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Autore Discussione: Gianfranco PASQUINO ...  (Letto 53315 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 20, 2007, 06:55:43 pm »

La retromarcia del Cavaliere

Gianfranco Pasquino


Per negare di avere commesso gravi errori politici e per tentare di farli dimenticare rapidamente, Berlusconi ha rilanciato. Il Partito Italiano del Popolo Libero (o come si chiamerà, i «pubblicitari» di Mediaset sono sicuramente già al lavoro per trovare un nome altrettanto efficace di Forza Italia) intende offrire l’impressione di qualcosa di nuovo anche se, evidentemente, alla luce delle reazioni degli ex-alleati della Casa delle Libertà, non può che iniziare dall’ossatura di Forza Italia. Nonostante frettolose analisi, Forza Italia è, in effetti, un partito, vale a dire un’organizzazione di uomini (molti) e di donne (poche) che presenta candidature alle elezioni, a tutti i livelli, dai Comuni all’Europarlamento, che ottiene seggi e conquista cariche.

I candidati che vincono,e, ma anche quelli che hanno perso per poco, mantengono tutto l’interesse a fare funzionare l’organizzazione e a diffondere il marchio, anche soltanto per rimanere in politica.

Per di più, a prescindere dagli errori di Berlusconi e dalle sue sbruffonate, gli elettori di Forza Italia esistono e, probabilmente, esistono anche elettori degli altri partiti di centro-destra che non sarebbero affatto disposti a vedere i loro partiti andarsene distanti da Forza Italia e da Berlusconi, come hanno dimostrato i risultati delle elezioni del 2006. Anche se sommerso dai fischi di Alleanza Nazionale, aveva ragione Cicchitto a ricordare, nient’affatto retoricamente, a quei militanti di An che, senza un rapporto con Forza Italia, non potrebbero andare da nessuna parte. Mentre Bossi e la Lega sanno benissimo che Berlusconi è il più sensibile ai loro interessi e alle loro richieste, Alleanza Nazionale e persino l’Udc sembrano avere dimenticato che nei loro gruppi dirigenti e ancor più nel loro elettorato esiste un nucleo duro di berlusconiani. Infine, anche senza essere truccati o esagerati, i sondaggi continuano a dare esistente una maggioranza complessivamente favorevole al centro-destra nel suo insieme.

Naturalmente, tra i sondaggi e le elezioni anticipate che Berlusconi reclamava a gran voce ci starebbe, anzitutto, una campagna elettorale che, se condotta in ordine sparso, potrebbe non giovare né a Forza Italia né al centro-destra. In secondo luogo, sta anche l’eventuale riforma elettorale oppure il referendum. Le variabili politiche si incrociano con le variabili istituzionali.

Questa lunga premessa consente di capire meglio perché Berlusconi abbia deciso di prendere atto che, come sostengono da qualche tempo i suoi ex-alleati, la Casa delle Libertà non esiste più. Non c’è dunque neppure più bisogno di un sistema elettorale che imponga la formazione di coalizioni non omogenee decisive per vincere, in difficoltà per governare. Se bisognerà contarsi, deve avere finalmente ragionato Berlusconi, allora il sistema elettorale tedesco, presumo considerato nella sua interezza, potrebbe costituire una buona soluzione.

In questo modo, da un lato, Berlusconi va incontro all’Udc di Casini, che vuole fortemente proprio quel sistema elettorale, dall’altro, dà la sua disponibilità anche a Veltroni su una proposta chiara e, come stanno i rapporti di forza nel Parlamento, rapidamente praticabile. Costruire il bipolarismo non è necessariamente compito del sistema elettorale. Anzi, sono le modalità di competizione e di collaborazione fra i partiti che danno vita e linfa al bipolarismo. Magari non è il bipolarismo quello che desiderano l’Udc, l’Udeur e altri (nel centro-sinistra), ma il Partito del Popolo avrebbe, pensa Berlusconi, voti e seggi sufficienti a convincere qualche alleato riluttante, a entrare in trattative dopo il voto, se non addirittura a essere il perno di una nuova alleanza di governo.

La vera novità, che potrebbe cambiare il volto di questa legislatura e, forse, addirittura del sistema politico italiano, è costituita dal riconoscimento da parte di Berlsuconi, tardivo, ma non fuori tempo massimo, che nello schieramento di centro-sinistra esistono persone con le quali il capo di Forza Italia potrebbe dialogare. La prova immediata è data dalla riforma elettorale che potrebbe essere la premessa di un ritorno alle urne, magari non altrettanto immediato se Veltroni e Violante insistessero, come forse dovrebbero, ad accompagnare quella riforma, in special modo se tedesca, con meccanismi di stabilizzazione del governo, ovvero con la sfiducia costruttiva (che regolamenta e rende difficili i tanto temuti «ribaltoni») che richiede una riforma costituzionale. Resta tutto da vedere.

Per il momento, tuttavia, è lecito concluderne che la costruzione del Partito Democratico ha messo in moto un processo di cambiamento e di ristrutturazione anche nel centro-destra; che la disciplina e la presenza dei senatori del centro-sinistra hanno efficacemente segnalato che il governo può anche durare per parecchio tempo; che i tentativi di Berlusconi di sovvertire con la piazza o con la «persuasione» l’esito delle elezioni dell’aprile 2006 sono falliti. Si sta per aprire una nuova fase che, con l’obiettivo di riforme di alto profilo sistemico, potrebbe vedere rapporti imprevisti e impensati fra i maggiori partiti italiani. Senza precorrere i tempi e senza pregiudicare i modi, una Grande Coalizione che sappia fare le riforme istituzionali e economiche necessarie in tempi relativamente contenuti potrebbe non essere del tutto riprovevole. In fondo, sospendendo il giudizio, in Germania questa è la situazione attuale.

Pubblicato il: 20.11.07
Modificato il: 20.11.07 alle ore 8.19   
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« Risposta #31 inserito:: Novembre 30, 2007, 12:02:17 am »

Riforma, non compromesso

Gianfranco Pasquino


Quando la politica vive di indiscrezioni, intercettazioni, notizie concordate non è sorprendente che qualcuno giunga a ipotizzare che il vero interrogativo dell’incontro fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi consiste essenzialmente nell’andare a vedere chi dei due è più furbo e riuscirà meglio a ingannare l’altro. Lo schema, secondo le anticipazioni di alcuni commentatori, è semplice.

Da un lato, avremmo il buonista, che si è fatto, sono parole sue, “tosto” e che ha interesse a guadagnare tempo, per rafforzare la sua creatura: il Partito Democratico, e per prolungare la vita al governo; dall’altro, sta l’uomo di spettacolo, che non ha tempo da perdere perché la vecchiaia incombe e che, confortato persino da sondaggi non suoi, vuole tornare subito alle urne e dare una bella lezione anche ai suoi inquieti alleati giovanotti. Veltroni, dunque, rilancia. Non basta fare la riforma elettorale. Bisogna ampliare il discorso ad alcune, coerenti e compatibili, riforme istituzionali e bisogna anche procedere alla revisione dei regolamenti parlamentari. Berlusconi minimizza. Al massimo, si ritocchi la legge elettorale cambiando le sciagurate (ma da lui a suo tempo frettolosamente accettate e avallate) modalità di attribuzione del premio di maggioranza al Senato, e si torni a votare di corsa.

Oppure, subordinata che qualche suo consigliere gli suggerisce prudentemente, si faccia una Grande Coalizione, evidentemente escludendo Prodi. Da ultimo, ha, peraltro, improvvisamente segnalato disponibilità sul sistema spagnolo i cui effetti di potenziamento dei partiti grandi dipendono anche dal fatto che in Spagna vengono eletti soltanto 350 deputati. Se i negoziati hanno un senso, qualcuno dovrebbe rinunciare a qualcosa e, dunque, nessuna delle proposte dovrebbe essere formulata come irrinunciabile. Soprattutto, nessuno dei due eventuali contraenti dovrebbe avere come retropensiero quello di “fregare” l’altro, fermo restando che entrambi non sono proprio novellini. Il fatto è che, al momento, il negoziato sembra essere impostato su piani diversi.

Veltroni ha sostanzialmente sposato una composita (ma, in effetti, dovrei dire confusa) proposta di legge elettorale che molti, quasi sicuramente a ragione, ritengono che sia stata tagliata su misura per il Partito Democratico, ovvero per un partito che dovrebbe avere non meno di 25-28 per cento dei voti, distribuiti in maniera sostanzialmente omogenea sul territorio nazionale. Una formula di questo genere può servire in maniera egualmente soddisfacente anche il Partito del Popolo, che partirebbe da uno zoccolo di all’incirca il 30 per cento dei voti o poco più. Come viene letto dai partiti piccoli del centro-sinistra, ma anche dagli altri partiti del centro-destra, questo sistema elettorale sembrerebbe congegnato per ridurli a più miti pretese.

Visto da fuori, con la pretesa di porsi, come vorrei fare, al di sopra dei contendenti/contraenti, mi pare che entrambi perseguano obiettivi di corto respiro che non porterebbero a cambiamenti risolutivi e sicuramente migliorativi del funzionamento del sistema politico italiano. Entrambi poi dichiarano che vogliono mantenere il bipolarismo, rendendolo, almeno nelle parole di Veltroni, più “mite”. Ma in assenza di un sistema elettorale maggioritario accuratamente congegnato, il bipolarismo diventa poco probabile. E, nella pratica, risulta abitualmente piuttosto un prodotto, consapevole e voluto, della capacità dei partiti medio-grandi e dei loro leader di riuscire ad imporre e mantenere, eventualmente anche con una legge elettorale non troppo proporzionale, una competizione bipolare, non rigida (ovvero senza alleanze precostituite), non costrittiva, non bloccata da ricatti.

Sullo sfondo stanno coloro che dicono che con Berlusconi non si può trattare fino a che non si è fatta (ma a che cosa è servito un anno e mezzo di governo?) una legge sul conflitto di interessi e non si è riformato in maniera decisiva il sistema delle telecomunicazioni. Sono due esigenze puramente e semplicemente democratiche. Infine, in un futuro oramai imminente si staglia il referendum elettorale che i piccoli partiti temono come esiziale per la loro sopravvivenza, anche se, forse, stanno facendo soltanto un po’ di manfrina. Infatti, come è oramai noto e risaputo, i referendum abrogativi possono essere facilmente fatti fallire per mancanza di quorum, ed è tutto da dimostrare che il popolo del Pd e il popolo delle Libertà accorrerebbero entusiasti alle urne nella consapevolezza che, da un lato, i piccoli partiti del centro-sinistra farebbero cadere il governo e, dall’altro, Udc e Lega prenderebbero furiose distanze da Berlusconi.

Non è, dunque, possibile sperare in nulla di positivo dalle trattative in corso che, comunque, non finiranno venerdì? Senza sotterfugi e senza retropensieri, magari con un po’ più di trasparenza, entrambi i capi dei due maggiori partiti potrebbero porsi obiettivi, al tempo stesso, ambiziosi, e fare sapere agli italiani che tipo di sistema politico vorrebbero: tedesco ovvero, se interpreto correttamente i sospiri di Fini al termine dell’incontro con Veltroni, francese (e, stando alla più recente, improvvisata dichiarazione di Berlusconi, spagnolo) e avanzare una chiara proposta di legge elettorale, semplice, già collaudata, facile da approvare e che non espropri e non manipoli gli elettori come ha fatto il Porcellum. In definitiva, ho l’impressione che riformare la legge elettorale e le istituzioni italiane di rappresentanza e di governo richieda non soltanto una visione coerente, ma anche molto coraggio politico. Chi non risica non rosica. E, naturalmente chi ha più da rischiare in questa fase e nel prevedibile futuro è il governo dell’Unione.

Pubblicato il: 29.11.07
Modificato il: 29.11.07 alle ore 8.37   
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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 06, 2007, 11:15:36 pm »

Ritorno al passato

Gianfranco Pasquino


Sono tornati i vecchi tempi della politica italiana quando le crisi di governo venivano annunciate in sede extraparlamentare e poi, con calma, registrate in Parlamento.

Fa poca differenza che, questa volta, il messaggio provenga dalla più alta carica della Camera dei Deputati e sia ammantata di un ragionamento come sempre articolato, ma non necessariamente condivisibile poiché alquanto ideologico, sul ruolo della sinistra oggi, in Italia e in Europa.

Il messaggio lanciato da Bertinotti, che si dichiara «intellettualmente» già «oltre l’Unione», ma «politicamente» ancora no, impone una riflessione sia sul futuro del governo che sul ruolo e sui compiti del Partito Democratico.

Bertinotti rimanda la resa dei conti a gennaio: una verifica, naturalmente, programmatica; forse, un rimpasto; meno probabilmente, uno snellimento del governo Prodi; addirittura, una crisi in piena regola. Personalmente, credo che le verifiche sulla stato di attuazione di un programma a suo tempo concordato anche da e con Rifondazione Comunista possano costituire strumenti utili per valutare quanto ha fatto un governo e quanto è ancora possibile fare, aggiungendo nuovi progetti all’agenda. Tutto questo, però, diventa più difficile e, alla fine, sostanzialmente, impraticabile, se una delle componenti importanti della coalizione di governo, decide di operare in una prospettiva diversa, ovvero in direzione del momento più favorevole per il suo distacco.

In questa lunga transizione politico-istituzionale, Rifondazione ha costantemente vissuto (e prosperato) tra una preferenza per caratterizzarsi come opposizione che chiede di più, il famoso "oltre" (non so, quindi, se scrivere "radicale", "antagonista", "alternativa") e una necessità: quella di sostenere selettivamente e, dal maggio 2006, di partecipare in prima persona all’attività di governo. Nella pratica non ha mai risolto la contraddizione; nel pensiero l’ha sempre esaltata. Eppure, dovrebbe essere chiaro che, anche se è vero che, ma bisognerebbe dimostrarlo, il governo Prodi potrebbe/dovrebbe fare di più, è esclusivamente da posizioni di governo che si affrontano con un minimo di possibilità di successo i temi che lo stesso Bertinotti enfatizza, vale a dire i salari e il precariato. Incidentalmente, un discorso molto simile vale per le confederazioni sindacali che, nelle loro critiche al governo, dimenticano che qualsiasi politica che intenda rilanciare lo sviluppo, ampliare le basi occupazionali, migliorare i salari, si gioverebbe del loro impegno a differire alcune rivendicazioni e a partecipare, lasciando da parte malposte concezioni di autonomia, attivamente ai processi di cambiamento innescati dall’Unione.

Se i nodi del governo Prodi, del disagio di Rifondazione, delle rivendicazioni dei sindacati, vengono al pettine adesso dipende da due fenomeni. Il primo è che ci sono notevoli movimenti/smottamenti nel centro dell’Unione, dove si collocano non soltanto il mobilissimo Mastella, ma anche l’inquieto Dini e quattro senatori che fanno a lui riferimento. Rifondazione intuisce che l’asse del governo rischia di scivolare verso il centro. Naturalmente, sottovaluta che il suo disimpegno, per il momento "intellettuale" ma, in seguito, inevitabilmente, "politico", darebbe una forte accelerazione all’eventuale scivolamento verso il centro. Il secondo fenomeno che potrebbe avere creato disagio nei Rifondatori non è costituito soltanto dalla formazione del PD, partito che dichiara un po’ troppo ad alta voce la sua vocazione maggioritaria, ma dalla sensazione che Veltroni voglia favorire questa vocazione con una legge elettorale tagliata, nella misura del possibile, sui panni del PD (e del Popolo delle Libertà). Tuttavia, Rifondazione sa che a perdere di più dalla riforma di cui si parla sarebbero i "nanetti" e che, tutto sommato, Rifondazione rimarrebbe in termini di seggi grosso modo com’è oggi, ma acquisterebbe forse un peso politico maggiore. Il suo peso politico potrebbe essere ancora più consistente se la riforma elettorale approdasse al sistema tedesco che non la obbligherebbe a nessuna alleanza preventiva, ma le consentirebbe di drenare voti dai piccoli e, a determinate condizioni, di diventare l’alleato privilegiato del PD (se Veltroni guardasse a sinistra dove dovrebbe anche incontrare i sindacati finora un po’ troppo trascurati).

Con queste considerazioni in mente, Bertinotti, il cui ruolo istituzionale dovrebbe pure comportare una qualche presa di distanza dalla politica di governo e di opposizione, anche di quella del suo partito, ha deciso di ricollocarsi nel cuore del dibattito politico. Tuttavia, finisce per dare un contributo che non è né rilevante alla soluzione dei problemi che il governo deve affrontare né positivo per qualsiasi riflessione che si apra a sinistra. È un contributo di "schieramento" che rischia sostanzialmente di affossare il governo dell’Unione senza necessariamente fare crescere quella sinistra che, magari, esiste nella strategia intellettuale di Bertinotti, ma che non ha e non potrà avere nessun successo se, unitamente ai sindacati, non riuscirà a chiarire i passaggi attraverso i quali tradursi in una politica di progresso. Dall’opposizione si lucra, forse, qualche consenso; di sicuro, nonostante leggende comuniste troppo spesso ripetute nel passato, al massimo, si esercitano poteri di veto, ma non si riesce a riformare un bel niente.



Pubblicato il: 06.12.07
Modificato il: 06.12.07 alle ore 9.06   
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 08, 2007, 03:14:26 pm »

Una sinistra, troppe sinistre

Gianfranco Pasquino


Gli Stati Generali convocati da Rifondazione Comunista, Pdci, Verdi e Sinistra Democratica costituiscono un appuntamento impegnativo. Si svolge all’ombra del segnale un po’ inquietante, lanciato da Fausto Bertinotti, tempestivamente e non casualmente, di certo inteso a segnare i confini e a indicare le prospettive. Secondo il loquace Presidente della Camera, il governo guidato da Prodi è come un “poeta morente”, anche se la sua morte effettiva può tardare. La eventuale costruzione di una sinistra tipo arcobaleno si inserisce in una situazione nella quale il centro-destra si è spappolato e il PD si è, invece, aggregato, ma è ancora nella fase di risoluzione dei problemi che qualsiasi partito deve affrontare.

Problemi come statuto, struttura, manifesto dei valori, codice etico, e si è lanciato verso riforme, istituzionali, elettorali, regolamentari che incideranno anche sulle fortune della sinistra arcobaleno. In queste condizioni e con la prospettiva di doversi prepararsi ad una eventuale e vicina campagna elettorale, la Sinistra arcobaleno deve offrire non soltanto una risposta organizzativa, comunque, di notevole importanza, ma, in special modo, una risposta politica che non sia egoistica e esclusivamente mirata alla sopravvivenza di ceti politici e di sigle.

Sarebbe ingeneroso, ma anche fattualmente sbagliato, sostenere che nel 2005-2006 e, finora, al governo, nel suo insieme la variegata Sinistra non abbia dato un contributo di impegno e di disciplina nei momenti significativi, ovvero di rischio per la durata in carica del governo. Nella maggior parte dei casi, ad eccezione della crisetta del febbraio 2007, i pericoli per il governo hanno fatto piuttosto la loro comparsa nei pressi del centro, fra i centristi più o meno di tipo “demdem” (molto “democristiani”) e teodem.

Tuttavia, quello che i partiti di sinistra che tentano finalmente una qualche forma di riorganizzazione non hanno voluto e probabilmente saputo fare riguarda la modernizzazione della loro cultura politica. Non si tratta soltanto di partecipare all’azione di governo e di sostenerla, anche se Rifondazione lo fa con grande esibita sofferenza. Si tratta soprattutto di aprire un confronto di tipo pedagogico con quella parte di elettorato che questi piccoli partiti di sinistra rappresentano e che sembrano volere, da un lato, incapsulare, dall’altro, blandire in maniera persino troppo ossequiosa. Eppure, che debba essere il partito, anche se piccolo, a guidare le “masse” è sicuramente un principio di azione politica alquanto noto alla maggior parte dei loro dirigenti politici (e praticato con vigore nel passato). Proprio per questo la Sinistra che verrà fuori dalla nuova aggregazione dovrebbe rispondere con precisione e approfonditamente alla domanda relativa ai suoi rapporti con quell’elettorato: ascoltarlo passivamente, sapendo che le giunge soltanto la voce dei più militanti di quei settori, oppure interloquire spiegando quali sono le prospettive di un’organizzazione politica che si definisce di sinistra in Italia, oggi e domani?

È comprensibile che la Sinistra arcobaleno cerchi di mantenere una sua presenza adeguata in Parlamento e che, di conseguenza, rifugga da un sistema elettorale proporzionale che abbia forti dosi di “disproporzionalità” come ha, più o meno incautamente, rivelato Veltroni a proposito della sua idea di legge elettorale. Il dilemma, però, non può essere accantonato. Consiste nella chiara alternativa tra ottenere rappresentanza parlamentare, ma trovarsi all’opposizione, potendo esprimere con tutte le mani libere le proprie preferenze economiche, sociali, politiche, con scarsissima capacità di incidere sulle scelte effettive, oppure contrattare quelle preferenze per conciliarle in un programma di governo che potrà essere attuato d’intesa con il Partito Democratico, ovviamente sapendo che non è il programma massimo di nessuno. Il rischio è che le varie componenti della Sinistra arcobaleno che sta per nascere preferiscano salvare la loro consistenza percentuale, probabilmente neppure tutta, senza affrontare nella teoria i nodi del loro compito politico e rifiutando nella pratica (cosa che rarissimamente avviene nelle altre sinistre radicali europee) di sporcarsi quelle mani libere nell’ardua opera di governare, in coalizione con il Partito Democratico, le contraddizioni di una società frammentata, individualista, egoista. Allora, il morente non sarà soltanto il governo, ma la stessa prospettiva di cambiamento che pure dentro quella sinistra molti vorrebbero suscitare e fare progredire.

D’altronde, anche nella ipotesi, che viene sollevata da alcune dichiarazioni e da alcuni comportamenti dei dirigenti della sinistra (e anche delle confederazioni sindacali), di un possibile ravvicinato ritorno alle urne, è augurabile che il centro-sinistra vi arrivi con il minimo di tensioni fra le sue componenti e soprattutto, contrariamente a quanto avvenne per un lungo anno dopo la netta sconfitta del 2001, pronto fin da subito a fare un’opposizione politica e programmatica di alto livello e di grande qualità. Insomma, anche se non si vuole e non si sa stare al governo, la Sinistra arcobaleno, e no, dovrebbe prepararsi culturalmente persino a stare all’opposizione nella maniera più efficace per rappresentare, non soltanto a parole, il suo composito elettorato.

Pubblicato il: 08.12.07
Modificato il: 08.12.07 alle ore 7.13   
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« Risposta #34 inserito:: Dicembre 10, 2007, 07:26:16 pm »

Un leader c’è: Nichi Vendola

Gianfranco Pasquino


«Unita, plurale, federata»: è una prospettiva della sinistra che, altrove, ovvero nella vicina Francia, grazie al coraggio, alla leadership, all’azione di François Mitterrand è stata coronata da successo. A tale proposito, mi fa piacere ricordare agli esponenti della sinistra-arcobaleno che il successo della gauche plurielle è stato notevolmente facilitato dal semipresidenzialismo, con elezione diretta del presidente della Repubblica.

Ma anche dal sistema elettorale a doppio turno che premia le aggregazioni, incoraggia le coalizioni, garantisce il bipolarismo, consente l’alternanza, dà molto potere agli elettori. Probabilmente, gli elettori italiani, almeno quelli della variegata galassia di sinistra, vogliono, come scrive il Manifesto approvato a conclusione degli Stati Generali della Sinistra, non disdegnando la governabilità, più autorevolezza e legittimità (che, in democrazia, sono sempre e soprattutto la conseguenza delle consultazioni elettorali), ma desiderano anche che la rappresentanza politica abbia stretti rapporti con la rappresentanza sociale. Dunque, qualche indicazione in più sul ruolo dei sindacati, che non possono continuare a trincerarsi dietro un muro di sdegnosa autonomia, risulterebbe utile. In Francia, la CFDT costituì deliberatamente uno straordinario organismo di sostegno e di legittimazione delle politiche della sinistra governante. Se, qui, in Italia, le diverse sensibilità di sinistra e ambientaliste sapranno, in tempi che, inevitabilmente, debbono essere molto ristretti, dare vita ad un’unica organizzazione attraverso ampi processi di consultazione, di coinvolgimento, di partecipazione incisiva, anche il Partito Democratico e il governo Prodi saranno obbligati a tenerne conto.

Questa sinistra-arcobaleno rimette al centro dell’attenzione politica e governativa due temi che, per ragioni diverse, sono egualmente importanti: il lavoro e la laicità. È giusto che sia così, ma molto conta come i due temi verranno concretamente declinati nella consapevolezza che, dentro il Partito Democratico, entrambi costituiscono frequente occasione di scontro. In quanto “arcobaleno” questa sinistra dà notevole e opportuno rilievo all’ambiente che, anche preso a sé, potrebbe informare da solo tutto un programma di governo. Particolarmente importante è la dichiarazione esplicita della disponibilità ad assumersi responsabilità di governo (nonché, appena un po’ sibillinamente, l’impegno a sostenere l’attuale governo «per il tempo della legislatura che resta»).

I Manifesti contano, soprattutto quando sono scritti in maniera partecipata e appassionata e sono trasparentemente discussi e approvati. Tuttavia, molto spesso nell’interpretazione del pensiero e delle possibilità di un’organizzazione politica bisogna guardare anche ai simboli e agli umori.

Pietro Ingrao merita applausi per il suo percorso, peraltro tutto, senza ripensamenti, comunista, ma, sicuramente, mai di accettazione di responsabilità di governo e della conseguente necessità di tenere conto delle compatibilità fra le forze da “mettere in campo” e gli obiettivi da perseguire. Icona del passato, Ingrao non può certamente assumere il ruolo di padre nobile di una sinistra che voglia governare.

Sono assolutamente consapevole della litania classica di molti settori di molte sinistre per le quali prima viene il programma poi il resto e, talvolta, da ultimo, la leadership. Incidentalmente, non è stato questo il percorso delineato e completato dal leader del Partito Democratico. Ma la sinistra-arcobaleno ha effettivamente un grande bisogno di leadership. Se sarà quella del presidente della regione Puglia, Nichi Vendola, accolto con ripetuti e intensi applausi, rappresenterà, da un lato, l’innovazione, dall’altro, la capacità di trasformare una sinistra sociale in una leadership di governo (a suo tempo, incoronata da primarie vere). Prudente (e, finalmente, “misurato”), Bertinotti si è limitato a dichiarare che con questi Stati Generali la sinistra-arcobaleno si è tuffata, immagino, nel mare di una difficile politica, lasciando intuire che il problema è imparare a nuotare. Poiché non erano pochi i presenti agli Stati Generali che avevano già avuto oppure occupano attualmente cariche di governo, il problema della sinistra-arcobaleno si trova piuttosto, penso, nelle propensioni dei suoi dirigenti a differenziarsi, per ricerca di visibilità, e a blandire qualsiasi gruppo che si muova nei loro dintorni dai no global al “no Dal Molin” quando, invece, dovrebbero interloquire, educare, guidare, spiegare come risolvere le contraddizioni. In definitiva, però, anche coloro che sanno nuotare debbono porsi delle mete e indicare degli approdi. Mentre la sinistra-arcobaleno nuota mi parrebbe opportuno segnalare che, senza il suo apporto, non soltanto il Partito Democratico non avrebbe abbastanza voti-seggi per governare, ma pezzi di società italiana rimarrebbero privi di rappresentanza sociale e politica.

Pubblicato il: 10.12.07
Modificato il: 10.12.07 alle ore 8.13   
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« Risposta #35 inserito:: Dicembre 15, 2007, 06:01:24 pm »

Ecco una legge per tutti

Gianfranco Pasquino


Il dibattito sulle proposte di riforma dell’attuale legge elettorale mi pare che si sia incartato. Non c’è da scandalizzarsi se gli obiettivi particolaristici dei partiti si traducono, da un lato, nel tentativo di quelli grandi, entrambi «a vocazione maggioritaria», di darsi un piccolo-medio premio, e, dall’altro, nella resistenza dei partiti medio-piccoli ad accettare qualsiasi legge elettorale che, più o meno giustificatamente, li ridimensioni.

Per superare le resistenze e per non frustrare le speranze, sarebbe necessaria una proposta che non consenta a nessuno di potere valutare immediatamente, con un margine di errore minimo, vantaggi e svantaggi, propri e altrui. La ragione dell’impasse va trovata, a mio modo di vedere, nella difficoltà di conciliare il mantenimento del bipolarismo con una legge elettorale proporzionale senza incidere sulla auspicabile proporzionalità e, forse, senza neppure distorcerla. Cosicché, da un lato, protestano, a ragione, i bipolaristi, alcuni dei quali, non tutti in verità, sono anche favorevoli ad una legge effettivamente maggioritaria; dall’altro, si sollevano i proporzionalisti che non vedono perché i partiti già grandi debbano essere ancora più premiati.

So perfettamente che, in definitiva, la legge elettorale costituisce proprio il terreno sul quale i politici valutano non soltanto il loro consenso, ma anche il loro potere e che, di conseguenza, un’opinione tecnica, per quanto accuratamente formulata (come la mia...), è destinata ad incidere poco. Però, vorrei cimentarmi con una proposta non bizzarra, mettendo comunque in guardia tutti: la mia preferenza prima continua ad essere per il sistema maggioritario a doppio turno, francese, appena ritoccato. Ciò detto, poiché appare accertato che nel Parlamento attuale, qualora fossero lasciati soli a decidere, i parlamentari opterebbero per una legge proporzionale, ne prendo atto e suggerisco quanto segue. Il sistema elettorale dovrebbe essere a doppio turno. Nel primo turno, vengono assegnati quattrocento seggi con metodo proporzionale in quaranta/cinquanta circoscrizioni equilibrate, eventualmente con l’inserimento di una clausola di esclusione del quattro/cinque per cento. Le liste sarebbero composte da non più di otto, dieci candidature. All’assenza del voto di preferenza, che giustifico per evitare lotte, scontri, conflitti dentro ciascuna lista e probabile formazione di correnti, si potrebbe ovviare sancendo il principio di primarie facoltative, a richiesta di un certo numero di elettori. Al secondo turno, verranno assegnati 75 seggi al partito o alla coalizione che ottiene più voti e 25 seggi al partito o alla coalizione giunti secondi (per incoraggiare la formazione di una opposizione e darle rilevanza e consistenza). È probabile, ma non ne farei un vincolo, che i partiti o le coalizioni avranno tutto l’interesse a pre-designare il loro candidato alla carica di Presidente del Consiglio. L’esistenza di un premio di maggioranza assegnato al partito o alla coalizione che ottiene più voti al secondo turno spingerà verso il bipolarismo ovvero lo preserverà. Inoltre, il voto espresso al primo turno consentirebbe tanto ai partiti quanto agli elettori di avere una idea abbastanza chiara dei rapporti di forza intercorrenti e quindi, li incoraggerà a scegliere se e quali coalizioni formare (i partiti) e se e quali coalizioni votare (gli elettori).

La semplice esistenza del doppio turno consente di fare circolare molte utili, persino decisive informazioni politiche. Infine, il partito o la coalizione vincente potrebbero vantare una legittimazione elettorale esplicitamente espressa. Il bipolarismo costruito in questo modo non sarebbe né rigido, in quanto il partito o la coalizione vincente potrebbero decidere se e come aprirsi ad altri apporti parlamentari, né feroce, nella consapevolezza che le coalizioni durano lo spazio di una legislatura (ovvero, eventualmente, ma non molto probabilmente, anche meno, se si volesse introdurre il voto di sfiducia costruttivo). Questo sistema elettorale ha alcuni pregi rispetto alle proposte circolanti. Anzitutto, è facile da capire nei suoi meccanismi e persino da valutare nelle sue probabili conseguenze, senza in alcun modo ridurre l’incertezza sull’esito. In secondo luogo, grazie al doppio voto, che può anche essere disgiunto, conferisce grande potere agli elettori. In terzo luogo, minimizza gli svantaggi prevedibili per i piccoli partiti che, grazie alla ampia componente proporzionale, avranno sicuramente rappresentanza in Parlamento, e conferisce un vantaggio (il premio di maggioranza) ai grandi, ma soltanto se sapranno conquistarselo visibilmente nella competizione del secondo turno. Ricordo che al doppio turno e al premio di maggioranza l’elettorato italiano si è ormai positivamente abituato grazie ai sistemi elettorali usati per l’elezione dei sindaci, senza nessun inconveniente. Non andrei fino a sostenere che il sistema che propongo possa essere definito con la terminologia un po’ fuorviante che fa riferimento all’elezione del “sindaco d’Italia”, ma, insomma, ci va abbastanza vicino. Comunque, mi auguro che costituisca la mossa che spariglia alcune carte dei politici e restituisce molto potere agli elettori. Questo, alla fine della ballata, è il criterio che merita di contare più di tutti gli altri.

Pubblicato il: 14.12.07
Modificato il: 15.12.07 alle ore 9.00   
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« Risposta #36 inserito:: Dicembre 23, 2007, 10:54:51 pm »

La chance di Veltroni

Gianfranco Pasquino


Non deve sorprendere del tutto che, alla ricerca di una buona legge elettorale che dia stabilità e forza al governo, Veltroni si sia anche espresso molto favorevolmente rispetto al maggioritario a doppio turno francese e all’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica. Proprio su questo binomio si era più volte arrivati vicinissimi a un accordo addirittura nel febbraio 1996 poco prima dello scioglimento del Parlamento. E anche nella commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, il semipresidenzialismo della Quinta Repubblica e il suo sistema elettorale registrarono ampie convergenze. Dunque, l’indicazione di Veltroni, che dovrebbe godere di un ampio sostegno fra gli ex Democratici di Sinistra e, in parte, fra gli ex Margheriti, a cominciare da Arturo Parisi, non deve essere interpretata soltanto come un omaggio transeunte al presidente Sarkozy in visita a Roma.

È, invece, la presa d’atto che sulla sua precedente proposta pesavano molte, probabilmente insuperabili, obiezioni e che, altrimenti, avrebbe fatto la sua comparsa un modello tedesco, per di più ritoccato che Veltroni, ma non soltanto lui, pensa finirebbe per dare potere davvero eccessivo ad un eventuale centro post-democristiano.

Il maggioritario a doppio turno francese possiede molte delle qualità, se non addirittura tutte, cercate da Veltroni e apprezzate anche da Fini e, quando i suoi consiglieri rifletteranno a fondo, probabilmente convincenti anche per Berlusconi. Garantisce che la competizione elettorale e ancor più l’esito del voto saranno bipolari, e sappiamo che la conservazione di un bipolarismo sostenibile costituisce un obiettivo degno di essere perseguito . Grazie all’esistenza di collegi uninominali e al doppio voto, attribuisce notevole potere agli elettori consentendo loro di scegliere il candidato preferito al primo turno, mentre, al secondo turno, la convergenza di voti su un candidato vale anche come chiara indicazione di preferenza per una coalizione.

Il doppio turno, debitamente consegnato, vale a dire fondato sulla possibilità di passare al secondo turno garantita ai primi quattro classificati al primo turno (in modo che nessuno, candidato e partito, si senta automaticamente escluso dalla stipulazione di soglie percentuali irraggiungibili), non svantaggia automaticamente i partiti medio-piccoli, meno che mai se sono geograficamente concentrati (dunque, la Lega non corre rischi eccessivi). Semmai, svantaggia i partiti che non siano in grado di trovare alleati o non vogliano farlo. Inoltre, non avvantaggia necessariamente e automaticamente i partiti grandi (obiezione appropriatamente rivolta contro il cosiddetto «vassallum») che, comunque, sono in condizione di decidere se e con chi fare alleanze e desistenze. Infine, non può esserci nessun dubbio sul fatto che il doppio turno alla francese vanifica del tutto il referendum elettorale.

Giustamente, il Presidente Napolitano ha sottolineato la validità complessiva della Costituzione italiana, una signora che porta ottimamente i suoi sessant’anni, ma che potrebbe con qualche ritocco eliminare le sue visibili rughe. La Costituzione della Quinta Repubblica francese sta per compiere cinquant’anni. Di rughe non se ne vedono. Ha garantito stabilità politica e efficacia decisionale; ha imposto una sana e produttiva competizione bipolare e ha consentito, anzi, facilitato alternanza secondo le preferenze degli elettori.

È un modello istituzionale che, preso nella sua interezza, eliminerebbe quasi immediatamente e quasi completamente le rughe e le imperfezioni della nostra Costituzione per quello che riguarda la sua parte già originariamente più debole: la forma di governo, come segnalarono fin d’allora i Costituenti più avvertiti. Mi parrebbe opportuno che Veltroni esplorasse a fondo il grado di consenso che può trovarsi a sostegno di una riforma, non particolaristica, ma davvero sistemica. Se quel consenso verrà utilizzato con impegno e determinazione, verrà il tempo della riforma. Credo che, nonostante alcune difficoltà, si stia aprendo una reale finestra di opportunità che un leader dotato del consenso di Walter Veltroni dovrebbe volere e sapere sfruttare con l’obiettivo finalmente di migliorare la struttura e il funzionamento del sistema politico italiano.

Pubblicato il: 23.12.07
Modificato il: 23.12.07 alle ore 15.04   
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 31, 2007, 05:14:36 pm »

Tutti gli scogli di Romano

Gianfranco Pasquino


Acquietatesi ovvero, meglio, fallite le spallate di Berlusconi, l'anno nuovo si apre con la spintina preannunciata dal senatore Dini sotto forma di sette punti programmatici alternativi. Se la Giunta per le elezioni al Senato procederà, come, probabilmente, dovrebbe, ad una riassegnazione di seggi in seguito alla documentata richiesta della Rosa nel Pugno, la spintina di Dini risulterà ancora più fievole, quasi un sospiro. Tuttavia, il pur operoso governo di Prodi dovrà comunque procedere all'incontro collegiale da più parti richiesto poiché le insoddisfazioni di Rifondazione sono molto più preoccupanti, molto più fondate e molto più temibili delle inquietudini di Dini. Direi anche che, quando si riferiscono al potere d'acquisto dei salariali, le richieste della Sinistra-Arcobaleno sono anche più rilevanti e più degne di essere prese in considerazione.

Inoltre, poiché, come ha opportunamente sottolineato il Presidente del Consiglio, i voti contano più delle interviste e, al Senato, Rifondazione di voti ne ha parecchi, la rinegoziazione degli accordi di governo dovrà tenere in maggior conto le condizioni di vita e di lavoro dei salariati.

Talvolta, però, le interviste (e le dichiarazioni) sono premesse e promesse di voti e di non-voti cosicché il governo non dovrebbe neppure sottovalutare, nel loro impatto potenzialmente alquanto grave, le richieste, peraltro non adeguatamente motivate, del Cardinale Bertone, ministro degli Esteri dello Stato del Vaticano, affinché i cattolici italiani non vengano avviliti, svantaggiati, mortificati nel Partito democratico. Non mancheranno, infatti, le occasioni nelle quali qualche teo-dem, saldamente insediato nel Pd e tutt’altro che privo di sostegno sotterraneo nella maggioranza di governo, e fuori, rivendicherà un suo insopprimibile voto di coscienza, come si dice, «a prescindere». E se questi sono problemi, apparentemente abbastanza trascurati, più specificamente del Partito Democratico, non va dimenticato che producono immediate conseguenze sulle votazioni al Senato (nonché su qualche tentativo di ridefinizione del perimetro della maggioranza).

L’altro problema del Pd (e del funzionamento del sistema politico) si chiama referendum elettorale. In materia le oscillazioni di Veltroni non hanno contribuito a chiarire né la linea né gli atteggiamenti complessivi dei Democratici, ed è un peccato che non abbiano neppure trovato una sede dove venire ampiamente e preventivamente affrontati. Inoltre, dopo la fiammata dell’abituale, tanto intenso quanto confuso, dibattito su formulette peraltro non del tutto incomprensibili da non irritare i partner minori della coalizione di governo («nanetti», per usare la terminologia di Sartori), abbastanza inquieti e, comunque, non disposti a farsi suicidare senza combattere), lo scivolamento verso il referendum potrebbe essere inarrestabile. Dunque, anche la decisione della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del referendum elettorale è un elemento di cui tenere conto, senza scandalizzarsi delle pressioni, visibili e quindi apertamente criticabili, che vengono dai soliti noti antireferendari e proporzionalisti all’osso. Più gravi mi sembrano i rilievi fatti, sotto specie di dottrina, da ex-giudici politicamente schierati. Ma anche questi politicizzati rilievi meritano di essere discussi e, eventualmente, in punto di diritto e di precedenti, contrastati e rigettati. Giustamente il governo e il suo capo se ne curano il meno possibile, anche se, in verità, Prodi qualche parolina sulla legge elettorale l’ha pur detta. Le distanze più grandi, però, intercorrono fra l’ipotesi originaria di Walter Veltroni, il sistema tedesco sponsorizzato da Massimo D’Alema e il doppio turno francese sostenuto da Arturo Parisi, poiché queste leggi elettorali si riferiscono a sistemi politici e istituzionali piuttosto differenti e, dunque, potrebbero, se portati alle loro logiche conseguenze, configurare, tecnicamente e senza scandalo, un cambiamento di regime. Alla fine, nella ineludibile corsa ad ostacoli che il governo Prodi deve affrontare, la legge elettorale è l’ostacolo più elevato. In qualche modo, prima della fine di marzo, per evitare e vanificare il referendum, oppure, dopo il 15 giugno, a referendum eventualmente vittorioso, il Parlamento dovrà mettere mano alla legge elettorale. Anche se, a fini polemici, spesso lo si dimentica, il Parlamento mantiene la facoltà di scrivere una legge elettorale, ovviamente con vincoli, peraltro più politici che istituzionali, persino a referendum avvenuto. E lo ha già fatto, addirittura in maniera surrettizia. Prima di allora, comunque, il governo avrà avuto il tempo di fare, altre riforme, altri interventi, altre leggi. Per durare, non basta, però, fare. Bisogna fare mirando al soddisfacimento di interessi diffusi e non particolaristici. Bisogna fare costruendo consenso e fiducia. Non ho dubbi che questo è il proposito del Presidente del Consiglio per l’anno 2008 al quale mandiamo l’augurio di tenere in maggiore conto le inevitabili critiche, stimolo e suggerimento di alternative praticabili, che gli saranno sicuramente più utili dei troppi ipocriti omaggi.

Pubblicato il: 31.12.07
Modificato il: 31.12.07 alle ore 6.37   
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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 07, 2008, 06:54:01 pm »

Le mezze riforme

Gianfranco Pasquino


La riforma elettorale sta rapidamente diventando il test cruciale del Partito Democratico. A mio parere non è altrettanto importante né delle tematiche etiche né di quelle del lavoro, che sappiamo essere molto controverse, ma, poiché potrebbe condurre a una crisi di governo e alla fine della legislatura, merita, al momento, maggiore attenzione. Non è del tutto inutile ricordare che il punto di partenza, un testo elaborato in via riservata da pochi consiglieri di Veltroni, per quanto molto propagandato, non ha riscosso enorme successo.

Nella Commissione Affari Costituzionali del Senato, poi, si sta già discutendo di un altro testo.

Su un argomento tanto delicato come quello di una legge elettorale che dovrebbe ristrutturare l’intero sistema partitico italiano, era opportuno, forse addirittura indispensabile coinvolgere tutto il partito altrimenti che senso ha chiamarlo “democratico”? Dalle oscure stanze è uscito un testo confuso che ha lanciato un duplice, pericoloso, messaggio: primo, favorire il partito “a vocazione maggioritaria”, ovvero lo stesso Pd, ma anche colui che si autointerpreta come il vero “maggioritario”, cioè il partito di Berlusconi (qualsiasi nome assuma); secondo, ridurre il potere di contrattazione dei partiti minori fino ad annullarlo, se non persino cancellare quei partiti. Sullo sfondo, raramente evocato e quasi mai argomentato rimangono le due motivazioni più importanti per una riforma o una qualsiasi legge elettorale: dare più potere agli elettori (quel potere oggi ridotto dal porcellum ad una crocetta di ratifica delle scelte effettuate dai dirigenti dei partiti), migliorare il funzionamento del sistema politico.

Le reazioni negative di un po’ tutti coloro che sarebbero stati colpiti e forse anche annientati dal cosiddetto vassallum erano assolutamente prevedibili e anche molto comprensibili. In nome di che cosa dovrebbero sacrificarsi? Alle reazioni negative degli esperti, invece, si è dato poco spazio e nessuna risposta. Per di più, i sostenitori, talvolta essi stessi fra gli elaboratori del vassallum, hanno aggiunto all’indifferenza e insofferenza alle critiche altrui una serie di raffiche di loro critiche, ingiustificate, ad alcuni modelli esistenti, da tempo utilizzati in altri sistemi politici e il cui rendimento è giudicato un po’ dappertutto alquanto positivo (tanto è vero che non esiste in quei sistemi un dibattito sulle riforme elettorali). Qualcuno, ad esempio, continua a dipingere il sistema elettorale tedesco (che, sarà bene ripeterlo, non è affatto misto: metà maggioritario metà proporzionale, ma è tutto proporzionale con sogli di sbarramento al 5 per cento) in maniera preoccupantemente caricaturale come se conducesse inesorabilmente a Grandi Coalizioni consociative. Ecco i dati.

In poco meno di sessant’anni di esistenza della Repubblica Federale Tedesca, si sono verificate due esperienze di Grande Coalizione: 1966-1969 e l’attuale iniziata nel 2005. La competizione è sempre stata bipolare. Il Cancelliere è sempre stato il leader del partito maggiore della coalizione (o espresso da quel partito). Anche oggi sarebbe possibile un’alternativa numerica, ovvero un governo Spd, Verdi e Sinistra, se non fosse che tra Spd e Sinistra (composta anche da scissionisti della Spd) lo iato è forte. L’esempio fatto da Veltroni nell’intervista a Repubblica: il Pd al 32 per cento (ovvero con un guadagno dello 0,7 per cento rispetto al 2006); la Sinistra Arcobaleno al 9 per cento, non porta affatto a fare nessun governo con il centro. Significa soltanto che il centro-sinistra ha perso le elezioni, non per colpa del sistema tedesco, ma per mancanza di voti. Naturalmente, i leader dei partiti italiani potrebbero buttare a mare tutto il buono del sistema tedesco, ma la responsabilità dovrebbe ricadere sulla politica delle alleanze da loro perseguita. Mi pare un omaggio troppo grande al Partito di Casini e Tabacci sostenere che diventerà l’arbitro dell’esito elettorale, a meno non si tema che vi siano già, dentro il Partito Democratico, molti che desiderano una soluzione di governo collocata nei pressi del centro dello schieramento.

Quanto al semipresidenzialismo francese, non basta continuare a dire che sarebbe, accompagnato dal doppio turno elettorale, in via del tutto ipotetica, il sistema migliore e poi perseguire una strada che porta dappertutto (incidentalmente, non è prevedibile dove), ma sicuramente non a Parigi. Da nessuna cocktail a pluralità di ingredienti alla spagnola, alla tedesca, all’italiana, potrà sbucare un qualsiasi doppio turno. Ed è anche meglio non parlare di elezione diretta del Primo Ministro, formula che fuoriesce dai modelli parlamentari di governo e che, utilizzata tre volte in Israele, è stata prontamente e intelligentemente abbandonata.

Insomma, tedesco nella sua interezza, francese nella sua completezza: questi sono modelli esistenti in sistemi politici non troppo dissimili da quello italiano, sistemi dei quali conosciamo pregi, molti, e difetti, pochi e che saremmo in grado di imitare. Certo non rimedieremo all’eventuale sorpasso spagnolo imitando un sistema politico nel quale c’è una monarchia e la cui Camera bassa ha 350 rappresentanti. La politica non è l’arte del possibile, ma la capacità di creare le condizioni di quel che è possibile. Sarebbe preferibile che un partito democratico iniziasse il complesso processo di creazione di quelle condizioni attraverso estese consultazioni al suo interno. Poi, se vuole essere il fulcro di una coalizione di governo (come è nel contesto attuale) ne discuta con i potenziali alleati al fine di formulare una o più proposte agli altri interlocutori parlamentari, dichiarandosi pronto a recepire il meglio delle eventuali critiche e controproposte. Questa è la via democratico-parlamentare alla riforma elettorale. Meno promettente è la via del fatto compiuto e dichiarato attraverso improvvise e improvvisate (molti ricorderanno il Franceschini proporzionalista di pochi anni fa) interviste.

Pubblicato il: 07.01.08
Modificato il: 07.01.08 alle ore 13.42   
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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 16, 2008, 11:19:17 pm »

Hanno perso Tutti

Gianfranco Pasquino


La rinuncia sdegnata di Papa Ratzinger alla visita e all’intervento in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università La Sapienza non costituisce la vittoria di nessuno. Anzi, è un’occasione (di chiarimento) perduta. Rimane importante conoscere le procedure decisionali del Senato Accademico (presidi e altri) che ha deciso, con quali maggioranze e con quali motivazioni?, di invitare il Papa addirittura, in una prima fase, a tenere una lectio magistralis, poi derubricata a intervento.

Se le procedure sono state correttamente interpretate, coloro che si erano opposti all’invito e hanno perso, avrebbero dovuto mobilitarsi per tempo e fare una sana opera di controinformazione, come si conviene a docenti universitari colti e competenti. Quanto al Papa, la sua rinuncia ne intacca l’immagine di combattente. Incessantemente definito teologo e filosofo dai corrispondenti italiani in Vaticano, gli era stato affidato l’importante compito di affrontare il tema, estremamente significativo per i fedeli di ogni credo religioso, alcuni dei quali immersi nello «scontro di civiltà», della moratoria relativa alla pena di morte.

Avrebbe, da teologo e da filosofo, forse anche da logico, potuto sfruttare l’evento per respingere con fermezza, grazie alla sua cultura, qualsiasi paragone del tutto improprio con la cosiddetta moratoria sull’aborto.

Un test più complicato e, al tempo stesso, più importante, per l’attuale condizione dei rapporti fra la politica italiana e la Chiesa cattolica, attendeva Ratzinger. A partire dalla Conferenza Episcopale Italiana, all’interno della quale si fa molta fatica a distinguere reali differenze di opinioni, la rivendicazione più insistente e più alla moda è quella del cosiddetto ruolo pubblico della religione, anzi, delle religioni al plurale, poiché non ci si dovrebbe riferire alla sola confessione cattolica, per quanto, in questo paese, maggioritaria. Al contrario, tocca non soltanto ai laici, ma ai rappresentanti delle confessioni religiose più grandi impegnarsi per difendere i diritti delle minoranze religiose, tutte. È certamente pubblico il ruolo di una religione che esprime le proprie posizioni e preferenze su tutte le problematiche che la politica deve affrontare. Naturalmente, lo spazio della sfera pubblica è, per definizione, luogo di confronto anche conflittuale di una pluralità di preferenze. Altrettanto naturalmente chi interviene nella sfera pubblica deve argomentare e giustificare le sue preferenze ed, eventualmente, la loro superiorità, se il suo obiettivo è persuadere coloro che la pensano diversamente.

Chi interviene nella sfera pubblica si espone a critiche, che, a loro volta, debbono essere ugualmente argomentate in maniera trasparente, ragionevole e ragionata. Si fa davvero fatica a pensare che la religione cattolica in Italia, i suoi rappresentanti, il Papa abbiano scoperto soltanto oggi di avere un ruolo pubblico e sostengano di esercitarlo da poco, per di più lamentandosi di un presunto mancato riconoscimento di questo diritto ovvero del loro ruolo. Tuttavia, dovrebbe essere evidente che non si dà ruolo pubblico della religione, ma qualcos’altro, di diverso e di pericoloso, quando gli esponenti titolati di quella religione pretendono di dettare comportamenti alla politica, a tutti i politici, ai politici che, più o meno coerentemente, affermano di richiamarsi alla fede (cattolica). In questo caso, siamo di fronte a interferenze che possono essere variamente sanzionate: dall’opinione pubblica, dall’elettorato, dagli altri politici.

In particolare, la protezione della apertura e della competitività dello spazio pubblico sarà il nobile compito dei politici che ritengono che il bene comune non sta a monte delle decisioni e non è mai predefinito, ma è il prodotto complesso di un insieme di procedimenti, di accordi e conoscenze. Meno che mai si possono giustificare coloro che in politica, invece di «rappresentare la Nazione (termine più ampio e comprensivo di qualsiasi credo religioso) senza vincolo di mandato», affermano di seguire la propria coscienza che troppo spesso coincide a priori e a posteriori con le affermazioni, le indicazioni, le imposizioni delle autorità religiose.

Ecco, il Papa teologo e filosofo avrebbe avuto giovedì la grande opportunità, se avesse accettato quella che era diventata una sfida, di tornare a confrontarsi con il pensiero del suo connazionale Jürgen Habermas, proprio sul concetto di spazio pubblico. Sarebbe stato ancora più bello se, in materia, avesse anche accettato il contraddittorio, proprio come si esige e si addice a uno spazio pubblico, e allora gli assenti avrebbero torto. Con la sua rinuncia, il Papa teologo e filosofo ha privato tutti coloro che riconoscono alla religione un ruolo della possibilità di sapere se lui pretende che nello spazio pubblico esista soltanto una voce e soltanto una verità, oppure se è disposto all’ascolto. Un’occasione perduta da accogliere senza entusiasmi con un silenzio critico.


Pubblicato il: 16.01.08
Modificato il: 16.01.08 alle ore 8.11   
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« Risposta #40 inserito:: Gennaio 17, 2008, 11:09:42 pm »

Conto alla rovescia

Gianfranco Pasquino


Nonostante le critiche a eventuali compromessi, ancora una volta la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili quesiti referendari che riguardano le leggi elettorali italiane.

Criticata, anche dal suo interno, per una incerta giurisprudenza in materia referendaria, specificamente elettorale, la Corte ha mandato un messaggio chiaro, vedremo poi come verrà motivato: i tre quesiti sottoposti dal Comitato Guzzetta-Segni non vanno contro nessun principio costituzionale. Semmai, sono proprio alcuni cardini del vigente Porcellum che avrebbero dovuto essere preventivamente sottoposti ad un controllo di costituzionalità. Adesso, i partiti a vocazione maggioritaria possono rallegrarsi. Infatti, il premio in seggi che alla Camera consentirà il conseguimento di una comoda maggioranza più che assoluta verrà attribuito al più grande dei partiti a prescindere dalla percentuale di voti ottenuti che, comunque, non sarà infima. Già sappiamo che, anche nella peggiore delle circostanze, oggi sia il Partito Democratico sia il Popolo delle Libertà dovrebbero essere al di sopra del 30 per cento dei voti. Non sarebbero molto distanti dalle percentuali elettorali che, in alcuni paesi dove si vota con il sistema maggioritario semplice (ovvero nei cui collegi si vince il seggio anche con la maggioranza relativa), vengono superate non di molto dal partito che guadagna la maggioranza assoluta dei seggi.

Certamente, i partiti piccoli hanno molto di che lamentarsi. Se stanno al disotto del 4 per cento rischiano di sparire del tutto. Comunque, hanno perso quasi interamente il loro potere di ricatto nei confronti dei partiti grandi. In un certo senso è giusto così; ovvero è meglio così. Da un lato, ne potrebbe conseguire una positiva spinta all’accorpamento dei piccoli partiti in special modo se non sono fra loro troppo palesemente eterogenei. La riduzione della frammentazione significherà anche probabile contenimento della conflittualità nel governo. Dall’altro lato, però, è ipotizzabile che né il Partito Democratico né il Popolo della Libertà intendano agire senza rete, vale a dire che entrambi, in una misura che è difficile da definire, tenteranno di trovare (temo che il termine giusto sia “imbarcare”) il maggior numero possibile di alleati: effetto grande ammucchiata che svuoterebbe il senso e l’obiettivo del quesito referendario.

A bocce ferme, sia Veltroni sia Berlusconi, se trovassero l’accordo su una buona formula elettorale, dispongono di uno strumento molto incisivo di persuasione nei confronti dei loro potenziali alleati ponendo l’alternativa secca fra la riforma da loro concordata oppure l'esito referendario. Nella pratica, però, il gioco è molto più complesso tanto nella fase di avvicinamento al referendum quanto al momento del voto referendario e nella presa d’atto delle sue conseguenze. Qualcuno dei piccoli potrebbe decidere che, non volendo lasciarsi “suicidare” dal referendum, preferisce fare cadere il governo. Ma, a questo punto, il guardiano della Costituzione, ovvero il Presidente della Repubblica, imporrebbe comunque al Parlamento di approvare una legge elettorale prima di tornare alle urne. Di nuovo, l’eventuale accordo fra i due grandi partiti diventerebbe decisivo. Qualcuno potrebbe contare sulla difficoltà quasi decennale dei referendum di conseguire il quorum. È questo, a mio modo di vedere, il rischio più grave, anche in termini di delegittimazione e di dimostrazione che i partiti non hanno più la capacità di convincere i loro elettori di quanto importante è la loro partecipazione.

Dopo il referendum, nel quale la vittoria dei “sì” mi pare assolutamente prevedibile, toccherebbe comunque al Parlamento il compito delicato di tradurre (non tradire) in maniera decente l’esito dei quesiti in norme. Ma i partiti grandi avrebbero maggiori capacità di “persuasione”, soprattutto se sapessero accompagnarla a qualche scelta tecnica facilmente comprensibile e ad una visione complessiva del sistema politico desiderabile. Troppe variabili m’inducono a ritenere che l’ammissione dei quesiti da sola non è ancora sufficiente ad imporre un’unica precisa scelta, che si tratti della riforma, della crisi di governo, dello stallo. Quello che sappiamo di sicuro è che, per tornare all’iconografia referendaria, la pistola del referendum non è più sul tavolo. Adesso è carica, è sollevata ed è puntata. Tuttavia, non è chiaro da chi e contro di chi è puntata e chi abbia l’ardire e il potere di premere il grilletto. In assenza di un, al momento imprevedibile, scatto di leadership, le circostanze e le contingenze della politica partitica sembrano ancora in grado di occupare la scena fino all’inizio dell’estate.

Pubblicato il: 17.01.08
Modificato il: 17.01.08 alle ore 8.23   
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« Risposta #41 inserito:: Gennaio 23, 2008, 05:54:49 pm »

Governo tecnico purché serva

Gianfranco Pasquino


Anche a futura memoria, è molto opportuno il richiamo intransigente del Presidente del Consiglio Romano Prodi. In una democrazia parlamentare, le crisi di governo si aprono in Parlamento e, eventualmente, in Parlamento debbono cercare e trovare una soluzione. Sia la maggioranza e l’opposizione sia, in special modo, l’elettorato hanno il diritto di conoscere dalla viva voce dei protagonisti come e perché si è rotto il patto di governo e quali alternative propone l’opposizione.

Fintantoché l’Italia sarà una democrazia parlamentare, senza nessun raffazzonato marchingegno di elezione diretta del capo del governo, le esigenze poste da Prodi dovranno essere rispettate. Purtroppo, nel passato lo sono state pochissimo, spesso più per qualche secondo fine che per rispetto della Costituzione.

Fra le soluzioni parlamentari alla crisi che è comunque da considerarsi già aperta, non si trova necessariamente l’immediato ritorno alle urne. Infatti, la Costituzione italiana specifica che può nascere qualsiasi governo purché abbia la fiducia delle due Camere e che lo scioglimento del Parlamento viene deciso dal Presidente della Repubblica «sentiti i Presidenti delle Camere» i quali dovrebbero comunicargli l’esistenza di una maggioranza operativa in entrambi i rami del Parlamento. Qui si trova lo spazio, perfettamente costituzionale, per la formazione di un governo istituzionale oppure tecnico (non sono la stessa fattispecie), ma non democristiano-balneare. Naturalmente, se, da un lato, le componenti dell’Unione non lo votano, nessun nuovo governo è possibile. Allo stesso modo, se i quattro partiti del centro-destra, anche in ordine sparso, non convergono su una compagine di governo sostenuta almeno in parte dall’ex-Unione, il Parlamento non riuscirà a dare vita ad un altro governo e toccherà a Prodi condurre il paese a nuove elezioni.

In verità, sembrerebbe essere questa la preferenza di Prodi che mi pare si scontri sia con le aspettative di Veltroni sia, quel che più conta, con le preferenze, non personali, ma istituzionali, del Presidente della Repubblica. Dovrebbe essere del tutto evidente e accertato che, a referendum incombente, il Parlamento italiano non ha saputo, a causa di veti e di egoismi incrociati, produrre un testo chiaramente migliore dell’attuale legge proporzionale con maldestro premio di maggioranza e altrettanto chiaramente non tagliato su misura per nessuno, neppure per i partiti a «vocazione maggioritaria». La dichiarazione solenne di Napolitano in occasione della crisetta del febbraio 2007 obbliga, però, prima che possano venire indette elezioni anticipate a rivedere in maniera, magari non ottimale, ma decente, la legge elettorale vigente.

La reciproca sfiducia fra i due schieramenti e, persino, fra ciascuna componente al loro interno, suggerisce che anche al fine di formulare e fare approvare quella sola, ma indispensabile, riforma, è imperativo dare vita ad un governo, forse tecnico, forse istituzionale, quasi certamente a termine, altrimenti non potrebbe avere neppure una limitatissima fiducia dal centro-destra. Esistono due interessanti, ma probabilmente irripetibili, precedenti. Il governo Ciampi, nato sull’onda del referendum elettorale (ma non solo) del 1993 venne chiamato dal Presidente Scalfaro a sovrintendere alla scrittura della nuova legge elettorale e a preparare una legge finanziaria decente. In quel periodo, Napolitano era Presidente della Camera dei deputati.

Anche grazie all’apporto di autorevoli personalità, Ciampi adempì con successo al suo compito e lasciò allo scadere di un anno. L’altro esempio è quello del governo guidato da Lamberto Dini (gennaio 1995-febbraio 1996). Meno autorevole quanto alla sua composizione, Dini rese un ottimo servizio al paese con la riforma delle pensioni, ma si arenò sul terreno istituzionale.

Il problema attuale non è forse tanto che manchino le personalità anche istituzionali per guidare un nuovo governo tecnico quanto che gli eventuali «tecnici», dotati di competenze elettorali e economiche, sui quali si potrebbe fare affidamento sembrano tutti troppo schierati, se non addirittura chiaramente impegnati nel perseguimento di loro obiettivi politici e personali. Eppure, dalla crisi in cui è precipitata la classe politica parlamentare non si può che uscire stimolando la parte migliore di quella stessa classe a tenere comportamenti «sistemici» e individuando fuori di essa coloro che abbiano a loro volta una visione sistemica.

Non resta che fare molti auguri al Presidente della Repubblica. Il compito di Napolitano risulta alquanto più difficile di quello, a suo tempo svolto egregiamente, di Scalfaro. Ma non c’è ragione di pensare che Napolitano non saprà suggerire la soluzione più adeguata, vincendo le troppe deprecabili resistenze personalistiche.


Pubblicato il: 23.01.08
Modificato il: 23.01.08 alle ore 8.19   
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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 28, 2008, 11:28:22 am »

Proviamo a vincere

Gianfranco Pasquino


Non bisogna mai sottovalutare l’intelligenza dell’elettorato. È un errore, politico e democratico, commesso molto frequentemente e ripetutamente da troppi politici e intellettuali di sinistra che, quando vince la destra, accusano gli elettori di non avere capito, o peggio, e quando vince la sinistra non si preoccupano di mantenere quello che hanno promesso, oppure di spiegare perché non riescono a realizzarlo. Naturalmente, non è vero che gli elettori hanno sempre ragione, ma gli esiti elettorali sono sempre da rispettare, da analizzare e da capire.

Probabilmente, si andrà presto ad elezioni anticipate. Se non si trova nessun preventivo accordo parlamentare, ma sarebbe davvero opportuno che i difensori del parlamentarismo dimostrassero la loro autonomia e la loro influenza dettando l’agenda dei lavori, saranno gli uscenti Presidente del Consiglio Romano Prodi e Ministro degli Interni Giuliano Amato a sovrintendere all’intero procedimento elettorale. Sarebbe certamente molto meglio se almeno un piccolo pacchetto di revisioni facilmente condivisibili fosse apportato alla legge elettorale vigente. Incidentalmente, anche una volta che si fosse votato con la legge Porcellum, il referendum rimarrà innescato come una lunga miccia destinata a deflagrare nella primavera del 2009. Meglio sarebbe dare vita ad un governo chiaramente pre-elettorale (il Presidente Napolitano è abbastanza generoso da scusare la mia interferenza), guidato da una personalità dotata di una biografia politica degna di rispetto, capace anche di tenere l’economia sulla retta via, che faccia le poche migliorie assolutamente indispensabili. Il resto dovrà essere affidato agli uomini e alle donne dei partiti ai quali spetterà di scegliere le candidature e le strategie.

L’elettorato ovvero, meglio, la sua parte che può essere decisiva, è sicuramente interessato a valutare quanto il governo ha fatto, con quali conseguenze e con quali prospettive. Credo sia giusto, per quanto difficile, che la leadership di governo del centro sinistra rivendichi le sue riforme, mentre il Partito Democratico e il suo leader metteranno il silenziatore alle loro promesse al rialzo, e chieda il voto sia sulla continuazione di un programma non del tutto realizzato sia per alcuni punti nuovi di particolare importanza. C’è sempre un vantaggio, per quanto piccolo, a favore di coloro che hanno governato: sono in grado di presentare un bilancio e di chiedere di essere valutati sulle loro prestazioni. Inevitabilmente, la destra continuerà a riproporre le sue promesse che non possono allontanarsi troppo da quanto dichiarato nella precedente campagna elettorale e che debbono a loro volta essere valutate con riferimento al quinquennio 2001-2006.

Chi crede che l’elettorato è intelligente, pensa, valuta, si orienta, non può e non deve dare per scontata la vittoria del centro-destra. Deve, invece, impegnarsi a proporre e a controbattere tenendo conto delle delusioni degli italiani che riguardano non soltanto quello che è stato fatto, ma anche il come è stato fatto. La campagna elettorale costituisce anche, per chi sa come farlo, un grande esercizio di democrazia: dialogo, interazione, voto basato sul circuito “offerte dei partiti-risposte degli elettori-controproposte dei partiti”. Esiste una ricca e promettente possibilità di dialettica democratica nella quale si sperimenta la leadership sapendo che contano non le suggestioni oniriche, ma la realizzabilità delle promesse e la credibilità della leadership stessa.

Dopo le primarie dell’ottobre 2005 che consegnarono a Prodi la candidatura a Palazzo Chigi, mancarono molti elementi che avrebbero consentito di mantenere lo slancio di partecipazione e di entusiasmo, gli americani direbbero il “momentum” (lo slancio) a favore del centro-sinistra. Non è in nessun modo possibile dimenticare che, se la legge elettorale rimarrà grosso modo tale e quale, bisognerà evitare nella maniera più assoluta (e non soltanto perché lo Statuto del Partito Democratico prevede le primarie per le candidature) di affidare ad alcuni pochi leader, meno che mai ad un uomo solo, il compito di selezionare i candidati e le candidate con bilancini partitocratici. E' importantissimo, in special modo per riannodare i rapporti con un elettorato deluso e depresso, ma anche per consentirgli di partecipare efficacemente e di impegnarsi nella campagna elettorale, che, ovunque possibile, si tengano elezioni primarie. Invece di raccontare che già non c’è più tempo si dedichino subito le energie ad approntare strumenti e sedi.

La politica cammina sulle gambe delle donne e degli uomini. Quasi un migliaio di candidature selezionate con criteri democratici sarebbero/saranno messaggeri efficaci del centro-sinistra, sia che si presenti come coalizione ristrutturata, sia che ciascun partito presenti le sue liste e, allora, il mio suggerimento vale soprattutto per il Partito Democratico. Bisogna tornare a parlare di politica con gli elettori, smettendo di parlare di cariche, di posti, di ruoli e di “solidarietà” fra dirigenti. Il centro-sinistra non può dare per preventivamente scontata la sua sconfitta (come fece, candidando l’allora sindaco di Roma, che non aveva avuto ruolo alcuno nei governi della legislatura 1996-2001) e neppure specularmente la vittoria del centro-destra. Potrebbe sicuramente succedere che neppure con una campagna elettorale intessuta di pochi essenziali punti programmatici e di pedagogia politica, il centro-sinistra riuscirà a vincere, ma avrà almeno sfruttato onestamente la grande opportunità di costruire le premesse di trasformazioni più profonde a non troppo futura memoria.

Pubblicato il: 27.01.08
Modificato il: 27.01.08 alle ore 6.52   
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« Risposta #43 inserito:: Febbraio 05, 2008, 06:39:13 pm »

La forza del Porcellum

Gianfranco Pasquino


Nelle difficili, quasi disperate, consultazioni, è probabile che il presidente del Senato Marini abbia toccato con mano quanto distanti fossero e quanto aspramente si confrontassero e si scontrassero due esigenze. Da un lato, stavano le esigenze, non tutte fra loro pienamente compatibili, del centro-destra e, in special modo di Berlusconi: andare a elezioni il prima possibile, ovvero subito. Non c’era spazio in queste esigenze per qualsivoglia riforma della legge elettorale.

Non c’era spazio né per una nuova legge né per migliorie possibili e, poiché notissime e condivisibili, rapidamente fattibili, alla pur pessima legge vigente. D’altronde, il ragionamento (è un modo di dire) di tre capi del centro-destra su quattro (anche se Casini non può chiamarsi fuori né per il passato né per il presente) è semplice: la legge l’hanno fatta loro e non è davvero il caso che la sconfessino platealmente proprio adesso. Dall’altro lato, stava il centro-sinistra, con i suoi ritardi, le sue contraddizioni, la sua incapacità di decidere che cosa davvero voleva tranne affidarsi, magari anche con l’intercessione dei suoi agguerriti teo-dem, alla Provvidenza e guadagnare tempo.

In parte, ovviamente, il tempo che il centro-sinistra fosse riuscito a guadagnare poteva essere messo al servizio anche di una esigenza particolaristica: consentire nella misura del possibile, che non è molta, il rafforzamento del Partito Democratico (esattamente quello che Berlusconi vuole impedire). In parte, invece, quel tempo avrebbe permesso e facilitato una riformetta decente del sistema elettorale tale da dare più potere agli elettori e da produrre un esito politico più soddisfacente in special modo per il funzionamento futuro di governo e Parlamento. A questo punto, comunque, i dirigenti del centro-sinistra e, in special modo, quelli del Partito Democratico potrebbero decidere di comportarsi come se una legge migliore fosse già in esistenza, per esempio, affidando ai loro elettori la selezione con le primarie di almeno una parte delle candidature al Parlamento, decidendo con maggiore chiarezza gli impegni e le alleanze fino a, addirittura, correre ciascuno per conto suo magari evitando suicidi a catena.

Sulle esigenze particolaristiche del centro-destra e su quelle in parte sistemiche del centro-sinistra continua ad incombere il referendum elettorale, richiesto da ottocentomila e più elettori. Infatti, anche dopo che si sarà votato con l’attuale legge elettorale, il referendum elettorale non risulterà in nessun modo vanificato. Verrà semplicemente spostato nel tempo. Dovrebbe, comunque, tenersi nel 2009. Per ricorrere alla metafora finora prevalente, la pistola referendaria continuerà ad essere carica anche se il centro-destra intrattiene l’idea che le polveri si bagneranno sotto un pesante acquazzone di voti e che le pallottole finiranno per arrugginirsi. È una idea particolaristica soltanto parzialmente sostenuta dall’argomentazione che l’elettorato avrebbe già espresso il suo verdetto a favore del loro governo, certamente legittimo. Anzi, un elettorato incattivito dalla scarsa considerazione del suo attivismo partecipatorio potrebbe dare comunque la sua spallata referendaria. L’eventuale governo di centro-destra tenterà di chiamarsi fuori, ma la legge elettorale sarebbe, lei sì, certamente “delegittimata”, comunque pesantemente ritoccata. Inoltre, un problema sistemico continuerebbe a sussistere derivante dall’ormai abituale disprezzo del centro-destra per le istituzioni, le procedure, le regole, mai tutte esclusivamente formali, di una democrazia che vorremmo vitale e complessa, presa sul serio. Su questo terreno, senza infingimenti, senza furbizie, senza doppi giochi, si misura non la pure importante leadership politica, che consiste nel costruire, guidare, fare funzionare i partiti e le coalizioni, ma le decisive leadership istituzionali, quelle che hanno a cuore la qualità delle regole del gioco. Si diventa statisti quando, ovviamente senza distruggere le proprie preferenze e le proprie opportunità politiche, si riesce a costruire un sistema istituzionale migliore, attraverso il quale avere appropriate opportunità di governare per poi lasciarlo in condizioni più avanzate ai propri successori. Giusta era, dunque, la preoccupazione di D’Alema relativa al contorto ingorgo referendario elettorale, anche se purtroppo non tutti nel centro-sinistra hanno manifestato per tempo eguali sensibilità sistemiche. Comprensibili, ma non del tutto giustificabili e certamente né apprezzabili né sistemiche sono state le reazioni del centro-destra. Adesso anche i non molti dirigenti del centro-destra che non hanno condiviso frettolosità e accelerazioni antisistemiche si sono ridotti a rilanciare, in maniera poco credibile, una fantomatica legislatura costituente (dal 1992, a parole, lo sono state un po’ tutte, dunque: nessuna). Neanche tutto il centro-sinistra potrebbe, in materia, dopo le sue acrobatiche proposte di variegate leggi elettorali, permettersi di lanciare la prima pietra. In campagna elettorale, mancando, fortunatamente, il tempo di scrivere inutilmente monumentali programmi elettorali, sarà il caso di non dare troppo spazio alle riforme elettorali e istituzionali non fatte, per concentrarsi piuttosto a rivendicare documentatamente e insistentemente quanto di buono il governo ha comunque compiuto in economia. Le qualità dell’esperienza, della competenza e della credibilità altrove contano e vincono. Perché in Italia no?

Pubblicato il: 05.02.08
Modificato il: 05.02.08 alle ore 12.33   
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« Risposta #44 inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:12:07 pm »

Se il Pd va da solo

Gianfranco Pasquino


Qualche volta il coraggio, anche quello politico, sconfina nella temerarietà, e rischia di sprofondarvi. Esprimere «vocazione maggioritaria» per un partito di medio-grandi dimensioni è sicuramente comprensibile, in qualsiasi situazione politico-istituzionale quel partito si trovi ad operare. Naturalmente, quando si sa di avere bisogno di alleati, la vocazione maggioritaria non dovrebbe essere esibita come un’arma per ridurre tutti gli alleati, a prescindere dai loro comportamenti, a mitissimi consigli. «Correre da soli» è un nobile proposito, addirittura, qualche volta, ad esempio, laddove vengono utilizzati sistemi elettorali maggioritari, un imperativo politico. Sappiamo, però, che, purtroppo, non si è pervenuti in Italia ad un sistema elettorale maggioritario (ad un solo oppure a due turni) a favore del quale non era possibile trovare una maggioranza né fuori né dentro il centro-sinistra.

Del tutto improprio e fuorviante, quindi, è qualsiasi eventuale paragone fra il Partito Laburista inglese e il Partito Democratico che, incidentalmente, ha respinto proprio le caratterizzazioni laburiste e socialdemocratiche.

Il problema da affrontare come «correre da soli» e come affermare la propria «vocazione maggioritaria» deve tenere conto dei vincoli sistemici, politici e istituzionali vigenti. È nell’ambito di questi vincoli che deve essere trovata la soluzione, se non ottimale, almeno soddisfacente. È probabile che «correre da soli» sia un’affermazione che contiene tre elementi: un segnale mandato ai riottosi alleati governativi, l’indicazione che si sarebbe cercata una formula elettorale in grado di valorizzare le corse da soli, la sfida rivolta a Forza Italia-Partito del Popolo nella ipotesi che Berlusconi l’accettasse volendo ridurre le pretese dei suoi punzecchianti alleati. Era, fin dall’inizio, la premessa più vacillante.

Adesso che la campagna elettorale sta cominciando sembra opportuno procedere ad un ripensamento di tutt’e tre gli elementi. In un batter d’occhio, la Casa delle Libertà si è ricomposta sotto la guida del Cavaliere che non ritiene affatto di dovere correre da solo: primum vincere. Quanto ad alcuni degli alleati riottosi del centro-sinistra che hanno dato il loro decisivo contributo alla caduta del governo, per loro, né come singoli né come partitini, non può più esserci nessuna disponibilità ad accettarli come partner. Per altri, invece, non soltanto alleati leali, ma anche già intenzionati, quando si presentò l’occasione, a convergere nel Partito Democratico, questa disponibilità deve esserci. Includere l’Italia dei Valori e i Radicali nel Partito Democratico non sarebbe affatto un cedimento e neppure una violazione alla coerenza delle precedenti affermazioni. Sarebbe, invece, un’azione logica e proficua.

Se si fosse fatta, senza troppe giravolte, una legge elettorale di tipo spagnolo o tedesco, «correre da soli» avrebbe significato contare i propri voti e avrebbe permesso di fare, dopo il voto, come avviene nella maggioranza delle democrazie parlamentari, alleanze numericamente possibili e politicamente, e programmaticamente plausibili. Il Porcellum rende qualsiasi propensione alla corsa da soli non soltanto rischiosissima, ma, al limite, deleteria. Veltroni potrebbe pensare, ma sicuramente non dovrebbe dichiararlo, che esistono sconfitte onorevoli, persino accompagnate da una confortante percentuale di voti, che consentirebbero di semplificare lo schieramento partitico, di rafforzare il Partito Democratico, di prepararsi alla rivincita ottimamente attrezzati. Il ragionamento è comprensibile e non sarebbe difficile trovare qualche esempio, anche, seppure un po’ improprio, nel contesto inglese, a sostegno di una strategia di lungo periodo.

Ma non siamo inglesi e non abbiamo né, come ho sottolineato, il loro sistema elettorale né il fair play che ne caratterizza la politica. Cinque anni all’opposizione di un governo guidato da Berlusconi, sostenuto dai partiti di Fini e Bossi e da quel che resta dell’UDC di Casini, sembrano a molti nel centro-sinistra, anche a quelli che non hanno mai demonizzato il Cavaliere, di insostenibile pesantezza dal punto di vista dei programmi del centro-destra, delle sue concrete politiche, delle sue posizioni internazionali.

Ricordiamo tutti l’importante distinzione formulata da Max Weber fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità. Ciascuno di noi può rimanere coerente con le proprie idee fino a pagarne, con convinzione, un prezzo personalmente elevato. Ma il politico ha il dovere di attenersi all’etica della responsabilità. Non conta soltanto il fatto che il Partito Democratico perda, per coerenza (e per ostinazione, il difetto con il quale molti hanno bollato il comportamento finale di Romano Prodi), in maniera cospicua, le prossime elezioni. Piuttosto, conta per molti di noi che numerosi ceti sociali già svantaggiati non otterranno adeguata rappresentanza in Parlamento e non godranno più di sufficiente protezione.

Insomma, è possibile, applicando l’etica della responsabilità, ovvero tenendo in massimo conto le conseguenze prevedibili della propria strategia, ripensare alle modalità (che, è mio fermo convincimento, dovrebbero includere anche primarie che consentano la partecipazione attiva dei «democratici» alla selezione delle candidature parlamentari) con le quali presentarsi alle elezioni, non per testimoniare la propria coerenza, ma per offrire rappresentanza e, se possibile, governo ad un sistema politico e ad una società che continuano ad averne davvero bisogno.

Pubblicato il: 07.02.08
Modificato il: 07.02.08 alle ore 8.05   
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