla Costituzione, che era stata poco e male insegnata e studiata, e al tipo di sistema politico in essa delineato, può essere definito, tecnicamente, un fenomeno extra-costituzionale, furono proprio le vicissitudini del sistema politico, vale a dire il suo blocco e le mancate opportunità di alternanza al governo a porre il tema della riforma della Costituzione. Certo, le modalità con le quali da parte di alcuni socialisti venne perseguito un disegno tanto ambizioso quanto vago suscitarono perplessità e ostilità, sembrando motivate soprattutto dal desiderio di acquisire spazio politico a spese di democristiani e comunisti che avevano dato vita ad un bipolarismo orientato alla conservazione delle loro rendite di governo e di opposizione. Le reazioni di entrambi i grandi partiti, non disponibili o non capaci di accettare la sfida socialista, confermarono l’impressione di un conservatorismo costituzionale che impediva riforme probabilmente condivise e quasi certamente opportune. Al contrario, la sfida socialista e l’intera dinamica delle coalizioni pentapartitiche, troppo spesso, si pensi anche soltanto al più o meno presunto «patto della staffetta» fra socialisti (Craxi) e democristiani (Andreotti) e alla lunga crisi che dal governo De Mita portò all’ultimo governo Andreotti (maggio-luglio 1989), incuranti della Costituzione, giustificarono la comparsa di una nuova parola d’ordine: «tornare alla Costituzione». Purtroppo, quello che non aveva funzionato nella Costituzione, relativamente all’ordinamento dello Stato, ovvero la Parte Seconda, e non era stato riformato per tempo, come avevano già suggerito i Costituenti, ad esempio, con l’ordine del giorno Perassi sui meccanismi per stabilizzare i governi, non poteva essere fatto rivivere. Però, il punto più delicato è che, unitamente ad una non più condivisa visione della Costituzione, si affacciava anche la consapevolezza che la sua riforma, a fronte di progetti divergenti e particolaristici, stava diventando quasi impossibile. Inoltre, la dinamica del sistema politico sembrava riuscire a garantire quel che era mancato, ovvero l’alternanza, la quale, peraltro, non poteva nient’affatto essere, come qualcuno aveva addirittura teorizzato, una panacea per i mali del sistema. Prodotte da maggioranze poco coerenti, le riforme del nuovo millennio, ratificate o respinte che siano poi state dall’elettorato, hanno soltanto elevato il livello dello scontro fra gli opposti schieramenti senza risolvere nessuno dei problemi. Ha certamente ragione il Presidente della Repubblica a ricordare che la Costituzione va rispettata e che, allo stesso modo, vanno rispettati i suoi eventuali adeguamenti e aggiornamenti. Ma il bilancio della capacità delle classi politiche italiane non soltanto di produrre le riforme necessarie in una visione sistemica, ma di valorizzare, applicandoli concretamente, tutti gli articoli che, dai diritti ai doveri fino ai compiti della Repubblica, come quello di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che… impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), risulta non positivo. Forse il governo-ombra potrebbe riprendere l’iniziativa riformatrice stilando l’agenda dei cambiamenti auspicabili e possibili e argomentandoli. Una Costituzione rinnovata faciliterebbe un miglior funzionamento del sistema politico che sarebbe di giovamento non soltanto per chi detiene il potere di governo, ma anche per tutti i cittadini.

Pubblicato il: 02.06.08
Modificato il: 02.06.08 alle ore 13.53   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Pd: soluzione congresso
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2008, 05:03:05 pm
Pd: soluzione congresso

Gianfranco Pasquino


Molti erano i chiamati, molto pochi quelli che sono arrivati, a Roma, all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Eppure, l’Assemblea aveva un ordine del giorno importante: l’elezione della Direzione. Quando su circa tremila componenti dell’Assemblea, certamente troppi, ne pervengono fra 600 e 800, allora c’è sicuramente un problema (forse più di uno), non organizzativo, non logistico, ma politico.

La grande maggioranza dei componenti non disdegna l’onore di “fare parte” dell’Assemblea del Pd, ma, purtroppo, non si cura di “prendere parte” alle sue attività. È un segnale che ha due interpretazioni possibili. La prima è la delega, più o meno convinta, al gruppo dirigente, quello, per intenderci, che, al tavolo della Presidenza, mentre Veltroni pronunciava il suo discorso, si sprofondava nella lettura dei quotidiani oppure parlava al telefonino. Per questi delegati assenti (assenteisti?), dopo la sconfitta. non c’è nulla su cui riflettere, nulla da rimproverare/rsi, nulla da fare. Semplicemente, la sconfitta non la si poteva evitare. Ne conseguono delusione e/o rassegnazione. Dunque, non è neppure il caso di discuterne, individuarne le cause, approntare una strategia diversa. Sono, credo, atteggiamenti gravi che spiegano l’afasia/apatia dell’opposizione. La seconda interpretazione è che gli assenti, almeno una parte di loro, impossibile dire quanto piccola oppure grande, hanno deliberatamente deciso, magari anche ricordandosi di precedenti, non felici, esperienze, di non partecipare ad un evento pre-confezionato, nella consapevolezza di non avere la possibilità di cambiare nulla.

La lista della Direzione, inemendabile e, se posso permettermi, non impeccabile, è stata calata dall’alto esattamente come erano stati formati i comitati per Statuto, Manifesto dei Valori, Codice Etico. Quello che molti (o pochi) dentro il Partito Democratico e, in verità, anche fuori, vorrebbero non è una resa dei conti, ma almeno un rendiconto di tutto quello che non ha funzionato con la conseguenze assunzione di responsabilità e la possibilità di formulare una linea politica che la dura lezione dei fatti impone che sia significativamente, qualitativamente diversa. Nel frattempo Veltroni dovrebbe cercare le modalità per rilanciare il sostegno molto ampio e diffuso, ben oltre gli argini di partito, che ebbe per la sua elezione popolare, per coinvolgere attivamente quegli elettori anche per sfidare il dissenso che non viene espresso apertis verbis, a voce alta, chiara e forte, ma che striscia nelle dichiarazioni e che si annida nelle Fondazioni. Le operazioni culturali, se è questo quanto faranno le oramai numerose fondazioni, proliferate al di fuori di un Partito che non ha affatto proceduto al rimescolamento delle culture politiche sulle quali è nato, sono, non una “risorsa”, ma una sfida diretta contro il segretario e contro il partito in quanto struttura e luogo, potenziale, di elaborazione culturale. D’altronde, in mancanza di un modello organizzativo chiaramente delineato, che avrebbe qualche possibilità di radicarsi sul territorio, con tutti gli aggiustamenti per tenere conto delle differenze di aree, ovvero di essere presente e di fare politica, le correnti rappresentano qualche cosa di facile da costruire e di sperimentato.

Probabilmente, esiste una maggioranza a sostegno di Veltroni, che, più che sostenerlo, lo ingabbia. Sicuramente, non c’è grande sostegno per le idee di Arturo Parisi, che rimane l’interprete autentico dell’Ulivo che fu e del Partito Democratico che dovrebbe essere. Emarginarle con fastidio, quasi con punte di autoritarismo burocratico, ha poco di “democratico”, ancor meno se l’emarginazione si accompagna all’augurio che Parisi se ne vada. Qualcuno, forse, ricorda che il pregio maggiore dei grandi partiti è consistito e continua a consistere nella valorizzazione del dissenso, non nel dileggio, e che le idee si valutano, non guardando ai numeri che le sostengono, ma al loro merito. La via d’uscita, da perseguire non soltanto perché è probabilmente l’unica, ma soprattutto perché contiene molti elementi positivi, è la convocazione del primo Congresso Nazionale del Partito Democratico. Per farlo bisogna disporre di un elenco, non gonfiato, di iscritti, non fasulli, magari garantendo pari dignità a tutte le posizioni. Quanto ai tempi, la primavera del 2009 è una stagione propizia: un Congresso democratico, caratterizzato da un confronto di idee e con esito aperto, può anche sprigionare effetti positivi di mobilitazione elettorale, per le amministrative e le europee.

Infine, i leader (posso fare riferimento a John e a Robert Kennedy e, persino, con la speranza, a Barack Obama?) non nascono a tavolino, ma emergono nel conflitto fra persone e fra linee politiche, non fra prospettive di carriera che, purtroppo, la legge elettorale nazionale incoraggia in maniera sgradevole e riprovevole e con conseguenze pazzesche di conformismo. Mi sembra che nel Partito Democratico, il conflitto, ancorché sotterraneo, esista e che possa costituire, come hanno sempre sostenuto i grandi teorici delle liberaldemocrazie, il lievito del cambiamento. Mi attendo, dunque, le persone democratiche, queste sì sarebbero "coraggiose", che vogliano impegnarsi senza rete per dare alle idee le gambe sulle quali camminare.

Pubblicato il: 24.06.08
Modificato il: 24.06.08 alle ore 8.26   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Come fare l´opposizione
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2008, 06:31:45 pm
Come fare l´opposizione

Gianfranco Pasquino


Imbarcatasi in una offerta prematura di dialogo generale/generico, senza paletti, senza priorità, senza proposte, con il governo di Berlusconi, l´opposizione del Partito Democratico si è immediatamente trovata stretta in una quasi paralizzante tenaglia. Da un lato, collocata sulla trincea più favorevole poiché antiberlusconiana di lungo e sperimentato corso, si trova l´Italia dei Valori di Di Pietro che non è esclusivamente espressione e referente di nient´affatto disprezzabili girotondini i quali, a prescindere dalle opinioni di Follini, non possono essere considerati un «incubo».

Dall´altro, si crogiolano gli ineffabili sostenitori "senza se e senza ma" del governo (nella stampa e nell´opinione pubblica) che denunciano del tutto strumentalmente le apparenti contraddizioni del Pd che loro gradirebbero fosse non soltanto dialogante, ma subalterno e connivente. Tuttavia, chiarite le differenze con Di Pietro e respinte con fastidio le critiche pelose dei berlusconeggianti, il problema di come fare opposizione, anzitutto,in Parlamento, ma anche, democraticamente, nelle piazze, esiste e deve essere affrontato. Non serve farsi confortare da numeri e da percentuali fantasiosamente interpretate che metterebbero il Partito democratico sullo stesso livello di consenso di altri partiti socialisti e socialdemocratici europei, molti dei quali sono attualmente al governo, la maggior parte lo sono stati anche a lungo e per lo più hanno prospettive piuttosto realistiche di tornarvi presto. Semmai, bisognerebbe, prestando grande attenzione ai contesti politici e istituzionali, analizzare come fanno opposizione i partiti di sinistra in Europa. Servono, invece, interventi incisivi e efficaci che caratterizzino l´opposizione del Partito Democratico non per la sua propensione al dialogo, ma per la sua capacità di contrasto e di costruzione di un´agenda diversa da quella del governo. Naturalmente, questa duplice meritevole operazione richiede che il partito eviti sia qualsiasi unanimità dietro al leader, che non potrebbe che essere fittizia e di facciata, ma non produttiva e che, in particolare, riscontrerebbe notevoli difficoltà a produrre e valorizzare idee ed iniziative originali, sia qualsiasi frammentazione in Fondazioni e altri strumenti che intendano caratterizzarsi come luoghi alternativi per il confronto di idee e di proposte, ma anche di critiche che, invece, debbono nell´istanza decisiva esprimersi negli organismi propriamente di partito.

Respingere nettamente tutti i decreti e i disegni di legge che riguardano i problemi personali del Presidente del Consiglio è un´attività democratica essenziale che va motivata con riferimento al merito di ciascun provvedimento, ma anche perché quei provvedimenti stravolgono il funzionamento del Parlamento e sono molto probabilmente forieri di scontri istituzionali, non meno gravi perché prevedibili, messi in conto, se non addirittura voluti. Si farebbe torto alle menti avvocatesche dei consiglieri di Berlusconi pensandola diversamente, ovvero come se fossero inattesi incidenti di percorso. Nessun dialogo è possibile su leggi e decreti ad personam che si configurano come fattispecie del l´irrisolto e, occasionalmente, drammatico conflitto d´interessi, gigantesco macigno sul percorso che condurrebbe al l´affermarsi di una democrazia davvero "liberale", intessuta di diritti e di doveri. Qualsiasi limitato e circoscritto dialogo non può che iniziare e svilupparsi su tematiche di interesse nazionale, ovvero relative al sistema socio-economico italiano, sulle quali forse dovrebbero riflettere anche le associazioni industriali, alcune delle quali, a partire dal vertice, appaiono già troppo appiattite sulle preferenze del governo. Non è affatto detto che l´iniziativa sulle tematiche della crescita economica, dei contratti, dei salari, della Pubblica Amministrazione debba rimanere nelle mani del governo, anche se, ovviamente, e, in una certa misura, giustamente, il governo parte avvantaggiato. Tuttavia, un´opposizione compatta, numericamente forte, competente per quel che riguarda i lavori e i regolamenti parlamentari e gli argomenti sui quali vuole sviluppare la sua azione, anche sfidando i sindacati del pubblico impiego, avrebbe molte probabilità di essere incisiva.

Scrivere un´agenda alternativa delle priorità del Paese, di quello che, come spesso si dice, interessa davvero gli italiani, è non soltanto possibile, ma indispensabile. Sarebbe leggermente meno complicato se il Partito Democratico definisse con chiarezza a chi, evidentemente non a tutti gli italiani, intende rivolgersi. Mi piacerebbe sottolineare l´opportunità di individuare i ceti sociali ai quali, seppur senza preconcette chiusure, il Pd dovrebbe fare riferimento, per esempio, nell´affrontare con determinazione la "questione salariale". La decisione di Veltroni, annunciata ieri dalla lettera all´Unità, di riportare selettivamente la proposta, il confronto e l´ascolto in un rinnovato viaggio fra gli elettori, anche come modo di radicare idee strutture del Partito Democratico, contiene le potenzialità di un miglioramento dell´attività di opposizione. Ovunque, nei sistemi politici occidentali, questo prezioso compito democratico di contrasto e di controproposta, di riscrittura dell´agenda politica, tocca, anzitutto alla leadership, del Partito e dei gruppi parlamentari, ma, nel contesto italiano attuale, vi si potrebbero concretamente esercitare tutte le Fondazioni sorte nei dintorni del Partito Democratico, per sollecitarlo e per coadiuvarlo, in special modo quelle fondazioni che si definiscono rosse e riformiste.
Da subito.



Pubblicato il: 01.07.08
Modificato il: 01.07.08 alle ore 11.53   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Statisti non si diventa
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:50:24 am
Statisti non si diventa

Gianfranco Pasquino


Seguire la densissima cronaca sia giudiziaria che più o meno rosa delle gesta di Silvio Berlusconi, dei suoi avvocati, dei suoi corifei e dei comunicatori amici è un’impresa quasi disperata, sicuramente disperante. Nel dinamismo che caratterizza tantissima parte della sua vita, di imprenditore e di politico, di uomo pubblico e di amante della famiglia, è difficile scorgere un filo rosso (sic) che spieghi le sue mosse in una strategia di lungo periodo che non sia quella di soddisfare la sua personale enorme vorace vanità.

Naturalmente, questa vanità non può in nessun modo essere soddisfatta unicamente nell’ambito del privato e ha strabordato, sarei tentato di scrivere inevitabilmente, nel pubblico. Di qui la spiegazione della sua “discesa in campo”: non soltanto salvare le sue aziende, addirittura salvare l’Italia. Come è stato autorevolmente scritto da Albert O. Hirschmann, la politica non dà la felicità, ma qualsiasi ritorno nel privato, per chi ha gustato i frutti, non soltanto della popolarità, ma del potere politico, è sempre difficilissimo e amaro. Questa considerazione vale, comprensibilmente, anche per troppi politici di professione del centro-sinistra. Silvio Berlusconi, però, è di gran lunga più in là, molto più avanti dei professionisti del teatrino della politica nel quale ha una parte da assoluto protagonista.

La sua fame di potere e di visibilità è incomprimibile e si manifesta in tutte le modalità, come abbiamo visto nelle foto degli incontri internazionali e nelle conferenze stampa, compresa la modalità telefonica che leader più prudenti dovrebbero da qualche tempo sapere tenere sotto controllo, intercettazioni o no. Non sono interessato agli aspetti personali, voyeuristici e boccacceschi delle telefonate, che peraltro fanno parte quasi di una concezione di vita mai negata, intercorse per piazzare veline e dare voti sulle loro eventuali e speciali competenze. Sono, invece, preoccupato dalla sequela di forzature, di tensioni, di conflitti che quelle telefonate, da un lato, segnalano, dall’altro, producono. So perfettamente, ma non mi pare di essere in affollata compagnia, che la fattispecie più generale è costituita dall’irrisolto conflitto di interessi, ma se lo scontro politico, che, purtroppo, sta degenerando in scontro istituzionale con il Primo ministro che coinvolge il Presidente della Repubblica, la Magistratura, il Parlamento e la stampa (il quarto potere), è giunto a questi livelli, molto dipende anche dalla incomprimibile bulimia vitalistica di Silvio Berlusconi .

Qualcuno vorrebbe mettere fine allo scontro procedendo a qualche scambio, più o meno virtuoso: stop immediato alla pubblicità/pubblicazio delle intercettazioni e rapida accettazione del lodo Schifani in cambio della ripresa, che sarebbe in verità un inizio, di una “normale” dialettica politico-parlamentare. Lo scambio avrebbe conseguenze politiche discutibili, ma soprattutto non ci sarebbero garanzie che verrebbe effettivamente portato ad una sua positiva conclusione.

Il Presidente del Consiglio sembra volere una sorta di scontro finale, che avrebbe voluto annunciare per televisione con un “Messaggio alla Nazione” attraverso il quale regolare i conti, dall’alto della sua maggioranza, non grandissima, ma, apparentemente, fin troppo compatta, con tutte le altre istituzioni. Metterebbe a rischio, forse non del tutto consapevolmente, il delicato equilibrio fra istituzioni che caratterizza tutte le democrazie di buona qualità e che non si ritrova nella versione della democrazia che i berluscones e, purtroppo, ampia parte del loro elettorato, sembrano avallare e volere imporre come unica e autentica.

No, bisogna dire e ripetere: nessuna vittoria elettorale e nessuna maggioranza parlamentare di qualsivoglia entità pongono il capo del governo al di sopra e al di fuori delle leggi, tanto meno della Costituzione. Chiamare in causa l’affare Clinton-Lewinsky significa dimenticare che il Presidente americano venne indagato per le sue menzogne e non fece mai nessuna velata minaccia contro le istituzioni che indagavano legittimamente, persino con puntiglio partisan alquanto eccessivo, sui suoi misfatti che certamente non mettevano a rischio il quadro costituzionale Usa. Quanto a Jacques Chirac, il Presidente francese era in effetti protetto, fintantoché rimaneva in carica, da uno “scudo”, ma quello scudo non era stato frettolosamente e opportunisticamente approntato dalla sua maggioranza a favore della sua persona con riferimento a reati pregressi. Altri casi di salvaguardia giuridica delle alte cariche dello Stato non mi sono noti, né mi pare vengano precisamente sbandierati dal centro-destra.

Gli uomini di Stato sanno dove e quando debbono arrestarsi per il superiore bene delle istituzioni. Qualcuno ha creduto che Berlusconi volesse inaugurare la sua second life con una trasformazione sobria, serenamente e pacatamente, in uomo di Stato che si prepara per salire al Quirinale e intende mostrarsene degno. Purtroppo, non è così, ma quello che inquieta non è soltanto la futura prospettiva di un immutato Berlusconi al Quirinale. Piuttosto, è il prezzo che le istituzioni rischiano di pagare qui e adesso per cancellare le vicende giudiziarie e le avventure personali di Silvio Berlusconi lungo il cammino di quel tentativo di ascesa.

Pubblicato il: 04.07.08
Modificato il: 04.07.08 alle ore 13.19   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. La politica del bordello
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2008, 10:10:03 am
La politica del bordello

Gianfranco Pasquino


Di bordello, nella variante lessicale più favorevole, ovvero confusione vivace e dinamica, Umberto Bossi sicuramente se ne intende, e non sono pochi i leghisti che, in base alla loro mai dismessa concezione del partito di lotta e di governo, fanno regolarmente leva sulla confusione politica. Qualche volta, in tempi recenti, Bossi e, persino, absit iniuria verbis, Calderoli, sono apparsi a fronte di alcuni esagitati berluscones, sperimentati uomini di governo, pronti a sopire le tensioni e i conflitti (quelli dai quali non hanno nulla da guadagnare).

Pensare, però, che le loro rare e scherzose prese di distanza dalla maggioranza e dal Presidente Berlusconi rappresentino il segnale di una qualche crisi prossima ventura che impedirà al governo di giungere a fine legislatura è francamente eccessivo; sembra soltanto un fin troppo pio desiderio. Da un lato, Bossi ha imparato che tirare troppo la corda può avere effetti negativi anche sulle tematiche alle quali tiene maggiormente, quasi costitutivamente, che non sono soltanto il federalismo, ma anche i controlli sull’immigrazione e un giro di vite sulla sicurezza. Dall’altro, sembrerebbe che, almeno secondo i sondaggi di Renato Mannheimer (Corriere della Sera, 6 luglio), non soltanto sia cresciuta la fiducia degli italiani in Berlusconi fino a raggiungere il 56 per cento, una percentuale davvero elevata, ma che addirittura il 61 per cento degli italiani dia una valutazione positiva dell’operato del governo. Secondo i sondaggi di Ilvo Diamanti (la Repubblica, 6 luglio), il Presidente del Consiglio è, invece, come tutti i maggiori leader politici, in netto calo di popolarità, dal 61 al 46 per cento (Veltroni dal 65 al 41), ma tutti i provvedimenti del governo, ad eccezione di quelli sulla giustizia ad uso personale, ottengono un gradimento superiore al 60 per cento. Quanto al consenso per i partiti, in declino è il Pd, dal 33 al 29, stabile il PdL al 37,5, mentre cresce di poco la Lega, e di parecchio, dal 4,4 al 7,4, Di Pietro.

In un certo senso, le voci critiche, molto quella di Di Pietro, meno quella di Bossi traggono qualche vantaggio, che potrebbe essere effimero, dall’attuale fase «bordello». È difficile dire quanto il bordello politico, e non solo, possa durare. Se il passato insegna qualcosa, la risposta è che non è destinato a sparire nello spazio di un’estate. Tuttavia, sarebbe improvvido impostare qualsiasi politica di opposizione sulla semplice attesa che il governo si faccia erodere il consenso da beghe interne. Certo, tentare di approfondire le poche contraddizioni che emergano fra gli alleati di Berlusconi è un’operazione doverosa, anche per bloccare alcuni dei provvedimenti peggiori che il governo sta facendo passare a tambur battente. Non sarei preoccupato dal fatto che Di Pietro sfrutta il suo spazio politico in maniera spregiudicata. Nel momento decisivo il suo approdo non potrà essere che una rinnovata alleanza con il Partito Democratico. Insomma, per dirla con una espressione celebre, sia la Lega che Italia dei Valori godono di alcuni momenti di «ricreazione» politica, ma i dati strutturali suggeriscono che i problemi italiani non si trovano dove questi due movimenti sono meglio attrezzati e più credibili.

In Padania e nel resto dell’Italia, le tematiche socio-economiche, la questione salariale, il diminuito potere d’acquisto delle pensioni continuano ad essere un fenomeno grave, non destinato a scomparire nella foresta di Nottingham (dove operava il vero Robin Hood). Se non c’è crescita complessiva, non ci sarà nessuna redistribuzione di risorse: diventeremo tutti (meglio, quasi tutti) più poveri. Sarà anche perché gli italiani sanno fare di conto che la più alta percentuale di approvazione dei provvedimenti del governo viene riscossa dall’abolizione dell’Ici. Allora, lasciando alla Lega e a Di Pietro il lavoro di punture di spillo che sanno svolgere con qualche abilità, sembrerebbe più opportuno che il Partito Democratico insista con sue proposte nette, precise, originali che riguardino sia il taglio delle spese che imbrigliano la crescita (a partire dal settore del pubblico impiego: non è peccato dare ragione al ministro Brunetta) sia gli investimenti che producano posti di lavoro produttivi. Magari anche i girotondisti potrebbero scoprire quale è l’asse principale (non l’unico) sul quale, chiamando Berlusconi e Tremonti a risponderne, sviluppare un’incisiva, coordinata e paziente azione di opposizione.


Pubblicato il: 07.07.08
Modificato il: 07.07.08 alle ore 8.21   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Riforme, chi decide il dialogo
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 10:19:31 pm
Riforme, chi decide il dialogo


Gianfranco Pasquino


In sé e per sé il dialogo, ovvero la comunicazione di idee, di proposte, di soluzioni, fra qualsiasi maggioranza e qualsiasi opposizione non è né buono né cattivo: è «normale», praticamente inevitabile.

Ma se la comunicazione non è accompagnata da una seria considerazione di quelle idee, proposte e soluzioni, è anche perfettamente inutile. Non rende migliore il governo; non rende più efficace l’opposizione; non accresce la statura politica dei proponenti; non ridimensiona l’insoddisfazione dei cittadini; e non diminuisce il disagio della loro vita quotidiana.

Nelle democrazie di buona qualità si dà per scontato che qualche volta, se e quando lo vorrà, il governo instaurerà un dialogo con l’opposizione confrontandosi sui suoi provvedimenti, magari approfittandone per appropriarsi senza troppi scrupoli di quanto di buono l’opposizione avrà suggerito. Ma, naturalmente, un’opposizione intelligente rivendicherà la bontà delle sue proposte plagiate dal governo. Altre volte, il governo andrà per la sua strada e l’opposizione giustamente non si limiterà a fare la faccia feroce, ma, alzando il tiro delle sue critiche e delle sue controproposte, organizzerà, nei casi più gravi, anche liberatorie manifestazioni di massa. Infatti, è sempre utile che l’opposizione cerchi di mantenere un collegamento stretto fra la sua attività parlamentare e la sua mobilitazione sociale che la rivitalizza.

Nel caso italiano, il non meglio precisato "dialogo" non ha mai costituito la modalità prevalente dei rapporti fra governo e opposizione. Purtroppo, le modalità prevalenti sono state rappresentate da scambi, spesso impropri e a scapito della finanza pubblica, da collusioni, da, come si è anche troppo spesso denunciato, tentativi di inciucio, più o meno mal riusciti. Adesso che la maggioranza di destra ha risolto (congelato, posposto) i problemi giudiziari del principale esponente del suo schieramento con brutalità e senza ricorso a nessun dialogo e che sta affrontando con altrettanta brutale semplificazione i problemi della sicurezza dei cittadini, come se dipendessero dalla schedatura dei bambini rom, Bossi rilancia la sua versione del dialogo. Gli preme, come ha dichiarato a chiarissime lettere, avere anche i voti della sinistra, pardon, del Partito Democratico, per fare un po’ di federalismo, fiscale e quant’altro, altrimenti il rischio è che, per quanto ancora scosso dalla sconfitta, il Partito Democratico riesca a ri-organizzarsi quel poco che basta per contrastare, con prevedibile successo, quelle eventuali riforme ricorrendo ad un referendum costituzionale che non necessita di quorum. Nel frattempo, convocando un vasto stuolo di Fondazioni e di "esperti" costituzionali di vari gradi di nobiltà e di flessibilità, D’Alema va al suo personale dialogo con l’UDC di Casini, il quale non aspetta altro che un sano e integro sistema elettorale tedesco, accompagnato dal Cancellierato. Incidentalmente, viene offerto un assetto complessivamente nient’affatto originale, per quanto sperimentato, certamente gradito anche alla Lega, poiché prevede un Senato delle Regioni, e che ha dimostrato di funzionare, anche se è molto distante da quanto elaborato, con molte oscillazioni e troppe furbizie, dai veltroniani, e dalla attuale posizione ufficiale del PD. A chi toccherà poi l’onere e l’onore, se non il piacere, di "dialogare" con il Popolo delle Libertà e il suo capo?

Non mi permetterei mai di dire altezzosamente che i problemi del paese sono altri. Questa affermazione è soltanto parzialmente corretta. Infatti, è certamente vero che i problemi del paese sono anche altri, ma pervenire ad un assetto istituzionale equilibrato fra rappresentanza politica, decisionalità governativa e controllo parlamentare, sarebbe comunque un notevole e raccomandabile passo avanti. Rimango, però, molto curioso di sapere se queste profferte di accordi, nelle quali si materializza il dialogo, servano in qualche modo, e in quale modo, all’opposizione e agli interessi, alle preferenze e agli ideali che intende rappresentare. E, più importante, se quelle profferte possano essere totalmente staccate e svincolate da tutte quelle materie, alcune già pregresse, ma nient’affatto risolte, altre, l’Alitalia, per esempio, il DPEF, i salari, sulle quali il governo, la Lega di Bossi e del Ministro Maroni compresa, non manifestano nessuna inclinazione a discutere, a confrontarsi, eventualmente a riconoscere la bontà delle controproposte dell’opposizione nonché delle obiezioni e delle critiche della Commissione Europea e del Parlamento Europeo. Insomma, questo dialogo selettivo, che blinda alcune materie e che viene deciso e pilotato dal governo soltanto se e quando gli conviene, non mi pare proprio configurare il migliore dei mondi possibili.

Pubblicato il: 15.07.08
Modificato il: 15.07.08 alle ore 8.42   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Per non dargliela vinta
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2008, 05:40:27 pm
Per non dargliela vinta

Gianfranco Pasquino


A suo tempo, poco più di dieci anni fa, Berlusconi rovesciò con stizza il tavolo della Bicamerale poiché neppure l’ennesima, forse la dodicesima, bozza di riforma del sistema giudiziario lo soddisfaceva. Sulla forma di governo e sulla forma dello Stato vennero dette (e scritte) in quella Bicamerale molte proposte, anche contraddittorie, delle quali i protagonisti dovrebbero probabilmente rammaricarsi.

Ma se facessimo una anche superficiale perlustrazione delle proposte degli accademici, in special modo dei tardi intellettuali di riferimento dei leader politici, il rammarico, in qualche caso, la vergogna potrebbe estendersi a macchia d’olio. Dunque, invece di criticare D’Alema per le sue incoerenze passate, bisognerebbe sottolineare che la proposizione del modello tedesco ha quantomeno due pregi. Il primo è che investe tutto il sistema: forma di Stato, forma di governo, bicameralismo, legge elettorale. Il secondo pregio è che è un sistema sperimentato che ha funzionato ad alti livelli qualitativi e che le Grandi Coalizioni, curiosamente criticate anche da chi, magari, era a favore del compromesso storico, sono scelte politiche, praticabili in qualsiasi sistema, anche in quelli bipartitici, che non discendono necessariamente dagli assetti istituzionali. Naturalmente, è possibile e, persino, auspicabile contrapporre al disegno di D’Alema, cioè, meglio, di quattordici circa Fondazioni e centri di ricerca, un altro disegno che sia ugualmente sistemico e altrettanto sperimentato (il semipresidenzialismo francese lo è), ma non riformette a spizzichi destinate a cambiare a seconda delle circostanze e delle preferenze dei dirigenti politici che le commissionano.

Al momento, comunque, un minimo di realismo consiglia di tenere soprattutto conto del fatto che i berluscones che interpretano e eseguono i desiderata del capo non sono disponibili a nessun confronto (o dovrei scrivere "dialogo"?) su qualsivoglia proposta istituzionale di un qualche respiro. Al massimo, sono interessati a rendere difficilissima la rappresentanza dei partiti piccoli nel Parlamento Europeo e a scovare un qualche espediente per impedire che si vada al prossimo referendum elettorale. Nulla di tutto questo, a mio modo di vedere, deve essere concesso gratis dal Partito Democratico al Popolo delle Libertà, ma neanche alla Lega e all’UDC.

Certo, una maggioranza parlamentare compatta, se tale riuscirà a rimanere su queste tematiche, ha molte probabilità di averla vinta, in negativo. Ma, una buona opposizione propositiva potrebbe svolgere quella pedagogia istituzionale e costituzionale finora inadempiuta a causa delle divisioni nel centro-sinistra, offrire alternative, vendere carissima la pelle.

Sono consapevole che l’opinione pubblica italiana, da un lato, è relativamente poco interessata alle riforme istituzionali, anche se ha saputo, chiamata alle urne, difendere la Costituzione; dall’altro, probabilmente, ha molti motivi di critica nei confronti del funzionamento della magistratura. Confondendo le carte in tavola, il pool di avvocati-parlamentari del Presidente del Consiglio sta già lavorando a quella riforma complessiva che, con fortuna e tempismo, Berlusconi ha subito lanciato approfittando dell’arresto di Ottaviano Del Turco.

Inevitabilmente, contrastare punto per punto il tentativo del Popolo della Libertà e della Lega (connivente fintantoché non si opporrà in maniera palese in Parlamento) è diventata una priorità che può fare passare in secondo piano qualsiasi riforma sistemica della forma di Stato e di governo a meno che l’opposizione metta in grande rilievo due fatti tanto semplici quanto decisivi. Il primo fatto è che in Italia il problema della giustizia che incide maggiormente sulla vita dei cittadini riguarda le lentezze esasperanti e i costi della giustizia civile riguardo alla quale sarebbe bello ascoltare qualche proposta riformatrice da parte degli stessi magistrati. Possibile che fra di loro non nasca un folto movimento di "coraggiosi"? Il secondo fatto è che nei sistemi politici contemporanei, l’equilibrio fra i tre poteri, esecutivo, legislativo, giudiziario, e la misura in cui sono in grado di garantire reciproci freni e contrappesi caratterizzano e definiscono la qualità della democrazia. Dunque, non sono accettabili, neppure per quello che riguarda il potere giudiziario, né riformette né riformone ad hoc.

Nella situazione italiana, non è oramai neppure più accettabile un equilibrio che appare insoddisfacente, poco dinamico, costoso, in termini di tempi della giustizia, per i cittadini e per il sistema politico. Opporsi, in maniera motivata e non soltanto conservatrice, agli interventi contro la magistratura vagheggiati da Berlusconi è assolutamente necessario. Contrapporsi alle conseguenze sistemiche di quegli interventi è possibile soltanto proponendo e disegnando un nuovo sistema di freni e contrappesi che non si fa fatica a ritrovare né nel contesto tedesco né in quello francese e che, pertanto, consentirebbe di tenere insieme una riforma complessiva del sistema politico-istituzionale, chiara nella sua impostazione, sufficientemente prevedibile nei suoi esiti non pregiudizievoli per i delicati equilibri democratici.

Pubblicato il: 18.07.08
Modificato il: 18.07.08 alle ore 12.54   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Opposizione vuol dire
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2008, 11:24:48 pm
Opposizione vuol dire

Gianfranco Pasquino


L´opposizione del Partito Democratico e quella dell´Italia dei Valori debbono ragionare, senza farsi illusioni, come se il governo di destra durasse per tutta la legislatura. Debbono anche non trascurare le ambizioni del presidente del Consiglio di essere eletto, appena possibile, al Quirinale. In special modo, nessuna illusione deve essere nutrita sulle probabilità che la Lega metta in crisi il governo al quale partecipa con ministri in posizione di rilievo. Lo «scambio» fra Popolo delle Libertà e Lega, con la riforma della giustizia che procederà in una camera mentre, in contemporanea, nell´altra camera si farà strada il federalismo, fiscale e più, deve essere criticato non in quanto scambio, ma per i contenuti, anticipati e prevedibili, della riforma-addomesticamento della giustizia e per i meno prevedibili e i meno noti meccanismi del federalismo che, incidentalmente, dovrà essere accompagnato quantomeno dalla riforma del bicameralismo. È giusto che le opposizioni si propongano di evidenziare e di approfondire le, molto eventuali, contraddizioni all´interno della maggioranza di governo.

Qualsiasi spazio si apra in Parlamento deve essere sfruttato, ma quel che più conta è il collegamento fra la battaglia parlamentare, quotidiana e di lungo corso, e l´opinione pubblica, proprio nella prospettiva del completamento dei cinque anni di legislatura. In un certo senso, l´operazione da condurre, che può passare attraverso anche manifestazioni tipo Piazza Navona, è in senso lato, ma molto concreto, pedagogico-culturale.

Negli oramai quindici anni trascorsi dal crollo del sistema partitico, dalla comparsa di nuovi attori politici e dalla trasformazione dei vecchi, le forze sociali e economiche si sono dislocate in maniera prima del tutto imprevista dalla sinistra, poi sottovalutata nella sua durata e nella sua intensità. Tutti (o quasi) hanno constatato la comparsa di elementi corposi di demagogia e di populismo, nonché di egoismo delle diverse categorie, elementi che erano stati, bene o male, tenuti sotto controllo, seppure in maniera diversa, ma non debellati, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista. Affascinati oppure accecati dalla tesi della "società liquida", pochi hanno provato ad esaminare le vittorie elettorali della destra, non soltanto nelle regioni del Nord, come il prodotto della comparsa di un nuovo blocco sociale al quale la figura dell´imprenditore Silvio Berlusconi dà espressione e la carica di Presidente del Consiglio offre la necessaria e desiderata traduzione governativa. Allora, le contraddizioni da evidenziare e da approfondire è meglio cercarle nel composito, ma non per questo meno solido, blocco sociale della destra, piuttosto che nella sua rappresentanza parlamentare. Questo blocco sociale non sembra particolarmente interessato alle tematiche etiche e dei valori, tantomeno inquietato dagli sfregi che Bossi e troppi berluscones infliggono alla Nazione e alle istituzioni. D´altronde, tutte le statistiche internazionali segnalano che è l´Italia nel suo complesso a non avere alti standard di moralità accompagnati da un´alta incidenza di corruzione. E Nando Dalla Chiesa ha fatto benissimo a ricordare sulle pagine de "l´Unità" che sono molti, forse già troppi, i casi nei quali anche la sinistra è colpevole di non avere tenuto alta la guardia nei confronti della corruzione e di avere lasciato che circolino al suo interno anche non marginali episodi di conflitto di interessi. La corruzione e il conflitto di interessi sono da combattere "senza se e senza ma", magari anche evitando di mostrare eccessivo compiacimento per quanto onesta, seria, eticamente superiore sia la sinistra, ma per disarticolare il blocco sociale della destra ci vuole altro. L´attenzione deve essere indirizzata in maniera mirata a quello che il governo promette e a quello che fa, non fa, fa male per l´economia e per il welfare. Non entro nei dettagli che economisti e sociologi autorevoli hanno già variamente criticato, ma qui stanno per l´appunto le contraddizioni. Agli occhi dei componenti del blocco sociale della destra bisogna fare vedere e provare che la crescita del paese, e quindi del loro fatturato, presente e futuro, non è affatto dietro l´angolo (come pensava e plaudiva la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia), che la competitività del paese non sarà possibile senza investimenti nell´ istruzione e nella ricerca, spese che, invece, il governo Berlusconi taglia, che tagliare la spesa pubblica (e magari anche i costi della politica) è auspicabile nella prospettiva di investire quanto si risparmia, che, infine, il pubblico, tanto deprecato dalla maggior parte dei componenti del blocco sociale della destra, può anche essere ridimensionato, ma l´obiettivo deve essere molto più ambizioso: renderlo efficiente. Aggiungerei, ad uso di coloro, soprattutto al Nord, che pensano, una volta conseguito il federalismo fiscale, di potere fare a meno di una politica nazionale, che siamo e continueremo ad essere nella stessa barca.

Predicare tutto questo sarà difficile; farlo è indispensabile. L´opposizione ha qualche probabilità di disarticolare il blocco sociale della destra confrontandosi con le proposte del governo e con le aspettative dei settori sociali che lo hanno ripetutamente sostenuto per quindici lunghi anni. Mostrare capacità di comprensione dei problemi e proporre soluzioni capaci di combinare la ristrutturazione del settore pubblico con la crescita e con l´efficienza sono le due leve con le quali sarà possibile disarticolare il blocco sociale della destra.

Pubblicato il: 22.07.08
Modificato il: 22.07.08 alle ore 13.06   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Nessuna Rifondazione
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2008, 11:22:20 pm
Nessuna Rifondazione

Gianfranco Pasquino


L’esperimento della Sinistra Arcobaleno, affrettato dalla scadenza elettorale e nato in stato di necessità, senza una guida visibile e convincente, privo di un progetto, non poteva avere successo. La inaspettata, ma meritata, scomparsa dal Parlamento degli esponenti di quello che fu soltanto un cartello elettorale è stata decretata, non dal terremoto provocato dal «voto utile».

Ma dalla decisione degli elettori che era davvero inutile votare coloro che non avevano (non hanno) ancora deciso quali debbono essere i loro comportamenti politici, quanta lotta e quando, quanto governo e quando, per quale sinistra, per quali prospettive. Nessuno, infatti, può negare alla sinistra il diritto di manifestare in piazza e di formulare politiche alternative. Ma, quando si è al governo, il dissenso non si esprime con Ministri e segretari di partito che vanno in corteo e le politiche alternative si formulano, eventualmente, nelle sedi governative e parlamentari. Certamente anche per la schizofrenia dei comportamenti e della dichiarazioni dei loro dirigenti, compreso l’allora Presidente della Camera dei Deputati, più della metà dell’elettorato congiunto dei partiti che diedero vita alla Sinistra Arcobaleno li abbandonò al momento del voto del 13 aprile 2008. Appare improbabile che, al termine della stagione dei loro piccoli congressi, quell’elettorato abbia ascoltato messaggi convincenti e stia preparandosi a tornare. Senza nessun barlume di innovazione, i Verdi e i Comunisti Italiani hanno sostanzialmente optato per la continuità delle loro organizzazioni e persino della loro leadership (magari qualche volta qualche dirigente si dimettesse assumendosi la responsabilità delle sconfitte elettorali e non cercasse di imporre il suo successore).

Alla luce dell’esito di un congresso combattuto fra opzioni e posizioni alquanto differenti e distanti, Rifondazione comunista che, in quanto struttura più radicata e più solida, potrebbe (ri)prendere la guida di un processo di rinnovamento della sinistra radicale, antagonista, alternativa (a che cosa?) o comunque preferisca definirsi, sembra non riuscire a guardare avanti, a offrire ad uno sparso elettorato di sinistra qualcosa di politicamente nuovo. Salvare l’identità, peraltro, non meglio definita (ancora puramente e duramente "comunista"? a giudicare dal canto di "Bandiera rossa" la risposta è certamente affermativa) può servire nel migliore dei casi a garantire qualche carica elettiva locale e, a seconda di dove verrà collocata la soglia di sbarramento, anche europea. Ma questo è il passato quando le cariche elettive erano essenziali per il radicamento del partito. Non si è intravista nessuna elaborazione di un futuro politico possibile, nessuna effettiva "rifondazione" di un pensiero nuovo, di una strategia di sinistra originale, neppure nell’emotivo discorso di Bertinotti. Dunque, la maggioranza, per quanto risicata, di Rifondazione ritiene che il governo di destra durerà cinque anni e che la guerra contro le politiche di destra potrà, anzi, dovrà essere condotta in maniera orgogliosamente identitaria.

È una brutta notizia anche per il Partito Democratico poiché le alleanze necessarie per continuare a governare a livello locale senza regali per la destra diventeranno inevitabilmente più difficili e conflittuali. Non potranno sicuramente essere costruite intorno a stanche ripetitive rituali riaffermazioni di identità invece che facendo preciso riferimento a programmi da stilare e a politiche da attuare. Forse, la notizia non è del tutto brutta per i Verdi e per i Comunisti Italiani che, avendo messo in piazza la loro indisponibilità e, più probabilmente, incapacità di cambiare/cambiarsi, non correranno il rischio di essere sfidati nella organizzazione di qualcosa di diverso e di migliore della Sinistra Arcobaleno. Ma, che cosa può essere diverso e migliore se nessuno dei tre partitini ha osato indicare un futuro appetibile e percorribile? A ciascuno la sua identità e la sua nicchia, anche se è facile prevedere che i voti continueranno ad essere pochini.

Soprattutto, però, la notizia è pessima per tutti quegli elettori che ritengono che le loro opinioni e le loro preferenze non sono rappresentabili dal Partito Democratico, ma che avrebbero maggiore peso e potrebbero esercitare qualche influenza grazie ad un’organizzazione di sinistra capace di pensare e di agire nell’ottica dell’elaborazione di un programma di governo, anche con necessarie radicalità sui valori e sui diritti, e della conseguente assunzione di responsabilità che comincia proprio, nella migliore tradizione della sinistra e del comunismo italiano, dal modo di fare opposizione. Rifondazione comunista ha perso l’occasione. Non ha saputo compiere questo passo. Non è neppure un passo indietro: è uno stallo triste. Troppo passato, nessuna Rifondazione.

Pubblicato il: 28.07.08
Modificato il: 28.07.08 alle ore 8.45   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Alleati contro la verità
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 07:42:36 pm
Alleati contro la verità

Gianfranco Pasquino


La commemorazione della strage alla stazione di Bologna si presta ogni anno regolarmente a tentativi di riscrivere quanto è stato accettato in via definitiva in sede giudiziaria attraverso cinque processi. Il tentativo più insidioso, ma non per questo meglio fondato, è quello che mira a individuare presunte responsabilità di una qualche pista, più o meno rossa, che coinvolga i palestinesi e qualche terrorista sciolto, ma che, soprattutto, consenta di togliere dalla lapide posta alla stazione la qualificazione «fascista».

In assenza di elementi nuovi che sono, come ha mostrato sulle pagine de l’Unità l’approfondita ricostruzione effettuata da Gigi Marcucci, alquanto sporadici e labili, la verità giudiziaria deve fare testo e costituisce, pertanto, il massimo di verità storica alla quale è finora stato possibile pervenire. Fino a che erano soltanto qualche ex-fascista e qualche ex-democristiano bolognesi alla ricerca di facile pubblicità a sostenere, senza uno straccio di elemento nuovo di una qualche rilevanza, la cancellazione dell’aggettivo «fascista», il problema si poneva esclusivamente sul piano della pur deprecabile polemica politica contingente ed effimera. Ad eccezione dei giorni intorno al 2 agosto, i “revisionisti” non si sono mai dedicati all’approfondimento dei loro sospetti. Invece, quando è il messaggio del Presidente della Camera a suggerire la necessità di indagare su un’altra pista, allora la questione diventa molto più delicata.

Da un lato, è curioso che sia proprio Gianfranco Fini, di cui non ricordo precedenti interventi in materia, a farsi sostenitore di una tesi al momento fragilissima. Proprio lui che ha fatto molto per allontanare la sua Alleanza Nazionale da un passato torbido, fatto anche di azioni teroristiche, si preoccupa oggi di un aggettivo che non dovrebbe più in nessun modo riguardare il suo partito tantomeno in proiezione futura. Perché attirare incautamente l’attenzione su un’attribuzione che i giudici hanno ritenuto credibile e definitiva? Forse soltanto per ricompattare l’ala dura del partito, con agganci in alcune frange esterne, che morde il freno dovendo sostenere e ingoiare provvedimenti sgraditi del governo in materia di giustizia? Dall’altro, forse, è persino paradossale che sia il capogruppo del Popolo della Libertà alla Camera, Fabrizio Cicchitto, agli inizi degli anni Ottanta cacciato dal Psi ad opera di Craxi perché trovato iscritto alla loggia P2, ad avallare il messaggio di Fini, con tutta probabilità anche per conto di Berlusconi. Quand’anche esistesse una pista diversa da quella fascista, rimane il caso di ricordare che i giudici hanno condannato per depistaggio più di un agente dei servizi segreti, appartenenti alla P2. Perché mai i piduisti avrebbero dovuto “coprire” i palestinesi e le responsabilità di qualche residuale terrorista rosso? Infine, è interessante notare che a questa opera di improbabile riscrittura dei fatti non si è in nessun modo prestato il rappresentante del governo, il ministro per l’Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi. Al contrario, subito criticato da qualche estremista ex-democristiano, Rotondi ha sottolineato l’importanza dell’antifascismo e dell’impegno civile della città di Bologna. Non è affatto un gioco delle parti poiché il ministro, che ha parlato a braccio, persino interloquendo, nella misura del possibile, con parte della piazza, esprimeva certamente le sue convinzioni personali, ma non poteva non impegnare anche, proprio per il suo ruolo e il suo compito, la posizione del governo. A maggior ragione, dunque, risultano oscure le motivazioni di Fini e il sostegno non richiesto, ma subito concesso, da Cicchitto, anche lui una new entry nel complesso e doloroso discorso di quanto ancora non sappiamo sulla strage di Bologna.

Qualcuno potrebbe affermare che il Presidente del Consiglio non può che appoggiare sia Bossi sia Fini quando costoro hanno delle difficoltà con le componenti più estremistiche dei loro rispettivi partiti. E che, dal canto suo, Fini ha bisogno di quell’appoggio e ha sfruttato l’occasione forse più controversa. Eppure “fascista” è una connotazione che non dovrebbe disturbare più il Presidente della Camera. Anzi, potrebbe consentigli di “depurare” Alleanza Nazionale da eventuali scorie rimaste. Sarebbe meglio per tutti, piduisti compresi, se possono permetterselo, rivolgere l’attenzione alla ricerca non di altri, improbabili esecutori della strage fascista, ma dei mandanti. I molti deliberati depistaggi e il passare degli anni rendono sempre più difficile illuminare quello che rimane il punto oscuro della strage di Bologna: chi ha armato, autorizzato, coperto gli stragisti? Con quali motivazioni si è potuto dare mandato per l’esecuzione della più sanguinosa strage della storia italiana? I giudici possono con impegno e meticolosità produrre una verità. Lo hanno fatto. I politici di vertice dovrebbero avere il compito, non di spostare l’attenzione dai fatti accertati e di inquinarli, ma di sgombrare il campo dagli ostacoli tuttora frapposti all’individuazione dei mandanti.

Pubblicato il: 04.08.08
Modificato il: 04.08.08 alle ore 11.32   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO Un partito più Democratico
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2008, 10:00:48 pm
Un partito più Democratico

Gianfranco Pasquino


Non è soltanto una preoccupazione estiva, di vacanze che, in modo speciale, per il governo e il suo capo, si presentano particolarmente rilassate (hanno ottenuto tutto e di più), ma il Partito Democratico continua ad apparire, a quasi un anno dall’elezione del suo segretario, una struttura non completata. Anzi, sembra, da un lato, ricadere, soprattutto a livello locale, sui tradizionali, collaudati, ma non spesso brillanti moduli del funzionamento passato, dall’altro, non avere una bussola per il futuro. Ha certamente ragione Antonio Padellaro nel notare qualche disinvoltura collaborativa di troppo manifestata da alcuni esponenti non marginali del Partito Democratico, che magari, si sono sentiti abbandonati o non abbastanza valorizzati, ma il problema rimane. Aggiungerei che è apparso anche in sede parlamentare quando il PD non ha saputo prendere una chiara posizione sul conflitto di attribuzioni sollevato dalle due camere nel caso Englaro. Su un argomento di tale rilevanza, un grande partito elabora una posizione propria oppure concede a ciascuno dei suoi parlamentari di argomentare la sua posizione in «scienza e coscienza» (come ha fatto, in maniera eccellente, Barbara Pollastrini) comunicando in questo modo a tutti gli elettori informazioni di notevole importanza e anticipando una propria posizione legislativa, sperabilmente capace di ampliare gli spazi di libertà delle persone.

Non è chiaro in che modo la raccolta di cinque milioni di firme e la manifestazione di massa del 25 ottobre potranno contribuire al rilancio di quella che è stata e ha le potenzialità per continuare a essere una grande operazione politica. L’obiettivo ultimo, e neppure il più importante, del Partito Democratico non può essere semplicemente la semplificazione del sistema partitico, e neppure la cancellazione della pur criticabile sinistra-sinistra, che, nel frattempo, ha dimostrato con i suoi congressi di non avere imparato niente e i cui dirigenti si preparano, come se niente fosse accaduto, a rioccupare molte cariche elettive, nelle amministrazioni locali e nel Parlamento europeo approfittando dei relativi sistemi elettorali proporzionale. L’obiettivo ultimo del PD che bisogna conquistare e ribadire giorno per giorno è quello di costruire e fare funzionare un grande partito democratico e riformista. Entrambi gli aggettivi mi paiono fortemente appannati e quanto al sostantivo sembra che di partiti ce ne siano diversi a livello locale, che vanno per la loro strada, non, peraltro, per accertata libertà federalista, ma per egoismi localistici. Per di più, non soltanto sarebbe inutile nasconderselo, ma sarebbe anche controproducente, esiste una corrente di pensiero, non tanto sotterranea, che già mette in conto una crisi della leadership di Veltroni e una sua possibile-probabile sostituzione se l’esito delle elezioni della primavera 2009 non sarà confortante. Quell’esito negativo non è affatto predeterminato, anche se i sistemi proporzionali renderanno meno incisivo l’appello al voto utile, ma il contro-esito positivo deve essere intelligentemente e pazientemente costruito. A mio modo di vedere, è venuto meno lo slancio iniziale poiché troppe decisioni importanti non sono state discusse nelle sedi apposite. Troppo spesso il gruppo dirigente ha preferito fare quadrato intorno a Veltroni, e lo stesso Veltroni, invece di giocare in campo aperto e di reagire con proposte e con sfide, ha preferito farsi proteggere. Troppo spesso le decisioni sulla composizione di alcuni organismi dirigenti sono state preconfezionate e hanno dovuto essere digerite, per, sempre riprovevole, carità di partito, lasciando non pochi mugugni che si traducono poi in minore attivismo, se non, addirittura, in disimpegni.

Quando, poi, la critica, a mio parere, fondata, è stata portata da Arturo Parisi direttamente sulle modalità visibilmente poco democratiche della gestione dell’ultima poco frequentata Assemblea del PD, si è preferito guardare al dito (lo stesso Parisi) piuttosto che alla luna da lui indicata, ovvero a un clamoroso calo di partecipazione, e criticarlo duramente, persino sul piano personale, quasi che colui che più si è battuto per l’idea del Partito Democratico intenda affossare il partito e non, piuttosto, farne davvero un Partito, che sia davvero Democratico. Invece di reagire con proposte concrete e anche con opportune correzioni di linea, il gruppo dirigente si limita a esternare qualche preoccupazione per lo sfarinarsi del partito in più o meno attive Fondazioni di studi e di ricerche i cui risultati, peraltro, non potranno dare profitto e lustro al partito, neanche lo volessero i «fondatori», poiché non esistono sedi apposite nelle quali procedere alla discussione e alla valorizzazione di quei risultati. Le Feste dell’Unitá (con qualsiasi altro nome si chiamino, «ma non è un piccolo particolare»), così poeticamente difese da Ugo Sposetti, potrebbero, anzi dovrebbero essere non soltanto luogo di sano divertimento, ma di altrettanta sana discussione politica. Sembra, invece, che nella maggior parte dei casi, gli organizzatori abbiano deciso di evitare confronti senza rete e di non invitare ospiti non allineati. Però, è soltanto dal conflitto, aperto ed esplicito, argomentato e giustificato, su idee, posizioni, progetti (e le materie, anche quelle che approderanno in Parlamento, non mancano) che il Partito Democratico riuscirà a ricevere nuovo slancio e che il suo segretario, se lo vorrà, potrà ottenere materiale per riflettere e per ridefinire le modalità di funzionamento degli organismi dirigenti e le modalità di attuazione della stessa linea politica. L’estate che non è finita è ancora in grado di portare buoni consigli e migliori propositi.

Pubblicato il: 11.08.08
Modificato il: 11.08.08 alle ore 8.10   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. A proposito di Regime
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 11:19:20 pm
A proposito di Regime


Gianfranco Pasquino


Hanno ragione (o torto) tutti (o quasi). Come si può negare a "Famiglia Cristiana" il diritto di criticare il governo per le impronte ai bambini rom? Non si può e non si deve.

Magari "Famiglia Cristiana" potrebbe mostrare (quasi) la stessa sensibilità e la stessa caritatevole attenzione verso le donne e gli uomini quando si discute di questioni di vita e di morte, di tematiche bio-etiche, di libertà di scegliere, anche dolorosamente.

Allora, sicuramente, il Vaticano non la sconfesserebbe poiché le sue posizioni riflettono (senza quasi) esattamente quelle del Pontefice e della Conferenza Episcopale Italiana che, inoltre, vengono, piuttosto strumentalmente, sostenute da tutto il centro-destra italiano, a cominciare dal capo del governo. Quando si passa allo scenario politico italiano, “Famiglia Cristiana” ha davvero bisogno di citare il confratello cattolico progressista francese “Esprit” per sostenere che il fascismo potrebbe (quasi) rinascere in Italia? Sarebbe preferibile che il settimanale cattolico italiano si assumesse limpidamente le sue responsabilità e facesse sapere ai suoi lettori esattamente come la pensa. Naturalmente, a fare dell’Italia un paese fascista e di Berlusconi un Mussolini contemporaneo non possono essere sufficienti né i pareri di alcuni intellettuali e registi né le azzardate comparazioni degli storici. Per esempio, né Mussolini né Hitler furono eletti dai rispettivi cittadini. Quanto al Führer, venne nominato Cancelliere dal presidente Hindenburg; poi le successive elezioni tedesche furono tutto meno che libere competizioni elettorali. Questo non significa affatto che il fascismo, con un altro nome e con altre caratteristiche, non possa fare la sua ricomparsa, in primis, in Italia. Potrebbe anche avere il volto del berlusconismo e tradursi in un consenso, più o meno passivo (una specialità italiana), prodotto dalla televisione (eppure gli italiani hanno anche altre fonti di informazione, non soltanto l’autorevole settimanale inglese, “Economist” ed “Esprit”, ma anche la fin troppo esaltata internet, i viaggi all’estero, i soggiorni di studio, le esperienze lavorative in Europa e, per esempio, in Cina), diffuso, ovattato, opportunistico.

Un regime fa la sua comparsa, oppure viene deliberatamente creato, quando chi governa approfitta della situazione favorevole e costruisce/impone condizioni nelle quali l’opposizione non riuscirà più ad avere decenti possibilità di sconfiggere e di sostituire il governo. Non mi pare che questo sia avvenuto nel corso del precedente quinquennio di governo del centro-destra (2001-2006) e non vedo segnali in questo senso. Alcune politiche del governo sono assolutamente deprecabili, ma nessuna, a mio modo di vedere, ha finora ridotto le possibilità dell’opposizione di esprimere, manifestare, organizzare il suo dissenso e comunicarlo all’opinione pubblica italiana, e internazionale, che, peraltro, troppo spesso inadeguatamente informata, non capisce che cosa sta succedendo in Italia. Il problema che vedo emergere è, piuttosto, il prodotto di alcuni vecchi vizi italiani: un po’ di opportunismo, magari «dolce», vale a dire mostrarsi compiacenti con chi detiene il potere politico, e un po’ di trasformismo, magari «mite», vale a dire, salire agilmente sul carrettino del vincitore. Capisco che è difficile fare opposizione in una condizione di chiara minoranza e che è ancora più doloroso, per chi è abituato ai privilegi del potere, pensare di rimanere per cinque lunghi anni a «pane e cicoria». Tuttavia, questa è inevitabilmente la condizione delle opposizioni nei sistemi politici democratici, dall’Inghilterra alla Spagna, dalla Francia alla Svezia, paesi nei quali, è vero, non ci sono né Berlusconi né Bossi, ma dove qualche governante potente ha pure esercitato con ferrea durezza il potere acquisito. Se e quando l’opposizione non riesce a impostare il suo lavoro con intelligenza e lungimiranza, ma anche con la necessaria intransigenza, rischia che dai suoi ranghi escano coloro che sono ambiziosi e che si sentono poco e male utilizzati. Qualche volta è un problema di uomini, e delle loro debolezze. Più, spesso, però, è un problema di inadeguata distribuzione di compiti e di insufficiente progettualità. Ciononostante, neppure qualora l’opposizione non riesca a trovare il suo ruolo e a rilanciarsi l’esito automatico in Italia sarà un novello fascismo. Ne seguirebbe, forse, un blando e grigio autoritarismo, neppure troppo cattivo e severo, selettivo nei suoi premi e nelle sue punizioni, insofferente delle proteste europee, ma, in definitiva, costretto a stare abbastanza in riga proprio dalla necessità di non fuoruscire dall’Unione Europea. Non sarebbe un futuro radioso, ma non è neppure un futuro inevitabile. È compito e responsabilità dell’opposizione e dei suoi dirigenti individuare e sfruttare i punti deboli del governo e informare e convincere l’opinione pubblica, ovvero quella sua parte più attenta e più disponibile, che con un altro governo staremmo tutti meglio. Ci sono cinque anni per attuare, senza andare sopra le righe, diventando di conseguenza poco credibili, e senza defezionare per amore di visibilità, di prestigio, di potere, questa faticosa opera di persuasione democratica.

Pubblicato il: 18.08.08
Modificato il: 18.08.08 alle ore 6.19   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Spezzatino alla Padana
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 09:55:06 pm
Spezzatino alla Padana

Gianfranco Pasquino


Non è per niente vero che le alternative ad una riforma amministrativa, burocratica e politica delle Stato italiano si riducano ad un brillante accentramento delle funzioni alla francese e al semifederalismo alla tedesca, come lo aveva giudicato a suo tempo l´allora ideologo della Lega Gianfranco Miglio. Per rimanere alle esperienze europee, si potrebbe guardare allo statuto delle autonomie spagnole e all´efficace processo di devolution di rappresentanza politica, poteri e funzioni dal Parlamento di Westminster.

Oppure alle assemblee scozzese, gallese e nordirlandese, ciascuna delle quali ha scelto, entro determinati limiti, compiti e uoli che pensava di saper svolgere meglio degli inglesi. Sarà anche opportuno ricordare che, guardando ai fondamentali, qualsiasi soluzione venga prescelta nel contesto italiano attuale, è assolutamente fuori luogo parlare di federalismo quando qualcuno riesce a strappare funzioni e soldi allo stato e all´amministrazione centrale. Quand´anche lo si facesse in maniera efficace questo tipo di intervento sarebbe nel migliore dei casi una fattispecie di devolution. E´ persino fastidioso dovere sottolineare ancora una volta che il federalismo originale e vero nasce dal basso, quando le autonomie locali, Comuni, Province ed eventualmente Regioni, decidono di concedere allo stato e all´amministrazione centrale (come fecero le classiche tredici colonie americane) quei poteri e quelle funzioni che altrimenti loro stesse non sarebbero in grado di esercitare in maniera tale da migliorare la qualità della vita dei loro cittadini. Infatti, che si tratti di federalismo oppure più correttamente di devolution, l´obiettivo, preferibilmente denunciato in maniera chiara e perseguito in maniera trasparente, meglio se accompagnato da qualche criterio esplicito e preciso di valutazione, deve essere per l´appunto la qualità della vita dei cittadini.

Se questi sono i fondamentali e, senz´ombra di dubbio, lo sono, è molto curioso e altrettanto pericoloso, che più che di funzioni e di competenze, si discuta di tasse quasi esclusivamente per sostenere che debbono rimanere prevalentemente laddove, più precisamente nelle regioni, vengono pagate. Comunque, quand´anche si giungesse ad un sedicente federalismo fiscale, sarebbe indispensabile costruire un federalismo competitivo perché soltanto la competizione fra gli organismi "federalizzati" consentirebbe ai cittadini di valutare e scegliere a ragion veduta. E´ sufficiente pensare all´istruzione che, affidata alle singole regioni, supponendo che tutte e non soltanto la metà di loro siano in grado di dotarsi e di fare funzionare sistemi scolastici di eccellenza, dovrebbe produrre una vasta circolazione di studenti da regione a regione alla ricerca dell´istruzione migliore per i loro obiettivi personali e secondo i loro talenti individuali.

Sarebbe anche il caso di porre in maniera problematica l´interrogativo relativo alla capacità delle regioni attualmente esistenti. Alcune di loro sono palesemente artificiali e quasi totalmente inefficienti e si potrebbe anche proporne fruttuosi accorpamenti eventualmente sotto forma di macroregioni. Altre, quelle a statuto speciale, risultano ultrabeneficate senza giustificazioni che tengano più. Per molte il rischio è di trovarsi a svolgere nuovi compiti probabilmente non richiesti da loro, ma imposti dall´alto. Se esistessero davvero i federalisti e non si trattasse, invece, di avventurosi avventurieri padani alla ricerca di qualche colpo di dubbio prestigio, tutti questi problemi, unitamente ai costi della crescita inevitabile di apparati burocratici, dovrebbero essere squadernati davanti all´opinione pubblica. Forse, si potrebbe anche dettare una nuova agenda basata sulle municipalità che rappresentano le autonomie storiche con le quali la quasi totalità degli italiani si identifica con notevole soddisfazione e compiacimento. E´ sperabile che i commentatori, che tardivamente si sono accorti dei problemi, e che i politici, che dovranno formulare le soluzioni, acquisiscano al più presto tutti i dati e facciano due conti. In caso contrario, giungeremmo soltanto faticosamente e costosamente a cucinare un indigeribile spezzatino alla padana.

Pubblicato il: 24.08.08
Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.43   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Chi ha paura delle Primarie
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2008, 04:47:32 pm
Chi ha paura delle Primarie

Gianfranco Pasquino


Un partito si impianta, si costruisce, si rafforza e, persino, si espande quando le sue procedure di reclutamento degli iscritti sono inclusive, vale a dire aperte ad un seguito potenziale molto ampio, e le sue procedure di selezione dei dirigenti e dei candidati sono altrettanto aperte, ma anche trasparenti e competitive. Nel suo Statuto nazionale (e, per quello che è possible saperne, anche negli Statuti regionali), il Partito Democratico afferma solennemente principi.

Il primo, che tutte le cariche monocratiche debbono essere contendibili. Il secondo, che le primarie debbono costituire lo strumento principale per scegliere le candidature a quelle cariche, ovvero per consentire agli iscritti e, forse anche agli elettori potenziali di partecicpare ai processi di selezione. Naturalmente, almeno in una certa misura, è comprensibile che il passaggio dalla lettera (e dallo spirito) degli statuti alla pratica risulti in non poche realtà locali alquanto complicato e conflittuale. Tuttavia, almeno su un punto, dovrebbe essere reso chiaro e ribadito che non si può tornare indietro. Qualora ci sia più di una candidatura ad una carica elettiva si debbono indire elezioni primarie e non come qualcuno ha sostenuto convocare «robuste e sane (a parere di chi?) assemblee cittadine» che non sono menzionate da nessuna parte nello Statuto e che certamente sarebbero tutto meno che mobilitanti per gli iscritti e gli elettori. A Firenze, grazie al fatto che il sindaco non è rieleggibile, la situazione sembra chiarissima. Si sono variamente manifestate diverse candidature e, dunque si dovranno tenere elezioni primarie per sceglire fra di loro il prossimo candidato sindaco. Rimane, però, da specificare un punto chiave: saranno primarie ristrette ai soli iscritti al Partito Democratico oppure saranno primarie di coalizione aperte sia a candidature non del Pd, ma espresse da partiti disposti a governare con il Pd, sia agli elettori dei partiti coalizzabili? Comunque si decida, ed esistono buone ragioni per entrambe le opzioni, un altro punto dovrebbe essere chiaro o chiarito. I dirigenti dei partiti, a cominciare dal Pd, hanno il diritto di esprimersi a favore di una candidatura piuttosto che di un’altra, ma nessuno di loro può impegnare il partito in quanto tale. A Bologna e in tutte le situazioni nelle quali vi sia un sindaco in carica che aspira al secondo mandato, la situazione è più complessa. E, infatti, non mancano le tensioni. Il principio generale dello Statuto nazionale deve essere fatto valere senza tentennamenti e senza eccezioni. La carica è contendibile. Dunque, se qualcuno vuole candidarsi, bisogna, anzitutto, che si faccia avanti e alzi la mano, come ha detto Arturo Parisi, ma subito dopo quell qualcuno deve darsi da fare per raccogliere il numero di firme stabilite dal regolamento del Partito Democratico. Per il sindaco in carica, la raccolta di firme non dovrebbe essere necessaria, ma questo non significa affatto che il sindaco possa firmare, come ha provocatoriamente dichiarato un paio di volte Cofferati, per il suo eventuale oppositore, che sia uno o più di uno.

Leggo che, un po’ dappertutto serpeggia il timore di primarie laceranti che conducano poi alla sconfitta nelle elezioni amministrative. Sembra che sia già anche successo così, ma mi riserverei di approfondire se la causa della sconfitta non fosse un partito già diviso piuttosto che il prodotto di primarie male congegnate e peggio praticate. Mi parrebbe ovvio che chi si candiderà alle primarie debba assumere il nobile e solenne impegno ad appoggiare chiunque conquisterà la candidatura. Continuo anche a pensare che un partito che si chiama “democratico” debba essere costituito da persone, gentildonne e gentiluomini, che si comportano in maniera democratica, accettando il verdetto espresso dagli elettori e che sappiano che un Partito cresce quando vince le elezioni e che, dunque, la vittoria del prescelto dalle primarie servirà a tutto il partito e quindi anche a candidate sconfitti nelle primarie. Non voglio, in conclusione, in nessun modo negare che le primarie sono uno strumento che produce anche tensione e delusione. Penso, poiché molti richiamano le primarie presidenziali Usa (ma quelle italiane dovrebbero essere piuttosto paragonate alla scelta dei candidati governatori Usa), al sofferto discorso di “concessione” splendidamente pronunciato da Hillary Clinton. Ma, le primarie producono anche informazioni sulla biografia politica dei candidati, sui programmi e sulle priorità. Non sono mai “concorsi di bellezza” e, infine, lanciano, sulla coda della mobilitazione conseguita, una campagna elettorale che parte con l’abbrivio. I cittadini coinvolti non soltanto saranno più soddisfatti, ma probabilmente saranno anche disponibili a partecipare attivamente per fare vincere il candidato prescelto.

Pubblicato il: 25.09.08
Modificato il: 25.09.08 alle ore 8.38   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Salviamo il Parlamento
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2008, 06:30:03 pm
Salviamo il Parlamento


Gianfranco Pasquino


Non faccio nessuna fatica a criticare, se necessario, stigmatizzare le pulsioni decisioniste del Presidente del Consiglio. Credo che sia un comportamento assolutamente doveroso in chiave di difesa, altrettanto doverosa, della democrazia parlamentare. Magari sarebbe anche utile che questa difesa non venisse affidata ai troppi commentatori e riformatori che, nell’ambito del centro-sinistra, hanno nell’ultimo decennio inseguito le formule dell’inesistente e pericoloso «premierato forte».

Dovrebbero tacere anche i sostenitori del presidenzialismo poiché spesso la versione da loro sostenuta non era affatto quella statunitense, dove Congresso, Corte Suprema e poteri degli Stati (non soltanto "federalismo fiscale") costituiscono reali freni e contrappesi.
In una democrazia parlamentare, i contrappesi all’eventuale, altrove molto raro, strapotere del governo è spesso dato, non esclusivamente dalle prerogative del Parlamento, dirò meglio dei due rami del Parlamento che hanno compiti, funzioni e poteri diversi, ma dagli stessi parlamentari di maggioranza: altri sistemi elettorali, altra cultura politica. Nominati da Berlusconi (e da Fini e da Bossi), i parlamentari della maggioranza di destra sono ovviamente ultradisciplinati, anche se, talvolta, non proprio assiduamente presenti. Adesso, apprendiamo dalla fonte autorevole del loro capo che a stare in aula, ad ascoltare, anche se distrattamente, i colleghi dell’opposizione, a votare, vengono colti dalla depressione. In questo caso, molti, altrove, cambierebbero professione.

Invece, il Presidente del Consiglio vanta una formula migliore, davvero decisiva: porre sostanzialmente fine ai dibattiti parlamentari, accelerare i lavori attraverso una drastica riforma dei regolamenti, procedere per decreti-legge. Dopodiché, la felicità torna nei cuori dei parlamentari di maggioranza e, presumibilmente, dei cittadini italiani. Altrove, penso, ad esempio, alla patria della democrazia parlamentare, l’Inghilterra, gli Speakers delle due Camere agirebbero da severi e inflessibili difensori del ruolo del Parlamento e dei poteri dei singoli parlamentari. Il governo, il loro governo, dovrebbe attenersi alle regole vigenti e non gli sarebbe consentita nessuna prevaricazione. Oltre ai regolamenti scritti, opererebbero a moderare il governo (che, incidentalmente, in Inghilterra è composto da un solo partito), anche una cultura politica rispettosa dell’opposizione guidata da un Primo ministro ombra, legittimata, alla quale vengono riconosciuti spazi di visibilità e di intervento.

È auspicabile che in Italia anche il Presidente del Senato Schifani segua l’esempio del Presidente della Camera Fini, che attendiamo alla prova dei fatti, e non accetti che la sua Camera venga ridotta a passacarte in una ultraveloce catena di montaggio legislativo. Magari uno sguardo alla Costituzione, ad esempio, in materia di decretazione d’urgenza (art. 77) facendone rispettare i requisiti di "necessità e urgenza" nonché di omogeneità e quindi respingendo i famigerati decreti-omnibus la cui omogeneità consisterebbe soltanto nella proroga di date di scadenza. Oppure ricordando al governo l’art. 76 che scrivo per esteso sicuro di dare un aiuto ai parlamentari della maggioranza talmente depressi da non volerlo leggere tristi e soli: "L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti" (il corsivo è mio). Naturalmente, è del tutto lecito essere critici dei tempi e dei modi di funzionamento del Parlamento italiano a suo tempo correttamente pensati per garantire governo e opposizione, ma soprattutto per consentire un confronto dal quale entrambi traggono vantaggio e che serve in special modo agli elettori affinché ottengano elementi con i quali valutare la capacità e coerenza del governo nell’attuare il suo programma e la capacità e l’originalità delle proposte dell’opposizione e l’esercizio della sua funzione di controllo. Per questa ragione, qualsiasi riforma abbia in mente Berlusconi e qualsiasi proposta venga dal suo apposito gruppo di studio, l’Assemblea rappresentativa, sia nelle democrazie parlamentari sia in un’eventuale democrazia presidenziale, deve prevedere un ruolo specifico e rilevante per l’opposizione, nonché, aggiungo, anche una legge elettorale che, meglio se con i collegi uninominali, consenta l’accesso al parlamento a candidati/e che garantiscano di sapere anche essere autonomi rispetto al governo e all’opposizione, perché vogliono esprimere le esigenze e le preferenze dei loro elettori.

Nella loro asfittica concezione di democrazia guidata e attenta soltanto ai sondaggi, molti parlamentari della maggioranza (nonché lo stesso Presidente del Consiglio) sono temporaneamente usciti dalla depressione per protestare contro l’assimilazione fatta da Walter Veltroni fra putinismo e berlusconismo. Hanno ragione: il putinismo non è ancora stato conseguito nella situazione italiana. Ma l’obiettivo del berlusconismo, ogni volta che si esprime in materia di istituzioni dalle critiche al Presidente della Repubblica alle minacce alla Corte Costituzionale per finire con il ridimensionamento del Parlamento e l’emarginazione dell’opposizione, sembra proprio essere una qualche forma di regime simile a quella tenacemente e pazientemente, ma anche con la violenza, costruita dall’ "amico Vladimir".
Cosicché, pur consapevoli delle inadeguatezze del Parlamento e della farraginosità del suo funzionamento, è imperativo difenderne il ruolo di contrappeso nei confronti di qualsiasi maggioranza e di qualsiasi capo del governo.



Pubblicato il: 06.10.08
Modificato il: 06.10.08 alle ore 11.44   
© l'Unità.


Titolo: Gianfranco PASQUINO Politica di oggi e saggezza dei Costituenti
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 05:05:37 pm
Politica di oggi e saggezza dei Costituenti

di Gianfranco Pasquino


Nonostante abbia scritto un libro intitolato Sistemi politici comparati, non sono in grado di citare un solo caso straniero nel quale il capo del governo va, per di più periodicamente, a presentare il libro di un giornalista di regime. Nonostante sia convinto che la religione, qualsiasi religione, possa avere, se lo desidera un ruolo pubblico, non conosco nessun caso in cui l'ex-Presidente della Conferenza Episcopale sia andato a presentare il libro di un parlamentare in dibattito con uno dei capi dell'opposizione. I due maggiori critici del teatrino della politica hanno, in questi giorni, dimostrato, se ce ne fosse ancora stata la necessità, di essere autorevoli protagonisti su quella ribalta.
È probabile, che molti italiani abbiano così trovato una conferma ai loro sentimenti antipolitici, e sperabilmente, anche di laicità, proprio nella commistione politica, giornalismo, religione. Dal teatrino della politica hanno, però, anche ricevuto delle informazioni importanti. In primis che il capo del governo, approfittando del conflitto di straordinaria intensità, anche questo senza paragoni nelle democrazie occidentali, fra le procure di Catanzaro e Salerno, intende finalmente riformare la giustizia. Come se nei suoi anni di governo non ci avesse mai provato e come se non costituiscano esempi preclari di "riforma della giustizia" i lodi che lo hanno messo al sicuro!
La presentazione di un libro è l'occasione più propizia per lanciare una riforma che gli italiani attendono da tempo: rendere la giustizia più giusta, la magistratura più efficiente. Purtroppo, non sembrano essere questi gli obiettivi prioritari del capo del governo. L'efficienza della magistratura verrà piuttosto garantita attraverso il suo controllo politico ad opera del Ministro della Giustizia e la sua subordinazione all'indirizzo che il Ministro vorrà dare ai reati da perseguire.
Per fortuna, i Costituenti che non utilizzavano il loro tempo per presentare libri e neppure per recensioni "incrociate" (tu recensisci il mio libro, io farò lo stesso con il tuo) hanno previsto una efficace clausola di salvaguardia per qualsiasi riforma costituzionale. L'art. 138 consente una facile richiesta di referendum confermativo la cui validità non è subordinata a nessun quorum. Non c'è dubbio che la compatta maggioranza di Berlusconi alla Camera e al Senato consentirà l'approvazione di qualsivoglia riforma della giustizia riguardo alla quale sarebbe interessante conoscere non soltanto i "no" delle correnti della magistratura, ma anche le proposte alternative.
Dopodiché, l'opposizione, ovvero il Partito Democratico la cui visione riformatrice non è ancora dato di conoscere, chiederà un referendum contro. Finalmente, si aprirà, magari anche alla prossima presentazione di libri di quel giornalista, un dibattito pubblico che offra ai cittadini il materiale indispensabile a decidere. Grazie ai Costituenti.

13 dicembre 2008     
© 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa p


Titolo: Gianfranco PASQUINO Ripensare struttura e opposizione
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 05:07:21 pm
Ripensare struttura e opposizione

di Gianfranco Pasquino


Riconoscere che nel Partito Democratico esiste una questione, abitualmente, ma impropriamente, definita, morale è l'imprescindibile punto di partenza del necessario ripensamento di che cosa è e che cosa dovrà essere il Partito Democratico.

Gli affaristi in politica si trovano in tutti i partiti, in alcuni addirittura a partire dal vertice. Ma questa non è né una consolazione né un'assoluzione. La questione morale è davvero una questione politica. Discende dalla fretta con la quale è stato lanciato, non costruito, poiché in non poche zone, ancora non esiste, il Pd.

Non è mai stato chiaro quale organizzazione il Pd dovesse darsi, quali metodi di reclutamento, selezione, promozione e, non da ultimo, rimozione di dirigenti e rappresentanti. Non esiste una scorciatoia organizzativa che, per di più, pretenda di ottenere fulminei successi politici e elettorali sommando gruppi dirigenti senza nessun ricambio e senza nessun conflitto di idee, ma anche fra persone. Il Partito Democratico ha perso le elezioni politiche, ma i dirigenti non hanno mai smesso di vantare un risultato positivo. Sicuramente, nessuno di loro ha perso la sua carica.

Questo, però, non può essere il metro di giudizio a meno di affondare nella perniciosa autoreferenzialità.

Se avanza Di Pietro non è per il suo giustizialismo che, in buonissima sostanza, è richiesta di applicazione rigorosa delle leggi.
E' perché gli elettori, in special modo, nell'ambito della sinistra, vogliono rigore e non compromessi, opposizione e non inspiegabili e insostenibili dialoghi.

Insomma, è ora di ripulirsi dagli arrivisti, alcuni dei quali già arrivati da tempo e riciclati, di abituarsi all'idea che il Pd starà all'opposizione per cinque anni, di scrivere l'agenda delle cose da fare interpretando al meglio, come fanno alcuni governanti locali al Nord, le esigenze di oggi e di domani della società italiana.


18 dicembre 2008     

© 2008 L'Unità.it Nuova Iniziativa Editoriale Spa


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Napolitano e i tre vestiti del Presidente
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2009, 04:52:57 pm
Napolitano e i tre vestiti del Presidente

di Gianfranco Pasquino


I giuristi italiani si sono affannati per trovare una giusta definizione del ruolo del Presidente della Repubblica italiana.

Deve essere un arbitro fra le forze politiche e, data la loro non brillantissima natura, deve spingersi a rappresentare i cittadini quando le loro esigenze vengono trascurate e le loro preferenze disattese?

Deve,comunque e sempre, essere il guardiano della Costituzione, in particolare quando con alcuni spettacolari annunci se ne prospettano riforme particolaristiche, pasticciate e pericolose come il federalismo, gli interventi contro la magistratura, il presidenzialismo?

Deve essere un vero e proprio predicatore dei valori della Costituzione, ma anche del senso dello stare insieme e di un minimo di collaborazione corresponsabile fra governo e opposizione?

Nel suo messaggio presidenziale, Giorgio Napolitano ha declinato con chiarezza e al meglio un po’ tutti questi ruoli.

Poiché la crisi economica internazionale è grave e, nonostante le illusorie affermazioni in contrario del capo del governo, destinata a durare, il non inutile, come temette il predecessore Luigi Einaudi, “predicatore” invita a considerare la crisi come un’occasione per vivere e agire in maniera più sobria e austera, ma anche per cambiare, al limite per riformare le istituzioni (Pubblica Amministrazione compresa).

Un ruolo centrale rimane attribuito al Parlamento che deve essere valorizzato nel suo compito di giudizio e di proposta, e non mortificato ovvero, come fa la maggioranza governativa, “bypassato”. Il “guardiano” provvederà, naturalmente, affinché le riforme, che vanno condivise, siano rispettose dei valori di libertà, eguaglianza dei diritti e solidarietà e che, altrettanto naturalmente, quelle riforme non entrino in conflitto con l’unità nazionale.

Costituzionalmente, infatti, il Presidente è il rappresentante dell’unità nazionale e non intende in nessun modo derogarvi.
Al contrario, dichiara esplicitamente che continuerà ad ispirarsi ai valori costituzionali, sottolineandone l’essenza ideale e morale, e che lo farà con “imparzialità e indipendenza”.

Dunque, il Presidente ha deciso di accogliere nella sua interpretazione e nella sua azione tutt’e tre le definizioni che i giuristi hanno prospettato. Sarà, volta a volta, arbitro, guardiano, predicatore, e ha già dato mostra di saperlo fare. Tuttavia, l’anno nuovo si preannuncia istituzionalmente e costituzionalmente alquanto complicato, in particolare se il costume dei politici non sarà ispirato all’interesse pubblico. Probabilmente, il Presidente dovrà intervenire in maniera, per quanto riservata esercitando la famosa moral suasion, più incisiva, soprattutto se verrà sfidato dal presidenzialismo che, per quanto indefinito, colpisce al cuore la forma di governo disegnata dalla Costituzione dell’Italia repubblicana.

E, allora, caro Presidente, molti auguri.


02 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Quella soglia per l'Europa
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2009, 05:02:02 pm
Quella soglia per l'Europa

di Gianfranco Pasquino


In poco più della metà degli Stati-membri dell’Unione Europea esistono leggi per l’elezione del Parlamento europeo che contengono soglie percentuali (dal 3 al 5 per cento) per ottenere seggi. Spesso, quelle leggi sono la logica prosecuzione di leggi simili già da tempo utilizzate per l’elezione dei rispettivi parlamenti nazionali. In poco meno della metà degli Stati-membri gli elettorati hanno la possibilità di usare uno o più voti di preferenza fra le candidature della lista partitica che prescelgono. Questa sinteticissima ricognizione, non effettuata da Eugenio Scalfari che, quindi, sbaglia nel dire che dappertutto esistono soglie di sbarramento e da nessuna parte le preferenze, approda ad una limpida conclusione.

L’unico elemento comune alle leggi vigenti nei singoli Stati-membri è l’esistenza, persino in Gran Bretagna, che ha dovuto rinunciare al suo sistema maggioritario in collegi uninominali, di leggi proporzionali sostanzialmente imposte dalla “armonizzazione” voluta tempo fa dalla Commissione Europea. Dopodiché i gruppi parlamentari nel Parlamento europeo sono abbastanza numerosi, all’incirca sette, e completamente omogenei al loro interno. Credo che l'esistenza di una qualche frammentazione a livello di Parlamento europeo sia persino opportuna.
Privo di qualsiasi funzione di governo, ma non del tutto di potere sulla scelta e sulla vita della squadra di governo, ovvero della Commissione, il Parlamento deve cercare di essere assolutamente rappresentativo dei cittadini dell'Europa. Deve essere inclusivo al massimo, consentendo accesso alla sua tribuna ad un’ampia pluralità di voci, di idee, di visioni che, anche nel dissenso, potrebbero contribuire a fare crescere l’unificazione politica attraverso il confronto fra diversità. L’eventuale decisione italiana di porre una soglia del 4 per cento per l’accesso al Parlamento europeo, soglia già esistente per la Camera dei deputati, non risponde a nessuna richiesta europea.

È discrezionale e, come tale, può essere criticata poiché, a bocce ferme, comporta la probabile esclusione dei rappresentanti di molti piccoli partiti di sinistra (“nanetti” nella memorabile espressione di Giovanni Sartori). Non è, però, una soglia invalicabile se alcuni di quei nanetti decidessero di procedere a dare vita non a improvvisati cartelli elettorali, ma a forme di aggregazione politica giustificate da un progetto incentrato sull’Europa. Quella soglia, più o meno discutibile, non è, di per sé, liberticida, ma è sicuramente funzionale ad evitare smottamenti sia del Popolo della Libertà sia del Partito Democratico.
Potrebbe anche diventare funzionale per la sinistra in Italia se sapesse coagularsi intorno ad una piattaforma condivisa che rappresentasse, non gli interessi del suo ceto politico, ma quelli degli elettori che non si riconoscono nell’attuale claudicante bipolarismo.


03 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Votare in scienza e coscienza
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:13:10 pm
Votare in scienza e coscienza

di Gianfranco Pasquino


In questioni che riguardano la vita e la morte qualsiasi regolamentazione rischia di essere restrittiva della libertà delle persone. Nessuna regolamentazione deve essere dettata dalla fretta né può configurarsi come regolamentazione ad personam, anzi, per come si prospetta il testo della maggioranza, contra personam. Poiché i parlamentari saranno chiamati a decidere su materie che riguardano noi cittadini, allora è opportuno che ciascuno di loro si prepari ad argomentare la sua valutazione del testo legislativo, a giustificare in totale trasparenza la sua opzione di voto e ad assumersene la piena responsabilità. Quanto migliore sarebbe la rappresentanza politica, di preferenze e di valori, se esistessero collegi uninominali nei quali i parlamentari si confrontassero con gli elettori!

Dovrebbe essere fuori discussione che, quando si tratta della vita e della morte, non possono valere nessuna affiliazione e nessuna appartenenza partitica. Non può essere imposta, come minacciata dal capo del governo e echeggiata dai capigruppo del suo partito, ma dignitosamente respinta dal Presidente della Camera, nessuna disciplina di partito.

Tuttavia, precedenti esperienze, nient’affatto ammirevoli, fanno temere che molti, probabilmente troppi, parlamentari si trincereranno dietro una improponibile “libertà di coscienza” e forse vorranno anche farsi proteggere dal voto segreto.

Al contrario, tutti i parlamentari dovrebbero dichiarare solennemente che rinunciano alla segretezza del loro voto perché desiderano che i loro elettori e, più in generale, l’opinione pubblica interessata e tutti i cittadini sappiano come hanno votato, dando concreta attuazione alla rappresentanza della Nazione senza vincolo di mandato, neppure quello che potrebbe venire loro imposto dal partito, sia al governo sia all’opposizione, che li ha nominati parlamentari.

Auspicherei anche, ed è il punto che mi preme di più, che ciascun parlamentare non chiamasse in causa soltanto la sua coscienza, ma anche la sua “scienza”. Mi pare, infatti, giusto che i parlamentari comunichino, attraverso una apposita dichiarazione di voto individuale, quanto hanno studiato e appreso sulle condizioni che riguardano l’accertamento della fine della vita e l’esistenza o meno di accanimento terapeutico.

Insomma, la coscienza da sola non deve essere considerata una giustificazione sufficiente per l’espressione di qualsiasi tipo di voto. Lo potrà essere soltanto se si qualificherà come una coscienza informata dalla scienza. È il minimo che si possa esigere da chi ci rappresenta soprattutto se sostiene di essere legittimato a decidere sulle condizioni della nostra vita e della nostra morte.


10 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Gianfranco PASQUINO Oltre il bicameralismo imperfetto
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2014, 11:47:14 pm
Oltre il bicameralismo imperfetto

Su: A vostra insaputa

Autore: Gianfranco Pasquino
Data:2014-03-31
   
Il bicameralismo italiano, non essendo affatto “perfetto”, come troppi, persino fra gli addetti ai lavori, si ostinano a dire, deve, comunque, essere riformato. Meglio definito paritario o simmetrico, il bicameralismo può anche essere abolito del tutto. Esiste il monocameralismo in paesi non scivolati sotto il tallone dell’autoritarismo né di altri “ismi” come la Danimarca, la Finlandia, il Portogallo, la Svezia. Altrimenti può essere differenziato in maniera risolutiva ed efficace, vale a dire, affinché se ne giustifichi la persistenza. Fermo restando che in nessun sistema politico bicamerale sono entrambe le Camere a dare (e a togliere) la fiducia, questa non può essere l’unica nota differenziante e la giustificazione di una presunta migliore governabilità sarebbe davvero meschina e insufficiente. La differenziazione che conta è quella che riguarda la competenza, congiunta o esclusiva, per materia. Se il prossimo Senato dovrà essere una camera di “riflessione”, allora bisogna che siano chiare le materie sulle quali darà il suo apporto.

La grandissima maggioranza dei parlamenti bicamerali basa la sua differenziazione sulla rappresentanza territoriale. Le due eccezioni sono costituite dal prototipo della democrazia parlamentare, la Gran Bretagna, dove la Camera dei Lord, composta da Lord ereditari o di nomina reale, ha un collegamento minimo con il territorio, e dal prototipo della democrazia presidenziale, gli Stati Uniti d’America, dove il Senato, probabilmente, il più forte ramo parlamentare esistente al mondo, ha certamente un collegamento fortissimo con il territorio, gli Stati, ma sarebbe alquanto improprio definirlo camera di rappresentanza territoriale. In Europa, la migliore e più forte rappresentanza territoriale è offerta dal Bundesrat tedesco. I suoi solo 69 componenti sono nominati dalle maggioranze di governo di ciascun Land. Vittoriosi in Baviera i democristiani nominano i loro rappresentanti al Bundesrat senza nessuna concessione ai socialdemocratici e ai verdi. Nei Lander dove vincono, i Socialdemocratici e i Verdi fanno altrettanto nominando soltanto loro rappresentanti.  Lo stesso vale per tutti gli altri Länder.

Mutatis mutandis, purché i mutamenti siano limitatissimi, questa modalità di composizione del prossimo, numericamente ridottissimo, Senato italiano, sono facilmente imitabili. Come stanno le cose, in Lombardia, saranno la Lega Nord e Forza Italia a nominare i loro rappresentanti (che potrebbero anche essere senatori uscenti, o giù usciti), mentre in Emilia-Romagna sarà il Partito Democratico a farlo, tenendo conto degli eventuali alleati al governo della Regione. Esiste, però, anche una modalità più innovativa, che garantirebbe rappresentanza territoriale, dando grande potere agli elettori e agli eletti. Una volta stabilito il numero complessivo dei prossimi Senatori, suggerirei non più dei componenti del Bundesrat, e distribuiti fra le Regioni di modo che quelle piccole ne abbiano uno soltanto e quelle grande non più di quattro/cinque, la loro elezione avverrebbe in una competizione su scala regionale, in inglese si dice at large. Vale a dire che ciascun elettore avrebbe un solo voto con il quale scegliere il suo candidato in liste regionali presentate dai partiti, ma anche da associazioni dei più vari tipi. Coloro che otterranno il più alto numero di voti individuale saranno eletti e andranno a rappresentare la loro Regione, proteggendone e promuovendone gli interessi in Italia, e anche in Europa, se a questo nuovo Senato saranno affidate le politiche europee e se l’UE riuscirà mai a diventare effettivamente l’Europa delle Regioni.

Stabilita con criteri chiari e univoci la composizione del nuovo Senato, dovrebbe risultare più semplice la differenziazione delle materie di competenza delle due camere. Comunque, se l’attuale Senato mira a giustificarsi come camera di riflessione, ne ha l’opportunità immediata. Respinga la blindatura imposta dal governo e proponga una riforma all’altezza della sfida. Hic Rhodus hic salta.

Da - http://avostrainsaputa.com.unita.it/politica/2014/03/31/il-bicameralismo-imperfetto/


Titolo: Gianfranco PASQUINO "La sinistra? Vive di nostalgia"
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2015, 06:17:43 pm
Riforme, Gianfranco Pasquino: "Sono tutte sbagliate".
Il futuro sorride a Beppe Grillo. "La sinistra? Vive di nostalgia"

Redazione, L'Huffington Post
Pubblicato: 02/10/2015 09:52 CEST Aggiornato: 1 ora fa

"Tutte le riforme sono sbagliate. Alcune lo sono nel loro impianto stesso; altre lo sono nelle probabili conseguenze". Il politologo Gianfranco Pasquino boccia le riforme costituzionali in corso di votazione al Senato e in un'intervista a ItaliaOggi critica la strategia di Matteo Renzi, preconizza un futuro a 5 Stelle e bolla la sinistra italiana come una formazione nostalgica senza leader né idee.

La posizione più critica è riservata alle riforme - dall'Italicum al nuovo Senato, dalle Province ai referendum - perché "il pacchetto di riforme Renzi-Boschi comprime e riduce il potere elettorale dei cittadini. Non restituisce affatto lo scettro (della sovranità popolare). Al contrario, lo ammacca, per di più, senza nessun vantaggio per la funzionalità del sistema politico". Elementi che sono stati superati dagli "scontri dentro il Pd e dai trasformisti che si affollano alla corte del fiorentinveloce".

Secondo Pasquino non è da salvare nulla. "L'Italicum è una versione appena corretta del Porcellum. Se il bicameralismo imperfetto va superato, allora la vera riforma è l'abolizione del Senato, non questo bicameralismo reso ancora più imperfetto e pasticciato". Il modello migliore sarebbe il Bundesrat. L'Italicum, prosegue Pasquino, "darà una maggioranza assoluta ad un partito, sottorappresenterà le opposizioni, produrrà una Camera dei Deputati fatta per almeno il 60 per cento, forse il 70, di parlamentari nominati che non avranno nessun bisogno di rapportarsi ad elettori che neppure li conoscono. Pertanto, l'Italicum aggraverà la crisi di rappresentanza". Secondo il professore manca un pronunciamento della Consulta che "dovrebbe bocciare le candidature multiple e imporre una percentuale minima per l'accesso al ballottaggio".

Per quanto riguarda il referendum, oggi "l'art. 138 è limpido. Il referendum costituzionale è facoltativo. Può essere chiesto (qualora la riforma costituzionale non sia stata approvata da una maggioranza parlamentare dei due terzi) da un quinto dei parlamentari oppure da cinque consigli regionali oppure da 500 mila elettori. I referendum chiesti dai governi, da tutti i governi, compreso quello di Matteo Renzi, sono tecnicamente dei plebisciti, fra l'altro monetariamente costosi, e sostanzialmente inutili tranne che per il capo di quel governo. Populisticamente dirà che il popolo è con lui. È lui che lo interpreta e lo rappresenta, non le minoranze dentro il Pd, non l'opposizione politico-parlamentare, meno che mai i gufi. È dal popolo che lui sosterrà di avere avuto quella legittimazione che gli manca da quando produsse il ribaltone del governo Letta. Ovviamente si tratta di un inganno".

Sul fronte del capo dello Stato, poi, "temo che sarà ingabbiato - dice ancora Pasquino a ItaliaOggi - Non nominerà il presidente del Consiglio poiché questi sarà automaticamente il capo del partito/lista che ha vinto il premio di maggioranza, e pazienza. Ma, più grave, non potrà sostituirlo. Il sistema s'irrigidisce e quindi può anche spezzarsi rovinosamente. Non potrà, il presidente della Repubblica, neppure opporsi alla richiesta faziosa di scioglimento del parlamento. Altro irrigidimento, altro rischio. Potrà, però, bella roba senza nessuna logica istituzionale, nominare cinque senatori nella camera delle regioni".

Pasquino definisce "una grossa bugia" quella che arrivano le riforme dopo decenni di immobilismo. "Nei 30 anni anteRenzi abbiamo fatto due riforme elettorali, una bella legge per l'elezione dei sindaci, due riforme costituzionali del Titolo V e siamo anche riusciti a introdurre le primarie. Tutte riforme brutte? Ma quelle che ci stanno arrivando addosso sono almeno belline? Proprio no".

Il politologo si lancia poi in previsioni sul futuro. Nel 2018 "il vecchio Berlusconi sarà certamente fuori gioco", per motivi anagrafici, spiega, mentre Matteo Salvini "sarà pimpante, battagliero, con una nuova felpa colorata, ma consapevole di non potere vincere da solo e altrettanto consapevole che la sua politica gli impone di correre da solo per prendere tutti i voti che può, che saranno molti, ma non abbastanza". Dal canto suo Beppe Grillo "è il giocatore che si trova nelle condizioni migliori. Stando così le cose, continuando l'insoddisfazione degli italiani nei confronti della politica, dell'euro, dell'Unione europea, e rimanendo il premio in seggi da attribuire a partiti e/o liste singole, il candidato di Grillo alla presidenza del Consiglio andrà al ballottaggio e parte dell'elettorato italiano gli consegnerà il proprio pesante voto di protesta. Ne vedremo delle belle".

E la sinistra? "La sinistra non sa e non vuole ricomporsi - risponde Pasquino - Non ha nessun punto programmatico forte. Non ha neppure un leader attraente com'è Tsipras in Grecia, o com'è Pablo Iglesias di Podemos in Spagna. La sinistra italiana testimonia la sua nostalgia (non quella degli elettori) e si crogiola nella sconfitta, tutta meritata".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/10/02/riforme-gianfranco-pasquino_n_8231262.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Gianfranco PASQUINO. La legge elettorale, i sistemi politici e 5 cose da non...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 07, 2017, 06:35:36 pm
La legge elettorale, i sistemi politici e 5 cose da non dimenticare
Bisogna sfatare un po' di luoghi comuni sul dibattito attuale e prendere con le pinze le stime del voto che si fanno a quattro mesi dal voto

Di GIANFRANCO PASQUINO
07 dicembre 2017

Questo è un articolo dell'Atlante elettorale della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise) che - in collaborazione con Repubblica - offre ai lettori una serie di uscite settimanali in vista delle elezioni politiche del 2018. La Sise promuove dal 1980 la ricerca nel campo delle elezioni, delle scelte di voto e del funzionamento dei sistemi elettorali. L'Associazione si avvale del contributo di giuristi, sociologi, storici e scienziati della politica, con l'obiettivo di favorire la discussione attraverso l'organizzazione di convegni di taglio accademico aperti anche al contributo di politici e commentatori.

La legge elettorale Rosato assegna due terzi dei seggi (66 per cento) della Camera e del Senato con metodo proporzionale e un terzo con metodo maggioritario in collegi uninominali. Nel 2006 circa il 90 per cento dei seggi furono assegnati con il metodo proporzionale; nel 2008, più dell'85 per cento; nel 2013 più del 75 per cento. Quindi, l'Italia non sta affatto "tornando alla proporzionale". Non ne era mai uscita, neanche con l'Italicum. Al contrario, è cresciuta la percentuale di seggi attribuiti con metodo proporzionale.

Tutte le democrazie parlamentari europee utilizzano da tempo, quelle scandinave, il Belgio e l'Olanda, da più di cent'anni, leggi elettorali proporzionali. La legge tedesca, che si chiama "rappresentanza proporzionale personalizzata", in vigore dal 1949, ha subito diversi piccoli adattamenti, ma la struttura è invariata.

Soltanto la Francia ha dal 1958, con la sola interruzione delle elezioni legislative del 1986, una legge elettorale maggioritaria in collegi uninominali con clausola di accesso al secondo turno. Talvolta, raramente, passano al secondo turno soltanto due candidati. Allora si ha tecnicamente ballottaggio. Quando i candidati che rimangono in lizza sono più di due si ha, per l'appunto, il secondo turno nel quale chi vince raramente ottiene la maggioranza assoluta dei voti espressi.

La quasi totalità dei governi delle democrazie europee sono governi di coalizione, composti da due o più partiti. Rari sono i casi di governi composti da un solo partito, ovviamente ad esclusione della Gran Bretagna (tranne nel periodo 2010-2015) e, soprattutto nel passato, dei governi di minoranza socialdemocratici, in particolare in Svezia, agevolati dalla non necessità di un esplicito voto di sfiducia.

I governi di coalizione si caratterizzano per due elementi. Il primo elemento è che, comprensibilmente, due partiti rappresentano l'elettorato, le sue preferenze, i suoi interessi, persino i suoi ideali, meglio di quanto possa fare un solo partito. Il secondo elemento è che il programma concordato, faticosamente quanto si vuole (ma con meno fatica se non è la prima volta che si forma quella coalizione di governo) smusserà le punte estreme dei programmi dei differenti partiti. Quel governo risulterà meglio rappresentativo delle preferenze degli elettori mediani.

Nonostante recenti, comparativamente e numericamente del tutto infondate, affermazioni, non è affatto vero che l'alternanza al governo fra partiti e coalizioni costituisca una costante nel funzionamento delle democrazie parlamentari europee. Al contrario, l'alternanza è un fenomeno generalmente raro e l'alternanza "completa" - quella nella quale un partito o una coalizione subentrano ad un partito e ad una coalizione escludendoli totalmente - è un fenomeno rarissimo. Richiede l'esistenza di un solido sistema bipartitico com'è stato quello inglese dal 1945 al 2010, nel quale soltanto due partiti, gli stessi, potevano ottenere la maggioranza assoluta di seggi nella Camera dei comuni e, quando la ottenevano, governavano da soli. Altrove, nella grande maggioranza dei casi, quello che avviene è la sostituzione di uno o due partiti al governo accompagnata dalla persistenza di uno o due partiti nel governo: semi-alternanza? Semi-rotazione?

La casistica è amplissima. Mi limiterò ai due esempi più recenti. In Austria, i Popolari, già al governo, hanno deciso di fare una nuova (ma non inusitata) coalizione di governo escludendo i Socialdemocratici e includendo i Liberali. In Germania è ritornata possibile la Grande Coalizione, esempio probante di non alternanza. In nessuna delle democrazie parlamentari europee è mai stato posto l'obiettivo di conoscere "chi ha vinto" la sera stessa delle elezioni.

Infine, una nota di cautela sulle simulazioni relative ai risultati elettorali e alle loro conseguenze sui governi possibili. Ragionare su quelle simulazioni a quattro mesi dalle elezioni prendendole come attendibili significa ritenere che:
la campagna elettorale non farà nessuna differenza;
gli accordi pre-elettorali fra i partiti saranno irrilevanti;
le personalità dei leader degli schieramenti non conteranno quasi nulla;
nessuno degli antagonisti commetterà errori significativi né troverà un asso nella manica;
le preferenze degli elettori, molti dei quali, è noto, decideranno il loro voto nell'ultima settimana, se non la notte prima dell'elezione, rimarranno stabili.
Tutto improbabile.
 
* Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza Politica.

© Riproduzione riservata 07 dicembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/12/07/news/la_legge_elettorale_i_sistemi_politici_e_5_cose_da_non_dimenticare-183232351/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P1-S1.6-T1


Titolo: Gianfranco PASQUINO. Politologia e politica del renzismo.
Inserito da: Arlecchino - Marzo 17, 2018, 12:48:54 pm
Politologia e politica del renzismo

8 marzo 2018 di Gianfranco Pasquino

Sostiene il noto politologo Lorenzo Guerini, membro della segreteria del Partito Democratico: «il ruolo che ci hanno assegnato gli elettori è quello dell’opposizione». Attendiamo un rapido endorsement di Romano Prodi. Con qualche sorpresa, rileviamo che, a sua insaputa, l’on. Guerini, debitamente rieletto grazie alla generosa legge Rosato, resuscita il vincolo di mandato, quello, curiosamente, che vorrebbero i pentastellati. Ovvero, addirittura sa, dopo un’intensa campagna elettorale di ascolto sul territorio, che gli elettori lo votavano poiché volevano mandarlo all’opposizione. Sì, visti gli esiti elettorali, è probabilissimo che l’ottanta per cento degli elettori italiani abbia voluto proprio questo, ma anche gli elettori del Partito Democratico lo hanno votato per mandarlo (e tenerlo) all’opposizione? Non ci posso credere, però, capisco che con queste rudimentali conoscenze il Guerini fosse entusiasta delle riforme costituzionali bocciate solo dal 60 per cento degli elettori. E se quegli elettori che, certo tormentatamente, hanno alla fine deciso di votare PD volessero, invece, cercare di mantenerlo in una coalizione di governo, persino farne il partito che desse le carte del prossimo governo? No, il Guerini ne sa di più ed esclude che questo fosse l’obiettivo degli elettori del PD. Tuttavia, un problema lui e il suo segretario dimissionario autosospeso potenziale sciatore dovrebbero porselo: e se quegli elettori del PD volessero, comunque, essere rappresentati?

Andarsene sull’Aventino, ahi, errore: sto sondando le conoscenze storiche di Guerini, Renzi e chi sa quant’altri, sarebbe una buona accettabile modalità di rappresentanza politica da offrire, mantenere, garantire per quei 6 milioni e 135 mila elettori ed elettrici che, nonostante tutto, hanno tentato disperatamente di salvare il PD? Eh, no, afferma il Guerini, noi quella rappresentanza gliela daremo stando all’opposizione. Starete all’opposizione anche, si chiedono gli elettori, se si verificasse una situazione nella quale i vostri voti risultassero non solo necessari, ma decisivi per dare vita a un governo, per renderlo operativo e credibile sulla scena e nelle istituzioni europee (quei voti che, fra l’altro, lo scrivo per il Guerini, non per il Renzi che toglieva la bandiera dell’Unione prima di una sua conferenza stampa, sono l’ultimo nucleo forte di europeisti)? Lascerete così campo libero agli euroscettici, se non, addirittura, ai sovranisti Meloni-Salvini? Qui, con grande perplessità del Guerini (e di Renzi, Lotti, Boschi, Richetti e compagnia forse non più tanto danzante), fa la sua ricomparsa il dettato costituzionale relativo alla rappresentanza della Nazione ‘senza vincolo di mandato’.

Esiste, sicuramente, un vincolo di lealtà e persino di disciplina nei confronti del partito che candida e fa eleggere per il quale, in primo luogo, hanno votato gli elettori che, ancora più sicuramente, non gradiscono i trasformisti, e hanno ragione. Però, esistono anche una teoria e una best practice della rappresentanza che si traduce nella acuta consapevolezza che bisogna mettersi a disposizione per servire i superiori interessi della nazione. Hai visto mai che fra questi interessi ci sia un governo capace di durare e di agire, operativo (che è il termine che ho già variamente usato), che tale non potrebbe né esistere né produrre effetti senza una convinta partecipazione dei parlamentari del PD? Questa si chiama rappresentanza politica più responsabilità. No, la sinistra, che non è affatto la stessa cosa del PD, non si ricostruisce andando a collocarsi sterilmente all’opposizione e ‘gufando’ (ho già sentito questo verbo, ma non ricordo più chi lo ha utilizzato spesso, senza successo). Si ricostruisce sui punti programmatici che saprà imporre a una coalizione di governo nata con il suo appoggio, efficace grazie al suo sostegno, riformista grazie alle sue proposte.

I dirigenti di un Partito Democratico (vorrei che la ‘p’ e la ‘d’ potessero essere al tempo stesso maiuscole e minuscole) consentirebbero ai loro iscritti di scegliere democraticamente la strada che desiderano che i loro parlamentari imbocchino e percorrano, magari facendo loro (agli iscritti) ascoltare qualche voce diversa dai renziani che sono tutti parte del problema e che non hanno finora saputo elaborare neanche un brandello di soluzione. Anche per questo hanno perso più di quattro milioni di voti.

Da - http://www.paradoxaforum.com/politologia-politica-del-renzismo/


Titolo: Gianfranco PASQUINO Un’entrata a gamba tesa
Inserito da: Arlecchino - Marzo 19, 2018, 10:53:37 am
Un’entrata a gamba tesa

MARZO 15, 2018
8:29 AM

Il primo tempo della partita politico-elettorale è terminato il 4 marzo sera. Siamo nell’intervallo in attesa del secondo tempo che inizierà il 23 marzo. Gli spettatori si scambiano opinioni. I giocatori in parte si riposano in parte si fanno massaggiare le botte ricevute in campo in parte esultano. I capitani delle squadre preparano il secondo tempo contando anche su eventuali favori della fortuna e dell’arbitro. Forse un po’ sorpresi dall’esito del primo tempo forse non abituati a giocare ad alto livello, alcuni giocatori hanno rilasciato dichiarazioni un po’ ingenue e alcuni capitani si sono fatti prendere dal nervosismo. Fuor di metafora, a Bruxelles per una riunione dei Ministri dell’Economia e delle Finanze, l’uscente, ma tuttora in carica, Pier Carlo Padoan afferma candidamente che l’Italia rappresenta un elemento di incertezza per l’UE e che lui stesso non sa dove si andrà. Che poi il Commissario all’Economia Pierre Moscovici, dopo essersi qualche tempo fa, augurato un governo italiano stabile e operativo, allora quasi un assist a Gentiloni, adesso dica di essere “sereno” lui e sereni i mercati, fa parte del fair play oppure, per rimanere con l’inglese, del wishful thinking: un davvero pio desiderio. Non abbastanza inglese, un solo viaggio a Londra non può bastare, Di Maio si innervosisce di fronte alla stampa estera forse proprio perché stava ribadendo la sua conversione –difficile dire se condivisa da tutto il Movimento, ma finora non contraddetta e non smentita da nessuno– favorevole alla permanenza dell’Italia nell’Unione Europea con un ruolo attivo. Accusa Padoan di avvelenare i pozzi e annuncia la sua personale soluzione del rebus “formazione del prossimo governo”. Nessun governo istituzionale nessun governo di tutti, il governo dovrà essere fatto dalle Cinque Stelle. Poi, va oltre. Secondo Di Maio, gli italiani hanno votato lui Premier, il programma del Movimento e tutta la lista dei suoi Ministri (quella inviata tempo fa al Presidente Mattarella).

Scontato l’elemento fortemente propagandistico, nella metafora calcistica, l’entrata a gamba tesa, Di Maio dimostra di non conoscere o di voler trascurare i fondamenti delle democrazie parlamentari. Primo, gli elettori non votano mai nessun governo, ma soltanto i partiti. Nessun capo di governo è scelto direttamente dagli elettori. Nel migliore dei casi, il capo del partito, spesso quello più votato, diventerà capo del governo. Esclusivamente nei rarissimi casi in cui il governo è fatto da un solo partito sarà il capo del governo a stilare la lista dei Ministri. Altrimenti, i nomi dei ministri saranno indicati dai capi dei partiti che hanno raggiunto un accordo di coalizione, fatti propri dal capo del governo e, poi, nel caso della democrazia parlamentare italiana, nominati dal Presidente della Repubblica.

Probabilmente Di Maio è sull’orlo di una crisi di nervi. Continua a ripetere che gli altri capi dei partiti e delle coalizioni debbono riconoscere il suo successo, cercarlo, andare da lui, portare le loro carte e discutere. Invece, non succede niente di tutto questo. Non riesce a rendersi conto che qualsiasi azione del genere è, comunque, prematura. Non sembra capire che semmai dovrebbe essere lui a individuare i potenziali alleati e andare a confrontare le sue carte, il suo programma, le sue priorità con gli alleati che preferisce. Fa bene Di Maio a sostenere che l’elezione dei Presidenti delle due Camere non deve costituire la prefigurazione di nessuna maggioranza di governo. Farebbe ancora meglio se attendesse l’inizio della procedura consacrata dal tempo e dalla prassi. Meglio che tenga coperte le sue carte. Le faccia vedere al Presidente della Repubblica. Senza fretta, senza impuntature, senza pressioni. Il resto, che non potrà comunque mai essere il governo del solo Movimento, per il quale mancano i voti in parlamento, verrà.

Pubblicato AGL il 15 marzo 2018

Da - https://gianfrancopasquino.com/


Titolo: In Memoriam di Piero Ostellino (1935-2018) di Gianfranco PASQUINO
Inserito da: Arlecchino - Marzo 19, 2018, 11:10:41 am
In Memoriam di Piero Ostellino (1935-2018)

MARZO 13, 2018 10:33 AM

Caro Piero,
liberale, illuminista scozzese, purtroppo anche juventino, ci siamo incontrati, grazie a Giuliano Urbani, un giorno del settembre 1967 nel tuo ufficio al Centro Einaudi di Torino. Mi hai subito chiesto di collaborare a “Biblioteca della Libertà”, una piccola preziosa rivista. Ne sono stato sorpreso e onorato. Ho scritto spesso, accettando le tue “commesse” sempre acute, seguendo i tuoi suggerimenti sempre utili, usufruendo e apprezzando il grande, totale spazio di libertà che concedevi ai tuoi collaboratori anche quando, era il mio caso, fossero socialisti. Sono tuttora molto fiero di quegli articoli. Recentemente, me ne sono riletti alcuni non male: sulle sanzioni alla Rhodesia, su De Gaulle e sulla sburocratizzazione della politica. Scrissi anche diverse recensioni bellicose, con uno stile che, con mia grande gratificazione, incontrava il tuo burbero consenso. Non mi hai mai (ri)toccato neppure una riga. Non ti ho detto quante volte, invece, i molti direttori dei quotidiani ai quali ho poi collaborato (con la luminosa eccezione de “l’Unità” di D’Alema, Renzo Foa, Veltroni e Peppino Caldarola) mi hanno chiesto di cambiare questo, rivedere quello, cancellare quell’altro, riscrivere soprattutto la chiusa.

In quel tuo ufficio ti ho visto scrivere fra il 1967 e il 1969 (poi mi trasferii a Bologna) sul finir del pomeriggio molti articoli spesso per la “Gazzetta del Popolo” che andavi a portare di persona al giornale e iniziare la tua collaborazione al “Corriere della Sera”. Grandissima fu la mia sorpresa quando un giorno, quasi di punto in bianco, tu mi annunciasti ufficialmente come la cosa più naturale, ovvia, possibile che il tuo obiettivo era diventare il Direttore del Corrierone. Punto e basta, quasi fosse l’operazione più facile del mondo. Pur leggendoci reciprocamente, per anni non ci incontrammo di persona. Erano gli anni nei quali tu fosti inviato dal Corriere prima a Mosca, poi in Cina. Scrivevi articoli straordinari, illuminanti, al limite della brutalità, con una prosa scintillante nella quale non c’erano mai frasi fatte, mai banalità, mai cose risapute. Ancora adesso sorrido quando penso ad un articolo brillantissimo in occasione di una tua escursione in Mongolia: una vera delizia.

Da Direttore del Corriere so che la tua vita era diventata molto difficile, fra tensioni e pressioni, negli anni di Craxi (1984-1987) quando tutti i politici pensavano di avere il diritto di “importunare” i direttori dei maggiori quotidiani italiani. Ero tornato da poco da una mia permanenza negli USA e mi chiedesti un articolo sulle riforme istituzionali e due articoli sul centralismo democratico. Scritti e accettati, come al solito senza nessuna richiesta di intervento correttivo, anche se, pur criticando il modello di partito del PCI, non avevo tralasciato di affermare e argomentare che quel centralismo conteneva non pochi tratti effettivamente “democratici”. Da quel che abbiamo visto e, anche scritto, dopo, siamo diventati abbondantemente consapevoli di quanto inquinato da autoritarismi e servilismi possa essere il funzionamento di quelli che neppure più sono partiti, ma tristi veicoli di ambizioni personali. Peccato che quella mia embrionale collaborazione non abbia potuto continuare quando forze non tanto oscure ti allontanarono dalla direzione del Corriere.

Da ultimo, non posso sottacere, e neanche tu vorresti che lo facessi, quello che fu un vero scontro di idee, di interpretazioni, di valutazioni, di prospettive sul liberalismo come praticato dagli italiani compreso il Corriere della Sera, sul quale tu lanciasti una durissima reprimenda contro il mio articolo introduttivo al fascicolo da me curato della rivista “Paradoxa” (Gennaio/Marzo 2012) intitolato Liberali, davvero! Non sarei fair se proseguissi quella discussione senza tua possibilità di replica. Uso con un po’ di civetteria questo aggettivo inglese che non trova una traduzione italiana adeguata e pregnante per fare riferimento agli illuministi scozzesi, tutti “Fair, davvero!”, che tanto stimavi perché pragmatici iniziatori della grande epoca del liberalismo politico e che mettevi in contrapposizione agli illuministi francesi, rigidi e “ideologici” (sic) ai quali attribuivi fin troppe colpe. Sono contento, Piero, di averti conosciuto, di avere letto i tuoi articoli, di essermi irritato di fronte ad alcune tue tesi, di avere goduto della tua stima. Farewell.

Pubblicato il 12 marzo 2018 su PARADOXAforum

Da - https://gianfrancopasquino.com/