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Autore Discussione: Gianfranco PASQUINO ...  (Letto 53516 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Maggio 21, 2007, 06:57:15 pm »

Un anno e tre errori
Gianfranco Pasquino


«Né minimalismo né trionfalismo»: questa è la posizione più corretta da assumere nel valutare i risultati del primo anno di governo dell’Unione guidata da Romano Prodi. Il minimalismo non è davvero mai stato il punto forte dei componenti dell’Unione (e, se me lo permette, neppure del presidente del Consiglio). Invece, purtroppo, di espressioni trionfalistiche, non soltanto, malauguratamente, al momento dell’entrata in carica, ne abbiamo sentite anche troppe. Il problema non è che molti di noi, elettori dell’Unione, preferiremmo un sano e sfumato realismo. Il problema è che, da un lato, molti elettori della Casa delle Libertà si sono sentiti un po’ presi in giro da un governo con 24mila 500 voti di maggioranza, mentre, dall’altro lato, parecchi elettori dell’Unione vedevano il trionfalismo, ma non vedevano quella legislazione che era stata loro promessa.

Si spiega così perché il governo e il suo capo siano caduti fin dall’inizio al di sotto del 50 per cento di popolarità e di apprezzamento, ruzzolando qualche volta anche parecchio al di sotto. Non trattandosi di una maledizione biblica, questi sondaggi, che sono da prendere sul serio sia per la loro provenienza scientifica, accertabile in Renato Mannheimer e Ilvo Diamanti, sia per la loro serie storica, dicono che il problema è grosso.

Dal canto suo, lo stesso Prodi è costretto a dichiarare di dovere affrontare ostacoli significativi tanto che neppure un decimo delle proposte di legge del suo governo sono state finora approvate e che, per il resto, l’attività legislativa del governo si esplica con il ricorso a decreti leggi, che non è mai un buon modo di governare. Eppure, su non poche tematiche il governo ha operato soddisfacentemente e i rispettivi ministri riscuotono un buon successo personale, in particolare: in politica estera (D’Alema) e nelle attività produttive (Bersani) - ma non voglio fare un elenco puntiglioso anche perché so perfettamente che, talvolta, il voto non alto di alcuni ministri deriva dalla scarsa conoscenza del loro operato e dalla bassa visibilità dei loro ministeri, non dall’incompetenza e nemmeno da loro personale incapacità. Qualche volta, però, la bassa votazione, come per Mastella, colpisce sia il fatto (quel mal congegnato indulto) che il promesso, ovvero una crisi di governo per le più svariate ragioni: dai Dico alla legge elettorale al conflitto di interessi, e l’elenco del fantasioso Mastella non si arresterà certamente qui. Tuttavia, non basta un uomo solo, per quanto molto loquace, a spiegare l’insoddisfazione e la delusione di un elettorato. Propongo che si cerchino i motivi del disorientamento di una parte dell’elettorato che ha votato Unione in alcuni fenomeni specifici, a mio parere, particolarmente importanti.

Governare non consiste mai esclusivamente in quello che si fa; molto più spesso è come lo si fa: non soltanto la sostanza, ma anche la carenza di sostanza e lo stile. Naturalmente, ciascun plotone di insoddisfatti e di delusi esprime la sua specifica lamentela. Qualcuno sottolinerà l’urgenza di una buona legge sul conflitto di interessi. Altri vorranno vedere una molto diversa legge elettorale. Qualcuno si aspettta politiche del lavoro più incisive, con interventi vigorosi sulla Pubblica Amministrazione. Altri ancora vorrrebbero vedere abbattuti i costi della politica oramai saliti a livelli intollerabili. Infine, ma temo che l’elenco non sia affatto finito, altri vorrebbero sapere quali sono le priorità del governo Prodi. Talvolta sono le politiche fatte che producono delusione e reazione perché toccano interessi costituiti, ma li toccano male, senza averli fatti precedere da una adeguata argomentazione. Talvolta, sono le politiche da fare, come la irrinunciabile riforma delle pensioni che inquieta, per la confusione delle proposte, alla quale contribuiscono i leader sindacali, una parte di elettorato. Lo stile di governo dell’Unione sembra, a proposito di giustificazione dei provvedimenti adottati, piuttosto quello di un pollaio, mentre abbiamo perso le tracce del Portavoce Unico.

Temo, da ultimo, e voglio metterli in chiarissima evidenza, che tre fattori, non tutti strettamente collegati all’azione di governo, appesantiscano l’Unione, ma soprattutto offuschino la figura del Presidente del Consiglio. Il primo fattore è la costruzione tormentata e frettolosa del Partito Democratico. Su un punto non ho dubbi: Prodi deve assumere senza tentennamenti la leadership del Pd perché questa è la novità annunciata a chiare lettere: coincidenza del capo del partito con il capo del governo. Secondo punto: Prodi ha fatto molto male a dichiarare che, comunque finisca questa sua seconda esperienza alla guida del governo, uscirà di scena. Automaticamente ha indebolito la sua posizione agli occhi di molti elettori e di molti gruppi, persino nell’Unione, un po’ come, si parva licet, è successo con le dimissioni preannunciate da Tony Blair, peraltro un Primo ministro molto vigoroso, operativo e brillante. Infine, terzo punto, al quale ho già variamente fatto riferimento, se l’Unione vuole migliorare le sue prestazioni e ottenere valutazioni più elevate, è assolutamente indispensabile, non soltanto, come dicono un po’ tutti, che venga ridotto il tasso di litigiosità interna, ma si innalzi il profilo politico del suo leader. Un capo di governo non è mai, ovvero non dovrebbe mai essere, come una volta ha detto di sentirsi Prodi, un assistente sociale. È una autorità, ovvero la più alta carica di governo nel sistema politico italiano. Dunque, in quanto tale deve imparare a esprimersi e a operare con autorevolezza e solennità. Il tempo per apprendere ancora c’è; spero che non manchi, per malposte motivazioni, la volontà.

Pubblicato il: 21.05.07
Modificato il: 21.05.07 alle ore 10.39   
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« Ultima modifica: Settembre 03, 2007, 06:52:21 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 26, 2007, 10:20:07 pm »

Ds e Dl La «rivolta» dei giovani: lista alle primarie

La delusione per la mancanza di under 30 dal Comitato dei 45 del futuro Partito Democratico

 
MILANO — Arrabbiatissimi. Furenti. Delusi. Tanto che adesso affilano le armi per una «vendetta»: presentare il 14 ottobre (primarie del Pd) la loro lista. Tutta di giovani. Pina Picierno, segretaria nazionale giovani Dl, e Fausto Raciti, suo omologo per i Ds, ci stanno pensando dall'altro ieri, giorno di ufficializzazione del Comitato dei 45. Da allora sono sul piede di guerra: tra i prescelti, infatti, non figura un solo under 30. E questa decisione ha fatto esplodere proteste un po' dappertutto.

In Piemonte i giovani dl hanno annunciato di essere pronti «a restituire le tessere a Roma per i metodi seguiti. Che hanno portato all'assenza di giovani e di esponenti piemontesi». In Calabria, invece, i giovani dl hanno deciso «di autosospendersi dal partito». Come spiega Luigi Madeo, calabrese e responsabile nazionale organizzativo della Margherita: «Loiero inserito nel Comitato? Siamo a disagio. Non sono rappresentati né i Ds né i Dl calabresi. E invece è entrato lui, l'uomo dello strappo. Per non parlare della mancanza di giovani. Noi contestiamo il metodo usato. La nostra sfida? Sarà alle primarie, sperando che facciano un regolamento che ci consenta di partecipare».

Maldipancia anche in Sicilia. E in Lombardia, dove ieri, al congresso regionale dei giovani dl, c'era grande delusione per la scelta di escludere gli under 30 dal Comitato. Spiega Pina Picierno: «È stata un'assurdità. Le donne, invece, che hanno fatto lobby, poi alla fine l'hanno spuntata. E noi ragazzi? Noi che lavoriamo dentro i partiti, o anche fuori, e che abbiamo meno di 30 anni? Niente. Cancellati. Ma il Pd non doveva essere il partito dei giovani? Invece qui l'età media supera il mezzo secolo. Complimenti per il coraggio». La pupilla di Ciriaco De Mita, vicina anche a Dario Franceschini, non ha voglia però di attaccare a muso duro i big dl. Però chiarisce che la protesta non si fermerà qui. E avverte: «Ora il nostro percorso per la Costituente sarà autonomo e molto diverso. Sarà veramente aperto, inclusivo, e darà spazio a chi ha voglia di partecipare».

Fausto Raciti, leader della Sinistra giovanile, usa toni simili a quelli di Picierno: «Siamo davvero arrabbiati, è ovvio. Ma alla Costituente del Pd ci faremo prendere in considerazione, ne siano pur certi. Intanto stiamo organizzando la prima assemblea nazionale dei giovani del Pd, a giugno, a Roma. Ma resta tutta la nostra preoccupazione per il sistema usato: vuol dire che si sono solo riempiti solo la bocca, finora, con la parola "giovani". Ma poi alla fine nel Comitato dei 45 hanno inserito solo i professionisti della società civile. Non ci sono i giovani, quindi, ma c'è Slow Food. E ci sono Dini e Amato. Complimenti davvero».

Raciti però non ci sta ad accettare le decisioni delle segreterie nazionali: «Noi non vogliamo i giovani cooptati, come dice Parisi, e per questo il 14 ottobre ci misureremo candidandoci. Ma per far questo ovviamente chiediamo regole certe. Primo: confermare il voto per chi ha 16 anni; secondo: gli under 30 devono poter votare al prezzo di 1 euro; terzo: seggi aperti anche davanti a tutte le scuole e le università. E vediamo, poi, alla fine chi la spunta. Perché siamo proprio stufi di fare sempre e solo i donatori di sangue».

Angela Frenda
26 maggio 2007
 
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« Risposta #2 inserito:: Maggio 26, 2007, 10:21:13 pm »

L'appello sul blog di Luca Sofri «Dieci giovani per il Comitato del Pd»

«Meraviglia per la totale assenza di persone che abbiano meno di quarant'anni: ecco qualche suggerimento»   
 
L'appello su Wittgenstein


La rabbia passa anche, e forse soprattutto, sul web. Dopo la delusione dei giovani Ds e Dl per l'assenza di under 30 dal Comitato del futuro Partito Democratico (alla faccia di certe dichiarazioni rilasciate prima, durante e dopo i congressi della Quercia e della Margherita), online si moltiplicano le critiche e gli appelli. Come quello che è possibile sottoscrivere sul blog di Luca Sofri (www.wittgenstein.it).

MERAVIGLIA - «Care persone del Comitato per il Partito Democratico - si legge - ci risolviamo a scrivervi perché abbiamo letto nelle parole di alcuni di voi un disagio in cui ci siamo riconosciuti sui primi passi del Partito Democratico.(...). Ci sembra inevitabile la meraviglia per la totale assenza in questo comitato di persone che abbiano meno di quarant'anni, e per la presenza di sole quattro persone nate dopo gli anni Cinquanta. Accidente assai spiacevole, per un organismo che ha come priorità il rinnovamento e la sfida con il futuro. In Italia ci sono 28 milioni di persone che hanno meno di quarant'anni. Tra di voi, neanche una (...). Aggiungiamo subito altri dieci nomi, scelti tra i molti che nella politica e nella società hanno già dimostrato capacità o sostegno popolare ampi e convincenti, e che siano per anagrafe e sensibilità rappresentativi anche dell'altra metà degli italiani: dieci sono pochi, ma è qualcosa. Fatto 45, si fa 55»

I NOMI - Ed ecco i nomi proposti per il comitato del Pd dai firmatari dell'appello di Wittgenstein: «Giuseppe Civati, consigliere regionale della Lombardia; Carlo Antonio Fayer, consigliere comunale a Roma; Mario Adinolfi, giornalista; Sandra Savaglio, astronoma; Matteo Renzi, Presidente della Provincia di Firenze; Anna Maria Artoni, imprenditrice; Ivan Scalfarotto, dirigente d'azienda; Alessandro Mazzoli, Presidente della Provincia di Viterbo; Marta Meo, architetto; Michela Tassistro, Istituto Nazionale di Fisica della Materia; Eleonora Santi, staff del Sindaco di Roma; Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale; Pierluigi Diaco, giornalista; Marco Simoni, economista; Lorenza Bonaccorsi, Capo della Segreteria del Ministero delle Comunicazioni; Gianni Cuperlo, deputato». Una "lista" sostenuta non solo da persone tra i venti e i quarant'anni. «Perché escludere delle generazioni - spiegano - è una sciocchezza».

26 maggio 2007
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 28, 2007, 10:14:55 pm »

POLITICA

Colloquio con Carlo Azeglio Ciampi: "stop al qualunquismo, può travolgere tutto"

Per l'ex capo dello Stato l'Italia di oggi è "infinitamente migliore" di quella di Tangentopoli

"Sì, la politica deve riformarsi ma è sbagliato evocare il '92"

di MASSIMO GIANNINI

 

"Ma sì, non c'è dubbio che la politica sia in difficoltà, così come non c'è dubbio che nel Paese ci sia un clima di scontento. Ma per favore, evitiamo di farci travolgere tutti da un'ondata di qualunquismo". Come lo Scalfaro del decennio passato, Carlo Azeglio Ciampi pronuncia il suo sommesso "non ci sto". E nel pieno di una tornata di elezioni amministrative che misura l'indice di prossimità tra gli elettori e gli eletti, e quindi il grado di fiducia del Paese nei confronti di chi lo governa, l'ex presidente della Repubblica entra a modo suo nel campo minato dei "costi della politica", per parlare di quella che ormai si definisce la "crisi della politica". Non la nega, ma la circoscrive: "Cerchiamo di non esagerare - dice - non è vero che l'Italia del 2007 è come quella del '92. Pur con tutti i suoi problemi e i suoi limiti, il Paese di oggi è infinitamente migliore di quello di allora...".

Da una parte caste chiuse che si riproducono per partenogenesi e oligarchie autoreferenziali che confliggono tra loro. Dall'altra corpi sociali in deficit di rappresentanza e cittadini semplici spremuti dalle tasse. Di là privilegi, di qua sacrifici. In mezzo, la marea montante dell'anti-politica, la voglia malsana di far collassare un sistema che non si sa riformare. Lo spettro della gogna mediatica, il fantasma delle monetine dell'Hotel Raphael. La liquidazione di un'intera classe dirigente, la tentazione di uno sbocco tecnocratico. Ma è davvero questa, l'orrenda rappresentazione dell'Italia di oggi, secondo la declinazione un po' forzata costruita sulle parole di Massimo D'Alema?

Ciampi, che non è un politico ma ha vissuto suo malgrado nel Palazzo negli ultimi quindici anni, non accede a questa visione, che parte dal pessimismo sulla mala-politica ma rischia di sconfinare nel nichilismo dell'anti-politica: "Sta succedendo qualcosa di strano. In pochissimo tempo, siamo passati da un panorama sociale caratterizzato da cielo nuvoloso, a un clima da tempesta imminente. Io, onestamente, questo clima non lo respiro. Vedo che c'è in giro un'insoddisfazione diffusa. Dico con assoluta convinzione che non si può non condividere un certo allarme, per i ritardi sulle riforme, per le inefficienze del sistema e per i costi dell'apparato politico. Ma insisto: non si può fare di tutta un'erba un fascio. E non si possono fare paragoni azzardati con un passato che, per fortuna, è davvero alle nostre spalle".

L'ex Capo dello Stato se lo ricorda bene, quel passato. Nel '93 fu proprio lui a camminare tra le macerie di quel terribile '92, quando i giudici di Milano rasero al suolo Tangentopoli, il Paese sfiorò la bancarotta finanziaria. Oggi Ciampi invita tutti a non fare accostamenti troppo azzardati, che finirebbero solo per alimentare i focolai di qualunquismo. Quelli non furono solo gli anni del simbolico linciaggio di piazza contro Bettino Craxi. Ma anche quelli dell'avviso di garanzia quotidiano per i ministri in carica. Anche quelli del contrattacco mafioso, con le stragi di Falcone e Borsellino e poi gli attentati di Roma, Milano e Via dei Georgofili a Firenze. Ciampi visse quella drammatica stagione prima da governatore della Banca d'Italia, poi da premier. Per questo, oggi può dire: "Di problemi ne abbiamo tanti, ancora. Ma quanta strada abbiamo fatto, da allora...".

Questo invito alla prudenza nei giudizi, tuttavia, non vuole nascondere le convulsioni che la nomenklatura sta vivendo. E meno che mai vuole occultare le persistenti aberrazioni della partitocrazia. "Anch'io ho letto "La Casta", il libro che oggi sta avendo giustamente questo grande successo. Anch'io resto colpito di fronte a certe storie di sperpero del pubblico denaro. Del resto, la lotta agli sprechi e il risanamento delle finanze dello Stato sono stati la missione della mia vita. L'obiettivo di tagliare drasticamente certe spese inutili è giusto. Così come è sacrosanta la necessità di dare risposte serie e immediate alla sana indignazione dell'opinione pubblica. Tutti dobbiamo impegnarci di più, per tentare di risolvere questo problema. Ma in questa fase dobbiamo evitare di essere travolti in una campagna di discredito che investe tutto il sistema politico. Questa non aiuta, anzi peggiora solo le cose".

Ciampi cita un esempio che lo riguarda da vicino, e che in queste settimane ha finito per porre anche lui al centro di qualche velenosa polemica: le spese del Quirinale. "Vede - osserva il presidente emerito - quello è un tipico esempio di come un problema generale, se affrontato in modo semplicistico, finisce per stravolgere il giudizio su un problema particolare. Io non discuto la fondatezza dei dati sulle spese del Quirinale, riportati dal libro di Stella e Rizzo e amplificati in questi giorni dai giornali. Ma io dico che, per potere dare un giudizio obiettivo, bisogna distinguere tra dati effettivi e dati contabili. E allora, se davvero negli ultimi anni i costi del Colle sono aumentati dell'80%, questo è proprio il frutto di una dinamica non effettiva, ma solo contabile. Tra il 2001 e il 2002 infatti decidemmo che per ragioni di trasparenza i cosiddetti "comandati" presso la Presidenza della Repubblica, che avevano lo stipendio base pagato dalle Amministrazioni di competenza più un'integrazione finanziata dal Quirinale, fosse interamente pagati dallo stesso Quirinale. Dal punto di vista dei costi generali dello Stato, fu solo una partita di giro. Ma ecco che se si scorpora questo importo dai costi del solo Quirinale, si scopre che quel clamoroso aumento delle spese non c'è stato affatto".

Il ragionamento dell'ex capo dello Stato non serve a dimostrare che tutto va bene così. Al contrario, Ciampi ripete: "Dobbiamo fare di più". Ma proprio per questo aggiunge: "Io, nel mio settennato, la mia parte l'ho fatta. Primo: il compenso del presidente della Repubblica, sempre uguale dal '96, anno di inizio del grande risanamento, non è mai aumentato ed anzi, d'accordo con il mio predecessore Scalfaro, decidemmo di sottoporlo a tassazione piena, mentre prima era esentasse. Secondo: proprio allo scopo di monitorare al meglio le spese, istituì un Comitato dei revisori, composto da tre funzionari della Corte dei conti e della Ragioneria. Insomma, su questo terreno non accetto lezioni proprio da nessuno. La mia storia parla per me...". Ciampi ci tiene a ribadirlo, proprio nei giorni in cui, soprattutto da una destra becera e populista, partono certe campagne avvelenate, per esempio sui trattamenti pensionistici di politici, amministratori e grand commis dello Stato. Anche su questo versante, il presidente emerito ha qualcosa da dire: "La mia denuncia dei redditi è pubblica. Agli atti della Presidenza del Consiglio. Basta consultarla, per vedere che il mio reddito principale è una generosa pensione della Banca d'Italia, dove ho lavorato per 47 anni. Credo di averla meritata, in tutta onestà". Premesso questo, lui stesso conviene sulla necessità di intervenire su certi privilegi, su certi trattamenti "speciali", che riguardano sia i parlamentari, sia soprattutto gli amministratori locali. Ma anche qui, "bisogna intervenire dove è necessario, senza mettere tutti nello stesso calderone". Come se tutti fossero ladri, grassatori, disonesti.

A questa deriva Ciampi non vuole arrendersi. Teme che, per questa via, si arrivi a soluzioni imprevedibili e nefaste per i destini della Repubblica. Registra anche lui gli effetti del manifesto politico di Montezemolo. Riflette anche lui sulle prese di posizione di Mario Monti, a proprosito delle differenze tra "tecnici" e "politici". E da tecnico a sua volta prestato alla politica commenta: "Vede, in Italia la discesa in campo dei "tecnici" deriva indubbiamente da una certa debolezza della politica. Io non colpevolizzo i tecnici, in assoluto. Ma c'è tecnico e tecnico. Per me, come dimostra la mia vicenda, quando un tecnico è chiamato dalla politica si deve mettere al servizio del Paese. E non deve farsi prendere dal desiderio di potere. Deve limitarsi a compiere al meglio il suo incarico, e poi ritirarsi in buon ordine. Io l'ho sempre fatto. Lo feci nel '93 da presidente del Consiglio, quando in molti volevano che il mio governo diventasse 'sine die', e invece andai dal presidente della Repubblica a rimettere il mio mandato. Lo feci nel '96 da ministro del Tesoro, prima col governo Prodi e poi col governo D'Alema, a cui scrissi una lettera per dirgli che restavo ancora al mio posto ma solo perché "l'euro è un matrimonio celebrato, ma non ancora consumato", e per questo rimasi fino all'avvenuta consumazione del rito. Lo feci nel 2006 da presidente della Repubblica, quando resistetti alle sirene di chi mi chiedeva di restare al mio posto, e invece risposi di no, perché avrei introdotto un precedente inedito nella nostra storia, introducendo una forma di "monarchia repubblicana" che mal si confà alla nostra democrazia e alla nostra Costituzione". Anche oggi, quindi, per Ciampi dovrebbe valere la stessa regola. Se la "crisi della politica" dovesse riprodurre l'emergenza di una "supplenza" tecnica al governo, l'unico principio che dovrebbe valere sarebbe questo: rendere il proprio servizio al Paese, e poi fare un passo indietro.

Ma questa, nella valutazione di Ciampi, è un'emergenza che la politica non dovrebbe consentire. L'anomalia della "surroga" è e deve restare un'eccezionalità. Nonostante le contraddizioni in cui si dibatte, la politica di oggi ha i mezzi e gli strumenti per dare le risposte che i cittadini si aspettano. E per riaffermare il proprio "primato". A Ciampi è piaciuta molto, la vecchia battuta che gli disse l'Avvocato Agnelli, ricordata su queste colonne quattro giorni fa da Ezio Mauro: "Se fallisce lei, dopo c'è solo un cardinale, o un generale...". Secondo il presidente emerito, quel tempo è finito. E non deve mai più tornare.

(28 maggio 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 13, 2007, 12:05:03 pm »

UN MONITO INASCOLTATO
di Gianfranco Pasquino

Neanche i risultati dei ballottaggi portano conforto al centrosinistra. La vittoria dei suoi candidati, nuovi e vecchi, alla provincia di Genova e nelle città di Pistoia e di Piacenza non significa affatto che nelle due settimane trascorse dal primo turno vi sia stata una mobilitazione elettorale e una ripresa politica. Infatti, in alcuni ballottaggi cruciali, come a Parma e a Lucca, dove, pure, i candidati del centrodestra non erano i sindaci in carica e quindi non godevano di particolari vantaggi di posizione, il centrosinistra non riesce ad ottenere un ribaltone.

Anzi, anche in questo secondo turno, si direbbe, a giudicare anche dall’aumento delle percentuali di astensionisti, che, nonostante gli appelli lanciati dai leader dei partiti a superare la delusione per le non brillantissime prove del governo nazionale, gli astensionisti di sinistra abbiano, per così dire, riconfermato il loro voto, ovvero se ne siano rimasti a casa. Naturalmente, questo è un problema più del centrosinistra, che ha bisogno dell’e ntusiasmo di tutti i suoi elettori, che del centrodestra. Però, quando Berlusconi smetterà di cullarsi nel sogno di una spallata al governo, che non è ovviamente venuta dalle elezioni amministrative, potrebbe anche rendersi conto di un paio di fatti molto rilevanti. Primo fatto: se gli astensionisti (di sinistra) hanno voluto mandare un messaggio ovvero dare una lezioncina al loro governo, questo non significa affatto che abbiano intenzione di votare per il centrodestra in eventuali elezioni politiche anticipate. Anzi, la loro astensione dice «delusione nei confronti del governo», ma, anche, «nessuna disponibilità a passare al centrodestra».

Secondo fatto: i partiti del centrodestra sono, in questo momento, in verità da qualche tempo, effettivamente maggioranza nel paese reale. Ma lo sono anche perchè il centro-destra lucra sulla delusione degli elettori del centro-sinistra. In proprio, non può vantarsi di nulla. Non ha nessuna proposta politica originale e innovativa. In Parlamento, soprattutto al Senato, si caratterizza per le sue gazzarre di vario tipo, meglio se teletrasmesse. E non certamente per essere un’opposizione propositiva. Non è neanche, a giudicare dal perdurante distacco di Casini, la cui Udc ha comunque molto poco da festeggiare, un’opposizione coesa. L’altra faccia della medaglia è che i dirigenti del centro-sinistra continuano imperterriti a suonare la loro lira, ciascuno per la sua piccola nicchia di elettori, mentre Roma, ovvero Palazzo Chigi, sta bruciando, di litigi, di intercettazioni, di mancanza di idee, persino di incapacità di formulare una visione condivisa e convincente per il prosieguo della legislatura. Mettere in ordine nelle finanze dello Stato è un compito meritorio anche se molti cittadini a livello locale, colpiti da qualche balzello inaspettato, possono non avere gradito.

Dire in maniera chiara e forte quale linea si perseguirà per rendere complessivamente l’Italia migliore dovrebbe adesso essere la priorità di Prodi e dei partiti che lo sostengono. Invece, sembra che le energie di un pò tutti gli uomini e le donne di partito e di governo si disperdano nel sostenere, da una parte, nel rifiutare, dall’altra, il Partito democratico che, oggi, è piuttosto un problema che una soluzione per il centro-sinistra e per il governo. Il quadro complessivo rimane, pertanto, nient’affatto promettente.

12 Giugno 2007
 
da ilpiccolo.repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Giugno 19, 2007, 12:08:14 pm »

Dietro i veleni
Gianfranco Pasquino


Difficile districarsi fra intercettazioni e smentite, fra investigazioni e dichiarazioni, fra (in)azione del governo e iperattivismo dei poteri forti. Per quel che riguarda tutta la faccenda delle intercettazioni e della loro pubblicazione sui quotidiani, la mia posizione è di assoluta fiducia nella magistratura e di richiesta che, eventuali violazioni del segreto istruttorio o altro, vengano non soltanto opportunamente, ma, data la delicatezza dei temi trattati, rapidamente sanzionate. Da quel che si riesce a capire, che non è molto e non è neppure detto che sia tutto, le radici di rapporti corrotti fra alcuni protagonisti affondano nel tempo e sono la conseguenza di escrescenze nate in rapporti perversi fra affari, logge massoniche, politici, che non sono mai state del tutto scoperte e sradicate.

Inevitabile è la sensazione, che si va, purtroppo, diffondendo, che il mancato sradicamento dipenda dal fatto che i coinvolti sono troppi e sono ancora in posizioni di potere, non soltanto affaristico, ma anche politico. Quanto ai poteri forti, penso che quando i politici ne parlano intendano riferirsi al mondo industriale, ad alcune aziende giornalistiche, forse, ma, naturalmente, a seconda di chi parla, alla stessa Chiesa, nonché a cordate che coinvolgono i servizi segreti e qualche associazione segreta. Naturalmente, quella che è un’accusa: tramare contro la politica e, in special modo, contro il governo, andrebbe corroborata da prove, preferibilmente abbondanti e inoppugnabili. Invece, quello che si percepisce è, che da un lato, queste prove sono, al massimo, indizi, spesso labili, non per questo non degni di essere accumulati e approfonditi. Dall’altro lato, che insinuazioni, ammiccamenti, silenzi fanno parte di una dura e soffocata lotta politica che taglia quasi trasversalmente la coalizione dell’Unione, con molti che non si espongono perché perseguono almeno un paio di obiettivi non dichiarabili.

Al contrario, nel centro-destra che, sottolineiamolo, non sta affatto meglio, essendosi molti e non marginali suoi esponenti spesisi nella difesa dell’ex-Governatore Fazio e, di conseguenza, di molti dei misfatti che stanno venendo alla luce grazie alle intercettazioni, si preferiscono sopire le tematiche e le eventuali responsabilità, et pour cause: in larga misura, quello degli affaristi è un mondo a loro molto contiguo, parente e cliente. Impegnata a conseguire traguardi fin troppo, per le sue dimensioni e energie, ambiziosi, buona parte dell’Unione combatte su due fronti che, inevitabilmente, si intersecheranno e che, probabilmente, simul stabunt simul cadent, rischiano cioè di avere effetti controproducenti l’uno sull’altro, di travolgersi vicendevolmente. Da un lato, è in corso la battaglia per la leadership del prossimo Partito Democratico nella consapevolezza che un minimo di coerenza vorrà che presto si giunga alla coincidenza delle due cariche, capo del partito e capo del governo, nella stessa persona. Dall’altro, si colloca uno stato di disagio dentro il governo e nei confronti di Prodi che, però, sa di essere più forte che nel 1998, meno sostituibile in parlamento grazie alla sua selezione/legittimazione attraverso le primarie e la totale consapevolezza che dopo di lui, fino a prova contraria, si staglia un altro governo guidato da Berlusconi (che è uno dei motivi per i quali Casini non ha nessuna fretta ad accelerare eventuali crisi di governo).

Naturalmente, i cosiddetti “poteri forti” pensano e agiscono in maniera del tutto particolaristica e di breve respiro pensando di ottenere qualche guadagno da un governo e da una politica deboli. Anzi, possono essere forti, non perché godano di vantaggi di posizione o risorse maggiori di quelle che un governo dovrebbe sapere mobilitare, ma perché il governo oscilla e non sa dove andare. I poteri sono forti perché la politica è debole. La soluzione non è oggi, ma non lo era neppure ieri, quella di affidare il potere politico al detentore di enorme potere economico, una soluzione profondamente illiberale e, incidentalmente, anche disfunzionale, come è stato ampiamente dimostrato dall’andamento dei conti pubblici e di quelli delle famiglie nel periodo 2001-2006, per chi volesse operare in un sistema economico decente. In democrazia, l’unico potere forte è quello del governo che detta le regole e le fa rispettare. Se non ci riesce, per di più trovandosi in una transizione politica e istituzionale che sembra non sapere e non volere affrontare e risolvere, ne segue un esito già acutamente e dolorosamente individuato da Antonio Gramsci: proliferano i germi della degenerazione. Temo che i governanti italiani, troppo intenti a combattere battaglie per linee politiche e istituzionali incrociate, stiano colpevolmente trascurando le conseguenze dei loro comportamenti e delle loro omissioni.

Pubblicato il: 18.06.07
Modificato il: 18.06.07 alle ore 8.42   
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 16, 2007, 12:14:07 am »

Una firma per la riforma

Gianfranco Pasquino


Accompagnata da critiche, ma anche da diffuse manifestazioni di sostegno politico, come quelle autorevoli di Piero Fassino, di Walter Veltroni e di Arturo Parisi, sta giungendo in dirittura d’arrivo la raccolta delle firme per il referendum elettorale. Nonostante alcuni non meditati pareri contrari, l’esito del ritaglio possibile della legge porcella, patrocinata dall’unanimemente non rimpianto ministro Calderoni, ma oggi ancora difesa da Berlusconi, non curante dei molti inconvenienti che emergono periodicamente, migliora leggermente un impianto pessimo. Purtroppo, con lo strumento referendario, almeno nell’interpretazione che ne ha finora dato la Corte Costituzionale, proprio non si può fare di più.

Quanto ai contenuti, eliminare le candidature multiple è certamente un passo doveroso. Cambiare la destinazione del premio di maggioranza al Senato dalle singole regioni a livello nazionale servirebbe ad evitare conseguenze che definirei, con un eufemismo, curiose. Infine, destinare il premio di maggioranza alla Camera al partito che ottiene più voti dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, incoraggiare a formare qualcosa di più e di meglio delle attuali coalizioni eterogenee e, sicuramente, sfiderò l’ira (e il ricatto) di Mastella e le preoccupazioni dei nanetti del centro-sinistra, a ridurre il numero dei piccoli partiti e a ridimensionarne il potere spesso del tutto sproporzionato rispetto al consenso elettorale.

Per quanto la mia posizione generale in materia di referendum sia che si tratta di uno strumento costituzionale dotato di una sua autonomia ed efficacia anche decisionale, non, dunque, semplicemente, uno stimolo, so, anzi, sappiamo tutti, almeno tre cose. Primo, che, comunque, per quanto politicamente «trasversale» (questa è una buona notizia, soprattutto se la trasversalità si riversasse nella ricerca di una buona legge elettorale) nella raccolta delle firme, il referendum può ancora essere fatto fallire, nullificato dalla chiamata ad opera di alcuni partiti ad una opportunistica astensione. Non mancano i precedenti, come nel 1999 e nel 2000. Secondo, che il Parlamento mantiene, entro certi limiti, peraltro non strettissimi, la facoltà di riformare l’esito a condizione che non stravolga gli obiettivi dichiarati, perseguiti e, eventualmente, conseguiti dai referendari. Terzo, che se lo «stimolo/pungolo» funziona(sse), il Parlamento avrebbe ancora la possibilità di scrivere e di approvare una legge elettorale prima del fatidico periodo 15 aprile-15 giugno 2008 quando dovrebbe svolgersi il referendum.

Contate e certificate le firme e dichiarati ammissibili i quesiti, potremmo attenderci una accelerata sul fronte della riforma elettorale, una sorta di vampata riformatrice. Purtroppo, le premesse non sono promettenti. Il ministro Vannino Chiti ha fatto, credo, più volte, il suo giro delle molte chiese partitiche, ma di punti di convergenza ne ha registrati abbastanza pochi e non tutti buoni. Infatti, se la convergenza dovesse prodursi soltanto su una legge proporzionale che piaccia a tutti perché tutti salva, allora, meglio lasciare perdere, e soprattutto non effettuare nessuna convergenza su un disegno di legge che garantisca la rinascita di un centro, tanto più forte quanto più confuso (nel gergo politico, il prodotto di un’ammucchiata).

È vero che la legge elettorale dovrebbe trovare un consenso ampio quanto possibile in Parlamento, ma è anche vero che il governo e persino il capo del governo Prodi si erano trovati in prima linea a denunciare il porcellum come «anti-democratico, incostituzionale, antipatriottico». Dunque, non sarebbe affatto riprovevole se il governo stesso, attraverso il suo ministro competente, delineasse i punti fermi di una buona riforma (da parte mia continuerò a tessere l’elogio del doppio turno francese in collegi uninominali) e poi la sottoponesse all’esame delle apposite Commissioni Affari Costituzionali. Semplicità e trasparenza potrebbero indurre a consigli e propositi, non soltanto buoni, ma anche incisivi e riformatori. Altrimenti, il discorso riprenderà, a referendum consumato, da posizioni ancora meno favorevoli ai piccoli partiti.

In conclusione, mi pare opportuno sottolineare che, anche se qualcuno minaccia la crisi di governo se venisse toccata la sua rendita di posizione, la sua è un’arma spuntata. Non ci sarà, ha autorevolmente garantito il Presidente della Repubblica, che sa e può, nessuno scioglimento anticipato se il Parlamento non avrà per tempo proceduto all’approvazione di una nuova e decente legge elettorale. Dunque, i riformatori parlamentari hanno le spalle opportunamente coperte. Sapendo, poi, che la pistola referendaria è davvero carica e utilizzabile, adesso debbono dimostrare di sapere scrivere e fare approvare una buona legge elettorale che serva a migliorare i rapporti fra elettori e eletti e a eleggere bene il Parlamento. Non mi pare un compito, né tecnicamente né politicamente, difficile.

Pubblicato il: 15.07.07
Modificato il: 15.07.07 alle ore 14.40   
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 19, 2007, 03:28:19 pm »

Una sinistra alla Willy Brandt
Gianfranco Pasquino


Prosegue il dibattito de l’Unità sulla «sinistra smarrita» aperto da Bruno Gravagnuolo. Su idee, strategie e forme politiche della sinistra nel quadro dell’economia globale e dell’egemonia liberista. Fino ad oggi sono intervenuti Michele Prospero, Roberto Gualtieri, Paolo Leon, Giuseppe Tamburrano, Adriano Guerra, Claudia Mancina, Piero Ignazi, Luciano Gallino.



Lo spazio organizzativo della sinistra in Italia è stato coperto per tutto il secondo dopoguerra dal Partito comunista, mentre il Partito socialista “copriva” gran parte dello spazio dell’elaborazione politica di soluzioni riformiste. La sinistra italiana non era affatto “smarrita”, semplicemente, ma malamente e seriamente, divisa. Oggi, quei due partiti non esistono più, ma idee e pratiche di sinistra continuano a circolare, minoritarie, osteggiate, espulse dal processo che porterà al Partito Democratico.

Credo che Bruno Gravagnuolo convenga, però, che nessun discorso sulla sinistra debba mai limitarsi a guardare al caso italiano nel quale, peraltro, mi trovo d’accordo con lui, la sinistra sta per sparire. Non si tratterà, come all’inizio degli anni novanta, quando in Europa ci si chiedeva con brillante gioco di parole «What is left?», di puro e rimediabile smarrimento, ma di triste, sostanziale scomparsa. D’altronde, se le parole significano qualcosa, Democratico è diverso (ed è anche meno qualificante) di Democratico di sinistra. Tuttavia, è molto difficile per chi non ha mai apprezzato e, al contrario, ha costantemente criticato, sia che fosse collocato dentro il Pci oppure che si trovasse nei Quaderni Piacentini e in Lotta Continua, come inadeguate le grandi socialdemocrazie occidentali, ripensare la sinistra, i suoi valori, i suoi ideali, le sue politiche concrete.

Naturalmente, nulla di tutto questo può essere minimamente ritrovato nel «Manifesto dei Valori» del Partito Democratico che, incidentalmente, dovrebbe già essere considerato superato dal «Manifesto dei coraggiosi per le riforme» (e dal programma “democratico” enunciato da Veltroni al Lingotto). Ma interventi più o meno estemporanei non ricostruiscono nessuna sinistra. Eppure, ne sappiamo molto di che cosa la sinistra (social-democratica) è stata e che cosa può continuare ad essere grazie ai suoi partiti, ai suoi governi, alle sue centinaia di milioni di elettori reali.

Il punto centrale, nonostante tutte le critiche che gli sono state rivolte, raramente condivisibili, è quello che ha reso giustamente famoso il libretto di Bobbio, «Destra e sinistra» (da ultimo 2004): l’eguaglianza. La destra accetta le gerarchie; la sinistra persegue le eguaglianze storicamente possibili. Declino e preciso la tematica lungo due versanti. In primo luogo, credo che la sinistra debba prendere le mosse dall’eguaglianza delle opportunità e non porsi il problema dell’eguaglianza di esiti poiché deve sapere anche favorire i talenti e premiare i meriti, consentendo a chiunque di perseguire la propria ricerca di eguaglianza (e di felicità, che non si trova in politica). Secondo, l’eguaglianza di opportunità si persegue e si consegue attraverso un uso accorto, intelligente e flessibile della politica. Come ha scritto con grande acume Giorgio Ruffolo, la sinistra di questo secolo (del millennio parlerò un’altra volta...) accetta l’economia di mercato, naturalmente, quando i suoi operatori ne rispettano le regole, ma non la società di mercato. Infatti, interviene con la politica a produrre e riprodurre quelle eguaglianze necessarie a costruire una società giusta.

La conseguenza è che la politica della sinistra deve appoggiarsi su un consenso democratico, a monte, quando vince le elezioni, ma anche a valle, quando la sinistra al governo decide e poi, argomentando, giustificando, persuadendo, va successivamente a conquistarsi il consenso politico-elettorale. Per tutto questo, la sinistra fa leva su regole, procedure, istituzioni che consentano la competizione trasparente fra proposte e schieramenti.

L’orizzonte della sinistra non è quello della durata di un governo. La sinistra non vive lo spazio di una legislatura. Per questo si occupa della solidarietà fra generazioni e, naturalmente, della mobilità sociale. Dunque, la riforma del welfare e, più concretamente, del sistema pensionistico, non è un semplice affare contabile, anche se dei conti bisogna per l’appunto tenere conto, come sostiene Luciano Gallino, in qualche modo contraddicendo Guglielmo Epifani, che non ha offerto criteri alternativi a quello della “calcolatrice” per effettuare politiche riformiste. È, invece, sempre, una faccenda di giustizia sociale, in questo caso fra generazioni, non tanto a futura memoria. Un discorso simile vale sia per la formazione permanente dei lavoratori e per la flexicurity, i cui effetti positivi sembrano sfuggire a troppi studiosi italiani, sia per gli investimenti in special modo in istruzione.

Ma, davvero, la sinistra che vorremmo deve caratterizzarsi con riferimento ad un programma chiaro, preciso, articolato e, soprattutto, lungo, corposo, massiccio in modo da tenere occupati tutti i suoi intelligentissimi e prolificissimi intellettuali di riferimento (sia chiaro che mi ci metto anch’io)? Dove sono finite le emozioni, non tutte inventate da Walter Veltroni? La sinistra è, da un lato, capacità di comprendere e di “empatizzare”; dall’altro, voglia di organizzare, di progettare e di rischiare. Sul secondo elemento, la sinistra italiana, ma non quelle europee, da Mitterrand a Blair, non è mai stata troppo brillante. Ha piuttosto praticato la guerra di posizione e, comunque, non si è mai assunta la responsabilità delle sconfitte. Incidentalmente, lasciando da parte molti altri elementi critici, Craxi non fu sinistra europea perché non organizzò la sua politica e non accettò mai rischi. Quanto alla comprensione e all’empatia, le caste dei politici di sinistra hanno perso la loro credibilità. Al livello più elevato di comprensione e di empatia collocherei, come esempio luminoso e non soltanto perché desidero che non venga mai dimenticato, il gesto di un grande politico di sinistra, il socialdemocratico Willy Brandt quando si inginocchiò ad Auschwitz. Altri tempi, altri politici, altra sinistra.

Pubblicato il: 19.07.07
Modificato il: 19.07.07 alle ore 13.00   
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 25, 2007, 05:43:55 pm »

Eppure qualcosa si muove

Gianfranco Pasquino


È giusto essere esigenti con il governo Prodi. Ha promesso molto, non solo in termini di sostanza, ma anche di stile. Cosicché, anche, da un lato, i provvedimenti per la riduzione dei troppi e ingiustificati costi della politica, dall’altro, maggiore attenzione all’etica in politica, sono risposte da dare presto sia all’elettorato del centrosinistra sia a quei settori che sanno e vogliono giudicare senza partito preso. Lentamente, qualcuno fra noi, esigenti, ma anche impazienti, aggiungerebbe sicuramente, fin troppo lentamente.

Magari anche con qualche compromesso che avremmo preferito non venisse fatto, però il governo Prodi sta effettivamente risolvendo i più urgenti problemi del Paese. L’economia migliora da tutti i punti di vista e la riforma delle pensioni è un passo avanti importante, ancorché non definitivo. Le liberalizzazioni, che certamente potranno essere spinte più in là, stanno già dando buoni risultati. In politica estera, l’Italia ha riacquisito un ruolo dignitoso a livello europeo e nel Medio-oriente. Se davvero dobbiamo guardare al bicchiere e lo facciamo senza pregiudizi, lo vedrei pieno al 60-65 per cento. Però, i pregiudizi esistono, non sono tutti infondati, meritano di essere discussi e eventualmente sfatati.

Farebbero molto male Prodi, i suoi ministri e i suoi consiglieri se trascurassero i sondaggi, concordemente negativi, sulla popolarità e sul rendimento del presidente del Consiglio e del governo, che sembrano addirittura aprire spazi alla comparsa di un uomo forte, il quale, ad ogni buon conto, non potrebbe che presentarsi come un politico decisionista, persino di centro-sinistra, e non come, anche se gli aspiranti non mancano, un leader autoritario. Fino ad oggi, seppure con qualche lentezza e esitazione di troppo, la mediazione di Prodi ha funzionato in maniera ragionevolmente apprezzabile, in particolare, se teniamo conto che deve costantemente affrontare due problemi che hanno radici diverse, ma profonde: una strutturale e una comportamentale. La radice strutturale, che è, pertanto destinata a fare la sua ricomparsa, è rappresentata dalla risicatissima maggioranza in Senato, con la presenza di molti senatori (e capetti dei partitini) aspiranti al loro giorno di massima gloria: fare cadere il governo perché loro sono anime belle, pacifiste, operaiste, sinistre. La radice comportamentale dei problemi del governo, più diffusa e, quindi, a mio modo di vedere, alquanto più pericolosa, è rappresentata da coloro che, nel loro irrefrenabile bisogno, politico, elettorale e, forse anche narcisistico, di distinguersi esacerbano i conflitti interni, tirano la corda senza calcolare le conseguenze.

La risposta di metodo del governo, che sintetizzo nel portavoce unico e nei dodici punti di Caserta, non ha finora ridimensionato la microconflittualità che, rilevo non tanto incidentalmente, verrà ridotta soltanto quando diminuirà il numero dei loro portatori, sani e malati (questa osservazione mi consente di dare il benvenuto al raggiungimento del quorum delle firme referendarie). La risposta di sostanza è proseguire lungo la strada delle riforme. È una strada quasi obbligata, ma non per questo meno impervia. Riguarda il sistema radiotelevisivo e dei media, magari prendendo subito in serissima considerazione i suggerimenti che vengono dalla Commissione europea riguardo il disegno di legge Gentiloni. Riguarda il conflitto di interessi, problema cruciale in una democrazia liberale, che non fa male soltanto alle viscere degli antiberlusconiani integrali, ma allo stesso modo di fare politica. Riguarda, senza esaurire l’elenco, la legge elettorale. Prodi si vanta di essere un passista. Commetteremmo un errore se gli chiedessimo di accelerare il ritmo oppure di impegnarsi in spasmodiche volate. L’affollatissimo gruppone politico e ministeriale nel quale si trova non sarebbe comunque capace di creare il famoso “treno” di cui approfittano i grandi velocisti. Gli chiediamo di procedere metodicamente, attraverso mediazioni possibili e argomentazioni convincenti, senza trionfalismi, magari accettando le critiche, persino quelle distruttive, che contengano elementi utili.

Da ultimo, il centro-sinistra nel suo insieme dovrebbe sapere che l’elezione di un segretario del Partito Democratico potrebbe avere, anche se non desiderati, effetti destabilizzanti e che la futura legge elettorale non sarà priva di conseguenze sulla possibile trasformazione dello schieramento parlamentare a sostegno del governo. Qualsiasi legge proporzionale, a prescindere dalla sua nazionalità, alla tedesca o all’italiana, non servirà a rafforzare Prodi, ma darà una immeritata chance sia ai sedicenti coraggiosi che agli aperturisti furbetti. Nel centro-sinistra chi vuole sfuggire allo scenario prospettato da Arturo Parisi («Nuove alleanze, nuove elezioni») deve rafforzare il bipolarismo, magari scrutinando severamente chi si chiama fuori e chi vorrebbe farsi chiamare dentro. Ma a dettare le condizioni sarà il capo del governo in carica, a maggior ragione se continua a dimostrare, anche a noi, esigenti e impazienti, di sapere governare e di riuscire a riformare.

Pubblicato il: 25.07.07
Modificato il: 25.07.07 alle ore 13.58   
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 26, 2007, 07:41:02 pm »

Governo e riforme

Una coalizione alla svolta

di Michele Salvati

 
Credo che bisogni tener distinto, per quanto è possibile, il giudizio sulle riforme di cui il Paese ha bisogno dalla valutazione di quanto è possibile fare, date le circostanze politiche. Queste possono essere fatte coincidere con i condizionamenti che il governo subisce dalla eterogenea alleanza che lo sostiene.

In questo caso, il recente accordo sulla previdenza può persino ricevere una valutazione positiva: poteva andar peggio e il governo ha avuto il merito di piegare le posizioni più oltranziste presenti nella coalizione che lo sostiene e nel sindacato. Se ci si attiene al primo criterio — il bene del Paese — il giudizio non può che essere negativo, sia dal punto di vista degli equilibri di bilancio pubblico, sia da quello dell'equità: ci sono impieghi assai più urgenti ed equi dei dieci miliardi che ci costeranno nei prossimi anni la trasformazione dello scalone in scalini, l'attenuazione dell'aumento previsto nell'età della pensione per poche decine di migliaia di lavoratori e le altre misure su cui è avvenuto l'accordo tra governo e sindacati. Ammesso che dieci miliardi bastino. E ammesso che l'accordo non venga rimesso in discussione a settembre. Francesco Giavazzi e Nicola Rossi, nei loro commenti dei giorni scorsi su questo giornale, si sono attenuti al primo criterio e in buona misura condivido le loro valutazioni negative. Eugenio Scalfari, nel suo articolo di domenica scorsa su Repubblica, si attiene sostanzialmente al secondo, e da questo fa discendere un apprezzamento per come Prodi e il governo si sono mossi nelle difficili circostanze che si trovavano a fronteggiare.

Se il primo criterio di giudizio — il bene del Paese secondo criteri di efficienza e giustizia ampiamente condivisi— pecca di astrattezza, il secondo — quanto bravo è stato Prodi a farcela, nonostante il sindacato e i partiti estremi della sua coalizione — pecca di partigianeria o di giustificazionismo: mica ce l'ha ordinato il dottore di tenerci questa coalizione o di ottenere l'assenso del sindacato su tutte le principali politiche economiche e sociali che il governo ritiene giusto intraprendere. Sempre tenendo distinti i due piani di giudizio, il loro conflitto richiede di conseguenza che se ne affronti un terzo. Per non mettere in gioco troppe variabili — altrimenti dovremmo valutare la capacità di far riforme da parte del centrodestra, anch'essa non molto elevata a giudicare dall'esperienza della scorsa legislatura — partiamo dall'ipotesi che questo governo duri o comunque la legislatura non si interrompa. Il terzo piano di giudizio può allora essere condensato in questa domanda: esiste la possibilità che, in futuro, e su temi cruciali come la politica estera e le politiche economico-sociali, i condizionamenti dei partiti della sinistra estrema e di alcuni settori del sindacato siano meno pressanti e di conseguenza il governo possa produrre le riforme di cui il Paese ha bisogno? Ci sono due grossi fatti politici in corso di gestazione. Il primo è la riforma elettorale: l'altro ieri scadeva la raccolta delle firme per il referendum, è quasi certo che le firme risulteranno sufficienti e molto probabile che la Consulta autorizzerà il voto nella prossima primavera. Dunque, o si terrà il referendum, o il parlamento farà una nuova legge elettorale, o cadrà il governo e, forse, avrà termine la legislatura. Il secondo fatto politico riguarda la nascita del Partito Democratico, in sostanza l'unificazione dei riformisti del centrosinistra. Non potrebbero questi due fatti indebolire seriamente le componenti meno riformistiche della coalizione e del sindacato e dar luogo ad una nuova fase di questo governo, o addirittura a un nuovo governo, che sappia attuare le riforme di cui il Paese ha bisogno? Il referendum è un'occasione straordinaria per ridurre il potere di condizionamento dei piccoli partiti, estremisti o meno. E il Partito Democratico ha un interesse vitale a presentarsi come partito delle riforme, a mostrare il più presto possibile che la sua nascita fa differenza. Resterebbe sempre la debolezza numerica della maggioranza, probabilmente accentuata da qualche cedimento sul lato sinistro della coalizione nel caso dovesse attuarsi una svolta riformista. Ma, com'è già accaduto dopo la caduta del primo governo Prodi, nell'autunno del 1998, un qualche «straccione di Valmy» potrebbe essere disponibile a sostenere il governo e ad evitare l'interruzione della legislatura. Stiamo però entrando nel regno delle fantasticherie estive e forse è opportuno fermarsi qui.

26 luglio 2007
 
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 30, 2007, 05:10:52 pm »

Fini, il problema è Berlusconi

Gianfranco Pasquino


Chi vuole migliorare il funzionamento del sistema politico italiano deve porsi prioritariamente, anche se in aggiunta alla riforma elettorale e alle riforme istituzionali, il compito di ristrutturare il sistema dei partiti. So benissimo che istituzioni, regole elettorali e tipologie di partiti si influenzano reciprocamente, ma sono anche consapevole che, per i dirigenti di partito, se e quando lo vogliono, è più facile partire dalla ristrutturazione della loro organizzazione che dalla trasformazione di regole per cui debbono trovare consensi più ampi e, qualche volta, trasversali.

Anche se in maniera che rimane da decifrare, il percorso che porta verso il Partito Democratico ha innescato reazioni nello schieramento di centro-destra. Casini pensa di cavarsela in maniera indolore se gli riuscirà di strappare ai fin troppi proporzionalisti del centro-sinistra un luccicante sistema elettorale tedesco. Invece, Fini ritiene che sia opportuno andare verso un partito unificato del centro-destra, non soltanto contrappeso al Partito Democratico, ma anche concorrente più credibile e più agguerrito, in una versione che viene spesso definita «gollista». Oltre che opportuno un nuovo grande partito di centro-destra potrebbe essere indispensabile se passasse il referendum che attribuisce un cospicuo premio di maggioranza al partito singolo che avrà più voti.

Con qualche rivelatrice incertezza linguistica, già Berlusconi aveva qualche tempo fa indicato il partito «unico» come sbocco della Casa delle Libertà, purché fosse chiaro che la leadership doveva rimanere nelle sue mani. Poi, non se ne fece niente a riprova che il Cavaliere non è né un costruttore di istituzioni né un riformatore della politica. Adesso, che la bandiera del partito unificato del centro-destra l’ha presa in mano il leader di Alleanza Nazionale, i collaboratori di Berlusconi minimizzano e evadono. La prospettiva di Fini viene abitualmente definita dai commentatori, è difficile dire quanto strumentalmente, come quella della costruzione di un partito gollista di centro-destra, oggi ulteriormente celebrato non soltanto a causa della vittoria di Sarkozy, ma in special modo con riferimento alla spregiudicatezza e incisività del suo stile di leadership. Le ipersemplificazioni ovvero gli errori anche gravi di qualsiasi attribuzione di caratteristiche e qualità golliste alla destra italiana sono numerosi. Il gollismo non ha mai avuto nulla da spartire con una destra di origini fasciste che, anzi, combatté intransigentemente e dalla quale fu osteggiato fino ad arrivare ad alcuni tentativi di assassinio del Gen. De Gaulle. Rispetto all’estrema destra francese, i gollisti hanno sempre fatto valere la «disciplina repubblicana»: nessun alleato su quel fianco e nessuna desistenza, neppure quando sarebbe risultata elettoralmente utile, come,ad esempio, con i candidati di Le Pen nel 1997. Inoltre, costitutivamente il gollismo consistette in un’efficace combinazione di «compagnons de la Résistance» e di tecnocrati di classe medio-alta. Non sfruttò nessun rapporto privilegiato con la religione. Nella sua area politica non ebbe concorrenti. Infine, diede vita ad un assetto costituzionale fortemente innovativo.

Dal canto suo, inevitabilmente, tralasciando tutte queste differenze, Fini deve continuare nella sua meritoria opera di «depurazione» di Alleanza Nazionale dai residui di un passato, per molti nient’affatto superato, che fu neo-fascista. In più, deve fare i conti con Berlusconi e il suo movimento politico Forza Italia che spregiudicatamente si accoda, quando gli fa comodo, ai neocon e ai teodem, che ha poco senso dello Stato, che non può permettersi di abbandonare l’estremismo populista della Lega. Eppure, per quanto assediato da populismo, patrimonialismo e cattolicesimo, lo spazio politico per un moderno partito di destra, sempre assente in Italia (anche se dovremmo ritenere tale la confortante esperienza della Destra Storica), esiste. Probabilmente, ne è consapevole anche Berlusconi che, però, teme sia la presa di distanza di Casini, ma non la contrasta con la proposta di un sistema elettorale coerentemente maggioritario, sia la sfida di Fini sia la deriva leghista. Cosicché il paradosso è che chi, come Berlusconi, ha il potere politico di lanciare l’operazione «moderno partito di destra» ai confini con la visione gollista di uno Stato forte, efficiente, modernizzatore, preferisce lasciare lucrare le sue rendite di posizione antipolitiche, populiste, favorite dall’inadeguatezza dell’apparato statale italiano. Chi, invece, come Fini, deve, anche per ragioni legate all’evoluzione complessiva dello schieramento partitico italiano (e europeo), accelerare un’aggregazione della destra, potenziare, senza clientelismo, la macchina statale, formulare una visione nazionale, non ha abbastanza potere politico per imporla e qualche volta è costretto ad accettare fin troppi compromessi. Per di più, si ha la non peregrina impressione che, dentro Alleanza Nazionale, siano annidati non pochi berluscones che stanno a guardare, ma che rimangono sempre pronti a rispondere, al momento opportuno, al richiamo del Cavaliere. Non è la prima volta che Fini lancia la sfida. Resta da vedere con quanta intensità e con quanto impegno riuscirà a sostenerla.


Pubblicato il: 30.07.07
Modificato il: 30.07.07 alle ore 7.49   
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 03, 2007, 10:40:05 pm »

L’esempio della Margherita

Gianfranco Pasquino


È già possibile sostenere che, dal punto di vista dell'ispirazione ideale del Partito Democratico, alcuni dirigenti della Margherita stanno offrendo una interpretazione più movimentata e più interessante della competizione per la leadership di quella data dal gruppo dirigente dei Democratici di Sinistra.

Infatti, dopo la, del tutto paleo burocratica e francamente ingiustificabile, esclusione di Furio Colombo (che fa male a non accettare la riammissione), per i Democratici di Sinistra, è rimasto in gara il solo Walter Veltroni.

A ragione, molti si chiedono quanto più trascinante e entusiasmante sarebbe stata la competizione se anche Bersani, come aveva preannunciato, avesse messo in campo le sue idee e la sua persona per un partito di combattimento.

A maggior ragione, l’opzione Bersani sarebbe servita a precisare tanto le differenze, di priorità, di toni, di stile e qualità di leadership, quanto le convergenze, su un terreno che, dissodato da una pluralità di candidature, non avrebbe prodotto lacerazioni.

Invece, la presenza di un candidato unico dei Ds alla segreteria nazionale del Partito Democratico è stata subito interpretata a livello locale, con grande naturalezza e con grande sollievo, come il via libera all'imitazione: un candidato unico dei Ds (prima che si sciolgano...) alle varie segreterie regionali. Come soluzioni di questo tipo riescano ad attrarre energie nuove, a suscitare consenso aggiuntivo, ad accrescere e a rendere incisiva la partecipazione politica, a produrre rinnovamento generazionale e di genere, mi risulta del tutto incomprensibile.

Forse, sarebbe stato utile mandare dal vertice un inequivocabile segnale «rompete le righe» incoraggiando da subito e per tutta la fase di preparazione delle candidature e di campagna elettorale per l'Assemblea Costituente, la contaminazione politica e culturale.

Adesso, il test si sposta sulla formazione delle liste nei 475 e sui loro collegamenti che mi auguro saranno variegati, originali e fantasiosi. È sperabile che non tutti vogliano già saltare sul carro del vincitore annunciato il quale ha sicuramente capito che non ha proprio nulla da guadagnare da ammucchiate indiscriminate di liste a suo favore.

Di fronte al monolitismo dei Ds, la Margherita ovvero, meglio, alcuni suoi dirigenti hanno scelto, non so se per virtù o per necessità, un'altra strada. Vero è che Franceschini è stato abilissimo a mettersi fulmineamente nel ticket con Veltroni (incidentalmente, scrutando nei regolamenti di ticket non ho visto neppure l'ombra, mi sbaglio?), ma le candidature di Rosy Bindi e di Enrico Letta sembrano dettate da preoccupazioni genuinamente politiche e programmatiche conformi ad una visione dinamica e propulsiva del Partito Democratico (alla quale sarebbe stato utile anche l'apporto della candidatura di Arturo Parisi).

Con malizia, vorrei rilevare come, la casa di provenienza di Bindi, Franceschini e Letta, ovvero la Dc, garantisse non pochi spazi di competizione per la leadership, sempre molti di più e più aperti di quelli storicamente offerti dal Pci. Credo che dobbiamo essere grati soprattutto a Rosy Bindi, per avere dato corpo alle due indicazioni di fondo - sparigliare e contaminare - che potrebbero fare del Partito Democratico una struttura politica davvero nuova e dinamica, trasparente e attraente.

Il ticket Veltroni-Franceschini dà, inevitabilmente, magari anche contro la loro volontà (attendo spiegazioni convincente), ma oggettivamente, l'impressione che si tratti di una fusione di (gruppi) dirigenti appena ringiovaniti. E fusione non significa contaminazione.

La candidatura di Rosy Bindi offre, invece, la grande occasione di sparigliare il gioco della leadership e di iniziare, come sembra abbiano compreso alcuni diessini, anche un concreto procedimento di contaminazione culturale. Aggiungo che mentre Veltroni e Franceschini, da un lato, e Letta, dall'altro, hanno impostato le loro candidature quasi come se si trattasse di scegliere il futuro candidato alla carica di Presidente del Consiglio (e di Vice-presidente), formulando proposte programmatiche in qualche caso alternative a quelle del programma dell'Unione e delle priorità del documento di Caserta, Rosy Bindi, senza rinunciare ad esporre alcune sue idee, sulle quali è possibile confrontarsi e misurare la disponibilità alla contaminazione, ha messo in chiaro che concorre alla carica di segretaria del Partito Democratico.

Ecco, questo è certamente il punto di maggiore importanza.

Che tipo di partito, vale a dire con quale organizzazione, con quale radicamento, con quale distribuzione territoriale del potere, con quale democrazia interna, desiderano costruire Veltroni-Franceschini e Letta? Le pure scarne indicazioni di Bindi, unitamente alla sua disponibilità in caso di vittoria a lasciare la carica di Ministro per dedicarsi a tempo pieno al Partito, e la sua stessa decisione di entrare in una competizione per la leadership che sembra(va) già scontata, sono un messaggio confortante per tutti coloro che, in questi anni, e negli anni a venire, vorrebbero avere un veicolo politico dinamico, flessibile, decentrato la cui leadership sia, come ripete numerose volte il pur tanto (e giustamente) criticato «Manifesto dei Valori» (verrà riscritto?), non attribuibile dall'alto, ma effettivamente contendibile.

Pubblicato il: 03.08.07
Modificato il: 03.08.07 alle ore 8.18   
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« Ultima modifica: Agosto 06, 2007, 11:06:54 am da Admin » Registrato
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 18, 2007, 10:59:48 pm »

Pd, nuovo partito nuovo programma

Gianfranco Pasquino


Finora, chi piú, Veltroni, chi meno, anche per minori mezzi a loro disposizione, Rosy Bindi ed Enrico Letta, i tre maggiori candidati alla segreteria del Partito Democratico, si sono espressi su tematiche generali, su elenchi di politiche, anche belle, da fare, sulla loro visione di quello che un governo piuttosto che un partito, nuovo, dovrebbe fare. Non c’é niente di male in questo: piú idee, buone, circolano, meglio é anche per l’insieme del centro-sinistra. È anche giusto adoperarsi affinché un partito, soprattutto in ragione della sua novitá, riesca a dotarsi di un programma di respiro e di lungo periodo. Era qualcosa di cui, ad esempio, i socialdemocratici tedeschi si sono sempre vantati, salvo poi avere non pochi problemi nel tradurre in pratica il loro programma “fondamentale”.

Tuttavia, un partito a vocazione maggioritaria ha quasi il dovere di formulare un programma nuovo, diverso e persino aggiuntivo rispetto a quello vigente dell’Unione. Peró, non dimentichiamo che questa effervescenza programmatica implica un rischio che Bindi ha subito cercato di sventare. Il rischio é che il leader del partito democratico prossimo venturo, attrezzato (appesantito?) dal suo programma, non finisca per apparire, inevitabilmente, persino contro le sue intenzioni e contro la sua volontá, come il successore designato al capo dell’attuale governo, Romano Prodi, per di piú se confortato da qualche milione di voti di coloro che si iscriveranno al partito.

Anche una volta che fossimo soddisfatti dalla sfida programmatica fra i candidati, rimarrebbe quello che considero essere il problema vero. L’esigenza di un nuovo partito nasce dalla constatazione che i due, neppure troppo vecchi, partiti contraenti hanno espresso e maturato, dello stallo del loro consenso elettorale che non cresce, anzi risulta stabilizzato a livelli piuttosto insoddisfacenti. Lo stallo potrebbe essere conseguenza di programmi inadeguati, ma potrebbe anche essere, questa é, comunque, la mia opinione, un problema che deriva dalla inadeguatezza e fragilitá della struttura dei due partiti. Qualche anno fa, sulla scia dell’ennesima sconfitta elettorale nel Nord, Fassino e Bersani avevano lanciato l’idea di un partito del Nord, alla quale si era inmediatamente dichiarato disponibile anche Enrico Letta. Recuperare nel Nord, insediarvisi efficacemente, a partire da Milano, non é soltanto un’operazione elettoralistica, é soprattutto una grande, eccitante operazione politica di enorme rilievo. Significa riannodare rapporti con settori avanzati della societá (di cui, peraltro, il Nord non ha l’esclusiva, ma certamente una importante sovrarappresentanza). Significa ottenere input e legittimazione aggiuntiva.

Quell’idea non é mai, colpevolemnte, stata tradotta in effettiva e tenace pratica e il centro-sinistra continua ad annaspare nel Nord, a perdere regolarmente, ad essere debole, in qualche cosa irrelevante, se non inesistente. Chi desidera ricostruire la politica in regioni dove l’antipolitica continua ad essere sulla cresta dell’onda, sará oportuno dotarse di un’organizzazione partitica all’altezza della sfida. In materia, non ho finora sentito parole adeguate da Veltroni, Bindi, Letta. Quanto al rinnovamento del partito, alcune regole interne dovranno essere molto rigorosamente formulate affinché si sappia in base a quali criteri il nuovo partito recluterá, promuoverá, sostituirá i suoi dirigenti e i suoi candidati alle cariche elettive: quote e limite ai mandati? Si dice che troppi candidati nelle liste a sostegno dei tre papabili segretari stiano posizionandosi per il futuro prossimo, addirittura costruendo liste istituzionali. Sarebbe stato bello, come ho letto in un sito ulivista (www.welfarecremona.it) se fosse stata introdotta la regoletta che almeno la metá dei partecipanti all’Assemblea Costituente si impegna a non ricoprire cariche elettive nei prossimi cinque anni, e quindi a non fare regole che possano giovare soprattutto a loro.

Infine, si é giá aperto il problema della struttura correntizia del prossimo partito. Molte opinioni, ma anche storie comuni e condivise, culture politiche che, invece di contaminarsi, si proteggono, troppo difficile imporre vera competizione e ricambio: sono queste le giustificazioni per accettare la presenza di correnti, che inevitabilmente vorranno posti e cariche, ma quanto ferreamente organizzate?. Quale é in materia la posizione dei candidati alla segreteria del Pd? Un partito di correnti, come dimostró spesso brillantemente la Democrazia Cristiana, non é certamente il male assoluto. Non é altrettanto certamente, come dimostró il Psi prima di Craxi, neppure il bene assoluto. Allora dicano i candidati che cosa sono disposti ad accettare e che cosa vogliono, invece, contrastare e impedire. Insomma, credo che sia legittimo esigere nei prossimi due mesi che tutti i candidati delineino il modello di partito da loro preferito e lo discutano in pubblico. Magari anche in confronti “all’americana” che consentano ai loro elettori di farsi piú che un’idea e anche in base alle conoscenze acquisite decidano se votarli oppure no. Il resto verrá, in parte, ma solo in parte, affidato all’Assemblea Costituente dove é molto preferibile arrivare con progetti di modelli in avanzato stato di formulazione poiché 2.500 partecipanti non potranco certamente scendere nei dettagli. Chi vuole un partito nuovo e lo promette ha anche il dovere di dire quanto nuovo e come potrá essere in termini di struttura, di radicamento, di cultura politica, di democrazia interna.

Pubblicato il: 18.08.07
Modificato il: 18.08.07 alle ore 11.17   
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 27, 2007, 03:31:48 pm »

Primarie? No. Elezione diretta

Gianfranco Pasquino


Qualcuno o, forse, troppi hanno sottovalutato i problemi che sono insiti nella costruzione di un partito nuovo. È un'operazione molto rara e raramente riuscita con successo. Purtroppo, invece di riflessioni approfondite, che pure erano state richieste e, persino, offerte, vi sono state accelerazioni frettolose che, come vediamo da qualche settimana e come, temo, ci accorgeremo ancora di più nel prossimo mese, provocano tensioni e conflitti che, a determinate condizioni, potrebbero essere evitati, anche perché non sono affatto conflitti creativi.

Intendo fare un po’ di chiarezza su alcuni aspetti importanti.

Il primo è la definizione corretta dell'evento del 14 ottobre. Non saranno elezioni primarie, come furono quelle del 16 ottobre 2005 quando, fra una pluralità di candidati, gli elettori designarono Romano Prodi quale sfidante di Berlusconi per Palazzo Chigi. Saranno, invece, elezioni vere e proprie del segretario (del capo) del Partito Democratico. In concomitanza e, aggiungo, inopinatamente, si eleggeranno anche tutti i segretari regionali. Questa concomitanza fa piazza pulita di qualsiasi propensione, pure espressa da Veltroni, ad avere un partito federale con le organizzazioni regionali che godano di forte autonomia dal centro. Il rischio è che, a livello regionale, emergano i posizionamenti che Veltroni giustamente critica, ma che non sembra vedere proprio dove hanno già luogo.

Contrariamente a quel che ha scritto Ceccanti, ritengo che le regole possano essere discusse e debbano anche, quando esiziali, essere cambiate. Per quel che riguarda l'abbinamento della elezione del segretario nazionale con quella dei segretari regionali, la regola può essere subito cambiata poiché la scadenza di presentazione delle candidature è il 12 settembre. Una volta ascoltati gli umori e i suggerimenti dell'Assemblea Costituente, anche in materia di quale partito costruire, si potrà, in un secondo tempo, procedere ad una migliore scelta dei segretari regionali. Segretari eletti in concomitanza con il segretario regionale sono tutto meno che garanzia di partito federale. Al contrario, rischiano di essere e di volere essere dei potenti rappresentanti in sede regionale del segretario nazionale (in uno scambio, non virtuoso, di voti).

Il secondo punto che sollevo è quello della competizione fra candidati. Sicuramente, è aspra, ma non esageratamente tale. Lo è anche perché, ed è un peccato che Veltroni non se ne sia accorto, ci sono troppi suoi pretoriani, autorizzati o furbescamente auto-autorizzatisi, che vogliono correre sulle code del potenziale vincitore, salire sul bandwagon (anzi, sul carro del, probabilissimo, vincitore, si sono già installati). Per evitare che questo deleterio fenomeno si estenda a macchia d'olio, suggerirei a Veltroni di non procedere lui personalmente (operazione di stampo alquanto notabilare) alla nomina delle quattrocento personalità che desidera partecipino all'Assemblea Costituente, ma di dare indicazione ai suoi numerosi comitati elettorali che siano loro ad aprire le liste collegio per collegio, magari, visto che si è rinunciato troppo presto ad indire opportune primarie a questo livello, giustificando le candidature prescelte e proponendo anche, lo so che sarà molto difficile, se non improbabile, candidature di dissenzienti rispetto alle opinioni prevalenti in materia di organizzazione del partito, di riforme istituzionali, di alleanze di governo. Poiché queste opinioni esistono sarebbe opportuno e fecondo poterle ascoltare in sede di Assemblea Costituente.

In genere, i dibattiti aspri e i conflitti fra personalità dovrebbero non soltanto diffondere informazioni, ma anche condurre alla mobilitazione dell'elettorato potenziale. Questo è il terzo punto che elaboro. Dopo averne fatto grande e improprio uso, qualcuno sostiene oggi che non dovremmo fare nessun paragone con le primarie del 2005. Ho già detto che quella del 14 ottobre non sarà affatto una primaria, ma sarà una concretissima elezione popolare diretta del segretario, incidentalmente, del tutto inusitata nei partiti politici, che mira ad ottenere l'apporto non soltanto degli iscritti ai due partiti contraenti, ma di tutti gli elettori dei Ds e della Margherita. Allora, perché mandare un segnale di preoccupazione e di debolezza sostenendo che l'asticella deve essere fissata al milione di partecipanti? Facciamo un po' di conti. Ricordo che alla Camera per la lista «Uniti nell'Ulivo» è stata votata da 11 milioni e 930 mila elettori; e al Senato, la somma dei voti di Margherita e Ds giunge a 9 milioni e mezzo ai quali credo sia giusto aggiungere 1 milione e 400 mila circa di elettori delle liste Insieme per l'Ulivo. Aggiungo che il 14 ottobre potranno votare anche i sedicenni. Perché, allora, dobbiamo autoingannarci o autodeprimerci (a meno che non si tratti di mettere le mani avanti...) sostenendo che un milione di votanti sarà già un successo? Meno di due milioni e mezzo costituirà, a mio parere, un clamoroso insuccesso. Sia chiaro, però, che se è giusto sostenere che sono i candidati alla segreteria del Partito Democratico che debbono suscitare la partecipazione, è ancora più giusto affermare che saranno i dirigenti locali che, continuando nelle loro lotte intestine, nelle loro discriminazioni, nelle loro preclusioni, nelle loro spartizioni a tavolino, proponendo candidature uniche, bloccate ed esclusive, finiranno per impedire un'alta partecipazione.

Spero che dire tutto questo adesso, a voce alta, chiara e forte, non venga considerato un delitto di lesa maestà di nessuno. Tutti nel centro-sinistra, se vogliono continuare a governare, hanno interesse a che nasca un buon Partito democratico. E alcune critiche perseguono e mirano a conseguire anche questo esito.

Pubblicato il: 27.08.07
Modificato il: 27.08.07 alle ore 10.16   
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 03, 2007, 06:50:30 pm »

La politica delle feste

Gianfranco Pasquino


Tradizionalmente, le feste di partito o di capi di partito (la Telese di Mastella) servono sia a incoraggiare e mobilitare i simpatizzanti che a formulare qualche idea politica nuova, sottoporla a confronto, farla circolare sulle pagine dei giornali e in qualche spot nei telegiornali. Le Feste dei partiti che ci sono e anche di quelli che non ci sono più (i Popolari ad Assisi allietati dalla visita del predicatore del Pd: Walter Veltroni) e che non ci sono ancora (il Partito Democratico) sono tuttora in corso.

Fare il punto proprio adesso non è facile, ma può essere utile a capire il senso delle cose.

La Festa dell’Unità fornisce passerella e applausometro, per chi arriva ad un appuntamento con il nuovo soggetto e anche per chi lascia cariche nel vecchio partito. Non sembra che il superamento del vecchio sia già avvenuto e, personalmente, continuo a non capire come funzioni l’imprevisto (dai regolamenti) ticket Veltroni-Franceschini. Se questo è l’esito previsto e prevedibile, allora sarebbe utile sottoporlo ad un giudizio dei militanti e, magari, ad un confronto con i dissenzienti. Sembra che i grandi assenti dai confronti siano i segretari regionali potenziali dei quali persino «l’Unità» lamenta lo scontro dalla Lombardia alla Campania e alla Calabria e, finalmente anche in Emilia. Ma dovremmo forse preferire l’unanimismo, segnale perfetto di una fusione a freddo, oppure non sta avvenendo obtorto collo proprio quello che vorremmo: una bella competizione intorno all’idea di un partito diverso sia dai Ds, giunti stremati, sia dalla Margherita, mai del tutto fiorita? Finalmente, Veltroni ci ha anche detto che vuole un partito federale, ma se poi i segretari saranno tutti veltroniani per vocazione, per spartizione, oppure per investitura, quanto federale riuscirà mai a diventare e rimanere il Partito Democratico?

Certamente, la Federazione non si trova sulla sinistra, vale a dire nella Sinistra Democratica, che si barcamena tra l’essere inevitabilmente risucchiata da Rifondazione, il partito che non molla, e tentare di elaborare un riformismo socialista che non ha mai gradito e che come contrappasso non riesce neppure ad immaginare. La Margherita si divide, forse per colpire meglio, ma anche si riallinea, naturalmente, come meglio sa, in correnti costruite intorno a persone. Non sappiamo, però, né quanto sono né dove porteranno i coraggiosi del nuovo conio. La politica di nuove alleanze, in verità, non particolarmente coraggiose, viene sicuramente condotta con spregiudicatezza da Mastella che, quando non annuncia il suo ritiro dal governo, contratta sia una nuova lista, almeno con l’Udc, se non anche con pezzi della Margherita, per le elezioni europee, sia una nuova legge elettorale. Dalle dichiarazioni di Fassino, D’Alema e, persino, di Veltroni, sembrerebbe che, comunque, Mastella abbia già ottenuto una bella legge elettorale tedesca (che, inesorabilmente, dovrebbe servire anche alla vanificazione del referendum elettorale). Tuttavia, sarà dura inventarsi un marchingegno giuridico-costituzionale che obblighi ad alleanze preventive e soprattutto che punisca i successivi cambi tipo ribaltone. Infatti, la legge elettorale tedesca è accompagnata dal voto di sfiducia costruttivo che consente proprio di cambiare alleanze in parlamento senza procedere a crisi al buio (ma Mastella agisce alla luce del sole!).

Nel frattempo, Veltroni ha opportunamente e preventivamente smentito di volere succedere, senza previe elezioni, a Romano Prodi, ma o fa il segretario organizzativo e allora dovrebbe raccontarci molto di più sul partito che vorrebbe e che costruirà, oppure, in re ipsa, è destinato ad essere percepito e a diventarne sfidante/successore. Altrimenti, perché continua a scrivere sui grandi quotidiani nazionali tutto il suo programma politico, di cose da fare, di leggi da approvare, di politiche da attuare? Insomma, è opportuno che le feste continuino, almeno fino alla fatidica data del 14 ottobre, quando si avranno, insisto, non primarie, ma delle belle elezioni dirette per il segretario del Pd e per i segretari regionali (brutta combinata).

Incidentalmente, non ho fatto la previsione di due milioni e mezzo di elettori. Ho detto che quella è la soglia alla quale deve mirare chi vuole un Partito Democratico solido, in buona salute, vigoroso. E, allora, feste o non feste (a meno che la festa al governo non la facciano gli allegri dimostranti del 20 ottobre), è imperativo che la elaborazione programmatica e politica, ma, alla luce della povertà del «Manifesto dei Valori», di cui, più o meno fortunatamente, nessuno parla, anche ideologica, continui. Spero con esiti di più alto profilo.

Pubblicato il: 03.09.07
Modificato il: 03.09.07 alle ore 10.22   
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