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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 157907 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 20, 2009, 06:51:49 pm »

20/6/2009
 
La partita di un uomo solo
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Quando l’ultima scheda di questa seconda e ancor più deprimente tranche elettorale sarà stata scrutinata, non risulterà affatto agevole provare a stabilire, per dire, se Michele Emiliano sarà stato confermato sindaco di Bari per le sue capacità di amministratore. O invece, vincerà per l’indignazione montata in città dopo la faccenda festini-Berlusconi-escort: oppure, per salire al Nord, se Podestà e gli altri candidati del centrodestra avranno consolidato la vittoria di Lega e Pdl in comuni e province per la loro credibilità o piuttosto per l’accorrere in massa alle urne del «popolo della libertà», infuriato per i presunti complotti e le aggressioni continue al premier. Infatti, ancor più che nel voto europeo di due settimane fa - condizionato oltre misura dall’affare Noemi e da suoi possibili effetti - il nuovo test elettorale rappresenta (o sarà considerato) un’ottima cartina di tornasole per pesare l’apprezzamento degli italiani verso l’operato di Silvio Berlusconi: e non intendiamo, naturalmente, il suo operato in politica, quanto - piuttosto - nella gestione delle sue faccende private.

L’ultima foto di questa seconda campagna elettorale (voteranno pur sempre quasi 14 milioni di cittadini) non ritrae, infatti, un leader su un palco o una selva di bandiere di partito. Ritrae un’altra foto, quella che «L’Espresso» pubblica oggi in copertina: il grande motoscafo del premier, con a bordo sette splendide ragazze, che naviga verso villa La Certosa. Questa foto - assieme a quelle di Patrizia D’Addario, l’avvenente escort pugliese - riassume il senso di questo secondo round elettorale con la stessa efficacia con la quale, nel primo, furono le immagini di Noemi in bikini e della sua festa a dirci per che cosa, anche, si votava. E’ perfino ovvio rimarcare come la politica tradizionalmente intesa non c’entri più niente, con tutto questo: ma è altrettanto ovvio prevedere che saranno proprio queste foto e gli sviluppi che produrranno a incidere sul futuro politico di Berlusconi assai più di quanto lo faranno i tanti sindaci e presidenti che il Pdl eleggerà. E questo accadrà, purtroppo, nonostante il fatto che la partita sia non proprio da poco. Sul piano generale, infatti, il voto di domani potrebbe permettere al centrodestra di affermare e ampliare una nuova classe dirigente locale capace di fare del Pdl (la Lega lo è già) un partito davvero radicato su tutto il territorio.

Più nel particolare, invece, si decidono sfide il cui esito potrebbe avere valore «storico» e determinare effetti dirompenti. Si pensi a cosa potrebbe accadere in un Pd già in ebollizione, per dirne una, se Flavio Delbono e Matteo Renzi - entrambi o anche solo uno dei due - perdessero i ballottaggi nelle «cittadelle rosse» di Bologna e di Firenze. O se, al contrario, anche per effetto della bufera che si è abbattuta sul premier, il centrodestra arrestasse la sua avanzata al Nord. Si tratterebbe di eventi - in alcuni casi di assolute novità - sui quali i partiti dovrebbero riflettere. Invece, diciamo la verità, è assai difficile che, passate le prime ore, siano comuni e province a tener banco nel dibattito politico. E’ Berlusconi per primo a non illudersi più. Ieri, nell’ultimo contestato comizio, è stato chiaro. Rivolto ai soliti «comunisti» ha avvisato: «E’ inutile che sperate di buttar giù il governo con trame giudiziarie e attacchi mediatici», confermando che non è al risultato elettorale che considera legato il suo destino. La partita è tutta un’altra: e per la prima volta, forse - mentre cresce il chiacchiericcio su dimissioni, governissimi ed elezioni - Silvio Berlusconi ha capito che dovrà giocarla quasi da solo.

Non con Fini, che evoca «bonapartismi» e incubi da deserto dei tartari; non con Tremonti, silenzioso magari anche solo per evitare equivoci ulteriori; non con tutto il suo partito, dove i dubbiosi e i silenziosi si moltiplicano; e forse, fino in fondo, nemmeno con Bossi, interprete di un’altra Italia, distante da quella del premier quanto lo è Gemonio dalla costa sarda. L’orizzonte insomma è fosco, l’assedio in cui si sente stretto Berlusconi non s’allenta e al Cavaliere tornano in mente immagini di tanti anni fa. I grandi appuntamenti internazionali, per esempio. Era il 22 novembre del 1994, il premier presiedeva a Napoli la Conferenza mondiale Onu sulla criminalità organizzata e fu proprio lì che gli venne prima annunciato (Corriere della Sera) e poi notificato un avviso di garanzia. Fra tre settimane i grandi del mondo si riuniscono a L’Aquila per un atteso G8: quale set migliore per la scena finale, per il temutissimo colpo di grazia? Anche per questo Berlusconi viene dipinto come nervoso oltre ogni possibile misura. Lo preoccupano le mosse degli «avversari», l’evolversi di inchieste che definisce «spazzatura». Lo preoccupano il progetto ed i tempi dei «complottardi». I tempi, già. Rischiosi per il Cavaliere, ma non infiniti nemmeno per l’opposizione. Da martedì, infatti, si tornerà a parlare non solo di Noemi, Patrizia e le ragazze in bikini: torneranno in primo piano anche le magagne del Pd. Finita la fase esoterica del confronto, infatti, i democrats metteranno in pista i candidati-segretari e comincerà una discreta baraonda. Così, una speranza consuma il Cavaliere: che si cominci a riparlare dei guai degli altri. Perché in fondo, come sempre, se Atene piange Sparta certo non ride.

da lastampa.it
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« Risposta #61 inserito:: Luglio 02, 2009, 06:19:37 pm »

2/7/2009
 
Ritorno al partito
 
FEDERICO GEREMICCA
 
La prima cosa che va comunicata agli iscritti, agli elettori ed ai simpatizzanti del Pd è che ieri, nel suo discorso della Corona, Pierluigi Bersani non ha citato Obama, non ha evocato catastrofi ecologiche.

Ha mal nascosto un certo scetticismo intorno all’uso di Internet applicato alla politica e soprattutto - non avendone parlato - crediamo non abbia neppure un sogno. Non sappiamo, onestamente, se tutto ciò vada preso come una buona o una cattiva notizia. E’ però facile immaginare che il percorso proposto da Bersani al Pd sarà rapidamente catalogato sotto la voce «ritorno al passato»: con un accento negativo che lo stato del presente, per la verità, non giustifica granché.

Sia come sia, il discorso di candidatura di Pierluigi Bersani ha ieri ufficializzato il bivio di fronte al quale saranno gli iscritti (al congresso) e poi gli elettori (alle primarie) del Pd. Da una parte, la proposta di una nuova scommessa sul futuro, andare avanti senza alzare il piede dall’acceleratore, continuando nell’innovazione e mettendo in campo una nuova squadra di giovani dirigenti; dall’altra, invece, l’idea che - dopo il triplo salto mortale col quale Ds e Margherita in agonia crearono i democratici - sia venuto il tempo di fare un punto: rivedendo la forma partito, ricucendo qualche straccio di alleanza, avendo meno puzza al naso per certe invocazioni che vengono dal profondo Nord e insomma tornando a discutere di cose concrete, piuttosto che se siano meglio i giovani dei vecchi o se sia ancora figo mettere la cravatta. Il Pd dell’«avanti tutta» è quello che hanno in mente Franceschini, Veltroni e la composita maggioranza determinatasi attorno a loro, da Marini alla Serracchiani; quello del «ritorno al passato», invece, candida Bersani, allinea Letta e Bindi, gode della protezione di D’Alema e forse perfino di Romano Prodi, anche se non vuole che si dica. Quel che questo pezzo di Pd ha in testa, ieri l’ha detto con la massima chiarezza.

Grandissime differenze programmatiche tra i due schieramenti non ce ne sono e la sfida si giocherà, presumibilmente, sul piano delle priorità da dare al Pd e sull’idea stessa, in fondo, di cosa siano oggi la politica e, dunque, un partito. Non è una novità dire che su questi terreni le convinzioni di Bersani siano di matrice più tradizionale: ma, anche qui, è coraggioso accompagnare questa affermazione con un giudizio negativo, considerati certi risultati del cosiddetto «nuovismo». E comunque sia, con un discorso poco enfatico, perfino noioso - infarcito com’è stato di rimandi alla riforma della pubblica amministrazione piuttosto che a nuove politiche produttive per la piccola impresa - la correzione di rotta proposta da Bersani è netta. Dopo i «sogni» veltroniani e i «radicalismi» di Franceschini, quello che tratteggia l’ex ministro - per i riferimenti alle alleanze politiche e per le questioni concrete affrontate - è un Pd assai più pragmatico e «di governo»: un partito che cambia priorità, tentando di recuperare terreno nel mondo della produzione e del lavoro, tra i ceti a lui storicamente più vicini.

Naturalmente, come ogni opposizione che si rispetti (per l’altro schieramento è pur sempre candidato il segretario) Bersani e i suoi possono godere del vantaggio «dello stato delle cose». Non è poco. Sconfitte elettorali a raffica e un diffuso disorientamento assegnano adesso a Dario Franceschini l’onere della prova: e cioè, che andando avanti così il Pd tornerà a vincere. Se convincerà di questo la maggioranza dei suoi elettori, il segretario resterà segretario: altrimenti, sarà il via libera a quello che alcuni già chiamano il «ritorno al passato». Come fosse sempre una colpa, anche quando il presente è quello che è...

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« Risposta #62 inserito:: Luglio 14, 2009, 11:32:35 pm »

CHE AMAREZZA, UN CONGRESSO CONTRO DI ME

9 Luglio 2009


Intervista di Federico Geremicca – La Stampa


Roma - Aggressività. Gliel’hanno rimproverata in tanti: Fassino, Castagnetti, «Europa» e molti supporter di Franceschini. Hanno detto: troppa aggressività verso il segretario, nella prima uscita congressuale di Massimo D’Alema. È passato qualche giorno, ma ancora adesso dice di non capire: «La parola è sbagliata. Quella giusta è: amarezza. Amarezza per il fatto che si dica - senza che nessuno del gruppo dirigente replichi - che questo è il congresso del Pd contro di me; e poi perché invece di affrontare i problemi veri, qualcuno ha preferito aizzare le istanze di rinnovamento contro un immaginario nemico interno. È un un grave errore di partenza: ma è così che il segretario del Pd ha voluto dare il via alla nostra discussione». D’Alema appare davvero amareggiato: e poiché l’amarezza a volte può trasformarsi in rabbia, ecco che il confronto nel Pd rischia davvero il piano inclinato dello scontro per lo scontro. Anche per questo, forse, lui prova a rassicurare: «Questo non è il congresso del ritorno di D’Alema, altrimenti mi sarei candidato». Il che non vuol dire, però, che faccia sconti al modo in cui è stato costruito e gestito il Pd: «Ci siamo fatti del male. Il Pd è una grande novità che nessuno vuol cancellare: è il nerbo di un’alleanza senza la quale torniamo al prima, a quelle debolezze strutturali che ci facevano poco credibili come forza di governo. Però, è chiaro, molte cose devono cambiare».

Lei chiama in causa Franceschini: ma anche Fassino l’ha attaccata. Ha detto: uno statista non ha paura della Serracchiani.
«Non capisco. È parlamentare europea e protagonista autorevole del dibattito politico, tanto che si parla di lei come vicesegretario del Pd. Ha fatto un’intervista per dire che bisogna fare il congresso contro di me e io le ho risposto prendendola sul serio, il che mi pare una forma di rispetto. Che mi vuol dire, Piero? Che alternativa avevo? Ho risposto con più garbo di quanto lei ne abbia riservato a me: e vorrei una discussione politica per approfondire il perché di rilievi così violenti. Vorrei discuterne, ma senza polemizzare con Fassino».

Perché?
«Perché mi dispiace. E perché non credo siano questi i nostri problemi».

La preoccupa la prospettiva di uno scontro vecchi-nuovi?
«Sì, perché non è questo il tema: non siamo di fronte a un conflitto generazionale, ma a diverse opzioni politiche. I giovani hanno posizioni diverse tra loro: erano in tanti anche da Bersani. La divergenze sono politiche. Il resto è propaganda».

Infatti la piattaforma di Bersani è stata criticata politicamente: è stata definita un «ritorno al passato»...
«Se aveste ascoltato il discorso col quale Marini ha fatto sapere che sosterrà Franceschini... Altro che Bersani! Queste polemiche non reggono. Al contrario, credo che Pierluigi abbia posto il vero problema che abbiamo di fronte».

E il problema sarebbe tornare indietro? Magari mitigando le primarie, contrattando alleanze come ai vecchi tempi e puntando a leggi elettorali meno bipolari?
«Il problema è fare del Pd una grande forza politica che torna a occuparsi dei problemi del Paese, senza finte contrapposizioni tipo vecchio-nuovo. La ricostruzione che viene fatta del discorso di Bersani è caricaturale. Abbiamo di fronte problemi enormi, che riguardano la difficoltà di tutte le forze riformiste in Europa. Il grande interrogativo è: perché, quando esplode la crisi della stagione neoliberale, mentre nel mondo i progressisti colgono le nuove opportunità, in Europa non c’è una sola forza riformista in grado di raccogliere la sfida?».

E rimanendo all’Italia, qual è la sua risposta?
«Per quanto riguarda noi, il problema è costruire una stagione riformista a partire da una cultura politica robusta. Un partito nuovo deve fondarsi su un progetto per il Paese e su una solida cultura politica. Finalmente Bersani ha posto questi problemi, mentre noi veniamo da momenti un po’ così, in cui il nuovismo si è manifestato in forme perfino stravaganti...».

Siamo sempre al «partito liquido» e a tutto il resto?
«Non solo. Il problema di fondo è il progetto che noi abbiamo proposto al Paese. Qual è questo progetto? Certo, non il dire che noi siamo più liberisti di Berlusconi, perché non può essere questo il principio ispiratore del centrosinistra: così, infatti, si lascia alla destra l’idea di comunità, solidarietà, protezione delle fasce più deboli. È lì che siamo stati battuti. E ha certo pesato negativamente l’idea che il Pd muovesse dalla liquidazione delle culture solidaristiche da cui pure traeva origine».

Addirittura la liquidazione?
«Se ripensiamo alle parole d’ordine con le quali è nato questo partito, l’idea è quella dello sradicamento. Di più: è apparso che proprio lo sradicamento rispetto a quelle culture fosse il compito principale da proporsi. Senza rendersi conto, alla vigilia della crisi, che le difficoltà avrebbero riportato d’attualità proprio quelle culture».

E siamo di nuovo al nuovo contro il vecchio...
«Sto parlando di cultura politica e di progetti per il Paese. La destra non ne ha, e lo si è visto in questi mesi difficili: ma nemmeno noi siamo stati in grado di metterne in campo uno nuovo. Abbiamo parlato per mesi di alleanze da fare o non fare: dibattito puerile. L’Ulivo fu precisamente un’idea sul futuro del Paese, non solo uno schema di alleanze, che vennero dopo. Il progetto era portare l’Italia in Europa, era l’euro, risanare i conti: e la missione era modernizzare il Paese tenendo il passo del processo di integrazione europea. Dopo quel progetto, non c’è stato altro. È per questo che il discorso di Bersani a me è parso molto bello».

Lei vi ha visto un progetto?
«La maggiore novità - che non è certo un ritorno al passato - è la volontà di ricollocare il partito dentro la vicenda storica del Paese: di immaginarlo, in forme nuove, come il continuatore di qualcosa, perché altrimenti non si capisce che cosa si è. Per il Pd il problema più serio è stato che pochi hanno inteso cos’era questa forza nuova, cosa rappresentasse, qual era il suo profilo. Questo è il tema, oggi: non vecchi contro nuovi. La nostra vera debolezza è l’incertezza di identità, di fondamento. Per questo ha ragione Bersani quando dice “questo è un congresso fondativo”».

Però, presidente, forse anche lei poteva accorgersi prima che era tutto sbagliato. Verrebbe da chiederle dove è stato negli ultimi due anni...
«E’ una critica inappropriata. A me è stato chiesto di girare alla larga, in ragione di una presenza troppo ingombrante».

Poteva dare battaglia. Non sarebbe stata certo la prima, no?
«Chi fa questa obiezione è disonesto, perché da una parte mi si rimprovera di aver rotto le scatole (tanto che il congresso mi dovrebbe cancellare) e adesso mi si accusa di non aver combattuto. Sì, non ho fatto battaglie: e questo forse merita un’autocritica. Ma non è che adesso voglia rimettermi in mezzo. Stiano tranquilli: questo non è il congresso del ritorno di D’Alema, altrimenti mi sarei candidato io».

E perché non lo ha fatto?
«Perché non credo che in questo momento ci sia bisogno di tornare ad una leadership che appartiene al passato. Come ho detto, mi sarei candidato di fronte ad un’emergenza: ma questa emergenza non c’è. In più, c’è Bersani: uno che dice “non sono il candidato di nessuno però credo ci sia bisogno di tutti. E’ il ritorno alla normalità, finalmente, con una persona tranquilla che non pensa di dover fondare il proprio prestigio sulla persecuzione di quelli che c’erano prima: dirigenti, per altro, che hanno vinto elezioni senza offendere nessuno, hanno portato la sinistra al governo e prodotto innovazione culturale. Cose di semplice buon senso, certo. Ma a volte anche il buon senso è rivoluzionario...»



da massimodalema.it
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« Risposta #63 inserito:: Agosto 11, 2009, 11:11:04 am »

9/8/2009
 
La legge del presidente
 
FEDERICO GEREMICCA
 
La conoscenza rende. Le persone che hanno imparato di più, attraverso un’istruzione efficiente, guadagnano di più. Ce lo ha ricordato recentemente James Heckman in una bella lezione per gli allievi del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri. Il capitale di conoscenza non solo giova agli individui che lo possiedono, ma quando si diffonde a livello collettivo produce benessere per tutti. Al contrario, nelle società povere di conoscenza, i singoli individui competenti e capaci anche al massimo grado non possono mettere a frutto il loro prezioso tesoretto cognitivo, e spesso sono costretti ad emigrare se non vogliono sprecarlo. Insomma, la conoscenza produce sviluppo, ma non bastano singoli punti di eccellenza, serve un tessuto, una «buona media».

Finché l’India ha avuto singoli eminenti scienziati non ce l’ha fatta a sviluppare industrie informatiche; le sono stati necessari centinaia di migliaia di tecnici di media qualificazione. Per produrre crescita economica serve una massa critica di buona conoscenza diffusa. E qui veniamo alla mai abbastanza discussa questione meridionale. Poniamo pure (anche se qualche dubbio è lecito) che i numerosi 100 e 100 e lode calabresi siano altrettanto validi - cioè assegnati a parità di criteri - degli sparuti corrispondenti padani; resta il fatto che le capacità medie riscontrate attraverso sistemi di valutazione davvero omogenei, e quindi comparabili, tra paesi sviluppati, rilevano un’Italia mediamente più incompetente, ma non in modo omogeneo. In certe capacità vuoi di lettura vuoi scientifiche, il Nord, in specie il Nord Est, se la cava bene, anche meglio della media europea. Il Nord Est è sopra media pure in matematica. C’è quindi, ed è stato detto e stradetto, un problema di squilibrio di capitale umano tra Nord e Sud. Come spezzare questa eredità negativa? Di nuovo ci vengono suggerimenti interessanti dalle ricerche economiche sull’istruzione, in questo caso sul rendimento degli investimenti nel sistema educativo. È nei primi anni di vita che i bambini acquisiscono i fondamenti del sistema logico e linguistico. Se in quel periodo i piccoli vivono in famiglie povere di conoscenza il loro sviluppo sarà compromesso. I recuperi sono inefficienti, costosi per gli individui e per le finanze pubbliche che sostengono i sistemi educativi in quei salvataggi tardivi.

Dunque è importante investire in nidi e materne di qualità. Così si offrono punti di partenza meno sfavorevoli ai figli delle famiglie svantaggiate e si mettono le basi per accumulare un buon capitale umano diffuso in futuro. Ma questa strategia produce ricchezza anche nell’immediato: perché crea posti di lavoro soprattutto femminile, perché libera tempo di lavoro delle donne per il mercato, e quindi potenzialmente consegna loro reddito da spendere. Di nuovo è il Sud che ha tassi di attività femminile, specialmente tra le giovani donne, incredibilmente bassi, rispetto agli obiettivi fissati dal Consiglio Europeo di Lisbona. Ed è ancora il Sud che manca in modo plateale un altro obiettivo di Lisbona, dove i governi dell’UE si erano impegnati a favorire l’occupazione femminile attraverso il rafforzamento dei servizi per l’infanzia entro il 2010. In Italia, c’è solo un capoluogo di Regione che supera l’obiettivo, Bologna, e l’Emilia Romagna è la Regione che più si avvicina al traguardo. Al Sud la diffusione di questi servizi è drammaticamente carente. L’obiettivo previsto è del 33% dell’utenza potenziale: in Puglia si arriva all’1%, in Calabria e in Campania al 2%.

Come noto, i contribuenti delle regioni del Nord a statuto ordinario versano una parte non piccola dei loro redditi a favore del Sud. Questa necessaria solidarietà ha bisogno di ragioni forti, di scopi convincenti. Una massiccia iniezione di istruzione di qualità che dia pari opportunità ai bambini meridionali e getti radici solide per lo sviluppo ha forse più probabilità di attrarre consensi nordisti di quanto possano farlo alcune spettrali grandi opere. La stanca litania per cui la chiave dello sviluppo sta in «più autostrade, porti e aeroporti» è sempre meno fondata, in un paese con troppi porti e aeroporti di dimensioni inadeguate, e troppo trasporto su gomma. Meglio puntare su istruzione e sull’altro investimento pubblico ovvio e necessario: la legalità. Sono molte e apprezzabili le iniziative che si stanno attuando nelle scuole del Sud per promuovere una cultura della legalità tra i ragazzi. Le ricerche empiriche sul rendimento dell’istruzione ci dicono che si tratta di iniziative importanti, perché non solo le competenze cognitive, ma anche altre capacità determinano sia il successo degli individui, sia quello delle società che ne sono ricche.

Le basi delle capacità non cognitive, ma di relazione, si possono costruire anche dopo la prima infanzia. Però iniziare presto ad acquisire anche queste capacità non guasta. Penso ad esempio alla difficoltà che ancora presentano molti adulti, per altri versi brillanti e istruiti, ad adattarsi all’Italia di oggi, che accoglie quasi 4 milioni di immigrati. Ci sono scuole con alta presenza di bambini immigrati che sfornano allievi bravi e capaci, eppure molti genitori italiani tolgono di lì i loro figli. È un peccato, perché quei bambini saranno meno in grado di convivere con la diversità, una dote utile nell’Italia di oggi, necessaria nella loro Italia di domani. Non tutti i genitori fortunatamente sono incapaci di guardare lontano. Le richieste di iscrizione in alcune scuole multietniche sono in aumento: non solo perché crescono, e molto, gli allievi stranieri, ma perché questi istituti non dispiacciono a un buon numero di saggi genitori italiani.

da lastampa.it
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« Risposta #64 inserito:: Agosto 19, 2009, 10:14:33 am »

18/8/2009
 
Le inutili guerre estive
 
FEDERICO GEREMICCA
 
In fondo se ne può ancora ridere, perché siamo in agosto, le temperature sono quelle che sono, e non è vero che il caldo induca solo alla pigrizia: a volte mette la smania. Però, alla ripresa di settembre, Silvio Berlusconi e il Pdl non farebbero male se cercassero di capire a che gioco gioca la Lega: che sta impigliando il Paese in nervosismi inutili e cupe paure, sentimenti ai quali poi attinge a piene mani per i suoi successi elettorali. E la riflessione potrebbe risultare anche, come dire, egoisticamente utile: considerato che non è solo in questione il fatto che un Paese che boccheggia non sente per nulla bisogno di risse sul niente, ma anche la circostanza che l’avanzata elettorale «nordista» ormai inizia a erodere perfino i possedimenti del Pdl.

Ieri, per dire, è stata la giornata in cui ha rischiato di scoppiare la guerra del Castelmagno. Precisamente. Infatti, l’ultima istantanea delle condizioni delle nostre famiglie (il Rapporto di Confcommercio) fotografava un Paese che pare vivere di telefonini ed ha trasformato il vecchio hobby del bricolage in un modo per risparmiare le spese di idraulici e falegnami.

Ecco, mentre le statistiche confermavano che siamo messi così, la senatrice Poli Bortone - presidente di «Io Sud» - invitava i meridionali «a non comprare più i prodotti della Padania» (e se è per questo, il Presidente di «Neapolis 2000» ha proposto che il nuovo inno nazionale sia ‘O sole mio). La ragione? «Così Bossi - ha spiegato la senatrice - la smette con la cancellazione dell’inno di Mameli e la divisione dell’Italia».

Occhio per occhio. Più o meno. E pioggia di interventi e commenti a favore di Bossi (che pure ha giurato che la polemica sull’inno l’hanno inventata i giornali) piuttosto che della presidentessa di «Io Sud». Se ne può ridere ancora, perché è agosto. Ma è da settimane che le sortite leghiste sembrano fatte apposta per dividere il Paese a metà: e non sempre in senso orizzontale. Prima la faccenda dei dialetti nelle scuole e dei test ai professori; poi la trovata delle bandiere regionali da affiancare (solo affiancare?) al tricolore; quindi l’affondo sulle «gabbie salariali» (faccenda più seria); infine «Va’ pensiero» contro l’Inno di Mameli. Insulti e polemiche sul niente. Offensive probabilmente nate per finire nel nulla, ma utili a lanciare segnali agli elettori: ah, noi della Lega lo faremmo, se fossimo più forti...

Già in condizioni di economia «che tira» - e quindi con una maggiore predisposizione al buonumore - zuffe su dialetti e inni risulterebbero insopportabili: figurarsi, dunque, l’effetto che devono avere - nella situazione in cui si è - su cittadini di medio buon senso. Come se non bastasse, a una delle poche cose «solide» e forse fattibili proposta da Bossi (l’assegnazione a giovani disoccupati di terre incolte di proprietà dello Stato) è stata riservata un’attenzione del tutto inadeguata: del resto, vuoi mettere una bella polemica sui test di dialetto ai professori a confronto di una discussione su come trovare occupazione ai giovani? E poi c’è chi ancora si meraviglia e versa lacrime per il continuo crescere dell’astensionismo elettorale...

È per tutto questo che Silvio Berlusconi farebbe bene a occuparsi della Lega, appena agosto sarà finito. In autunno, infatti, il clima potrebbe essere di quelli che certe boutade è meglio lasciarle stare: pena procurare danni seri alla credibilità e all’autorevolezza del governo. I sindacati stanno tornando sul piede di guerra in vista della scadenza della cassa integrazione in aziende medie e grandi, e l’opposizione - tra un congresso e l’altro - proverà a riorganizzarsi. Il rischio, insomma, è di dover ingaggiare battaglie vere. E nessuno, allora, potrà sperare di cavarsela contrapponendo la mozzarella di bufala al Castelmagno...

da lastampa.it
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 27, 2009, 04:17:16 pm »

27/8/2009

Un leader in mezzo al guado
   
FEDERICO GEREMICCA


Alla fine del lungo faccia a faccia con Franco Marini, molti dei presenti al dibattito avevano forse più chiaro il motivo per il quale Gianfranco Fini - a differenza di molti ministri del governo in carica - non ha rifiutato l’invito rivoltogli dagli organizzatori della Festa democratica di Genova. Il presidente della Camera ha probabilmente deciso di intervenire e parlare non solo per rispetto del ruolo istituzionale che ricopre e che lo vuole super partes, ma perché aveva più di un «sassolino» da togliersi dalle scarpe. Fini lo ha chiarito fin dalle prime battute del suo intervento, ed è stato conseguente. E così, non c’è stato tema affrontato sul quale non abbia espresso posizioni del tutto dissonanti rispetto a quelle messe in campo dal Pdl - e soprattutto dalla Lega - in questo torrido mese di agosto.

Dall’immigrazione alle «gabbie salariali», dal testamento biologico («Farò il possibile per correggere il testo») fino alla legge sull’omofobia, è spesso parso ascoltare uno dei leader dell’opposizione, piuttosto che uno dei cofondatori del Pdl.

Il popolo democratico ha molto applaudito, come sovente accade quando le proprie posizioni vengono «legittimate» da interventi del campo avverso. Ha applaudito e si è interrogato intorno alle ragioni per le quali (non da ora) l’ex leader di Alleanza nazionale è solito prendere vistosamente le distanze dalla maggioranza che pure lo ha eletto presidente della Camera. Secondo gli scettici, Fini - con Berlusconi e Bossi - sarebbe nient’altro che il terzo attore di una sorta di oggettivo gioco delle parti che consente alla maggioranza di governo di coprire ogni spazio politico: quello più radicale, con la Lega; quello tendenzialmente centrista - salvo frequenti scivoloni - con Berlusconi; quello perfino con venature progressiste, appunto con gli smarcamenti di Fini. È una interpretazione, quella degli scettici, non peregrina e sostenuta - in fondo - dalla storia recente: che alla fine ha visto il presidente della Camera sempre accondiscendente con Berlusconi, anche a costo di giravolte sensazionali (come a proposito, per esempio, della fondazione del Pdl).

Ma c’è un’altra interpretazione possibile della linea sulla quale è da tempo attestato il presidente della Camera: Fini fa sul serio, è realmente in disaccordo con molte posizioni della maggioranza (soprattutto quelle imposte dalla Lega), annusa la fine naturale del lungo ciclo berlusconiano e si prepara per il dopo. È una interpretazione certo più generosa nei confronti dell’ex numero uno di An ma per ora - e forse non può che essere così - poco suffragata da fatti importanti. Ciò non toglie che tra le cose dissonanti dette ieri da Fini, molte siano state «cattive», e una addirittura velenosa: infatti, in materia di immigrazione e sicurezza, rovesciando sul premier un’affermazione da sempre utilizzata dal Pdl contro l’opposizione, il presidente della Camera ha invitato a non seguire la Lega perché «tra l’originale e la fotocopia, l’originale è sempre più convincente».

È facile immaginare che la prima uscita di Gianfranco Fini non sia granché piaciuta a Silvio Berlusconi, perché anche un eventuale gioco delle parti - insomma - va calibrato. Dal canto suo, però, l’opposizione sbaglierebbe a gioire per questo e ad enfatizzare oltre misura le cose dette ieri dal presidente della Camera. Infatti, nel giorno in cui - dal meeting di Rimini - Mario Draghi fa sapere che per l’Italia l’uscita dalla crisi sarà più difficile che per altri Paesi e si appella «a tutti» affinché si metta mano a riforme non più rinviabili (altro intervento che non sarà piaciuto né al premier né a Giulio Tremonti), ecco, in un giorno così, piuttosto che gioire l’opposizione farebbe bene a prendere Fini in parola ed a sfidarlo: chiedendogli, anche alla luce della carica che ricopre, di rispondere all’appello di Draghi e di dare impulso allo sforzo riformatore sollecitato dal governatore. Gianfranco Fini ha gli strumenti per farlo: sia politici, dovuti al suo prestigio, sia operativi, derivanti dalla carica che ricopre. Operando nelle direzioni che lui stesso indica, insomma, il presidente della Camera renderebbe un servizio al Paese fugando, contemporaneamente, interrogativi e sospetti intorno alle ragioni del suo dissenso.

da lastampa.it
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« Risposta #66 inserito:: Ottobre 05, 2009, 10:57:39 am »

5/10/2009

L'impossibilità di essere neutrali
   
FEDERICO GEREMICCA


La D’Addario in tv a lavare i panni sporchi davanti a 7 milioni di italiani; l’alluvione di Messina a scatenare l’ennesima emergenza, ricordando a tutti come - più e prima del sempre promesso Ponte - sarebbe il caso di mettere in sicurezza quel che c’è; quindi la sentenza in sede civile per l’affaire Mondadori, con la Fininvest condannata a risarcire De Benedetti con 750 milioni di euro.

E infine, naturalmente, le decine di migliaia di cittadini in piazza per una manifestazione che, indetta per protestare contro il bavaglio che il Cavaliere intenderebbe mettere all’informazione, è stata raccontata e trasmessa da decine di quotidiani e di tv. Eccola, la «settimana nera» di Silvio Berlusconi. E, con l’ormai imminente pronunciamento dell’Alta Corte sul lodo Alfano, non è per nulla detto che quella che si apre sarà migliore di quella che è alle spalle. Ma il fine settimana appena trascorso non è stato duro solo per il premier. Infatti, in un incontrollabile vortice polemico, si sono sentiti altri sinistri scricchiolii. Le fibrillazioni nel sistema dell’informazione, dicevamo: con una sorta di guerra tra bande che ha visto per la prima volta schierato contro una piazza addirittura il Tg1. Poi - e proprio da quella stessa piazza - il Capo dello Stato esplicitamente accusato da Di Pietro di essere un vile: anche in questo caso con toni e argomenti mai ascoltati in precedenza. E le pressioni sulla Corte Costituzionale, che da oggi - è certo - aumenteranno: essendo rimasto nelle mani di quei quindici giudici il diabolico cerino del contestato lodo Alfano.
Dunque, libera informazione, Quirinale e Corte Costituzionale: contemporaneamente sotto violentissimo tiro incrociato. Poteri o organi dello Stato la cui funzione, fondamentalmente, è ergersi a garanzia che leggi ed etica pubblica siano rispettate. Non può essere un caso che al centro degli attacchi più aspri oggi siano capisaldi democratici il cui profilo dovrebbe essere la neutralità rispetto alle contese in atto. E infatti, probabilmente, non lo è: probabilmente, anzi, quel che è sotto gli occhi di tutti è l’ennesimo frutto marcio del cosiddetto bipolarismo all’italiana.

Quando la partita si fa così cattiva
Del resto, non c’è da sorprendersi del fatto che, quando la politica e addirittura la civile convivenza vengono ridotte a una brutale sfida a due (due leader, due sistemi di valori, due idee del mondo, contrapposte e senza sfumature), ecco, quando la partita si fa così cattiva, non può meravigliare che nemmeno a chi dovrebbe esser neutrale e terzo sia permesso di esser tale: né a chi racconta o assiste alla contesa (l’informazione e il suo pubblico); né a chi è chiamato a fare da arbitro (il Quirinale); e nemmeno al guardalinee, in questo caso - appunto - la Corte Costituzionale. Quando si passa dalle parole ai pugni, la pretesa dei contendenti è che si stia o di qua o di là. E intendiamo entrambi i contendenti: perché se è vero che è stato Berlusconi a definire farabutti i giornalisti, è pur vero che è stato Di Pietro a dare del vigliacco al Capo dello Stato.
È certamente una vergogna. Ma con l’annunciata Apocalisse che sta per abbattersi sulla Corte - qualunque sarà il suo verdetto - non è nemmeno detto che il peggio si sia già visto. Del resto, fino ancora a qualche mese fa, davvero si pensava che il fondo fosse stato toccato: poi sono arrivate le escort e le minorenni, e chi credeva che non fosse possibile di peggio si è dovuto ricredere suo malgrado. Quel che dovrebbe preoccupare, adesso, è che - data la violenza dell’escalation - non si riesca più nemmeno a capire come e quando potrebbe giungere la fine. Si va avanti tra gli insulti a fari spenti, giorno per giorno, pronti a veder succedere di tutto.

Verso una situazione fuori controllo
E cosa potrebbe accadere ancora, adesso? Cosa potrebbe avvenire se l’Alta Corte dovesse bocciare il lodo Alfano? Precipiteremmo davvero verso elezioni anticipate? Vedremo mezza Corte - o magari tutt’intera - dimettersi di fronte alle accuse che le verranno mosse? I quindici giudici diverranno d’un colpo mafiosi o «toghe rosse», a seconda del giudizio che emetteranno? Fino a non molto tempo fa, queste sarebbero state solo ipotesi di fantasia: oggi rischiano di diventare il segno che si precipita verso una situazione fuori controllo.
Il dibattito, e perfino la civile convivenza, degradano giorno dopo giorno. Ma se la faccenda finisce davvero per essere che l’Italia, d’un tratto, s’è trasformata in un «regime», nel quale il Capo dello Stato è uno zimbello, il premier un dittatore, l’Alta Corte corrotta e stampa e tv asservite a questo o a quello, ecco, se si radica nel Paese l’idea che l’Italia sia davvero così, la frittata è fatta: il danno sarebbe enorme negli anni, e lungo e faticoso da recuperare. Questa, purtroppo, è la direzione. E di fronte a questa irresponsabile escalation, purtroppo, già non basta più evocare lo stile che la politica aveva negli Anni 50 e 60: al punto in cui si è, ci si accontenterebbe perfino del più modesto realismo (a volte cinico) che i partiti furono in grado di mostrare in alcuni drammatici momenti degli Anni 70-80. Oggi basterebbe già quello. Ma certo resterebbe una domanda: e cioè, che comunità è - e da quale destino è attesa - quella comunità costretta a cercare ragioni di speranza e di ottimismo nel suo passato, piuttosto che nel futuro o nel presente?

da lastampa.it
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« Risposta #67 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:09:51 am »

6/10/2009 (7:27)  - RETROSCENA

E nei Palazzi si agitano tre ipotesi sul dopo-sentenza
   
Una crisi classica, il premier che s’arrocca in piazza o il voto anticipato, che pare remoto anche per il Colle


FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Macchine indietro tutta: si torna a dieci, anzi quindici anni fa. I fantasmi sono gli stessi, i toni e gli argomenti anche: giustizia a orologeria, disegno eversivo, poteri forti e complotto, da una parte; corruttore, criminale, antidemocratico e distruttore della Costituzione, dall’altra.

E così, prigioniera delle dietrologie a buon mercato e degli alibi di comodo da essa stessa costruiti e radicati negli corso del tempo, ieri la cittadella del potere politico è parsa alla vigilia di un nuovo impazzimento. Per una sentenza (già emessa) di risarcimento in sede civile, certo; ma soprattutto per un’altra sentenza ormai in arrivo, e attesa spasmodicamente da mesi. Sì, prima e più ancora dell’affaire-Mondadori, è il destino del lodo-Alfano a far fibrillare i palazzi del potere.

E in attesa che si pronunci, sulla Corte Costituzionale stanno piovendo avvertimenti e minacce più o meno velate di ogni genere. La prima e più pesante - e per la verità non recentissima, essendo stata ipotizzata addirittura dall’Avvocatura generale dello Stato nella memoria in difesa della costituzionalità del lodo - porta il nome di elezioni anticipate. E’ stato il primo elemento di pressione messo in campo già da alcuni giorni dal governo e rafforzatosi nella mattinata di ieri alla luce della sentenza Mondadori, considerata una sorta di avvisaglia della ripresa di un’offensiva giudiziaria nei confronti del premier. I

Il messaggio inviato alla Corte non era nemmeno particolarmente criptico: attenti giudici che se bocciate il lodo, qui va tutto per aria. Un po’ di no all’avventurosa ipotesi (quello di Emma Marcecaglia, quello di Bossi, la freddezza di Fini) hanno molto depotenziato la minaccia del corso delle ore. E così, a metà pomeriggio, Silvio Berlusconi ha completamente rovesciato lo schema di gioco. Poche righe, ma chiarissime: «Sappiano tutti gli oppositori che il governo porterà a termine la sua missione quinquennale». Cioè, qualunque cosa l’Alta Corte deciderà, il governo andrà avanti.

Avanti, a quel punto, contro «tutti gli oppositori»: ancor più aspramente di quanto accaduto fino a ora, e aggiungendo a pieno titolo al drappello di mestatori e tramatori di ogni risma i quindici giudici della Corte Costituzionale. A ben vedere, un’arma più affilata e insidiosa della minaccia di elezioni: che alcuni, come detto, hanno subito disinnescato; e che altri, invece, hanno spavaldamente invocato (da Antonio Di Pietro al leader Udc, Casini).

Del resto - è noto - arrivare allo scioglimento delle Camere non è cosa poi così semplice. Qualcuno, al Quirinale, la considera ipotesi - al momento - più che remota: «Il presidente dovrebbe andare in Parlamento - si argomenta - e dire alla sua maggioranza votatemi la sfiducia e andiamo tutti alle elezioni piuttosto che solo io a processo. Impraticabile».

Altra cosa, ovviamente, è se nel corso delle prossime settimane le tensioni nella maggioranza di governo dovessero raggiungere punte tali da non render più controllabile la situazione: ma in questo caso, si fa osservare, ci si troverebbe di fronte a una crisi “classica”, dovuta al deterioramento dei rapporti tra le forze di governo e di fronte alla quale ci sarebbe poco da obiettare.

Una terza ipotesi - tra elezioni anticipate e permanenza in carica dell’attuale governo - non è data. Silvio Berlusconi, infatti, non ha alcuna intenzione - ovviamente - di passare la mano; Gianfranco Fini lo ha rassicurato intorno al fatto che «la maggioranza è solo quella che esce dalle urne» e perfino il Pd è parso poco interessato a quel “governo del presidente” pure invocato da Francesco Rutelli.

Tolta dal campo l’ipotesi di elezioni anticipate, resta invece in piedi la possibilità che - a difesa del governo e contro la magistratura e le sue “sentenze a orologeria” - il Popolo delle libertà chiami la sua gente in piazza a manifestare. Non sarebbe la prima volta: è già accaduto in passato che i leader del Pdl ricorressero alla piazza contro - per esempio - le politiche economiche e fiscali dei governi Prodi. Sarebbe un inedito assoluto, invece, farlo per contestare sentenze emesse da un tribunale o addirittura da un organo costituzionalmente riconosciuto come, appunto, l’Alta Corte.

Tutto, dunque, è ancora in movimento in attesa dell’atteso pronunciamento sul lodo. Con quale serenità i quindici della Corte stamane avvieranno la loro discussione, è facile immaginare. Qualche giorno fa, l’assistente di uno dei giudici più in vista, confidava: «Siamo sotto cumuli di pressioni, pesanti e di ogni genere. Figurarsi che qualcuno ha avvicinato anche me, che pure non sono nemmeno sospettabile di simpatie berlusconiane». Giusto per dire il punto a cui si è...

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« Risposta #68 inserito:: Ottobre 09, 2009, 12:15:14 pm »

9/10/2009 (6:55) - LO SCONTRO

Silvio e il Colle, l'equilibrio spezzato
 
Dalla faticosa convivenza ai tentativi di moral suasion del Presidente

Fino all'ultimo incendio dopo la sentenza della Corte Costituzionale

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Adesso che lo stato dei rapporti tra i due presidenti è quello che è - inequivocabilmente logorato, se non inesistente - si può forse scriverne con meno ipocrisia. E dire, per tentare di svelenire il clima, che Silvio Berlusconi a Giorgio Napolitano ha procurato sempre un sacco di guai. A volte perfino involontariamente, e comunque sin da subito: sin da quella stretta di mano, cioè, che il Cavaliere propose all’allora capogruppo Pds alla Camera alla fine dell’intervento col quale Napolitano annunciava il «no» del suo gruppo alla fiducia chiesta da Berlusconi.

Era un’afosa mattina del maggio 1994. Il premier era allora al suo esordio a Montecitorio e quando l’attuale Presidente della Repubblica concluse il suo (pacato) discorso in aula, il Cavaliere lasciò i banchi del governo, attraversò l’emiciclo e - ricambiato - andò a stringergli la mano. Per quel gesto di cortesia politica e istituzionale, Napolitano subì un sacco di guai, di polemiche e perfino di pesanti attacchi. Per esempio da Armando Cossutta - leader di Rifondazione - che alzò l’indice e accusò: «Napolitano ha sempre concepito l’opposizione così, una opposizione di Sua Maestà. E’ per questo che piace a Berlusconi». Cose che, a rileggerle oggi, fanno sorridere.

Sia come sia, tra i due presidenti era cominciata così: verrebbe da dire, come meglio non si potrebbe. Poi, le loro strade si divisero: per ricongiungersi in un altro maggio di 12 anni dopo, quando Napolitano fu eletto Capo dello Stato. Berlusconi - e con lui tutta Forza Italia - non lo votò. In quella occasione si limitò a dire che il nuovo Presidente non avrebbe avuto il suo consenso perché «appartiene a una parte politica che non è la nostra». Pochi giorni dopo, per il solo fatto di aver conferito un incarico esplorativo a Franco Marini (allora presidente del Senato) per capire se era possibile formare un nuovo governo dopo le dimissioni di Prodi, Napolitano diventa «comunista». Da allora, tra i due presidenti il sereno non è mai più tornato. E in fondo, non può sorprendere: considerando che incarnano due idee della politica (e perfino della vita) che più lontane non si potrebbe.

Di scontri e tensioni se ne contano a decine, e vere e proprie leggende di palazzo circondano la difficile comunicazione tra i due, che hanno attraversato anche mesi senza vedersi e parlarsi direttamente (e nelle fasi di grande gelo è a Gianni Letta, naturalmente, che il Capo dello Stato ha fatto e fa giungere le proprie raccomandazioni). Era stato considerato un buon segno il fatto che, dopo averla disertata per anni, Berlusconi era tornato a calcare l’erba dei giardini del Quirinale in occasione della festa della Repubblica: si trattava, invece, solo di un’illusione. Infatti, in questo quasi anno e mezzo di coabitazione, il copione dei rapporti tra i due presidenti non è mai cambiato. Da una parte il premier a decretare, porre fiducie e lamentarsi dei freni impostigli dalla Costituzione; dall’altra il Capo dello Stato a frenare, correggere e adoperare quella che viene definita «moral suasion». Fino a che, dalle scintille su leggi come il lodo Schifani, la Finanziaria o il pacchetto sicurezza, si è passati all’incendio del caso Englaro fino al rogo che è oggi sotto gli occhi di tutti.

La vicenda Englaro, in particolare, rappresenta nelle valutazioni del Capo dello Stato una ferita che nemmeno il tempo potrà sanare. Informato del fatto che il premier intendeva affrontare con un decreto la delicatissima vicenda, prima lo sconsigliò e poi - la mattina in cui era prevista la riunione del governo - gli fece giungere una lettera personale nella quale spiegava perché non avrebbe mai potuto controfirmare un eventuale decreto. Una lettera personale tesa a evitare uno scontro aperto tra le due cariche dello Stato, che Berlusconi lesse invece in Consiglio dei ministri e interpretò come una limitazione dei suoi poteri. Partì la sfida e tra mille polemiche il governo varò comunque il decreto, che fu poi presentato alle Camere sotto forma di legge perché il Presidente - come annunciato - non lo firmò.

Al centro della contesa c’è sempre stata, insomma, una diversa interpretazione dei limiti che la Costituzione impone ai poteri dell’uno e dell’altro e - come oggi è chiaro - perfino il valore da attribuire alla nostra Carta fondante. E poi, naturalmente, come in tutti i rapporti ad alta tensione, possono giocare anche faccende minori. Secondo alcuni, per esempio, il premier mal sopporterebbe l’alto grado di fiducia di cui gode Napolitano (di molto superiore al suo) fino a scivolare in crisi che, si trattasse di due amanti, si potrebbero definire di gelosia. L’ultimo episodio risale a pochi mesi fa: G8 a L’Aquila e venuta di Obama in Italia. Non solo gli inviati al seguito del Presidente americano trovarono nelle cartelle stampa sette righe di biografia per Berlusconi e tre pagine per Napolitano. Ma Obama ebbe l’ardire di salutare il Capo dello Stato come «un grande leader che gode dell’ammirazione del popolo italiano per la sua integrità morale e la sua finezza». Integrità morale? Berlusconi se ne ebbe a male: perché, effettivamente, dall’«abbronzato» uno scherzetto così proprio non se l’aspettava...

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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 21, 2009, 09:29:30 am »

21/10/2009

Due voci nel gelo della steppa
   
FEDERICO GEREMICCA


Stavolta Giulio Tremonti ha del tutto ragione. La sorpresa manifestata dal ministro dell’Economia di fronte al gran polverone sollevato dalla sua affermazione che «il posto fisso è un valore», è giustificata. «Non capisco i giornali - ha spiegato ieri da Lussemburgo -. Ho detto una cosa scontata: come che tra stare al caldo e stare al freddo, preferisco stare al caldo». L’esempio è perfetto.

Perché sostenere, con la crisi economica (e occupazionale) ancora imperversante, che il «posto fisso» è meglio di un contratto a tempo, è appunto come imprecare - persi nella steppa siberiana - sul fatto che il caldo è meglio del freddo. Una cosa scontata. E anche inutile, considerata la sua irrealizzabilità. Il caso, quindi, potrebbe essere considerato chiuso qui. Se non fosse che resta una domanda: perché una personalità come Tremonti - cui certo l’acume non fa difetto - una mattina qualunque decide di andare a un convegno di importanti banchieri a raccontare «cose scontate», se non proprio banali?

Fatto rimbalzare nei palazzi della politica, l’interrogativo riceve una risposta tanto vaga quanto univoca: il ministro si sta preparando. E a cosa si starebbe preparando, il ministro? Qui le opinioni divergono un po’, ma solo un po’. Secondo alcuni, starebbe scaldando i motori in vista del «dopo» (e naturalmente ci si riferisce all’unico «dopo» del quale si parla nei palazzi della politica da 15 anni a questa parte: il dopo-Berlusconi). E si starebbe preparando a questo esoterico dopo, strizzando l’occhio ai sindacati, al Pd del post-primarie, alla Lega ed alla sua base, perfino all’anima «sociale» di quella parte di An confluita nel Pdl: quasi a voler testimoniare che esiste un’altra destra, capace di fare la faccia «buona» (sul «posto fisso» e forse non solo) dopo le tante facce «cattive» mostrate dal premier. Il quale premier, però, a dimostrazione che quindici anni in politica hanno fatto anche di lui un «professionista», si è ben guardato dal dargli addosso: «Sono in totale sintonia con Tremonti», ha fatto sapere ieri. Come a dire che ora sono in due, nel gelo della steppa, a sostenere che stare al caldo è meglio che morire di freddo.

Noi, naturalmente, non sappiamo se Giulio Tremonti stia davvero accendendo i motori in vista di un sempre evocato «dopo». Si ha il sospetto, però, che precisamente questo sia quello che invece pensano il presidente del Consiglio e il suo vasto mondo di riferimento. Quando una settimana fa «Il Giornale» rivelò il contenuto della lettera riservata con la quale Tremonti invitava personalità selezionate ad un convegno Aspen nientemeno che su «Costruire il dopo e rinnovare la leadership del Paese», si è inteso che il coperchio stava per saltare. Molti, infatti - a torto o a ragione - hanno considerato lo scoop del quotidiano di famiglia alla stregua di una sorta di avvertimento politico: del genere di quelli fatti giungere nelle settimane precedenti a «nemici» come Dino Boffo ed Ezio Mauro, ma anche ad «amici» troppo scalpitanti, come Gianfranco Fini, al quale fu ricordata l’esistenza di un «dossier a luci rosse» (con seguito di querela).

E nemmeno sappiamo, in verità, se mentre scriveva la sua lettera di invito al convegno Aspen (occorre «in Italia una leadership complessiva sul piano di un consenso che non sia solo immediato e mediatico») Giulio Tremonti lo faceva sapendo di varcare un suo personalissimo Rubicone: un passo, cioè, che agli occhi del premier lo faceva rientrare a pieno titolo nel cono d’ombra dei possibili «congiurati», e dunque meritevole di sospetti e di attenzioni. Non una condizione nuova, per Tremonti, si dirà. Ed è vero. Ma forse è nuova la situazione. Il Popolo della libertà, infatti, è un ribollire di opinioni diverse circa l’opportunità di andare avanti a colpi d’ascia contro le opposizioni, i magistrati, l’informazione e compagnia cantando; la Lega reclama un clima più disteso, capace di favorire - nella seconda parte della legislatura - il varo di qualche riforma; e Fini ed i suoi seguaci non fanno mistero, e ormai da tempo, di ritenere che la rotta vada rapidamente corretta. Non proprio un quadro da calma piatta, insomma. E se in questo quadro anche Tremonti si mette a discettare della leadership futura...

Comunque sia, l’ovvia sensazione è quella di aver visto in scena solo il primo atto di una pièce tutt’altro che vicina alla fine. Un atto per il quale Tremonti sta facendo ora i conti con le critiche che gli piovono addosso da Confindustria e da ministri amici e con la controffensiva - magari solo provocatoria - della Cgil. Ieri Epifani è stato netto: «Considerate le dichiarazioni del ministro Tremonti e la nota diffusa dal presidente del Consiglio a proposito del valore del posto fisso, la Cgil chiede di avviare subito un tavolo di confronto...». Come a dire che se erano solo «cose scontate», se era insomma tutto uno scherzo, il ministro dell’Economia venisse a raccontarlo lì.

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« Risposta #70 inserito:: Ottobre 25, 2009, 04:16:54 pm »

25/10/2009

Non può essere solo sfortuna
   
FEDERICO GEREMICCA


Di sicuro non se la immaginavano così, questa fredda domenica delle primarie. E certo non alla fine di un percorso interminabile e già costellato - qua e là - di «incidenti» più che imbarazzanti.

Non potevano supporre che il colpo finale fosse quello che trovano stampato proprio oggi sulla prima pagina di ogni quotidiano. Magari titoli del tipo «Ricatti e trans, Marrazzo si dimette»: il primo tra i governatori del Pd - per l’importanza della Regione che amministra - costretto, insomma, a gettare la spugna per una storia di «vizi privati», ricatti non denunciati, carabinieri arrestati e zone d’ombra ancora tutte da rischiarare.

Non lo potevano supporre, certo, gli iscritti e gli elettori democratici che oggi - con che animo è facile immaginare - andranno a deporre nelle urne milioni di schede per scegliere il loro segretario. Ma non lo potevano supporre, crediamo, neppure i duellanti per la leadership e il gruppo dirigente del Pd: che pure avevano avuto modo di verificare, nel corso della loro «campagna», quanto anche questo nuovo partito fosse esposto - a Roma come in periferia - a quella sorta di erosione morale che è il presupposto di ogni genere di inquinamento.

E così, l’appuntamento che doveva segnare l’avvio della riscossa si trasforma in un giorno nel quale, per il Pd, guardarsi allo specchio diventa ancor più indispensabile.
Che cosa racconta la parabola di Piero Marrazzo? E cosa segnalano, più in generale, gli «incidenti» a questo o a quell’iscritto che hanno accompagnato il lungo cammino verso le primarie?

Per i democratici non è stato certo un periodo fortunato: dallo stupratore «seriale», coordinatore di un circolo Pd di Roma arrestato a luglio, passando per il giovane dirigente emiliano che cercava su Facebook qualcuno che uccidesse Berlusconi, per finire alla sparatoria tra boss camorristi «iscritti» al partito a Castellammare, se ne sono viste e lette per tutti i gusti. E se non fosse bastato, ecco l’ultimo disastro: il capitombolo di Marrazzo. Onestamente, non può essere solo sfortuna.

Che l’indimenticata «diversità» proclamata ai tempi di Berlinguer fosse un ricordo del passato, l’avevano già dimostrato a sufficienza episodi accavallatisi nel corso degli ultimi tre lustri almeno. Prenderne atto fino in fondo - modificando, dunque, linguaggio, argomenti e postulati del nuovo partito - sarebbe stata cosa utile: per non farsi, almeno, trovare impreparati. Si è preferito, invece - in occasioni anche recenti - vestire la tunica bianca del Cavaliere senza macchia, pronto alla guerra col Male che è, naturalmente, sempre e soltanto dall’altra parte. Come se, per altro, prendere atto di una realtà a volte diversa da quella proclamata volesse dire accettarla e darla per scontata: mentre è indubbio che il primo passo per combattere inquinamenti e deviazioni è riconoscerne l’esistenza, chiamarli col loro nome e indicarli con chiarezza come fenomeni da debellare.

Suscitavano tenerezza e tristezza le immagini di Piero Marrazzo, passate ieri sera in tutti i tg, con la sua faccia di bravo ragazzo al tempo di «Mi manda Rai3» e di uomo perbene nei panni di governatore. Ha dubitato qualche ora che dimettersi fosse la scelta migliore, poi ha deciso con saggezza. Ecco, se proprio si vuole, quel che resta della «diversità» di cui dicevamo, si è rifugiata qui: nella diversità - appunto - dei comportamenti di fronte a inchieste e fatti più o meno criminosi. Dire che «dall’altra parte» ci sia una propensione assai meno spiccata a utilizzare lo strumento delle dimissioni non è una tesi a difesa: è una constatazione. Che certo non attutisce il pesantissimo colpo che i democratici subiscono nel giorno delle loro primarie, ma può rappresentare - proprio in una domenica così - il possibile punto della ripartenza.

A condizione, naturalmente, di un lungo bagno di concretezza e realismo, le caratteristiche forse meno evocate dall’atto di nascita del Pd in poi: ma senza le quali, come troppe cose dimostrano, è difficile trasformare un’idea in un partito. Trasformarla, cioè, in una comunità di uomini e donne che sbagliano come gli altri, che impastano il Male e il Bene e che si danno l’obiettivo di migliorare il mondo.

Non di evocarne uno che non c’è.

da lastampa.it
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« Risposta #71 inserito:: Ottobre 26, 2009, 09:47:53 am »

26/10/2009

La svolta e il ritorno all'antico
   
FEDERICO GEREMICCA


E’perfino ovvio, dopo una domenica come quella di ieri, dire che giornate così fanno certamente bene al Pd - lo rianimano, lo confortano - ma fanno bene, più in generale, all’intero Paese: che quasi tre milioni di italiani si autogestiscano in una prova di democrazia come le primarie testimonia di un Paese forse stanco ma non ancora fiaccato, nonostante le risse politiche di pessima lega e l’aria pesante che tira. Ma la massiccia affluenza alle urne - pur importante e oltre le aspettative, considerata la slavina di guai abbattutasi sul Pd - è solo la cornice entro la quale è maturata una svolta politica che potrebbe produrre novità in tempi anche molto brevi.

Infatti, il cambio di leadership e l’elezione di Pier Luigi Bersani, se non rappresentano già da soli una svolta, certo si candidano a esserne la premessa.

C’è una frase - pronunciata dal neosegretario nella fase finale della campagna per le primarie - che forse aiuta a capire più di tanti discorsi la bussola con la quale orienterà la sua leadership: «Il più antiberlusconiano è quello che lo manda a casa». Sottinteso: non quello che strilla di più. In fondo, è stato questo il vero spartiacque politico che ha diviso durante la sfida il vecchio segretario, Franceschini, da quello nuovo: il carattere e il profilo da dare all’opposizione e, dunque, anche al cosiddetto antiberlusconismo. L’obiettivo - sconfiggere il presidente del Consiglio - era ed è ovviamente identico per l’uno e per l’altro: sono i toni, i temi e lo stile politico col quale procedere che potrebbero invece rivelarsi profondamente diversi.

Dario Franceschini, e in dirittura d’arrivo anche Ignazio Marino, hanno definito questa possibile svolta come «il ritorno del vecchio». Se con questo s’intende il ritorno a qualcosa di noto, di già visto, è assai probabile che abbiano ragione. Non c’è dubbio, infatti, che tanto il nuovo segretario quanto il più convinto dei suoi sponsor - cioè Massimo D’Alema - non abbiano per nulla condiviso, da un certo punto in poi, la traiettoria nervosa e solitaria impressa al Pd dagli ultimi mesi della segreteria Veltroni, prima, e da quella di Franceschini poi: e ora, dunque, è ovvio attendersi delle correzioni. Nulla che non sia già in qualche modo noto: perché se è vero che durante la sua campagna Bersani non ha snocciolato i soliti dodici o tredici punti del solito programma, è altrettanto vero che la rotta che intende prendere l’ha tracciata a sufficienza.

Pochi punti, e pochissimi svolazzi. Primo: metter mano alla legge elettorale, certo per restituire ai cittadini la possibilità di scegliere i propri parlamentari, ma probabilmente anche per dare una sistemata ad un bipolarismo che va degenerando tanto nei toni quanto nei risultati che produce. Secondo: visto che «il più antiberlusconiano è quello che lo manda a casa», ritessere una tela di alleanze che permetta di raggiungere lo scopo, abbassare i toni di polemiche che possono risultare addirittura vantaggiose per il premier e spostare l’attenzione su quel che poi alla fine orienta davvero il voto della gente (la crisi prima di tutto, e la perdita di posti di lavoro). Terzo: pensare al Pd come a un partito europeo piuttosto che americano, un partito non di opinione ma «di massa» e radicato sul territorio, come si diceva un po’ di tempo fa.

Che queste direttrici di marcia - ammesso che siano poi davvero percorse - segnino il ritorno a qualcosa di già visto (al «prima», appunto, come ha contestato Franceschini) è fuor di dubbio. Che questo sia un male per il Pd, per l’idea che lo generò e perfino per il Paese, è cosa che ora tocca a Bersani riuscire a smentire. E tra le tante annotazioni possibili, per concludere, ne scegliamo due. Una dice che molte delle possibilità di riuscita del nuovo segretario stanno nel grado di unità che saprà costruire nel partito e nell’auspicio che gli altri leader non seminino il suo cammino di trappole, com’è avvenuto sia con Veltroni che con Franceschini. L’altra, più che una annotazione, è una speranza: che il «nuovo corso» contribuisca, per quanto gli spetta, a ricondurre il confronto politico a qualcosa che somigli - appunto - a un confronto, piuttosto che a una continua rissa. Già questo renderebbe l’aria più respirabile. E non sarebbe poco.

da lastampa.it
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« Risposta #72 inserito:: Novembre 06, 2009, 09:39:35 am »

6/11/2009

Sindrome Prodi al governo
   
FEDERICO GEREMICCA


Chi conosce Silvio Berlusconi, chi lo frequenta e gli parla, descrive il premier in preda ad un umore pessimo.

Ed è pronto a scommettere che si sia davvero alla vigilia di qualcuna delle sue note e improvvise mezze rivoluzioni. Secondo costoro, infatti, il presidente del Consiglio sarebbe il primo ad esser convinto che l’esecutivo - meglio ancora: la maggioranza che lo sostiene - si stia inesorabilmente impantanando, e che l’alternativa ad un «colpo d’ala» (a un colpo di scena) sia fare la fine della legislatura 2001-2006: un rimpasto dietro l’altro per poi filare comunque dritto alla sconfitta elettorale. Forte di quel precedente, Berlusconi è deciso a non commettere gli stessi errori che caratterizzarono la sua ultima esperienza di governo, segnata da dimissioni importanti (da Ruggiero a Scajola a Tremonti) e da un finale di legislatura non proprio esaltante. Eppure, avendo chiara la malattia, meno chiaro è - per ora - il rimedio da utilizzare.

Del resto, qualche tentativo di premere sul pedale dell’acceleratore il premier l’ha fatto: ma è andata che peggio non si poteva. Ha provato ad annunciare l’abolizione dell’Irap, ma ha poi dovuto fare marcia indietro, bloccato dal rigore di Tremonti; ha quindi rilanciato l’idea di una Grande Riforma della giustizia, ma Gianfranco Fini l’ha subito rintuzzato; e intorno alle candidature per le prossime elezioni regionali - è storia di queste ore - è montata una tale confusione che quella che era stata annunciata come una marcia trionfale si sta invece trasformando in un’inattesa e dolorosa Via Crucis.

Se il paragone non risulta offensivo per l’attuale premier (e per il suo predecessore) potremmo dire che sono diverse settimane, ormai, che il governo di Silvio Berlusconi sembra il governo di Romano Prodi: una coalizione litigiosa, un caso al giorno, ripicche, minacce e l’attività amministrativa che va a farsi benedire.

Inutile dire che si tratti di un pessimo segnale: soprattutto oggi che occorrerebbe provare a pilotare il Paese fuori dalle secche della crisi.

Secondo alcuni non si tratterebbe di tensioni nuove. Il malessere di parte del Pdl nei confronti delle pretese del partito di Umberto Bossi, per esempio, non è affatto recente; e antico è anche il dispetto di molti per la «solitaria» politica economica di Giulio Tremonti. Un fattore, soprattutto, avrebbe fino a ora evitato l’esplodere dei diversi malumori: la scelta di Berlusconi di concentrare l’attacco delle opposizioni esclusivamente su se stesso, si trattasse di escort, di lodo Alfano e di processi da celebrare. E’ stato un modo - efficace - di tener compatta la sua maggioranza. Ma appena l’opposizione ha smesso di incalzarlo su questo (evitando di replicare colpo su colpo su faccende private e dintorni) e al centro della scena ci sono arrivati i problemi del Paese, la musica ha cominciato a cambiare.

Il quadro, dunque, oggi appare fortemente mutato. Momentaneamente accantonate le polemiche roventi (e spesso sul nulla) tra maggioranza e opposizione, la situazione è riassumibile più o meno così: sul proscenio non più un insopportabile tutti contro tutti, ma un governo che fa i conti con le scelte da fare: e facendo questi conti, litiga. Niente di eccezionale, in sé: in coalizioni composite, è sempre accaduto. E oltre a non essere necessariamente una tragedia, l’aprirsi di una dialettica all’interno della maggioranza e soprattutto la riduzione del conflitto tra maggioranza e opposizione hanno in sé un’opportunità: che si cominci, civilmente, a discutere di cose serie. Il Paese ne ha un gran bisogno, ed è perfino superfluo ripeterlo. Si facciano, dunque, le scelte che servono. Sperando, naturalmente, che la pronosticata mezza rivoluzione che avrebbe in testa il premier non riporti le lancette dell’orologio al tempo degli insulti e della rissa.

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« Risposta #73 inserito:: Novembre 08, 2009, 10:20:10 am »

8/11/2009

Chi vuol mandare D'Alema in Europa
   
FEDERICO GEREMICCA


Va bene i paroloni e i grandi principi, come l’interesse dell’Europa, il prestigio dell’Italia, eccetera eccetera: ma c’è un bel po’ di gente che di questo se ne frega. E’ da un paio di settimane, infatti, che in conciliaboli più o meno riservati, si arrovellano invece intorno a una domanda alla quale non trovano una risposta. E la domanda è: ma per le nostre faccende, è più «pericoloso» - oggi e domani in prospettiva - un D’Alema in giro per il mondo come ministro degli Esteri d’Europa, oppure un D’Alema che resta in patria, ma amareggiato e magari voglioso di regolare un altro po’ di conti? Certo, è un approccio molto particolare - il solito machiavellismo italiano - a una questione che reclamerebbe, forse, altri interrogativi. Eppure, questo approccio esiste, ed è diffuso. E dunque: meglio osservare da lontano l’ipotetica missione europea del líder máximo (missione che potrebbe però trasformarsi in una nuova e potente rampa di lancio) o farci i conti qui, quotidianamente, tra una grana e un sarcasmo?

Non sembri strano che nel giorno che battezza l’avvio dell’era Bersani e della presidenza Bindi, gli eletti dell’Assemblea nazionale Pd facciano anch’essi i conti con questo interrogativo. C’è da capirlo: in fondo, fatte le differenze, somiglia un po’ a quel «che ne sarà di noi» che serpeggiò nelle file dell’Ulivo quando si fece strada l’ipotesi che Romano Prodi potesse abbandonare la sua creatura per trasferirsi a Bruxelles. E non basta. Perché in questa fredda mattinata di novembre, infatti, c’è anche un’altra suggestione - paradossale suggestione - che aleggia nei saloni del Palafiera: visto che Veltroni ha disertato anche questo appuntamento, è possibile - per caso - che il Pd «antico, socialdemocratico e troppo di sinistra» finisca invece per essere un partito che fa contemporaneamente a meno (magari solo per un po’ e solo per le posizioni di prima fila) tanto di Massimo quanto di Walter, duellanti da una vita?

I due interrogativi si intrecciano. Ma in verità, è soprattutto quello che riguarda il futuro di D’Alema a tener banco in ogni conciliabolo. Cosa è più conveniente che accada, per le nostre faccende interne? Se lo sono chiesto - e se lo chiedono - davvero in tanti. Amici e nemici, naturalmente: da Bersani a Berlusconi, per capirsi. Si può supporre che, con D’Alema emigrato in Europa, il primo sarebbe forse più libero nella gestione del partito; e che il secondo, ovviamente, vedrebbe aperta una linea di credito non da poco con l’intero stato maggiore del Pd. Invece, seduto alla presidenza del Palafiera, affianco alla neo-presidente Bindi, Bersani nega di essersi mai posto l’interrogativo: «Se Massimo riuscisse, sarei felice per lui, per l’Italia e per l’Europa, che farebbe un buon affare - dice -. Quanto al resto, a me lui non dà fastidio da nessuna parte: né se resta qui né se va lì». Di Berlusconi, purtroppo, è più difficile dire. Ed è inutile chiedere proprio a D’Alema che ne pensi e se si fidi delle mosse del Cavaliere: «La fiducia non è una categoria politica», risponde dalla sua poltroncina in prima fila al Palafiera. Ma i toni verso il premier non sono severi come al solito.

Per capirlo, basta chiedere al candidato-mister Pesc della faccenda del vero o presunto veto polacco nei suoi confronti: la domanda, infatti, diventa per D’Alema l’occasione per una riflessione non estranea a certe argomentazioni di Berlusconi. «Quel che dispiace - spiega mentre lo avvicinano in tanti per fargli gli auguri - è che a porre la questione maliziosa sia stato proprio un giornalista italiano. Siamo bravissimi a farci del male da soli all’estero e a denigrare il nostro Paese». Sì, è una tesi cara al Cavaliere. Ma l’obiezione, stavolta, non irrita D’Alema: «Intanto, lui sostiene che a essere anti-italiana è l’opposizione, il che è falso. E comunque non è che solo perché una cosa la dice Berlusconi, vuol dire che sia sbagliata».

Molti, naturalmente - anche nel Pd - fanno il tifo perché l’operazione riesca e D’Alema, per i prossimi cinque anni, abbia altro da fare che creare fondazioni, avvicendare segretari e fare e disfare maggioranze. Ma anche i dalemiani di stretta osservanza - seppur con altre aspettative - fanno il tifo perché il loro leader traslochi in Europa. «Già, sono in tanti a sperare che Massimo si tolga dai piedi - ammette Livia Turco -. Come se una volta assunto il possibile nuovo incarico, non possa intervenire ugualmente sulle cose italiane».

E Latorre, fedelissimo da sempre, aggiunge: «Si fanno delle illusioni: Massimo non abbandonerebbe comunque la politica italiana. E invece di star lì a fare calcoli, riconoscano anche loro - come avviene in Europa - la statura di un leader sempre troppo criticato». C’è altro che i dalemiani naturalmente non dicono: che se andasse in porto l’operazione-Europa, il percorso di D’Alema comincerebbe a somigliare in maniera impressionante a quello di Romano Prodi. Sempre un gradino più giù, è vero: ma la scala sembra proprio la stessa. Presidente del Consiglio come Prodi, anche se per solo un anno e mezzo; poi in Europa come lui, anche se con un ruolo appena meno di rilievo. Tutto qui? Tutto qui. Ma forse non è poco per chi ricorda che il professore tornò dall’Europa per ricandidarsi, battere Berlusconi e tornare a Palazzo Chigi...

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« Risposta #74 inserito:: Novembre 09, 2009, 11:31:38 am »

9/11/2009 (7:37)  - INTERVISTA

Bindi: "No alle riforme se servono solo al Cavaliere"

Il presidente Pd: «Pronti sul civile, ma non per i bisogni del premier»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


C’è una cosa, prima di tutto, che Rosy Bindi - neopresidente del Pd - tiene a chiarire: perché non vorrebbe che in tutto questo mare di parole circa il nuovo inizio, la ripartenza, il partito di alternativa piuttosto che di opposizione, ecco, in tutto questo sorgesse qualche equivoco. Dice: «Visto che il tema è come al solito sul tappeto, vorrei che Berlusconi avesse chiara qual è la nostra posizione: in materia di giustizia, se le proposte continuano a essere costruite esclusivamente sulle sue necessità, confermo che la disponibilità del Pd a discuterne non c’era prima e non c’è adesso. Se ci riesce, quelle riforme se le faccia approvare dalla sua maggioranza: ma osservo che, nonostante le pressioni al limite del ricatto, comincia ad avere dei problemi anche lì».

Come passo d’avvio di un nuovo dialogo non è granché...
«E su cosa dovremmo dialogare, scusi? Sulla ragionevole durata dei processi, della quale il premier si ricorda solo adesso perché gli è stato bocciato il lodo Alfano? Con Berlusconi siamo alle solite: fallisce una strada e allora ne prova un’altra. Ma l’obiettivo rimane sempre lo stesso: sottrarsi ai processi che lo attendono».
Qualcuno aveva inteso che con il “nuovo corso” la posizione del Pd potesse modificarsi: aveva inteso male?
«Certamente. E prima di tutto non aveva inteso Bersani, che anche sabato al Palafiera è stato chiarissimo: noi siamo pronti da subito a impegnarci per la riforma della giustizia civile, che interessa davvero milioni di cittadini. Ma sulla giustizia penale non accettiamo una discussione che sia condizionata dalla posizione personale del presidente del Consiglio. E guardi che ce ne spiace».
Ve ne spiace?
«Certamente. Perché occorrerebbe davvero intervenire per rendere più rapido ed efficace il funzionamento della macchina giudiziaria».
Cambiano i segretari ma il tasso di antiberlusconismo del Pd sembra restare immutato: c’è chi ne sarà deluso, forse.
«Chi si dice deluso, dovrebbe ricordare come era cominciata questa legislatura: all’insegna della nostra massima disponibilità al confronto. Se lo ricorda Veltroni? Rispettoso in campagna elettorale e poi, a esecutivo insediato, aperture, disponibilità al dialogo, governo ombra...».
E poi?
«E poi è cominciata la stagione dei lodi, della propaganda, degli attacchi personali. Il solito Berlusconi, insomma. Ed è vero che lì anche la nostra opposizione ha cambiato tono, fin quasi a entrare in concorrenza con Di Pietro, che forse se ne è addirittura avventaggiato».
E’ tempo quindi, dopo l’avvio di Veltroni e la segreteria di Franceschini, di una rifondazione? E’ questo, insomma, il mandato di Bersani?
«Nient’affatto. La verità è che, al di là delle battute d’arresto e degli errori che tutti abbiamo fatto, io considero questi ultimi 15 anni - dall’Ulivo fino al Pd - come una storia unica. E’ per questo, per intenderci, che così come ai tempi non mi piaceva la “nuova stagione” coniata da Veltroni, non mi pare il caso oggi di parlare di “rifondazione”. Bersani non parte da zero, e noi non dobbiamo ricominciare tutto ogni volta da capo. Oggi possiamo andare avanti e fare delle cose anche in ragione degli errori che abbiamo alle spalle».
Bersani, appunto: che segretario sarà?
«Io lo considero, per molti versi, il continuatore di Prodi: come Romano, non ha bisogno di strillare per dimostrare il suo antiberlusconismo. Ed ha uno stile e un messaggio fatto di semplicità che arriva a tutti. In un periodo di risse, salotti tv e cadute di stile, si presenta come un uomo che vive la realtà comune alla gente normale. Ed ha ragione a dire che Silvio Berlusconi lo si batte certo non cedendo su nulla: ma piuttosto che strillare soltanto, occorre avanzare al Paese proposte più forti di quelle del premier, mostrando il profilo di un partito già pronto per il governo».
Qualche strillo, in verità, si è sentito anche alla vostra Assemblea nazionale dell’altro giorno: quanto è rimasta colpita dal duro intervento di Franco Marini? «Molto, se devo dire la verità. Il partito va rafforzato col concorso di tutti: e uno dei motivi del mio sostegno a Bersani, è stata la certezza che avrebbe lavorato alla costruzione di un partito inclusivo. Intorno alla sua linea politica, l’unità del Partito democratico la si troverà. E’ per questo che non nascondo che il discorso di Marini mi ha un po’ toccato anche sul piano personale».
Si è forse sentita offesa?
«Non è questo il punto. Il punto è che non si può dire che in questo partito la cultura popolare non sia rappresentata: io sono presidente, Letta è vicesegretario e Franceschini è capogruppo a Montecitorio. E noi a quale storia apparteniamo? Io non credo che la cultura popolare possa essere ristretta in una corrente, perché è ben più larga e ben più forte. E non riconoscerlo mi sembra ingeneroso».
Posso chiederle, in conclusione, come mai si è commossa tanto quando ha parlato all’Assemblea nazionale?
«Per l’applauso che mi è stato riservato anche da chi aveva sostenuto altre candidature alla segreteria del partito. E soprattutto perché, dopo 20 anni di vita spesa alla realizzazione di un progetto, l’elezione a Presidente del Pd mi è parsa un grande riconoscimento ad un percorso politico e ad un impegno personale e collettivo che da oggi riprende con entusiasmo immutato».

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