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Autore Discussione: Gianfranco PASQUINO ...  (Letto 53368 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Febbraio 10, 2008, 07:55:25 pm »

Primarie Pd: «Yes, we can»

Gianfranco Pasquino


Un partito, in special modo se relativamente nuovo e in fase di consolidamento, come il Partito Democratico, ha l’imperativo politico-organizzativo e deve avere la concreta possibilità di costruire un gruppo dirigente capace di operare con continuità e efficacia in Parlamento e, eventualmente, al governo. In quest’ottica, dunque, non possono essere ascoltate le sirene, più o meno consapevolmente populiste, che invocano mannaie collegate indiscriminatamente al numero di legislature già fatte.

La rara specie degli ottimi parlamentari di lungo corso non deve assolutamente cadere sotto quelle mannaie e neanche deve essere sottoposta alla riconferma democratica attraverso le primarie. Ma, una volta costituito un ristretto e autorevole gruppo dirigente parlamentare, al Senato e alla Camera, per la selezione dei rimanenti tre quarti dei parlamentari non è davvero convincente opporre la formuletta burocratica del «non c’è più tempo» contro le richieste eventuali di alcuni settori del partito, ovvero degli aderenti e dei simpatizzanti. Inoltre, se il Partito Democratico si considera davvero federale e vuole vivere come tale, allora il Coordinamento nazionale deve rinunciare coerentemente e completamente alla facoltà di vietare eventuali consultazioni primarie. Anzi, laddove i segretari regionali o i coordinatori e le coordinatrici provinciali ritengano di avere tempo, modi e capacità di organizzare primarie eque e efficaci, è giusto che venga loro consentito di farlo. Subito.

L’onda lunga delle “primarie per Prodi” nell’ottobre 2005 si infranse e si spense, da un lato, su una legge porcata a lunghe liste di candidature bloccate, dall’altro, sulla decisione che le primarie di coalizione non potessero essere fatte altrimenti non si sarebbe attribuita adeguata (sic) rappresentanza parlamentare agli alleati dei Ds e della Margherita. Andò così malamente e colpevolmente perduto l’effetto di mobilitazione e entusiasmo che elezioni primarie per almeno la metà delle candidature avrebbero sicuramente suscitato (e si giunse alle elezioni del 2006 depressi e tristi). La legge porcata è viva e vitale e si appresta a celebrare suoi nuovi disastrosi trionfi, ma il Partito Democratico può sventarne alcuni se dà la parola alla sua base. Lo sappiamo è una base che vuole partecipare, non soltanto per motivazioni democratiche, ma anche per vincere che, naturalmente, è una delle tutt’altro che poco nobili motivazioni politiche.

Non è affatto difficile stabilire, nelle situazioni che se lo possono permettere, penso ad almeno una circoscrizione della Lombardia, all’Emilia-Romagna e alla Toscana (ma sono certo che anche in altre aree del paese esistano e si manifesterebbero apprezzabili pulsioni “primarie”) perché è come andare a primarie di mobilitazione e selezione. Quando esistano associazioni di qualsiasi tipo, ovviamente democratiche e progressiste (vorrei anche aggiungere “laiche”), che vogliano sottoporre candidature accompagnate da un numero di firme a sostegno, né troppo basso, per evitare il folclore, né troppo alto, per consentire una pluralità di espressioni, è diffusa la consapevolezza che gli strumenti già esistenti, le tecniche già utilizzate pochi mesi fa, gli attivisti impegnati siano in grado di garantire un rapido svolgimento delle primarie, nell’arco di non più di tre settimane. Si tratta di pervenire alla predisposizione di elenchi di candidature che contengano più nominativi del numero dei parlamentari da eleggere e affidare la scelta a chi vorrà recarsi alle primarie, con il solito contributo in Euro, servirà in parte per le spese della campagna elettorale nazionale, in parte per quelle delle organizzazioni di partito che avranno fatto le primarie. Chi andrà a votare alle primarie esprimerà una sola preferenza. Verranno in questo modo individuate sia le candidature per Camera e Senato (ovviamente, salvaguardando le poche posizioni di rilievo nazionale) sia l’importantissimo ordine di lista con le candidate e candidati più votati che verranno collocati in testa. Tutto questo è, insisto, allegramente e rapidamente fattibile.

È probabile che, dal livello del loft nazionale, non si riesca a vedere e a capire con chiarezza quanto importante sia per ciascun ambito locale, dove si fa politica giorno dopo giorno, disporre dell’opportunità di utilizzare le primarie come strumento di informazione per il Partito Democratico al fine di raggiungere un elettorato più ampio e che, ponendo a disposizione di quell’elettorato una scelta importante, lo coinvolga attivamente nella campagna elettorale. Lo slancio delle primarie svolte per la selezione dei parlamentari durerebbe per tutta la compagna elettorale e consentirebbe di “sfruttare” tensione, impegno, partecipazione diffusi. Il Partito Democratico non si troverebbe a “correre da solo”, ma sarebbe calorosamente accompagnato da centinaia di migliaia di simpatizzanti soddisfatti dall’avere potuto scegliere il/la “loro” parlamentare e vogliosi di contribuire al suo successo. Non manca il tempo per le primarie purché non manchi la volontà, in questo caso, davvero, “politica”. Sì, possiamo.

Pubblicato il: 10.02.08
Modificato il: 10.02.08 alle ore 8.03   
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 23, 2008, 02:25:08 pm »

Il Valore dei Radicali

Gianfranco Pasquino


A questo punto sappiamo che il Partito Democratico non correrà davvero tutto solo e soletto, ma sarà accompagnato da Di Pietro e dai Radicali. Dunque, in termini di rappresentanza, di moralità, di competenza, sarà accompagnato molto bene da coloro che, senza, ovviamente, esserne gli unici depositari, hanno combattuto, in special modo, i Radicali, lunghe e nobili battaglie in nome di valori e di diritti che in Italia hanno sempre incontrato molti ascolti.

Prendiamo atto della saggezza dei «negoziatori» dai quali arriva quella che è senz’altro una buona notizia. D’altronde, sia Di Pietro sia i Radicali, in particolare con Pannella, avrebbero già voluto partecipare all’atto fondativi del Partito Democratico, vale a dire, alla competizione per l’elezione del segretario del Partito. Malamente frustrate, le loro intenzioni, allora, erano di impegnarsi nella costruzione di una organizzazione politica più ampia, più «mossa» e più articolata di quella derivante dal solo incontro fra Democratici di Sinistra e Margherita.

Si sono anche caratterizzati come leali alleati del governo dell’Unione. Oggi, le lodevoli e apprezzabili intenzioni del movimento dell’Italia dei Valori e dei Radicali consistono nella disponibilità a di contribuire sia ad una campagna elettorale che continua ad essere molto difficile sia alla ridefinizione dello schieramento partitico italiano.

Naturalmente, nella decisione di stringere un accordo figurano, per entrambi contraenti, anche inevitabili esigenze di sopravvivenza politica e di presenza parlamentare. Ma è opportuno, è giusto, è positivo che le idee di Antonio Di Pietro e di Emma Bonino (sì, lo so, sto deliberatamente personalizzando, ma in maniera positiva, data la rilevanza delle due figure, l’analisi politica) abbiano anche una tribuna parlamentare dalla quale esprimersi e, eventualmente, con un risultato favorevole, una tribuna governativa nella quale mettere a frutto le loro capacità, il loro impegno e il loro indubbio senso dello Stato.

A questo punto, il Partito Democratico si presenta non soltanto, se posso permettermi di rilevarlo, più «democratico», ma anche più forte percentualmente (non dimentichiamo che parlando di «rimonta» segnaliamo anche che sappiamo di essere ancora indietro) e molto più soddisfacentemente articolato dal punto di vista politico e culturale nonché sicuramente più rappresentativo di un elettorato d’area che su molte tematiche apprezza le posizioni dei Radicali. Chi vuole effettivamente un partito plurale che sia laico e che rappresenti una opinione pubblica che pensa che le tematiche etiche fanno concretamente parte di un esauriente dibattito elettorale poiché partiti e parlamentari debbono dichiarare all’elettorato come la pensano e indicare le soluzioni che auspicano, non può che rallegrarsi che, con i Radicali, il confronto interno al Partito Democratico si arricchisca e che esista un contrappeso a posizioni teo-dem fino ad oggi persino troppo preminenti e premiate.

Questa campagna elettorale ha anche bisogno di attivisti convinti che perseguano quella che una volta veniva definita la pratica dell’obiettivo, ovvero l’individuazione di tematiche che potrebbero essere decisive e di priorità chiaramente delineate. Credo che si possa contare sul contributo di idee dei radicali e sulla partecipazione dei loro molti militanti che, distribuiti sul territorio, sanno ancora organizzare importanti attività di connessione con un elettorato che non è necessariamente tutto teledipendente e che, quando lo è, merita di essere esposto a opinioni contrastanti.

Insomma, l’accordo fra Partito Democratico e Radicali contiene molti elementi positivi e promettenti. L’immagine del Partito Democratico si è arricchita e precisata. In alcune regioni, che potrebbero essere decisive, si riapre la competizione per il premio di maggioranza. Adesso non resta che sfruttare al meglio una ritrovata unità di intenti di chi è fermamente convinto che un Partito democratico, laico, che vuole perseguire giustizia e moralità ha la possibilità di fare spostare qualche milione di elettori che condividano questi obiettivi. Con il permesso di Obama, ripeterò, senza retorica e senza eccessi, senza illusioni e senza ipocrisie, che con il nuovo schieramento di forze, molto si può effettivamente fare.

Pubblicato il: 22.02.08
Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.16   
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 25, 2008, 05:42:38 pm »

Una campagna comparativa

Gianfranco Pasquino


La campagna elettorale è stavolta cominciata alquanto sottotono. Naturalmente, se il sottotono fosse la conseguenza benvenuta della decisione di entrambi i maggiori contendenti di rinunciare ad attacchi personali e agli insulti, potremmo anche rallegrarci e sperare che questa situazione continui fino al giorno delle elezioni.

Specchio delle mie brame chi è il più bravo del reame? Quelle che negli Stati Uniti d’America vengono definite campagne "negative" (nella quale, sentendosi in caduta, sta scivolando Hillary Clinton), condotte con spot televisivi offensivi e ingannevoli, talvolta, addirittura falsi, non soltanto possono essere molto sgradevoli, ma non comunicano informazioni politiche rilevanti e finiscono, talvolta, come nel 2004, per inquinare drammaticamente l’esito del voto. Tuttavia, è inevitabile che se uno dei contendenti ricorre alla campagna elettorale negativa anche l’altro sia costretto a incamminarsi lungo quella strada e a rispondere, magari non colpo su colpo, ma con l’obiettivo di svuotare gli argomenti truffaldini usati contro di lui. In caso di conflitti negativi di questo genere, è difficile dire quanto la moderazione paghi. Esiste, però, anche un altro tipo di campagna elettorale che vorrei definire, spero senza scandalizzare nessuno, con il termine derivante dalla pubblicità, campagna comparativa. In questa fattispecie, l’uno o l’altro dei contendenti, se non, meglio, tutt’e due, spiegano, con dati, cifre, fatti, valutazioni di costi e conseguenze, le proprie proposte politiche confrontandole puntigliosamente con quelle del suo avversario, e nessuno dei due rinuncia a ricordare all’elettorato quanto ottimamente abbia governato lui e quanto pessimamente abbia governato l’altro.

Qualsiasi elettorato, la cui attenzione all’inizio della campagna è per forza di cose alquanto limitata, sarà comunque esposto a questi messaggi comparati e quasi certamente interessato alle indicazioni e valutazioni sufficientemente precise che ne conseguono. Tanto è vero che la novità iniziale della campagna elettorale di Veltroni è consistita proprio in chiara e netta contrapposizione della corsa solitaria del Partito Democratico paragonata sia al passato convulso e conflittuale dell’Unione sia ad un centro-destra a sua volta ancora composito e confuso. L’effetto di aggregazione esercitato dal PD sul Popolo delle Libertà è da valutare positivamente e la competizione, con buona pace di Bertinotti e di Casini, viene sicuramente vista dall’elettorato come chiaramente bipolare e non prodromo di nessuna Grande Coalizione. Proprio per queste ragioni, chiarezza di scelte e alternatività di leadership, mi sembra che fin da adesso, Veltroni dovrebbe intraprendere e perseguire con determinazione una campagna comparativa. Non contrapporrei l’età e neppure discuterei di esperienza politica. Sono entrambe tematiche sulle quali è giusto che gli elettori diano valutazioni diverse con pesi diversi. Non sarei neppure preoccupato dall’emergere di eventuali critiche alla demonizzazione dell’avversario che, probabilmente, Veltroni vuole evitare, ma che ne frenano lo slancio e il confronto. Si ha demonizzazione quando l’avversario viene attaccato nella sua persona e si rivangano avvenimenti del passato che, per quanto magari anche veramente svoltisi, tendono a metterlo in cattiva luce come uomo e non come politico e come candidato. La rinuncia alla demonizzazione, quand’anche non del tutto condivisa nell’elettorato di alcuni settori del centro e della sinistra, è positiva in sé. Inoltre, evita che emergano sul versante delle destra atteggiamenti vittimistici che, in parte, possono fare presa su alcuni settori di elettorato indeciso, specialmente se nutrito di antipolitica. Ma un conto è rinunciare alla demonizzazione, un conto qualitativamente diverso è abbandonare del tutto un confronto fra le capacità di governo dei due contendenti. In questo caso, tenere basso il tiro della critica mirata e documentata nei confronti dell’antagonista Berlusconi rischia di essere un errore con conseguenze anche gravi, soprattutto se la rimonta, appena iniziata, vuole continuare gradualmente. Comincia il tempo nel quale non solo dovranno venire sottoposti a confronto i più importanti (preferibilmente non tutti, se non si vuole fare confusione nell’elettorato) punti programmatici e fatte emergere le effettive priorità, con i loro costi e i loro presumibili miglioramenti sulla vita dei cittadini, ma la comparazione dovrà estendersi proprio alle qualità personali e politiche dei contendenti. Bisognerà, insomma, che Veltroni ricordi agli elettori le promesse non mantenute del suo oppositore, detto chiaramente, di Silvio Berlusconi, gli inconvenienti, in materia economica e costituzionale, del suo lungo periodo di governo (2001-2006), il bassissimo profilo e prestigio della sua politica estera e, in special modo, quella condotta in Europa dal suo governo e dai relativi ministri. Non basta, infatti, presentarsi con proposte buone, per quanto sicuramente meglio definibili e migliorabili. Diventa imperativo procedere con determinazione ad un confronto personale e politico con il candidato Silvio Berlusconi, chiamato in causa con il suo nome e cognome e con tutte le sue inadeguatezze come governante. La campagna comparativa promette di essere più interessante, più coinvolgente e, con tutta probabilità, in special modo quando si arriverà agli ultimi dieci decisivi giorni precedenti il voto, anche molto più efficace.

Pubblicato il: 25.02.08
Modificato il: 25.02.08 alle ore 8.33   
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 06, 2008, 03:27:52 pm »

Se Zapatero se Veltroni

Gianfranco Pasquino


In un mondo globalizzato, nel quale le informazioni circolano ampiamente e liberamente e rimbalzano su una pluralità di strumenti: televisioni, radio, internet, telefonini e, non necessariamente ultimi, i quotidiani e i settimanali, è possibile che quanto succede nei diversi sistemi politici, in particolare, in quelli più importanti, influenzi un po’ dovunque gli avvenimenti e le opinioni dei cittadini più attenti. Questa impennata di informazioni e di attenzioni è, poi, naturalmente, più probabile in occasioni elettorali quando la posta in gioco è piuttosto consistente. Nel fine settimana che sta arrivando, gli elettori spagnoli dovranno scegliere, in una competizione chiaramente bipolare (pur tenendo conto che, poi, anche i voti della sinistra e di alcuni partiti regionalisti potranno avere un certo, al momento indefinibile, peso nella Camera dei deputati), fra il Partito socialista del Presidente del governo José Luis Zapatero e il Partito Popolare di Mariano Rajoy, attualmente all’opposizione. Nei duelli televisivi, Zapatero ha avuto, seppur di poco, la meglio, ma, come dovremmo avere già imparato, le elezioni si vincono e si perdono anche «semplicemente» portando alle urne tutti i propri elettori. Nel frattempo, negli Stati Uniti d’America si stanno dipanando appassionanti elezioni veramente primarie per la scelta della candidatura democratica (quella repubblicana sembra già essere appannaggio del settantunenne eroe di guerra John McCain) alla Presidenza della Repubblica. È innegabile che quella parte di elettorato italiano che vota a sinistra senta affinità per il Psoe e per i Democratici Usa e abbia molta simpatia per i loro candidati. Non è una manifestazione di provincialismo quanto, semmai, di opportuno consapevole cosmopolitismo: quanto succede altrove interessa anche l’Italia e può influenzarne la politica e l’economia. Non è questione di ideologia, ma di convinzioni simili, di collocazione, di politiche che, certamente con qualche diversità, dai socialisti spagnoli ai democratici americani, sono, nei limiti del possibile, non troppo diverse, ma piuttosto lontane da quelle dei Popolari spagnoli e dei Repubblicani americani. E’ anche fuori di dubbio che gli elettori potenziali del Partito Democratico italiano preferiscano, non soltanto, «ma anche», per il nome del partito, i candidati democratici USA e, almeno per le posizioni politiche e nel confronto con i Popolari, abbiano una chiara propensione a sperare nella riconferma di Zapatero al governo della Spagna.

Ma, quanto quegli avvenimenti possono incidere sulla campagna elettorale italiana e sul suo esito il 13 e 14 aprile? Non c’è nessun dubbio che le vittorie dei Democratici Usa hanno abitualmente esercitato un effetto positivo sulle fortune dei partiti riformisti delle democrazie occidentali. Per utilizzare un termine oggi molto diffuso, quelle vittorie aprivano la strada alla speranza di cambiamenti praticabili, una strada sulla quale diventava più facile per i riformisti incamminarsi e che veniva percorsa anche con la benevola attenzione dei democratici USA. Che Walter Veltroni creda nella possibilità che una eventuale, nient’affatto improbabile, vittoria di Obama, risulti importante anche per le sorti del Partito Democratico italiano e, in special modo, che esistano affinità da evidenziare e da sfruttare, appare lampante fin dal ricorso allo slogan inventato da Obama e cantato dai suoi sostenitori: «Yes, we can». Un democratico alla Casa Bianca, soprattutto quel democratico che, come ha scritto Empedocle Maffia nell’introduzione ai discorsi del Senatore dell’Illinois, rappresenta «l’ultima declinazione del sogno americano», darebbe un segnale politico di grande importanza a favore del cambiamento. Tuttavia, per le elezioni italiane arriverebbe troppo tardi. Invece quello che succederà in Spagna domenica 9 marzo può influenzarci più direttamente e più immediatamente. A confronto con un possente Partito Popolare, sostenuto con vigore e furore dalla Chiesa cattolica, Zapatero non ha manifestato nessun cedimento in materia di laicità. Ha anche attuato politiche economiche di sviluppo tanto che la Spagna si sta avvicinando all’Italia a grandi falcate. Ha persino mirato al contenimento e alla riduzione delle disuguaglianze, in parte inevitabili ogniqualvolta si vivano situazioni di notevole accelerato sviluppo. Una vittoria della destra, che agita la sua campagna negativa basata sulla paura, ringalluzzirebbe il Popolo berlusconiano delle Libertà e i sedicenti atei più o meno devoti. Al contrario, la seconda vittoria di Zapatero e del Partito Socialista Operaio Spagnolo, sarebbe di conforto in Italia a quanti, e sono molti, credono che un partito riformista sia in grado di attuare politiche innovative e con quelle politiche, che sono buone perché non scontentano affatto tutti, sia possibile vincere e rivincere le elezioni.

Se si può fare in Spagna, perché non anche in Italia?


Pubblicato il: 05.03.08
Modificato il: 05.03.08 alle ore 8.37   
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 10, 2008, 03:46:25 pm »

La lezione di un galantuomo

Gianfranco Pasquino


No, Romano Prodi non è, come sostiene Galli della Loggia sul Corriere della Sera - quotidiano che lo aveva prima esplicitamente endorsed, appoggiato all’americana, per la penna del suo stesso direttore, poi, spesso, fatto acidamente criticare dai suoi editorialisti - un imbarazzante nonno che un ingrato centro-sinistra ovvero, meglio, gli smemorati, non a caso, ex-comunisti avrebbero già messo in soffitta, e non esclusivamente per ragioni elettorali. Non è neppure un disoccupato, un nonno per tutte le stagioni e per tutte le cariche, come ha pensato qualche fantasioso giornalista, a corto di idee, candidandolo a sindaco di Bologna. La risposta di Prodi è stata del tutto prevedibilmente negativa, e la motivazione già allora apprezzabile: dedicare più tempo ai suoi nipotini. Adesso ne sappiamo di più, con parole che sembrano venire dall’Ecclesiaste: c’è un tempo della politica, nazionale e internazionale e c’è un tempo dell’impegno altruistico anche fuori dalla politica (e non necessariamente nelle banche e nei consigli di amministrazione, peraltro non necessariamente luoghi riprovevoli). Proprio chi, come me, lo ha criticato più di una volta, su questo giornale (e altrove) per le sue concezioni politiche e per le sue modalità d’azione e di comunicazione, ha non soltanto il dovere, ma anche il diritto di ricordare, anche e soprattutto agli immemori smemorati del centro-sinistra italiano, quanto in Parlamento e nel Paese, dobbiamo ai governi guidati da Romano Prodi e a lui stesso, personalmente.

Senza la sua disponibilità, per due volte il Paese e noi avremmo dovuto subire (sì, è esattamente il verbo che considero maggiormente appropriato) governi guidati da Berlusconi e, nel secondo caso, ovvero nel 2006, avremmo corso il serio rischio di un abbozzo di regime: dieci possibili anni consecutivi di governo del centro-destra nonché la loro conquista di tutte le cariche, Presidenza della Repubblica compresa, e la fuoruscita dell’Italia dal consesso dell’Europa che conta. Senza Romano Prodi (e senza l’intelligenza politica di Beniamino Andreatta) l’avvicinamento fra ex-democristiani e ex-comunisti e l’esperienza dell’Ulivo, prodromo del Partito Democratico sarebbero semplicemente stati impossibili. Soltanto la pazienza politica e personale di Prodi unitamente, se si vuole, alla sua tenacia, hanno permesso la durata e persino la innegabile, perché testimoniata da cifre e da riconoscimenti internazionali, opera di risanamento dell’economia italiana dentro una coalizione altrimenti portata ai litigi e alle differenziazioni personalistiche al limite del narcisismo. Aggiungo, particolare nient’affatto banale, che, quando vado in giro per conferenze, ma anche quando sono in coda al supermercato, sento spesso dire che Romano Prodi è una brava persona, non un esponente della “casta”. Non è un’affermazione frequente quando il discorso cade su persone che hanno ricoperto prestigiose cariche di rappresentanza e di governo. Né si deve dimenticare che, non soltanto in Italia, sono rarissime le fuoriuscite dalla politica che non vengano contrattate e scambiate con qualche altra visibile carica di potere e altamente remunerativa. Dovrei forse menzionare il ruolo acquisito dall’ex-cancelliere tedesco Gerhard Schröder in Gazprom o quello conferito all’ex-Primo ministro inglese Tony Blair, inviato speciale in Medio Oriente?

Certamente amareggiato, Romano Prodi esce, senza cercare rivincite e ricompense, dalla scena politica italiana, alla quale ha dato molto, e dalla quale, oltre alle amarezze, ha anche ricevuto molto. Un giorno, non troppo lontano, dovremmo, credo, interrogarci su quello che non ha funzionato nei governi di Prodi o, meglio, nelle alleanze composite a suo fondamento. Il Partito Democratico sta tentando una risposta politica abbastanza coraggiosa: meglio meno, ma meglio (in termini di compagni di strada e di governo), che non esaurisce il problema. È una risposta che, senza sottovalutarne le difficoltà, Prodi condividerebbe, magari interrogandosi se non sarebbe stato possibile anche prima tentare soluzioni coraggiose. La scelta di non ricandidarsi, di non dare facili armi alle destre, di non cercare altre cariche, certamente praticabili, costituisce una lezione non soltanto politica, non soltanto di stile, ma anche di sostanza che merita rispetto e apprezzamento. Dovrebbe essere accompagnata, appena saremo usciti dalla tormenta elettorale, da un’operazione di verità e da una rivendicazione dei successi.

Nel decennio di una transizione politico-istituzionale incompleta, forse sottovalutata da Prodi (e dai suoi, non sempre all’altezza, consiglieri) nella sua gravità e nella ricerca di soluzioni, sono stati i due governi di Romano Prodi che hanno, prima, portato l’Italia nell’Euro e, poi, ricondotto l’Italia nei parametri di Maastricht. Vedremo se i prossimi governi sapranno fare meglio, mentre Prodi, con il nostro augurio, si impegnerà non soltanto ad essere un nonno premuroso, ma anche a diventare un operatore internazionale in grado di esprimere le sue capacità e la sua non formale solidarietà.

Pubblicato il: 10.03.08
Modificato il: 10.03.08 alle ore 8.17   
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 11, 2008, 06:00:15 pm »

La lezione spagnola

Gianfranco Pasquino


Gli elettorati della Spagna e della Francia confermano ovvero, per chi non ci avesse mai creduto, lanciano un messaggio alto e chiaro: i partiti socialisti non hanno perso nessuna spinta propulsiva. Quando governano, come il Partito Socialista Operaio Spagnolo, sono anche in grado di rivincere le elezioni. Dopo una sconfitta elettorale, peraltro meno drammatica di quello che è stato detto, sanno, come i socialisti francesi, rimettersi al lavoro e riacquistare importanti posizioni. Dalla Francia delle molte migliaia di comuni, il Parti Socialiste francese potrà, una volta definita la spinosa questione della leadership, prendere lo slancio per tornare all’Eliseo presidenziale.

Tutti coloro che, per decenni, hanno ripetuto alcuni logori slogan sulla fine delle socialdemocrazie, sul logoramento delle loro esperienze, sulla necessità di un superamento e, addirittura, sull’imperativo di ricercare una “terza via” fra le socialdemocrazie reali e i comunismi realizzati, sono sempre stati in errore. È dimostrato che la terza via non esiste(va), e non soltanto perché il punto di riferimento comunista è miserevolmente crollato. La via socialdemocratica (o democratico sociale, se così preferisce chiamarla Zapatero) è ancora percorribile con successo, anche inserendovi, come è non soltanto giusto, ma anche opportuno, gli adattamenti resi necessari dalla storia e dalla configurazione politica di ciascun Paese.

Per saperne di più e capire meglio quello che succede nei socialisti, in Spagna e in Francia, dovremmo, anzitutto, ricordare che, per ragioni diverse, i due partiti, pur avendo una storia politica lunga, rinascono all’inizio degli anni Settanta: il PS francese nel 1971, mentre il PSOE ricompare alla superficie nel corso della transizione spagnola alla democrazia (1977-1982). Non hanno, dunque, il peso di un passato, ma si ricostruiscono nelle sfide e con riferimento ad un elettorato nuovo, diversificato, “moderno”. Al loro interno, alcune classiche divisioni sociologiche, di collocazione nel mondo del lavoro e del consumo, sintetizzate come “materialisti” contro “post-materialisti”, hanno poco spazio e creano poche tensioni. Altrove, ricordo che il New Labour, non a caso ribattezzato con questo termine, viene abilmente guidato da Tony Blair, e dal sociologo Anthony Giddens, oltre i confini del passato materialista. L’approdo non è stato esclusivamente la conquista di una parte dell’elettorato inglese di centro, ma è soprattutto consistito nell’acquisizione di una cultura di governo che si traduce in soluzioni concrete e nella fiducia di elettori che non sono definibili “spazialmente” (centro, destra, sinistra), ma con riferimento alle loro aspettative riformiste.

Naturalmente, una volta al governo le politiche riformiste, sociali, economiche, culturali, anche di laicità e libertà, bisogna attuarle e il loro successo, in Spagna e, con qualche maggiore difficoltà, in Francia, a causa della sua struttura sociale, parecchio simile a quella italiana, e ancora di più in Gran Bretagna, alimenta le vittorie elettorali, nonostante l’ostilità e l’alto “gradimento” dei vescovi spagnoli. È giusto rallegrarsi se i socialisti e i laburisti vincono in Europa, e se i Democratici vinceranno negli Stati Uniti d’America. Ma mi pare ancora più giusto riflettere se non ci sia ancora qualcosa di utile e di importante proprio nella definizione di socialista.

Qualche volta, Pierluigi Bersani ricorda ai Democratici del suo partito che bisogna usare la parola “sinistra”. Qualche tempo fa aveva anche annunciato la sua preferenza per la costruzione di un partito da combattimento. Non tutti (è un eufemismo) pensano che il Partito Democratico di Veltroni sia effettivamente diventato un partito di combattimento né che si sia organizzato per diventarlo. Molti ritengono che “socialista” sia un aggettivo che evoca politiche e prospettive più chiare e, forse, più trascinanti dell’aggettivo “riformista”. I due aggettivi potrebbero anche convivere purché vengano usati in maniera concomitante. Ralf Dahrendorf ha scritto che il Ventesimo secolo è stato il secolo socialdemocratico. In parte, certamente sì; in parte, probabilmente no, ma il punto è che le socialdemocrazie si sono insediate come grandi organizzazioni politiche e come competenti partiti di governo in quel secolo e hanno prodotti incisive politiche di riforme sociali (welfare) e economiche (keynesismo). Innovando su quelle politiche, senza rinnegarle, esiste ancora un ampio spazio socialdemocratico.

Prendendo la terminologia a prestito da Zapatero, molti nel Partito Democratico italiano e nei suoi dintorni sarebbero lieti di definirsi democratici sociali e di agire di conseguenza, proponendo politiche coerenti che perseguano, grazie alla crescita economica e alla consapevolezza culturale, la riduzione delle disuguaglianze sociali, di opportunità e di esiti. Si potrebbe fare.

Pubblicato il: 11.03.08
Modificato il: 11.03.08 alle ore 11.56   
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 16, 2008, 06:32:44 pm »

L’ultima settimana

Gianfranco Pasquino


I sondaggi rilevano che la percentuale di italiani indecisi, non soltanto per quale partito votare, ma anche se votare il 13-14 aprile, ruota intorno al trenta per cento dell’elettorato. È una cifra più elevata del passato che si spiega, in parte, con la più limitata offerta partitica in queste elezioni, in parte, con la non particolarmente brillante e trascinante campagna elettorale finora condotta dalle due maggiori formazioni politiche.

Sappiamo che le campagne elettorali servono ai partiti, anzitutto e soprattutto, a ri-motivare i propri elettori e, soltanto in seguito, a cercare di convincere e “convertire” gli elettori degli altri partiti, dell’altro schieramento, senza scontentare e perdere i “propri”.

Nella attuale situazione sia il Partito Democratico sia il Popolo delle Libertà, a causa della loro relativa novità, debbono andare alla ricerca e alla raccolta del maggior numero di coloro che furono elettori dei loro precedenti schieramenti politici. Inoltre, il Partito Democratico deve fare i conti con i delusi dalla propria esperienza di governo terminata in maniera brusca e triste dopo un troppo lungo logoramento.

In generale, gli indecisi non rappresentano un blocco unico e coeso, ma sono la somma di elettori che hanno preferenze politico-elettorali non molto solide e non particolarmente intense. Sono probabilmente anche elettori che, in maniera più o meno consapevole, non hanno ancora dedicato sufficiente attenzione alla campagna elettorale poiché debbono fare fronte e risolvere altri, più urgenti e più importanti problemi quotidiani. Naturalmente, molti di loro hanno inclinazioni politiche e partitiche che, in un certo senso, finiranno per “resuscitare” in mancanza di altri stimoli quando sentiranno di dovere decidere se e per chi votare.

Il fenomeno non è affatto nuovo poiché, non soltanto in Italia, una componente non marginale degli elettori indecisi inizia a fare davvero attenzione alle proposte in campo, ai leader, ai partiti che intendono votare e alle eventuali conseguenze del loro voto (“utile” o di “testimonianza” di una appartenenza, di classe, religiosa, territoriale, amicale) all’incirca nella settimana precedente l’appuntamento elettorale. Allora, al fine di uscire elegantemente dalla loro indecisione, quegli elettori guarderanno qualche programma televisivo specifico, ascolteranno qualche dibattito radiofonico, leggeranno qualcosa di più dei semplici titoli degli articoli dei quotidiani, e, non da ultimo e senz’altro in maniera non meno influente, parleranno di politica con le persone delle quali si fidano, fra parenti, amici, colleghi di lavoro (quasi non oso aggiungere opinion-maker). Riusciranno in questo modo ad arrivare davanti alla cabina elettorale senza sentirsi in imbarazzo con un’opinione adeguatamente formata, pronti a tracciare la fatidica “X”.

Proprio perché la loro indecisione attuale dipende dalla loro più o meno deliberata mancanza di attenzione per la campagna elettorale, gli indecisi non sono probabilmente stati influenzati da fenomeni quali la formazione delle liste (con i ciarrapichi di turno), dalle affermazioni nobili e altisonanti dei leader o dalle loro gaffe (come quella sull’invito alle ragazze precarie a sposarsi presto e bene). Qualcosa di politicamente rilevante arriva alle loro orecchie soltanto per essere quasi subito dimenticato ed è improbabile che gli eventi di questi giorni conteranno in maniera decisiva fra tre settimane al momento del voto. Se le cose stanno così, non è conveniente rincorrere e motivare gli indecisi adesso. Conviene, invece, ad esempio a Veltroni, tentare di raggiungere tutti coloro che nel 2006 abbiano già votato per l’Unione e convincerli che con il Partito Democratico avranno un futuro sicuramente migliore. Saranno poi gli elettori sicuri e decisi del Partito Democratico a funzionare come volàno per raggiungere gli indecisi, per coinvolgerli e, se necessario, per convertirli.

È essenziale conservare per gli ultimi dieci giorni della campagna elettorale alcuni degli argomenti politici più importanti e più interessanti, magari anche semplici, positivi e più rumorosamente efficaci perché imprevedibili. Bisogna anche evitare di commettere errori, che sarebbero irreparabili e, conoscendo l’antagonista, la sua fantasia, i suoi giochi di prestigio (sperando anche che non abbia esaurito le sue gaffe), prepararsi a indovinare e a contrastare il coniglio (delle libertà) che cercherà di estrarre dal suo cappello.

Pubblicato il: 16.03.08
Modificato il: 16.03.08 alle ore 14.45   
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 21, 2008, 12:18:59 am »

I cattolici e le sirene

Gianfranco Pasquino


Quando sento parlare di voto cattolico, mi pare di tornare ai (bei?) tempi in cui la sinistra, ovvero il Partito Comunista, cominciava le sue campagne elettorali affermando che, oltre ai cattolici, era necessario rafforzarsi fra le donne e i giovani e, naturalmente, anche nel Mezzogiorno. Se, poi, le elezioni erano andate male, su Rinascita venivano convocati gli intellettuali organici che facevano apparire dotte analisi su ciascuno di quei gruppi.

Il tutto culminava con la riunione solenne del Comitato Centrale nella quale il segretario forniva la sua incontrovertibile interpretazione e dava la linea a futura memoria. Naturalmente, allora i cattolici avevano, se lo volevano, il loro partito di riferimento con forti propensioni ad una interpretazione laica della politica, ma capace di rappresentarne efficacemente le preferenze economiche, sociali, politiche.

Oggi, pensare che la maggioranza dei cattolici italiani abbia un voto che può essere chiesto e può essere ottenuto con riferimento esclusivo o dominante alla loro appartenenza o, meglio, pratica religiosa mi pare alquanto, se non parecchio, sbagliato. Certamente, una parte rilevante di cattolici praticanti e organizzati in, peraltro non floridissime associazioni (tranne, ovviamente, Comunione e Liberazione) - comunque, non più del 30 per cento della popolazione, dell’elettorato - valuta al momento del voto le proposte dei diversi partiti e schieramenti anche, ma tutt’altro che esclusivamente, con riferimento ad alcune tematiche sulle quali la Chiesa e i suoi vescovi hanno espresso posizioni nette e, (troppo) spesso, ultimative. Per molti altri cattolici, invece, lo ha rilevato con la consueta affidabilità il sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato su la Repubblica del 17 marzo, il voto non è condizionato né, tanto meno, determinato, esclusivamente da tematiche in senso più o meno lato, religiose. Infatti, la scala delle priorità dei cattolici contempla, in maniera molto simile a quella di larghissima parte dell’elettorato italiano, altri problemi, urgenti, rilevanti, che debbono essere affrontati e risolti dai partiti in parlamento. Dunque, non è opportuno tentare di attrarre il voto cattolico come se fosse un blocco omogeneo, indifferenziato, orientato a esprimere comportamenti compatti. È, invece, corretto tenere conto di alcune esigenze, ad esempio, le politiche a sostegno della famiglia, l’istruzione, il lavoro, che attireranno l’attenzione dei cattolici, ma che sono sostanzialmente presenti, con pesi non dissimili, sull’agenda di quasi tutti gli elettori italiani.

Pensare che i cattolici debbano ricevere attenzione particolaristica e mirata, esclusiva e isolata, perché da loro dipenderebbe l’esito complessivo del voto, mi pare costituisca una decisione politica non sufficientemente fondata e, probabilmente, ingiustificabile. I cattolici hanno molte “divisioni” (in senso militare, quelle che Stalin pensava che il Papa non avesse), ma vanno in ordine sparso, alcune attratte sicuramente e soddisfacentemente dall’Udc di Casini. Altre seguono percorsi ispirati dalle loro condizioni di vita e dalle loro aspettative che, insisto, non sono sostanzialmente differenti da quelle dell’elettorato in generale. Quindi, andranno un po’ a destra, dentro il Popolo delle Libertà, ma certamente anche verso il Partito Democratico, addirittura più di un terzo, secondo i dati di Diamanti, pochissimi nella Sinistra Arcobaleno perché il voto dei cattolici non è mai estremo/estremista. Apprezzeranno, queste divisioni di cattolici, di essere trattati come elettori effettivamente e concretamente adulti e emancipati, attenti alle qualità dei leader e dei candidati, attratti da proposte programmatici chiare e convincenti, desiderosi di buon (e stabile) governo. Insomma, il loro voto viene conquistato, uno per uno e non in blocco, proprio come quello delle donne, dei giovani, del Mezzogiorno. Una efficace combinazione di proposte credibili raggiunge e convince cattolici e non cattolici. La ricerca del voto cattolico, con ossequio ai pronunciamenti dei vescovi e del Papa (che immagino favorevole al sistema elettorale tedesco), finisce rapidamente per sembrare strumentale, comunque, è un indicatore di subalternità culturale che comporta il rischio del contraccolpo.

Un Partito come quello Democratico deve limitarsi a segnalare la rilevanza del suo programma per il governo del Paese e, se del caso, dell’esistenza di candidati cattolici al suo interno. I voti dei cattolici che desiderano cambiamenti moderati, ma credibili, come quelli, molto più abbondanti, dei non-cattolici, vi confluiranno senza particolari difficoltà.

Pubblicato il: 20.03.08
Modificato il: 20.03.08 alle ore 13.28   
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« Risposta #53 inserito:: Aprile 07, 2008, 05:56:45 pm »

Voto strategico perché insisto

Gianfranco Pasquino


Decine di milioni di elettori italiani hanno fatto regolarmente uso del voto disgiunto tutte le volte che se ne è loro presentata la possibilità: per Camera e Senato votando con la proporzionale, per i collegi uninominali di Camera e Senato e la lista proporzionale quando si è votato (1994, 1996, 2001) con il Mattarellum, per Comuni, Province, Regioni, Quartieri. Sanno come farlo, guardando liste e candidati e tenendo conto delle priorità; e, naturalmente, decidono di conseguenza.

Qualche volta l’indicazione viene, per così dire, dall’alto, come nel 1996 quando il Pds suggerì, selettivamente, al suo elettorato di convergere sulla lista proporzionale guidata da Dini per farle superare la fatidica soglia del 4 per cento. Con successo. Né si deve dimenticare la riprovevole esperienza delle liste civetta di cui, nel 2001, si avvalsero Berlusconi e, in misura minore, anche alcuni partiti del centro-sinistra (con la conseguenza che alla Camera dei deputati non vennero attribuiti undici, e poi dodici rappresentanti). Nella letteratura elettorale internazionale, sia il voto disgiunto che il voto strategico, vale a dire orientato non solo, ma anche a fare perdere i candidati e i partiti più sgraditi sono, come è noto a (quasi) tutti gli studiosi di politica, ampiamente studiati. In generale, si può dire che votare disgiunto e strategico è una prerogativa dell’elettore che, magari con un aiutino dei suoi dirigenti ovvero degli opinion-makers, si orienterà in quel senso perseguendo una pluralità di obiettivi.

Il caso tedesco è, da questo punto di vista, esemplare. Da sempre i due partiti più grandi hanno fatto confluire voti sui due partiti più piccoli, che fossero loro alleati per la conquista del governo, in modo da fare loro superare la soglia del 5 per cento. Senza moralismi e senza infingimenti, il voto disgiunto e strategico (sottolineo questo aggettivo perché significa che l’elettore vuole perseguire uno o più obiettivi) fa legittimamente parte del repertorio degli strumenti democratici. Sfruttare gli inconvenienti e i punti deboli di una pessima legge elettorale, soprattutto dopo avere tentato, seppure malamente, di riformarla, è un’operazione raccomandabile anche perché potrebbe poi condurre ad un sistema elettorale decente. Dunque, i suggerimenti che stanno variamente circolando sulla carta e sul web affinché un certo numero di elettori collocati nel centro-sinistra cerchino, in alcune regioni, votando alla Camera per il Partito Democratico e orientando al Senato il loro voto sulla Sinistra Arcobaleno di ridurre il numero di seggi che potrebbe essere conquistato dal Popolo delle Libertà, sono tutt’altro che campati in aria.

È ovvio che gli iscritti al Pd dovrebbero seguire la linea del partito, anche se sappiamo che non è sempre stato così, ma nella vasta e composita platea dei partecipanti all’elezione popolare diretta del segretario Veltroni circolavano umori dei più diversi tipi, alcuni dei quali potrebbero volersi tradurre, insisto senza scandalo e senza biasimo, senza ferite alla democrazia elettorale, in un voto disgiunto e, al tempo stesso, strategico. Al Senato, sembra probabile che, da soli, né il Pd né il Pdl otterranno la maggioranza assoluta dei seggi. Dovranno, pertanto, cercare alleati.

Lo faranno da una evidente posizione di forza poiché il numero dei loro seggi sarà certamente elevato, ma sappiamo anche che la tentazione dei partiti piccoli, ma decisivi, di ricorrere al «ricatto» è, in Italia, regolarmente irresistibile. Un certo numero di elettori sono, poi, anche preoccupati dalla prospettiva, corrisponda oppure no alla realtà, di un accordo «grandi intese» fra Veltroni e Berlusconi. Altri vorrebbero un partito democratico più laico e spostato più a sinistra, ma, al tempo stesso, desiderano, «senza se e senza ma», la sconfitta di Berlusconi.

Incidentalmente, anche questo, del voto negativo ovvero contro, è un fenomeno riscontrabile e riscontrato in moltissime elezioni, a cominciare da quelle negli Usa, sempre senza scandalo e senza profluvio di dichiarazioni moralistiche. Dunque, molti elettori si chiedono se non sia utile togliere seggi al Popolo delle Liberà, responsabile di avere scritto una legge pessima e di essersi opposto alla sua riforma, con l’obiettivo di consentire una rappresentanza più ampia a componenti non inclini ad accordi con «il principale esponente dello schieramento loro (sicuramente) avverso». Come spesso succede in politica, i principi, anche quelli eventualmente ottimi, debbono fare i conti, durissimi, con la realtà. Giusta è la volontà del Pd di ottenere il massimo possibile dei voti. Ma quei voti si vedranno e si conteranno in maniera più visibile per l’elezione della Camera dei Deputati.

Per il Senato, nessuno chiede indicazioni precise e vincolanti che vengano direttamente dal segretario. Meglio, però, rifuggire dagli anatemi, in special modo se formulati su inesistenti teorie, contro chi intrattiene l’idea di votare disgiunto. Lasciamo all’elettorato di sinistra di decidere come comportarsi laddove un voto disgiunto e strategico appare in grado di avere conseguenze rilevanti (e positive) anche nei rapporti fra Partito Democratico e Sinistra Arcobaleno.

Pubblicato il: 07.04.08
Modificato il: 07.04.08 alle ore 8.13   
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 12, 2008, 12:44:50 am »

Attacco al Quirinale, uno scambio perverso

Gianfranco Pasquino


Sarà anche un’ipotesi di scuola quella avanzata da Silvio Berlusconi (sì, lo so, «il principale esponente dello schieramento a noi avverso») di dimissioni del Presidente della Repubblica che consentirebbero l’elezione di un candidato/a del Partito Democratico alla Presidenza del Senato.

A me sembra, invece, una sorta di scambio improprio, da un lato, irricevibile, dall’altro, che nessuno può e nessuno dovrebbe garantire, a futura memoria. Non si capisce poi di quale scuola, presumibilmente istituzionale, Berlusconi stia parlando. Le sue due precedenti esperienze di governo, come potrebbero testimoniare i due Presidenti della Repubblica che hanno operato in quei difficili tempi, non sembrano essere state caratterizzate da nessuna culturale istituzionale. Semmai, abbondarono i tentativi di forzature di norme non abbastanza assimilate da lui stesso e dai suoi alleati di maggiore riferimento, ovvero dalla Lega.

Vi furono riproposizioni di leggi, appena cosmeticamente ritoccate, che il Quirinale aveva rimandato con le sue accurate annotazioni e indicazioni. Vi furono elusioni clamorose, come quelle riguardanti l’informazione e il conflitto di interessi. Ma il coronamento istituzionale della scuola frequentata da Berlusconi e Bossi, nonché da Calderoli, è rappresentato dalla legge elettorale vigente che, a mo’ di nemesi, incombe sull’esito numerico (e politico) del Senato (che, incidentalmente, "pareggio", dal punto di vista tecnico, non sarà comunque) e quindi sulla stessa possibilità di governare del capo del Popolo delle Libertà.

È vero che alcune scuole istituzionali dagli insegnamenti approssimativi hanno anche fatto la loro comparsa sul versante del centro-sinistra. Per fortuna, le loro proposte, a cominciare dal "premierato forte" e a continuare con la marmellata elettorale ispano-tedesca, con qualche escursione similfederalista, non si sono fortunatamente tradotte in pratiche. Ma lo scambio perverso che Berlusconi propone contiene qualche componente sbadatamente sovversiva.

Manda, anzitutto, un messaggio al Presidente Napolitano assicurandogli difficili rapporti istituzionali con il suo eventuale governo. Forse, se ne avesse voglia, il Presidente potrebbe fare sapere, in maniera più o meno diplomatica, ad entrambi i principali esponenti degli schieramenti che si contrappongono, che, secondo la Costituzione tuttora vigente, spetta a lui, a prescindere dai nomi impropriamente scritti sui simboli elettorali dei due partiti a vocazione maggioritaria, il delicato compito di "nominare" il Presidente del Consiglio. E, sarebbe costituzionalmente dignitoso se i nominabili/nominandi non arrivassero al Quirinale con un gigantesco, e irrisolto dalla buffa legge approvata dalla maggioranza berlusconiana, conflitto d’interessi. In secondo luogo, nessuno è in grado di prevedere quale sarà la maggioranza del Senato e sarebbe istituzionalmente gravissimo predeterminarne il primo importante atto: l’elezione del suo (della sua) Presidente.

Terzo, continuo ad essere dell’opinione, che mantengo con coerenza istituzionale, che l’elezione dei Presidenti delle Camere possa, senza scandalo, essere piena facoltà della maggioranza che ha vinto le elezioni se ha ottenuto il numero sufficiente di seggi. Il problema non è, secondo me, quello delle modalità di queste elezioni. Riguarda, invece, le qualità personali di autorevolezza, indipendenza di giudizio, competenza di coloro che verranno prescelti.

Le precedenti scelte del centro-destra, forse a causa del limitato pool di personalità fra le quali è in condizione di pescare, non hanno brillato, come dimostrano anche i percorsi successivi, più o meno politicamente rilevanti, degli ex-Presidenti. Probabilmente, la risposta migliore, perché più facilmente comprensibile, che deve essere data a Berlusconi quando propone l’improponibile scambio è: "non esiste". Tuttavia, il contrasto deve essere reso evidente anche sul piano della vera e propria cultura istituzionale. Chi vince le elezioni acquisisce il potere di governare e di fare molte importanti nomine. Non ha, invece, nessun legittimo potere di squassare le istituzioni. Non ha neppure quello di intimidire le cariche elette secondo i criteri delineati nella Costituzione: dalla Presidenza della Repubblica alla Corte Costituzionale.

L’ipotesi della "scuola" di Berlusconi non ha modo di fare breccia e di trovare accoglimento perché è assolutamente estranea alla lettera e allo spirito delle Costituzioni democratiche. Purtroppo, però, quella sua stessa scuola, per quanto dotata di un sapere approssimativo e vacillante, che tradurrà in qualche riforma costituzionale assolutamente da non incoraggiare neppure per telefono, ha inviato il suo messaggio chiaro e semplice: preparatevi a anni di conflitti inter-istituzionali. È augurabile che il Partito Democratico e la Sinistra Arcobaleno, unitamente ai loro intellettuali di riferimento, rispondano senza nessuna furbizia tattica e senza nessuna apertura di credito, ma con la rivendicazione della divisione dei ruoli, dei compiti, dei poteri e della attribuzione di precise responsabilità.

Pubblicato il: 11.04.08
Modificato il: 11.04.08 alle ore 15.25   
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 16, 2008, 06:09:38 pm »

Quel grande vuoto alla sinistra del Pd

Gianfranco Pasquino


Quando la sconfitta numerica assume proporzioni notevoli e implica addirittura la sparizione di un partito dalla rappresentanza parlamentare, i primi ad interrogarsi e a criticarsi debbono essere i dirigenti di quel partito. La Sinistra Arcobaleno è stata una creatura artificiale, raffazzonata, senza programma, senza orizzonte, con molti rancori e pochi obiettivi.

Non poteva fare breccia neppure più nel suo elettorato collocatosi a cavallo fra disorientamento e irritazione, politica e sociale. Sicuramente, la Sinistra Arcobaleno è anche stata penalizzata dal voto utile che, evidentemente, non ha saputo contrastare spiegando a sua volta quanto utile, e per fare che cosa, avrebbe comunque potuto essere il voto espresso per le sue liste (e i suoi, non propri nuovissimi e convincentissimi, candidati). Adesso, qualcuno potrebbe rallegrarsi della scomparsa della Sinistra Arcobaleno a livello nazionale, e il Presidente della Confindustria Montezemolo lo ha subito fatto, ma non è stato l’unico. Troppo facile. Rimane, però, che a livello locale la Sinistra Arcobaleno ancora esiste, conta ed è attualmente determinante per la formazione e per il funzionamento di non poche giunte con il Partito Democratico. Avendo imparato la lezione, potrebbe smetterla di creare destabilizzazioni per puro egoismo partitico e, qualche volta, per esibizionismo personalistico, e dovrebbe, invece, cercare di dimostrare che la sua esistenza in quanto soggetto politico è utile, qui e adesso, ma anche nel prossimo futuro.

Dovrebbe anche preoccuparsi della dinamica del suo ex-elettorato. Infatti, i dati nazionali e quelli, più disaggregati a livello regionale e provinciale, rivelano che, aggiungerò “purtroppo”, non è affatto vero che tutti i voti mancati alla Sinistra Arcobaleno sono finiti sulle liste del Partito Democratico. Sembra addirittura che una parte di quei voti fra protesta e antipolitica abbia trovato uno sbocco credibile e accettabile nella Lega (ancora, dunque, come disse memorabilmente Massimo D’Alema, una «costola della sinistra»?) Incidentalmente, il Partito Democratico si sarà anche incamminato sulla strada giusta, ma il suo 33 per cento, per un partito a vocazione maggioritaria, non costituisce affatto un punto di approdo entusiasmante (è persino meno del 35 per cento ovvero della soglia che aveva posto Goffredo Bettini). Per andare più su a competere con il centro-destra sono indispensabili percentuali parecchio più elevate e qualcosa potrebbe venire proprio da un elettorato di sinistra che altrimenti sembrerebbe destinato a disperdersi in maniera deprimente e deludente.

Dal punto di vista sistemico, per quanto la rappresentanza politica e parlamentare che la Sinistra Arcobaleno ha saputo offrire ai suoi elettori non fosse, come ha dimostrato il loro comportamento di voto, abbastanza soddisfacente, è assolutamente fuori di dubbio che quell’elettorato, fra molti umori e pulsioni anche da contrastare con fermezza, esprimeva radicamento, preferenze, interessi, esigenze che qualsiasi organizzazione politica di sinistra ha l’obbligo di cercare di capire e di rappresentare adeguatamente. Un conto, infatti, è respingere, doverosamente, le pressioni e i condizionamenti posti da un ceto politico come quello della Sinistra Arcobaleno, schierato a difesa in special modo del suo status e dei suoi privilegi. Un conto molto diverso è cercare di ampliare, da parte del Partito Democratico, il perimetro della sua rappresentanza politica e sociale. Paradossalmente, questa operazione che, a mio parere, è tutt’altro che contraddittoria con il radicamento del partito, ma funzionale ad esso, potrebbe essere più facile se, necessariamente, svolta dall’opposizione, selezionando temi e problemi che, ovviamente e inevitabilmente, il nuovo governo di Berlusconi metterà ai margini, ma che, in un Paese caratterizzato dalle grandi disuguaglianze economiche e sociali, geografiche e generazionali, risultano essenziali per qualsiasi partito progressista (oh, quanto vorrei scrivere «socialista-socialdemocratico»).

Insomma, il Partito Democratico deve porsi il compito di garantire, alle sue condizioni e con le sue prospettive, rappresentanza politica a quegli interessi e quelle preferenze che la Sinistra Arcobaleno ha, per suo demerito e nonostante gli avvertimenti, definitivamente perduto. Non soltanto il Partito Democratico adempirà ad un importante compito sistemico, anche se mi pare del tutto eccessiva e persino allarmistica qualsiasi preoccupazione per l’insorgenza di comportamenti violenti da quegli elettori poco rappresentanti, ma ne trarrà vantaggi politici e elettorali di cui ha molto bisogno. “Andare oltre” il consenso attuale significa per il Pd anche spingersi deliberatamente e consapevolmente fino a raccogliere e educare, proprio così, un elettorato che, per condizioni sociali e per aspettative di vita, è comunque collocabile nel terreno che la sinistra deve frequentare, movimentare e rappresentare.

Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 8.18   
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« Risposta #56 inserito:: Aprile 21, 2008, 05:41:09 pm »

Pd, la voce del Nord

Gianfranco Pasquino


In qualsiasi forma riuscisse a presentarsi, il fantomatico Partito Democratico del Nord andrebbe comunque a cozzare contro la struttura federale che, almeno sulla carta, dovrebbe già caratterizzare il Partito Democratico attualmente esistente.

Inoltre, due problemi dovrebbero, se del caso, essere immediatamente risolti, prima ancora di partire per la spedizione alla conquista del Nord (ovvero, meglio, del suo elettorato), quelli relativi ai confini geografici e alle eventuali macroaggregazioni regionali.

Geograficamente collocata nel Nord, l´Emilia-Romagna ha pochissimo a che spartire, politicamente e socialmente, culturalmente e forse anche economicamente, con le altre regioni del Nord, in special modo con Lombardia e Veneto. Quanto alla macroaggregazioni regionali, qualsiasi scelta in direzione del partito del Nord che mettesse insieme tutte le regioni al di sopra del Po darebbe ragione a chi sostiene che la Padania è separata e distinta dal resto del paese e che merita non soltanto il federalismo fiscale, ma, prima o poi, anche l´indipendenza (non conteneva proprio questo elemento il nome del gruppo parlamentare leghista alla Camera: "Lega Nord per l´Indipendenza della Padania"?) Già credo che la sinistra abbia fatto molto male a inseguire la Lega sul terreno scivoloso e confuso di un mai meglio precisato federalismo. Suggellare tutto questo percorso sbagliato con una chiara separazione del Partito Democratico del Nord da altri eventuali, divenuti inevitabili, partiti, del Centro rosso (ancorché un po´ sbiadito) e del Sud, con qualche difficoltà di collocazione, ad esempio, del Lazio, mi parrebbe altamente problematico e poco produttivo. Invece, il compito da affrontare quanto prima riguarda le modalità di strutturazione e di funzionamento del Partito Democratico già esistente.

In una certa misura hanno ragione coloro che mettono in evidenza alcune contraddizioni, ad esempio, il carattere federalista di un partito i cui segretari regionali sono, però, stati "benedetti" o assegnati dal centro, cosicché, poi, non hanno brillato per iniziative autonome e e originali, e la selezione delle candidature, ovvero, in pratica la nomina dei parlamentari, senza che sia stato consentito a sufficienza agli elettorati democratici locali di esprimere, attraverso ben congegnate e efficaci elezioni primarie, anche in maniera vincolante, le loro preferenze. Tuttavia, l´inconveniente di fondo riguarda le modalità di fare politica nel Nord e, di conseguenza, di riuscire a raggiungere o no quell´elettorato che oramai da un quindicennio, con alti e bassi, continua a preferire la Lega e il Popolo di Berlusconi.

La struttura che il Partito Democratico vorrà darsi, sperabilmente abbastanza presto in un congresso nazionale, dovrà tenere conto di esigenze di flessibilità e di rispecchiamento di realtà locali diversificate. Ma, soprattutto, dovrà prendere atto che per ricostruire una politica credibile e attraente, bisogna ripartire molto concretamente dal territorio. Dovranno essere le varie zone del Nord ad esprimere leadership politiche vincenti, come hanno già saputo fare con Massimo Cacciari e con Sergio Chiamparino, e come sarà opportuno estendere anche alla selezione delle candidature parlamentari. Bisognerà investire non su personalità, più o meno prestigiose, ma estranee alla politica e destinate, se non vincono (Milano docet) ad abbandonarla, affinché costruiscano con pazienza, giorno dopo giorno, un tessuto connettivo che aderisca alle preferenze di quelle componenti degli elettorati che il Partito Democratico intende rappresentare. Sarà, in qualche caso, un lungo e duro lavoro di opposizione, di diffusione di messaggi e di formulazione di proposte effettuato capillarmente sul territorio (questa è, in effetti, la parola chiave). Non potrà essere affidato a chi non ha né la competenza né la disponibilità a garantire presenza e impegno difficilmente coronabili con rapido e clamoroso successo.

Gli annunci sul Partito del Nord, che abbiamo già ascoltato anche da dirigenti degni di stima e credibilità: da Fassino a Bersani nonché a Cacciari, non bastano e forse non servono. Una nuova politica nel Nord, ma non necessariamente soltanto per il Nord, potrà essere prodotta soltanto da chi nel Nord vive, lavora, combatte e ne comprende le esigenze. I tempi non possono essere brevi e non c´è scorciatoia tanto meno se appare puramente linguistica, lessicale, e non riesce a diventare robustamente organizzativa.

Pubblicato il: 21.04.08
Modificato il: 21.04.08 alle ore 14.55   
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« Risposta #57 inserito:: Maggio 05, 2008, 10:53:54 pm »

Su cosa giura Bossi

Gianfranco Pasquino


La politica è comunicazione, verbale e simbolica, di idee e di comportamenti, libera e fantasiosa. L’unica discriminante fra l’accettabile e il censurabile è stabilita, come deve sempre esserlo, dalla Costituzione, quella italiana. Secondo la Costituzione spetta al Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio, nominare i ministri. Sulla Costituzione giurano i ministri, tutti, e dichiarano, così, fedeltà alla Repubblica, che, art. 5, è «una e indivisibile», e riconoscono che la bandiera della Repubblica, art. 12, «è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso». Tutto il resto sono parole. Non per questo, tutte le parole debbono essere lasciate scorrere, con indifferenza. Infatti, non sempre le parole «volano»; al contrario, qualche volta sono più pesanti delle pietre. Certo, è giusto replicare al figlio di Gheddafi che i ministri italiani vengono indicati da chi ha vinto elezioni democratiche, sconosciute alla Libia, e sono scelti dal Primo ministro che ha ottenuto quella carica in quanto capo di una maggioranza parlamentare e che la conserverà fino a quando quella maggioranza lo sostiene.

Ma è altrettanto giusto richiamare i ministri e tutte le autorità di governo a comportamenti consoni con l’importanza della loro carica e coerenti con i dettami della Costituzione.

Non ho nessun dubbio che, senza clamore, ma con chiarezza e intransigenza, il Presidente Napolitano, che nelle molte cariche di rilievo istituzionali da lui ricoperte ha sempre dimostrato assoluta correttezza politica, ricorderà questi elementari, ma essenziali, principi sia al Primo ministro che ai ministri da lui scelti. Qualcuno sostiene che, a fronte delle "sparate" della Lega e, in special modo, del suo capo Umberto Bossi, ma anche di troppi altri principali esponenti del centro-destra, abbiamo troppo spesso abbassato la guardia e lasciato correre con la conseguenza che l’opinione pubblica vi si è quasi assuefatta. All’estero, invece, continuano a stupirsi delle tiepide reazioni italiane nei confronti delle affermazioni e dei comportamenti di alcuni politici del centro-destra e guardano alla politica del nostro paese con incuriosita preoccupazione. Naturalmente, noi ne sappiamo di più. Vale a dire che possiamo sostenere che quelle della Lega sono frasi esagerate alle quali, almeno finora, non hanno fatto seguito comportamenti reprensibili e pericolosi. I passamontagna sono rimasti nei cassetti e i trecentomila fucili probabilmente non si trovano neppure in tutte le armerie della Padania. Quelli della Lega sono talvolta discorsi da osteria, ma oppure, forse perché in quelle osterie padane si fa politica anche in questo modo. E’ poi vero che diventati Ministri, gli esponenti della Lega hanno esercitato il loro mandato, più o meno efficacemente, secondo gli orientamenti e attuando le politiche della coalizione di cui fanno parte. Siamo, dunque, di fronte ad una semplice, seppur deplorevole, doppiezza della Lega: smodati in piazza, moderati al governo? Dovremmo allora continuare a lasciare che quelle parole volino e a concentrare l’attenzione esclusivamente sui comportamenti? Non dovremmo, piuttosto, attrezzarci per contrastare dall’opposizione affermazioni pesanti e sconcertanti che si collocano tra propaganda e provocazione? Per quanto tardiva, la battaglia per un linguaggio politico rispettoso degli avversari politici, interni e esterni, senza discriminazioni "di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" (art. 3 della Costituzione), mi pare doverosa. Sarebbe anche il caso che anche il centro-sinistra, non soltanto perché e quando si trova all’opposizione, tentasse da subito di ristabilire alcuni criteri di comportamenti anche politicamente corretti e di dichiarazioni, al contrario, politicamente inaccettabili, e eventualmente li applicasse anche a coloro che si muovono scompostamente nei suoi dintorni, a cominciare da coloro che, con scarsissima immaginazione, non trovano di meglio che bruciare le bandiere degli USA e di Israele. Se vuole avere successo, la battaglia per una politica verbale decente non dovrebbe essere di una sola parte, partigiana. Anzi, sarebbe utile e appropriato se il prossimo Primo Ministro (unitamente ai Presidenti di Senato e Camera) si unisse a questa battaglia e smettesse di minimizzare la portata e l’impatto di ogni e di tutte le dichiarazioni truculente, ma le condannasse fermamente e le impedisse. Magari è comunque poco, ma la riforma della politica passa anche, ovviamente non soltanto, di qui.

Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 8.16   
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 20, 2008, 05:18:19 pm »

La prova dei fatti

Gianfranco Pasquino


Non mi sembra il caso discutere se Silvio Berlusconi sia oppure no diventato più buono. Con il verbo frequentemente utilizzato dai politici, dirò che l’argomento non mi appassiona. Certamente, lo stile personale e politico conta e le modalità con le quali si instaura un rapporto con l’opposizione e il suo principale esponente possono fare una differenza per il funzionamento del sistema politico e per l’azione di governo.

Tuttavia, è facile mostrarsi con il volto sorridente quando si sono vinte le elezioni ed è comunque possibile governare con una maggioranza molto ampia. Resta, però, da vedere con quale stile e con quali modalità verranno affrontate le dure prove del governo. Per quanto abile, il mix vecchio e nuovo nella compagine del governo "PdL più Lega" non sembra contenere innovazioni programmatiche significative. Alla prima prova dei fatti, quella relativa all’immigrazione e collegata alla criminalità, il Ministro degli Interni Roberto Maroni che, pure, rappresenta un esempio di "usato sicuro" (nel senso che sappiamo con ragionevole sicurezza quali sono i limiti della sua azione politica) è, primo, ritornato alla legge Fini-Bossi, per, subito dopo, introdurvi qualche importante clausola di sospensione concernente le badanti e le colf. Meglio così, per quanto, azioni e eccezioni di questo tipo non configurino strutturalmente nessuna soluzione duratura. Promessa in campagna elettorale, l’abolizione dell’ICI dovrebbe già fare la sua comparsa nei prossimi giorni, ma il Ministro Tremonti sarà probabilmente obbligato a chiarire in che modo i comuni, privati di quell’introito nient’affatto marginale, riusciranno a fare fronte ai loro compiti. Nel frattempo, incombe sulle finanze locali anche la prospettiva di un non meglio precisato "federalismo fiscale", ugualmente promesso in campagna elettorale e per il quale, ovviamente, la Lega non sarà disponibile a fare sconti. Nei prossimi giorni il governo Berlusconi terrà, come solennemente pre-annunciato dal suo capo, una riunione del Consiglio dei ministri a Napoli. Non sembra che all’ordine del giorno vi sarà la situazione dello smaltimento dei rifiuti che, dopo mesi e anni di colpevole incuria, non può neppure più essere considerata una emergenza, ma che, ovviamente, necessita di una soluzione in tempi rapidissimi. Non basteranno i sorrisi di Berlusconi dopo che la "monnezza" ha fatto parte della sua campagna elettorale anche per conquistare la Regione Campania (come è puntualmente avvenuto), il Presidente del Consiglio ha il dovere politico di enunciare la soluzione, mentre il Ministro degli Interni dovrà garantire che quella soluzione venga attuata mantenendo l’ordine pubblico. Quanto all’Alitalia, anch’essa nient’affatto una emergenza, ma un problema da tempo noto, avendo Silvio Berlusconi, unitamente ai vociferanti difensori del Nord, nella Lega e nel Popolo delle Libertà, reso impossibile la vendita a Air France e annunciato l’esistenza di una "cordata" italiana, il Presidente del Consiglio deve sentirsi politicamente impegnato affinché la soluzione venga alla luce prestissimo e venga ancora più rapidamente messa in atto anche per evitare ulteriori cospicui esborsi di denaro pubblico. Al momento, questa è, ovvero, più precisamente, non può non essere l’agenda del governo. Deriva, infatti, dalla situazione del paese e dalle promesse fatte dalla destra durante la campagna elettorale.

Naturalmente, il governo ombra dell’opposizione ha, a sua volta, il dovere, non di attendere sulla riva del fiume, ma di pungolare, criticare, controproporre. Se il Partito Democratico avesse vinto le elezioni, con ogni probabilità le problematiche dei rifiuti, dell’immigrazione, delle tasse, dell’Alitalia (peraltro già quasi conclusa) si sarebbero inesorabilmente trovate sulla sua agenda. E’ giusto, però, come ha fatto il Primo ministro ombra, sottolineare che sull’agenda dell’opposizione nonché dei lavori parlamentari bisognerà (im)porre anche la questione dei salari e delle pensioni, magari aggiungendovi qualche concreta indicazione di come ridistribuire la ricchezza contribuendo al rilancio della crescita economica. Anche la RAI e più in generale il riordino del sistema televisivo, che incrocia il nient’affatto scomparso conflitto di interessi del Presidente del Consiglio Berlusconi, meritano di trovare spazio nell’agenda dell’opposizione per confluire, naturalmente, in quella dei lavori parlamentari. Non è, infatti, questione di buonismo né di rapporti personali fra i principali esponenti dei due maggiori schieramenti. E’, semplicemente, ma crucialmente, una questione democratica, di pluralismo e imparzialità dell’informazione, che non può essere nascosta dietro nessun sorriso e nessun ammiccamento. Fa piacere che la destra, seppure da posizioni di forza, peraltro conferitele democraticamente dall’elettorato abbia toni concilianti e si esprima con affermazioni dialoganti. Ma, al di là di qualsiasi espressione verbale, adesso il confronto si fa sulla cultura e sull’azione di governo. Senza neppure essere particolarmente esigenti, credo che i primi passi suggeriscano che la destra non ha compiuto molti progressi. A occhio, si direbbe che l’atmosfera nel paese reale sia un misto di attendismo e di rassegnazione, oltre che, fra i suoi elettori, di soddisfazione. Proprio per questo una sana, pacata e intensa discussione sui fatti, sui non fatti e sugli eventuali misfatti risulterà positiva sia per l’opposizione sia per il governo, se la sua disponibilità non è soltanto di facciata, sia per l’opinione pubblica.


Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 12.51   
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« Risposta #59 inserito:: Giugno 02, 2008, 05:12:43 pm »

Riforme, la parola al Pd


Gianfranco Pasquino


Gli anniversari della nascita della Repubblica nei quali giustamente si celebra la Costituzione italiana hanno avuto toni e temi diversi nel corso di sessant’anni. In maniera eccessiva, per almeno un ventennio, la Costituzione è stata considerata positivamente non tanto per la sua architettura, per il suo contenuto, per la sua sostanza, quanto, per la sua origine, indubitabilmente l’antifascismo, e per il metodo, la convergenza, sottolineata in maniera esagerata, delle tre grandi culture politiche: liberale, cattolico-democratica, socialcomunista, nella sua elaborazione.

Nascondendone i conflitti, che esistettero e che, pure, nella formulazione degli articoli e nella scelta delle soluzioni istituzionali, furono spesso fecondi, si finì con il rendere molto difficile qualsiasi discussione sulla efficacia specifica di alcuni degli articoli della Costituzione e sulla eventuale necessità di un loro possibile aggiornamento. Nei primi vent’anni, non senza buoni motivi, la parola d’ordine della grande maggioranza dei politici e dei giuristi fu «attuare la Costituzione». Dopo il Sessantotto che, sviluppandosi senza nessuna attenzione alla Costituzione, che era stata poco e male insegnata e studiata, e al tipo di sistema politico in essa delineato, può essere definito, tecnicamente, un fenomeno extra-costituzionale, furono proprio le vicissitudini del sistema politico, vale a dire il suo blocco e le mancate opportunità di alternanza al governo a porre il tema della riforma della Costituzione. Certo, le modalità con le quali da parte di alcuni socialisti venne perseguito un disegno tanto ambizioso quanto vago suscitarono perplessità e ostilità, sembrando motivate soprattutto dal desiderio di acquisire spazio politico a spese di democristiani e comunisti che avevano dato vita ad un bipolarismo orientato alla conservazione delle loro rendite di governo e di opposizione. Le reazioni di entrambi i grandi partiti, non disponibili o non capaci di accettare la sfida socialista, confermarono l’impressione di un conservatorismo costituzionale che impediva riforme probabilmente condivise e quasi certamente opportune. Al contrario, la sfida socialista e l’intera dinamica delle coalizioni pentapartitiche, troppo spesso, si pensi anche soltanto al più o meno presunto «patto della staffetta» fra socialisti (Craxi) e democristiani (Andreotti) e alla lunga crisi che dal governo De Mita portò all’ultimo governo Andreotti (maggio-luglio 1989), incuranti della Costituzione, giustificarono la comparsa di una nuova parola d’ordine: «tornare alla Costituzione». Purtroppo, quello che non aveva funzionato nella Costituzione, relativamente all’ordinamento dello Stato, ovvero la Parte Seconda, e non era stato riformato per tempo, come avevano già suggerito i Costituenti, ad esempio, con l’ordine del giorno Perassi sui meccanismi per stabilizzare i governi, non poteva essere fatto rivivere. Però, il punto più delicato è che, unitamente ad una non più condivisa visione della Costituzione, si affacciava anche la consapevolezza che la sua riforma, a fronte di progetti divergenti e particolaristici, stava diventando quasi impossibile. Inoltre, la dinamica del sistema politico sembrava riuscire a garantire quel che era mancato, ovvero l’alternanza, la quale, peraltro, non poteva nient’affatto essere, come qualcuno aveva addirittura teorizzato, una panacea per i mali del sistema. Prodotte da maggioranze poco coerenti, le riforme del nuovo millennio, ratificate o respinte che siano poi state dall’elettorato, hanno soltanto elevato il livello dello scontro fra gli opposti schieramenti senza risolvere nessuno dei problemi. Ha certamente ragione il Presidente della Repubblica a ricordare che la Costituzione va rispettata e che, allo stesso modo, vanno rispettati i suoi eventuali adeguamenti e aggiornamenti. Ma il bilancio della capacità delle classi politiche italiane non soltanto di produrre le riforme necessarie in una visione sistemica, ma di valorizzare, applicandoli concretamente, tutti gli articoli che, dai diritti ai doveri fino ai compiti della Repubblica, come quello di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che… impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3), risulta non positivo. Forse il governo-ombra potrebbe riprendere l’iniziativa riformatrice stilando l’agenda dei cambiamenti auspicabili e possibili e argomentandoli. Una Costituzione rinnovata faciliterebbe un miglior funzionamento del sistema politico che sarebbe di giovamento non soltanto per chi detiene il potere di governo, ma anche per tutti i cittadini.

Pubblicato il: 02.06.08
Modificato il: 02.06.08 alle ore 13.53   
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