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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 157928 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Novembre 19, 2009, 02:31:26 pm »

19/11/2009

La pistola che non può sparare
   
FEDERICO GEREMICCA


Non era un annuncio. E a sentire il presidente del Consiglio, nemmeno una minaccia. Insomma, l’inattesa sortita del presidente del Senato (che ieri i quotidiani hanno concordemente sintetizzato con un brusco «maggioranza unita o si vota») va derubricata, come si dice, a ipotesi di scuola: quando un governo è troppo litigioso, il danno minore è tornare alle urne. Silvio Berlusconi, infatti, non solo manifesta «stupore» per tutto questo straparlare di elezioni anticipate («mai pensato niente di simile»), ma fa addirittura sapere di considerare la guerriglia scatenatasi nel suo partito «una dialettica interna che ne accentua le capacità ideative». Meglio così: la frase sarà fatta, ma di tutto si sentiva la mancanza meno che di un’altra (per restare in tema) «legislatura breve». Molti saranno contenti, anche se non mancheranno certo i delusi. A cominciare, magari, dal direttore de «Il Giornale», Vittorio Feltri: al quale, stavolta, qualcuno ha girato una notizia fasulla, tanto da fargli titolare «Berlusconi deciso: tutti a casa».

Si fa fatica, naturalmente, a prendere per buona la versione dello stato delle cose fornita ieri dal presidente del Consiglio. Più probabilmente, il segnale che Silvio Berlusconi ha voluto far arrivare alla agguerrita pattuglia di «dissidenti» (dissidenti sull’epilogo da dare al caso-Cosentino o sul destino del ddl in materia di «processo breve») è che la sua pazienza è vicina al limite. Non solo: come spesso accade in politica, il premier ha forse anche voluto saggiare l’effetto che avrebbe sortito una più o meno velata minaccia di elezioni anticipate. Il responso è stato chiaro: nessuno dei destinatari dell’avvertimento è parso spaventato. Probabilmente, per la stessa serie di ragioni che hanno indotto ieri Berlusconi ad abbassare - e di molto - i toni.

Infatti, la minaccia di elezioni anticipate appare, al momento, quella che si è soliti definire una pistola scarica. A indurre il premier a maggior prudenza non sono stati solo i sondaggi ricevuti e non esaltanti: una coalizione che si autoscioglie nonostante una netta maggioranza in Parlamento, raramente è premiata nelle urne. Anche il paesaggio politico che avrebbe preparato e seguito l’eventuale voto, perfino in caso di vittoria, è apparso - infatti - assai sconsolante. Tanto per cominciare, appunto, ci sarebbe il problema di come affrontare le elezioni. Dando per scontato che una resa dei conti con il presidente della Camera provocherebbe certo degli esodi dal Pdl (solo lo stesso Fini e i «finiani»?), questo renderebbe necessario tentare di riportare nella coalizione con la Lega anche l’Udc (se non addirittura il nuovo partito al quale Casini lavora con Rutelli). Ne sarebbe felice, Bossi? Il leader dell’Udc è pronto a tornare nel centrodestra, e a quali condizioni? E non basta, perché il dopo-voto aprirebbe a Berlusconi - anche se vincente, e la cosa non è scontata - prospettive nient’affatto migliori di quelle attuali.

La questione giustizia, per esempio, si riproporrebbe negli stessi termini in cui è irrisolta oggi: e onestamente, cominciare per la quarta volta una legislatura con all’ordine del giorno l’«aggressione giudiziaria» al premier, appare improponibile. In più, come la recente storia politica gli ha già dimostrato, ritrovarsi con Casini in maggioranza non è che sia poi tanto più rilassante che dover fare i conti con le obiezioni di Fini. E come se non bastasse, per Silvio Berlusconi (73 anni già compiuti) si tratterebbe della sesta candidatura consecutiva alla guida del governo: una circostanza che farebbe dell’«amico Putin» un dilettante, e che non è difficile dire se e quanto sarebbe gradita alla maggioranza degli italiani.

Queste e altre ragioni, insomma, hanno consigliato e consigliano al premier di maneggiare con prudenza la «spada elettorale». La via del voto anticipato (sul quale toccherebbe comunque al capo dello Stato decidere) non è dunque percorribile: almeno non adesso, non così e non con motivazioni che disintegrerebbero il centrodestra. E se quella via è ostruita, quale resta? È banale dirlo, ma si possono utilizzare le parole scelte ieri dallo stesso presidente del Consiglio: «Governare per i cinque anni della legislatura, così come da mandato degli elettori... e completare le riforme di cui l’Italia ha bisogno». Non c’è, insomma, da inventare nulla: solo da realizzare quanto promesso. Magari con più serenità e sedendosi con gli alleati attorno a un tavolo per rivedere l’agenda delle cose da fare. Ma togliendo da quel tavolo, naturalmente, una pistola che si è mostrata - se non proprio scarica - quantomeno caricata a salve. Un’arma inutile, insomma, e che infatti non ha spaventato nessuno.

da lastampa.it
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« Risposta #76 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:11:27 am »

3/12/2009

Di che opposizione si tratta
   
FEDERICO GEREMICCA


Quando una coalizione di governo dispone di una maggioranza fatta di decine e decine di parlamentari tanto alla Camera quanto al Senato, è chiaro che qualunque tentativo dell’opposizione di determinarne una crisi in Parlamento non può che esser destinato al fallimento.

La richiesta di voto segreto su questo o quel provvedimento (quando possibile) è solitamente destinata a non riservare sorprese, e la presentazione di mozioni di sfiducia può perfino sortire l’effetto paradossale di rafforzare l’esecutivo. Chi dunque oggi è insoddisfatto dell’azione del governo e però contemporaneamente rimprovera all’opposizione scarsa efficacia nel suo agire, non lo fa certo immaginando che l’occasione della caduta dell’esecutivo sia lì a portata di mano (e ciò nonostante non venga, colpevolmente, colta). Quel che si intende piuttosto lamentare, è il perdurare di una certa afasia politica che rischia di portare fuori dalla rotta annunciata durante le primarie anche la segreteria di Pier Luigi Bersani.

Se infatti si erano ben intesi i progetti dell’ex ministro allo Sviluppo economico e dei suoi sostenitori, il «nuovo» Pd avrebbe dovuto caratterizzarsi per poche ma notevolissime innovazioni. La prima: fine dell’antiberlusconismo urlato quasi a prescindere; la seconda: ritessitura di una politica delle alleanze che archiviasse la stimolante ma vana linea della cosiddetta «vocazione maggioritaria»; la terza: costruzione e radicamento sul territorio di un partito da definire - in conseguenza delle prime due novità elencate - più ancora che di «opposizione», di «alternativa». Ora, pur tenendo naturalmente conto che l’ascesa di Bersani alla guida del Pd risale ad appena un mese fa, bisogna dire che le svolte annunciate fanno fatica non solo ad affermarsi, ma in certi casi perfino ad essere percepibili. E tale ritardo - com’è inevitabile - risalta ancor di più di fronte alla situazione in cui versa la maggioranza di governo: che lo stesso Bersani, con sintesi efficace, ha definito di «confusione micidiale».

Esempi se ne potrebbero fare diversi. Qui basta limitarsi a due, tre episodi: capaci comunque di dare il senso di quanta «micidiale confusione» alberghi ancora anche nel quartier generale del Pd. I rapporti con Di Pietro e con «la piazza»: sabato va in scena il no-Bday e tra i democratici, intorno al cosa fare, regna la stessa «confusione» che segnò, in passato, la vigilia di iniziative simili; le questioni che riguardano le vicende giudiziarie del premier: tema assai delicato sul quale - però - si oscilla dai «no» a ogni iniziativa legislativa proposta (dal lodo Alfano al «processo breve») fino alla presunta legittimità del capo del governo a difendersi non solo «nel» ma anche «dal» processo; infine, la scelta dei possibili candidati-presidenti in regioni chiave come la Puglia, il Lazio e la stessa Campania: non solo le scelte restano nervosamente in alto mare, ma su questo terreno il «nuovo», eredità del Pd veltroniano (le primarie), e l’«antico», che si intende riportare in auge (trattative tra partiti e politica delle alleanze), stanno determinando il più insidioso dei cortocircuiti.

In fondo è per questo che può sorprendere ma non scandalizzare il commento col quale, l’altra sera a Ballarò, l’analista americano Edward Luttwak ha sintetizzato l’animo con cui la diplomazia statunitense guarda allo scontro in atto tra il premier e Gianfranco Fini: «Considerando che l’opposizione non lo è, almeno ora sappiamo che c’è un’alternativa a Berlusconi: si chiama Fini». Sarà pure un osservatore di chiare simpatie repubblicane, ma è difficile non intendere quel che Luttwak ha voluto dire: un ricambio possibile - anzi: il ricambio forse oggi più possibile - non è tra maggioranza e opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza. Non è certo un giudizio che possa rallegrare il nuovo gruppo dirigente del Pd, ma sarebbe saggio tenerne conto. Non foss’altro che poiché l’Italia - e la stessa opposizione in questo Paese - ha già conosciuto una stagione nella quale ricambi e alternanza tra leader della stessa maggioranza (anzi, dello stesso partito) erano la norma. Non andava bene il conservatore Rumor? Ecco in campo Aldo Moro. Le élite non tolleravano più i modi spicci di Fanfani? Nessuna paura, arrivava il duttile Andreotti. Sembravano ricambi, e talvolta lo erano davvero. Solo che, seppellita la Prima Repubblica, nessuno immaginava si potesse tornare a una situazione così.

da lastampa.it
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« Risposta #77 inserito:: Dicembre 07, 2009, 03:52:28 pm »

3/12/2009

Di che opposizione si tratta
   
FEDERICO GEREMICCA


Quando una coalizione di governo dispone di una maggioranza fatta di decine e decine di parlamentari tanto alla Camera quanto al Senato, è chiaro che qualunque tentativo dell’opposizione di determinarne una crisi in Parlamento non può che esser destinato al fallimento.

La richiesta di voto segreto su questo o quel provvedimento (quando possibile) è solitamente destinata a non riservare sorprese, e la presentazione di mozioni di sfiducia può perfino sortire l’effetto paradossale di rafforzare l’esecutivo. Chi dunque oggi è insoddisfatto dell’azione del governo e però contemporaneamente rimprovera all’opposizione scarsa efficacia nel suo agire, non lo fa certo immaginando che l’occasione della caduta dell’esecutivo sia lì a portata di mano (e ciò nonostante non venga, colpevolmente, colta). Quel che si intende piuttosto lamentare, è il perdurare di una certa afasia politica che rischia di portare fuori dalla rotta annunciata durante le primarie anche la segreteria di Pier Luigi Bersani.

Se infatti si erano ben intesi i progetti dell’ex ministro allo Sviluppo economico e dei suoi sostenitori, il «nuovo» Pd avrebbe dovuto caratterizzarsi per poche ma notevolissime innovazioni. La prima: fine dell’antiberlusconismo urlato quasi a prescindere; la seconda: ritessitura di una politica delle alleanze che archiviasse la stimolante ma vana linea della cosiddetta «vocazione maggioritaria»; la terza: costruzione e radicamento sul territorio di un partito da definire - in conseguenza delle prime due novità elencate - più ancora che di «opposizione», di «alternativa». Ora, pur tenendo naturalmente conto che l’ascesa di Bersani alla guida del Pd risale ad appena un mese fa, bisogna dire che le svolte annunciate fanno fatica non solo ad affermarsi, ma in certi casi perfino ad essere percepibili. E tale ritardo - com’è inevitabile - risalta ancor di più di fronte alla situazione in cui versa la maggioranza di governo: che lo stesso Bersani, con sintesi efficace, ha definito di «confusione micidiale».

Esempi se ne potrebbero fare diversi. Qui basta limitarsi a due, tre episodi: capaci comunque di dare il senso di quanta «micidiale confusione» alberghi ancora anche nel quartier generale del Pd. I rapporti con Di Pietro e con «la piazza»: sabato va in scena il no-Bday e tra i democratici, intorno al cosa fare, regna la stessa «confusione» che segnò, in passato, la vigilia di iniziative simili; le questioni che riguardano le vicende giudiziarie del premier: tema assai delicato sul quale - però - si oscilla dai «no» a ogni iniziativa legislativa proposta (dal lodo Alfano al «processo breve») fino alla presunta legittimità del capo del governo a difendersi non solo «nel» ma anche «dal» processo; infine, la scelta dei possibili candidati-presidenti in regioni chiave come la Puglia, il Lazio e la stessa Campania: non solo le scelte restano nervosamente in alto mare, ma su questo terreno il «nuovo», eredità del Pd veltroniano (le primarie), e l’«antico», che si intende riportare in auge (trattative tra partiti e politica delle alleanze), stanno determinando il più insidioso dei cortocircuiti.

In fondo è per questo che può sorprendere ma non scandalizzare il commento col quale, l’altra sera a Ballarò, l’analista americano Edward Luttwak ha sintetizzato l’animo con cui la diplomazia statunitense guarda allo scontro in atto tra il premier e Gianfranco Fini: «Considerando che l’opposizione non lo è, almeno ora sappiamo che c’è un’alternativa a Berlusconi: si chiama Fini». Sarà pure un osservatore di chiare simpatie repubblicane, ma è difficile non intendere quel che Luttwak ha voluto dire: un ricambio possibile - anzi: il ricambio forse oggi più possibile - non è tra maggioranza e opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza. Non è certo un giudizio che possa rallegrare il nuovo gruppo dirigente del Pd, ma sarebbe saggio tenerne conto. Non foss’altro che poiché l’Italia - e la stessa opposizione in questo Paese - ha già conosciuto una stagione nella quale ricambi e alternanza tra leader della stessa maggioranza (anzi, dello stesso partito) erano la norma. Non andava bene il conservatore Rumor? Ecco in campo Aldo Moro. Le élite non tolleravano più i modi spicci di Fanfani? Nessuna paura, arrivava il duttile Andreotti. Sembravano ricambi, e talvolta lo erano davvero. Solo che, seppellita la Prima Repubblica, nessuno immaginava si potesse tornare a una situazione così.

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« Risposta #78 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:27:54 pm »

11/12/2009 (8:27)  - RETROSCENA

Delusione del Colle: fine del dialogo

Il presidente aspetta la rettifica, poi decide di reagire

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


A dir la verità, non è che lì sul Colle - forti delle amare esperienze fatte in questo ultimo anno - ci credessero davvero. Però, poiché la speranza è l’ultima a morire, lo speravano. Speravano, cioè, che per una volta il pesantissimo affondo portato dal Presidente del Consiglio contro la magistratura, la Corte Costituzionale e gli ultimi tre Capi dello Stato, venisse smentito o almeno corretto nei toni, attenuato nella sua inedita violenza. Dunque, hanno atteso. Naturalmente invano. Anzi, quando Silvio Berlusconi è tornato sulla questione («Non c’è niente da chiarire, sono stanco delle ipocrisie») anche i più prudenti tra i consiglieri del Presidente hanno inteso che non c’era altra via da seguire che mettere l’elmetto e tornare in campo.

Sono nate così le poche righe dattiloscritte nelle quali - forse per la prima volta - il discorso di un capo di governo (per altro svolto fuori dei confini nazionali) viene definito «violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia». Non solo: a far intendere che la misura è considerata ormai colma, nella nota del Quirinale viene espressa non solo la «preoccupazione» del Presidente della Repubblica, ma soprattutto il suo «profondo rammarico». Un rammarico che, a tarda sera, fonti della presidenza spiegavano sottolineando almeno un paio di fatti. Il primo: col suo «violento» j’accuse, Berlusconi ha di fatto mandato gambe all’aria quello che la nota del Colle definisce «spirito di leale collaborazione... che giorni fa il Senato ha concordemente auspicato».

Il secondo: giusto due mesi fa (il 7 ottobre) Napolitano era dovuto intervenire per difendere se stesso, i suoi predecessori e la Corte Costituzionale da un attacco dai toni e dai contenuti del tutto analoghi. In quella occasione - attaccando magistratura e Corte Costituzionale - il premier affermò polemicamente che «tutti sanno da che parte sta il Presidente della Repubblica...»: e il Capo dello Stato fu costretto a intervenire per ricordare che «il Presidente della Repubblica sta dalla parte della Costituzione». Si pensava che la questione fosse così chiarita. Ma naturalmente si pensava male... E non sono gli unici motivi di rammarico. Al Colle, infatti, si lamenta l’infondatezza di una serie di affermazioni con le quali la maggioranza (compresi alcuni ministri) ha contestato il fatto che l’unica istituzione che non sarebbe mai difesa quando attaccata sarebbe, appunto, la presidenza del Consiglio. «E’ di non molti giorni fa - si ricorda al Quirinale - l’intervento col quale il Presidente ha richiamato “tutte le istituzioni”, magistratura compresa, ad uno spirito di maggior serenità, responsabilità e collaborazione».

L’obiezione che arriva dal Popolo della Libertà sarebbe, dunque, infondata. Così come si smentisce, naturalmente, l’esistenza di un presunto «asse» tra il Quirinale e la presidenza della Camera. Ieri Fini è stato il primo a contestare le affermazioni tedesche di Silvio Berlusconi chiedendo al premier un «chiarimento» (e ricevendone in cambio un «sono stanco delle ipocrisie»). Ma anche in questa occasione, si spiega, tra Quirinale e presidenza della Camera non c’è stato alcun contatto preventivo. Anzi, la dichiarazione di Fini è arrivata quando il Presidente della Repubblica non era stato ancora nemmeno informato del nuovo attacco del premier: alla fine di una giornata fitta di impegni, infatti, il Capo dello Stato stava incontrando famiglie di bambini provenienti da vari paesi del mondo e curati (in alcuni casi addirittura salvati) grazie ai fondi raccolti da Telethon.

E’ solo finita quell’udienza che il Presidente è stato informato dell’accaduto, decidendo - come detto - di attendere una possibile rettifica di Berlusconi prima di intervenire in difesa della Costituzione e degli organi dello Stato pesantemente attaccati dal premier. E così, il tentativo di rinsaldare quello «spirito di leale collaborazione» invocato dal Presidente, subisce un colpo duro e dalle conseguenze nuovamente imprevedibili. Il premier andrà avanti con la sua polemica o raffredderà il clima? E cosa è lecito aspettarsi dal sistema dei partiti nei prossimi giorni? Lì al Colle si valutano con preoccupazione le dichiarazioni rilasciate nella durissima giornata di ieri: tanto quelle di sostegno al premier, quanto quelle di solidarietà al Capo dello Stato. Si cerca di tratteggiare, insomma, il quadro della situazione ed il dislocarsi delle varie forze in campo. E qualcuno, in fondo, segnala e fa notare alcuni rumorosissimi silenzi. Come quello della seconda carica dello Stato, il presidente del Senato, muto per tutto il giorno di fronte al pesante attacco mosso alla magistratura, alla Corte Costituzionale ed agli ultimi tre Presidenti della Repubblica...

da lastampa.it
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« Risposta #79 inserito:: Dicembre 22, 2009, 04:19:07 pm »

22/12/2009

Ultimo appello al premier
   
FEDERICO GEREMICCA


Comincia a esserci qualcosa di fastidioso nel coro di elogi e consensi che fa puntualmente seguito a ogni importante discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica.

Non che, naturalmente, ci sarebbe da augurarsi il contrario: più semplicemente - e considerato il punto cui è giunta la parabola - sarebbe forse tempo di veder tradotti, almeno per una volta, quegli elogi e quel consenso in atti politici coerenti e conseguenti.

A un tale pensiero si è stati forzosamente indotti ieri, ascoltando appunto il Capo dello Stato rivolgere - nello splendido Salone dei Corazzieri - il suo preoccupato discorso di fine anno alle alte magistrature della Repubblica. Il motivo è assai semplice: nel suo intervento, Napolitano è stato costretto a citarsi più volte e a ricordare come alcuni suoi allarmi (intorno ai quali, naturalmente, registrò il massimo del consenso...) sono ormai vecchi di anni: le «severe considerazioni» intorno alle storture che accompagnano il percorso in Parlamento della legge finanziaria, per esempio, risalgono addirittura ai discorsi svolti di fronte allo stesso consesso nel dicembre del 2006 e poi del 2007. Anche in quelle occasioni, grande sostegno alle preoccupazioni presidenziali e poi pagina voltata e tutto come prima.

Pur evitando pessimismi - dei quali per altro non si sente affatto il bisogno - occorre però dire che, al momento, non par di scorgere novità tali da far ipotizzare sostanziali cambiamenti rispetto al copione di questi ultimi anni. Eppure, l’intervento del Presidente si è mosso con la consueta lucidità dentro quel quadrilatero di rapporti da tempo fonte di ogni problema: politica-giustizia-governo-opposizione. Si è trattato di un discorso severo e fermo, soprattutto nei confronti della maggioranza di governo e di Silvio Berlusconi, al quale - espressa solidarietà «istituzionale e personale» - non ha certo risparmiato rilievi: dall’evocare complotti contro il governo, che la Costituzione rende impraticabili; all’aver «compresso» il ruolo del Parlamento (con il continuo succedersi di decreti-legge: 47 dall’inizio della legislatura); fino a ritenere la nuova legge elettorale una modifica di fatto della Costituzione che ne farebbe addirittura un premier eletto dal popolo.

Secondo il Capo dello Stato non è percorrendo queste vie che si favorisce una distensione del clima e non è così, soprattutto, che si costruisce un terreno favorevole alla realizzazione di riforme condivise, per le quali «purtroppo ancora non si vede un clima propizio nella nostra vita pubblica». E se quello delle riforme - istituzionali, costituzionali ed economiche - rimane, per dir così, un chiodo fisso nei ragionamenti di Napolitano, va annotato che un altro elemento di fortissima preoccupazione vi si è aggiunto negli ultimi giorni: il dovere di «prevenire ogni degenerazione verso un clima di violenza». Può apparire scontato far riferimento a questo dovere oggi, dopo l’inaccettabile episodio dell’aggressione a Berlusconi: ma Napolitano ha ricordato che appena qualche giorno prima del 13 dicembre aveva rivolto un ennesimo appello affinché venisse fermata «la spirale di una crescente drammatizzazione delle polemiche e delle tensioni tra le parti politiche e le istituzioni».

Quell’appello - come purtroppo testimoniò anche il durissimo intervento contro la magistratura, la Corte Costituzionale e gli ultimi presidenti della Repubblica svolto da Berlusconi appena tre giorni prima dell’aggressione milanese - rimase inascoltato: l’auspicio del Capo dello Stato è che almeno ora tutti riflettano sulla china imboccata. «Stiamo attenti - ha chiesto ai leader e alle autorità presenti nel Salone dei Corazzieri - a non lacerare quel fondo di tessuto unitario» decisivo per la tenuta democratica del Paese e il suo sviluppo.
Anche stavolta l’appello è stato rivolto a tutti con tono appassionato ed è stato da tutti, naturalmente, apprezzato e condiviso.

Il solito copione, verrebbe da dire: anche se, soprattutto dopo l’aggressione subita da Silvio Berlusconi, c’è da sperare che alla solita trama fatta di polemiche e tensioni, uomini di buona volontà decidano di cambiare almeno il finale.

da lastampa.it
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« Risposta #80 inserito:: Gennaio 07, 2010, 05:03:29 pm »

7/1/2010 (7:18) - REPORTAGE

La Puglia e 'a guerra "Qua ci suicidiamo"
 
Il sindaco Emiliano sbotta: mi sono stancato di fare lo psichiatra

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI


Può capitare perfino di raccogliere belle frasi, andandosene in giro per Bari a sondare l’umore di qualcuno degli attori di una confusissima vicenda che tutti però ormai chiamano, per semplicità, «’a guerra».

Quella che regala, per esempio, Michele Emiliano, imponente sindaco di Bari, mentre si abbandona sulla poltrona del suo ufficio in questo tiepido mattino della Befana: «Le confesso che mi sono abbastanza stancato di fare lo psichiatra del centrosinistra pugliese. E ancor di più di starmene a guardare l’agonia, anche mentale, di certa sinistra delle nostre parti. Forse è davvero venuto il momento di pensare solo e soltanto all’amministrazione. Ma a Nichi io l’avevo detto per tempo: “Dacci una mano, che se no qui finisce che rischiamo di perdere le elezioni”. Quella mano io la sto ancora aspettando».

Anche qualcun altro dice di aver chiesto la stessa cosa a Nichi Vendola: dare una mano. Usando altri argomenti, però, e un’altra bella frase. Nicola Latorre: «A Nichi abbiamo detto: queste sono le chiavi della macchina, guida tu. Poi però abbiamo visto che sulla macchina guidata da lui non ci vuole salire nessuno, e noi invece abbiamo bisogno di riempire tutti i sedili. Casini ha detto che l’Udc sosterrà Francesco Boccia anche se Vendola dovesse candidarsi comunque. E anche a rischio di perdere. Mi pare importante, politicamente, e bisognerebbe capirlo». Ma per quanto importante, anche a Nicola Latorre - mentre lo dice - non può sfuggire che non deve essere proprio il massimo della vita, per un governatore, sentirsi dire (alla fine di una legislatura scoppiettante) «scusa ma fatti da parte che altrimenti l’Udc non sale a bordo».

E infatti Nichi Vendola non ha preso affatto bene né queste né altre richieste del genere. Lui, il «governatore del popolo» che sconfisse contro ogni pronostico uno dei più furbi leoni berlusconiani, Raffaele Fitto, non ci sta a mettersi in disparte. Per ragioni politiche e personali: «Casini dice che in Puglia non può votare per me perché sono la sinistra no global, ma sbaglia: i miei apologeti sono stati D’Alema e Latorre, che hanno parlato di me come di una forte novità nel campo del riformismo. Comunque sia, con l’Udc si regolino come credono: qui però si capirà cosa è destinato a essere il Pd. E per quanto mi riguarda personalmente, e a proposito di certe polemiche che al tempo hanno diviso i democratici, vorrei si ricordasse che non ho fatto una scissione per far affermare una vocazione minoritaria... Mi sono battuto per un compromesso tra la sinistra e il centro: e ora che dote dovrei portare a questo progetto, il mio suicidio politico?».

Il suo e, con ogni probabilità, dell’intero centrosinistra pugliese. Perché non c’è altro modo per definire quel che accadrebbe alle elezioni di marzo con in campo due candidati del centrosinistra, Vendola - appunto - e Francesco Boccia (economista 42enne, neodeputato, ormai più candidato che esploratore) che ha subito ottenuto il sostegno di Casini: un suicidio politico. Che Michele Emiliano aveva però profetizzato per tempo, e non solo chiedendo a Vendola - pena la sconfitta - il sostegno alla sua o a un’altra candidatura gradita all’Udc: «Quando arrivò in campo l’ipotesi di candidare me - racconta - io lo dissi anche a D’Alema: “Massimo, guarda che Nichi non mollerà e ci farà perdere le elezioni”. Bersani sta provando a convincerlo in ogni modo, perfino promettendogli di occuparsi di Giordano, di Migliore e di altri compagni: ma niente da fare.

In ogni caso, per me la linea di ampliare le intese con l’Udc ovunque possibile è giusta: con loro abbiamo già vinto a Foggia, a Brindisi, alla provincia di Taranto...». Allora, visto che insistevano, Nichi Vendola ha chiesto le primarie: «Facciamo scegliere ai cittadini. Io sono pronto a sfidare Emiliano e chiunque altro». Figurarsi Francesco Boccia, che già sconfisse alle primarie delle passate elezioni... Per ora gli è stato risposto di no: onestamente, con motivazioni diverse e non proprio chiare. Nicola Latorre si spiega meglio: «Tanto per cominciare ricordiamo che qui in Puglia abbiamo fatto in assoluto le prime primarie per la scelta del candidato-presidente: questo per dire che nessuno di noi è contrario alle primarie. Solo che non le vogliono l’Udc e Di Pietro, che qui sono i nostri alleati fondamentali. Per noi è strategicamente importante costruire un rapporto di alleanza con Casini, e la tappa pugliese non è irrilevante».

Ed eccola qui, in fondo, la questione delle questioni. Nelle settimane della sfida di Bersani e D’Alema a Franceschini e Veltroni, era parso un po’ astratto l’oggetto della disputa: nuovo contro vecchio, primarie-sì primarie-no, la sepoltura della cosiddetta vocazione maggioritaria. Qui in Puglia, nel fuoco dello scontro, si vede invece bene la differenza: e il fatto che la musica sia cambiata. Per esempio, privilegiare il rapporto tra i partiti - come sta avvenendo - e a questo subordinare la scelta dei candidati, rende le primarie non solo inutili ma addirittura pericolose, perché capaci di sconfessare la scelta già compiuta. E’ questo che fa dire a Vendola «qui si capirà cosa è destinato a essere il Pd». Ma non è affatto detto che non sia proprio questo quel che da qui si intende far capire.

da lastampa.it
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« Risposta #81 inserito:: Gennaio 12, 2010, 09:50:45 pm »

12/1/2010

Tra Cavaliere e Colle scende il disgelo
   
FEDERICO GEREMICCA


In un Paese dalle dinamiche istituzionali normali, l’incontro tra il Presidente della Repubblica e il capo del governo non potrebbe esser certo considerato una notizia: e limitatamente all’ambito politico, tantomeno un piccolo evento. Ma siamo in Italia, e tra le tante particolarità nostrane, va annoverata la circostanza che erano praticamente quattro mesi - un’eternità - che i due presidenti non si incontravano faccia a faccia. L’ultimo colloquio, infatti, risaliva ai tempi della bocciatura del cosiddetto lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale: ed era stato preceduto e poi seguito da polemiche assai aspre tra i due Palazzi.

Dopo mesi di fuoco e di fiamme, di accuse e di difese, un lento e parziale disgelo era cominciato con la telefonata fatta giungere da Napolitano al premier dopo l’aggressione milanese; ed era stato poi rafforzato da analoga iniziativa - assunta stavolta da Berlusconi - in occasione del messaggio di fine anno rivolto agli italiani dal capo dello Stato.

Ma la prova del nove che i rapporti tra i presidenti stessero davvero cominciando a rientrare in un ambito di «normalità istituzionale», non poteva che arrivare da un colloquio diretto e personale tra i due: e ieri, in fondo, quella prova è arrivata.

Giorgio Napolitano ha molto apprezzato il fatto che, rientrato a Roma dopo un mese di assenza, tra le primissime cose da fare Berlusconi abbia voluto inserire - appunto - un incontro col Capo dello Stato. E l’apprezzamento del Quirinale verso questa forma di cortesia istituzionale, non è l’unico ad aver segnato la giornata di ieri. Il Colle, infatti, archivia l’incontro come un «sereno scambio di opinioni», dando dunque ad intendere che il faccia a faccia ha avuto toni ben diversi da alcuni tesi colloqui svoltisi nei mesi passati. Difficile dar per scontato - naturalmente - che il dato della ritrovata serenità possa esser considerato acquisito una volta e per sempre, ma il segnale è certo importante: perché arriva giusto alla ripresa dell’attività dopo la lunga pausa natalizia, e perché potrebbe dunque condizionarla dando un’impronta di maggior serenità all’intero dibattito politico.

Le poche indiscrezioni filtrate, per altro, segnalano come il colloquio sia da considerare positivo e perfino potenzialmente fruttuoso anche nel merito. «Abbiamo parlato degli impegni dei prossimi mesi e della cose da fare», ha spiegato Berlusconi alla fine del lungo faccia a faccia, e il Quirinale conferma: non celando una positiva sorpresa per i toni e gli argomenti del premier, che non è tornato sulle polemiche dei mesi passati, non ha insistito sui provvedimenti in materia di giustizia all’esame del governo (che ieri hanno determinato una nuova gelata nei rapporti tra maggioranza e opposizione) e - soprattutto - ha parlato con realismo delle cose che il governo ha in cantiere per i prossimi mesi.

Se il premier rispetterà l’agenda prospettata a Napolitano, è ipotizzabile immaginare un avvio d’anno privo di forti tensioni: ma la questione è, appunto, vedere se la scaletta di interventi illustrati al Capo dello Stato non sarà spazzata via - come spesso accaduto in passato - dalle questioni legate alla riforma della giustizia o, addirittura, dalle cosiddette «leggi ad personam». Rilancio dell’economia, Mezzogiorno, ordine pubblico (terreno sul quale Berlusconi ha sottolineato i risultati ottenuti dal suo governo), scuola e università sono i campi sui quali il premier ha annunciato a Napolitano una decisa ripartenza in questo 2010. E poi, naturalmente, c’è la partita appena aperta sulla riforma delle aliquote fiscali...

Non è passata inosservata, al Colle, la prudenza - addirittura la circospezione - con la quale il capo del governo ha affrontato le diverse questioni sul tappeto e, in particolare, l’annunciata riforma del fisco. La riduzione delle aliquote - promessa all’atto della sua discesa in campo, ormai 16 anni fa - è problema al quale Berlusconi vorrebbe metter mano con decisione, ma non ha nascosto al Presidente le difficoltà - di ordine politico e soprattutto economico - che ingombrano la strada di questa riforma.

Si rifaranno i conti e si proveranno proiezioni per valutare la riduzione ipotizzabile degli introiti nelle casse dello Stato: e la sensazione finale, insomma, è che la manovra sulle aliquote non sia cosa né scontata né realizzabile in poche settimane. Se ne continuerà a parlare. Ma già parlarne, piuttosto che scontrarsi usando le tasse come clava da brandire contro l’avversario politico, sarebbe un passo in avanti. Quel passo che il Paese attende invano ormai da più di un anno.

da lastampa.it
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« Risposta #82 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:13:02 pm »

21/1/2010 (7:24)  - COLLOQUIO

D'Alema: "Nichi ha fallito come leader"

Massimo D'Alema durante un incontro del Pd a Bari
   
«Da soli le elezioni si perdono. E io non ne ho persa nemmeno una»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI


La prima questione da dirimere, arrivando a Bari e avendo la fortuna di ritrovarsi faccia a faccia con Massimo D’Alema, è decidere se dar spazio alle divertenti divagazioni dell’ex premier oppure provare a cominciare subito dalle cose serie. Decidere, cioè, se farsi intrattenere sull’«Elogio della cozza pelosa» - romanzo breve in forma dialettale, scritto dal parroco di Gallipoli - oppure, senza perder tempo, chiedere a D’Alema di Nichi Vendola e delle sanguinose primarie pugliesi. Si opta, alla fine, per la seconda via: e naturalmente di elogi, in tutti i sensi, non se ne sentiranno più.

Infatti, il primo gesto che fa D’Alema è prendere dalla scrivania della stanza in cui si trova uno dei manifestini di propaganda stampati da Vendola per queste primarie che lo contrappongono a Francesco Boccia. La parola chiave, in grande e maiuscolo, è SOLO: «SOLO giovani idee», «SOLO lavoro stabile», «SOLO contro tutti» (con il «tro» finale semicancellato da un tratto di penna). «E’ una propaganda micidiale - annota l’ex premier -. Autolesionista. Non è da soli che si vincono le elezioni: da soli si perdono. Ma questo, a Nichi, pare non importare più nulla: noi siamo nelle primarie per battere la destra, lui è nelle primarie per battere noi del Pd».

I toni sono forti, e ce ne saranno di più forti ancora. Del resto, se per i democratici la posta in palio in Puglia è alta, per Massimo D’Alema personalmente è altissima: perdere le elezioni dopo aver avversato la ricandidatura di Vendola in nome dell’allargamento della coalizione all’Udc, sarebbe uno scatafascio difficile da spiegare e impossibile da difendere. Ma se qualcuno immagina che questa eventualità faccia tremare i polsi all’ex presidente del Consiglio, evidentemente conosce poco D’Alema ed il suo ego incontenibile: «Io non ho mai perso un’elezione, non ho mai perso un Congresso... Aspettiamo di vedere come va a finire e poi ne riparliamo».

E dunque, ventre a terra per città e paesini pugliesi, per tentare di centrare il primo e non facile obiettivo: far sì che Boccia batta Vendola nelle primarie di domenica prossima. Cosa tutt’altro che facile, e non solo perchè il Pd fatica a mobilitarsi e sconta una fronda pro-Nichi al suo interno: ma anche per la radicata popolarità del governatore che, proprio come D’Alema, qui si gioca un pezzo non irrilevante del suo futuro politico. E pensare che proprio sul «giovane» Nichi, non troppo tempo fa, l’ex premier fece un importante investimento politico, scommettendo che dalla scissione di Rifondazione potesse nascere un nuovo partito della sinistra meno «radicale» e più affidabile sul piano della responsabilità di governo.

«Ed è qui che Vendola ha fallito - spiega D’Alema -. Ha fallito come leader nazionale. Quando anche in Puglia si sono delineate le condizioni per un allargamento della coalizione all’Udc, doveva esser lui a indicare subito una personalità che lo avvicendasse e tenesse assieme la nuova alleanza. Non ha voluto farlo, è rimasto inchiodato al suo ruolo locale ed ha fatto un errore politico che ora può diventare un disastro. Io non ho astio verso di lui, e potrei perfino dire di conservare nei suoi confronti dell’affetto: ma il suo personalismo ha avvelenato una vicenda politica che doveva svilupparsi diversamente. Noi potevamo puntare su Boccia senza fare nemmeno le primarie, come ci chiedeva l’Udc. Abbiamo deciso di percorrere un’altra via. Ma se i risultati sono questi...».

Ed effettivamente, i risultati non sono brillanti. Tanto per cominciare, qui in Puglia sembrano in corso primarie assai stravaganti: Vendola contro D’Alema, potremmo dire, tale è la presenza e la passione che l’ex premier sta gettando nella sfida. Ma soprattutto va registrato un progressivo incattivimento della campagna, che già tracima in accuse da tribunale: dall’entourage del governatore, infatti, si fa trapelare la notizia che «dall’altra parte cominciano a girare soldi, soldi per pullman che portino la gente a votare, soldi in cambio di voti a Boccia alle primarie». Il clima, insomma, si fa pesante. E paiono gettarsi i presupposti per la contestazione dell’esito delle primarie: con tutto quel che potrebbe poi seguirne in vista della partita più importante, che resta la sfida al centrodestra.

Questo più di tutto pare irritare Massimo D’Alema: che intanto nega di aver avversato le primarie e di aver detto sì solo alla fine per evitare rischi peggiori. Tira fuori dalla tasca il cellulare e mostra il testo di un sms inviato a Boccia il primo gennaio: «Le primarie sono la via migliore da seguire...», c’è scritto. E c’è una cosa ancor più imporante che tiene a chiarire: «Qui non è in corso una guerra tra ras locali o capibastone. Qui si gioca una partita politica avviata da tempo e decisiva per il nostro futuro. Con l’Udc abbiamo vinto già in passato in molte realtà locali: e in assoluta controtendenza, mentre qualcuno perdeva Roma, noi riconfermavamo la nostra forza a Bari. Insomma, non siamo di fronte a un’operazione politicista calata dall’alto: lavoriamo a un progetto politico che ci permetta di battere la destra e Berlusconi».

Difficile, naturalmente. E se Boccia perdesse le primarie contro Vendola? E se alla fine, chiunque vinca le primarie, il Pd venisse sconfitto alle elezioni? I chiodi con i quali crocifiggere Massimo D’Alema sono già pronti, e lui naturalmente lo sa. «Immagino già le sciocchezze. La fine del dalemismo, la sconfitta del re di Puglia, il declino di D’Alema... Sono dieci anni che aspettano di poterlo dire o di poterlo scrivere. Che vuole che le dica? A me basterà non leggere i quotidiani nei tre giorni successivi al voto. Del resto, è quel che fa il 93 per cento degli italiani...».

da lastampa.it
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« Risposta #83 inserito:: Gennaio 21, 2010, 05:57:31 pm »

21/1/2010 (7:24)  - COLLOQUIO

D'Alema: "Nichi ha fallito come leader"

Massimo D'Alema durante un incontro del Pd a Bari
   
«Da soli le elezioni si perdono. E io non ne ho persa nemmeno una»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI


La prima questione da dirimere, arrivando a Bari e avendo la fortuna di ritrovarsi faccia a faccia con Massimo D’Alema, è decidere se dar spazio alle divertenti divagazioni dell’ex premier oppure provare a cominciare subito dalle cose serie. Decidere, cioè, se farsi intrattenere sull’«Elogio della cozza pelosa» - romanzo breve in forma dialettale, scritto dal parroco di Gallipoli - oppure, senza perder tempo, chiedere a D’Alema di Nichi Vendola e delle sanguinose primarie pugliesi. Si opta, alla fine, per la seconda via: e naturalmente di elogi, in tutti i sensi, non se ne sentiranno più.

Infatti, il primo gesto che fa D’Alema è prendere dalla scrivania della stanza in cui si trova uno dei manifestini di propaganda stampati da Vendola per queste primarie che lo contrappongono a Francesco Boccia. La parola chiave, in grande e maiuscolo, è SOLO: «SOLO giovani idee», «SOLO lavoro stabile», «SOLO contro tutti» (con il «tro» finale semicancellato da un tratto di penna). «E’ una propaganda micidiale - annota l’ex premier -. Autolesionista. Non è da soli che si vincono le elezioni: da soli si perdono. Ma questo, a Nichi, pare non importare più nulla: noi siamo nelle primarie per battere la destra, lui è nelle primarie per battere noi del Pd».

I toni sono forti, e ce ne saranno di più forti ancora. Del resto, se per i democratici la posta in palio in Puglia è alta, per Massimo D’Alema personalmente è altissima: perdere le elezioni dopo aver avversato la ricandidatura di Vendola in nome dell’allargamento della coalizione all’Udc, sarebbe uno scatafascio difficile da spiegare e impossibile da difendere. Ma se qualcuno immagina che questa eventualità faccia tremare i polsi all’ex presidente del Consiglio, evidentemente conosce poco D’Alema ed il suo ego incontenibile: «Io non ho mai perso un’elezione, non ho mai perso un Congresso... Aspettiamo di vedere come va a finire e poi ne riparliamo».

E dunque, ventre a terra per città e paesini pugliesi, per tentare di centrare il primo e non facile obiettivo: far sì che Boccia batta Vendola nelle primarie di domenica prossima. Cosa tutt’altro che facile, e non solo perchè il Pd fatica a mobilitarsi e sconta una fronda pro-Nichi al suo interno: ma anche per la radicata popolarità del governatore che, proprio come D’Alema, qui si gioca un pezzo non irrilevante del suo futuro politico. E pensare che proprio sul «giovane» Nichi, non troppo tempo fa, l’ex premier fece un importante investimento politico, scommettendo che dalla scissione di Rifondazione potesse nascere un nuovo partito della sinistra meno «radicale» e più affidabile sul piano della responsabilità di governo.

«Ed è qui che Vendola ha fallito - spiega D’Alema -. Ha fallito come leader nazionale. Quando anche in Puglia si sono delineate le condizioni per un allargamento della coalizione all’Udc, doveva esser lui a indicare subito una personalità che lo avvicendasse e tenesse assieme la nuova alleanza. Non ha voluto farlo, è rimasto inchiodato al suo ruolo locale ed ha fatto un errore politico che ora può diventare un disastro. Io non ho astio verso di lui, e potrei perfino dire di conservare nei suoi confronti dell’affetto: ma il suo personalismo ha avvelenato una vicenda politica che doveva svilupparsi diversamente. Noi potevamo puntare su Boccia senza fare nemmeno le primarie, come ci chiedeva l’Udc. Abbiamo deciso di percorrere un’altra via. Ma se i risultati sono questi...».

Ed effettivamente, i risultati non sono brillanti. Tanto per cominciare, qui in Puglia sembrano in corso primarie assai stravaganti: Vendola contro D’Alema, potremmo dire, tale è la presenza e la passione che l’ex premier sta gettando nella sfida. Ma soprattutto va registrato un progressivo incattivimento della campagna, che già tracima in accuse da tribunale: dall’entourage del governatore, infatti, si fa trapelare la notizia che «dall’altra parte cominciano a girare soldi, soldi per pullman che portino la gente a votare, soldi in cambio di voti a Boccia alle primarie». Il clima, insomma, si fa pesante. E paiono gettarsi i presupposti per la contestazione dell’esito delle primarie: con tutto quel che potrebbe poi seguirne in vista della partita più importante, che resta la sfida al centrodestra.

Questo più di tutto pare irritare Massimo D’Alema: che intanto nega di aver avversato le primarie e di aver detto sì solo alla fine per evitare rischi peggiori. Tira fuori dalla tasca il cellulare e mostra il testo di un sms inviato a Boccia il primo gennaio: «Le primarie sono la via migliore da seguire...», c’è scritto. E c’è una cosa ancor più imporante che tiene a chiarire: «Qui non è in corso una guerra tra ras locali o capibastone. Qui si gioca una partita politica avviata da tempo e decisiva per il nostro futuro. Con l’Udc abbiamo vinto già in passato in molte realtà locali: e in assoluta controtendenza, mentre qualcuno perdeva Roma, noi riconfermavamo la nostra forza a Bari. Insomma, non siamo di fronte a un’operazione politicista calata dall’alto: lavoriamo a un progetto politico che ci permetta di battere la destra e Berlusconi».

Difficile, naturalmente. E se Boccia perdesse le primarie contro Vendola? E se alla fine, chiunque vinca le primarie, il Pd venisse sconfitto alle elezioni? I chiodi con i quali crocifiggere Massimo D’Alema sono già pronti, e lui naturalmente lo sa. «Immagino già le sciocchezze. La fine del dalemismo, la sconfitta del re di Puglia, il declino di D’Alema... Sono dieci anni che aspettano di poterlo dire o di poterlo scrivere. Che vuole che le dica? A me basterà non leggere i quotidiani nei tre giorni successivi al voto. Del resto, è quel che fa il 93 per cento degli italiani...».

da lastampa.it
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« Risposta #84 inserito:: Gennaio 23, 2010, 06:05:43 pm »

 23/1/2010 (7:32)  - RETROSCENA

Bari, il sospetto dei dalemiani "Vogliono fregare Massimo"
   
Primarie-trappola per il capo. Latorre «Calcolo miope e suicida»

FEDERICO GEREMICCA
BARI

Liberarsi di Massimo D’Alema. O almeno assestargli un colpo tale da ridurne drasticamente l’influenza e il potere, qui in Puglia e magari non solo in Puglia. L’occasione, stavolta, è ghiottissima: e in questa settimana di primarie c’è chi ha lavorato - senza farne nemmeno mistero - per non lasciarsela sfuggire. E così, imprevedibilmente, le urne che domani sera diranno chi tra Vendola e Boccia sfiderà il mister X scelto dal Pdl emetteranno anche un altro verdetto: se l’astro dalemiano continua a brillare alto nel cielo o se va mutando in stella cadente. Infatti, dopo aver bloccato la ricandidatura di Nichi Vendola e puntato su Francesco Boccia, per Massimo D’Alema una sconfitta del giovane economista in queste primarie-trappola rappresenterebbe un colpo assai pesante: micidiale, addirittura, se fosse seguito dalla perdita del governo pugliese nelle elezioni previste per fine marzo.

Un paio di giorni fa, sorseggiando un caffè, Nicola Latorre, senatore e amico dell’ex premier, confermava l’esistenza sia del rischio che del progetto: «La tentazione di assestare una botta a Massimo è forte, naturalmente. E’ chiaro che si tratta di un calcolo miope e suicida: ma quando vedo una parte dei democratici apertamente schierata con Vendola e contro il candidato sostenuto dal Pd, i miei sospetti aumentano». E i sospetti dalemiani - o di alcuni dei dalemiani - stavolta non sembrano infondati: assessori regionali, segretari di sezione e sindaci di città come Andria, Barletta o Foggia fanno da giorni campagna per Vendola. Lo fanno, certo, per opporsi all’operazione che prevede - pur di allargare l’alleanza all’Udc - proprio la defenestrazione del governatore in carica: ma è chiaro che - non foss’altro che come risultato «oggettivo» - una sconfitta di Boccia alle primarie porterebbe in dote con sé la sconfessione dell’operazione voluta prima di tutto da Massimo D’Alema.

Prima di tutto da lui: ma certo non solo da lui. L’altra sera, piombato a Bari per tentare di motivare le truppe del Pd, Pier Luigi Bersani ha infatti negato regie dalemiane: «Questa non è questione che riguardi solo D’Alema, perché la Puglia non è affatto un “laboratorio”: quel che si tenta qui, e cioè accorciare le distanze tra le forze d’opposizione, è pienamente dentro la nostra linea nazionale». Sarà. Però se è vero - come annota Bersani - che «le intese con Casini non ci vedono subalterni, perché i candidati-presidente sono quasi ovunque del Pd», è anche vero che non risultano sacrifici (se non in Puglia) di governatori uscenti silurati dopo il primo mandato. E comunque, che le ragioni del tentativo di affondare Vendola non siano state granché comprese è testimoniato anche dal fatto che persino i quotidiani locali (La Gazzetta, il Corriere del Mezzogiorno e le cronache di Repubblica) fanno il tifo per Nichi. Il che qualcosa vorrà pur dire.

Naturalmente, non c’è nulla di quanto finora detto che a D’Alema non sia chiaro. Nonostante i tanti successi (anche in elezioni recenti) ha sentito crescere nel tempo il dispetto verso una sorta di «protettorato» che comincia, secondo alcuni, a farsi soffocante.

Leader locali (e non solo locali) come Vendola e il sindaco Emiliano non nascondono insofferenza verso quella che considerano una sorta di «sovranità limitata»: e l’occasione di incrinare il potere dalemiano attraverso queste primarie a qualcuno sembra arrivata dal cielo. «L’esigenza di ridurre l’egemonia dalemiana - dice Cinzia Capano, deputata pd vicina ad Emiliano - è avvertita ormai da molti. La controprova è nel consenso intorno a Vendola: cresciuto a dismisura da quando gli si è parato contro Massimo D’Alema». Perfino dall’altra parte della barricata - nel centrodestra - si sa che una delle poste di queste primarie è proprio il potere dell’ex premier. Dice Salvatore Tatarella, eurodeputato e fratello dell’indimenticato Pinuccio: «E sì che vogliono dare una botta al mio amico Massimo. Sbagliano. E non so nemmeno se ci riusciranno...».

Se ci riuscissero, però, il lunedì post-primarie potrebbe non essere un giorno allegro per D’Alema (e per tutto il Pd, naturalmente). E tante cose potrebbero cambiare di segno. Così, perfino l’elezione dell’ex premier a presidente del Copasir (programmata per la prossima settimana) rischierebbe di esser vista sotto un’altra luce: da scelta poco comprensibile (considerato l’alto profilo di D’Alema) a ricovero dopo la sconfitta. Ammesso che, naturalmente, gli avversari non abbiano sottovalutato - per l’ennesima volta - il potere e la capacità di reazione dell’ex presidente del Consiglio...

da lastampa.it
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« Risposta #85 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:43:34 pm »

24/1/2010 (7:54)  - COLLOQUIO

Bersani: "Non ci chiuderanno in una riserva indiana"

Il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani
   
Bersani: ribadisco il no a scambi sul processo breve

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI

Dice: «Io so cosa vorrebbero: chiuderci in una sorta di riserva indiana. Immaginano che alle prossime elezioni noi si sia già contenti di vincere in tre o quattro regioni, così che loro possano tenerci imprigionati lì, deboli e controllati. Ma se è questo quello che immaginano, rifacciano i conti, perché non andrà così e nella loro riserva indiana noi non ci finiremo». Sarà che la mattinata è cominciata com’è cominciata - e cioè con le prime pagine dei quotidiani che stampano l’ennesima inchiesta giudiziaria su Silvio Berlusconi, con tutto quel che segue - fatto sta che Pier Luigi Bersani sembra essersi davvero stufato: e in questo colloquio - a tre mesi dalla vittoria nelle primarie di ottobre - il leader Pd sfodera una durezza inusitata.

Sulle questioni delle riforme e della giustizia, per esempio: a proposito delle quali lascia intendere che l’approvazione al Senato del cosiddetto «processo breve» ha segnato un punto di non ritorno nei rapporti con la maggioranza di governo. «Continuo a ricevere inutili sollecitazioni a non cedere su questo o su quello. Ringrazio, ma risparmino la fatica: già al Congresso spiegai che, al punto cui si era giunti, non era immaginabile che il Pd potesse far da sponda a qualunque tipo di legge minimamente sospettabile di esser varata per risolvere i problemi del nostro premier. Oggi è ancora peggio, rispetto a due o tre mesi fa.

E poiché forse in giro c’è qualche equivoco e si immagina che il Pd possa barattare l’archiviazione del “processo breve” con un voto favorevole alla legge sul legittimo impedimento, vorrei essere chiaro: noi non voteremo mai, in nessun caso e per nessuna ragione, un singolo e isolato provvedimento in materia di giustizia che riguardi il Cavaliere e non sia inserito in un chiaro processo di riforma. Mai e per nessuna ragione. Loro andranno avanti lo stesso? Possono farlo. Ma sappiano che, a maggior ragione se si trattasse di leggi costituzionali - che se non approvate con una maggioranza dei due terzi permettono un referendum - noi siamo pronti al referendum. L’abbiamo già fatto e l’abbiamo già vinto».

Non era cominciato così, il viaggio del nuovo leader dei democratici. Ma come per una sorta di maleficio - e alla stessa maniera, in fondo, di quanto capitò a Veltroni - ha dovuto arretrare nella trincea: passando da una seppur prudente disponibilità al confronto ad un atteggiamento assai sospettoso verso qualunque invito al dialogo giungesse dagli emissari berlusconiani. Soprattutto quando l’oggetto del dialogo avrebbe dovuto essere - o dovrebbe essere - l’immunità del Cavaliere: «Berlusconi è ancora in tempo a farlo, certo - dice Bersani -. Ma già in questi quindici anni e passa, se fosse stato uno statista, avrebbe dovuto alzarsi in Parlamento e dire “me li risolvo da solo i miei problemi giudiziari, vi tolgo dall’imbarazzo”. Soprattutto quando era - come oggi - al governo di Palazzo Chigi. Non ci ha mai nemmeno pensato. Affari suoi. Noi del Pd, però, possiamo e dobbiamo decidere degli affari nostri: e la decisione è non intorbidire il percorso. Se noi dessimo strada a un qualunque provvedimento che, seppur spacciato per riforma, servisse solo a garantire l’immunità del presidente, noi imbratteremmo la parola riformismo, e se ne riparlerebbe tra vent’anni. Il nostro percorso è un altro: ed io certo non lo sporco con robe così, a prescindere da Di Pietro e compagnia bella».

Ridislocare le truppe più indietro nella trincea, guardarsi dal fuoco amico che arrivava da sinistra, ridare un’organizzazione più classica al Pd e intanto andare incontro alla trappola delle regionali: dire che dall’avvio a qui siano stati tempi facili per Bersani, sarebbe dire una bugia. E se il leader dei democratici preferisce non commentare la brutta vicenda in cui è finito il sindaco di Bologna, delle elezioni - invece - parla eccome. Perché è vero che si tratta di un voto-trappola con esiti impossibili da eguagliare (cinque anni fa il centrosinistra vinse in 11 delle tredici regioni che tornano alle urne), ma è proprio da qui che nasce l’orgoglioso discorso sulla «riserva indiana»: e l’amara constatazione che il difficile lavorio di preparazione non sia stato capito e raccontato per quel che è.

«Ci sono due cose che mi hanno veramente stufato - dice Bersani -. La prima è sentir ripetere che staremmo facendo intese qui e lì in maniera subalterna a questo o a quel partito; e la seconda è che il nostro agire non avrebbe una logica. Allora io vorrei ricordare che in 8 delle 9 regioni nelle quali la situazione è già definita, i candidati-presidente saranno espressione del Pd. E in quanto alla logica, stiamo semplicemente provando a seguire la linea annunciata in congresso: accorciare le distanze tra le forze d’opposizione parlamentare. Sapendo che non è facile, perché Casini ha la sua strategia e l’Idv le sue radicalità».

Poi ci sono, naturalmente, il Lazio e soprattutto la Puglia, dove il Pd e il suo giovane candidato - Francesco Boccia - sembrano avviati alla sconfitta contro il ciclone-Vendola nelle primarie di oggi. Dice Bersani: «Se lei mi chiede se in queste due regioni c’è stato un percorso lineare, io le rispondo di no. Ma nel Lazio venivamo da dove venivamo, c’erano difficoltà e io comunque considero un colpo di reni aver puntato, alla fine, su Emma Bonino. Quanto alla Puglia, ci possono anche esser stati dei nostri errori, ma ci siamo trovati di fronte a un problema grosso e inatteso: la posizione assunta da Nichi Vendola. L’importante sarà tornare uniti dopo le primarie: perché il vero obiettivo non è superarci tra noi ma battere anche in Puglia il centrodestra». Pena finire nella riserva indiana cui pensa Silvio Berlusconi...

da lastampa.it
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« Risposta #86 inserito:: Gennaio 25, 2010, 09:53:00 am »

25/1/2010

Sconfitta la linea del partito
   
FEDERICO GEREMICCA


Secondo alcuni «si sapeva». Per altri «non solo si sapeva, ma se la sono cercata». Le due cose non sono in contraddizione.

Ed è per questo che è praticamente certo che la direzione Pd che Bersani ha convocato per stamane dovrà trovare una risposta convincente alla seguente domanda: «Ma se si sapeva, perché diavolo ce la siamo cercata?». Tradotto: se si sapeva che Nichi Vendola avrebbe travolto non solo Francesco Boccia ma probabilmente chiunque si fosse presentato a sfidarlo accompagnato dal non fascinosissimo annuncio che bisognava liquidarlo per potersi alleare con Casini, Cesa (e Totò Cuffaro...), ecco, se tutto questo si sapeva davvero, perché il Pd se l’è cercata?

La riposta ufficiale - anche se non condivisa dall’intero stato maggiore dei democratici - è nota: la via battuta in Puglia non è una stramberia locale ma l’applicazione - in sostanza - della linea decisa al congresso, che punta a stabilire ovunque possibile un rapporto più stretto con l’Udc. Però: era questo il caso della Puglia? Era davvero pensabile - una volta certificato il rifiuto di Vendola a sacrificarsi - battere il governatore, con il Pd spaccato come una mela e solo una settimana a disposizione per «lanciare» Francesco Boccia? E’ ipotizzabile che il prevedibile affondo delle minoranze che fanno capo a Franceschini e Marino, stamane in direzione muoverà da qui. E non sarà facile per il segretario fornire risposte convincenti.

In realtà, la vicenda pugliese - a parte le molte altre annotazioni possibili - ha confermato l’evidente rischio di cortocircuito esistente tra l’uso delle primarie (architrave del Pd a trazione veltroniana) e il ritorno a forme più classiche dell’azione politica: comprese le trattative di vertice tra partiti per decidere il candidato migliore per questa o quella carica istituzionale. Il pericolo di clamorosi patatrac è dietro l’angolo: come appunto le primarie pugliesi hanno dimostrato, sancendo la sonora bocciatura del candidato-presidente che era stato concordato tra i potenziali alleati. Per altro, ne va di mezzo anche quella che si potrebbe definire l’«affidabilità» del Pd nei confronti dei possibili alleati: i quali potrebbero correttamente domandarsi che garanzie offre un partito i cui elettori sconfessano le intese stipulate dai loro gruppi dirigenti.

Ma le annotazioni possibili sono tante. E non tutte necessariamente negative per i democratici. I quasi 200 mila pugliesi che hanno affollato i seggi delle primarie testimoniano l’esistenza di un «serbatoio» di disponibilità all’impegno che non era scontato trovare intatto (e anzi accresciuto) dopo mesi di caos e di tensioni. E l’enorme prova di partecipazione fornita gettava una strana luce sullo scarno comunicato che - a pochi minuti dalla chiusura delle urne delle primarie - informava che «i coordinatori nazionali del Pdl, sentito il presidente Berlusconi, d’intesa con il coordinamento regionale della Puglia e col ministro Fitto» (cioè sette o otto persone in tutto) avevano deciso chi candidare alla guida della Regione Puglia: anche perché non è che questa decisione «ristretta» sia destinata a sollevare meno tensioni interne di quante ne sollevi la scelta «allargata» compiuta dall’altro versante della barricata.

Infine - e fermo restando che per Nichi Vendola i problemi cominciano adesso - due questioni sulle quali nei prossimi giorni la polemica sarà presumibilmente alta. La prima riguarda Massimo D’Alema e il suo ruolo (Francesco Boccia è stato sonoramente sconfitto perfino a Gallipoli). A schede non ancora del tutto scrutinate, Sandro Bondi ha subito voluto rigirare il coltello nella ferita annotando la «pesante e umiliante sconfitta personale e politica dell’onorevole D’Alema». Ad aver perso non è, naturalmente, solo l’ex premier: ma che il tutto sia avvenuto nella «sua» regione e sotto la sua regia, non è certo dettaglio di poco conto. La seconda riguarda la prevedibile resa dei conti interna: in Puglia e a Roma. Mezzo Pd, infatti, ha votato per Nichi Vendola senza farne mistero. Se i democratici fossero stati compatti, le cose - molto probabilmente - sarebbero andate in un altro modo. In fondo, anche questa è una risposta possibile - per Bersani - all’affondo dei suoi contestatori: non è che ce la siamo cercata, siete voi che ce l’avete tirata... Non è certo granché. Ma non è nemmeno una bugia.

da lastampa.it
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« Risposta #87 inserito:: Febbraio 07, 2010, 06:30:39 pm »

7/2/2010 (8:2)  - RETROSCENA

Il rischio della svolta pacifista di Di Pietro

Ora l'ex pm dovrà fare i conti con i più riottosi dei suoi fedelissimi abituati allo scontro frontale e poco inclini alla via parlamentare

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Chi nasce tondo non muore quadrato, e Antonio Di Pietro - che di proverbi se ne intende - ha perfettamente chiaro che è giusto questo il problema che ora ha di fronte: decisa la svolta, farla digerire al partito che inventò dal nulla. Lavoro non facile, come si è visto bene ieri nella bolgia dell’hotel Marriot: il domatore, infatti, in questo nuovo e spericolato esercizio, non riesce ancora a controllare tutti i suoi leoni. C’è chi ruggisce e chi la spara grossa, chi si rintana in un angolo aspettando gli eventi e chi finge di esser d’accordo ma intanto frena. E così, quello che potremmo definire il tentativo di Antonio Di Pietro di costituzionalizzare l’Italia dei Valori - portarla, cioè, dall’opposizione di piazza all’alternativa di governo, con quel che ne dovrebbe seguire - si annuncia come una prova disseminata di insidie.

Del resto, dopo aver costruito un vero e proprio network da combattimento - con i suoi giornali, i suoi programmi tv e perfino un suo vocabolario di guerra - provateci voi a trasformarlo d’un colpo in un contingente impegnato a mantenere la pace: molti non capiranno e altri si metteranno di traverso. Come Luigi De Magistris - ala «sinistra» del movimento e gelosissimo custode di quel giustizialismo tanto caro all’Idv - che non fa mistero di non apprezzare la svolta proposta da «Tonino» e si dice apertamente indisponibile, per esempio, a sostenere il candidato Pd (De Luca) alla presidenza della Regione Campania; o come il discusso ma onnipresente Gioacchino Genchi, che ha voluto spiegare ai congressisti come e perché l’aggressione milanese a Silvio Berlusconi sia del tutto inventata (salvo dover poi dire, causa il putiferio scatenatosi, che il suo ragionamento era stato frainteso). Lavoro non facile, insomma, non dar più la caccia «solo ai voti di pancia, cioè di chi ha mal di pancia: quello è un voto da diarrea politica», come spiega Di Pietro.

E ancora meno facile a doverlo fare nell’ormai solito e nauseabondo clima da Seconda Repubblica, in mezzo ad assegni che appaiono e scompaiono, venefiche zaffate di sospetti intorno all’appropriazione indebita di soldi destinati al partito e cene più o meno imbarazzanti di cui viene chiesto il conto vent’anni dopo. Si giustifica Di Pietro: «E che ne potevo sapere, io, di chi c’era lì a cena nella caserma dei carabinieri? Nemmeno me lo ricordo... La prossima volta porto un’agenda e segno i nomi di tutti i presenti», ha spiegato provando a difendersi - però - con gli argomenti e gli omissis in passato così spesso cari ai suoi imputati. Per sancire la svolta e comunicarla nella maniera più comprensibile possibile alla platea, Di Pietro ha scelto una via che certo ha destato sorpresa: ha quasi ignorato - e citato pochissime volte - Silvio Berlusconi. Quando l’ha fatto, però, non è stato certo tenero: «Tutti stanno a chiedermi di quella cena e si dimenticano di un certo stalliere...

Ha al governo uno che i magistrati di Caserta vogliono arrestare, e ciò nonostante viene a rompere le balle a me». Ma nel suo lessico particolare e nel suo personalissimo gesticolare (simile a Totò quando si impegna in ragionamenti politici, e a Sordi quando cerca la battuta) la polemica stavolta ha trovato davvero poco spazio: con evidente delusione da parte delle diverse anime del network presenti nella platea del Marriot, da ex girotondini al «popolo viola», da giustizialisti tutti d’un pezzo a ex comunisti in cerca di nuove certezze. Però - se l’intera operazione non è solo destinata a coprire alleanze elettorali non sempre gradite al suo popolo - il dado è tratto, l’abbassamento dei toni probabile ed un nuovo rapporto col Pd forse possibile. Bersani, seduto in prima fila tra Latorre, De Magistris e Nichi Vendola, ha incassato con soddisfazione il messaggio che è stato lanciato dal congresso (dall’opposizione all’alternativa) non foss’altro che perché ripete pari pari lo slogan col quale è diventato segretario del Pd.

Ora, naturalmente, attende qualche fatto conseguente: un maggior raccordo nelle iniziative parlamentari, la fine delle violente polemiche col capo dello Stato e l’impegno su temi che non siano sempre e solo la giustizia e i guai di Silvio Berlusconi. In sintesi, l’effettiva costruzione di quell’alternativa di governo - promessa in congresso - da presentare agli italiani alle prossime elezioni politiche. Nulla naturalmente garantisce che la svolta e il percorso tratteggiati da Di Pietro abbiano un seguito coerente. E ancor meno certo è che il lavorio del segretario del Partito democratico riesca davvero a individuare un minimo comun denominatore che permetta di tenere assieme Casini e Di Pietro. Ma non paiono esserci altre vie all’orizzonte per tentare di battere il Cavaliere. Fallisse il tentativo di unire le tre opposizioni presenti in Parlamento, le chance di rimonta sarebbero ridotte al lumicino. E chissà quanto verrebbe rimproverato a Bersani e quanto pagherebbe in termini di consenso per quel caloroso abbraccio con «Tonino» lì sul palco dell’hotel Marriot...

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« Risposta #88 inserito:: Marzo 07, 2010, 08:12:10 am »

7/3/2010

Il peggio non è passato
   

FEDERICO GEREMICCA

I ragazzi e le ragazze del «popolo viola» che occupano la piazza del Quirinale; il Pd che annuncia ostruzionismo nelle aule del Parlamento; Antonio Di Pietro che pensa all’impeachment del Capo dello Stato; il Popolo della libertà che incassa il risultato e maramaldeggia nei confronti dell’opposizione.

E Gianfranco Fini che prova a gettare acqua sul fuoco ma non riesce a trovare argomenti più convincenti di un dimesso «quel decreto è il male minore». E’ vero che era ingenuo nutrire dubbi in proposito: ma ora si può onestamente dire che ha avuto senz’altro ragione chi aveva previsto che il «pasticcio delle liste» sarebbe finito assai peggio di com’era cominciato. E infatti è finito com’è sotto gli occhi di tutti: un altro mucchietto di macerie sull’ipocritamente invocato «dialogo» e nuove cicatrici su questa o quella istituzione.

Non è un bel risultato. E ancora meno bello è il tentativo di scaricare responsabilità e macerie dalle parti del Quirinale. Giorgio Napolitano è politico (e uomo delle istituzioni) di troppo lungo corso per aver sperato un solo momento che potesse finire diversamente. L’altra notte, per chiedergli di non firmare il decreto, si sono sdraiati in piazza del Quirinale un centinaio di uomini e donne del «popolo viola»: ieri mattina, se non lo avesse firmato, avrebbe trovato migliaia di bandiere tricolori e di militanti del Pdl sotto le finestre a scandire slogan contro il «Presidente comunista». E’ che in troppi, ormai, applicano al Presidente-arbitro il metro di giudizio che viene utilizzato negli stadi per gli arbitri veri: bravi se ti fischiano il rigore a favore, ladri se te lo fischiano contro. Una vergogna, certo: ma è con questo andazzo che Napolitano deve fare i conti.

In questo senso, la lunga nota con la quale il Presidente ha voluto spiegare il senso delle sue decisioni a due cittadini che gli avevano scritto, è a suo modo drammatica e segna una svolta. Il Capo dello Stato argomenta, polemizza, accusa e si difende in un inedito crescendo che mescola preoccupazione e rabbia. Napolitano domanda: si poteva andare al voto in Lombardia e a Roma senza le liste del maggior partito? Insiste: si era parlato di una soluzione condivisa, ma nessuno l’ha indicata. Argomenta: erano in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela, il rispetto delle procedure e il diritto dei cittadini di scegliere tra schieramenti diversi. E infine, una conclusione a metà tra un’accusa e una supplica: «Un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne funzioni e poteri».

Un inedito, nei toni e nella sostanza. Ma un inedito che è frutto di uno stillicidio che viene da lontano e che ha coinvolto ora i giornali, ora la Corte Costituzionale, ora il Quirinale: cioè organi o strumenti «terzi», garanti di imparzialità e invece finiti nel tritacarne di una polemica politica fattasi selvaggia, all’ombra di un bipolarismo assai malinteso. Uno stillicidio che ha portato qualche mese fa il presidente del Consiglio a dire «tanto si sa il Presidente da che parte sta» (cioè con i «comunisti») e Antonio Di Pietro, appena ieri, a chiederne l’impeachment: una follia politica e costituzionale, quest’ultima, proposta da chi le leggi e la Costituzione dovrebbe invece conoscerle a memoria.

E onestamente, è difficile dire che il peggio si possa considerare passato. Quando l’ennesimo grande incendio intorno al palazzo del Quirinale si sarà infatti spento, cominceranno a bruciare le micce cui quell’incendio ha dato fuoco: la reazione del Pd, che annuncia ostruzionismo e barricate alla Camera e al Senato; l’ulteriore deterioramento dei rapporti tra governo e opposizione; il bellicoso ritorno in campo di un Di Pietro che sembra aver già smesso i panni della «responsabilità»; una campagna elettorale che da intossicata che era si farà micidiale; e il tutto, ovviamente, a galleggiare in un lago ormai nauseabondo di tangenti e intercettazioni, prestazioni sessuali e simboli d’efficienza tirati giù dal piedistallo.

Un bell’affare. E se si ragiona sul fatto che a scatenare un simile putiferio sono stati un timbro poco leggibile e un «consegnatore di liste» ritardatario, pare tutto davvero incredibile. Purtroppo, invece, è vero. E ai cittadini che tra venti giorni vanno al voto non resta che attendere la nuova, pessima puntata...

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« Risposta #89 inserito:: Marzo 14, 2010, 09:10:45 am »

14/3/2010 (7:4)  - REPORTAGE

Napolitano: "Ma ne valeva la pena?"

In piazza le anime del centro-sinistra si incontrano senza unirsi davvero


FEDERICO GEREMICCA

Figuriamoci, a volersi mettere lì ad arzigogolare si può dire che sì, certo, uno striscione contro il Capo dello Stato c’era. E c’erano anche, in verità - quasi invisibili nella grande folla - un po’ di instant-shirt critiche verso il Colle. Ma si può ridurre ad uno striscione (Vendesi Repubblica: rivolgersi a Napolitano) e ad una decina di magliette («Pertini non avrebbe firmato») una manifestazione che ha riempito e colorato Roma per ore e ore? Non si può, naturalmente. E allora, visto che era proprio questo - paradossalmente - il guado che la folla di piazza del Popolo doveva attraversare indenne, si può dire che la missione è compiuta. Certo: che questa missione è compiuta, e che per le altre si vedrà. Ma intanto, già aver tirato fuori i piedi dall’insidiosissima trappola, è un risultato: sul quale, fino a ieri, avrebbero scommesso davvero in pochi. E tra i pochi, naturalmente, c’è quel signore lì, che - stravolto dalle fatiche di questa surreale campagna elettorale - prova a rilassarsi, se non proprio a sonnecchiare, sotto uno dei tendoni bianchi sistemati alle spalle del palco di piazza del Popolo. Sono le due e mezza del pomeriggio, e con Pier Luigi Bersani ci sono il fido Di Traglia e, più in là, Anna Finocchiaro. Preoccupato per Di Pietro, segretario? «Ma va là... Ancora co’ sta storia? Guardate che siamo persone serie, mica ci facciamo fregare da quelli là».

Per un istante viene il dubbio che - con “quelli là” - il leader del Pd intenda dire Di Pietro e le sue truppe giustizialiste. Ma è un dubbio infondato: «Quelli là, sono quelli là... Quelli dell’altra parte. Su Di Pietro non ho nessun dubbio: il momento è serio, e vedrete che si comporterà da persona seria». E infatti Bersani ha ragione, va così. Il capo dell’Italia dei valori sale sul palco e aziona il freno a mano: «Tirate un sospiro di sollievo: noi da oggi non affronteremo altro argomento che non sia la deriva antidemocratica del governo...». Il messaggio è chiaro: ma come è accolto dalle donne e dagli uomini del “popolo viola” che per giorni hanno bersagliato il Quirinale e ora sono qui a riempire la piazza, assieme ai militanti dei partiti del vecchio centrosinistra? Non hanno gradito, naturalmente: ma non considerano affatto chiusa la partita. Ecco, per esempio, il gruppetto che regge lo striscione (giallo come i cartelli usati dalle agenzie immobiliari...) «Vendesi Repubblica, rivolgersi a Napolitano». Saranno una decina e sono arrabbiatissimi. Non solo col capo dello Stato, ma anche con i militanti del Pd che usano le proprie bandiere per coprire il loro striscione. «Io mi chiamo Saverio e vengo da Udine - dice quello che sembra il capo -. Gli altri che vedi sono di Palermo, di Napoli, di tutta Italia, insomma». E che rimproverate al Presidente? «Di firmare tutto quello che gli arriva».

Magari è la Costituzione che glielo impone, no? «Macchè. Pertini non avrebbe firmato, e anche Ciampi ha rimandato indietro un sacco di decreti». Quindi voi pensate... «Guardi, noi pensiamo una cosa molto semplice: che contro il regime che sta costruendo Berlusconi bisogna che lottino tutti: anche il presidente della Repubblica, che non è che può pensare - in un momento così - di fare l’arbitro o il super partes». E se il concetto non fosse sufficientemente chiaro, ecco, poco più in là, un altro cartello: «Nano e Napolitano, datevi la mano». E’ anche per questo, per questo misto di ignoranza, di faziosità e di spericolata propaganda politica, che nelle stanze del Quirinale aleggia ancora una densissima amarezza. Giorgio Napolitano ha visto solo qualche immagine proveniente dalla piazza, venendo per il resto informato dai suoi più stretti collaboratori circa lo spirito della manifestazione. Nessun commento, ovviamente, da parte del capo dello Stato. Solo una sconsolata considerazione affidata a qualcuno del suo staff: «Ne valeva la pena?».

Cioè, valeva la pena che forze dell’opposizione mettessero nel mirino proprio lui, per poi accorgersi dell’errore politico commesso, tanto da trasformare la manifestazione di ieri in un pomeriggio di fibrillazione nel timore che certe accuse fossero rilanciate proprio dalla piazza? E’ un interrogativo retorico, naturalmente, dalla risposta scontata. Certo che non ne è valsa la pena: in fondo nemmeno per chi, sul versante giustizialista, cercava di lucrare qualche consenso elettorale mettendo sotto accusa perfino il Quirinale. E’ una questione che probabilmente si riproporrà. Assieme agli altri problemi politici che ancora stringono il centrosinistra. «Io sono qui contro Berlusconi, ma non con Bersani», avvisava ieri in piazza Marco Ferrando, comunista tutto d’un pezzo. «Noi socialisti siamo qui, ma non con Di Pietro», chiariva Bobo Craxi. I soliti venti di guerra, insomma. Ma questa, in tutta evidenza, è un’altra storia...

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