LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Dicembre 06, 2007, 12:04:33 pm



Titolo: FEDERICO GEREMICCA -
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2007, 12:04:33 pm
6/12/2007
 
Doppia crisi al veleno
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Le spiegazioni possono essere diverse e anche sulle responsabilità si potrebbe discutere a lungo, ma il risultato finale è sotto gli occhi di tutti, incontestabile: le gioiose macchine da guerra del bipolarismo all’italiana sono letteralmente in frantumi. La crisi e il riassetto della prima (la coalizione di governo) hanno come accelerato la dissoluzione della seconda (il polo d’opposizione) e il terreno, adesso, è ingombro di cocci e di veleni che rendono paradossalmente accidentato l’esercizio di entrambe le funzioni: siamo, insomma, più o meno alla paralisi. Le due crisi hanno marciato in maniera parallela e inarrestabile, ed era evidente che l’escalation avrebbe potuto portare a esiti pericolosamente imprevedibili. E infatti, nel giro di un paio di settimane, abbiamo assistito allo sbriciolamento della Casa delle Libertà e ad uno dei più aspri scontri istituzionali della storia repubblicana: l’aperto conflitto tra la presidenza della Camera e quella del Consiglio.

Fermo restando che le ulteriori evoluzioni delle due crisi appaiono del tutto imprevedibili, colpisce il fatto che il loro apice sia stato determinato proprio dalla rottura delle due alleanze considerate fino a ieri tra le più solide nel panorama politico.

L’alleanza tra Berlusconi e Fini, da una parte, e quella tra Prodi e Bertinotti dall’altra. A causare il brusco e doppio allontanamento hanno contribuito, naturalmente, diversi fattori. Sarebbe però pura miopia non vedere come esse segnalino un fenomeno apparentemente inarrestabile: e cioè la crisi di autorevolezza e di credibilità delle leadership che da quasi quindici anni fanno da perno per entrambe le coalizioni. Per Romano Prodi si tratta di un declino annunciato, essendo stato lo stesso premier a comunicare ad avvio di legislatura di sentirsi al suo «ultimo giro» da leader politico. Per Silvio Berlusconi le difficoltà si sono manifestate in maniera meno attesa ma non per questo meno profonda. Da un paio di settimane è il leader di un partito, non più di una coalizione: e non è una differenza da nulla. Naturalmente, in ragione degli effetti concreti che può determinare, gran parte dell’attenzione è calamitata dall’aspro scontro apertosi tra Fausto Bertinotti e Romano Prodi. È senz’altro vero che - al di là dello schema interpretativo che vuole il governo prigioniero della sinistra radicale - il partito del presidente della Camera abbia dovuto accettare decisioni nient’affatto popolari presso il proprio elettorato (dal no alla commissione sul G8 al pacchetto Welfare...). Eppure quella di Fausto Bertinotti è parsa un’escalation quasi studiata a tavolino. Ha cominciato col ventilare un governo istituzionale che evitasse le elezioni in caso di caduta di Prodi; ha continuato evocando «brodini caldi» per un esecutivo «emaciato e malaticcio»; ha concluso sancendo che «questo governo ha fallito», paragonando Prodi - citando Flaiano - a Cardarelli, «il più grande poeta morente». Che ieri il braccio destro del premier a Palazzo Chigi - Enrico Micheli - lo abbia addirittura accusato di «affievolimento del senso dello Stato», magari fa sobbalzare dalla sedia, ma ci può stare.

La domanda più ovvia, a questo punto, sarebbe: cosa succederà adesso? Nessuno può saperlo. È probabile che il governo tiri avanti fino alla già annunciata verifica di gennaio, così com’è possibile che ruzzoli per le scale del Senato, inciampando sul decreto sicurezza, sul pacchetto Welfare o magari sull’approvazione definitiva della legge finanziaria. La sensazione - è chiaro - è che il capolinea sia vicino: e del resto, di fronte alle rapidissime trasformazioni in atto nelle due coalizioni, il governo di Romano Prodi somiglia ormai a un fossile, a quel che resta - insomma - di una fase politica lontana anni luce. Il vero interrogativo, dunque, è quel che l’esecutivo trascinerà con sé nel fragore del prevedibile crollo. Se infatti dovesse seppellire anche la possibilità del varo di riforme che permettano la ricostruzione di un sistema politico ormai terremotato, allora i rischi di una lunga fase di instabilità si farebbero grossi. A danno del Paese, naturalmente. Ma anche della credibilità delle nuove leadership faticosamente emergenti...
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ma ora il Cavaliere può dire ciò che vuole
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2007, 06:41:01 pm
21/12/2007
 
Ma ora il Cavaliere può dire ciò che vuole
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Che la politica abbassi i toni, passando dalla rissa incontrollabile degli ultimi dieci anni a un confronto che permetta almeno di distinguere le proposte degli uni dalle obiezioni degli altri, è esigenza richiamata ormai da tempo. Alle ripetute promesse non è mai seguito alcun fatto: e per rimanere agli avvenimenti degli ultimi mesi, non c’è stata questione sulla quale la polemica non abbia raggiunto e spesso superato toni da bar del porto. È per questo, in fondo, che ha in qualche modo colpito il silenzio nel quale i leader del centrosinistra hanno avvolto la penosa vicenda della telefonata intercettata tra il direttore di Rai Fiction, Agostino Saccà, e Silvio Berlusconi. Silenzio che ha riguardato sia il contenuto della telefonata sia la sdegnata spiegazione che l’ex premier ne ha fornito: «Lo sanno tutti nel mondo dello spettacolo: in certe situazioni in Rai si lavora soltanto se ti prostituisci o se sei di sinistra».

Da Franco Giordano a Walter Veltroni, da Francesco Rutelli a Oliviero Diliberto (passando per lo stesso presidente del Consiglio e tutti gli altri leader dell’Unione) non una parola è giunta a stigmatizzare comportamenti e affermazioni volgari, offensive e poco consone al profilo di un uomo di Stato.

Eppure, per molto meno, in passato si sono spesso levate grida al limite dell’accettabile. Siamo dunque all’alba di un modo nuovo di condurre il confronto politico? Dobbiamo spellarci le mani per applaudire un modo di fare finalmente vicino al sempre citato «stile anglosassone»? È difficile crederlo. E se anche fosse così, si sarebbe partiti dal caso sbagliato.

Non sfuggono a nessuno i motivi per i quali con Silvio Berlusconi, leader del maggior partito italiano, il dialogo sia inevitabile: finché resta in campo - e non ci sono segnali, in verità, che intenda abbandonarlo - non si può prescindere da un confronto con la forza e i valori che rappresenta. Chi ha provato ad attaccarlo (anche all’interno della stessa Casa delle Libertà) ha dovuto fare i conti con un leader dall’ancora salda presa sul Paese. Che con Berlusconi si debba dunque trattare (di legge elettorale e non solo) è del tutto incontestabile: il problema, semmai, sono lo stile, i contenuti e gli obiettivi del necessario confronto. E in questo senso è forse già venuto il momento di darsi una regola e di porre una questione, che può ancora avere il carattere di un interrogativo: c’è forse qualcuno, nel centrosinistra, che pensa che per portare a buon fine il confronto con l’ex premier occorra fornirgli una sorta di salvacondotto che lo metta al riparo da polemiche e obiezioni qualunque cosa faccia e dica?

Nessuno intende dar spazio a malizie e sospetti di alcun genere: che la nuova piccola raffica di intercettazioni e inchieste che ha colpito il Cavaliere, per esempio, possa essere utilizzata per renderlo «più disponibile» al dialogo o che il centrosinistra - sul tema delle intercettazioni e del loro utilizzo - immagini un qualche futuro «scambio di cortesie» tra le parti. Davvero non crediamo che sia così. Ma ancor più incomprensibile, allora, appare l’improvviso bon ton dei leader del centrosinistra nei confronti del caso Berlusconi-Saccà e dintorni. Abbassare i toni della polemica (cosa auspicabile) non può significare perdere la capacità di indignarsi di fronte all’affermazione che in Rai o sei di sinistra o ti prostituisci oppure non lavori. Quella esposta da Berlusconi, infatti, non è una «tesi discutibile»: è un concentrato offensivo. Offensivo per tutti i lavoratori della Rai e per i tanti dirigenti dell’azienda vicini al Cavaliere, chiamati ora a scegliere se considerarsi di sinistra o piuttosto dediti alla prostituzione. Inaccettabile. Inaccettabile come il silenzio che ha accompagnato l’ultima sgradevole sortita dell’ex premier.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Walter, Franceschini e l’equivoco presidenzialista
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 12:22:33 am
4/1/2008 (6:58) - RETROSCENA. VELENI E SOSPETTI NEL DUELLO INFINITO TRA EX AMICI

Walter, Franceschini e l’equivoco presidenzialista
 
Il vicepresidente D'Alema e il leader del Pd Veltroni tornano ai ferri corti sulla legge elettorale?
 
Così un'intervista "sbagliata" ha portato allo scontro nel partito

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Come ai bei vecchi tempi. E diciamo la verità: se ne sentiva quasi la mancanza. Walter da una parte, Massimo dall’altra. A tirarsi sciabolate. E’ più o meno trent’anni che va avanti così, nonostante le vacanze assieme a Sabaudia (ricordo lontano e ormai sbiadito, in verità), la comune militanza e l’ineludibile necessità, alla fine, di andar d’accordo o, quanto meno, di trovare un punto di equilibrio tra due idee della politica (e della vita, a dirla tutta) difficilmente conciliabili. Nulla è parso, fino ad ora, poter risolvere una competition che è prima di tutto psicologica: né i decessi a catena dei partiti che li hanno ospitati (prima il Pci, poi il Pds, infine i Ds) né la costruzione di una nuova casa sono riusciti a sciogliere un grumo che sarebbe sbagliato etichettare solo come «rancore». Forse è semplicemente che si conoscono da troppo tempo - e troppo bene - per potersi fidare l’uno dell’altro. E se poi capita che tra l’uno e l’altro ci si metta di mezzo una terza persona, può succedere quel che è successo al malcapitato Franceschini, vice di Veltroni e dunque numero due del Pd.

La sua intervista a «la Repubblica» dell’altro giorno (quella, per intenderci, con la quale ha proposto l’adozione del sistema elettorale francese, con doppio turno ed elezione diretta del presidente) ha scatenato un putiferio sia a destra che a sinistra: ma è soprattutto riuscita, in un sol colpo, a far infuriare D’Alema ed a gettare nello sconforto Veltroni. «E’ una novità clamorosa - ha accusato il ministro degli Esteri - Ha un effetto devastante: per le riforme, per il centrosinistra e anche per il governo... Domando, con tutto il rispetto: siamo impazziti?... Ma poiché so che Walter è un politico accorto, che calcola sempre a fondo le sue mosse, a questo punto qualcosa mi sfugge... Credo, però, che Prodi non sia per niente contento». Sì, è vero, l’intervista è di Franceschini e non di Veltroni: ma è invece a quest’ultimo che D’Alema (con qualche ragione) contesta l’infelice sortita, ipotizzando addirittura che la mossa punti a far saltare il tavolo delle riforme e con esso il governo. Peccato, in tutto questo, che nemmeno al leader del Pd l’uscita del suo vice sia piaciuta granché...

«Diciamo che in alcuni passaggi la formulazione non è stata felicissima», spiega uno dei più stretti collaboratori del leader del Pd. «Naturalmente, noi eravamo al corrente dell’intervista di Dario - continua - ma qualcosa non ha funzionato, perchè nessuno pensa a mettere in pista il sistema francese, sul quale l’intesa è impossibile. Quell’intervista doveva avere il senso di una mossa di interdizione: un modo per dire ad alleati e opposizione, ora che la trattativa ricomincia, che sul piano della mediazione il Pd ha già dato, rinunciando appunto a insistere su quel modello, e che dunque gli altri non continuino a tirare la corda - per esempio sul sistema tedesco - perché rischiano di spezzarla...». Insomma, un mezzo pasticcio. «Non che Walter non consideri il modello francese - e lo ha detto anche di recente - il più adatto al nostro Paese: ma ha chiaro che rilanciarlo adesso - conclude la fonte - significa solo mandare tutto per aria. Evidentemente ci toccherà tornare sull’argomento per chiarire l’equivoco».

Veltroni lo farà in un’intervista nella quale non dovrebbero mancare un po’ di repliche all’indirizzo dell’«amico» vicepremier. Tra le cose che più hanno infastidito l’entourage del leader del Pd, infatti, c’è «il cinismo» con il quale Massimo avrebbe approfittato del mezzo scivolone di Franceschini per attaccare Walter, imputandogli disegni d’ogni tipo. «Fa sorridere D’Alema quando dice “non capisco” oppure “c’è qualcosa che mi sfugge” - spiega lo stretto collaboratore di Veltroni -. In genere è di fronte alle sue interviste che tocca spesso domandarsi cosa c’è dietro e a cosa punti... In realtà, Massimo ha voluto cinicamente approfittare di un equivoco per riprendere uno spazio politico che aveva visibilmente perso. Il tentativo, evidente, è di porsi lui come garante dei partiti minori e dello stesso Prodi». Per dirla tutta - come avrebbe confidato Veltroni a un dirigente del Pd - «è la furbata di uno che ha voluto divertirsi un po’».

Dunque, non resta che vedere in che modo Veltroni ricollocherà nel dibattito in corso la suggestione del modello francese e come risponderà all’«amico» Massimo: se tenterà, insomma, di contenere la tempesta in un bicchier d’acqua o se ne approfitterà per un «franco chiarimento» che rischierebbe però di aprire una sorta di guerra punica all’interno del Pd. Certo, l’ennesimo duello tra Walter e Massimo favorisce il riemergere di ricordi dolorosi. Soprattutto per Veltroni. Sì, la volta in cui D’Alema - era l’estate del 1994 - fu eletto segretario del Pds con un voto degli organismi dirigenti che sovvertì l’esito di una consultazione tra gli iscritti, che a quel posto volevano Veltroni. Ma soprattutto la mai rimarginata ferita del 1998, quando D’Alema sostituì Prodi alla guida del governo attraverso una crisi dai contorni ancora oscuri. Le analogie sono da brivido. Oggi il Professore è di nuovo a Palazzo Chigi, Massimo è il suo vice e Walter il leader del maggior partito della coalizione; nel ‘98 Prodi era a Palazzo Chigi, Walter il suo vice e D’Alema il leader del maggior partito della coalizione. Quando si dice il caso! O quando si maligna che la vendetta è un piatto che va servito freddo...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Napoli, rinascimento e declino
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2008, 11:43:29 pm
6/1/2008
 
Napoli, rinascimento e declino
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Che orgoglio quell’immagine che faceva il giro del mondo. Clinton in tuta che fa jogging su un lungomare fantastico con uno sfondo da favola: un vulcano, un’isola, un golfo, il mare blu... Era Napoli. E non un secolo fa. Estate ‘94, summit degli otto Grandi, la città a lucido, le piazze e i monumenti restaurati, cultura e musica in ogni angolo.

Era il punto più alto di quel fenomeno che, per un motivo o per l’altro, fu chiamato «rinascimento napoletano». Antonio Bassolino governava la città da appena tre anni, ma i risultati si vedevano. Qualcuno ci sentiva puzza di effimero, non gli si fece caso. Infatti che orgoglio quell’immagine che faceva il giro del mondo. Ora in giro per il mondo - metaforicamente e materialmente intendendo - ci sta andando l’immondizia: da quella spedita negli inceneritori tedeschi a quella che tracima per immagini dai siti e dalle tv di tutto il pianeta. Bel colpo, niente da dire.

Naturalmente, non è questione di contrapporre i meriti del «rinascimento» allo scandalo di questa «monnezzopoli», anche perché i protagonisti (anzi, secondo alcuni: il protagonista) grossomodo son gli stessi: i governi di centrosinistra e il sindaco (e poi governatore) Antonio Bassolino. Qui si vorrebbe solo segnalare - mentre la polemica politica, magari, se ne frega e punta e guarda ad altro - la devastante rapidità di un malinconico declino. La parabola di un città senza più simboli e punti di riferimento: mentre è sempre attorno a dei simboli e a dei punti di riferimento che ha fatto leva - nel bene e nel male - per trovar forza e riscattare quel certo orgoglio da città di re e antica capitale. E’ vero, naturalmente dipende dai simboli: ma onestamente ce n’è pochi peggiori di questa monnezza qua.

Perfino annaspando alla cieca nel tunnel degli Anni 80 - le cricche di pentapartito, un sindaco ogni otto mesi, l’impero dei Di Donato e dei Pomicino, dei Gava e dei De Lorenzo - Napoli trovò a che aggrapparsi. Sembrano niente due scudetti, una Coppa Uefa, una Coppa Italia e una Supercoppa italiana in soltanto quattro anni! Ma intanto Napoli era nel mondo Diego Armando Maradona, e il volto pulito di Ciro Ferrara.

Sembra niente, ma fu comunque meglio di niente. E in fondo c’era dell’altro: perché i teatri off e le sale di registrazione improvvisate nei sottoscala dei quartieri cominciavano a partorire miracoli, che l’era del «rinascimento», poi, avrebbe consacrato. Napoli iniziò a essere anche Massimo Troisi e Pino Daniele, la Nuova Compagnia di Peppe Barra e il teatro di Luca De Filippo, che rinverdiva i fasti del suo grande papà. E poi, sì, certo, era anche la città delle tangenti, di Raffaele Cutolo e della macchina criminale perfetta che diventò la sua Nuova Camorra Organizzata (della quale, a dirla tutta, si sentì una qualche cinica nostalgia negli Anni 90, quando crollato l’impero di don Raffaele, la città fu sepolta dai morti ammazzati nella guerra scatenata da centinaia di clan alla conquista del potere). Si tirava avanti, insomma. C’era del male, figurarsi, tanto male - camorra, poco lavoro - ma anche illusioni a cui aggrapparsi, simboli effimeri magari, però piccole luci in un cielo non ancora tutto nero.

Le luci. Quelle che il ricambio politico accese, accecando la città, all’indomani di Tangentopoli. Fu lo sfavillìo del «rinascimento napoletano». Guardate il restauro di Palazzo Reale! E ammirate la magnificenza di piazza Plebiscito! E poi i lampioni di via Caracciolo, il mare, turbinii di feste, i nuovi registi alla Mario Martone, aria nuova, aria nuova. Il «rinascimento» finisce sulle copertine dei settimanali di mezzo mondo, i giornalisti occupano gli alberghi del lungomare per dire dell’ennesimo «miracolo napoletano». La città ritrova orgoglio e angoli di sfarzo da antica capitale.

Quando uno dopo l’altro arrivano in visita a Napoli Bill Clinton, il Papa e la regina Elisabetta è l’apoteosi. Qualche élite intellettuale storce il naso, perché mentre la festa continua la città è sottoposta a una deindustrializzazione selvaggia. Si sussurra un’accusa: demagogia dell’effimero. Ma Napoli regge ancora, ha bellissime cose di sé da mandare in giro per il mondo e ne è fiera: anche se si intuisce che la città affanna e che sotto i lustrini niente. Sia come sia, Bassolino si passa il testimone e viene rieletto sindaco; poi lo passa a Rosetta Iervolino, che malvolentieri se lo ripassa ed eccoci qua. Qua vuol dire sotto questo cumulo di monnezza. E poichè monnezza chiama monnezza (camorra, tangenti, scaricabarile) qua vuol dire sotto una montagna gigantesca di rifiuti solidi e politici, di macerie sociali, di illusioni triturate. Com’è successo? Si prova a ricostruire, ma è peggio, è il solito tiro di accuse incrociate. E non è che prima di arrendersi all’idea che Napoli nel mondo oggi sia soltanto una discarica, qualcuno non avesse pensato ad una controffensiva. Anche solo un diversivo, magari.

«Porca miseria, cominciamo a dire che Napoli è anche...». E’ anche? Lavezzi non lo conosce nessuno, e poi non sarà mai Maradona; Massimo Troisi è morto che sono dieci anni e più; vertici internazionali non è nemmeno il caso di parlarne; Pino Daniele s’è trasferito dalle parti di Formia e di Peppe Barra non frega quasi più niente a nessuno. Ci si sforza, si riflette. E diamo pure la colpa a quelle immagini in tv, ma non viene in mente altro che monnezza. Una diffusa e nauseabonda monnezza.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Nel Granducato di Ceppaloni
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2008, 03:13:21 pm
17/1/2008 (7:9)

Nel Granducato di Ceppaloni

«Sapete chi gli ha votato contro? Chi ha avuto solo quattro favori»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A CEPPALONI


E quando se le dimenticano più, quelle immagini, qui nella valle del Sabato, anzi, per essere più precisi, qui a Ceppaloni? Sandra e Clemente a New York. Meglio: Sandra e Clemente sulla Quinta Strada! Belli come il sole, in piedi in una Maserati Ghibli bianca senza capote, proprio come John e Jackie, o come Hillary e Bill. E mica un secolo fa... Era l’ottobre scorso, il 9 ottobre, giorno della sfilata per il Columbus day: e Sandra e Clemente erano lì che rappresentavano l’Italia. Lui con la fascia, lei con la bandiera. Peccato per quei dieci giovinastri, tifosi di Beppe Grillo, spuntati da dietro le transenne per urlargli «dopo De Magistris trasferisci anche noi». Ma loro comunque erano lì, che rappresentavano l’Italia. E Ceppaloni, s’intende, prima di tutto.

Che sarebbe questo paesone, residuo dell’Italia degli Anni 70 e 80, che è tutto un saliscendi tra le colline, e sul quale Clemente Mastella regna in pace da almeno trent’anni in qua. I paesani gli vogliono bene. Anche perché, primo: non hanno motivo per non volergliene; e secondo, chi glielo fa fare? Clemente è stato «il deputato», poi è stato «il sindaco», ora è sindaco, deputato e ministro assieme: ma è prima di tutto un amico, uno che se può dare una mano, la dà. «Sapete chi è che qua gli ha votato contro? - va spiegando in un piccolo bar Mario Tranfa, cugino di Clemente -. Quelli ai quali, dopo quattro favori già fatti, al quinto ha detto no». E pare che sia proprio così. La cortesia di Sandra e Clemente, del resto, è proverbiale. La dote, si dice, sarebbe più di lei che di lui, ma che importa. Quello che conta è che alla fine sono gentili, una parola per tutti, un pensiero per ognuno. E anche un regalo: che è certamente una sciocchezza, ma può rendere in miniatura l’idea di cos’è, più o meno, il sistema Mastella.

Natale 2005: diciassettemila euro in torroncini da regalare in giro per l’Italia, e a Ceppaloni prima di tutto. Torroncini acquistati qui, s’intende: a San Marco dei Cavoti, a Summonte, in zona, insomma, che è pure meglio, così i soldi restano tra noi. I soldi, appunto: provenienti dai finanziamenti pubblici destinati al giornale di partito, «Il Campanile» (come rivelato da un’inchiesta de l’Espresso). Però i cesti li prepara la signora Sandra con le sue mani, e li sceglie lei: millecentocinquanta euro solo per quelli, come da fattura del Cis di Nola, e fa niente che i soldi fossero sempre quelli dei finanziamenti a «Il Campanile». Come a dire che quasi quasi i regali agli amici di Ceppaloni li facciamo noi...

Però, appunto, t’inerpichi sulla stradina che porta alla casa di Clemente e di Sandra - cancello scuro, colonne rosso pompeiano, una telecamera, due cipressi alla fine del vialetto d’ingresso - t’inerpichi e pensi che questo è. Qui non c’è il craxismo, questa non è Tangentopoli e non c’è nemmeno la cupezza imposta da certi patti tra la politica e la mafia: il sistema Mastella è un’altra cosa. Lui ha tenuto in vita, qui, una fiammella in attesa che la tempesta passasse, dopo che il grande fuoco sembrava spento: a Ceppaloni il clientelismo non è finito mai. È vero: sta tornando alla grande quasi ovunque. Ma qui non era finito mai. Per questo, forse, è un clientelismo che sa d’antico: niente maxitangenti e niente affari su grandi appalti, però il posto di lavoro te lo trovo, la promozione te la faccio avere io, a quell’incarico là ci mettiamo un uomo mio. Questo, per altro, sembrerebbe venir fuori dall’inchiesta su Sandra e Clemente: comandiamo noi e a quell’Asl o a quella presidenza ci metti chi diciamo noi.

Non è che sia meno grave, intendiamoci: in fondo, il sistema Mastella, su scala maggiore, è quello che ha avvolto per decenni l’Italia - soprattutto qui al Sud - in una spira soffocante di inefficienza e sprechi, di moltiplicazione degli incarichi, mazzette, buchi di bilancio e tutto il ben di Dio che la Seconda Repubblica ha ereditato. Però qui Clemente non è odiato, come a un certo punto è stato odiato Bettino a Milano; e ne pronunciano apertamente il nome, non come in paesi dove certi nomi conviene non farli. E’ meglio o è peggio? Anzi, per esser precisi: è più sopportabile, visto che non girano maxitangenti e non ci sono morti ammazzati? «È na’ fesseria... Una settimana e passa tutto...», assicura la donna del piccolo bar sulla piazza, intitolata a un vecchio sindaco del paese. «La signora Sandra, poi, è così gentile che ci manca già...».

Verso le tre del pomeriggio, il portavoce della signora Sandra (è pur sempre presidente del Consiglio regionale campano) esce dalla casa nella quale deve stare rinchiusa e dice ai tanti giornalisti: «Sandra si rammarica di non potervi invitare come al solito a pranzo...». Alle cinque esce di nuovo e porta tè e biscotti al cioccolato: «Ha telefonato Bassolino e poi credo Prodi, quasi sicuramente Berlusconi... Ma hanno chiamato in centinaia, non saprei». La signora Sandra ha risposto a tutti con cortesia e gratitudine sincera: e viene da chiedersi cosa debba esser successo da farle urlare infuriata al telefono - come alcune intercettazioni rivelerebbero - «quello per me è un uomo morto».

Clemente magari lo sa, perché si conoscono da una vita ed è una storia lunga e bella, quella con e Sandra. Lui giovanotto che studia qui, lei ragazzina che va e viene da Long Island. Un giorno si conoscono (ed è naturalmente un 14 febbraio, San Valentino), un lungo fidanzamento e poi il matrimonio, che tra due mesi fa 35 anni. Lui entra in politica e sale gradini, diventa deputato, sta con De Mita; lei fa la volontaria per la Croce Rossa, e anche lei sale gradini. Fino a diventare presidente del Consiglio regionale campano: e anche lì, però, quante polemiche sulla moltiplicazioni delle auto blu e delle commissioni, proliferazione di nuovi e di segreterie. «Non ci penso nemmeno a dimettermi», ha chiarito ieri mattina mentre - surreale com’è giusto che sia - Clemente si dimetteva da ministro a Roma per il provvedimento di carcerazione domiciliare inflitto a Sandra, e a Sandra quel provvedimento nessuno l’aveva ancora comunicato.

Ma naturalmente non è solo questione di Sandra: la questione è che a lui hanno anche decapitato l’intero Udeur campano, che è come tagliare i capelli a Sansone. La bufera, evidentemente, non era passata. Oppure è ripresa. Un vero guaio per il sistema Mastella. In più, ci sono i guai di Roma, con quegli sbarramenti nella legge elettorale. E stavolta, ironia della sorte, non gli è nemmeno di conforto aver affianco Sandra. Perché è vero che si sono promessi di star vicini nella gioia e nel dolore: ma a un dolore così, forse nemmeno l’officiante avrebbe mai pensato...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - "Mai più con Di Pietro Il Pd mi ha scaricato"
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2008, 03:31:19 pm
18/1/2008 (7:11) - IL COLLOQUIO CON IL LEADER DELL'UDEUR

"Mai più con Di Pietro Il Pd mi ha scaricato"
 
Lo sfogo di Clemente Mastella: «Io mi dimetto, Pecoraro che ci ha riempito di rifiuti invece resta»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A CEPPALONI


L’auto avanza a fatica, provando a scansare i sit-in di protesta, colorati da striscioni, cartelli e bandiere gialle dell’Udeur.
Clemente Mastella ha appena finito la lunga conferenza stampa ma è ancora un fiume in piena. Osserva le centinaia di cittadini scesi in piazza per solidarizzare con lui e con la moglie Sandra: «Trecentomila voti alle ultime regionali, ecco cos’è l’Udeur da queste parti. Un partito che raccoglie consenso, non una banda di pedofili o di spacciatori. E mia moglie è una persona perbene. Ho avuto la solidarietà di Scalfaro, una lettera affettuosa da Cossiga. Poi le telefonate di Andreotti, di tanti vescovi e forse quella più bella, quella di Franca e Carlo Azeglio Ciampi. Secondo lei la signora Franca e il presidente telefonerebbero a un delinquente?».

Ci sono cose che in una conferenza stampa non si possono dire e in un’auto che affanna nel traffico invece magari sì. Sensazioni. Sospetti sgradevoli. A volte fatti interpretabili ma non sufficienti come prova. Poi, delusioni per certe mancate solidarietà politiche: e la tentazione è fare due più due. Certo, per Mastella è anche un modo di difendersi. Ma vale la pena ascoltare, per esempio, certi ragionamenti sugli «alleati» del Pd. Dice: «La mattina che mi sono dimesso, mi hanno lasciato solo: nemmeno un vicepremier. E la sera non hanno mandato in tv nessuno a difendermi. Del governo c’era Di Pietro: un mio nemico. È per questo che quando stamattina m’ha chiamato Fioroni gli ho detto: “Beppe, tu mi dai la solidarietà ma intanto ieri sera a Porta a Porta vi siete sfilati tutti, una vergogna”...».

E se ne è andato dall’Udeur per passare appunto al Partito democratico l’uomo - Sandro De Franciscis, presidente della Provincia di Caserta - che Mastella considera forse il regista di quella che a lui pare una macchinazione: l’inchiesta che lo riguarda e che ha portato all’arresto di sua moglie Sandra: «E voglio dire una cosa, come semplice osservazione, perché è anche un amico mio: ma a Totò Cuffaro lo stanno processando per mafia, ed è rimasto libero; a Sandra l’indagano per concussione e l’arrestano». La tesi - è chiaro - è che si intenda disintegrare l’Udeur e lui stesso. E’ come un’ossessione: «Io guardo i fatti. O con i partiti unici o con gli sbarramenti elettorali o con le campagne contro di me o con le inchieste giudiziarie... A me pare che ci vogliono eliminare. Me e naturalmente a Sandra. Tutti sanno che De Franciscis vuole candidarsi a governatore della Campania: e chi è di stimato, apprezzato e pulito che può ostacolargli la strada? Sandra. E guarda che succede...».

Non si conoscono indagati eccellenti che, prima o poi, non arrivino a giocarsi la carta del complotto: ma l’ex ministro della Giustizia dice di elencare solo fatti. Con una premessa. «Io non so che succederà per il governo di Roma. Ci sono tante incognite... Però una cosa gliela posso dire: io in un governo con Di Pietro non ci posso stare più. Un signore che si permette di attaccarmi e che intanto ha fatto avere al giudice di Brescia che lo prosciolse un incarico da tre milioni di euro in faccende di autostrade... Per non parlare di Pecoraro Scanio: io mi dimetto per un avviso di garanzia. Lui ha seppellito la Campania di rifiuti e resta al suo posto». E svolta, chiamiamola così, questa premessa, i fatti: «Con me hanno provato di tutto. Mi hanno indagato un figlio per Calciopoli, ed è stato prosciolto; hanno intercettato i telefoni di tutti i miei familiari per mesi; una volta che incontrai per caso Lele Mora al “Bolognese” mi pedinarono e andarono a controllare se avesse pagato il conto per me. Adesso ci riprovano. Ma io sono una persona perbene, uno che è uscito pulito da Tangentopoli e dopo trent’anni di politica ha avuto solo due avvisi di garanzia: per le faccende del Calcio Napoli!».

L’idea che Mastella ha della politica - dei suoi limiti, delle sue regole, della sua etica - è elementare, ed era emersa bene già nella conferenza stampa di un’ora prima: «Ci indagano o ci arrestano - aveva detto - per telefonate fatte per reclamare una presidenza oppure raccomandare qualcuno. E’ diventato un reato. Allora io vi chiedo questo: ora l’Udeur è fuori dal governo ma nella maggioranza, se io chiamo Prodi e gli dico “però vorrei la presidenza della Rai” oppure di qualunque altra cosa, ecco, questa che cos’è concussione o logica politica?». Ed è per logica politica, dunque, che Sandra e Clemente si sono infuriati con De Franciscis quando ha cominciato a nominare «persone sue» di qua e di là fregandosene dell’Udeur: «E’ per questo che Sandra lo detesta. E’ per questo che ha detto al telefono: “Per me quell’uomo è morto”. O qualcuno pensa che volesse assoldare un killer?! E guarda caso ci aprono un’inchiesta che decapita il partito e fa finire mia moglie agli arresti domiciliari. E chi è il capo della Procura che ci indaga? Un parente di De Franciscis...».

Mastella ha parlato anche col cardinal Ruini. «Una telefonata affettuosissima». Domenica porterà i suoi deputati e senatori a Piazza San Pietro per star vicino al Papa. «Lo sa perché sono stati arrestati i miei consiglieri regionali? Per aver presentato un’interrogazione per saperne di più di certe nomine di De Franciscis, e nell’ordinanza i giudici hanno scritto che serviva “per isolarlo politicamente”. Poi dicono che la gente ce l’ha coi giudici. Ma le pare che un magistrato si deve mettere a sindacare le iniziative politiche mie o di un altro?».

Iniziative politiche. Anzi, la politica. Alla quale, nella filosofia di Clemente Mastella, tutto è concesso o quasi: «Non prendere le tangenti, però. E prima di tutto perché, come m’hanno insegnato i miei genitori, quello è peccato». Ma il resto sì. Raccomandare, far promuovere, far assumere non è peccato. Del resto, e l’aveva detto in conferenza stampa, bisogna pure saperlo fare: «Se raccomando qualcuno, raccomando uno bravo. Prendi un primario d’ospedale: a me conviene che sia bravo, perché se poi ho un incidente stradale e quel primario non mi salva, quando vado dal Padreterno, lui mi dice: “La colpa è tua, l’avevi raccomandato tu”!». In sala si ride: chi è che non è stato o non ha raccomandato? Ora, però, pretendere una presidenza o la promozione di qualcuno a primario porta in galera. Benissimo, era ora. Ma che non finisca come col calcio, dove, per una trattenuta in area, il rigore a qualcuno lo danno e a qualcun altro no...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'ombra delle urne
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2008, 12:28:24 pm
22/1/2008
 
L'ombra delle urne
 
FEDERICO GEREMICCA

 
L’epilogo, improvviso anche se non certo inatteso, ha sorpreso perfino Umberto Bossi, leader dal fiuto solitamente buono, che ancora ieri su Libero assicurava: «Prodi non è bollito... il governo non cade questa settimana». E invece da ieri pomeriggio la crisi è politicamente aperta, in ragione della scelta compiuta da Clemente Mastella. Ci si attendeva un capitombolo dell’esecutivo per uno sgambetto di Lamberto Dini o per uno dei tanto evocati «incidenti di percorso» al Senato, dov’era già pronta una insidiosissima mozione di sfiducia verso il ministro Pecoraro Scanio. Alla fine, invece, è stato l’uomo dei penultimatum - lo spesso sbeffeggiato Mastella - a giocare d’anticipo: «Dico basta. L’esperienza politica del centrosinistra è conclusa». Una mossa che ha colto tutti in contropiede, ma non Romano Prodi. Alle otto della sera, infatti, Palazzo Chigi ha voluto far sapere: «Ci aspettavamo una sorpresa. Per due giorni Mastella non si è fatto trovare».

Stamane il premier parlerà nell’aula di Montecitorio della situazione determinatasi, ascolterà il dibattito che si svilupperà e trarrà le sue conclusioni. Prodi potrebbe salire al Quirinale a rassegnare le dimissioni già in mattinata oppure percorrere per intero la via della parlamentarizzazione della crisi, attendendo il voto della Camera (dove il governo ha la maggioranza anche senza l’Udeur) su una mozione di fiducia per poi decidere se salire al Colle o procedere ad analogo passaggio anche nell’aula di Palazzo Madama.

Comunque sia, il dado sembra ormai tratto: a diciotto mesi esatti dalla sua nascita, il governo di Romano Prodi affonda nella crisi, lasciando temporaneamente il campo a uno scenario fatto di assoluta confusione.

E occorre dire che di questa confusione la giornata di ieri è stata specchio allarmante e fedelissimo. Apertasi con già sul groppone l’eredità delle ultime settimane - dalle immagini della spazzatura napoletana in giro per il mondo al ministro della Giustizia indagato dalla magistratura - ha vissuto di due avvenimenti distinti per gravità ma ugualmente preoccupanti. Il primo è l’esplicito e inedito scontro frontale tra il governo italiano e la Santa Sede intorno alle ragioni che hanno spinto Benedetto XVI a rinunciare alla sua visita alla Sapienza; il secondo è il triste panorama emerso dal rapporto 2008 dell’Eurispes, che segnala il crollo verticale di credibilità presso i cittadini praticamente di ogni tipo di istituzione. Entrambi gli avvenimenti sono passati in secondo piano dopo l’annuncio di crisi fatto da Mastella: ma sarebbe un errore gravissimo destinarli al dimenticatoio, non foss’altro perché è precisamente da questioni così che qualunque altro futuro governo dovrà ripartire.

Già, ma quale governo? E in questa stessa legislatura o dopo nuove elezioni politiche? Nessuno, al momento, è in grado di avanzare previsioni che abbiano un minimo di attendibilità, considerato il gran intreccio di questioni sul tappeto e la varietà di interessi divergenti tra maggioranza e opposizione, e addirittura all’interno dei due stessi schieramenti. Andare a elezioni anticipate significherebbe far slittare il referendum di un anno, gettare nel cestino ogni ipotesi di riforma elettorale e tornare al voto con una legge considerata unanimemente fattore di instabilità e ingovernabilità: eppure Berlusconi - e non solo lui, in verità - ha già annunciato che «è urgente dare la parola ai cittadini». Non imboccare quella via, al contrario (ed escludendo la riproposizione di un governo di centrosinistra) vorrebbe dire tentare la costituzione di un esecutivo tecnico o di garanzia del quale, al momento, pochi vedono le condizioni.

Il rischio, insomma, è quello di una crisi confusa e dai tempi non brevissimi: precisamente il contrario di quello di cui il Paese ha bisogno oggi. Per questo il lavoro che attende il Quirinale - notaio e arbitro della crisi - non si preannuncia affatto semplice. La speranza è che, giunte a un passo dal baratro, le forze politiche di maggioranza e di opposizione recuperino un minimo di concordia e, di conseguenza, un comportamento che non renda devastante il bilancio di una legislatura non certo cominciata nel migliore dei modi.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Niente pasticci
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2008, 04:33:10 pm
31/1/2008
 
Niente pasticci
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Era già qualche giorno che nei palazzi della politica si sussurrava che se c’è un uomo che può tentare di portare il Paese fuori dalle secche della crisi, quest’uomo è Franco Marini. E non soltanto, si badi, per le sue riconosciute (e sperimentate) capacità «trattativiste» o per la cordialità che contraddistingue i suoi rapporti personali con molti leader della Casa delle libertà («È un amico - ha spiegato ieri Cesa, a nome dell’Udc -. Vedremo cosa ci dirà»). La sua forza, infatti, è soprattutto nell’essere la seconda carica dello Stato: e questo dovrebbe rappresentare - nelle intenzioni del Presidente della Repubblica, che gli ha ieri affidato il delicato incarico - una garanzia sia rispetto alla serietà e alla credibilità della missione cui è chiamato, sia rispetto ai timori dell’opposizione che paventa trucchi, tecniche dilatorie e magari soluzioni instabili o peggio ancora pasticciate.

Il messaggio che il Quirinale ha inteso trasmettere con la scelta di Franco Marini è dunque duplice: si ritiene che vi sia la possibilità di raggiungere un accordo sulla legge elettorale (e dunque di far nascere un nuovo governo), altrimenti non sarebbe stata chiamata in campo la seconda carica dello Stato; e la seconda carica dello Stato non può esser nemmeno sfiorata dal sospetto di prestarsi a giochini di qualunque tipo o di puntare ad approdi fragili e insicuri. Questa è dunque la premessa.

E del resto, il fatto che sia impossibile pensare al varo di un esecutivo dalla maggioranza risicata e mutevole è insito nell’obiettivo stesso affidato all’eventuale nuovo governo: riformare la legge elettorale prima di riportare il Paese alle urne.

Sarebbe assai discutibile, infatti, se dopo mesi spesi a sostenere la necessità che la nuova legge elettorale sia cambiata col concorso di una larga maggioranza di forze politiche (lo ha detto Prodi, lo ha detto Veltroni, lo ha affermato lo stesso Marini) si finisse invece per affidare questo compito a un esecutivo che dovesse reggersi solo grazie al pentimento di qualche «dissidente» della vecchia maggioranza e magari a qualche parlamentare in uscita dall’Udc. Un simile governo, infatti, oltre a riportare il Paese nel clima ansiogeno - e dunque scarsamente produttivo - degli ultimi mesi di vita del gabinetto Prodi, sarebbe esso stesso la garanzia più solida che l’obiettivo per il quale nasce non verrebbe mai raggiunto. E ci troveremmo di fronte, insomma, quasi a un tradimento del mandato ieri conferito dal Quirinale.

Non è pensabile, nonostante le pressioni non siano scarse, che Franco Marini possa mettere la propria autorevolezza al servizio di un così discutibile obiettivo: ma non è forse inutile ripetere che l’unica condizione che giustificherebbe la nascita di un esecutivo all’altezza del compito da affrontare (e dunque non di un governicchio) è che esso possa godere del sostegno anche delle maggiori forze d’opposizione. Tocca naturalmente al presidente del Senato verificare - appunto - l’esistenza di una simile possibilità. E si deve presumere che se alla fine Marini ha accettato l’incarico «finalizzato» conferitogli da Napolitano, ciò non sia dovuto solo al suo riconosciuto senso dello Stato, ma anche alla convinzione di avere qualche buona carta da giocare.

Quali siano queste carte non è difficile da immaginare. Innanzitutto la garanzia che, varata la riforma, si torna alle urne senza inutili giri di valzer; quindi, l’assicurazione che in assenza di un’intesa larga sulla modifica della legge elettorale non sarà lasciato spazio a soluzioni di basso e incerto profilo; infine, la convinzione che esista la possibilità di tradurre in norma o l’accordo che Veltroni e Berlusconi avevano di fatto raggiunto tramite i loro «tecnici» (Vassallo e Quagliariello) delegati alla trattativa oppure un’intesa frutto dell’elaborazione delle cosiddette bozze-Bianco. È chiaro che è quest’ultimo punto che deciderà la vita o la morte della legislatura. Per dirla in chiaro: senza un’ampia intesa sulla riforma, il nuovo governo non nasce. Se un largo accordo invece venisse raggiunto, un esecutivo Marini potrebbe prendere il largo, a prescindere da quali e quante forze dell’opposizione decidessero alla fine di sostenerlo col sì oppure di astenersi.

Missione ad alto rischio, dunque. O addirittura «missione impossibile», come si è sostenuto. Ma Marini ci prova. E se i numerosissimi appelli a un’intesa che eviti il voto non servono a far maggioranza al Senato, certo potrebbero indurre a qualche ripensamento. Questa, almeno, è la speranza del presidente incaricato. Altrimenti la parola passa alle urne: evento traumatico e magari dannoso per il Paese, ma del quale - in fondo - non c’è motivo d’aver paura.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA Il giorno della svolta
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2008, 11:36:44 am
9/2/2008
 
Il giorno della svolta
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Si potrà discutere all’infinito su quanto ci sia di genuina convinzione e quanto invece di forzosa necessità nelle importanti novità politiche maturate nella giornata di ieri: Veltroni che conferma di fronte ai leader della Cosa Rossa la scelta di presentare il suo Pd da solo alle elezioni; Berlusconi - soprattutto - che lo insegue mettendo in pista il Popolo delle Libertà (nelle cui liste accoglierà Fini, un po’ di partitini ma non Bossi e Casini, per ora); Pezzotta, Tabacci e Baccini che varano - forse nel momento più difficile - la loro Rosa bianca. È del tutto legittimo, dicevamo, interrogarsi sulle ragioni e sulla profondità di queste svolte.

Ma due annotazioni sono possibili fin da ora. La prima è che, quasi rispondendo ad una delle critiche più feroci mosse alla politica dalla cosiddetta «antipolitica», il sistema si è mosso verso una decisa (per ora) semplificazione della propria geografia; la seconda è che molto di quanto sta accadendo non può non esser fatto risalire - come all’epoca i più attenti osservatori già pronosticarono - alla nascita del Partito democratico, voluto da Prodi e da Veltroni. È possibile che nei prossimi giorni altre «scosse di assestamento» stabilizzeranno e definiranno con maggior precisione il quadro delle forze in campo e delle alleanze che verranno stipulate in vista del voto del 13 di aprile. Ma molti segnali sembrano dire che, a differenza di quanto poteva apparire ancora solo dieci giorni fa, la partita elettorale è riaperta.

Se la sostanza delle scelte non muterà, infatti, si fronteggeranno (alla conquista del premio di maggioranza) il Pd di Veltroni da un lato e il partito-listone di Berlusconi e Fini dall’altra, col sostegno della Lega che dovrebbe esser loro federata. La Cosa rossa di Bertinotti e la Rosa bianca probabilmente finiranno per fare corsa a sé, mentre ha del malinconico la parabola di Casini e di Mastella, vecchi amici alle prese col duro ultimatum loro imposto dal Cavaliere. Logica vorrebbe che i centristi (Udeur, Udc e Rosa bianca) si unissero in un unico soggetto politico, per semplificare ulteriormente il quadro e avere una chance di superare le soglie di sbarramento (4% alla Camera e il doppio al Senato): ma non è detto che la logica prevalga sulle ambizioni personali e su una ricerca di visibilità che pare il cascame di un’epoca che potrebbe davvero avviarsi a conclusione.

Quel che sembra sottendere le scelte di Veltroni e Berlusconi (naturalmente diverse per profondità di maturazione e per tempismo) è infatti una straripante insofferenza verso i «ricatti» dei piccoli partiti, capaci di far interdizione e di impedire - con il loro due o tre per cento - tanto l’azione di governo quanto addirittura un’efficace politica di opposizione. Prodi è caduto per questo, in fondo. E per la stessa ragione, Berlusconi ha dovuto rinviare a lungo la nascita del suo Popolo delle Libertà. I due leader, per dirla in parole semplici, sembrano essersi stufati dell’andazzo e hanno deciso di cogliere l’occasione del voto per andare ad una sorta di resa dei conti che sta ridisegnando la geografia politico-elettorale del Paese. È un bene. Resta però da chiedersi - se questi erano lo stato d’animo e la direzione del processo da avviare - perché si sia persa l’occasione (e qui la responsabilità è soprattutto del centrodestra) di varare una legge elettorale che favorisse accorpamenti e semplificazione del quadro politico.

Infine, un’ultima questione. Dicevamo all’inizio che, in entrambi i campi, sembra avviato un processo che pare andare oggettivamente incontro ad una delle richieste più pressanti arrivate dal cosiddetto «movimento dell’antipolitica», ma più in generale da osservatori politici e cittadini qualunque: la riduzione della frammentazione partitica. È certo un bene, ma non è sufficiente, perché l’altra e ancor più forte sollecitazione era e resta quella di un profondo rinnovamento delle classi dirigenti: basta con le stesse facce di sempre, basta con i soliti nomi, basta con quella sorta di gerontocrazia politica (e non solo politica) che regge il Paese da un tempo immemorabile. Sarebbe assai utile se, in questa fase che prepara profondi rivolgimenti, Veltroni e Berlusconi mettessero mano anche a questo problema.

La via c’è, è pronta per esser percorsa ed è quella del rinnovamento a partire dalle liste elettorali. Il leader del Pd ha annunciato di volerla percorrere, Berlusconi - invece - ancora non si è espresso, essendo alle prese con altri problemi. Sappiano d’essere entrambi attesi alla prova delle candidature: e attesi non da questo o quel commentatore ma da cittadini che sperano di potersi recare alle urne e non dover votare, ancora una volta, i soliti noti. Ecco, se la riduzione della frammentazione sarà accompagnata da un serio rinnovamento del personale politico, allora sì che le elezioni del 13 aprile potrebbero davvero segnare una svolta nel rapporto tra politica e cittadini. A tutto vantaggio non solo dei secondi, ma soprattutto della prima...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ricatti e veleni al mercato dei candidati
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2008, 03:11:37 pm
10/3/2008 (7:18) - LA STORIA, SE IL LEADER PUO' DECIDERE TUTTO

Ricatti e veleni al mercato dei candidati
 
La preferenza venne abolita perchè generava corruzione.

Ora Berlusconi: "Ho capito che è meglio tornare alle preferenze"

La trattativa tipo: «Non mi dai un posto sicuro? Allora cambio partito»

FEDERICO GEREMICCA


ROMA
L’Eurostar 9373 delle ore 9,46 fila silenzioso, lasciandosi alle spalle la stazione di Roma. Sono da poco passate le dieci del mattino e il signore scamiciato seduto nella poltrona 25 della carrozza 1 pare davvero molto agitato. Si divide tra due telefonini, parla a voce alta e apre uno spaccato grottesco – involontariamente, s’intende – su uno degli aspetti più mortificanti della campagna elettorale in corso: il mercato delle candidature al tempo della Terza Repubblica. Sta dicendo il signore: «Io a Dell’Utri stanotte gli ho mandato un messaggio chiaro: se quello, Nino Foti, è davvero candidato numero 13 nelle nostre liste in Calabria, io domani mattina mi candido con l’Udc, numero 2 al Senato e 3 alla Camera».

Il signore si chiama Gesuele Vilasi, è consigliere regionale in Calabria per Forza Italia, non è affatto un politico peggiore di altri e naturalmente resta da stabilire se sia più scortese origliare oppure strillare in treno al punto che, per chi è seduto di fronte, diventi impossibile non ascoltare. «Mi passa l’onorevole Bondi, per favore?... Ah, è in riunione... Era per le liste». Fa un altro numero. «Pronto, sono l’onorevole Vilasi, cercavo il dottor Letta. E’ in riunione? Dica che ho chiamato, grazie». Poi è uno dei suoi telefonini a squillare: «Ciao Giancarlo. Ma io lo so, figurati se non lo so che vogliono scaricare tutto sul coordinatore regionale del partito. Ma quest’operazione l’ha fatta Verdelli e allora i voti a Foti glieli viene a trovare lui perché li ho avvisati: se lo candidano, io domattina sono in lista con l’Udc alla Camera e al Senato».

Comprensibilmente, l’onorevole Vilasi – come già detto nient’affatto peggiore di altri – pretende che a buttar fuori dalle liste (e, presumibilmente, dal Parlamento) il candidato Nino Foti, sia Marcello Dell’Utri, visto che infatti il popolo non può. Voti la lista e ti tocca eleggere anche chi non vuoi, se si trova «in buona posizione»: una specie di o mangi la ministra o salti dalla finestra... Potere assoluto in mano ormai nemmeno più alle segreterie dei partiti, ma ai soli leader: alla cui saggezza è affidata la composizione non soltanto delle loro liste, ma del nostro Parlamento. Se ci si riflette, a parte il resto, è anche questo – l’impossibilità per l’elettore di esprimere un giudizio su chi è presente in lista – che può permettere le candidature (l’elezione) contemporanee di Matteo Colaninno e della segretaria del ministro Fioroni, della figlia di Totò Cardinale e dell’addetta stampa di Prodi. E produrre l’arrivo in Parlamento di un’altra «letteronza» o di una star tv. Infatti, non c’è verso: se vuoi votare questo o quel partito ti tocca eleggere per forza una o uno così. Insomma, scelto da altri.

Gesuele Vilasi lo sa, e si regola di conseguenza. Altra telefonata: «Trecento fax, glieli ho fatti mandare stanotte perché sono rimasti chiusi in due o tre a fare le liste fino alle quattro del mattino. Loro lo candidano e noi ce ne andiamo. E per quanto mi riguarda, Senato e Camera con l’Udc». Che magari è perfino l’aspetto di questa storia che infastidirebbe di più il Cavaliere: proprio con l’Udc di Casini! E forse perfino eletto: perché tanto anche chi aveva deciso di votare per Casini prima dell’ipotetico arrivo di Vilasi – e volesse continuare a farlo, naturalmente – non potrà che votare pure per l’ex «nemico» di Forza Italia.

Questa storia, in tutta evidenza, una morale non ce l’ha. Il cosiddetto voto di preferenza fu un fattore decisivo in quel dilagare di corruzione e degenerazione che portò al crollo della Prima Repubblica: fiumi di danaro in manifestini e faccioni, corti di clientes, spese folli da far rientrare con tangenti e finanziamenti illeciti. Mente chi finge di non ricordare. Ma anche così, è evidente, non può più andare. E quel che sorprende, è l’assenza di consapevolezza di quanto la perdurante imposizione non più di semplici candidati ma di eletti, gonfi le vele dell’antipolitica. E contraddica ogni proposito di rinnovamento. Forse nemmeno i leader ne possono più di un sistema così, che alle fine – in fondo - espone soprattutto loro. Ma allora, tra i tanti impegni che vanno assumendo con gli italiani in questa campagna elettorale, ribadiscano magari con più forza che questa legge elettorale la cambieranno, che quello in corso è l’ultimo «mercato». E che lo faranno in fretta, cioè prima di entrare nel solito e incontrollabile clima pre-referendum.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Le pensioni di Walter
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2008, 03:48:17 pm
25/3/2008
 
Le pensioni di Walter
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Probabilmente l’immagine che rende meglio l’idea dello stato della competition elettorale tra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi a tre settimane dal voto è quella di una partita di calcio.

Meglio: del secondo tempo di un match che ricomincia con una squadra che torna in campo dopo aver dato molto, se non tutto, nella prima frazione, e l’altra che - avendo potuto giocare di rimessa - appare più fresca e in grado di controllare la partita. Dopo un avvio sprint, infatti, il passo di Veltroni sembra essersi fatto più pesante: e se è vero che ha recuperato parte dello svantaggio iniziale, la sensazione è che nel momento in cui dovrebbe mettere a segno la rete decisiva si ritrovi d’improvviso col fiato grosso e a corto di energie. Dopo la rimonta iniziale, da una settimana i sondaggi segnano una fase di stagnazione; e messo alle spalle l’avvio spettacolare e coraggioso fatto di rottura delle vecchie alleanze e candidature a effetto, ora la campagna si combatte in un tran tran un po’ noioso (in un gioco a centrocampo, insomma) che avvantaggia soprattutto chi deve difendersi. L’interrogativo dunque è: può - e come - Veltroni ripartire all’attacco per completare la rimonta?

Lo staff perennemente al lavoro nel loft del Circo Massimo esclude cambi di rotta e colpi a sorpresa: «Veltroni - spiegano - continuerà lungo la linea tracciata: niente polemiche e toni alti, replica all’avversario solo se costretto e da adesso in poi insistenza ancor maggiore sugli obiettivi programmatici del suo possibile governo. E’ il profilo di una campagna elettorale normale, finalmente da Paese europeo: ed è un po’ avvilente che la si consideri invece noiosa, solo perché usciamo da quindici anni di competizioni condotte a colpi di insulti e di paure del comunismo». Il fatto, però, che cambi di toni e di rotta non ce ne saranno non vuol dire che Veltroni non abbia ancora in cantiere iniziative capaci di far discutere. Il leader del Pd, infatti, si prepara a mettere in campo alcune proposte tematiche di sicuro impatto: la prima, già oggi, riguarderà le pensioni medio-basse, ferme da anni ed erose dall’inflazione. Ci hanno lavorato per settimane Morando, Tonini e Treu, approdando ad una proposta che punta ad agganciare questa fascia di pensioni al continuo aumento del costo della vita.

Sul piano dei «colpi d’immagine», invece, resta da calare la carta della squadra di governo, che Veltroni vorrebbe riservare per gli ultimi giorni di campagna elettorale. Il leader del Pd non annuncerà i nomi di tutti e 12 i membri del suo possibile esecutivo ma solo quelli che al loft definiscono i «ministri della società civile», cioè personalità non parlamentari ma provenienti dal mondo dell’economia e delle professioni: si tratterà di nomi illustri, portatori di competenze che dovrebbero garantire circa l’efficacia dell’eventuale azione di governo. Basterà a ridare slancio alla rincorsa del Pd? «Dipende naturalmente dal tipo di proposte che avanzerà e dalla qualità di quella parte della squadra di governo che vorrà annunciare - spiega Claudio Velardi, ex consigliere di D’Alema e fondatore, oltre che di Reti, di New Politics, società di marketing politico e comunicazione istituzionale -. E dipende, soprattutto, dalle mosse che farà il suo avversario. La svolta alla campagna elettorale l’ha infatti impressa Berlusconi con la sua sortita su Alitalia, tema di sostanza e di grande impatto. Veltroni deve augurarsi che il Cavaliere non abbia in serbo altri colpi così, e soprattutto deve sperare che alla fine il duello tv si faccia, perché non c’è dubbio che nel confronto diretto la sua freschezza comunicativa prevarrebbe sugli argomenti di Berlusconi».

Non dissimile è l’analisi di Antonio Polito, direttore de «Il Riformista», che alla vicenda Alitalia attribuisce - però - un valore ancor maggiore: «Berlusconi se ne sta avvantaggiando - dice - perché con la sua sortita è riuscito a riportare al centro della scena il governo Prodi, che Veltroni - al contrario - ha tentato in ogni modo di far dimenticare e tener lontano dalla contesa. In Tv c’è di nuovo Prodi che deve spiegare e difendersi, sono ricominciate le liti tra ministri... Insomma di fronte agli italiani è ricomparso il teatrino che tanti danni aveva fatto al centrosinistra. Credo che per uscire dalle secche - conclude Polito - Veltroni dovrebbe puntare con forza su un tema altrettanto concreto, tirando fuori soluzioni praticabili e accompagnate da dati e cifre. Immagino ci proverà. E immagino lo farà sul tema del precariato, che lui stesso ha definito la priorità delle priorità».

Insomma, è necessaria una scossa. Ma è a una scossa assai meno leaderistica che pensa, dal suo osservatorio bolognese, Sergio Cofferati. «A Veltroni non si può chiedere di più. Sta facendo una campagna elettorale ottima e impegnativa perché, dico per dire, se annuncia che toccherà tutte le province italiane, poi deve farlo. L’importante - però - è che prima e dopo l’arrivo del leader, in quelle province poi la campagna elettorale cominci davvero, con le iniziative locali, i porta a porta, i contatti personali... Questa legge elettorale non stimola certo l’attivismo dei candidati, non essendoci le preferenze ed essendo tutti più o meno sicuri o dell’elezione o del fatto che non saranno eletti: ma per completare la rimonta è indispensabile la mobilitazione di tutto il popolo delle primarie». Veltroni ci ha pensato, e domenica prossima saranno allestiti 12 mila gazebo nei quali verranno distribuiti kit con materiale di propaganda pensato per convincere gli elettori ancora indecisi. A quel punto, alla fine della campagna elettorale mancheranno appena una decina di giorni. Un’inezia o un’eternità, secondo i punti vista...
 
da lastampa.it


Titolo: Sospetti e veleni (di FEDERICO GEREMICCA)
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 10:57:08 am
12/4/2008
 
Sospetti e veleni
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Evocati già da giorni da Silvio Berlusconi come possibile «variante criminale» del risultato elettorale, i brogli hanno fatto concretamente irruzione nella contesa tra i partiti a 48 ore dall’apertura dei seggi. I fatti - anticipati ieri da questo giornale - sono ormai più o meno ufficialmente noti: indagando sugli affari della cosca Piromalli, gli investigatori hanno intercettato una telefonata nella quale il senatore Marcello Dell’Utri e un imprenditore pregiudicato emigrato in Venezuela discutevano di come «segnare» e attribuire al Pdl alcune decine di migliaia di schede bianche o nemmeno ritirate nelle circoscrizioni estere. L’imprenditore è Aldo Miccichè, ex dc, latitante dal 1988 al 1990, arrestato poi a Torino. Condannato per bancarotta e precedentemente indagato per truffa, tangenti e finanziamenti illeciti, Micciché sarebbe appunto il curatore, secondo la Dda di Reggio Calabria, degli affari illegali dei Piromalli in Venezuela.

Il senatore Dell’Utri, interpellato dall’agenzia Ansa, ha negato di aver ricevuto avvisi di garanzia per questa vicenda, pur ammettendo di aver parlato al telefono con Aldo Miccichè: «Si è offerto di occuparsi dei voti degli italiani all’estero e l’ho messo in contatto con la nostra rappresentante, Barbara Contini», ha spiegato Dell’Utri. E ha aggiunto: «E’ una persona con la quale ho avuto rapporti per ragioni di energia: lui in Venezuela si occupa di forniture di petrolio, io ero in contatto con una società russa per cui, conoscendo questi russi, ho fatto da tramite». Degli affari russo-venezuelani nulla si sa, e dunque nulla può esser obiettato: ma è certamente prova di un labile senso della legalità accettare l’offerta di un pregiudicato - per di più in odore di ’ndrangheta - «di occuparsi dei voti degli italiani all’estero». Ma tant’è. E il senatore Dell’Utri, in fondo, è la stessa persona che a pochi giorni dal voto - e tra lo stupore generale - ha esaltato come «eroe» Vittorio Mangano, mafioso condannato all’ergastolo (e la sortita, purtroppo, è stata intesa come un «segnale» in molte regioni meridionali soffocate dalla criminalità organizzata).

La vicenda è imbarazzante, e certo poco edificante. Le indagini vanno avanti, l’esistenza dell’intercettazione è stata confermata sia dalla Dda di Reggio Calabria sia dal ministro Amato e quel che qui si vorrebbe chiedere è che si faccia chiarezza il più rapidamente possibile. È del tutto inconcepibile, infatti, che in un Paese occidentale a solida democrazia, le elezioni possano essere condizionate da sospetti di brogli veri e da evocazione di brogli presunti. L’invito, naturalmente, è rivolto innanzitutto alla magistratura, ma anche i leader in campo farebbero bene a ponderare parole e toni. Berlusconi prima di ogni altro. È stato il leader del Pdl, infatti - a cinquant’anni di distanza dal referendum repubblica-monarchia - a tirar fuori l’accusa di brogli dopo le elezioni del 2006, a rilanciarla più volte nei venti mesi del governo Prodi ed a rievocarla ripetutamente in questa campagna elettorale.

L’interrogativo che è infatti lecito porsi, è più o meno il seguente: è un comportamento politicamente responsabile evocare lo spettro di brogli alla vigilia di un voto che potrebbe decidersi - in particolare per quel che riguarda il Senato - sul filo di lana? Non lo è, naturalmente. E allora qual è lo scopo dell’allarme brogli? Prepararsi, forse, a contestare l’esito del voto, se non pienamente gradito, proprio con l’argomento che sarebbe stato determinato da illegalità nei seggi? E che pensare, infine, di fronte alla circostanza che a lavorare a possibili irregolarità - secondo i magistrati - sarebbero proprio esponenti del partito che invece denuncia di esser sul punto di subirli? Il dopo elezioni potrebbe rivelarsi già di per sé confuso e delicato, senza bisogno di avvelenarlo col sospetto di «brogli italiani» e tentativi di «brogli esteri». Del resto, il Pdl ieri ha annunciato che saranno 118 mila i «difensori della libertà» schierati nei seggi a garanzia della regolarità delle operazioni di voto. Se l’ex premier non si fida del Viminale e nemmeno della magistratura, abbia fiducia almeno nei suoi «combattenti».
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il grande ritorno
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2008, 04:04:30 pm
15/4/2008
 
Il grande ritorno
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Annunciato da tutti i sondaggi come la conclusione più probabile, il ritorno di Silvio Berlusconi al governo del Paese è da oggi realtà. L’ex premier, infatti, ha contenuto il tentativo di rimonta del Pd di Walter Veltroni e, grazie anche al notevolissimo risultato ottenuto dalla Lega di Umberto Bossi, ha conquistato tanto alla Camera quanto al Senato una maggioranza che ora gli permette di riprendere le redini del Paese. Accade per la terza volta in quattordici anni, in ragione - anche - di un principio di alternanza al governo che, dall’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica (elezioni del 1994), ha puntualmente funzionato ad ogni tornata elettorale. Questa vittoria, però, sembra assumere un valore tutto particolare per i grandi mutamenti politici che l’hanno preceduta e prodotta, per il clima in cui è maturata e per le difficili condizioni in cui versa il Paese.

Partiamo dal primo dato. Il «bipartitismo coatto» imposto da Walter Veltroni e da Silvio Berlusconi al sistema politico ed al Paese (a dispetto di una legge elettorale del tutto proporzionale) ha funzionato, producendo vittime illustri ed un vero e proprio terremoto (positivo) nella geografia parlamentare.

A dispetto del passato, le aule di Camera e Senato ospiteranno nella legislatura che si apre quattro o al massimo cinque gruppi parlamentari: una semplificazione che ci avvicina agli spesso invidiati sistemi di altri Paesi europei e che potrebbe produrre maggior rapidità nelle decisioni da assumere e nella stessa dialettica politica. Il prezzo più alto lo pagano le forze di ispirazione comunista e ambientalista, che restano fuori dal Parlamento: è la prima volta che accade, non è affatto detto che sia un bene, ma la drammatica sconfitta subita dalle liste capitanate da Fausto Bertinotti può forse essere il punto di partenza per la ricostruzione di una sinistra che stia al passo con l’evoluzione di un Paese in rapido cambiamento.

È possibile che lo stesso processo di semplificazione imposto dalla nascita del Pd prima e del Pdl dopo, abbia in qualche modo arginato i potenzialmente dirompenti effetti della cosiddetta «antipolitica». La tanto temuta «astensione di massa» non si è infatti verificata (ha votato comunque oltre l’80% degli italiani, con un calo di tre punti percentuali rispetto a due anni fa): e la critica serrata al sistema dei partiti ha finito, anzi, per premiare due forze storicamente anti-sistema, la Lega di Bossi e l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Sarebbe però suicida pensare che la bufera che ha investito la «casta» sia ormai passata, e non dar corso agli impegni assunti in campagna elettorale in termini di riduzione delle spese, delle ingerenze e dei privilegi della politica.

Questo è solo uno degli impegni - e nemmeno il più gravoso - che attende Silvio Berlusconi una volta insediato a Palazzo Chigi. Gli altri sono noti e non vale nemmeno elencarli, essendo stati oggetto di campagna elettorale: la crescita è ferma, la recessione in agguato, l’insicurezza dei cittadini crescente e il sistema istituzionale del tutto inadeguato ad una moderna società occidentale. Molte preoccupazioni accompagnano la tenuta di una maggioranza nella quale il peso e i voti della Lega sono determinanti, e qualcuno già scommette che anche questa legislatura potrebbe aver vita breve e travagliata. Si vedrà. Potrebbe però confortare lo spirito - assai diverso dal passato - mostrato da Berlusconi in campagna elettorale: una certa consapevolezza che i tempi sono difficili, che sarà necessario qualche sacrificio, la disponibilità a forme di collaborazione - su temi bipartisan - con l’opposizione.

Del tutto diversi, infine, i compiti che sono di fronte a Walter Veltroni. Il primo è senz’altro consolidare e radicare il Partito democratico, battezzato nel fuoco di una battaglia che l’ex sindaco di Roma sperava, forse, più lontana. La rimonta non è riuscita, e nemmeno la soglia del 35%, a spoglio non ancora ultimato, sembra raggiunta. Ciò nonostante l’avventura non può dirsi fallita: il Pd è in campo, ha una classe dirigente e gruppi parlamentari largamente rinnovati e può senz’altro proporsi come alternativa all’attuale maggioranza. A condizione che affronti la seconda - e più grande - delle questioni che ha di fronte: e cioè come portare «il riformismo al governo del Paese» (parole di Veltroni) separando i destini del Pd da quelli della sinistra radicale. Un italiano su tre ha votato per Veltroni: troppo poco per vincere. Almeno fin quando in campo c’è Silvio Berlusconi.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - INTERVISTA A SERGIO COFFERATI
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 12:30:16 pm
17/4/2008 (7:10) - IL TONFO DELLA SINISTRA, INTERVISTA A SERGIO COFFERATI

"La Padania esiste, è qui e va capita"
 
"Se il Pd non se ne rende conto, perderà sempre"

FEDERICO GEREMICCA


BOLOGNA
Ma quindi, signor sindaco, intendiamoci: possiamo rompere un tabù e titolare quest’intervista “cari amici del Pd, la Padania esiste”? Sergio Cofferati ci pensa un attimo perché, come un fulmine, forse gli ripassano per la mente i dubbi che ebbe prima di sgombrare un campo di immigrati e dire “cari compagni, la sicurezza non è un valore della destra” (affermazione oggi scontata, ma allora accompagnata da fischi e accuse di tradimento); o quando, non troppi mesi dopo, decise di sperimentare lì - a Bologna - la “vocazione maggioritaria” del Pd, rompendo la sua alleanza con la cosiddetta sinistra radicale. Dunque, Cofferati ci pensa. E poi si apre in un calda risata. «Ma certo che sì, la Padania siamo noi. Guardi che io son di lì, nato a Sesto e Uniti, provincia di Cremona, in mezzo ai contadini...».

Ci vorrà forse del tempo perché anche quest’affermazione - “la Padania esiste” - venga digerita come ineluttabilmente vera. Ma per Sergio Cofferati è importante che ciò avvenga: e che il Pd ne tragga ogni conseguenza, in termini di analisi politica, proposta istituzionale e assetto organizzativo. La Padania esiste, e lo dimostrano perfino i risultati elettorali: se è così, non ha senso negarlo sol perché ne ha parlato prima la Lega... Ed è soprattutto della Lega - oltre che della Sinistra Arcobaleno - che Sergio Cofferati parla in questa sua intervista dopo il voto del 13 aprile.

Però che c’entra, scusi, la Padania col risultato elettorale?
«C’entra perché credo che ormai occorra analizzare anche i risultati elettorali non più regione per regione ma area per area. Se noi osservassimo le cose un po’ più dall’alto, ci accorgeremmo che quel che accade sulla sponda destra del Po succede anche sulla sponda sinistra...».

Sarà. Ma che c’entra col voto?
«In grandi aree del nord ci sono ormai elementi di uniformità dettati dalla struttura economica e sociale: e per queste due vie, producono risultati elettorali. Se si guarda la pianura... Cremona e Reggio Emilia, oppure Mantova e Ferrara - che sono città di regioni diverse - hanno una strutture economica, sociale e risultati elettorali del tutto simili».

Tutto questo per dir cosa?
«Che gli elementi di identità territoriale non sono più rappresentati dai confini geografici e regionali. Le persone si muovono... Il Po divide, fa da separazione per alcuni tratti, ma è una separazione geografica che non ha più alcuna corrispondenza né economica né sociale. Per venire al concreto: io penso che non ci possa organizzare efficacemente sul piano della rappresentanza considerando invalicabili i confini geografici. Di più: credo che ormai sia in divenire anche una questione di carattere istituzionale. Dunque, quando penso alla dimensione territoriale del futuro Pd, penso a due cose assieme: agli antichi insediamenti ottocenteschi della rappresentanza politica - luogo per luogo, paese per paese - e ai modernissimi scavalcamenti di confini geografici e regionali ormai fittizi. L’Emilia Romagna è parte del nord e ha caratteristiche di sviluppo, in alcune sue zone, simili a quelle della Lombardia. La collina emiliano romagnola ha forti elementi di somiglianza con la collina bergamasca e bresciana; e la pianura lombarda con la pianura emiliano romagnola. Un partito deve prendere come riferimento queste grandi aree. E’ inevitabile. Non farlo non ci aiuterà né a capire il nord né a radicare il Pd in queste aree decisive del Paese».

Dove invece la Lega si espande di elezione in elezione...
«E continuerà a farlo, soprattutto se non aggiorniamo la nostra analisi. La Lega non è un un partito che intercetta un voto di protesta: questo è un argomento senza fondamento, ha ragione Maroni. La Lega è un partito con una linea politica di destra, raccoglie consensi sulla base della sua linea che è proposta e sperimentata, per altro, anche in ruoli e attività istituzionali. Naturalmente, io non condivido quella linea, e la contrasto. Ma se torniamo alla tesi che quelli alla Lega sono voti di protesta, commettiamo un errore clamoroso».

E crede che sia questo quel che sta accadendo?
«In parte sì. E sono stupito. Così come mi stupisce sentir dire che “anche gli operai votano Lega”, come fosse una scoperta. Posso farle un esempio?».

Naturalmente.
«A parte il fatto che quando un partito supera certe soglie di consenso il suo radicamento è necessariamente interclassista, vorrei ricordare il 1994, cioè la crisi del primo governo Berlusconi. Il sindacato protestò per la riforma delle pensioni proposta, ma la crisi l’aprì Bossi in Parlamento. E lo fece perché l’acuirsi del contrasto tra sindacato e governo mandò in sofferenza la base sociale ed elettorale della Lega, che già allora era fatta anche da operai. E se devo dirle, anzi, la situazione di oggi mi sembra somigli molto a quella che ricordavo».

Cioè, vede possibili problemi tra Lega e Popolo della Libertà?
«La linea della Lega ha evidenti elementi di diversità rispetto a quella di Berlusconi. In materia economica guarda alle piccole imprese, con tratti protezionistici, e dunque altro che liberismo. Nel sociale è molto attenta ai temi del welfare, e quanto alla globalizzazione... Considerati i rapporti che ha con la Lega, credo non sia un caso che Tremonti sia approdato alle teorizzazioni cui è giunto. Comunque, questo riguarda loro. Ciò premesso, il lavoro fatto da Veltroni è del tutto positivo e pienamente condivisibile. E la linea economica e sociale indicata è quella che ci può consentire con pazienza di acquisire risultati positivi anche in questa parte del Paese».

Un’ultima domanda, su tutt’altro: che le pare della batosta subita dalla Sinistra arcobaleno? Magari ne sarà contento, considerati i suoi rapporti a Bologna con Rifondazione...
«Considero l’assenza in Parlamento di quella sinistra un fatto profondamente negativo, prodotto dai loro errori politici enfatizzati da una pessima legge elettorale da cambiare. Credo che, a differenza del 1996, stavolta Rifondazione avesse scelto con convinzione la strada della partecipazione al governo. Hanno però sottovalutato le difficoltà di stare in una ampia coalizione. In un quadro così, la necessità della mediazione bisogna darla per scontata: e della mediazione non puoi cogliere sempre e solo gli aspetti negativi. Ora spero riflettano. E mi auguro che dalla riflessione emerga la voglia di riprovarci piuttosto che quella di rifugiarsi per sempre all’opposizione in nome di una scelta puramente identitaria».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - I prodiani sfidano il Cinese (Prodi: prodian non esistono)
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:23:37 am
23/4/2008 (7:29) - RETROSCENA - I DEMOCRATICI E LA CANDIDATURA CHE NON C'É

I prodiani sfidano il Cinese "Romano pronto per Bologna"
 
Continua la guerra dei nervi sul futuro sindaco.

Cofferati: parlerò solo il 18 giugno

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BOLOGNA


Sistemato dietro la scrivania, in una piccola sala della biblioteca di Giurisprudenza, il professor Augusto Barbera confessa un certo imbarazzo: «Su questa ipotesi davvero non me la sento di dir nulla, visto che già sbagliai la previsione su Cofferati... Quando si ipotizzò una sua candidatura a sindaco di Bologna, io pensai: “Ma figurarsi se uno come lui, lanciato com’è, viene a fare il sindaco qui”... Invece venne. Allora mi limito a dire che non me la sento di escludere che con Romano possa andare allo stesso modo: e che cioè possa esser lui, la primavera prossima, il candidato alla guida della città». Che sarebbe, poi, un epilogo possibile dell’estenuante guerriglia - sotterranea ma non segreta - che divide il «cinese» e il Professore fin dal giorno in cui, si può dire, il primo fu messo in pista dai Ds come candidato-sindaco della città: senza nemmeno sentire l’opinione di Romano Prodi, padre dell’Ulivo e bolognese doc.

E alla fine, dunque, in quella sorta di guerra dei nervi apertasi tra il «cinese» e il Professore, si è giunti fin qua: che se Cofferati fa il favore di non ricandidarsi, noi una soluzione l’avremmo, Romano sindaco e non se ne parla più. Lo dicono i prodiani, non Prodi, certo, che - anzi - al diffondersi delle voci rispose: «Farò il nonno, il resto sono balle». Ma da provocatoria che era, l’idea è diventata fascinosa. «Se ne discute fra il divertito e il distaccato nelle facoltà e nei salotti bolognesi», ha annotato Edmondo Berselli su «Repubblica». E poi: «Si pensi a come potrebbe essere felice l’incontro tra il più emiliano degli uomini politici con la sua emilianissima città di vita». Questa, più o meno, l’aria qualche settimana fa: da allora, naturalmente, la faccenda è peggiorata.

Perché, prima di tutto, c’è stato il voto, dal quale il governo Prodi è uscito come è uscito. Perché, poi, il Professore ha comunicato che non intende più fare il presidente di un Pd che lo processa. E perché, naturalmente, anche Cofferati ci ha messo del suo: prima lodando «il lavoro straordinario» di Veltroni, e poi chiedendo al Pd di riconoscere l’esistenza di una questione-Padania, e di attrezzarsi di conseguenza. Ne è nato un dibattito sul Pd del Nord, nel quale Prodi è stato il primo a intervenire: una stupidata, il Pd ha il suo statuto, è già federalista e non possiamo ricominciare ogni volta da capo. Un paio d’ore ed ecco la replica: dica quel che vuole, resto della mia opinione. E il «duello», rischia di incattivirsi: come quelle liti delle quali non ricordi come fu l’inizio, ma di sicuro non vedi la fine.

Una guerra dei nervi nella quale, naturalmente, ognuno ci mette il suo. Cofferati, gelido, che a chi chiede se si ricandida risponde: «Lo saprete il 18 giugno, non un giorno prima»; e «ambienti prodiani» che intanto dicono in giro che il «cinese» è stanco, che farà il papà e che ha addirittura deciso di trasferirsi a Genova... «Ci tiene tutti in sospeso per sue vicende personali - lamenta Andrea Papini, parlamentare vicino al Professore -. Ma qui ognuno ha le sue questioni personali, e non è che le fa pesare sul partito o sulle istituzioni. Noi abbiamo bisogno di sapere che intende fare. E se vuole la mia opinione, le dico che una ricandidatura di Cofferati potrebbe incontrare difficoltà in città». Questo per dirne una. E un’altra potrebbe essere la singolare disavventura in cui è incappato Luca Foresti, ex Margherita, responsabile del sito web del Pd bolognese, un cui scritto polemico col sindaco (gli chiedeva bruscamente di comunicare i propri progetti futuri) prima compariva nella homepage, quasi fosse una posizione ufficiale, e poi veniva derubricato a opinione personale.

Ovviamente, ad alimentare le schermaglie non ci sono solo questioni cittadine (per esempio, la tutela e il futuro della rete di poteri che l’arrivo del «cinese» ha letteralmente scompaginato) ma anche visioni differenti del Pd e della sua prospettiva. Cofferati, in questa fase veltroniano convinto, è per pigiare l’acceleratore sul nuovo corso: rottura a sinistra, barra al centro e ambizione maggioritaria; Prodi e i prodiani, al contrario, non nascondono nostalgie unitarie e uliviste: e considerano un azzardo non riuscito l’avventura solitaria del Pd. «Quella maggioritaria non è un’ambizione campata in aria - ripete invece il “cinese” -. Né a Roma né a Bologna: in città, la settimana scorsa, abbiamo superato il 49% dei voti...». Che è un’enormità: ma comunque non sufficiente - fanno notare alcuni - a vincere la corsa a sindaco la primavera prossima. Ed è questo, in realtà, lo spartiacque politico che divide il Professore e il «cinese»: tanto a Roma quanto a Bologna.

«Io credo che su questo abbia ragione Cofferati e che sia giusto continuare sulla strada tracciata da Veltroni - annota Augusto Barbera, che dirige i “Quaderni costituzionali” del Mulino -. Su altre sue uscite, invece, sono perplesso: intendo la scoperta della Padania, le ronde in città e la rincorsa di certi temi cari ai leghisti. Comunque sia, Cofferati in città è forte, come dimostra l’ultimo voto. Però i salotti che all’inizio gli avevano aperto le porte, le hanno richiuse...». Magari sono gli stessi salotti, per tornare all’inizio, che discutono - «tra il distaccato e il divertito» - dell’ipotesi di una candidatura del Professore a sindaco della città: «Se Cofferati lascia - annota Andrea Papini - qui si apre il vaso di Pandora. Immagini la folla di candidati... Allora potrebbe essere proprio il Pd a chiedere il sacrificio a Romano. Perché Prodi non ci pensa, non vuole, ma se precipita tutto...».

Sarebbe un bel pasticcio, per il Pd. E per il suo segretario emiliano, Salvatore Caronna. Che però non sembra turbato dal duello tra il «cinese» e il Professore: «Il Pd chiederà a Sergio di ricandidarsi, e la faccenda finirà lì». E se non finisse, segretario? «Se non finisse, rischieremmo dei guai. Ma vedrete che invece finirà lì...».

da lastampa.it


Titolo: Colpi di coda e autorità deboli
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2008, 10:54:55 am
1/5/2008
 
Colpi di coda e autorità deboli
 

FEDERICO GEREMICCA
 
Noi non sappiamo con quale spirito, e in ossequio a quali urgenze, il viceministro Vincenzo Visco ed il ministro Livia Turco abbiano voluto ieri - con due iniziative distinte e diverse per discutibilità - inasprire e arroventare la cosiddetta fase di «passaggio delle consegne» tra un governo che lascia ed un altro che subentra. Fatto sta che ciò è accaduto: con un colpo di coda del quale non si sentiva affatto la mancanza e che ha seminato sconcerto e malumore nella stessa maggioranza uscente.

Più che l’iniziativa del ministro Turco - che a pochi giorni dall’uscita dal dicastero ha fissato le nuove linee guida della legge sulla procreazione assistita, cancellando il divieto di diagnosi preimpianto e scatenando vivacissime polemiche - è stata la decisione dell’Agenzia delle entrate di rendere consultabili via Internet le dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti italiani a scatenare un vero pandemonio.

Si tratta, in un caso come nell’altro, di iniziative assai discutibili sia nei tempi che nella forma. E per quel che riguarda la decisione del viceministro Visco, opinabili anche nella sostanza: almeno a giudizio del Garante della privacy, che ha sollecitato e ottenuto la sospensione della pubblicazione in rete dei guadagni (nell’anno 2004) dei cittadini italiani. Una decisione onestamente incomprensibile, a governo con le valigie ormai pronte; una iniziativa che ha mandato subito in tilt il sito dell’Agenzia, preso d’assalto da decine di migliaia di contribuenti desiderosi di curiosare sul guadagno dell’amico, del superiore di grado o del vicino; e una sortita, infine, che agli occhi di molti ha assunto addirittura il profilo di una sorta di «vendetta» quasi postuma da parte del contestato viceministro.

Sia come sia, il tutto si è trasformato nell’ultimo danno prodotto su un terreno - quello fiscale - sul quale il centrosinistra aveva già pagato un duro prezzo elettorale. Per esser ancora più chiari: fosse anche stata ispirata dalle migliori intenzioni, l’iniziativa di Visco si è tradotta in un disastro che avrebbe fatto infuriare lo stesso Prodi, non informato dell’iniziativa. E questo a prescindere, naturalmente, da giuste e innegabili esigenze di trasparenza: che in questo caso hanno tanti argomenti a favore almeno quanti ne ha il pur doveroso e tutelato rispetto della privacy.

E a proposito della privacy, del suo rapporto con l’informazione e dell’autorità che ne è garante, è venuto il momento di porre con la necessaria nettezza un problema non più eludibile. Questo giornale, anche in circostanze analoghe a quella in questione, si è sempre attenuto al rispetto della riservatezza dovuto a ogni singolo cittadino e alle indicazioni di volta in volta giunte in tal senso appunto dal Garante che ne tutela i diritti. Ma il rispetto, per poter esser richiesto, richiede in cambio indicazioni chiare e inequivoche: e non direttive timide e ambigue, che sembrano fatte apposta per esser ignorate e violate. Per esser schietti: dal garante ci si attende un sì o un no alla pubblicazione di questo o quel documento e non, come accaduto ancora ieri, generici «inviti» accoglibili o meno a seconda delle diverse sensibilità.

Questo significa, per dirla senza giri di parole, che La Stampa vuole esser messa nelle condizioni di fare informazione al pari di ogni altro giornale, avendo dunque chiaro con certezza quel che è pubblicabile e quello che invece non lo è: e non lo è per questo giornale come per tutti gli altri, senza possibilità di equivoci e fraintendimenti. Dell’infinito elenco dei contribuenti italiani messo dal viceministro Visco su Internet, noi pubblichiamo oggi solo nomi già stampati da altri organi di informazione e pochi altri per i quali, in ragione della loro assoluta notorietà, non si ritiene possa esser invocato il rispetto della privacy. Rispondiamo positivamente, quindi, al timido invito del Garante, nella speranza che esso sia accolto da tutti gli altri mezzi di informazione. Non è quasi mai accaduto, in verità. E la richiesta, allora, è che ognuno sia messo in grado - e in una situazione di inequivoca parità - di fare il proprio mestiere, che è quello di informare e pubblicare. Per ottener ciò, gli inviti non sono sufficienti. Il Garante lo annoti, e alla prossima occasione si regoli di conseguenza.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - De Luca: vado in giro con i vigilantes e Salerno applaude
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2008, 06:42:59 pm
8/5/2008 (7:11) - REPORTAGE

"Sveglia Pd, la repressione dei crimini è un onore"
 
De Luca: vado in giro con i vigilantes e Salerno applaude

FEDERICO GEREMICCA
SALERNO


Il primo errore che non andrebbe commesso - intendiamo da parte dei dirigenti del Pd - è quello di archiviare le considerazioni di Vincenzo De Luca, sindaco democratico di Salerno, come uno sfogo impolitico o, peggio ancora, come «volgari attacchi personali». Il secondo potrebbe essere prenderlo per uno sprovveduto. Grave. Comunista da una vita, segretario del Pci salernitano per anni (soprannome: Pol Pot), tre volte sindaco della città e nell’intermezzo deputato per due legislature, Vincenzo De Luca - 59 anni che compie oggi - sta cambiando faccia a Salerno: tanto che nell’ultimo sondaggio «Governance Poll» del Sole-24 Ore, pubblicato a gennaio, risulta essere il sindaco italiano che ha più incrementato il proprio consenso dal giorno dell’elezione.

Oggi è al 75%, con 18 punti in più rispetto a quanto ottenne il 12 giugno 2006: quando tornò sindaco guidando una lista civica alla quale si contrappose metà dei ds e l’intera Margherita... Con lui chiacchieriamo naturalmente di sicurezza: intanto perché è il ramo al quale il centrodestra ha impiccato il governo Prodi e il Pd di Veltroni, e poi perché De Luca le «ronde» («Equivoco lessicale», dice) le ha istituite otto anni fa e ha dotato i suoi vigili urbani di manganelli (che per ipocrisia ha dovuto definire negli atti amministrativi «mazzette di segnalazione notturna») nel 2006.

Settimane fa, durante uno dei «giri di controllo» che compie ogni giorno a capo di una pattuglia di vigili, una prostituta (che aveva espulso per già dieci volte) l’ha aggredito, spaccandogli gli occhiali: «E un’altra, polacca, appena ci ha visto ci ha detto: “Se solo mi toccate, prendo il miglior avvocato di Salerno e vi metto in un mare di guai”. E ha ragione: ci ridono dietro, per le nostre leggi. Siamo il Bengodi d’Europa. E noi, arroganti, supponenti e astratti, sulla sicurezza continuiamo a fare discorsi finti, per uomini finti... Finirà che affogheremo nei nostri sociologismi e nella nostra inconcludenza». E’ un discorso aspro, quello di De Luca: che intanto ha cancellato dalla città gli ambulanti abusivi extracomunitari, costruendo per loro un grande «mercato etnico»: «Dopodiché, se ne trovo qualcuno che vende sui marciapiedi, lo prendo a calci nel culo».

Ma non sono accuse, le sue: sono considerazioni, affilate come rasoi solo perché parla e ragiona alla maniera di un uomo della strada. Per esempio, mentre mostra orgoglioso il Salone dei Marmi, aula consiliare e sede delle riunioni del governo Badoglio, dice: «Lo sa qual è la tragedia? E’ che tante volte noi alla gente diamo l’impressione di ragionare più dal punto di vista del romeno che ruba che da quello del pensionato che è stato derubato. In queste faccende, per tanti miei amici e compagni la parola responsabilità non è mai esistita, è sempre colpa di qualcos’altro, del contesto, della storia, della società: e invece ci sono responsabilità personali che vanno punite, e reati che vanno repressi. Anzi: è venuta l’ora che noi si impari a dire la parola repressione con un senso d’onore».

Prende dal tavolo la prima pagina de «Il Mattino»: in città una ragazza è scampata ad una violenza all’uscita della stazione: «Io sono il sindaco: che gli vado a dire, a quel padre? Gli vado a parlare di integrazione e di solidarietà? Noi dobbiamo dire cose vere a uomini veri, non cose finte a uomini finti che immaginiamo solo noi. Ci vogliono parole serie. E verità. E’ per questo che non mi convince quello che stiamo dicendo dopo la sconfitta a Roma, e cioè che sulla sicurezza noi siamo meno credibili della destra. Noi non siamo meno credibili della destra: noi dobbiamo cominciare a dirci che non siamo credibili per niente. Perché un governo che non riesce a varare nemmeno per decreto uno straccio di provvedimento sulla sicurezza, è un governo che fa ridere: non è che è meno credibile, che è un modo per consolarsi».

Usciamo in macchina. Ora siamo in uno dei parchi della città e vediamo all’opera le «ronde». «Un’altra cazzata. Io non so se la Lega al Nord fa le ronde armate: ma credo di no, e penso che dirlo sia un tentativo di criminalizzare iniziative che i cittadini accolgono col massimo favore. Comunque, i miei sono volontari: pensionati, ex carabinieri, ex sindacalisti che vigilano sui bambini che giocano e hanno come arma un cellulare del Comune». I passanti lo salutano, gli dicono «bravo sindaco». Del resto, lo vedono spesso in giro con la sua squadra di vigili. «E sembra che a noi questo ci faccia schifo. Siamo altezzosi. Sento i miei dirigenti parlare in tv e spaccherei lo schermo. Non parlano, insegnano. Non dicono, pontificano. Sono lì tutti impettiti come se venissero dallo sbarco in Normandia: e invece veniamo da una tragedia. Uno dei nostri problemi è che abbiamo un gruppo dirigente campato in aria e totalmente sradicato dal territorio».

E l’opposizione, la destra, di fronte ad una linea di governo così? «L’esponente più a destra in consiglio comunale sono io...». E’ ipotizzabile che De Luca sappia che reazione possono determinare considerazioni così. Infatti lo sa: ma sostanzialmente se ne frega. E per una ragione bella solida: «Io non faccio opposizione a nessuno, non mi iscrivo a correnti, sto con Veltroni che ha fatto il massimo e dico queste cose perché penso che a questo punto ce le dobbiamo dire. Dopodiché me ne sto per i fatti miei e torno a fare il mio lavoro di sindaco. Però noi ci dobbiamo liberare dal complesso di superiorità che abbiamo; e dobbiamo mettere da parte una supponenza che ormai è irritante. E per parte mia, vorrei fosse chiaro, non è che chiedo i carri armati in città: un rafforzamento della presenza della polizia, più pattuglie di notte e telecamere nelle zone più a rischio, perché poi non è che la gente chissà che chieda. Magari cose normali: ma visibili. Che diano la sensazione che almeno si è capito qual è il problema, e che ce ne si occupa».

Al contrario, gli pare che si perseveri nell’errore. «Conosco Verona. Città splendida, gente che lavora dalla mattina alla sera: e noi stiamo provando a farla passare per un covo di naziskin, cercando di lucrare in maniera sbagliata su una cosa che poteva accadere anche a Firenze o a Bologna. E’ la stessa logica arcaica per la quale si pensava di vincere a Roma con l’antifascismo: cosa che ora ci dovrebbe far considerare fascisti e criminali anche le decine di migliaia di compagni che hanno votato Alemanno». E però cambiare è dura, dice De Luca mentre mostra i manganelli in dotazione ai suoi vigili. «E’ dura perché, per come la vedo io, mi faccio una domanda: quanti sono disposti, nel centrosinistra, a mettere nel loro vocabolario la parola repressione? Il salto che dobbiamo fare oggi è questo. Precisamente come fece Blair: duri col crimine e duri con le ragioni del crimine. Ma appunto: prima di tutto il crimine. Nell’immediato, esiste una sola risposta: la repressione. E allora diamola, questa risposta. E poi pensiamo all’integrazione, per le cui politiche - come tutti sanno, mentre raccontano favole - non c’è una lira».

Torniamo verso il municipio. Strade linde. De Luca mostra l’area sulla quale dovrebbe sorgere il termovalorizzatore: un’impresa, per la quale un supporto tecnico forte gli è stato dato da Sergio Chiamparino, «ottimo sindaco e persona concreta». Dice: «Anche lui ha avuto i suoi guai quando ha preso iniziative sul terreno della legalità, perché è come se ci vergognassimo, come se dare sicurezza prima di tutto alla povera gente ci facesse sentire di destra. Sì, di destra: quando ormai gli steccati non esistono più. Le differenze non sono ideologiche, e non sono per l’eternità: oggi per me di sinistra è solo difendere il primato dei diritti universali, volere una sanità e una scuola pubblica, garantire il diritto alla mobilità di cittadini e merci. Sul resto, basta ideologismi. E vorrei che quelli come me accettassero il fatto, finalmente, che il mondo di cui siamo figli non esiste più».

da lastampa.it


Titolo: Silvio, metamorfosi per il Colle
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2008, 11:06:19 am
15/5/2008 (7:13) - ANALISI - UN PROFILO PRESIDENZIALE PER IL PREMIER

Silvio, metamorfosi per il Colle
 
Una strategia dietro il nuovo «Cavaliere».

Latorre: è cominciata la corsa al Quirinale


FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Davanti a un bel filetto di carne argentina, in una steak house a due passi da Palazzo Madama, Nicola Latorre - senatore e plenipotenziario dalemiano - accetta di dire la sua sulla tanto discussa metamorfosi berlusconiana: «Dovessi fare un titolo per un commento al discorso del Cavaliere, direi così: è cominciata la corsa al Quirinale... Lui ha svolto un intervento abile, che punta a diversi risultati e noi dovremo stare attenti a tenere una certa misura nella risposta: ma non ho dubbi che dietro il restyling di Berlusconi ci sia il desiderio di sempre, la sua idea fissa, arrivare alla presidenza della Repubblica. Del resto, dopo aver fatto per tre volte il capo del governo...». Non che si tratti solo di questo, naturalmente, perché la sorprendente mutazione di Berlusconi in «uomo del dialogo» va intanto macinando anche altri obiettivi: mettere in imbarazzo e dividere il Pd, spaccare il fronte delle opposizioni, garantirsi nelle aule parlamentari un clima assai diverso da quello nel quale è stato crocifisso Romano Prodi. Tutto vero, naturalmente: ma secondo alcuni troppo poco per giustificare la radicalità di una metamorfosi che non è detto, per altro, piaccia poi così tanto all’elettorato del centrodestra.

Dalla steak house al Transatlantico di Montecitorio. Su uno dei divanetti solitamente riservati ai deputati del centrosinistra, lo stretto collaboratore di Walter Veltroni riflette: «E’ evidente che Berlusconi punta a costruirsi, come si dice, un profilo presidenziale. Il punto è che noi dobbiamo decidere in fretta, adesso, che cosa fare: perché di mezzo ci sono le riforme. E le riforme, oltre che al Paese, interessano e servono anche a noi». Il collaboratore del leader del Pd parla della faccenda come se ne avesse già discusso molte volte, come se gli sviluppi possibili fossero stati studiati e ristudiati. Spiega, per esempio, che è un errore legare la partita ai tempi della scadenza naturale del mandato di Napolitano (primavera 2013) e, dunque, archiviarla come astratta perché troppo futuribile. «Secondo alcuni - spiega - in un clima di dialogo, potrebbero bastare due, al massimo tre anni per finire il lavoro. Bicameralismo, legge elettorale, riduzione del numero dei parlamentari, poteri del premier e prerogative del capo dello Stato: le proposte non sono così distanti. E se alla fine il pacchetto venisse davvero approvato...».

Se il pacchetto venisse davvero approvato, logica e galateo politico potrebbero prevedere lo scioglimento delle assemblee alle quali viene cambiato sistema e base elettiva e dunque le dimissioni dei vertici istituzionali per i quali si sia deciso un mutamento dei poteri e perfino diverse modalità di elezione. E se a questa regola certo non scritta - e dunque opinabile - si aggiungesse la comune volontà del capo del governo e del leader dell’opposizione di tornare al voto e azzerare tutto in presenza di una nuova impalcatura costituzionale, il percorso sarebbe ovviamente in discesa. Al Pd potrebbe naturalmente interessare il dimezzamento dei tempi di una legislatura che lo vede incatenato all’opposizione; e quanto a Berlusconi, certo lascerebbe Palazzo Chigi (dov’è alla terza esperienza) per tentare l’ascesa al Colle.

Si dovesse esprimere un’opinione sulla base di mezze notizie e sensazioni, diremmo che un percorso del genere pare già soppesato sia a destra che a sinistra in tutti suoi pro e in tutti i suoi contro. E che l’analisi del futuro possibile, piuttosto che raffreddare, abbia rinsaldato il feeling tra il leader del Pd e il capo del governo (che altrimenti ieri difficilmente si sarebbe permesso, dopo avergli espresso gratitudine, di scherzare con Veltroni definendolo nell’aula di Montecitorio «il leader dello schieramento a me avverso»...). «Allora ci vediamo a pranzo questo fine settimana per discutere di riforme», ha infatti poi annunciato il premier, non facendo nulla per nascondere l’improvvisa sintonia. Che ovviamente, oltre a comportare rischi seri per il Pd, non piace a tutti. Ieri, per esempio, col solito stile diretto, Europa - quotidiano vicino a Francesco Rutelli - ha scoperto l’altarino: «Se il Cavaliere pensa di inaugurare così una stagione destinata a chiudersi con l’ascesa al Quirinale, si illude: il suo marchio sulla storia patria rimarrà quello di un innovatore, ma anche dell’uomo della rottura e del rancore... Troppe ferite per ambire a rappresentare una nazione». Già, troppe ferite. Anche se molti medici sono già al lavoro per tentare di rimarginarle...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Contro ogni illegalità
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 09:15:22 am
16/5/2008
 
Contro ogni illegalità
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
La polizia non li ha ancora trovati. E secondo i più, per la semplicissima ragione che non li ha ancora nemmeno cercati. Il quartiere - Ponticelli, periferia di Napoli - sa chi sono e li protegge. Anche i rom sopravvissuti al rogo sanno chi sono: ma l’ultima cosa che oggi farebbero - comprensibilmente - è denunciare chi ha bruciato il loro «campo». Hanno già troppi guai per andarsene a cercare altri, magari scatenando di nuovo l’ira dei giovani camorristi del clan Sarno: giovani che le donne del quartiere difendono, avendo «vendicato» con molotov e coltelli il tentato sequestro - o presunto tentato sequestro - di una bimba di sei mesi da parte di una zingara sedicenne. E così gli autori dei ripetuti raid contro i campi nomadi se ne vanno tranquillamente a zonzo per le strade di Ponticelli come niente fosse, tornano a casa a pranzo per mangiare la pasta con il ragù e - liberato a modo loro il quartiere dagli zingari - riprendono le tradizionali occupazioni criminali. Inaccettabile. E intollerabile, in un Paese che si proclama - e in teoria non a torto - culla della legge e del diritto.

Essendo arrivata, come gli ultimi episodi dimostrano, a un livello ormai di guardia, la questione immigrazione-criminalità rende urgenti e necessari - a questo punto - atti concreti, visibili e coerenti con lo status italiano di Paese civile, moderno e orgogliosamente europeo.

Il primo di questi atti - non foss’altro perché il più semplice - consiste nell’individuare e nell’assicurare alla giustizia il «commando» che per quarantott’ore, con molotov e assalti ripetuti, ha terrorizzato uomini, donne e bambini rom nei «campi» di Ponticelli. La giustizia «fai da te» è inaccettabile in ogni caso, ovviamente. Sul fronte della lotta all’immigrazione clandestina rischia, oltretutto, di diventare perfino pericolosa, complicando i rapporti con Paesi dei quali occorre invece conquistare fiducia e collaborazione e spingendo gli immigrati clandestini dediti al crimine a sentirsi e a organizzarsi come parte di una guerra per bande. Non è questa la via, naturalmente. Ma non basta proclamarlo: occorre dimostrarlo. Prima di tutto individuando i componenti del «commando» di Ponticelli: così da non dare l’impressione che lo Stato lasci campo libero alla camorra, autorizzata a fare il «lavoro sporco» e a risolvere a modo suo i problemi di difficile convivenza con i rom.

Proprio i rom - gli zingari, i nomadi - sono finiti da qualche giorno al centro della questione-sicurezza, di un allarme sociale un po’ isterico che individua di volta in volta il pericolo in questa o quella etnia: prima gli albanesi, poi i nigeriani e ora i romeni e i rom, i più deboli «politicamente» non avendo alle spalle uno Stato in cui si riconoscano. Pagano oggi, probabilmente, un discutibile giustificazionismo culturale che ha accompagnato per decenni il loro vagabondare per l’Europa, e che per difendere il loro status di popolo quasi «in via d’estinzione» - e portatore di tradizioni e cultura da tutelare - non ha visto quanto delinquere e allarme sociale seminasse il loro girovagare. Sono loro, oggi, nell’occhio del ciclone. E lo sono tanto - e a prescindere da ogni razionale valutazione - che nel clima di eccitazione generale può perfino accadere a un sindaco popolare (e certo non arrendevole) come Sergio Chiamparino di finire travolto dalle critiche per aver assunto provvedimenti a favore dei proprietari di case che decidano di affittare un appartamento a un nomade. L’accusa è di occuparsi delle case per i rom, invece che per gli italiani; e di farlo - è l’ultima leggenda metropolitana - addirittura «perché Chiamparino ha sposato una rom».

All’illegalità di singoli e di gruppi d’immigrati clandestini non si può reagire - è il caso di Ponticelli - con l’illegalità. Al crimine si risponde, piuttosto, tenendo fermi i principi di uno Stato di diritto e mettendo in campo - rapidamente - tutti gli strumenti legislativi, repressivi e organizzativi a disposizione. Il governo entrato in carica ha la forza e il consenso necessari per adottare interventi energici in materia. Decida il da farsi e poi lo faccia: ma accompagnando la sua iniziativa repressiva con la netta affermazione che l’ordine e la giustizia in questo Paese sono assicurati dallo Stato e non da iniziative individuali o, peggio ancora, di bande di criminali. Può fare l’una e l’altra cosa. E può farlo perfino più agevolmente di quanto potrebbe un governo di centrosinistra, non essendo sospettabile di indulgere in buonismo, sociologismo e giustificazionismo storico.

 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - «Ora vediamo cosa s'inventa Berlusconi»
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2008, 05:13:40 pm
20/5/2008
 
«Ora vediamo cosa s'inventa Berlusconi»
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Non si può dire, onestamente, che lo stato d’animo sia di chi tira un sospiro di sollievo mentre mormora «almeno ’sta rogna gliel’abbiamo mollata».

Però, certo, sotto sotto l’animo è di chi è lì, in attesa, e pensa «adesso vediamo come se la cava lui». Perché magari - ed è la speranza di tutti, napoletani in testa - andrà benissimo, e Berlusconi potrà dirsi il protagonista di un’altra di quelle imprese di cui ogni tanto si vanta: aver ripulito Napoli dall’immondizia. Ma potrebbe anche andare meno bene, cioè com’è andata a chi ci ha messo le mani fino ad ora, da Bassolino a De Gennaro, da Bertolaso a Iervolino. E questo dice di quanto sia coraggiosa e insidiosa la sfida lanciata da Berlusconi: la cui faccia, da domani, sarà inevitabilmente associata ai cumuli di rifiuti.

Pare l’abbiano sconsigliato fino all’ultimo - consiglieri romani e referenti napoletani - di tener fede all’impegno di riunire qui il Consiglio dei ministri che darà il via, tra l’altro, al piano per la guerra alla monnezza. La faccenda si stava facendo - e resta - un po’ rischiosa: campi rom incendiati, falò per le strade, guaglioni della camorra in attività e due cortei già pronti per contestare la riunione del governo (uno con Francesco Caruso). Ma Berlusconi non ha voluto saperne: lo aveva promesso e un impegno è un impegno. A costo di portarsi dietro tutti i ministri. Nel suo ufficio al terzo piano di un bel palazzo di via Santa Lucia, Bassolino conferma: «A me sembra il presidente convinto e impegnato. Ci vuole provare, e noi gli saremo al fianco. Sa perfettamente che è una brutta grana, perché con l’emergenza rifiuti Berlusconi ci ha già avuto a che fare tante volte: ricorderà, immagino, che perfino io - quando lui era al governo - sono stato per tre anni suo commissario...».

E la monnezza, dunque, da domani diventa una grana bipartizan: e già il fatto che sia bipartisan, fa tirare un fiato alle istituzioni locali, triturate dallo scandalo dell’immondizia per le strade. Quando poi all’immondizia sono tornati ad aggiungersi i raid notturni, i campi rom incendiati e i pompieri presi a sassate, si è tornati ai livelli di guardia - quelli di oggi, appunto - della prima emergenza-rifiuti, che a gennaio fece il giro del mondo. Sistemato dietro la scrivania ultramoderna del suo ufficio al 16° piano del Centro direzionale, Velardi - assessore regionale al Turismo e storico consigliere di D’Alema - sostiene che le cose non starebbero così. «Bisogna cominciare a dirsi che sono fatti diversi. La prima crisi, quella sì, fu la crisi dei rifiuti. Questa è un’altra cosa: è la crisi della convivenza, dello spirito pubblico che muore. Intorno alla monnezza si agitano camorristi e ultrà, gente di Forza Nuova e quelli di Caruso, e la città ne è travolta e anzi fa il tifo ora per questo, ora per quello... E nessuno ha i titoli per ripristinare un principio di autorità. Bisognerebbe azzerare tutto e ricominciare».

Ieri mattina uno sciopero a tradimento dei servizi di trasporto pubblici ha paralizzato la città. La notte prima, due ragazzi minorenni hanno sbattuto con la moto e sono morti: naturalmente, erano senza casco. Forse è poco pietoso aggiungere che ogni volta è un po’ peggio, che passa il tempo e la parabola della città non s’arresta. La violenza e l’abitudine alla violenza, anzi, si radicano: e diventano cultura. Ieri Napoli mandava in giro per il mondo film come «Morte di un matematico napoletano» o il «Ricomincio da tre» di Troisi. Oggi a Cannes ci va «Gomorra». E non c’è niente da dire. «A fine mese torna a Napoli il Re di Spagna. E ci siamo appena aggiudicati il Festival internazionale del Teatro, 200 spettacoli, 15 Paesi coinvolti, comincia il 6 giugno - gesticola Bassolino per dire che Napoli non è solo immondizia, come ieri si diceva che Napoli non era Calcutta, ed è un paragone che è prudente non rifare -. In più, è imminente il restauro del San Carlo. Noi ci abbiamo messo 50 milioni di euro, è il più importante intervento dal 1737...».

La parte finale della Riviera di Chiaia, la strada parallela all’incantevole lungomare, è colma di immondizia: il vento che viene dai Campi Flegrei ne spalma la puzza e magari la spinge fin lì, a piazzetta Trieste e Trento, al San Carlo, appunto. Nei quartieri di periferia, dove un teatro nemmeno c’è, è peggio: si sguazza in un pantano di reciproche illegalità e poi ci si meraviglia che si arriva al punto che la gente applaude i guaglioni che danno fuoco ai campi rom. Una miscela esplosiva. Napoli ha conosciuto altri precipizi, il colera negli Anni 70 e il terremoto dell’80, gli omicidi di Prima Linea e le stragi di camorra: ma si rialzava e reagiva, aggrappandosi a qualunque cosa - dal teatro di Eduardo a Maradona - per mandare di sé un’immagine positiva e viva. Oggi, tra rassegnazione e rabbia, non sembrano esserci stazioni intermedie...

Ed è in una polveriera così che Berlusconi ha deciso di giocarsi un po’ della faccia del suo quarto governo. «E noi dovremo collaborare - assicura Velardi -. Anzi, dovremo essere il suo braccio operativo qui. Solo una cosa il Cavaliere deve aver chiara: che quanto più forti sono le aspettative che si suscitano, tanto più forte sarà la rabbia per un fallimento. E’ un’equazione matematica. E’ quella, in fondo, che qui ha già tramortito un’intera classe dirigente». 

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La barricata simbolo
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2008, 12:21:02 pm
27/5/2008
 
La barricata simbolo
 

FEDERICO GEREMICCA


 
Una doppia fila di cassonetti di ferro sistemati l’uno sull’altro, legati con catene d’acciaio, saldati tra di loro, puntellati da barre di metallo e resi invalicabili da più giri di filo spinato. È la barricata di Chiaiano, innalzata in poche ore sabato scorso in via Cupa del cane, la strada che conduce dal quartiere fino alla discarica contesa. È la barricata di Chiaiano, certo. Ma è ormai diventata anche la barricata di Silvio Berlusconi, che vi ha impresso il suo volto, decidendo di farne il simbolo di questo avvio di legislatura, di un governo che ha deciso di decidere perché, costi quel che costi, «lo Stato deve tornare a essere lo Stato». Ognuno, si potrebbe dire, sceglie i simboli, le missioni e le barricate che vuole, per dare un profilo e un orizzonte al proprio governo. Anche se, in verità, più che sceglierla, la grana di Chiaiano e dell’emergenza rifiuti Berlusconi se l’è trovata già confezionata: e piuttosto che prender tempo e aggirarla, ha deciso di affrontarla. Non è proprio un «qui si fa l’Italia o si muore», ma qualcosa di assai vicino, per quel che riguarda il futuro e la credibilità del governo.

Il terreno è infido e scivoloso: ma non è che gli esecutivi hanno sempre la possibilità di scegliere da dove cominciare.

E così, l’ultimo nervoso fermoimmagine ritrae la popolazione di Chiaiano in assemblea per decidere se rimuovere la barriera di ferro e filo spinato e le forze di polizia che studiano e ristudiano il piano d’attacco, da far scattare oggi se la barricata non verrà rimossa. È una partita che difficilmente potrà terminare con un pareggio, nonostante siano al lavoro mediatori d’un campo e dell’altro. Del resto, così come sono imbarazzanti le immagini dei cumuli di immondizia che testimoniano di uno Stato inefficiente, così è disarmante il permanere di questa sorta di «divieto di transito alle istituzioni della Repubblica», che rimanda al Paese e al mondo l’idea di uno Stato volenteroso ma impotente. È per questo che Berlusconi ha accettato la sfida della barricata: decidendo senza tentennamenti di farne la cartina di tornasole di un governo che, in questo avvio di cammino - dai rifiuti ai mutui alla sicurezza - ha scelto un inedito profilo decisionista e interventista.

D’altra parte, ogni governo - se non se lo ritrova già imposto dagli eventi - sceglie un orizzonte, una missione attraverso la quale caratterizzarsi e motivare ministri e opinione pubblica. Il primo Prodi (’96-’98) la individuò nell’operazione-euro; il secondo e ultimo (2006-08) a parere di molti ha pagato un prezzo alto per non averne fissata una. Diverso per Berlusconi che, a parte il breve esordio (’94-’95), tanto nella seconda esperienza di governo quanto in quest’ultima appena avviata si è sempre trovato di fronte prima di tutto a problemi di ordine pubblico. Nel 2001, l’inizio fu Genova, la zona rossa, gli scontri, i pestaggi nella «Diaz»; e solo dopo il premier poté passare alla missione che si era assegnato fin dalla campagna elettorale: «meno tasse per tutti». Oggi la sfida è maggior sicurezza e ripristino della legalità: a cominciare, appunto, dalla terribile barricata di Chiaiano.

È per questo, in fondo, per l’alto valore simbolico che gli è stato attribuito, che quello di Napoli è un braccio di ferro che il governo non può perdere. Piegarsi alle barricate e rinunciare alla discarica di Chiaiano significherebbe, intanto, assestare un colpo d’immagine al governo proprio sul terreno scelto per un visibile cambio di passo, e poi render ancor più complessa la soluzione dell’emergenza rifiuti. Anche per i comitati di Chiaiano - e magari per la camorra che opera nell’ombra - perdere la guerra della barricata sarebbe, naturalmente, difficile da digerire: ma la sproporzione degli interessi e delle forze messe in campo rende a questo punto difficile anche solo ipotizzare una ritirata dello Stato. Del resto, l’ultimatum delle autorità è già stato lanciato: o la barricata sarà stata fatta sparire durante la notte o stamane saranno poliziotti, mezzi blindati e ruspe a toglierla di mezzo. È per questo che a Chiaiano comitati, autorità e movimenti sono rimasti riuniti fino a notte fonda per decidere tra la resa e la battaglia. Molti, alla fine, sembravano propendere per una ritirata che evitasse nuovi scontri dalle conseguenze a questo punto imprevedibili. Sarebbe la cosa migliore, la via maestra. Anche perché a Chiaiano non bisogna fare l’Italia: ai cittadini di Napoli e al Paese, in fondo, basterebbe una più modesta discarica.
 
 da lastampa.it



Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La spirale che teme il Presidente
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 05:15:44 pm
2/6/2008
 
La spirale che teme il Presidente
 
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Ci ha naturalmente ragionato sopra per qualche giorno, perplesso circa il fatto che ancora nessuno avesse parlato di quel «filo comune» che, a suo giudizio, unisce l’uno all’altro gli episodi di violenza che hanno costellato le cronache più recenti. Poi, ha immaginato che non ci fosse occasione migliore della Festa della Repubblica per esplicitare la sua preoccupazione. Giorgio Napolitano l’ha chiamata «rischio di regressione civile». Ma avesse potuto dire per intero e con più semplicità quel che teme, avrebbe forse usato una parola sola: spirale. Una spirale di intolleranza e di violenza che tiene appunto assieme il delinquere degli extracomunitari e le reazioni incontrollate dei cittadini, fatte di campi rom dati alle fiamme e di negozi sfasciati al Pigneto; l’impossibilità per giovani di destra di tenere convegni alla Sapienza e le risposte costruite su raid violenti e sequestri di professori; le decisioni del governo per fronteggiare l’emergenza rifiuti a Napoli e, in replica, il ribellismo della gente «verso legittime decisioni dello Stato».

Finora, mondo politico e informazione si erano occupati di tutto ciò commentando e analizzando quanto accadeva episodio per episodio, e provando a unificarli ricorrendo - al massimo - a un generico «che brutta aria tira nel Paese».

Al contrario, al Capo dello Stato pare di cogliere un elemento che unifica il riesplodere della violenza politica nelle università e quella della «squadraccia» del Pigneto, la ribellione della gente di Chiaiano e una sensazione di insofferenza generale. Questo elemento è l’intolleranza. Un clima di intolleranza che alimenta una spirale di violenza nella quale a ogni atto non condiviso corrisponde, o può corrispondere, una reazione che valica i confini della legge e della civile convivenza. Una miscela esplosiva che rischia di cambiar faccia a un Paese noto, al contrario («italiani brava gente»), per la sua tradizionale tolleranza. E per questo, ai concittadini riemersi «dall’abisso della guerra voluta dal fascismo» e poi capaci di superare «tante tensioni e prove», il Presidente dice «non possiamo permetterci di fare un passo indietro». E li invita a «costruire insieme un costume di rispetto reciproco, nella libertà e nella legalità».

Rispetto reciproco. Attraverso «uno sforzo straordinario di solidarietà e unità», quale quello che permise la nascita della Repubblica. Rispetto e dialogo di cui devono essere protagonisti, innanzitutto, le classi dirigenti del Paese e gli organi dello Stato. È anche per questo - perché considerato elemento della spirale di intolleranza, e segno di mancanza di unità - che il Presidente della Repubblica sarebbe rimasto sorpreso e assai amareggiato dall’iniziativa giudiziaria messa in campo dai magistrati napoletani nei confronti della struttura commissariale che si occupa dei rifiuti in Campania. I tempi (a ridosso della firma apposta dal Capo dello Stato al decreto del governo) e le forme (gli arresti, misura discrezionale e in questo caso apparsa a molti vessatoria) sarebbero appunto sembrati a Napolitano parte di quella spirale da arrestare immediatamente. Alternative, del resto, non ce ne sono. E non basta.

Perché in un quadro fatto di azioni e reazioni violente, di intolleranza che genera intolleranza, anche iniziative del governo tese a ristabilire il primato dello Stato in ogni area del Paese (come, ad esempio, l’utilizzo dell’esercito a Napoli) rischiano paradossalmente di rendere ancora più incontrollabile e tesa la situazione.

Per suo conto, il Presidente della Repubblica fa quel che può. Invita incessantemente al rispetto reciproco e al confronto, sollecita il dialogo fra le forze politiche e sentimenti di solidarietà tra i cittadini. E sarà anche solo un risultato simbolico, ma ieri - per esempio - lungo questa via una soddisfazione Napolitano l’ha avuta: per la prima volta da quando è impegnato in politica, Silvio Berlusconi ha partecipato al ricevimento al Quirinale per la Festa della Repubblica. «Questa volta - ha spiegato - ho ricevuto l’invito con particolare cordialità e ho sentito il dovere di presenziare». È un buon segno. E magari un paradosso. Che sta nel fatto che, dopo Capi dello Stato come Scalfaro e Ciampi, la piccola «impresa» sia riuscita proprio a Napolitano: un ex comunista che Forza Italia, nelle aule del Parlamento, non volle nemmeno votare come Presidente.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA "Caro D'Alema, ascoltami e ferma il tuo tesseramento"
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:37:05 pm
26/6/2008 (7:9) - L'INTERVISTA

"Caro D'Alema, ascoltami e ferma il tuo tesseramento"
 
 
 

L'ex presidente del Senato Marini: «Nessuno azzoppi Veltroni, ma stop a furia nuovista.

ReD non mi spiace, ma ora la gente va tranquillizzata»

FEDERICO GEREMICCA


ROMA
Magari qualcuno storcerà il naso e dirà «vecchia politica, quella che propone Marini è vecchia politica». Per lui, invece, ex presidente del Senato e presidente mancato (per sua volontà) del Partito democratico, è il punto da cui partire. Spiega: «Dopo le ferie avremo pochi mesi per preparare le Europee e le elezioni in una settantina di Province. E’ chiaro, allora, che il nostro primo impegno deve essere di carattere organizzativo. A meno che qualcuno non pensi che si possa andare al voto con un partito nemmeno liquido ma gassoso...».

Difende Veltroni («Io appoggio la sua leadership») ma non certo veltronismo di maniera: «Possibile che non si vedano i limiti di un nuovismo furioso che mostra la corda? In alcune occasioni siamo andati oltre il pur deprecato assemblearismo sessantottino...». E in questa intervista parla dei giovani e della leadership, del clima «depresso» nel Pd, del dialogo col governo e della neonata Red: «Io credo a D’Alema quando dice che non vuol rompere le scatole a Veltroni: ma sappia che la faccenda del tesseramento ha creato perplessità, e sarà bene chiarire».

Presidente, perché è così preoccupato dello stato del Pd?
«Perché tra un anno si vota e in molte Regioni altro che nuovo partito: siamo ancora a Ds e Margherita! E qui, invece di por mano a questo problema, si parla di congresso: fingendo di non vedere che il vero test sulla salute del Pd saranno le prossime elezioni. Ma le chiedo: ha letto i commenti all’ultima assemblea del Pd?».

Letti. Un po’ disarmanti.
«Ecco. Le presenze erano limitate? Certo che sì. Il clima era di scarso entusiasmo? Sicuramente sì. Ma domando come potesse essere il contrario. Come si può pensare che un partito sia governato da un’assemblea di 3 mila persone, molte delle quali non hanno nemmeno presenza militante in periferia? E noi, invece, ogni tanto le convochiamo chiamandole a guidare il partito? Cose del genere non accadevano nemmeno nel ’68. C’è bisogno di dare organi stabili al Pd nel Paese».

Magari se aveste scelto la via del congresso...
«Un congresso per far cosa, visto che la leadership non è in discussione e che sulla linea - con l’eccezione di Parisi, che obiettò già in campagna elettorale - siamo tutti d’accordo? Il congresso lo faremo dopo le elezioni: e se mi è permesso un consiglio, dico che sarebbe bene cominciare a pensare per tempo a quell’appuntamento».

Scusi, presidente, ma è strambo che lei dica che nel Pd ci sia pieno accordo sulla linea. Su che vi state dividendo, allora, visto che è tutto un fiorire di gruppi, associazioni e fondazioni?
«Sul nulla, direi. O, forse, sull’intensità dello sconforto, della depressione post-elettorale...».

Battute a parte, sul tema delle alleanze davvero non vede linee diverse?
«Io vedo un accordo di fondo sulle questioni essenziali: vogliamo tutti costruire un grande partito riformista e coltivare la cosiddetta vocazione maggioritaria del Pd, e su questo Veltroni si è speso interpretando tutti noi. Quanto alle alleanze, esse dovranno essere coerenti con la natura riformista del nostro partito. Su tutto questo l’intesa è larga. Se poi qualcuno ci ha ripensato e vuole riproporre l’Unione, ce lo dica».

Lei che risponderebbe?
«Parlerei della mia esperienza di presidente del Senato. Pesante. Frustrante. In una occasione ho contato 19 interventi in aula di nostri senatori contro i ministri Parisi e D’Alema. Non è per questo, forse, che abbiamo così malamente perso le elezioni? Non è per un programma troppo vago e per alleanze eccessivamente eterogenee che abbiamo trasmesso l’immagine di un governo che non ha avuto la forza di fare le scelte che servivano al Paese? E’ quella la madre della nostra sconfitta. Riprovarci sarebbe una pazzia. Così come è una pazzia il tentativo di scalzare Veltroni o di indebolirlo. Ripeto: io appoggio la sua leadership ma chiedo che ora si pensi a costruire il partito per prepararlo alle prossime elezioni».

E la contorta discussione su dialogo sì, dialogo no?
«Contorta, appunto. E già risolta dai fatti. Abbiamo creato un nuovo partito e messo in campo il governo ombra, i cui ministri sarebbe bene andassero in giro per il Paese a spiegare le ragioni della nostra opposizione. Quanto al dialogo, che c’è da inventare? Le direttrici sono tre, e tutte ci impongono grande rigore».

Di che direttrici parla?
«Faccio degli esempi. Arriva in Parlamento un provvedimento inaccettabile? Lo si contrasta con durezza, usando tutti - dico tutti - gli strumenti regolamentari. La via per opporsi, insomma, è questa: non certo farsi un girotondo intorno al Senato. Si discute, invece, di questioni economiche e sociali? Pd e Pdl sono diversi, e credo difficile noi si possa aderire alle loro proposte: ma non possiamo prescindere dal fatto che il Paese non cresce da dieci anni e dunque, piuttosto che far muro, occorrerà provare a migliorare - se possibile - i loro provvedimenti. Poi c’è il grande tema delle riforme: e qui non basta dire che si dialoga. Qui occorre che si vada all’attacco noi, con una nostra idea di riforme costituzionali, senza attendere la proposta della maggioranza per poi finire a giocare di rimessa».

Se è così semplice, perché date così spesso l’impressione di dividervi? Perfino la necessità di far emergere leadership giovani e nuove è oggetto di polemica...
«Su questo, onestamente, credo di avere le carte in regola. Non oggi, ma due anni fa fui io a lanciare quello che voi chiamaste il “tridente della Margherita”: Franceschini, Fioroni e Letta. Quindi, largo ai giovani: ma senza mitologie, come se l’età fosse uno spartiacque tra il bene e il male. Io darò una mano, ma vorrei anche indirizzare un consiglio ai giovani: esplicitino le loro idee e si battano, piuttosto che lasciarsi cooptare».

Cooptare magari prendendo la tessera di ReD?
«Non è una buona battuta... Io ho sincero apprezzamento per il lavoro fatto da Italianieuropei, è uno strumento importante per il Pd e D’Alema gli ha dato un’anima. Anche l’ultima iniziativa, Red, non mi dispiace...».

Però?
«Però niente. Conosco D’Alema e gli credo quando dice che non vuol rompere le scatole a Veltroni. Ma deve sapere che la faccenda della tessera a Red ha creato perplessità, perché è un fatto stringente, organizzativo, e questo può ingenerare problemi. Con Massimo ci conosciamo da anni e io, per altro, non sono sospettoso di natura. Per questo gli dico: attento, le tessere possono diventare un problema. C’è bisogno di chiarimenti. Il partito deve essere tranquillizzato».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Veleni e veline
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:54:58 am
27/6/2008
 
Veleni e veline
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
In fondo, si poteva prevedere. E non è che fossero poi necessarie doti particolari. Bastava ripassare un po’ la storia politica recente del Paese, per scommettere che dalla fine del dialogo alla peggiore delle guerriglie il passo sarebbe stato breve. Stavolta, è stato ancora meno che breve: è stato fulmineo. Dieci giorni fa si era ancora tutti impegnati a maledire o benedire il cosiddetto «Veltrusconi»: oggi si è già agli insulti e alle denunce penali. Il caso di giornata - e cioè la pubblicazione di nuove intercettazioni telefoniche di Silvio Berlusconi e di un po’ di suoi amici e collaboratori politici - non è che un episodio della guerriglia appena ripresa. E considerata la velocità con cui il quadro complessivo sta degenerando, si può scommettere che non solo non sarà l’ultimo, ma probabilmente non sarà nemmeno il peggiore.

Intanto, appunto, il caso di giornata. Proviamo a esprimere un’opinione, evitando ipocrisie. Fatto salvo il diritto-dovere dei magistrati di poter compiere fino in fondo e in ogni direzione il loro lavoro, e ribadito il principio secondo il quale i giornali esistono per pubblicare le notizie di cui entrano in possesso, è assai probabile che una parte del mondo politico - e soprattutto larghe fasce della pubblica opinione - non abbiano dubbi su come interpretare i fatti di ieri: un tassello della guerra appena divampata.

In due parole. Berlusconi attacca i giudici? Vara disegni di legge per limitare (troppo e male) l’uso e la pubblicazione di intercettazioni telefoniche? Riparte all’attacco dei «comunisti» e di chi li fiancheggia? Bene: e allora io - giudice sotto attacco - passo a qualcuno, prima che sia troppo tardi, un altro po’ di conversazioni private del premier e del suo entourage, così che si veda di che pasta è fatto, quali sono i suoi metodi e di che gente si circonda.

Non fosse che per questo, è evidente che la pubblicazione di queste ultime intercettazioni avvelena ulteriormente il clima, non aggiunge granché a quanto già si sapeva sul premier, sul suo stile e sulla corte che lo circonda e - infine - offre nuove munizioni e ulteriori argomenti ai fautori del «giro di vite». Non a caso, dalle file della maggioranza è tornata a levarsi alta l’invocazione di una rapida approvazione del provvedimento sulle intercettazioni già varato dal governo. Invocazione autocritica, immaginiamo: considerato che il Consiglio dei ministri ha licenziato il disegno di legge due settimane fa ma il Parlamento non ha ancora cominciato a discuterne. Nemmeno in commissione.

Detto tutto questo, non restano che due annotazioni. La prima: il dialogo che tanti avevano lodato e che aveva segnato l’avvio della legislatura si è prima incrinato sulla cosiddetta norma salva-Retequattro (una delle tv di Berlusconi) e poi spezzato sul decreto blocca-processi (perché uno dei processi a finire in naftalina riguarda appunto Berlusconi). La si veda come si vuole, insomma, ma a mandare in soffitta l’iniziale clima di confronto civile sono stati appunto i due conflitti d’interesse (tv e giustizia) che da sempre minano l’azione e la credibilità del Cavaliere: continuare a far finta che tutto vada bene e che non sia necessario un qualche intervento è inutile, oltre che assai dannoso.

La seconda annotazione: è davvero stupefacente la rapidità con la quale cambia la gerarchia delle «emergenze» del Paese. Fino a ieri erano la sicurezza, il Paese che non cresce, i salari troppo bassi, la salvezza dell’Alitalia da «mani straniere»: nel giro di due settimane, l’emergenza delle emergenze è diventata bloccare alcuni processi e mettere al riparo dalla magistratura le alte cariche dello Stato. Stupefacente. Non c’è controprova, naturalmente: ma c’è da scommettere che forse il Pdl non avrebbe vinto così largamente le elezioni di due mesi e mezzo fa se avesse proposto agli italiani un programma in cima al quale ci fossero state queste due priorità.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA L’ex pm ora è il simbolo dell’anti-berlusconismo
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2008, 11:33:17 pm
9/7/2008 (7:12) - REPORTAGE

Tonino conquista le vecchie praterie della sinistra
 
Tra i manifestanti prevale lo sfottò
 
L’ex pm ora è il simbolo dell’anti-berlusconismo

FEDERICO GEREMICCA


ROMA
In fondo, è andata come doveva andare. Il che vuol dire che ce ne è stato un po’ per Giorgio Napolitano, di più per Walter Veltroni e tantissimo, naturalmente, per Silvio Berlusconi: che ovviamente abbozza, tira dritto e paga perfino volentieri il prezzo di insulti e sfottò, visto che preludono - probabilmente - non tanto ad un assedio al suo governo, quanto all’avvio dell’ennesima intifada nei territori devastati dell’opposizione. Dunque, è proprio andata come doveva andare. Il che vuol dire che c’è stato chi ci doveva stare: folla di gente oltre le aspettative e poi le facce che ti attendi, tutte le facce nessuna esclusa, dalla Guzzanti a Pancho Pardi, da Travaglio ad Antonio Di Pietro, da Furio Colombo fino a Grillo, Moni Ovadia e un elegante Flores d’Arcais.

Rispetto all’altra, alla prima piazza Navona (febbraio 2002, Nanni Moretti: «Con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai») in fondo si registrano due sole differenze. La prima: ieri faceva più caldo. La seconda: quel «tipo di dirigenti», stavolta sul palco non s’è fatto nemmeno vedere. Bandiere e magliette dell’Italia dei Valori ovunque. Infatti è Tonino Di Pietro la locomotiva del movimento che riparte, non Rifondazione, non la sinistra cosiddetta radicale, disintegrata e impegnata a litigare sul futuro e sui Congressi. E’ lui, il giudice, la star dei girotondi (nella prima vita ebbero come leader Sergio Cofferati: e forse è tutto dire); è sempre lui il primo ad evocare nientemeno che il ritorno della P2; è ancora lui che ha l’onore di parlare per due volte dal palco; ed è soprattutto lui che ha il partito più forte, il partito che organizza e arringa, sperando di incassare i dividendi alle prossime elezioni.

E’ lo stesso, però - e guarda che scherzi ti tira questa faccenda dei duri e puri - al quale Beppe Grillo dedicò un passaggio indimenticato durante uno spettacolo di non troppo tempo fa: «Prendete Di Pietro - accusò Grillo -. E’ insegnante di procedura penale e fa lezione a quelli del Cepu. Già di questo bisognerebbe vergognarsi. In più, dovete sapere che il Cepu ha 102 sedi tutte messe sotto sequestro dalla Finanza con l’accusa di associazione per delinquere, bancarotta, usura e riciclaggio. E lui che ha fatto? Ha fondato l’Italia dei Valori in una sede sotto sequestro dalla Finanza...». Ma il tempo passa, certi ricordi li cancella - ed è la vita, in fondo - e ora Beppe e Tonino sono lì, nella stessa trincea, gomito a gomito, che sparano a vista.

Grillo se la prende anche con Napolitano: «Ve lo immaginate - dice - Pertini firmare una legge che lo rendeva immune dalla giustizia? Io a farlo non ci vedevo nemmeno Ciampi e neppure Scalfaro: ma Napolitano ha firmato... E mentre Napoli era invasa dall’immondizia dov’è andato il presidente? A Capri, accompagnato da due indagati, Bassolino e Sandra Mastella...». La piazza, in verità, non è che si spelli le mani di fronte a questa gag. E nemmeno certi compagni di viaggio del comico genovese: Furio Colombo s’infuria, Claudio Fava si dissocia e anche Di Pietro prende le distanze, ma soprattutto da Sabina Guzzanti, che se aveva attaccato addirittura il Papa, dopo aver messo alla berlina il ministro Carfagna in un saliscendi di parolacce, battute e doppi sensi.

Piazza Navona di ieri non è poi così diversa da quella di sei anni e mezzo fa: un po’ politica e un po’ spettacolo, un po’ rabbia vera e un po’ iperboli e propaganda. Prevedibile, in fondo. Tanto prevedibile che sorprendono certe sorprese: e certe impacciate dissociazioni postume, di chi è andato e poi se ne è pentito, come Arturo Parisi e Giovanni Bachelet. Ma tant’è: come dice l’adagio, non si finisce di imparare mai... Prendete le magliette che distribuisce il partito di Di Pietro, per esempio. La piazza ne è piena: «Fermiamo il Caimano». Il Caimano fu mandato nelle sale da Nanni Moretti un paio di anni fa: dopodichè, Silvio Berlusconi ha rivinto le elezioni. Magari potrebbe voler dire che la via non è quella, che la tattica è sbagliata. E invece niente: Di Pietro ci riprova, Grillo è lì che l’accompagna e non sappiamo se il Caimano è lì che si frega le mani, quantomeno pensando ai fortunati precedenti.

E comunque, sia come sia, è andata. C’è un pezzo di Paese - piccolo magari, minoritario ma non proprio irrilevante - che non ci sta. Non ci sta che si provi a dialogare col Cavaliere; non ci sta che ci si opponga soltanto in Parlamento e non anche nelle piazze; non ci sta al buonismo e alle manifestazioni convocate da qui a tre mesi. E non ci sta di fronte all’evidenza che - dal conflitto d’interessi in giù - se si è al punto in cui si è, questo è colpa anche di certa sinistra: quella, per capirci, buonista e riformista. Col Cavaliere non si dialoga, insomma: gli si dice “ladro” e “pregiudicato”. E da ieri gli si dice di nuovo anche “piduista”. E fa niente che i giovani che affollavano piazza Navona magari della P2 non sanno nulla, e nell’81 non erano nemmeno ancora di questo mondo: studino l’amarissima pagina della democrazia italiana. Quel che fa, invece - altroché se fa - è che sul palco non c’erano né Gherardo Colombo né Giuliano Turone, i giudici che svelarono la Loggia P2. In fondo, se le cose stanno così, perchè loro no e Di Pietro sì?

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Chi paga la fine del dialogo
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2008, 10:04:37 am
7/7/2008 - LEADERSHIP E CONSENSO
 
Chi paga la fine del dialogo
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Se non l’avevano convinto - come, evidentemente, non l’avevano convinto - le opinioni espresse dalla larga maggioranza degli osservatori politici e dei commentatori, magari può riuscirci il verdetto giunto attraverso uno degli strumenti ai quali spesso Silvio Berlusconi ricorre nei momenti delle scelte delicate: il sondaggio. Più della metà degli italiani (52,5%) non è d’accordo sul tipo di provvedimento che il governo intende varare in materia di intercettazioni telefoniche; una percentuale ancora più alta (65,3) non è favorevole alla sospensione dei processi alle più alte cariche dello Stato durante il loro mandato (lodo Alfano); e i contrari salgono addirittura al 73,4% di fronte all’ipotesi di bloccare per un anno i processi per i reati che prevedono una condanna inferiore ai dieci anni (fonte Demos per la Repubblica). Il risultato è un calo netto dell’apprezzamento del premier: dal 61,4% al 46,4 in appena due mesi (analogo sondaggio Ipso per il Corriere della Sera segnala invece quell’apprezzamento in crescita). I dati che citavamo, per quanto qualcuno potesse considerarli scontati, appaiono inequivoci. E certo dovrebbero far riflettere un leader che ha fatto della sintonia col comune sentire del Paese uno dei suoi punti di maggior forza.

Non solo. Anche la seconda manifestazione di insofferenza in pochi giorni arrivata da Umberto Bossi («Veltroni dice che il governo cadrà presto? Ha ragione, se tutti i giorni c’è un bordello...») forse merita un’attenzione meno frettolosa di quella riservatagli dal premier («Bossi ogni tanto ama divertirsi»). Infatti, se è vero che la Lega non ha alcuna intenzione (né interesse) a porre problemi all’esecutivo (Bossi: «Non saremo così imbecilli da far cadere il governo»), è chiaro che anche la pazienza leghista ha un limite. A nutrire la tolleranza del Carroccio c’è, naturalmente, l’obiettivo storico del federalismo, che però andrà prima o poi centrato, visto che è inseguito da oltre un decennio. E qualche attenzione il premier dovrebbe riservarla anche al lavoro di certi ministri leghisti, come Maroni: che, impegnato a tener fede alle promesse fatte in materia di sicurezza, è a volte sommerso di critiche (da parte del mondo cattolico, dell’opposizione e delle istituzioni europee) rispetto alle quali raramente si alza la voce del premier, impegnato com’è nella sua personalissima guerra alla magistratura ed all’opposizione.

La quale opposizione, del resto, farebbe bene a non cullare troppo la speranza che possa essere la «quinta colonna» leghista a liquidare il governo in carica, mettendo mano con urgenza - al contrario - a tutto quel che ha da fare per rendersi più incisiva e credibile. Il sondaggio che citavamo all’inizio, infatti, segnala un calo verticale nell’apprezzamento delle mosse di Veltroni (dal 65% di due mesi fa al 40% di oggi) ed una sensibile riduzione dei potenziali consensi elettorali del Pd (dal 33,2% al 29): giudizi che dovrebbero preoccupare lo stato maggiore del Partito democratico almeno quanto Berlusconi dovrebbe esser impensierito dal verdetto sulle cosiddette leggi ad personam, che sono da alcune settimane la sostanza, la cifra, dell’agire dell’esecutivo. Ora sul Pd stanno per abbattersi le prevedibili e scontate polemiche per la scelta di non essere in piazza, domani, con Di Pietro e il mondo dei girotondi: non è detto che non sia un bene, e addirittura un’occasione per meglio definire il carattere e l’«anima» del nuovo partito (che sembra voler spostare, con raccolte di firme e manifestazioni in autunno, la sua attenzione sulla difficile situazione economica del Paese).

Un’ultima annotazione: sia il premier che il leader dell’opposizione appaiono in calo di consensi rispetto ad appena due mesi fa. È difficile sfuggire alla sensazione che ciò sia in qualche misura determinato dalla guerriglia quotidiana che è tornata padrona del Paese, rigettandolo indietro di anni. Si era molto discusso del clima non barricadiero che aveva caratterizzato l’ultima campagna elettorale e del tentativo di dialogo che ne era nato in avvio di legislatura. La si può pensare, naturalmente, come si vuole: ma appare incontestabile che, a parte tutti gli altri danni, i primi a pagare il prezzo della rottura consumata siano proprio coloro i quali l’hanno voluta o determinata. Ci pensino, Veltroni e Berlusconi. In fondo la legislatura è appena cominciata.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'ultimo spiraglio
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 09:10:20 am
12/7/2008
 
L'ultimo spiraglio
 

 
FEDERICO GEREMICCA
 
Adesso che la polvere sollevata dal grande scontro combattuto sulla giustizia comincia a posarsi, possono forse scorgersi meglio gli effetti che la durissima battaglia sviluppatasi è destinata a produrre nel prosieguo di una legislatura che si era avviata all’insegna del dialogo e che era stata, per l’ennesima volta, detta «costituente». Salvo sorprese, infatti, la prossima settimana il Parlamento licenzierà entrambi i provvedimenti all’origine del muro contro muro: il cosiddetto lodo Alfano e il pacchetto sicurezza, positivamente modificato nella parte blocca-processi. Approvati l’uno e l’altro (sul secondo il governo è ormai orientato a porre la questione di fiducia), si potrà finalmente passare ad altro: ma in una situazione purtroppo assai diversa da quella che era legittimo pronosticare meno di un mese fa.

La fotografia che infatti ci regala questo caldissimo luglio ha contorni nitidi e nient’affatto incoraggianti. Proviamo a riassumerli. Il tanto sbandierato (ma in verità assai poco praticato) dialogo tra il governo di Silvio Berlusconi ed il Pd di Walter Veltroni è ridotto ad un cumulo di macerie ancora fumanti: lo scontro ha toccato punte di asprezza tali da ricordare il dopo-elezioni 2001, con annesso corollario di insulti reciproci e riapparizione dei girotondi.

I rapporti tra il Partito democratico e il suo unico alleato elettorale - l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro - sono a pezzi, e non è azzardato prevedere un loro ulteriore peggioramento: il che consegna a Veltroni - strategicamente e retrospettivamente - un mucchio di problemi di non facile soluzione. Silvio Berlusconi, dal canto suo, ha polverizzato in un paio di settimane l’immagine di statista dialogante con la quale si era proposto in avvio di legislatura: con quali vantaggi per se stesso e per il Paese, è cosa che si potrà, purtroppo, presto apprezzare.

Infine, non va sottovalutato l’effetto che l’onda d’urto dello scontro ha prodotto sulle istituzioni e sui rapporti tra alcune di esse. Tra governo, Quirinale, magistratura e Parlamento si sono toccate punte di asprezza che parevano dimenticate: alcune delle ferite inferte sono profonde, e non potranno che pesare negativamente sullo sviluppo della legislatura.

Dopodiché, anche in politica - talvolta - sono possibili i miracoli: ed è dunque ancora possibile sperare che il filo di un confronto civile, spezzato di netto, venga in qualche modo riannodato. Una certa dose di realismo, in verità, inviterebbe a mitigare l’ottimismo, considerato che alla ripresa - dopo la pausa estiva - molti fattori potrebbero contribuire a riportare a livelli alti la tensione. A parte le dinamiche interne ai due diversi schieramenti (intendiamo l’evoluzione cui andrà incontro il Pd, e i rapporti tra la Lega e certi eccessi del berlusconismo) a tener banco, infatti, sarà come in ogni autunno l’economia, terreno sul quale si confronteranno due linee di intervento presumibilmente assai diverse: e l’approccio che il Pd avrà a questi temi, è in qualche modo anticipato dalla manifestazione già annunciata per il 25 di ottobre, che obbligherà a tenere alti i toni. Inoltre, non aiuterà certo il clima pre-elettorale che si inizierà a respirare in vista delle elezioni di primavera, quando gli italiani saranno richiamati alle urne per il voto europeo e per una importante tornata amministrativa (una settantina di Province e città importanti, da Bologna a Bari).

Si tratta di temi e appuntamenti che, come dicevamo, sembrano destinati a surriscaldare, piuttosto che raffreddare, il clima generale. E a ben vedere, il campo sul quale potrebbe riaprirsi un confronto è - come al solito - uno solo: quello delle tanto invocate riforme istituzionali. Il Presidente della Repubblica ne ha parlato ieri in una intervista all’agenzia Tass, in vista della sua visita in Russia: «Penso si debba giungere ad una riforma elettorale e costituzionale, e che bisogna cambiare molte altre cose...». Si tratta, come è noto, di una convinzione comune da tempo a quasi tutte le forze politiche. Riusciranno a tradurre prima in dialogo e poi in leggi questa ormai antica esigenza? Anche qui, la prudenza è d’obbligo. Ma un «fattore coercitivo», stavolta, può alimentare qualche speranza: alla ripresa dopo la pausa estiva, mancherà una manciata di mesi al referendum elettorale già indetto e rinviato la scorsa primavera per lo scioglimento delle Camere. Non è detto che questo pungolo basti, ma la prospettiva - almeno - è fin da ora chiara: o riforma o referendum. Stavolta, insomma, sarà assai difficile - se non impossibile - tergiversare.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Nascosti dietro un dito
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2008, 02:18:52 pm
22/7/2008
 
Nascosti dietro un dito
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Magari non è politicamente corretto. E certamente non aiuta «ad avvicinare i cittadini alle loro istituzioni», come si invoca da un po’ di tempo in qua. Però, per onestà, va detto: della questione in sé, della Grande Polemica - cioè del dito alzato di Umberto Bossi e di quel che è stato pomposamente definito «insulto alla Patria e alla bandiera» - del merito della faccenda, insomma, ieri nelle aule di Camera e Senato non fregava niente quasi a nessuno.

Acominciare da Bossi, naturalmente, che a pomeriggio inoltrato, in violazione di tutti i divieti, se ne stava su un divanetto del Transatlantico a mangiare pane e formaggio (o prosciutto, secondo altri) facendo briciole dappertutto. Il presidente Fini aveva appena finito di fargli una mezza ramanzina in aula - spiegando che insomma un ministro non può dire quelle cose e fare quei gestacci - e qualcuno magari s’aspettava la reazione furiosa del senatùr. Macchè. Lui si limita a borbottare: «Ma va là... Poteva non intervenire, che era meglio». E giù un altro morso al pane col formaggio...

Se bisogna raccontare le cose per quel che sono e per come stanno, allora bisogna dire - pur rischiando quel che in questi casi si è rapidi a chiamare qualunquismo - che l’ennesima fanfaronata del leader leghista (che in tante occasioni, compresa questa, davvero non sa nemmeno bene di cosa parla) è stata cinicamente utilizzata, sia da destra che da sinistra, per rimpallarsi accuse più o meno così: voi del Pdl siete alleati di Bossi, che offende la Patria e la Bandiera; e voi del Pd vi ci vorreste alleare, e anzi anni fa già lo faceste, nonostante le offese alla Patria e alla Bandiera. Poche le varianti. Del tipo: perchè Berlusconi non viene in aula a dirci che pensa dell’Inno di Mameli? E in risposta: e voi perchè non state zitti, che siete amici di quelli di piazza Navona, che in quanto a offese non sono stati secondi a nessuno? Tentativi di metter zizzania nel campo avversario, insomma. Di creare o accentuare divisioni. Con interesse scarso o nullo - diciamo la verità - verso l’onore della Patria e della Bandiera.

E che l’interesse verso l’Inno di Mameli e tutto il resto sia stato scarso o nullo, in fondo è perfino un bene. Perchè quello di Alessandra Mussolini, per dire, si è concretizzato in un registratore acceso in aula davanti a un microfono, così da diffondere le note della nostra marcetta in tutto l’emiciclo. E quanto ai leghisti, meglio lasciar stare. Infatti, nonostante gli avessero spiegato in tutti i modi che il contestato «schiava di Roma» non si riferiva alla Padania ma alla “Vittoria”, Federico Bricolo, capogruppo del Carroccio al Senato (e dunque si presume il migliore dei suoi) ha tuonato in aula che «noi della Lega non vogliamo essere schiavi di nessuno!». E quando a Bossi hanno riferito della mezza ramanzina di Fini, ha replicato che «nell’Inno c’è anche scritto che i bimbi d’Italia si chiaman balilla...»: magari volendo rinfacciare al presidente i suoi trascorsi e forse nemmeno sospettando che l’inno è stato scritto una settantina d’anni prima dell’avvento del fascismo e che il verso di Goffredo Mameli è dedicato a Giovan Battista Perasso, patriota genovese del ‘700, detto appunto Balilla.

Insomma, in un Parlamento che tutto tritura e trasforma in tattica politica, anche l’Inno di Mameli e il dito di Bossi diventano carbone e benzina per alimentare propaganda e attacchi all’avversario. O per riavviare, nel Pd e nel centrosinistra, il solito, infinito, regolamento di conti. Prendete Arturo Parisi, che ce l’ha con quelli che nel suo partito vogliono dialogare con la Lega e non gli pare vero poter tuonare: «Io chiedo: come è possibile trattare con chi oltraggia l’unità della Repubblica e rinnova le sue minacce separatiste?». Ma se è per questo, non è certo da meno Paolo Bonaiuti, che ai cronisti che chiedono come mai Berlusconi non sia in aula a difendere (oppure anche no) Umberto Bossi, risponde in maniera surreale: «Berlusconi? L’ho sentito. E’ a casa, ad Arcore. Sta lavorando sulla questione Alitalia...».

Non fa piacere raccontare pomeriggi così. E ancor più malinconico è il tentativo di trarne una morale. Il clima, infatti, è quel che è, essendo fulmineamente slittato dal dialogo all’insulto. Del resto, dopo l’improvvisa virata del presidente del Consiglio, non era pensabile uno scenario diverso. Ieri, per dire, la Camera è stata chiamata a votare una nuova fiducia su un nuovo decreto (quello economico, stavolta) mentre il Senato doveva approvare - avendo a disposizione un solo giorno per esaminarlo - il lodo Alfano, che mette Berlusconi al riparo dal processo Mills, in cui è imputato per corruzione. E in tutto questo, c’è chi continua a parlare di grandi riforme e di legislatura costituente. Al punto in cui già si è (le Camere sono insediate da nemmeno 100 giorni) per crederci occorre un grande ottimismo. Si vedrà. Archiviato Bossi, il dito e le offese all’Inno, sperare nel meglio, in fondo, non costa niente.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bicamerale leghista
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:36:07 am
26/7/2008
 
Bicamerale leghista
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
E’ onestamente difficile dire se l’elezione popolare (o la nomina parlamentare) di una nuova Commissione bicamerale per le riforme sia uno strumento in grado di smuovere davvero «l’impotenza politica che condanna il Paese all’immobilismo» (come scriveva Emanuele Macaluso su La Stampa dell’altro ieri).

Di fronte all’impasse riformatrice, infatti, l’idea di ricorrere a luoghi altri rispetto al Parlamento non rappresenta certo un inedito: ma non è affatto detto che, poiché non nuova, la proposta non mantenga una sua attualità. A maggior ragione se a caratterizzarla fosse una novità che potrebbe rappresentare, da un lato, la presa d’atto di una realtà politica difficile da negare e, dall’altro, una possibile «assicurazione» contro i rischi dell’ennesimo fallimento: e cioè, che la presidenza del nuovo organismo venga stavolta affidata alla Lega.

A prescindere dalla condivisione delle proposte leghiste in materia di riforme (alcune certamente condivisibili, altre assai meno) attribuire al partito di Umberto Bossi la guida della Commissione potrebbe assicurare, infatti, un duplice risultato. Il primo consiste nel garantire una iniezione di sicuro attivismo (e probabile concretezza) ad un organismo spesso utilizzato, in passato, più per sterilizzare la questione-riforme che per affrontarla davvero: salvo smentite, è infatti difficile immaginare una Lega che si presti a giochini e insabbiamenti ai danni di un tema che ne è da sempre la bandiera. Il secondo possibile risultato sarebbe quello di sottoporre il partito di Bossi a una sorta di «prova della verità» circa la sua reale volontà riformatrice: sono almeno quindici anni, infatti, che la Lega fa leva (anche elettoralmente) sul suo anelito federalista e innovatore, eppure - pur avendo passato almeno la metà di questo tempo al governo del Paese - il suo «bottino» riformatore è desolantemente scarso. Metterla alla prova in un ruolo di sicura direzione potrebbe permettere - tra le altre cose - di valutarne una volta per tutte la coerenza e l’onestà delle intenzioni (fare riforme e federalismo davvero, e non tenerli nel limbo per utilizzarli ciclicamente come cavalli di battaglia elettorali).

Al momento, naturalmente, nessuno può prevedere se l’approdo dell’interminabile confronto sulla Grande Riforma sarà - appunto - una nuova Bicamerale: certo, se così fosse, non si comprenderebbero né veti su una eventuale presidenza leghista né la rinuncia da parte del partito di Bossi a reclamarne la guida. E neppure si capirebbero, in fondo, obiezioni - o addirittura opposizioni - alla messa in campo di uno strumento quasi senza alternative, considerata l’incomunicabilità (se non peggio) che già regna in Parlamento. Non le si capirebbero da parte di Silvio Berlusconi, che vedrebbe - tra l’altro - collocate in luogo diverso da Camera e Senato tensioni che alla lunga potrebbero provare la sua maggioranza; e a maggior ragione non si comprenderebbero da parte di Veltroni: questo sistema - elettorale e istituzionale - è infatti l’abito meno adatto al suo Pd a «vocazione maggioritaria», e dunque forte dovrebbe essere l’interesse a modificarlo. Ripartire da capo, inoltre, permetterebbe o di cercare una sintesi tra le diverse proposte sul tappeto o perfino di aprire davvero il confronto su un sistema elettorale a doppio turno (così caro al segretario del Pd) e su un semipresidenzialismo che tenga conto della realtà italiana.

Tutto questo, ovviamente, se si ritiene di dover tener fede all’impegno elettorale di una «legislatura costituente». In caso contrario, l’alternativa sembra chiara fin da ora. Da una parte - considerata l’ampia maggioranza di cui gode alle Camere, l’assenza di Fini dal governo e la perdurante sofferenza di Bossi - il consolidarsi di una sorta di «dittatura parlamentare» in cui Berlusconi potrà fare, più o meno, quel che gli pare: e infatti lo fa. E dall’altra, andare dritti verso il referendum della prossima primavera, che consegnerà al Paese una legge pasticciata e al Parlamento l’obbligo di intervenire comunque per renderla in qualche modo accettabile. A meno che, certo, non si preferisca appunto il pasticcio continuo: cioè il perdurare di un sistema che - in fondo - salvaguarda l’intera classe politica, nel quale ognuno resta a galla e nessuno perde mai davvero. Eppure un sistema nel quale, anche senza accorgersene, protagonisti e comprimari rischiano di affondare lentamente assieme...
 
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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il Pd diviso e la sfida dei sindaci
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2008, 10:28:14 am
20/8/2008
 
Il Pd diviso e la sfida dei sindaci
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Non è certo un caso se, intervenendo nella polemica tra Sergio Chiamparino e il Pd piemontese, Walter Veltroni si sia guardato bene dal liquidare le questioni poste dal primo cittadino di Torino alla maniera con la quale - ma era un’altra epoca - Massimo D’Alema tentò di frenare la crescente influenza dei primi sindaci a elezione diretta. Con definizione non dimenticata, l’allora segretario del Pds - era il 1997 - li bollò come cacicchi (capi di antiche tribù sudamericane). Oggi, probabilmente, non lo rifarebbe: e riconoscerebbe, anzi, che proprio i cacicchi (governatori e sindaci delle grandi città) rappresentano il volto del nuovo Pd, la parte più solida - e nota e popolare - del gruppo dirigente democratico in senso lato. E in fondo si può dire che la decisione di Veltroni di schierarsi dalla parte di Chiamparino nella polemica che lo contrappone al suo partito segna forse il punto d’approdo di quella disputa politica e di potere che tanti danni ha fatto al centrosinistra negli ultimi quindici anni: e cioè la contrapposizione continua tra partito e leadership.

Il segretario del Pd ha scelto di prender campo nella polemica in corso a Torino, ma avrebbe in verità potuto farlo a Genova come a Bologna o in Sardegna, di fronte a ricandidature (quelle di Cofferati e Soru, per esempio) discusse o addirittura in discussione.

Il che testimonia, semplicemente, di quanto quella disputa non sia ancora chiusa e di quanti problemi continui a creare al Pd. Sono gli stessi problemi, in fondo, che hanno segnato per anni il rapporto tra Romano Prodi e la sua coalizione, mai disposta a riconoscerne pienamente la leadership. E non si è trattato - e non si tratta - di una semplice disputa per il potere. Alle spalle c’è una differente idea della politica e forse perfino della democrazia, del come distribuire - cioè - influenza, ruolo e pesi tra partito e leader: politico o di governo che sia. È il conflitto finale, in fondo, tra una tradizione politica figlia del ’900 (e dunque della Prima Repubblica) e l’irrompere sulla scena (con la Seconda) di partiti e poteri personali, con leadership scelte e legittimate direttamente dai cittadini.

Non può dunque sorprendere che i contraccolpi maggiori dell’impetuosa trasformazione in atto abbiano investito e investano soprattutto il centrosinistra, «casa» degli eredi dei maggiori partiti della Prima Repubblica - Dc e Pci in testa - sfiorando appena il centrodestra (nato, di fatto, con Berlusconi e la Seconda Repubblica). Si pensi solo - per fare un esempio - agli effetti prodotti nei due diversi campi dalla disputa tra partiti e leader. Dal 1994 alla fondazione del Pd, il Pds-Ds ha cambiato quattro segretari (Occhetto, D’Alema, Veltroni e Fassino) e il Ppi-Margherita addirittura cinque (Martinazzoli, Bianco, Marini, Castagnetti e Rutelli): dall’altra parte Berlusconi, Fini e Bossi sono da allora al loro posto. E il duello, naturalmente, ha avuto riflessi anche sulla guida del governo: il centrosinistra ha infatti cambiato quattro volte il suo candidato premier (Occhetto, Prodi, Rutelli e Veltroni) e ha avuto tre presidenti del Consiglio diversi (Prodi, D’Alema e Amato). Dall’altra parte, sempre e solo Berlusconi.

Tutto ciò magari dimostra (ma non è questo che ora interessa) che nel centrodestra c’è un problema di democrazia, ed è sicuramente vero. Ma anche la democrazia non è immutabile, può darsi regole diverse e distribuire pesi e contrappesi in maniera anche assai differente tra Paese e Paese. In ogni caso, o la si cambia cambiandone le regole o ci si adegua a quelle che ci sono: quel che è difficile fare è adeguarsi (e in alcuni casi addirittura promuovere) regole nuove tentando di farle vivere con logiche vecchie. Se si imbocca la via delle primarie e poi dell’elezione diretta per scegliere sindaci, governatori e capi del governo, per esempio, è poi impensabile immaginare che i partiti possano condizionarne oltremodo le scelte e limitarne l’autonomia d’azione: gli eletti, infatti, sentiranno - e a ragione - di dover rispondere del loro operato agli iscritti o ai cittadini, e non certo più ai vecchi apparati e alle burocrazie di partito.

Insomma, al di là del merito - e cioè di chi abbia torto e chi ragione - la sensazione è che sia questo il nodo ancora irrisolto che si cela dietro la polemica in atto tra Chiamparino e il suo partito o tra Renato Soru e mezzo Pd sardo. Così come non molto diversa, in fondo, è l'origine della polemica sulle decisioni solitarie contestate a Walter Veltroni. Tutto sembra dire, però, che per il Pd sia ora di uscire anche da questo guado. E le vie, in definitiva, sembrano soltanto due: o tornare indietro, con una battaglia restauratrice delle antiche regole (elettorali e non solo), o andare avanti assumendo le nuove genuinamente e fino in fondo. Il che vuol dire, nel caso in questione, semplicemente riconoscere e accettare l’autonomia conferita dai cittadini direttamente col voto a governatori e sindaci. Sperando, naturalmente, che non si trasformino in cacicchi.
 
 
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Titolo: FEDERICO GEREMICCA. La prima festa del partito che non c'è
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:42:57 pm
23/8/2008 (7:38) - IL REPORTAGE

La prima festa del partito che non c'è
 
Al via la kermesse del Pd: i momenti solo al passato


FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A FIRENZE


A farla semplice, si potrebbero prendere le ultime parole scolpite da Massimo Cacciari e chiuderla lì: «Il Partito democratico al Nord non c’è, non esiste. E da quanto ho avuto modo di capire, non esiste nemmeno al Sud». E dunque che c’è da festeggiare, qui a Firenze, dove ieri sera ancora martellavano chiodi e pennellavano vernice per la prima kermesse nazionale del Pd che s’apre oggi? Avete visto mai, infatti, una festa per una cosa che non c’è?

Noi mai. E dunque magari è il caso di controllare. E volendo controllare, la prima persona che incontri tra i lavori in corso nella Fortezza da Basso è un omaccione che fino al 5 maggio faceva l’architetto, poi ha chiuso lo studio ed ha cominciato a progettare la festa del Partito che non c’è. Si chiama Osvaldo Miraglia, è un diessino non tanto ex e dice «allora che sono, fantasmi, i 5mila volontari che staranno due settimane qua a vendere birre e libri dalla mattina alla sera?».

Li vediamo montare pannelli e rodare cucine a gas fino all’ultimo minuto utile, come nelle migliori tradizioni di ogni Festa de l’Unità. No, non sono fantasmi. E ancor meno evanescente, nonostante tutto, è quel che non si vede: per esempio, i quattro milioni di euro di volume d’affari che muoverà la kermesse. Non male, onestamente, per una cosa che non c’è.

Per intanto, però, è indubitalmente vero che la prima Festa del Pd sarà ricordata più per quel che non c’è che per quel che ci sarà. Non c’è il presidente del Consiglio in carica, ad esempio: e va bene che ormai è considerato non più avversario ma nemico, e dunque il mancato invito ci può pure stare. Ma non c’è nemmeno l’ex presidente del Consiglio, cioè Romano Prodi: che pure non è un nemico, e si spera non si sia trasformato già in avverasario.

Così come non ci sarà la tradizionale Grande Adunata per il comizio finale del Segretario. Veltroni, modernamente, non ha voluto: e i compagni (ex) in fondo gliene sono grati, perchè era diventata una faticaccia transumare le centinaia di migliaia di militanti senza le quali l’ultimo atto di qualunque kermesse è considerato miseramente un flop. Infine - e piange il cuore - ancora ieri sera non si vedeva uno straccio di logo de l’Unità: eppure, checchè raccontino, questa non è nient’altro che un’altra Festa nazionale de l’Unità.

Se infatti chiedi in giro qual è la differenza tra la prima Festa nazionale del Partito che non c’è e quelle del partito che c’era, ti spiegano - correttamente - che l’enorme sala dibattiti dove sfileranno i big (e primi tra tutti Tremonti e Bossi, al suo esordio alla Festa) è intitolata a Giorgio La Pira che, effettivamente, comunista o diessino non lo è stato mai. E se obietti che, insomma, forse è un po’ poco, provano ad indicarti - con qualche fatica - uno stand gestito interamente da ex della Margherita.

«Che vuole, siamo a Firenze... - ammette il solito Miraglia -. Qui il rapporto tra noi e loro era di tre a uno». Cogliere le differenze, insomma, non sarà facile. La grande fiera, infatti, è quella di sempre: dal braccialetto al trattore. Ed anche i ristoranti sono quelli, leggendari, capaci di sfornare ribollite e pappardelle a ritmi industriali. Ecco, se una novità è visibile, riguarda più l’evoluzione sociale che quella politica: il moltiplicarsi di luoghi e ristoranti di musica e cucina araba e africana. Giusto per tenersi al passo con i flussi migratori...

Difficile insomma dire se la prima Festa democratica di Firenze aiuterà il Partito che non c’è a mostrare un primo tratto del suo profilo. Improbabile, ma del resto non è compito di cui può caricarsi una semplice kermesse: è altrove, ovviamente, che vanno trovate risposte e cure per un partito dall’identità ancora incerta e preda - perfino - di liti in tribunale (imparasse dal centrodestra, che a notai e carte da bollo ricorre magari prima e non dopo le fondazioni...).

Però, certo, da qualche parte bisogna cominciare. Veltroni con Mentana, D’alema con Floris e Rutelli con Di Bella, proveranno a indicare l’orizzonte cui pensano per il Pd: e non è detto che sia precisamente lo stesso. I ministri ombra si confronteranno con i ministri in carica per proporre ricette alternative alla crisi del Paese. E a Rosy Bindi, faccia a faccia con Tonino Di Pietro, toccherà il compito (non proprio grato) di convincere i militanti che è possibile opporsi a Berlusconi senza chiamarlo un giorno magnaccia e l’altro delinquente.

Ma onestamente non appare un lavoro facile: e certo - qui a Firenze - al di là dell’onore di tenere a battesimo la prima Festa dopo la fusione, avrebbero preferito una kermesse appena appena più in discesa. Lo avrebbero preferito tutti. E prima di tutti - dicono - il neo segretario regionale del Pd, pure specialista in cose che non ci sono o che non ci sono più. Laureato alla Sorbona, Andrea Manciulli diede la tesi su "La cucina delle corti cardinalizie". Chissà se s’aspettava di finire a servire pappardelle e ribollite...


da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - I collaborazionisti
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2008, 09:16:50 am
30/8/2008
 
I collaborazionisti
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
L’accusa è lì, sulla punta della lingua di molti, ancora inespressa perché esprimerla significherebbe (significherà) porre il problema dei problemi, fino ad aprire nel Pd una battaglia politica dagli esiti del tutto incerti.

Ma le scelte di Giuliano Amato prima, e Roberto Colaninno poi, hanno riproposto la questione in maniera ineludibile. E la questione, e la conseguente accusa, potremmo sintetizzarla così, se c’intendiamo sul termine: collaborazionismo. Insomma: si può, e fino a che punto si può, collaborare - dando quindi una mano - con Berlusconi e la sua maggioranza? Roberto Colaninno, appellandosi a quella che potremmo definire «etica imprenditoriale», ha ritenuto che si possa. E Giuliano Amato, richiamando il «mandato istituzionale» ricevuto, ha confermato di voler presiedere la commissione sul futuro di Roma, città strappata da Gianni Alemanno al governo della sinistra.

Si è nei limiti di un’accettabile pratica bipartisan o siamo già nel campo del collaborazionismo? Francesco Rutelli - sconfitto da Alemanno nella battaglia di Roma - non ha dubbi (e non è il solo) e proprio in una intervista a La Stampa ha chiesto ad Amato di farsi da parte per evitare «equivoci» e permettere «una critica dura a chi ha vinto le elezioni su strumentalizzazioni orribili». Né meno profonde sono le riserve che circondano la scelta di Roberto Colaninno - imprenditore considerato vicino al Pd e padre di Matteo, ministro ombra di Veltroni - di capitanare la cordata che proverà a salvare Alitalia, tirando fuori Berlusconi da un bel mucchio di guai. Qualcuno ha agito - ha accusato Bersani - «con la pistola puntata alla tempia». Ma questo non cambia, per altri, il senso della vicenda: collaborazionismo, intelligenza col nemico. Roba da corte marziale, se fossimo in tempo di guerra...

E accusa più o meno simile - con termini, ovviamente, più consoni a un’era di pace - è stata rivolta a Franco Bassanini che, dopo esser entrato nella Commissione Attali voluta da Sarkozy, si è detto disponibile a bissare l’esperienza a Roma, assieme a Giuliano Amato. Analogo anatema è toccato a qualche sindaco democratico apparso troppo disponibile (quando non entusiasta) al confronto proposto dal ministro Calderoli sulla sua mutevole e inafferrabile «bozza federalista». E di tutto, veramente di tutto, è stato detto anche contro Antonio Bassolino, governatore campano che ha rifiutato di firmare la mozione del Pd che è alla base della manifestazione di ottobre contro il governo Berlusconi: «Collaboriamo sul piano istituzionale - spiegò -, non mi pare corretto che io firmi».

Collaborare. Oppure non collaborare affatto: qualunque sia il tema e qualunque cosa accada. Non siamo ancora al «tanto peggio tanto meglio» ma certo quest’ultima scelta prefigurerebbe un modo di fare opposizione assai distante da quello che era ipotizzabile alla luce della campagna elettorale svolta e perfino nelle fasi di avvio della legislatura. E infatti, non a caso, molte delle questioni che oggi dividono il Partito democratico - rallentando la definizione di un suo profilo netto - sono appunto legate al carattere dell’opposizione da svolgere. Provare a dialogare e collaborare tutte le volte che l’argomento lo richiede - e il confronto ne dimostri la possibilità - o non collaborare (dialogare) mai e su niente? L’interrogativo ha già rumorosamente diviso Di Pietro da Veltroni. E il piccolo terremoto è niente di fronte a quel che potrebbe accadere all’interno del Pd.

La ripresa d’autunno, infatti, sembra fatta apposta per acuire le tensioni tra «collaborazionisti» e «intransigenti», perché le tre questioni che saranno sul tappeto sono di quelle classicamente definibili da «impegno bipartisan»: riforma della giustizia, federalismo fiscale e modifica delle leggi elettorali (quella europea, certo, ma anche quella nazionale, visto che è già pendente un referendum). Al di là delle dichiarazioni di maniera del tipo «collaboreremo se sarà possibile», con che spirito si avvicinerà il Pd all’inevitabile confronto? Già oggi crepe e incrinature sono ben visibili, con dalemiani ed ex popolari più propensi al confronto e leader come Veltroni, Bersani e Rutelli - per esempio - che non fanno mistero, invece, di considerare null’altro che una «trappola» le proposte di dialogo che arrivano dalla maggioranza di governo.

La scelta non sarà facile. E non sarà nemmeno indolore. Infatti, al di là dell’influenza che potrà avere sul processo di consolidamento del Pd, essa lascerà più o meno spazio (e renderà più o meno possibile una riconciliazione) all’opposizione galoppante e intransigente di Antonio Di Pietro. Il leader dell’Italia dei Valori si prepara a un autunno caldissimo, e si frega già le mani di fronte alle incertezze del Pd. Per la sua politica tutta giustizialismo e populismo, infatti, certo «collaborazionismo» potrebbe essere manna dal cielo. Per i democratici, insomma, il bivio è tra i più insidiosi: duri per non lasciare spazio a populisti e sinistra radicale o dialoganti ogni volta che è possibile per confermarsi forza di governo affidabile e responsabile? Al di là dei singoli casi e al di là dei singoli collaborazionisti, forse è proprio questo l’interrogativo dalla cui risposta dipenderanno il futuro e la natura del Pd...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'eterno alibi
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2008, 12:09:40 pm
4/9/2008
 
L'eterno alibi
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Noi non sappiamo quali elementi abbiano spinto il dottor Antonio Manganelli, Capo della Polizia - dirigente equilibrato e, per altro, profondo conoscitore della realtà napoletana - a ipotizzare che dietro l’infernale domenica di Roma-Napoli «ci sia l’influenza della criminalità organizzata».

Sappiamo, però, che nel giro di qualche ora, col procedere delle indagini, prima il suo vice e poi il capo della Direzione distrettuale antimafia hanno di molto depotenziato - fin quasi a smentirla - quell’affermazione. E però, al di là della polemica innescata dalle dichiarazioni del dottor Manganelli (il ministro La Russa le ha definite «un alibi», dando la possibilità a Veltroni di accusare: «Il governo è contro la Polizia»), al di là di questo, dicevamo, la vicenda è illuminante di quanto forti siano alcuni riflessi condizionati. E di quanto essi non sempre servano a cogliere la realtà delle cose e talvolta - anzi - aiutino chi non vuol vederla.

Si prenda, appunto, la questione del rapporto tra calcio e violenza. Nonostante psicologi e sociologi abbiano spiegato da tempo quanto i comportamenti e la logica «del branco» possano trasformare in «delinquenti occasionali» anche giovani miti o di buona famiglia, si rifiuta questa verità (e rifiutandola, naturalmente, non la si avversa) preferendo rifugiarsi in schemi di comodo, e in fondo perfino autoassolutori. In ragione di questo, per esempio, la violenza negli stadi del Nord è inevitabilmente attribuita all’azione di naziskin, «teste rasate» e fascisti d’ogni risma (che pure, intendiamoci, esistono e operano); e al Sud, naturalmente, di mafia e camorra. Si tratta di chiavi di lettura assai spesso fuorvianti: e che, naturalmente, servono a coprire (a non vedere) il profondissimo malessere sociale che purtroppo talvolta trova negli stadi (o negli «sballi» del sabato sera, per dirne un’altra) una occasionale valvola di sfogo.

Da questo punto di vista, proprio la vicenda di Napoli può essere considerata emblematica. La camorra esiste da almeno un paio di centinaia di anni, vessando, taglieggiando e uccidendo, e non è che sia cresciuta e si sia allenata intorno allo stadio San Paolo; il suo periodo di maggior potenza e organizzazione risale forse agli anni 80, con Cutolo e compari: ma proprio in quegli anni - al seguito di Maradona e Ciro Ferrara - i tifosi del Napoli invadevano di allegria e bonari sfottò le piazze e gli stadi di tutt’Italia. Perché, dunque, uomini della camorra non dirottavano treni allora e avrebbero preso a farlo oggi? Mistero. Risolto, per fortuna, dall’avanzare delle indagini della polizia, che hanno appunto portato a escludere una regia della delinquenza negli inaccettabili atti vandalici di domenica scorsa. Certo: esclusa la camorra, resta ora il problema di capire il come, il chi e il perché. Che è impresa, naturalmente, magari perfino più difficile.

E oltre che autoassolutori, infine, certi riflessi condizionati rischiano anche di essere assai disarmanti. Infatti, se ci fosse davvero la camorra a far da regista agli incidenti dentro e fuori gli stadi, questo significherebbe in fondo sancire - alla luce di quanto la storia recente insegna - una sorta di ineliminabilità del fenomeno. Si combatte - ma certo non si è sconfitta - la presenza della delinquenza organizzata in ogni sorta di attività, dal contrabbando all’edilizia, dalla finanza al taglieggiamento più minuto. Con qualche sorpresa per i più, nei mesi drammatici dell’emergenza rifiuti, si è appreso della gestione camorristica anche del ciclo di smaltimento della monnezza (che non è detto non continui...). Attribuirle anche l’occupazione e il dirottamento di treni a cura di migliaia di persone, è scoraggiante. E significa, in fondo, farle perfino un regalo. Intendiamoci: magari nemmeno gradito. Infatti che ci si guadagna - se non un mucchio di guai - a trasformare una domenica pomeriggio in un inferno?
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Che fine ha fatto la casta?
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 12:30:41 am
12/9/2008 (7:49)

Che fine ha fatto la casta?
 
Contro gli sprechi della politica prima s'inveiva oggi molto meno

Da Fini alla Gelmini, viaggio in un filone che non tira più.

E una ricerca rivela: solo il 32% dei cittadini è ancora adirato

FEDERICO GEREMICCA


ROMA
Che sarebbe accaduto, un anno fa, se ad esser sorpreso a utilizzare un motoscafo dei vigili del fuoco per fare immersioni in un’area marina super-protetta fosse stato Fausto Bertinotti? I più zelanti, probabilmente, avrebbero calcolato perfino il costo del gasolio consumato e “pagato, naturalmente, da noi contribuenti!”. E se fosse stato il governo passato a riallargare i cordoni della borsa ed a riaprire i voli di Stato a tutti i ministri e perfino ai sottosegretari? Beppe Grillo ci avrebbe forse costruito attorno un altro Vday. Per non chiedersi, ovviamente, che tipo di gogna pubblica sarebbe stata organizzata - appena pochi mesi fa - se si fosse scoperto che un lombardissimo ministro dell’Istruzione che chiede rigore e serietà per la scuola (soprattutto quella al Sud) se ne era andato in Calabria a sostenere - e naturalmente superare - l’esame di abilitazione alla professione di avvocato. «Basta con la Casta!», avremmo strillato.

Adesso non si strilla più. O si strilla assai di meno. E onestamente, tolto qualche aumento di prezzi alla buvette di Montecitorio e la nomina di qualche membro di governo in meno (iniziative, soprattutto la seconda, incidenti e notevoli) non è che i costi della politica siano stati dimezzati o gli episodi di “malcostume da privilegio” spariti. E allora? «Allora - taglia corto don Gianni Baget Bozzo - quel che è accaduto mi pare chiaro: il tema della lotta alla Casta fu sollevato dalla sinistra contro i privilegi, l’enorme potere e le inefficienze della stessa classe politica di sinistra. Il vento dell’antipolitica nacque, infatti, precisamente dalla rottura tra vertice e base, a sinistra: e se vuole sapere la mia opinione, credo che la vittoria di Berlusconi sia stata vissuta come una liberazione - una liberazione dalla Casta, appunto - anche da chi non ha votato per lui».

Giudizio discutibile, naturalmente: ma ci si muove quasi più sul campo della sociologia dei comportamenti di massa che della politica, è molto - dunque - è opinabile, interpretabile. E infatti non è coincidente l’opinione di Ilvo Diamanti, sociologo e politologo di riconosciuta fama: «Guardi, prendersela con la Casta quando al governo c’è Berlusconi, è come prendersela col rumore quando ci sono i fuochi d’artificio». Compagno di banco al liceo di Gian Antonio Stella (autore con Rizzo, appunto, de “La Casta”), aggiunge: «Sono tanti gli elementi che hanno contribuito prima al sorgere del fenomeno e poi all’attuale eclissi. Innanzitutto, io credo, le molte aspettative di cambiamento - non avvenuto - evocate nel quinquennio berlusconiano e poi pagate dal governo Prodi. Il libro di Stella e Rizzo è stata la scintilla: ma perché certi fenomeni esplodano è necessario ci siano condizioni permissive. E queste erano, da una parte, la sfiducia verso l’inefficienza della politica e, dall’altra, il fatto che una Casta di sinistra è considerata davvero non accettabile».

Ma, appunto, la Casta è di sinistra? O comunque: è più di sinistra che di destra? «Non mi sentirei di sostenerlo - dice Eugenio Scalfari -. Però è un fatto che la bufera dell’antipolitica si è scatenata quando al governo c’era il centrosinistra; e un altro fatto è che il governo di allora, facendosi carico di fronteggiare l’indignazione dei cittadini, ha finito quasi inevitabilmente per trasformarsi in oggetto della contestazione. Si è ritrovato ad esser Casta, insomma, chi era al governo in quel momento: nonostante al governo ci fossero persone come Padoa Schioppa, Bersani, Visco e altri che francamente faticherei a definire Casta». Fatto sta che, dopo di allora, il vento s’è posato, l’indignazione è scemata, i giornali hanno smesso di parlarne. «Non è così - replica Scalfari -. I giornali hanno continuato a raccontare. Certo, qualcuno ha tambureggiato di più, qualcun altro di meno. E se nessuno ha più fatto campagna è perché i giornali prima di altri hanno capito che il tema tirava assai di meno».

E si torna, però, al punto di partenza. Perché l’indignazione per le spese della politica, i privilegi e il resto si è attenuata? Una ricerca delle Acli appena resa nota, rivela che oggi “solo” il 32% degli elettori nutre «rabbia» verso la Casta: una percentuale, potremmo dire, quasi fisiologica o comunque assai più bassa di quella che si registrava ancora pochi mesi fa. Perché? Nando Pagnoncelli, della Ipsos, offre una spiegazione molto pragmatica: «I cittadini hanno sempre considerato un male inevitabile i privilegi dei politici: l’esplodere della rabbia è semplicemente il sintomo di un malessere nella relazione, appunto, tra politica e cittadini. Le faccio un esempio: se porto mio figlio da un medico ed egli è scortese, sbrigativo ma guarisce il bambino, io non faccio caso alla sua maleducazione; ma se non lo guarisce, quella maleducazione diventa insopportabile.

Così è per la politica: il cittadino sa da sempre che costa molto ed è luogo di privilegio, ma se funziona e gli risolve i problemi, passa sopra a tutto il resto. Se invece costa molto ed è anche inefficiente, ecco esplodere il malessere. E’ questo - conclude Pagnoncelli - che forse spiega la differenza di clima dopo il passaggio da un governo a un altro: quello di Prodi era diventato sinonimo di liti e immobilismo; l’arrivo di Berlusconi ha portato fino ad ora il segno del “fare”, della concretezza e della novità che, finalmente, c’è qualcuno che decide». E’ davvero così? Giuseppe De Rita, sociologo e tra i fondatori del Censis, ci crede fino a un certo punto. «Le fiammate dell’opinione pubblica - dice - creano un evento, ma mentre lo creano gli scavano la fossa... E’ sempre stato così. Il fenomeno è rientrato, anche se non è detto che non riesploda da qui a qualche tempo. La Casta resta un problema serio, ma la fase è del tutto cambiata: oggi la gente s’appassiona al gossip. Delle foto di Fini in barca nel parco naturale non frega niente a nessuno. Delle foto di Fini che, sempre in barca, si fa carezzare dalla compagna, si è parlato per settimane. Oggi, come sa, si discute della fidanzata di Frattini. In Italia, del resto, è sempre andata così...».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Rivince Berlusconi
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 10:32:40 am
26/9/2008
 
Rivince Berlusconi
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Il primo (Veltroni) dice: «Non mi assumo nessun merito, ma ho cercato di dare una mano in una vicenda gestita malissimo». L’altro (Berlusconi) manda a dire attraverso Cicchitto: «Veltroni non può cambiare le carte in tavola.

Prima ha puntato a far fallire l’operazione Cai, poi ha fatto marcia indietro quando ha capito che l’opinione pubblica era contro di lui». E così, il duello avviato la primavera scorsa, continua: su chi ha vinto e su chi ha perso, su chi è responsabile e su chi non lo è, su chi esiste e su chi è «inesistente», come il premier ebbe a dire proprio di Veltroni (salvo rettifica) qualche giorno fa. Certo, la conclusione è inequivoca: Alitalia agli italiani, disse Berlusconi in campagna elettorale, e Alitalia agli italiani è. Ma i leader di Cgil e Pd - in una partita che ha avuto più protagonisti e più poste in palio - hanno messo in campo un potere d’interdizione del quale il governo sbaglierebbe, per il futuro, a non tenere quantomeno conto.

La conclusione, dicevamo, sembra avvalorare la tesi sostenuta da Berlusconi sin dal primo irrigidimento della Cgil al tavolo della trattativa: pur di dare un colpo al governo - sostenne in sintesi il premier - il Pd è pronto a mandare in rovina l’Alitalia; pur di evitare il successo della cordata italiana da me evocata in campagna elettorale - aggiunse Berlusconi - Veltroni usa la Cgil per far saltare la trattativa. È una lettura plausibile di quanto accaduto? È certamente plausibile, e soprattutto è molto verosimile: ed è del tutto possibile che lo stato maggiore del Pd masticasse assai amaro, nei giorni scorsi, di fronte all’ipotesi che - dopo la soluzione del problema immondizia a Napoli - Silvio Berlusconi realizzasse anche la seconda (e più impegnativa) promessa fatta in campagna elettorale. Ciò detto, però, occorre mettersi d’accordo: perché o Veltroni è il «leader inconsistente» contro il quale il premier punta l’indice, e allora non si capisce da dove tragga il potere di far prima deragliare la trattativa per poi risistemarla sui giusti binari, mettendo faccia a faccia a pranzo Epifani e Colaninno; oppure non è poi così «inconsistente», e il presidente del Consiglio farebbe bene - allora - a rifare i suoi conti.

Infatti, all’ombra della vicenda Alitalia e dell’indubbio successo di immagine centrato dal premier, si sono giocate partite le cui dinamiche non lasciano presagire nulla di buono. È per esempio sembrato evidente il tentativo dell’esecutivo - attraverso ultimatum a ripetizione e annunci che «andremo avanti anche senza la Cgil» - di assestare un colpo al maggior sindacato italiano e perfino all’unità delle tre Confederazioni: occorre ricordare che una cosa simile accadde già nella legislatura 2001-06 (lì oggetto della rottura sindacale fu il cosiddetto «patto per l’Italia») e non si può dire che portò particolarmente bene. Ma altrettanto evidente è apparso l’obiettivo forse principale con il quale Epifani si è seduto al tavolo della trattativa: esercitare una sorta di diritto di veto per dimostrare che - al di là delle ragioni in campo - «senza la Cgil accordi non se ne fanno».

Non si tratta di dinamiche positive, come è evidente. Mettere - o tentare di mettere - la Cgil in un angolo mentre si avvia, per esempio, il confronto sulla riforma della contrattazione, non è certo il modo per aiutare una trattativa considerata da più parti decisiva; a maggior ragione, naturalmente, di fronte alle necessità di ammodernamento e razionalizzazione di cui il Paese ha bisogno, sarebbe dannoso e inspiegabile un arroccamento della Cgil teso a ribadire un potere di veto e interdizione del quale non si sente affatto il bisogno.

Ma più in generale, se è lecito esprimere un auspicio, sarebbe ora di dare un colpo di freno al clima da campagna elettorale continua che rischia di impadronirsi anche di questa legislatura. Piuttosto che a ripicche e rivincite personali, sarebbe meglio se maggioranza e opposizione - e i rispettivi leader innanzitutto - assolvessero al ruolo loro assegnato dagli elettori. Piuttosto che tentare di rendere irrealizzabili le promesse elettorali del premier, insomma, sarebbe certo più utile che Veltroni s’impegnasse alla costruzione di quell’opposizione propositiva e visibile che viene invocata dall’interno del suo stesso partito (tuttora penalizzato da qualunque sondaggio). E il presidente del Consiglio - sparito nel pieno della trattativa Alitalia per una cura rilassante in un castello umbro - farebbe cosa assai più produttiva impegnandosi per arginare la crisi economica in cui versa il Paese, precipitato ormai nel baratro della crescita zero. Si tratta, probabilmente, di auspici banali: ma certe volte, si sa, può servire perfino ripartire proprio dalle cose più banali.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - "Ma la mia non è una ritirata"
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 09:41:38 am
10/10/2008
 
"Ma la mia non è una ritirata"
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Immaginiamo che a quest’ora la luce stia come sempre prendendo d’infilata l’ufficio, facendo brillare gli spessi vetri delle due scrivanie, una delle quali interamente ingombra dei piccoli regali accumulati in questi anni, stendardi, oggettini, libri e gadget: Ferrari, innanzitutto.

Quando nacque Edoardo - il bambino per il quale il sindaco ha deciso di rinunciare a rifare il sindaco - Luca Cordero di Montezemolo inviò delle piccolissime scarpine «rosso Maranello», con tanto di simbolo e di auguri. Immaginiamo siano ancora lì, in bella vista... Ora però che il dado è stato appena tratto, ora che il peso è sceso via giù per lo stomaco, la voce di Sergio Cofferati tradisce infine un’emozione. Racconta: «L’altra sera, come tento di fare tutti i mercoledì, sono scappato da Bologna a Genova per stare con lui e Raffaella almeno qualche ora. L’ho visto, finalmente, muovere il primo passo. Solo uno: poi ha sculettato ed è caduto... Non è giusto che cresca senza padre. E non è giusto che la madre, a 35 anni, sacrifichi il suo lavoro per me che ne ho sessanta...».

E dunque sì, ci si può credere: quella di Sergio Cofferati è una scelta «di carattere strettamente personale», un bimbo e una donna che prevalgono sulla politica, uno stile forse più scandinavo che italiano, Paese dove storie così - a torto o a ragione - sono più che rare, e dove certo qualcuno starà commentando «Cofferati dev’essersi rincoglionito». Il «cinese» - il leader freddo e duro, il Garibaldi dei tre milioni al Circo Massimo - rinuncia a ricandidarsi, invece, esattamente e davvero per le ragioni che dice: ma immaginare che sulla sua scelta «personale» la politica non abbia influito, sarebbe ingenuo. Prima ancora che sbagliato. Per reciproca ammissione, infatti, il sindaco non-bolognese e la città non hanno mai legato. Ed è proprio in questo clima di gelida diffidenza - diffidenza politica, progettuale, per certi versi perfino identitaria - che Sergio Cofferati ha purtroppo dovuto tentare di risolvere i suoi problemi «di carattere personale». Senza riuscirci, naturalmente.

Racconta: «Cominciarono a dire e a scrivere che lasciavo mia moglie perché avevo messo incinta una ragazza: aspettava due gemelli. Sì, certi salotti si divertirono... I gemelli, naturalmente, non nacquero: e allora dissero che la ragazza aveva abortito. Poi si scoprì che la ragazza non era tanto ragazza, che era una professionista con un buon lavoro a Genova e allora cominciarono a dire - e a scrivere - che stavo maneggiando per farla trasferire a Bologna, visto che aspettavamo - e quella volta era vero - anche un bambino. Fui costretto a querelare il “Corriere”, non servì a nulla. Le cattiverie continuarono, con il risultato di rendere impossibile un ricongiungimento con Raffaella e nostro figlio Edoardo. Per altro, ne arrivassero di nuovi professionisti come lei a dare una mano a quelli che già lavorano per i teatri bolognesi...».

A sentirlo così, mentre ragiona con qualche pudore intorno a certi privatissimi fatti suoi, la tentazione è di raccontare questa storia come l’epilogo dello scontro tra due amori: quello sbocciato tra Cofferati, la sua compagna e loro figlio, e quello mai nato tra un bel pezzo della città e il suo «sindaco straniero». Il cinese, naturalmente, ci ha messo come sempre del suo a complicare le cose. Un rapporto difficile con l’«universo Prodi» - che a Bologna conta eccome - generato dal fatto che il Professore si legò al dito la circostanza di esser stato informato della candidatura di Cofferati a cose fatte. Un rapporto pessimo con il mondo della sinistra cosiddetta radicale, uscita dalla giunta comunale sull’onda della coraggiosa (e allora inedita) affermazione del cinese che «la sicurezza non è un valore di destra». Più di un problema con i potentati economici della città, abituati da decenni a parlare col sindaco in dialetto, e in naturale sintonia sul che fare, a chi farlo fare e quanto pagare. E perfino difficoltà con lo stesso Pd, preoccupato dalla «vocazione maggioritaria» invocata da Cofferati per le prossime elezioni comunali: «Al voto ci andiamo da soli, governare con gli ex alleati non è possibile».

Questo amore mai nato ha contato nella rinuncia del sindaco: e lo si capisce, naturalmente, dalle soddisfazioni esplicite e dalle felicità nascoste che hanno fatto seguito all’annuncio del cinese. Ora, certo, il Pd è nei guai. «Ma mai nessuno - sussurra Cofferati - che si sia alzato per dire che su di me si scrivevano e si dicevano della maialate». Eppure, tutto questo sembra essere una pagina davvero già voltata. «Non potevo chiedere a Raffaella di sacrificare il suo lavoro - riprende - né potevo pretendere - per lei, apprezzata a Genova - che venisse comunque qui, magari per farsi dire in strada “ecco la fidanzata del sindaco, ecco la raccomandata”. Ci ho provato a fare il pendolare, in auto avanti e indietro, a volte con Edoardo, che però non può crescere su un’autostrada. Niente da fare, non reggeva. Dovevo scegliere, l’ho fatto: e non si tratta di una ritirata...».

Sarà. Per il sindaco quasi ex, si parla di una candidatura alle europee. Si vedrà, ma al momento è ben altro quel che incombe. «A Bologna si può vincere lo stesso - dice - a condizione che non comincino interminabili balletti e il gruppo dirigente individui subito il suo nome per le primarie». Inutile chiedergli se abbia informato Romano Prodi della decisione di lasciare. «È tanto che non lo sento...», dice. Tanto quanto? «Lo chiamai quando decisi di dare la mia disponibilità a concorrere per un secondo mandato. “Bene - mi disse -. Io me ne sto andando in Africa...”». Ora la grande famiglia del Professore è in fermento, come - del resto - tutto il Pd. Loro, si dice, avrebbero almeno un paio di candidati da mettere in pista. Si vedrà. Certo, sono in tanti a sembrar contenti. Per il sindaco pendolare, in fondo, forse una motivo per imboccare l’autostrada verso Genova con qualche senso di colpa in meno e un po’ di sollievo in più...
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Di piazza in piazza
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2008, 04:48:39 pm
23/10/2008
 
Di piazza in piazza
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Si possono avere le più diverse opinioni critiche, naturalmente, sulla manifestazione nazionale che il Partito democratico ha messo in cantiere per sabato a Roma. Intanto, andrebbe annotato come il suo profilo sia cambiato nelle ultime settimane, e come sia diventata soprattutto la protesta della scuola - che agita le piazze, già collegandole idealmente ai cortei di sabato - la spina dorsale di una iniziativa che era stata lanciata su temi assai diversi.

Si può giudicarla comunque inopportuna, considerati i venti di crisi che soffiano sul Paese; o immaginare che serva più al Pd, impegnato a serrare le file, piuttosto che all’Italia; o ipotizzare, addirittura, che rischi di diventare un pericoloso boomerang per Walter Veltroni, che tanto ci ha investito. Su una cosa, al contrario, si dovrebbe esser tutti d’accordo: che la manifestazione di sabato sia pacifica e che possa svolgersi con tranquillità e senza incidenti. Ma se questo è l’auspicio che dovrebbe accomunare maggioranza e «opposizione responsabile», allora non si può non rilevare come le dichiarazioni rilasciate ieri dal presidente del Consiglio - intorno all’intenzione di far intervenire la polizia nelle università e nelle scuole occupate - non rappresentino certo una iniezione di pacatezza e di serenità.

Infatti, che sia stato o no voluto, il risultato prodotto dall’annuncio di Berlusconi è stato quello di saldare idealmente in un unico fronte i vari movimenti di protesta - a partire da quello studentesco - che inevitabilmente cominciano ad agitare un Paese sull’orlo della recessione. E non a caso, da più parti si è così levata la richiesta che i cortei annunciati per sabato a Roma vengano ora aperti «a tutte le forze antiberlusconiane della società civile» (Flores d’Arcais, direttore di MicroMega): con il risultato, se questo avvenisse, di mutare il senso dell’iniziativa del Pd, trasformandola in una riedizione di qualcosa che questo Paese ha già conosciuto (l’antiberlusconismo pregiudiziale e viscerale), che il centrosinistra ha già pagato e per la quale Silvio Berlusconi incassa da anni lauti dividendi politici.

Non sappiamo, appunto, se è con questa intenzione (schiacciare l’opposizione del Pd su posizioni radicali) che il presidente del Consiglio ha voluto alzare la tensione e i toni della polemica, prima di partire alla volta della Cina. È un fatto, però, che la via tracciata non pare certo fatta per convincere studenti, insegnanti e genitori che la riforma voluta dal ministro Gelmini e approvata ieri per decreto (il ventitreesimo in cinque mesi) e con voto di fiducia (il settimo dall’insediamento del governo) sia la ricetta giusta per risistemare almeno un po’ la scuola italiana. Del resto, da almeno trent’anni non c’è esecutivo - compresi i precedenti governi del Cavaliere - che non si sia puntualmente ritrovato, ad ogni autunno, a dover fare i conti con i disagi e le proteste del mondo universitario e studentesco: ma non si ricorda, a memoria, che la risposta a cortei e occupazioni sia stata l’irruzione di poliziotti in assetto antisommossa in scuole e atenei.

Può darsi che in passato si sia esagerato col lassismo. Ed è fuor di dubbio che vada garantito a studenti e insegnanti il diritto a frequentare scuole e università, checché ne dicano assemblee autogestite e comitati di base. Ma passare da un eccesso all’altro non è mai una buona ricetta. Anche perché si creano precedenti potenzialmente pericolosi. «Che accadrà se e quando a protestare saranno gli operai delle fabbriche in crisi? - ha chiesto ieri Veltroni -. Si manderà la polizia anche lì?». Un ripensamento - e l’approdo ad una linea di maggior equilibrio - è dunque auspicabile, perché anche il decisionismo e il polso fermo hanno un confine che è rischioso oltrepassare. Va bene l’euforia e il senso di sicurezza che arrivano dai sondaggi; ed è certo comprensibile l’ebbrezza da «decisione rapida» prodotta dal legiferare per decreto e con voti di fiducia (efficienza e decisioni veloci continuano ad esser assai apprezzate dai cittadini). Ma una cosa è mandare più poliziotti a Caserta e l’esercito davanti alle discariche napoletane, e altra è «militarizzare» scuole e università. Si convinca, il premier, che quella via - oltre ad esser sbagliata - non gli porterà il consenso non solo degli studenti, ma probabilmente nemmeno quello di docenti e genitori. Senza contare il rischio, naturalmente, di trasformare la manifestazione di sabato in un evento ad alta tensione ed esposto ad ogni provocazione.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ripartenza d'autunno
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2008, 08:49:07 am
26/10/2008
 
Ripartenza d'autunno
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
In preda ad una sorta di sindrome da overdose - come nella settimana che precede un’importante partita di calcio, durante la quale se ne dicono e se ne sentono di tutti i colori - commentatori, osservatori e quella che potremmo definire «società politica», in senso lato, aspettavano questo 25 ottobre a caccia di risposte che non sempre una piazza può offrire. È davvero moderno e riformista, questo Pd, che se ne va in corteo contro il governo in un momento così difficile per il Paese? In rapporto alla forza che mostrerà, la manifestazione cambierà il corso delle cose nel confronto tra maggioranza e opposizione o resterà tutto come prima? E soprattutto: esiste il Pd ed ha un futuro, e quanto è rimasto dell’opposizione in un Paese che regala al governo in carica gradimenti da Bengodi o da sistema autoritario? La folla di ieri al Circo Massimo non poteva dare risposte a tutto, eppure qualcosa l’ha detta. Per esempio che, seppur frastornato dalla sconfitta elettorale, reduce da mesi difficili ed alle prese con divisioni vecchie e nuove, il Pd - benché ondeggiante - è ancora in piedi.

Verrebbe da dire, appunto: esiste. Ed è dimostrazione di non poco conto, se si considera l’affermazione di «inesistenza» indirizzata di recente dal premier al capo dell’opposizione; o se si ricorda che addirittura la sua Festa nazionale - un paio di mesi fa - fu raccontata come la Festa del «partito che non c’è». Il Pd, invece, ieri ha dimostrato di esserci: e per quanto se ne possa ricavare da una manifestazione (ed a volte se ne può ricavare tanto) non sembra neppure quella forza facinorosa e irresponsabile che il premier gradirebbe come opposizione. Ha un mucchio di problemi - ne parleremo -, sembra passare il tempo a guardarsi l’ombelico, fatica a strutturarsi ma insomma - a giudicare dai cori e dagli striscioni con i quali ha sfilato ieri - è imputabile forse di scarsa grinta, non di un eccesso di aggressività.

Dunque, l’esistenza in vita del Pd - ammesso che questo fosse un argomento serio - è problema risolto: e non sarebbe male se anche il presidente del Consiglio ne tenesse conto (considerato che alcune sue recenti affermazioni potrebbero davvero aver perfino aiutato - lo ammettono gli stessi organizzatori - la riuscita dei cortei di ieri). Il problema, naturalmente, è che cosa farsene di questa esistenza in vita: e cioè se e come rimodulare pratica e strategia di un’opposizione che continua a non convincere la parte largamente maggioritaria del Paese. Dai cori e dagli striscioni dipanati ieri non poteva certo giungere l’indicazione di una via. A questo doveva pensarci - e del resto era quel che gli avevano chiesto altri leader, da D’Alema a Rutelli - il discorso del segretario: che non ha però introdotto novità significative rispetto alla linea fin qui seguita. Nella sostanza: dopo settimane di polemiche sempre più aspre (e da alcuni spiegate addirittura con la necessità di tener alta la tensione proprio in vista della manifestazione) ieri da Veltroni ci si attendeva un segnale chiaro soprattutto in questa direzione.

L’attesa più giustificata, onestamente, non era tanto intorno alla presunta «proposta alternativa» che sarebbe uscita dal Circo Massimo, quanto - piuttosto - quella di un messaggio chiaro alla «società politica» e al Paese: da oggi tentiamo una ripresa del confronto con Berlusconi, considerata l’emergenza e tutto il resto; oppure un altrettanto netto no al dialogo, in nome e alla luce dei primi mesi del governo del Cavaliere. Se non ci siamo persi passaggi cruciali del discorso di Veltroni, né l’uno né l’altro. Tutto più o meno come prima. E però prima non è che fosse un granché per il Pd, con problemi di alleanze (Di Pietro), con orizzonti che preoccupano (l’Abruzzo, poi le amministrative e le Europee), con problemi perfino circa il carattere dell’opposizione da condurre e la propria natura identitaria.

Passato il 25 ottobre, insomma, da questo punto di vista poco o nulla sembra cambiato. E le domande restano quelle di prima. Ricucire con Di Pietro oppure no? Meglio lui, l’Udc o addirittura il ritornare tutti assieme? E con Berlusconi che si fa, si prova a discutere ora che si profila un possibile disastro o si sceglie l’Aventino? Alcuni di questi interrogativi hanno interesse, diciamo la verità, soprattutto per il Pd e i propri militanti; altri riguardano - invece - il clima, l’equilibrio e il futuro prossimo del Paese. Le risposte, dunque, sono importanti. Insomma: ieri il Pd ha dimostrato di esser vivo; da oggi spieghi meglio al Paese che cosa vuol fare, per andare dove e assieme a chi.

 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Eccessi muscolari
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2008, 11:15:33 am
30/10/2008
 
Eccessi muscolari
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Che il confronto politico stesse scivolando lungo un insidioso piano inclinato, era sensazione diffusa ormai da settimane. La giornata di ieri - con l’ennesimo braccio di ferro al Senato sul decreto Gelmini e gli scontri tra studenti in piazza Navona - ha però rivelato come la situazione stia precipitando con una rapidità che non può non preoccupare. È possibile - naturalmente - che non sia già troppo tardi per trovare una via che riapra uno straccio di confronto tra governo e opposizione, e tiri fuori il Paese dal suo ultimo paradosso: il massimo della divisione sociale e politica (con punte di astio personale che rinviano direttamente alla passata, e non rimpianta, legislatura) proprio nel momento in cui vi sarebbe bisogno del massimo della coesione.

Il governo perde consensi ed è rapidamente sceso sotto la soglia del 50%; l’opposizione non ne guadagna, e anzi ne raccoglie sempre meno; il Paese appare preoccupato e diviso a metà: e in questo quadro, fatto di sfiducia crescente e confusione, i cittadini attendono gli effetti di una crisi economica che renderà nervoso e stentato il Natale di molte famiglie italiane.

Verrebbe da chiedersi com’è stato possibile e cosa sia successo: se non fosse che quello che accade (non sono trascorsi ancora sei mesi dall’insediamento del governo di Silvio Berlusconi) è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Non vorremmo sbagliare: ma la sensazione è che l’esecutivo prima di tutto - e poi il Paese nel suo complesso - inizino a pagare il conto di una politica di governo «muscolare» che in Italia, del resto, non ha portato mai bene a nessuno. Quello che è stato vissuto come un «attacco» generalizzato a intere categorie - dagli impiegati fannulloni ai giudici da far passare attraverso i tornelli, dai docenti universitari trasformati tutti in «baroni» a studenti e genitori definiti ora facinorosi ora vittime di strumentalizzazioni - ha seminato ansia e preoccupazione in un momento in cui era ben altro ciò di cui si sentiva il bisogno. La fase del «decisionismo produttivo» (quello della rimozione dell’immondizia a Napoli e dell’invio di militari nelle zone ad alta densità camorrista) sembra insomma alle spalle, sostituito da una durezza apparsa a molti degna di miglior causa. Non a caso, tanto sull’operato del ministro Gelmini quanto su quello del professor Brunetta - che rischia di surclassare in popolarità l’indimenticato Visco - cominciano ad addensarsi perplessità all’interno della stessa maggioranza.

E se questo è lo stato d’animo che pare crescere nel Paese, la situazione è ancor peggio a livello di rapporti tra esecutivo e opposizione. Ventitré decreti in poco più di cinque mesi (ne era annunciato addirittura uno per punire chi sporca le città) e sette voti di fiducia, non hanno certo favorito quella che si è soliti chiamare «dialettica parlamentare». Né si può dire che vada meglio per quel che riguarda i rapporti tra il presidente del Consiglio e il Capo dello Stato, destinatario di una brusca risposta per aver chiesto, un paio di giorni fa, che la nuova legge elettorale europea venisse approvata con ampio consenso e garantisse rappresentanza anche alle forze minori. Ieri, il premier - di fronte a obiezioni e resistenze provenienti dalle file della sua stessa maggioranza - ha per la prima volta deposto le armi: senza un’ampia maggioranza, si voterà con la legge che c’è. È una decisione positiva: perché è sempre meglio non dare battaglia piuttosto che darne di sbagliate o di perdenti.

Che la decisione di Berlusconi preluda a una sorta di correzione di rotta, dopo l’ebbrezza da decisionismo e consensi in cresciuta, potranno però dirlo solo le prossime mosse del premier. Infatti, al di là dello spirito ondivago e spesso pregiudiziale dell’opposizione, è sulle spalle di chi governa che grava il dovere dell’ascolto e della mediazione. Berlusconi più di altri dovrebbe sapere che guida un Paese che, per esempio, invoca e ama le decisioni forti solo quando riguardano gli altri: oggi la reazione del mondo della scuola, e ieri la rivolta di molte categorie di fronte alle liberalizzazioni di Bersani, dovrebbero cancellare ogni dubbio in proposito. Lui stesso, del resto - nel 1994, agli esordi come uomo di governo - pagò con un’inattesa defenestrazione un eccesso di disinvoltura e di decisioni solitarie. Ragione in più per non rifare lo stesso errore, provare a tornare al clima d’inizio legislatura e preparare il Paese a fronteggiare una crisi economica certo pesante e dagli effetti ancora oggi non del tutto prevedibili.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Buona politica?
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2008, 11:24:59 am
20/11/2008
 
Buona politica?
 
FEDERICO GEREMICCA

 
In qualcuno ha suscitato perfino sentimenti di tenerezza l’entusiasmo sincero col quale Sergio Zavoli - grande giornalista mai calatosi appieno nei panni del politico - ha commentato la possibilità che proprio il suo nome possa finalmente mettere la parola fine allo spettacolo deprimente andato in scena per mesi intorno all’elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai: «Sono soddisfatto per la politica - ha fatto sapere Zavoli -. È essa stessa, stavolta, a risolvere un problema... È un epilogo che non alimenta il discredito, che non permette un altro tiro al bersaglio contro il Parlamento». Ci sarebbe da esser tutti soddisfatti, se le cose stessero così. Ma purtroppo, in tutta evidenza, non sembrano affatto stare così.

Intanto perché l’epilogo ancora non c’è, Riccardo Villari - presidente eletto - resiste al suo posto di presidente della Vigilanza e l’interrogativo «si dimette, non si dimette» è tutt’altro che risolto. E poi perché la politica centra un buon risultato - se lo centra - quasi per stato di necessità, per sfinimento e dopo avervi resistito per settimane e settimane. Si fosse puntato su Sergio Zavoli volontariamente e dall’inizio, molte cose ci sarebbero state risparmiate.

Ci sarebbero stati risparmiati insulti e «pizzini», minacce e decine di votazioni andate a vuoto. Fu fatta, invece, una scelta discutibile e diversa: e quella scelta si è rivelata, soprattutto per Walter Veltroni, moltiplicatrice di tanti guai.

Infatti, non può esser stato che un malinteso senso della lealtà a spingere il leader del Pd a sostenere fino all’ultimo - e con molti dissensi all’interno del suo stesso partito - la candidatura di Leoluca Orlando alla guida della Commissione di vigilanza. Altre ragioni, onestamente, non se ne vedono: né la competenza specifica, né un profilo «di garanzia», né lo stile stesso del candidato, persona certo onesta ma arrivata - nel pieno della polemica intorno alla sua elezione - a paragonare il premier a un dittatore argentino. A dirla tutta, in molte occasioni si è avuta addirittura la sensazione che Antonio Di Pietro tenesse in pista Orlando più per farne una «vittima» da utilizzare propagandisticamente contro Berlusconi (e chissà: domani contro Veltroni) che nella speranza che venisse davvero eletto. Per altro, l’escalation polemica degli ultimi giorni - con il premier fatto oggetto di ogni sorta di attacco - sembra esser lì a dimostrarlo.

Del resto, anche l’insistenza veltroniana a tener duro sul nome dell’ex sindaco di Palermo è apparsa in certi momenti difficilmente comprensibile. Ben presto, infatti, la candidatura di Orlando è apparsa a tutti figlia di un’altra stagione politica, eredità di un «patto» (quello tra Pd e Italia dei Valori) mandato in frantumi dallo stesso Di Pietro, prima con il venir meno all’impegno della formazione di gruppi parlamentari comuni e poi addirittura con polemiche sgradevoli all’indirizzo dello stesso Pd. Nel volgere di qualche settimana, insomma, il «partito del giudice» si è trasformato - per il Pd - da alleato al più insidioso dei competitori. E in fondo, se c’è una morale politica da trarre dall’ormai noto episodio del bigliettino passato da Nicola Latorre a Italo Bocchino durante una puntata di Omnibus (La7) è proprio questa: dovendo scegliere nel pieno di una polemica chi aiutare tra un esponente dell’Italia dei Valori (Donati) e un rappresentante della maggioranza di governo (Bocchino), il senatore Latorre non ha avuto dubbi. E ha dato una mano al deputato del Pdl.

È per tutto questo che l’entusiasmo di Sergio Zavoli («Ha vinto la politica») ha suscitato qualche tenerezza. Ha vinto (ammesso che finisca così) il male minore, ha vinto l’uscita d’emergenza da una situazione fattasi - per il Pd - di difficilissima gestione. Difficile, al contrario, sostenere che abbia vinto la politica, scrivendo finalmente una bella pagina. E ancor più difficile è affermarlo a bocce non ancora ferme: la partita infatti non è chiusa, visto che Riccardo Villari tiene stretta la sua presidenza contro ogni logica politica e in virtù del richiamo - onestamente poco credibile - a presunte «responsabilità istituzionali». Ecco, se la buona politica ha ancora spazi di agibilità, intervenga su questo, sull’epilogo, convincendo Villari che era stato tutto uno scherzo. Certo non potrà dire - come auspica Zavoli - di aver vinto: ma di aver contribuito a una qualche accettabile conclusione, questo almeno sì.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Pd, la guerra dei trent'anni
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2008, 02:18:52 pm
24/11/2008
 
Pd, la guerra dei trent'anni
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Il moltiplicarsi dell’insofferenza ha ormai quasi l’intensità del rigetto. E l’esasperazione comincia a tracimare in invettive sanamente prepolitiche: «La mia decisione è figlia di una delusione profonda».

Lo ha scritto l’altro giorno Irene Tinagli, 34 anni e una cattedra a Pittsburgh, annunciando le sue dimissioni dalla Direzione del Pd: «Non sarebbe male se Veltroni e D’Alema si dimettessero: mi pare che abbiano fatto più danni della grandine». Esagerata. Ma Piero Fassino (e proprio in un’intervista a La Stampa) pur non arrivando a tanto, ha fatto sapere che anche lui non ne può più. «Il continuo duello tra Orazi e Curiazi serve solo a sfibrare il partito e la nostra gente...». Già, il Partito. Che quei due, per altro, non possono considerare roba loro: «Ai sostenitori di Veltroni e D’Alema che se le danno di santa ragione appena possono - ha avvertito Europa, un tempo quotidiano della Margherita - qualcuno dovrebbe spiegare che i mobili di casa non li hanno portati solo loro. Dunque sfasciarli non è loro diritto...».

E’ come se d’improvviso, quasi a cercare una risposta alla grandinata di guai che ha ripreso a venir giù, il cerchio avesse quadrato: è la Guerra dei Trent’anni tra Veltroni e D’Alema che sta uccidendo il futuro del Pd. D’incanto, tutto sembra chiaro a tutti. O forse, d’incanto, hanno semplicemente trovato il coraggio di dirlo. Perfino Enrico Letta se n’è convinto. E l’ha comunicato: naturalmente con la prudenza dovuta a un potenziale successore. «Se tutto il partito dovesse dividersi tra dalemiani e veltroniani - ha spiegato al Corriere - questo rischierebbe di far passare il Pd per la mera continuazione dei Ds: e l’intero progetto fallirebbe». Fallirebbe l’operazione Partito Democratico, insomma. Con le immaginabili conseguenze: compreso il percorso a ritroso di cattolici e moderati, che probabilmente tornerebbero nei luoghi da dove erano partiti, lasciando a Walter, a Massimo e ai loro seguaci il piacere di concludere con calma la carneficina.

Non sta scritto da nessuna parte, naturalmente, che le cose stiano davvero così: e cioè che i travagli del giovane Pd nascano realmente da lì. In fondo, però, non è importante: perché il guaio - per Walter e Massimo - è che il partito va convincendosi che sia proprio così. Rosy Bindi - è noto - è una che non ha peli sulla lingua: e la sua analisi è oggettivamente spietata. «Il nostro problema non è che c’è questa faida: il nostro problema è che c’è soltanto questa. Il Pd non vive scontri autoctoni, legati al partito che siamo e ai problemi che abbiamo da quando siamo nati. Si litiga con la testa voltata all’indietro, D’Alema contro Veltroni, appunto, rivincite e vendette che vengono dal passato. Ma le pare, dico per dire, che noi dovremmo fare un congresso perché lo chiedono i dalemiani contro i veltroniani? Ed è vero che Veltroni non dà spazi, non coinvolge, ci fa apprendere le cose dai giornali: ma le sembra che si possa reagire facendosi la propria televisione, la propria associazione, il proprio giornale, i propri candidati alle segreterie di questo o di quell’altro? Sono dinamiche da “Cosa 4”, da evoluzione post-diessina. Ma guardi che se stiamo parlando di questo, loro devono sapere che molti se ne andranno».

Stiamo parlando di questo? E’ dunque davvero la Guerra dei Trent’anni che, dopo aver insanguinato i territori del Pds prima e dei Ds fino a un anno fa, sta ora fiaccando anche il Pd? «Vediamo il Pd preda di una coazione a ripetere, sempre gli stessi gesti da parte degli stessi attori calati nelle medesime parti - accusa Europa -. Ma noi non siamo arrivati a fare il Pd per assistere all’infinito replay dello stesso film...». Basta, dunque, con Walter e Massimo. Basta con una faida della quale non si ricorda più nemmeno l’origine. Basta con quei due. L’insofferenza cresce, e rischia davvero di trasformarsi in rigetto. Perfino Claudio Velardi - stratega del dalemismo vincente - riconosce che è così: «Al di là degli opportunismi e delle tatticucce del gruppo dirigente - dice - è il partito che non ne può più. Ieri un importante dirigente periferico di una importante regione, mi ha fatto una battuta che voleva essere ironica, ed è invece drammatica: “Quei due, Walter e Massimo, finiranno col tirarsi le dentiere”...».

C’è naturalmente chi sostiene che la loro sia una guerra finta. O meglio: pronta a diventare armistizio in nome dell’opportunità. «Si sono affrontati in campo aperto - ricordava l’altro giorno Andrea Romano su Il Riformista - in un’unica occasione, nell’ormai lontanissimo 1994. Poi hanno scelto il metodo della reciproca e alternata investitura, come regime di convivenza e convenienza». E’ così? La storia dei partiti nei quali hanno militato, dice che è certamente così. Il che non è affatto rassicurante per il futuro del Pd, considerato che sia il Pci, che il Pds e infine i Ds si sono estinti senza riuscire a vedere la fine dell’estenuante duello. Anche oggi, in verità, non si vede via d’uscita, non si scorge in giro chi abbia voglia e qualità per impugnare la spada e liberare il Pd dall’incantesimo.

Dunque, il basta con Walter e Massimo rischia di rimanere quel che è: un sussurro a labbra semichiuse. E dunque, non è soltanto colpa loro se la faccenda resta al punto in cui è. «E’ colpa anche dei cosiddetti giovani dirigenti, dei leoncini in ascesa che prima di lanciarsi nell’agone cercano la protezione di un qualche dirigente grande - annota Velardi -. Ci vuole che venga fuori qualcuno con un progetto e con tanto coraggio: perché è chiaro che appena li sfiderà, Veltroni e D’Alema cercheranno di liquidarlo. Ci vorrebbe uno come Umberto Bossi, l’ultimo leader, uno che vent’anni fa cominciò a battere le sue valli radicando il partito intorno a un progetto. Ecco, io credo che o va così, oppure niente. Perché dei giovani leader cresciuti come polli in batteria, Walter e Massimo ne fanno polpette». Come ieri. O come anche l’altroieri...
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Veltroni e la questione morale
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:18:26 pm
1/12/2008
 
Veltroni e la questione morale
 
FRANCESCO GEREMICCA

 
Mentre la polemica intorno all’aumento dell’Iva per le pay-tv spacca il mondo politico, alle prese con l’ennesimo caso di conflitto d’interessi del premier, in arrivo dalla periferia nuvoloni scurissimi s’addensano sul maggior partito d’opposizione.
La drammatica vicenda dell’assessore napoletano Nugnes, offrendo l’occasione di rielencare i più recenti casi di malapolitica e corruzione nella gestione del potere locale, conferma un dato non contestabile.

La predisposizione a ruberie e malaffare attraversa ormai orizzontalmente entrambi gli schieramenti, così da aver tolto alla sinistra (e alla destra del tempo che fu) il rivendicato e presunto monopolio in materia di «questione morale». Non è una gran scoperta - si osserverà - ed è probabile sia così. Il problema è, però, che c’è chi ancora fatica a trarne tutte le conseguenze.

L’inchiesta di Napoli (e un’altra, ancor più pesante, che sarebbe sul punto di esser chiusa nel capoluogo campano) per il Pd rappresenta solo l’ultima pietra di un «rosario» di scandali giudiziari che sta flagellando amministrazioni e partito, da Nord a Sud. Genova con l’indagine sulle mense, l’Abruzzo con l’arresto di Del Turco, Firenze con due assessori nel mirino (uno dei quali, Graziano Cioni, in corsa per il dopo Domenici), Crotone con le indagini su politica e ‘ndrangheta sono i casi più noti di questa catena di guai. Ma in Comuni più piccoli, quelli che di rado conquistano le prime pagine dei giornali, non è che le cose vadano diversamente. E così, se ce ne fosse bisogno, le vicende degli ultimi mesi testimoniano che davvero la «questione morale» non ha più paladini immacolati. Dovrebbe discenderne che sulla «questione morale» è impossibile per chiunque costruire una politica, e tentare di raccogliere consensi.

Non è un bene, naturalmente. Però è un fatto. Che fa a pugni, talvolta, con certe presunzioni di «diversità» che ancora affollano, per esempio, il cosiddetto «immaginario veltroniano». Non è qui tanto in causa il frequente richiamo a certo berlinguerismo di maniera, oppure l’evocare il tema come aspirazione e meta cui tendere (l’onestà dovrebbe pur essere un prerequisito nella selezione delle classi dirigenti!): è in discussione, più concretamente, il riproporre oggi - facendone discendere opzioni politiche - un’attuale, presunta diversità. Qualcuno forse ricorderà quale fu lo slogan che segnò (un mese fa) la grande manifestazione del Circo Massimo, a cui centinaia di migliaia di militanti accorsero alla ricerca di indicazioni politiche che dessero certezze dopo le polemiche dell’estate: «esiste un’altra Italia» (sottinteso: quella onesta e pulita del Pd). E secondo molti è ancora in questa fascinazione da «questione morale», da partito «diverso», che va cercata la chiave della discussa e disastrosa alleanza (col senno di prima e anche con quello di poi...) con l’Italia dei Valori di Tonino Di Pietro.

In verità, la «via etica» alla conquista del governo del Paese avrebbe dovuto essere definitivamente accantonata già prima della deprimente sequela di scandali e indagini di questi mesi: essendo stata proprio la presunta «superiorità morale» nei confronti dell’avversario politico il cemento di quell’antiberlusconismo così criticato da Walter Veltroni. A maggior ragione dovrebbe esserlo dunque adesso, nonostante le ripetute tentazioni offerte da quel che a volte accade nello schieramento avverso. Inoltre, è noto che la micidiale logica cosiddetta «giustizialista» può comportare prezzi alti e, soprattutto, non ammette cedimenti e deviazioni. Per esser chiari: nessuno può oggi contestare al leader del Pd i comportamenti (a volte risalenti al passato) di questo o quell’amministratore locale, ma certo gli si può chiedere di esser conseguente.

In questo senso, anche se passata quasi sotto silenzio, la decisione del leader democratico di permettere a Graziano Cioni - nonostante tutto - di partecipare alle primarie per la scelta del candidato sindaco a Firenze è incomprensibile. Il garantismo, qui, c’entra poco. La scelta, infatti, è discutibile e contraddittoria non solo sul piano etico (che pure dovrebbe avere un rilievo), ma anche su quello politico. Che segnale manda ai cittadini e che forza avrebbe - in caso di vittoria alle primarie - la candidatura di Cioni, indagato per corruzione, a sindaco di Firenze? Insomma, di fronte alla catena di scandali che va in scena in provincia, nessuno può chiedere a Veltroni di rispondere di scelte passate: ma di esser coerente con le affermazioni di oggi, questo almeno sì.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Pd, la sfida è adesso
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2008, 03:16:11 pm
9/12/2008
 
Pd, la sfida è adesso
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Da una parte l’incudine di una questione morale salita agli onori della cronaca, dall’altra il martello berlusconiano di una riforma della giustizia brandita come una spada.

In mezzo c’è il Pd che cerca di mettere ordine nell’agenda delle sue emergenze politiche e fatica a trovare il bandolo della matassa. Tale difficoltà non è del resto incomprensibile, se solo si pensa che la settimana scorsa si era aperta con l’ennesima polemica tra veltroniani e dalemiani e si era poi invece chiusa con le immagini del sindaco di Firenze incatenato a un palo per protesta. E prima c’erano stati la querelle sulla collocazione europea del partito, l’interminabile confronto su congresso sì-congresso no, la lacerante discussione intorno alla necessità (o all’inopportunità) di un «Pd del Nord», e chi più ne ha più ne metta. Un avvitamento polemico che stenderebbe un partito forte e in salute come un toro: e dunque figuriamoci una formazione politica che ha avuto il suo battesimo elettorale appena otto mesi fa ed è ancora alla ricerca di una più netta identità... Il fatto, però, è che nulla - in verità - lascia presagire che la settimana appena aperta sarà meno avara di dispiaceri per Walter Veltroni e il suo partito.

Il Pd è alla vigilia di una sconfitta elettorale (quella abruzzese) che, per quanto largamente scontata e attesa, rischia di acuire ulteriormente lo stato di tensione tra i democratici. È prevedibile che anche dal voto di domenica in Abruzzo qualcuno trarrà motivi di polemica (per la scarsa difesa di Del Turco, magari, o per aver deciso di far correre il Pd dietro le insegne di un candidato-presidente dipietrista...), aggiungendo così confusione a confusione. Ma soprattutto dalla partita che si va aprendo sulla riforma della giustizia rischiano di arrivare i guai maggiori. Accettare di affrontare oggi un confronto sul più antico e tradizionale terreno di scontro col Cavaliere - la giustizia, appunto - espone infatti il Pd a due rischi. Il primo è che l’apertura al dialogo possa essere interpretata come una sorta di «vendetta» nei confronti della magistratura, che mette sotto inchiesta i suoi amministratori dalla Calabria fino alla Liguria; il secondo è di lasciare ad Antonio Di Pietro l’esclusiva dell’«antiberlusconismo giustizialista»: una miscela che con il riemergere di vere o presunte questioni morali potrebbe tornare a esercitare un qualche fascino su settori non proprio marginali dell’elettorato.

Si tratta di rischi che però, giunti al punto cui sono arrivate le tensioni anche all’interno della magistratura, il Pd ha l’obbligo di correre. Per troppi anni il vecchio Pci ha pagato - in termini di evoluzione riformista - il dogma secondo il quale la propria linea politica non doveva mai lasciar spazi occupabili alla propria sinistra: sarebbe davvero paradossale se il Pd - che è naturalmente tutt’altra cosa dal Pci - si ponesse oggi un problema simile, e per di più nei confronti del partito personale di Antonio Di Pietro. Del resto, la richiesta di una riforma del funzionamento della giustizia in Italia arriva ormai da settori sempre più ampi della stessa magistratura; per non parlare, naturalmente, di quanto la necessità di un intervento sia reclamata - e non da oggi - da chiunque abbia la sventura di metter piede in un’aula di tribunale.

Dunque, tra le tante cose che potranno aiutare il Pd di Walter Veltroni a uscire dal guado, forse c’è anche questo: il superamento della barriera che ha fin qui reso impossibile un confronto sulla giustizia, ogni volta che a proporlo è stato Silvio Berlusconi. Ma intendiamo un confronto, certo: non un diktat, un decreto da votare, come è accaduto per la manovra prima e per il pacchetto anti-crisi poi. In questo caso, rifiuti e ritirate sarebbero inevitabili, oltre che comprensibili. E la possibilità di un dialogo vero non potrebbe che sciogliersi di nuovo come neve al sole.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Pd alla prova nell’isola felice
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2008, 05:47:12 pm
15/12/2008 (7:39) - REPORTAGE

Pd alla prova nell’isola felice
 
Il "modello Bologna" cerca il dopo-Cofferati restando fuori dalle bufere giudiziarie


FEDERICO GEREMICCA


A metà mattinata Sergio Cofferati passeggia con la compagna e i suoceri sotto i portici del centro, ed eccola lì la ragione del gran ritiro, l’oggetto della «scelta di vita».

La causa scatenante senza la quale molte cose, anche in questo gelido mattino, sarebbero assai diverse: Edoardo Cofferati dorme tranquillo nel passeggino, isolato dal resto del mondo da un cupolino di cellophane che lo difende dal freddo. Il papà-sindaco spinge e spinge: e intanto nei quartieri della città migliaia di bolognesi vanno alle urne allestite dal Pd per scegliere chi dovrà provare a raccoglierne il testimone. Il «Cinese» lascia, come è noto: e allora primarie e avanti un altro. Una grana in più - l’abbandono, non le primarie - per un Pd che a Roma è ha già mille gatte da pelare.

E però vieni a Bologna per occuparti dell’inizio della lunga successione e osservi che, per quanti problemi possano avere, per i democrats emiliani sono in fondo settimane, purtroppo, quasi di rivincita. Se non di soddisfazione. Infatti, a rimaner fuori dalla bufera che sta scuotendo il partito da Napoli a Firenze, dall’Abruzzo fin su a Genova, alla fine sono proprio loro, quelli del «modello emiliano»: ferrea organizzazione di governo locale da sempre sospettata, eppur snobbata. E non è per niente facile rispondere alla domanda su come mai proprio qui - nel cuore del cuore dell’antico e solidissimo «sistema di potere» della sinistra italiana (e di certo cattolicesimo colto e impegnato) - proprio qui, dicevamo, il marcio non abbia mai attecchito.

Oppure, se lo ha fatto, non si è mai rivelato attraverso episodi che abbiano dato luogo ad una qualche, ipotetica «questione morale». Una soddisfazione. Purtroppo. Soprattutto per le migliaia di militanti e amministratori che provengono dal Pci e dalle sue evoluzioni: fino a non troppi anni fa trattati da Roma più o meno come quelli «che portano i voti e poiché governano mettono i soldi», tanto al resto, alla politica, ci pensiamo noi. E dunque, mentre altrove scattano le manette e si vive nell’incubo di nuovi avvisi di garanzia, questa faccenda magari occorrerebbe rivederla un po’. Il «Cinese» spinge e dice: «Sì, è vero, qui la sinistra governa da sempre e l’alternanza è scarsa: ma è la passione politica che ha fatto da antidoto. Il discutere, il non delegare: ma soprattutto il decidere, il fare. Partecipare, in fondo, vuol dire esserci.

Ed esserci significa controllare...». Una tesi non diversa da quella che espone Salvatore Caronna, giovane segretario in ascesa del Pd emiliano: «Qui la politica è forte, non screditata e anzi rispettata: perché fa le cose ed è efficiente, che è quello che chiede la gente. Una politica forte, naturalmente, significa una politica autonoma: capace di dire i suoi sì e i suoi no, e non costretta - per sostenersi - a far patti col potente di turno, che sia un costruttore o un imprenditore di quelli che vivono di commesse pubbliche. Dove i partiti collassano, al contrario - conclude Caronna - aggrapparsi a questo o quello diventa quasi una necessità: con tutto quel che ne consegue. Ma qui il malaffare è praticamente impossibile: la gente partecipa, controlla e basta uno starnuto che si fa un’assemblea...».

La gente partecipa. Quella del Pd, per intanto, fa la fila ai seggi delle primarie e sceglie il suo candidato. Romano Prodi - riferimento di una élite cattolica capace in città di brandire l’etica come una spada - fa la fila e vota, sperando - si immagina - che prevalga Flavio Delbono, uno dei suoi, quasi un suo allievo al Dipartimento di economia. E’ possibile - se Delbono vince le primarie e poi magari le elezioni - che il Professore, per la prima volta, «si prenda Bologna», come borbotta un ex diessino. Anche se le cose, in fondo, non starebbero così. Molti prodiani bolognesi hanno infatti sostenuto la corsa di Gianfranco Pasquino, politologo irrequieto, che alla fine ha deciso di ritirarsi e ora pensa a liste civiche e non vota alle primarie «perché non posso assumere l’impegno di scegliere il Pd alle elezioni del 2009». «Sì, lo so che si dice in giro che il “sistema emiliano” è così soffocante da aver assorbito anche la magistratura: e da qui, niente indagati e niente inchieste - ammette Augusto Barbera, costituzionalista del giro del “Mulino” - però non è così. Qui non c’è certo una magistratura compiacente, eppure la corruzione non esiste.

La mia spiegazione è semplice: le strutture del vecchio Pci sono ancora tutte in piedi, nella politica, nell’economia, nella cooperazione. E questo, naturalmente, è un bene e un male assieme. Un bene perché fino ad ora ha garantito quello che un tempo si chiamava buongoverno, cioè efficienza e onestà; un male perché, a causa di questo radicamento, il nuovo partito, il Pd, fatica a decollare. Ma del resto anche noi, qui, ci poniamo di tanto in tanto l’interrogativo se l’Emilia sia così com’è per aver avuto un Pci tanto forte o se il Pci sia stato così forte per il grande senso civico emiliano...». In fondo, che sia l’una o che sia l’altra, è stata per entrambi una gran fortuna. A differenza del «modello Roma», delle «primavere» siciliane e del «Rinascimento napoletano», infatti, qui il sistema non si è sgretolato. «E come poteva, dai... Siam tutti amici, siam sempre gli stessi - ironizza Pierferdinando Casini sull’Eurostar che lo riporta a Roma -. Ieri sera sono stato alla solita cena per gli auguri di Natale a casa di un amico, un importante imprenditore bolognese. C’eravamo tutti, come tutti gli anni. C’era pure Romano, naturalmente... I soggetti sono sempre uguali, la sinistra che governa, noi all’opposizione, l’Unipol, le coop, qualche industriale... Conflittualità quasi mai: siamo al livello massimo del vecchio consociativismo. Ma quello buono, neh!».

E Prodi come ci si trova? «Romano? Sarà anche amareggiato per cose sue, ma l’ho visto bene. Tornava da Pechino. “Un incontro lunghissimo col premier cinese, che è uno degli uomini più potenti al mondo; poi m’hanno dato anche un premio e sui telegiornali nemmeno un secondo”, si lamentava». E lei, presidente, l’ha consolato? «Consolarlo? E con chi te la vuoi prendere - gli ho detto - che Riotta al TgUno ce l’hai messo tu!». Ecco, basta un treno verso Roma ed il consociativismo emiliano non esiste più...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La spina nel fianco
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2008, 11:19:17 am
16/12/2008
 
La spina nel fianco
 

FEDERICO GEREMICCA

 
In definitiva, punto percentuale in più, punto percentuale in meno, è andata come doveva andare. Ed è andata come doveva andare sotto ogni punto di vista. Il voto abruzzese, infatti, non ha riservato sorprese: nemmeno sul fronte, certamente assai allarmante, dell’astensionismo (che sarebbe ora di cominciare a chiamare «voto d’astensione», per la chiara indicazione politica che ormai contiene). Nella regione ha di fatto votato un cittadino su due: e, francamente, ogni sorpresa in proposito è da considerare ipocrita, se non menzognera.

Nel giro di un solo autunno, infatti, gli elettori abruzzesi hanno visto finire in manette la giunta che li governava, hanno assistito alla deprimente rottura tra il governatore Del Turco e il partito che lo aveva espresso (il Pd), per arrivare all’arresto, appena chiuse le urne, del sindaco di Pescara.

Fino a giungere allo spettacolo non edificante del candidato presidente del centrodestra che sollecita curriculum e promette lavoro in cambio di un voto a suo favore. Che in tale scenario - e nonostante la neve e le intemperie - un abruzzese su due si sia scomodato per andare a votare, è quasi un miracolo: altro che «sorpresa per l’alto livello di astensione».

A grandi linee, e a spoglio delle schede non ancora ultimato, quel che è accaduto può esser sintetizzato più o meno così: Gianni Chiodi, candidato del centrodestra, è il nuovo presidente della Regione, ma il vero vincitore si chiama Antonio Di Pietro, che ha raddoppiato i propri voti rispetto alle politiche di otto mesi fa, moltiplicandoli addirittura per cinque o per sei in confronto alle elezioni regionali di tre anni fa. Il partito democratico perde un terzo dei voti che aveva (sia rispetto alle politiche di aprile che alla consultazione del 2005), il Popolo delle libertà non aumenta i propri consensi e anzi flette rispetto alle elezioni di questa primavera, mentre il resto (civiche, autonomisti e quant’altro) è magra soddisfazione o lieve depressione sul filo del decimale o giù di lì.

Le primissime reazioni, naturalmente, si sono concentrate sui dati più vistosi del voto: l’astensionismo e la crescita del partito di Antonio Di Pietro (facce, in fondo, dell’identica medaglia). Lasciando perdere, per il momento, gli scontatissimi commenti sulla scarsa partecipazione al voto («allarmante», «inquietante», «fenomeno crescente»...) conviene forse soffermarsi sulle analisi avviate in casa del Pd intorno al risultato dell’Italia dei Valori e dello stesso Partito democratico. L’una sale, di molto; l’altro scende, di molto. La circostanza ha naturalmente indotto a uscire allo scoperto con la massima nettezza quanti - nel Pd - giudicano da tempo l’alleanza con Di Pietro una scelta sbagliata. E se Nicola Latorre, dirigente vicino a D’Alema, annota come l’ex pm «stia erodendo elettorato più a noi che ai nostri avversari», Europa - giornale un tempo vicino alla Margherita - è ancor più esplicito: «Via da Di Pietro, di corsa: è il momento di rompere questa alleanza fasulla e suicida».

Non è tema di poco conto, nella misura in cui riguarda la strategia futura del Pd e la politica delle alleanze del partito guidato da Veltroni. Per mesi nel quartier generale dei democratici si è fatto finta di non vedere (o non se ne sono tratte tutte le conseguenze) quanto l’iniziativa di Di Pietro costituisse una spina nel fianco proprio per il Pd, prima ancora che per Silvio Berlusconi: ora se ne ha una prova, una dimostrazione perfino matematica. E l’interrogativo cui deve rispondere oggi il gruppo dirigente del Pd è banale, nella sua semplicità: è ancora possibile essere alleati di una forza politica che non perde occasione (dalla questione morale alla riforma della giustizia) per attaccare e polemizzare col Pd? E ancora: conviene far fronte comune con un leader (Di Pietro, appunto) che Silvio Berlusconi utilizza per delegittimare l’intera opposizione e motivare il suo «no» al dialogo, qualunque sia il tema in discussione? Le risposte sembrerebbero ovvie: ma evidentemente non lo sono, se le cose sono ancora al punto in cui sono. Sull’altare dell’alleanza con Di Pietro, il Pd ha già pagato un prezzo alto nella vicenda che ha riguardato e riguarda la Commissione di vigilanza Rai, per dirne solo una. Oggi paga un altro conto assai salato in Abruzzo. E davvero non si capisce, allora, come mai la «vocazione maggioritaria» proclamata nelle elezioni dell’aprile scorso sia servita al Pd per rompere con tutti (dai Verdi fino a Rifondazione) ma non - nonostante tutto - col «partito personale» dell’ex leader di Mani Pulite.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il partito dei sindaci ribelli
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2009, 11:44:21 am
6/1/2009 - ANALISI
 
Il partito dei sindaci ribelli
 
Da Napoli all'Abruzzo la periferia disubbidisce a Roma.

Il dilemma del Pd: azzerarli o difenderli?
 
 
FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Un sindaco, quello di Pescara, che ritira le dimissioni ma presenta un certificato medico che attesta la sua impossibilità a lavorare e, quindi, ad amministrare la città; un altro, quello di Napoli, che alle dimissioni non ha invece mai pensato, e dunque presenta alla stampa e alla città la sua «giunta rimpastata», tra l’ira di mezzo Partito democratico e le dimissioni (questa volta effettive) di Luigi Nicolais, ex ministro del governo Prodi, voluto da Walter Veltroni in persona alla guida dei democratici napoletani. La prima decisione, quella di Luciano D’Alfonso, sarebbe stata assunta - sembra - con il sostanziale accordo dei vertici del Pd romano.

Serve ad evitare il commissariamento del Comune e ad andare al voto a giugno con l’attuale giunta ancora in carica; la seconda, quella di Rosa Russo Iervolino, sarebbe invece stata «subita»: e accettata, alla fine, solo in nome dell’autonomia decisionale che si deve a rappresentanti istituzionali eletti, per di più, direttamente dai cittadini. Entrambe le decisioni - vale appena la pena di ricordarlo - sono maturate alla fine di settimane durissime, segnate da inchieste giudiziarie che hanno messo nel mirino prima l’amministrazione di Napoli e poi quella di Pescara.

Si è molto scritto e discusso, nei giorni passati, intorno al «ciclone giudiziario» che ha investito il Pd in alcune importanti realtà (da Genova all’Abruzzo, da Napoli a Firenze) e alle polemiche che ne sono seguite. Sopite, almeno in parte, quelle sviluppatesi nei giorni caldissimi degli arresti e degli avvisi di garanzia, ne sono rimaste sul tappeto fondamentalmente due. La prima riguarda il solo Pd: e investe la sensazione - diffusa prima di tutto all’interno del Partito democratico - che «l’emergenza giudiziaria» (la cosiddetta «questione morale») sia stata affrontata senza una linea, con comportamenti altalenanti e sostanzialmente abbandonando gli inquisiti e le locali strutture di partito al loro destino. Di qui le polemiche di Ottaviano Del Turco e dell’assessore fiorentino Graziano Cioni (per citare due casi) per essersi sentiti «scaricati» prima ancora che si arrivasse almeno ai rinvii a giudizio; contestazioni alle quali hanno fatto da contraltare altre accuse (per esempio di un pezzo importante del Pd campano) per un mancato intervento da Roma capace di imporre l’azzeramento di esperienze amministrative più che logorate.

Una confusione (anzi: una «tarantella», come l’ha definita il sindaco di Napoli) che non ha certo giovato all’immagine del partito, certo non nuovo a confronti intorno all’efficacia della propria leadership. L’altro elemento di discussione - se non di vera e propria polemica - è di ordine più generale e non dovrebbe riguardare il solo Partito democratico: si tratta del rapporto tra i partiti e i loro eletti nelle istituzioni. E’ giusto, naturalmente, che sindaci, governatori, assessori e parlamentari godano di un elevato grado di indipendenza dai partiti che li hanno scelti e candidati: la questione è individuare il punto dove finisce questa indipendenza. Per fare l’esempio della Campania: se il Pd ritiene (come gli stessi Veltroni e D’Alema hanno più volte affermato) che al Comune e alla Regione siano necessari «rinnovamento» e «azzeramento» delle locali esperienze amministrative, possono il sindaco e il governatore far finta di niente e andare avanti per la loro strada in nome dell’autonomia dai partiti (e magari compromettendo in maniera irreparabile l’immagine e le fortune del partito di provenienza)?

Si tratta di un interrogativo dalla risposta non scontata. Ieri, per esempio, a proposito della scelta della Iervolino di restare in sella e di procedere solo a un parziale rinnovamento della sua giunta, all’interno del Pd si sono manifestati due atteggiamenti diversi (un’altra «tarantella»...): quello di Veltroni, che ha accettato - in nome dell’autonomia dovuta ai sindaci - la scelta della Iervolino; e quello del segretario del Pd napoletano, Nicolais, che si è dimesso in polemica con il sindaco ma anche con «i vertici del Pd nazionale», rei di non aver compreso «la drammaticità del momento e la necessità di una svolta coraggiosa». Insomma: un sindaco al quale arrestano o mettono sotto accusa mezza giunta - a parte lo scandalo dell’immondizia e tutto il resto - ha comunque il diritto di restare al suo posto o il partito che lo ha espresso deve poter intervenire per sollecitarne (o addirittura imporne) le dimissioni? Oggi, è vero, l’interrogativo riguarda il Partito democratico: ma domani potrebbe tormentare altri partiti. Naturalmente, è anche questione di etica e di sensibilità politica.

Ci sono e ci sono stati casi, infatti, in cui né l’interessato né il partito di provenienza si sono posti minimamente il problema (si pensi alla vicenda di Salvatore Cuffaro, per esempio, rimasto alla guida della Regione Siciliana non solo da indagato e rinviato a giudizio, ma addirittura da condannato). Fatti salvi questi casi limite, però, è evidente che il problema esiste e tornerà a riproporsi. Non sarebbe male che le forze politiche ci ragionassero, e individuassero - se possibile - comuni codici di comportamento. A meno di non voler continuare con comportamenti altalenanti e schizofrenici. Riccardo Villari, per dirne una, in fondo è stato espulso dal Pd forse per molto meno...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - "Basta coi sindaci fai da te, Veltroni si faccia sentire"
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 12:43:44 pm
7/1/2009 (9:9) - INTERVISTA

"Basta coi sindaci fai da te, Veltroni si faccia sentire"
 

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Certo, Napoli è una realtà difficile da gestire, ma non è impossibile farlo. Le sindacature di Bassolino furono straordinarie. Poi c’è stata una degenerazione complessiva... Il problema è che fare oggi, perchè i cittadini capiscono che degli errori si possono commettere: quello che non capiscono è perchè non li correggi e non cambi».

E per Luciano Violante, non c’è dubbio, a Napoli si sia cambiato troppo poco. E così, preso atto delle dimissioni di Nicolais e riconosciuto ai sindaci il diritto alla più ampia autonomia, l’ex presidente della Camera chiede uguale libertà per i partiti. Per il Pd, in questo caso.


Che dovrebbe dire a chiare lettere di non esser d’accordo con le ultime mosse del sindaco Iervolino?
«Ci arriviamo. Prima vorrei dire che, al di là delle differenze tra la Sardegna, la città di Pescara e una metropoli come Napoli, il terzo commissariamento di vertici locali del Pd in poche settimane rivela un problema sul quale occorre interrogarsi: intendo il tipo di forma partito che si è dato il Pd».

Qual è l’obiezione?
«L’impressione è che il governo-ombra ci stia privando di un forte strumento di raccordo tra centro e periferia. Il tradizionale responsabile di dipartimento - che si occupasse di lavori pubblici, piuttosto che di appalti o di sanità - era una figura fondamentale in questo senso. Se c’era un problema, dalle città facevano riferimento a lui: e il centro era informato di quel che accadeva e a sua volta dava indicazioni. Oggi, invece, ci sono i ministri-ombra, eccellenti personalità politiche. Ma che fa un ministro ombra? Parlamentarizza l’azione del partito, svolgendo il suo ruolo in rapporto con il governo. Questo, oltre a rischiare di intralciare l’attività dei gruppi, priva il Pd di un essenziale veicolo di informazione su quel che accade in periferia e di conseguente direzione politica».

Un meccanismo inceppato, insomma...
«In più, senza raccordo, crescono forme di separatismo. E la cosa peggiore è quando qualcuno intende questo come parte di uno scambio: io ti dò il consenso e tu mi lasci fare quel che voglio».

E’ per questo che il Pd a Napoli non è riuscito a imporre l’azzeramento della giunta?
«Non è che a un governatore puoi dire “tu fai questo” e a un sindaco “tu fai quell’altro”. Puoi provare politicamente a convincerli, come appunto nel caso in questione, che occorrono soluzioni che abbiano il segno di un profondo cambiamento».

A Napoli non è accaduto.
«Io ritenevo giusto l’azzeramento, il cambio radicale della giunta. Quella mi pareva una via».

Però non è andata così, e Nicolais si è dimesso. Che deve fare in questi casi il Pd? Può solo abbozzare?
«Per niente. Il Pd può dire: “Non sono d’accordo. Il sindaco ha fatto questa scelta, la rispetto ma non sono d’accordo».

E’ quel che ha fatto Nicolais, in verità...
«Sì, ma credo che anche da Roma debba venire un segno di non condivisione. Non parlo dei nuovi assessori, tutti stimabili: parlo di come si innesca davvero un’altra marcia, dandosi tempi e obiettivi certi, ed evitando il semplice galleggiamento».

A che segno pensa?
«Oggi a Roma si riunisce il coordinamento del Pd. Valuteranno loro, ma credo occorrerebbe una posizione che, ferma restando la libertà dei sindaci di agire in autonomia, affermi reciprocamente che anche il Partito è libero di dire come la pensa. Altrimenti finisce che chi non è libero di agire è proprio il Pd».

E come dovrebbe manifestarsi questo disaccordo? Con un voto contrario alla giunta da parte dei consiglieri comunali del Pd?
«Prima c’è bisogno che il Pd faccia capire chiaramente che la scelta non è condivisa. Poi decideranno i consiglieri comunali che fare, confrontandosi localmente con il partito, perchè non è che da Roma si danno ordini. Ma se il vertice del Pd non è d’accordo con la decisione presa, ritiene i cambi insufficienti e crede che vadano indicati metodi e obiettivi totalmente nuovi, deve dirlo con chiarezza. Così il cittadino può pensare “hanno fatto errori, ma li stanno correggendo”. Non è possibile che i sindaci siano autonomi del partito e il partito non lo sia dai sindaci...».

E poi?
«E poi se il Pd napoletano è d’accordo su questo, ne trarranno le conclusioni i consiglieri comunali».

Un’ultima domanda, presidente: anche queste vicende - secondo molti - dimostrerebbero l’attuale debolezza del Pd. Condivide?
«Questo è evidente. Ma ricordo come era messa la Cdl dopo la sconfitta del ‘96... Noi di sconfitte ne abbiamo subite due: alle politiche e poi quella, inattesa, di Roma. La crisi, insomma, ci può stare. Quel che ora serve è uno scatto di reni significativo. I milioni di cittadini che votarono alle primarie per Veltroni hanno diritto ad un Pd che, superate le sconfitte, riprendenda la corsa. Non è il momento di piccoli cabotaggi. E se pensiamo di uscirne con una toppa qua e un commissario là, mi pare difficile riuscire a farcela...».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Due soli partiti?
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2009, 11:35:24 pm
16/1/2009
 
Due soli partiti?
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Non sono davvero giorni esaltanti per i sostenitori di una più definita «europeizzazione» del sistema politico italiano (due grandi partiti, sistema maggioritario, alternanza al governo del Paese).

Sui quotidiani di ieri, in particolare, era tutto un intrecciarsi di segnali funerei. E la novità è che i cattivi auspici non circondano più soltanto la travagliata navigazione del Pd («Soffre di un male oscuro», ha confermato Enrico Letta ricorrendo a un pietoso eufemismo) ma hanno cominciato a segnare anche il cammino di Forza Italia e An verso il congresso fondativo del Pdl come partito unico. «An non ha alcuna intenzione di essere assorbita da Forza Italia», e soprattutto «non entra in un luogo dove non c’è dialettica interna, né regole e procedure chiare e trasparenti», hanno avvertito due tra i più fedeli luogotenenti di Gianfranco Fini (Ronchi e Bocchino). Cosicché, la sensazione è che a una crisi potrebbe sommarsene un’altra. Fino all’ineludibile interrogativo: ma è davvero così sicuro che la complessità italiana sia riducibile (rappresentabile) in due grandi partiti?

Naturalmente, le crisi dei due «partitoni» hanno caratteristiche e intensità diverse, a cominciare dalla differente forza e dalla non paragonabile «capacità di comando» delle rispettive leadership. Tra tutti gli elementi di diversità, però, questo è senz’altro quello ancora più condizionato dal risultato elettorale del 13 aprile (si pensi a cosa sarebbe stato del «partito del predellino» in caso di sconfitta o ai problemi che avrebbe incontrato Berlusconi a restare saldo in sella), mentre assai più simili - e in qualche modo strutturali - appaiono invece i fattori comuni di difficoltà: dalla compatibilità delle basi elettorali (quelle di An e Forza Italia non sono certo più vicine di quanto lo fossero quelle di Ds e Margherita) alla resistenza dei gruppi dirigenti, fino agli equilibrismi necessari per far convivere riferimenti sociali, culturali e perfino religiosi storicamente diversi. Sono questi, come è noto, i problemi che hanno frenato - fino ad arenarlo - il progetto che era alla base della nascita del Pd; e sono ancora questi quelli che stanno oggi inasprendo il percorso verso il partito unico del centrodestra.

Non è dunque per caso se dalle parti del Pd si sente sussurrare di «riscomposizione», né è per pignoleria se - dall’altra parte dello schieramento - Fini e i suoi colonnelli cominciano a mettere i puntini sulle i. E soprattutto, non è solo una coincidenza se sia a destra che a sinistra si iniziano a frapporre ostacoli a un’ulteriore semplificazione del sistema: si pensi, ad esempio, al trattamento riservato dalla Lega e da molti autorevoli dirigenti del Pd al progetto Berlusconi-Veltroni in materia di legge elettorale europea. Al di là dell’ovvio riflesso di autoconservazione dei gruppi dirigenti dei partiti da fondere, è come se ci fosse qualcosa di più profondo, di non sintetizzabile, a frenare i processi di unificazione avviati. Non tutto quel che si agita nella società e nell’elettorato italiano, evidentemente, è riassumibile in due soli partiti. E qualunque sia la radice di questa ritrosia (e le ragioni sono tante) per averne conferma basta dare un’occhiata ai più recenti sondaggi, che vedono crescere a dismisura i consensi proprio delle forze rimaste fuori dai progetti di fusione: la Lega di Bossi da una parte e l’Italia dei valori di Di Pietro dall’altra.

Naturalmente, non si è ancora di fronte a crisi irreversibili: ma dopo aver assordato la sinistra, i campanelli d’allarme hanno ormai cominciato a suonare anche a destra. C’è chi, in tutta evidenza, considera - se non proprio una camicia di forza - certo una «non necessità» stare tutti assieme nello stesso partito. In più, guardando a quanto accaduto nell’altro campo e riflettendo su certi crescenti nervosismi di Fini e di Bossi, qualcuno - nell’antica Casa delle libertà - comincia a nutrire serie preoccupazioni e si interroga intorno ai costi ed ai ricavi. I leader e i rispettivi schieramenti godono, come già detto, di uno stato di salute assai diverso: ma chi è che non ricorda quanto la nascita del Pd indebolì - anche al di là delle intenzioni - l’esecutivo di Romano Prodi? Ne originò, di fatto, la crisi di governo e la sconfitta elettorale. E, perse le elezioni - così come pareva, in verità, inevitabile -, il «progetto Pd» non ha poi mostrato chissà quale spinta propulsiva. Dopo Ds e Margherita, tocca ora a Forza Italia e An tentare la fusione. Che sia una scelta al passo con la storia o in contrasto con la complessità italiana, lo vedremo. Probabilmente già alle prossime elezioni di giugno.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'asse D'Alema-Epifani nuova insidia per Veltroni
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 11:12:39 am
25/1/2009

DOPO LA ROTTURA CGIL SUI CONTRATTI
 
L'asse D'Alema-Epifani nuova insidia per Veltroni
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Merita forse qualche riflessione la posizione assai "variegata" assunta dal Partito democratico rispetto all’accordo sul nuovo modello contrattuale siglato a Palazzo Chigi senza la firma della Cgil, sindacato "amico" oltre che il maggiore del Paese. Per Enrico Letta, ministro-ombra del Welfare, Epifani ha sbagliato a tirarsi fuori da un’intesa che ha, potenzialmente, il profilo della svolta; per Massimo D’Alema, invece, il leader Cgil ha sbagliato così poco che è il caso di conoscere l’opinione dei lavoratori chiamandoli a referendum.

Per Walter Veltroni, infine - costretto nuovamente a fronteggiare posizioni assai diverse - Epifani forse ha sbagliato, ma ha sbagliato forse anche il governo a non tener conto delle obiezioni della Cgil. E comunque, per ora non pare affatto intenzionato a schierare il Pd nella "trincea referendaria" invocata da D’Alema.

Non è la prima volta, si dirà, che i democratici si dividono, anche su questioni di una certa rilevanza. E non è un inedito nemmeno l’evidente diversità di posizione tra il leader della Cgil e il segretario del Pd. Tutto vero, se non fosse per un paio di specificità. La prima riguarda l’effettiva "valenza riformista" (o pseudo tale) della questione in discussione: di quelle, insomma, che proprio perché capaci di contribuire a forgiare - in un senso o nell’altro - il profilo del partito in costruzione, meriterebbero una chiara presa di posizione da parte del leader ed una conseguente ed esplicita battaglia politica dentro e fuori il Pd. La seconda specificità attiene invece ai tempi della scelta operata dalla Cgil: proprio nel momento in cui Walter Veltroni prova a portare tutto il Pd sul terreno del dialogo con la maggioranza di governo, Guglielmo Epifani indica alla Cgil la via della massima "radicalità" possibile. E Massimo D’Alema fa subito sapere di esser d’accordo con lui.

Entrambe le specificità hanno diverse spiegazioni possibili. Ci si interroga, per esempio, intorno a certi recenti irrigidimenti del leader della Cgil, tanto nei rapporti con Cisl e Uil quanto in quelli con Veltroni, da sempre a lui vicino e col quale ha condiviso dure battaglie congressuali - al tempo dei Ds - in quello che fu definito "correntone". Volendo lasciare in secondo piano la tesi secondo cui i due leader avrebbero rotto a causa della discussa candidatura di Epifani alle europee, è assai più probabile che la divergenza sia di carattere tutto politico: e che riguardi modi e qualità dell’opposizione da fare al governo Berlusconi e - soprattutto - il tipo di partito che deve diventare il Pd. La "linea dura" su cui Epifani ha attestato la Cgil, insomma, potrebbe anche rappresentare il tentativo di indicare al Partito democratico un modello diverso, una politica di stampo più schiettamente socialdemocratico: o quanto meno di frenare quella che a Epifani deve apparire una deriva moderata e centrista del partito.

Se è così, non è dunque solo per tattica - che pure ovviamente avrà pesato - che la Cgil trova come compagno di strada Massimo D’Alema (anche se può apparire paradossale, considerate alcune sue polemiche, al tempo di Cofferati, intorno al carattere effettivamente riformista dell’organizzazione). L’ex presidente del Consiglio sembra infatti impegnato a dare un asse finalmente più definito alle sue frequenti divergenze con Veltroni: se davvero nel Pd ci si avvicina a una certa resa dei conti, infatti, un bagaglio di obiezioni fatto di "io non avevo un ruolo", "il partito andava curato di più" e "le tessere sono importanti" appare del tutto insufficiente in un possibile braccio di ferro con Veltroni. Nasce da qui, forse, dalla necessità di meglio caratterizzare la critica al segretario prospettando al partito una linea politica robustamente diversa, un certo evidente irrigidimento delle più recenti posizioni dalemiane. Oggi il caso è l’approccio alla questione contratti; ma ieri era stata l’analisi delle responsabilità nel conflitto arabo-israeliano; e domani potrebbero essere le riserve sul confronto avviato in materia di federalismo fiscale oppure di giustizia.

Se queste due specificità rendono dunque diverse rispetto al passato la divisione nel Pd sui nuovi contratti e la divergenza tra Veltroni e il tandem Epifani-D’Alema, tanto più sarebbe necessaria una battaglia politica esplicita che rendesse evidenti le ragioni della divisione. Si è stanchi, certo, di un Pd che avanza in ordine sparso e confuso, litigando quasi su tutto. Ma ci sono divisioni che a volte sembrano arrivare come una benedizione, permettendo crescita e chiarezza. A condizione, naturalmente, di affrontarle di petto: che vuol dire andare al nocciolo della questione, discuterla e poi decidere. Invece di nascondere, come sempre, la polvere sotto il solito tappeto.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La caccia ai colpevoli
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2009, 03:44:59 pm
7/2/2009
 
La caccia ai colpevoli
 
FEDERICO GEREMICCA
 

C’è lo scontro istituzionale, è vero: preoccupante e inedito per la durezza, giunta - stavolta - fino alla sfida aperta tra capo del governo e Presidente della Repubblica. Ma dietro il conflitto che ha opposto - e probabilmente opporrà ancora nei giorni a venire - Napolitano e Berlusconi c’è molto altro.

A cominciare dall’oggetto dello scontro: la vita di una ragazza in stato vegetativo permanente da 17 anni. «Io non voglio la responsabilità della morte di Eluana», avrebbe detto il premier ai suoi ministri per convincerli a dire sì a un decreto legge che impedisse di sospendere alimentazione e idratazione ad Eluana Englaro. Il che, per deduzione, dovrebbe portare alla conclusione che chi a quel decreto si è poi opposto - Costituzione alla mano - si assume, appunto, la «responsabilità» di quella morte. Messa così, come è evidente, la discussione abbandona ogni profilo di civiltà, diventando quasi incommentabile. Proprio l’«oggetto» della disputa - la vita umana - avrebbe preteso che per una volta almeno la discussione mettesse da parte i calcoli politici e gli utili tatticismi, i tentativi di scaricabarile e le piccole astuzie politiche alle quali siamo abituati. Non è accaduto nemmeno stavolta: e al di là della gravità del conflitto istituzionale in atto, è questo che indigna e lascia senza parole.

Ciò nonostante, lo scontro è in corso. E ieri, dopo tre giorni di tensioni sotterranee e tese consultazioni, è esploso in tutta la sua asprezza. Quattro i passaggi chiave. Primo: una lettera «riservata e personale» fatta giungere in mattinata dal Presidente della Repubblica a Berlusconi nella quale si elencavano le ragioni per le quali il Quirinale non poteva accettare il ricorso ad un decreto. Secondo: la decisione del premier di rendere nota la lettera, andare avanti comunque e convocare una conferenza stampa per denunciare una «innovazione» da parte del Colle («Intervenire anticipando la decisione del Consiglio dei ministri circa la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza») e annunciare che, se il Presidente non avesse firmato, il governo avrebbe presentato una legge da far approvare in due o tre giorni al Parlamento. Terzo: l’annuncio del Quirinale «di non poter procedere alla emanazione del decreto» per ragioni di ordine costituzionale. Quarto: un nuovo Consiglio dei ministri che trasformava il decreto in disegno di legge, con un successivo «accorato appello» di Berlusconi al presidente del Senato per «l’immediata convocazione di una seduta straordinaria».

Prima e durante questi passaggi, in una giornata assai poco edificante, s’è visto e sentito di tutto: il capo del governo evocare il ricorso al popolo di fronte all’impossibilità di utilizzare lo strumento del decreto legge; esponenti importanti delle gerarchie vaticane intervenire per lodare «il coraggio» dell’esecutivo e manifestare «delusione» verso il Capo dello Stato; il presidente della Camera, Fini, scendere in campo a sostegno delle posizioni di Napolitano per poi vedere i ministri di An votare sì al decreto sotto la pressione di Berlusconi. E di fronte a tutto questo, lo sbigottimento e l’amarezza della famiglia Englaro, sul cui dolore si è giocata e si continuerà a giocare una partita politica che ha ben poco a che vedere con l’etica e i principi richiamati qua e là. Infatti, che maggioranza e opposizione abbiano idee diverse sulle vie da percorrere in materie come testamento biologico, accanimento terapeutico ed eutanasia, è noto da tempo. Nessuno poteva però immaginare che tali differenze venissero messe alla prova di un decreto ad personam, di un provvedimento fatto solo per la povera Eluana: quasi una scimitarra per tagliare il mondo a metà, tra chi la vuole viva e chi - dicendo no al decreto - forse ne determina la morte (al di là della Costituzione e del suo rispetto).

Su questo piano, è evidente, nessun confronto - politico o istituzionale che sia - sembra essere più possibile. Ridurre una discussione delicata e complessa a chi è per la vita (vegetativa) di Eluana e a chi invece no, significa devastare il terreno del possibile confronto e gravare di una responsabilità non sopportabile chiunque abbia dubbi costituzionali, etici e legislativi sull’iniziativa del governo. Ieri questa responsabilità l’ha dovuta assumere il Presidente della Repubblica. Ma da oggi tocca ad altri: alla Camera e al Senato, ai loro membri, ai loro presidenti. Devono approvare il decreto trasformato in disegno di legge e, secondo il premier, devono farlo in fretta. In caso contrario saranno loro i «responsabili» della morte di Eluana. Diciamo la verità: nemmeno i più pessimisti avrebbero mai immaginato che si giungesse a un punto così.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La piazza non arruoli il Presidente
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2009, 11:06:24 am
12/2/2009
 
La piazza non arruoli il Presidente
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Sarebbe ingenuo considerare sopite e ormai alle spalle le fortissime tensioni sviluppatesi intorno al destino di Eluana Englaro e tracimate nei giorni scorsi fino all’aspro scontro che ha visto contrapposti il capo del governo e il Presidente della Repubblica.

È un fatto, però, che la giornata di ieri sia stata segnata da chiari segnali distensivi, e che l’appello di Giorgio Napolitano per una «sensibile e consapevole riflessione comune» sembra esser stato accolto tanto dalla maggioranza di governo che dall’opposizione. E così, se Gianfranco Fini aveva già fatto sapere quale fosse il suo pensiero sul conflitto istituzionale apertosi, ieri è stata la volta di Umberto Bossi, che è tornato sulla questione, definendo il Capo dello Stato «una figura di garanzia». Certo, ha annotato il leader leghista, «la lettera su Eluana è stata un errore, ma è giusto che faccia da scudo al potere di decretazione». La tregua è forse forzata, la convinzione che regga è probabilmente fragile e nulla esclude che ci si ritrovi, di qui a qualche giorno, nel fuoco di un nuovo conflitto: eppure, tutto ciò premesso, sarebbe irresponsabile non cercare di consolidare - nelle aule parlamentari, nel rapporto tra istituzioni e perfino nel Paese, nei giorni scorsi spaccatosi a metà - il rasserenamento che pare all’orizzonte.

È proprio tenendo d’occhio questo obiettivo che è forse opportuno segnalare il crescere di un rischio: nuovo per l’appena avviata legislatura, ma non certo inedito nello stile politico di questa sgangherata Seconda Repubblica. Il rischio, per dirla in sintesi, è nella tentazione di «arruolare» il Capo dello Stato in uno degli schieramenti in campo, di farne la punta di diamante di una sorta di nuovo «antiberlusconismo costituzionale» e di «scalfarizzare» (come ha annotato con felice neologismo l’onorevole Rao, dell’Udc) un Presidente della Repubblica dal quale - oggi più che mai - è lecito attendersi che continui a essere quel che fino ad oggi è stato: una «figura di garanzia», come appunto ricordato ieri da Umberto Bossi.

Nella sua pragmatica saggezza, Carlo Azeglio Ciampi amava ricordare che la forza di un Presidente della Repubblica non è tanto nei suoi poteri (assai limitati e, come si è visto, perfino discussi) quanto nella sua popolarità: una popolarità che per tutti i presidenti è spesso andata oltre i confini dello schieramento politico-parlamentare che lo aveva eletto e che ha sempre avuto la sua radice nell’imparzialità che ne ha segnato l’azione e nella funzione di garanzia che gli veniva quindi riconosciuta. Non c’è Presidente che non abbia rinsaldato la propria popolarità muovendosi, appunto, lungo questi due assi (tracciati, per altro, dalla Costituzione). Sono le linee guida che hanno mosso Napolitano dal giorno dell’insediamento a oggi: perfino con qualche attenzione in più da parte del Presidente, visto che i gruppi parlamentari dell’allora Casa delle libertà si opposero alla sua elezione. I risultati del lavoro svolto sono oggi sotto gli occhi di tutti: non c’è sondaggio che non confermi la fiducia crescente dei cittadini verso Napolitano. E con percentuali assai più alte rispetto allo schieramento che lo volle al Quirinale.

L’aver assolto al mandato lungo quelle linee guida (imparzialità e funzione di garanzia per tutti) si rivela oggi scelta non solo felice ma da preservare con ogni sforzo. Il silenzio e gli appelli a un confronto «sensibile, consapevole e comune» con i quali il Presidente ha risposto perfino alle offese di cui è stato fatto oggetto negli ultimi giorni, sono lì a testimoniare quanto la barra del Capo dello Stato sia rimasta ferma e dritta: nessuna concessione a chi vorrebbe farne l’alfiere di un rinnovato scontro politico, nessun cedimento di fronte a questa o a quella lusinga. I quasi tre anni trascorsi dal giorno dell’elezione a oggi permettono di dire che al Quirinale non albergano certo tentazioni partigiane. È importante, naturalmente, ma forse non sufficiente. Quel che va evitato, in un clima ancora arroventato, è il tentativo di farne comunque un soggetto politico o, peggio ancora, un alleato nella «guerra» a Berlusconi. È un rischio cui occorre sfuggire: a cominciare dalla manifestazione voluta per oggi dal Pd in difesa della Costituzione.

Utilizzare il Capo dello Stato contro il capo del governo, se questa fosse la tentazione, non è mai una buona idea. A maggior ragione non lo è oggi, quando di tutto c’è bisogno meno che di un affievolimento - magari prodotto dall’esterno, e anche solo simbolico - del profilo di «figura di garanzia» al quale Napolitano ha ancorato il suo mandato. Sarebbe un calcolo dal respiro corto: che ci metterebbe nulla a rivelarsi politicamente controproducente e, soprattutto, micidiale per il nostro già fragile equilibrio istituzionale.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'ultimo rovescio di Walter
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 05:31:32 pm
17/2/2009
 
L'ultimo rovescio di Walter
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Renato Soru non ce l’ha fatta. La sua sfida a Silvio Berlusconi è naufragata in una gelida notte sarda, mentre i dati che affluivano con lentezza ottocentesca dai quattro angoli dell’Isola (appena il 25% delle schede scrutinate a 7 ore dall’apertura delle urne) sancivano il passaggio di mano alla guida della Regione. Il verdetto, come sempre accade quando a elezioni locali si affidano speranze di rivincita più generali, penalizza certo il Pd sardo: ma ha il sapore di un sipario che cala sui propositi veltroniani d’invertire - anche solo psicologicamente - un corso politico il cui bilancio è ora sotto gli occhi. La sconfitta dell’aprile scorso contro Berlusconi; poi lo choc della perdita di Roma, la disfatta abruzzese, un partito in sterile ebollizione e adesso la caduta di Soru in Sardegna. Il quadro non potrebbe essere più fosco: e fallita anche l’ultima sfida lanciata al Cavaliere in tandem col patron di Tiscali, davvero non si vede da dove il Pd possa ripartire per arginare un’emorragia di consensi e credibilità che pare inarrestabile.

A Berlusconi, che ha voluto «mettere la faccia» in una partita elettorale che ancora un mese fa non aveva nulla di scontato, va dato atto del coraggio e dell’intuito mostrati.

Sardo d’adozione», come ama dire in ragione dei weekend che trascorre di tanto in tanto a Villa La Certosa, doveva aver colto il segno di quanto certi rigorismi del governatore (in materia edilizia, ma anche fiscale) stavano aprendo una breccia nel consenso di cui godeva: e con quello che solitamente viene definito l’«istinto del killer», è sceso nell’arena per tentare di assestare il colpo definitivo a Soru e all’intero Pd assieme. Che questo sia stato reso possibile dallo stesso governatore - che si è dimesso anzitempo, alla ricerca di una resa dei conti nel Pd sardo - conta fino a un certo punto: ed attiene, comunque, a scelte non sue e che richiamano, magari, ad un’idea della politica forse eccessivamente autocentrata.

Sia come sia, Berlusconi manda in archivio un altro successo elettorale mentre Veltroni, al contrario, si trova a dover fare i conti con un nuovo rovescio. Proprio per il tipo di campagna elettorale andata in scena, si era molto discettato - prima dell’apertura delle urne - intorno alle possibili ripercussioni nazionali del voto sardo. In particolare, i riflettori erano stati accesi sul prevedibile terremoto che avrebbe potuto scuotere il Partito democratico nell’eventualità di una nuova sconfitta. Qualcuno ha ipotizzato la possibilità di una resa dei conti anticipata, rispetto ai tempi di un Congresso già fissato per l’autunno, dopo le elezioni amministrative ed europee; qualcun altro ha ribattuto facendo appello alle procedure, allo Statuto ed a «tempi tecnici» effettivamente assai stretti. Incertezze comprensibili, considerato il fatto che - di fronte alla vera e propria crisi d’identità in cui sembra versare il Pd - anche un affrettato cambio della leadership potrebbe rivelarsi soluzione inefficace, se non addirittura controproducente.

Ciò non toglie che sia proprio questo il bivio che si para di fronte al partito che ha fuso assieme gli eredi della tradizione comunista e quelli dell’antica sinistra democristiana: andare avanti con un leader sempre più accerchiato e reduce da quattro sconfitte elettorali (ognuna di esse ha una spiegazione, ma tutte assieme costituiscono un macigno) oppure tentare la carta del ricambio. È questa e non altra - o almeno così dovrebbe essere - la scelta che lo stato maggiore del Pd avrà di fronte già stamane, quando riunirà il suo ufficio di Coordinamento. Conteranno, naturalmente, i dati definitivi del voto: cioè le dimensioni della sconfitta di Soru e il risultato finale che avrà ottenuto la lista del Partito democratico. Ma conterà soprattutto una valutazione circa le prossime elezioni - europee ed amministrative - previste fra appena tre mesi e mezzo: andare incontro a un rovescio che oggi pare inevitabile, bere fino in fondo l’amaro calice per poi tentare di ripartire, oppure gettare il cuore oltre l’ostacolo, non rassegnarsi e puntare su energie nuove e magari su uno choc capace di ridare entusiasmo a militanti e quadri dirigenti. È una scelta nient’affatto semplice, com’è evidente: sulla quale, doverosamente, peseranno in maniera determinante proprio le intenzioni di Walter Veltroni, il leader sconfitto.

 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - E i democratici si scoprono la tradizione cattolica
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2009, 11:18:11 am
22/2/2009 (7:3) - RETROSCENA

La nomenklatura vince ma la partita inizia ora
 
E i democratici si scoprono la tradizione cattolica

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Potremmo chiamarlo istinto di conservazione. E in sé non è certo una pulsione negativa. Naturalmente, si tratta poi di vedere cos’è che l’istinto porta a conservare: e qui il discorso può prendere pieghe assai diverse. Ieri, ad esempio, lo stato maggiore del Partito democratico - i capicorrente, la nomenklatura - ha deciso che quel che andava conservato era lo status quo del Pd: ed ha imboccato la via dell’elezione di Dario Franceschini. Può darsi si tratti di una scelta saggia, anche se è lecito dubitarne; e può darsi, soprattutto, fosse l’unica possibile per preservare l’unità del Pd così come lo conosciamo. Si vedrà. Quel che è indubitabile, è che l’elezione di Dario Franceschini rappresenta una limpida vittoria dello stato maggiore rispetto alle insofferenze (vere? presunte?) della periferia del partito e agli auspici di questo o quell’osservatore. Del resto, Massimo D’Alema lo ha chiarito bene: «Gli osservatori esterni osservano, osservano ma poi non capiscono niente». E in effetti non sono poche le cose difficili da capire in questo sabato di Carnevale nel quale - come ironizza Renzo Lusetti - «abbiamo eletto un democristiano alla guida del Pci».

La prima, non semplicissima da spiegare, è in base a quale logica - dopo aver per mesi contestato la linea politica di Veltroni e chiesto cambiamenti visibili - tutti i capicorrente, di fatto nessuno escluso, abbiano acclamato il suo vice: che del segretario in questi mesi ha condiviso ogni scelta, e dal quale non pare voler prendere le distanze. La seconda, è perché i tanti candidati in pectore manifestatisi in questi mesi - da Letta a Finocchiaro, da Bindi a Bersani - si siano ieri accomodati in prima fila, con le deleghe ben alzate in favore di Franceschini, lasciando al solo Arturo Parisi l’onere della battaglia. E la terza - per fermarsi qui - è quale interpretazione lo stato maggiore del Pd pensa verrà data all’esterno dell’elezione di un leader sul quale nessuno di loro (dei capicorrente, intendiamo) ha mai scommesso un euro nei ricorrenti e futuribili «totosegretario». Ma tant’è: non era tempo di battaglia, non era tempo di farsi avanti per dover poi magari rispondere tra cento giorni di un eventuale nuovo rovescio elettorale. E viene francamente da chiedersi che pesci avrebbero pigliato se la generosità di Dario Franceschini - travolto dalla rapidità degli eventi, e comunque messosi disciplinatamente a disposizione - non li avesse temporaneamente tirati fuori dai guai. Ora i guai sono tutti per lui: e mentre il nuovo segretario comincerà a farsene carico con pazienza cristiana, gli altri potranno tirare un fiato e prepararsi al secondo e decisivo tempo della partita, già fissato per ottobre. Nelle premesse dell’investitura, infatti, c’è che il neo-segretario non approfitti del ruolo assegnatogli, per magari prepararsi anch’egli alla sfida di ottobre: «Non sono qui per pragrammare il mio destino personale - ha così confermato ieri dal palco della Fiera di Roma -. Il mio lavoro finisce ad ottobre».

Doveva dirlo, e l’ha detto. Anche se tra il dire e il fare, corre poi il solito mare... «Sarà un segretario vero, altro che reggente - spiegava Fassino dopo l’elezione per dare enfasi all’investitura -. Se avessi parlato io nei termini in cui lo ha fatto lui della collocazione europea del Pd, oggi qui ci sarebbe stata la scissione». E questa, in fondo, può essere l’arma in più di Franceschini, la forza riflessa di cui potrebbe godere per fare chiarezza sulle questioni che da mesi logorano il Pd: da cattolico e non da ex comunista, potrà forse gestire tra minor sospetti faccende delicate come il testamento biologico, per dirne una, o appunto il rapporto in Europa col Pse. «E in ogni caso - annota Nicola Latorre - il partito è in uno stato di tale fragilità che uno strappo avrebbe rischiato di trasformarsi in una frattuta, ed uno scossone in un terremoto». E dunque, dopo la fase veltroniana, nasce il Pd a «trazione cattolica». La novità, nel suo piccolo, è storica. E a parte l’ironia possibile delle forze radicali - che oggi potranno dire che dopo aver «ucciso» la sinistra fuori del Pd, Veltroni ha ammazzato anche quella dentro il Pd - a parte questo, dicevamo, ieri l’amarezza di molti ex diessini per il cambio di mano era visibile. Ora, nessuno può sapere se l’avvicendamento al vertice segna l’avvio di una sorta di alternanza alla guida del Partito democratico tra esponenti di provenienza cattolica e diessina: è certo, però, che molti eredi della Quercia già guardano al congresso di ottobre come all’occasione per una rivincita. Ma nella galassia del Partito democratico, al di là dei rapporti di forza, nulla è più scontato: come hanno per esempio dimostrato le primarie che nella «rossa» Firenze hanno visto prevalere un cattolico nella corsa alla candidatura a sindaco.

E proprio di Firenze parlava ieri al telefono una delegata ex diessina che aveva appena accettato, per stato di necessità, di votare Dario Franceschini: «Ascoltami, abbiamo preso una decisione di buon senso. Perché anche le primarie, se devono andare come a Firenze, non sono sempre una soluzione. Adesso si tratta solo di vedere come il buon senso incrocerà l’umore e le esigenze dei nostri elettori...». Sembra un interrogativo da poco: ma dalla risposta che arriverà, invece, dipenderà probabilmente il futuro del Pd. 
 
da lastampa.it
 


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Cofferati: ma preferivo le primarie
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2009, 11:24:55 am
24/2/2009 (7:29) - INTERVISTA AL SINDACO DI BOLOGNA

"Se Dario chiama io sono pronto a tornare in campo"
 
Cofferati: ma preferivo le primarie


FEDERICO GEREMICCA
BOLOGNA

Un soldato. Anzi: un vecchio soldato. Sergio Cofferati si definisce così, e spiega: «Sono rimasto uno di quei militanti che ancora attribuiscono un valore alla disciplina ed al rispetto delle regole». Ragion per cui, pur avendo avversato la via poi imboccata dall’Assemblea costituente (cioè quella dell’elezione subito di un nuovo segretario), l’ex leader della Cgil e ancora per pochi mesi sindaco di Bologna, è pronto a dare una mano a Dario Franceschini: fino a rendersi disponibile ad una permanenza in prima linea.

Spieghiamola meglio, questa sua posizione. Anche perché ho qui davanti agli occhi le dichiarazioni con le quali chiedeva che la scelta del segretario fosse fatta attraverso elezioni primarie.
«E non ho nessuna difficoltà a dirle che non ho cambiato opinione. Nei giorni scorsi ho detto quel che pensavo, e ho anche fatto la mia piccola battaglia: continuo a ritenere - pur avendo chiare le difficoltà politiche e organizzative - che sarebbe stata più utile ed efficace un’investitura popolare del nuovo segretario, appunto attraverso elezioni primarie».

Però?
«Però è stata fatta una scelta diversa. Che rispetto, naturalmente. Non avevo alcuna contrarietà alla candidatura di Dario Franceschini: ho solo posto, esplicitamente, un problema di metodo e di efficacia. Sabato ero a Roma, e non ho votato perché non faccio parte dell’Assemblea costituente: se avessi potuto, avrei votato per lui. Comunque, ora questa pagina è voltata e dobbiamo impegnarci tutti a dare una raddrizzata alla barca».

Lei dice tutti: e se Franceschini ritenesse di aver bisogno di Cofferati ancora in prima linea?
«Disponibile a dare una mano. Vado via da Bologna per ragioni private, non certo per altro. Se il mio partito lo riterrà utile - ma devono decidere loro: non lo decido io - impiegherò le energie che mi rimangono nella posizione che vorranno purché sia compatibile con la scelta da me fatta».

Parlava della necessità di raddrizzare la barca...
«Sì, partendo da una questione che a me pare diventata assolutamente prioritaria. E cioè, come si sta nel Pd: che è uno dei principali problemi che ha il Pd. Parlo delle modalità con le quali si gestisce la dialettica interna. Perché se tu sei il segretario e io non sono d’accordo su una scelta che fai, te lo dico, ti prospetto le mie alternative, ne discuto con franchezza e perfino con determinazione: ma poi quello che si decide - o perché c’è una istanza che si pronuncia o perché c’è una mediazione - diventa anche la mia soluzione. E dovrebbe diventarla per tutti. Allo stesso tempo, non deve essere messo in discussione il ruolo del segretario».

Perchè dice dovrebbe?
«Perchè nel Pd, nel corso di questi mesi, non è mai stato così. E se è vero che su alcune questioni ci sono state oscillazioni e incertezze, è altrettanto vero - ma di questo si tende a non parlare - che troppe volte le decisioni non sono diventate le decisioni dell’intero gruppo dirigente. Le dimissioni di Veltroni - atto politico che io ho condiviso - hanno segnalato con chiarezza l’esistenza di questo problema, che viene un po’ rimosso: si chiama solidarietà dei gruppi dirigenti e gestione delle decisioni».

Lei sabato ha ascoltato l’intervento di Franceschini: ha annunciato una mezza rivoluzione. Rinnovamento, azzeramento del governo ombra, rispetto per le opinioni dei leader storici ma nessuna sudditanza: «Deciderò da solo», ha detto. Ci crede?
«Le cose che ha sostenuto rispetto ai comportamenti nel partito, le condivido: credo che debba fare quel che ha annunciato, assumendosene le responsabilità. E conoscendolo un po’, sono anche convinto che quel che ha detto lo farà davvero. Naturalmente, non potrà portare da solo il Pd fuori dalla situazione in cui si trova: il gruppo dirigente e il partito nel suo insieme dovranno fare per intero la loro parte».

A cominciare?
«A cominciare dal fare tutto quel che serve - e ancora di più - per ottenere il massimo risultato alle elezioni di primavera. Mauscendo una volta per tutte da questo schema mentale della sinistra per cui ogni appuntamento elettorale è un’ordalìa, un giudizio divino per i gruppi dirigenti. Nessuno ha mai il tempo per costruire una linea, una strategia... E considerato che da noi si vota una volta all’anno, se affidi la credibilità dei gruppi dirigenti ai cicli elettorali, non vai da nessuna parte».

Si è parlato di una certa sofferenza degli ex Ds per aver perduto la guida del Pd a vantaggio di un esponente cattolico ed ex democristiano. Le pare la premessa per nuove tensioni?
«Dario è figlio di una storia politica riformista, che conosco bene perchè è quella della Pianura Padana... Questa cultura riformista, che stava in un partito di governo - la Dc - sia pure in posizione minoritaria, non è poi così diversa da quella che c’era, ben radicata ma anche lì in posizione minoritaria, nel Partito comunista. Io ho gli anni che servono per ricordarmi che quando ti volevano appellare con una punta di disprezzo, ti chiamavano riformista. Questo tratto, questa cultura riformista, peserà: in verità, segnala un’identità comune molto forte, che allora era nascosta dal fatto che un partito era al governo ed un altro all’opposizione».

Un’ultima domanda, sindaco: sembrerebbe che dietro l’elezione di Franceschini ci sia un accordo che prevede che lui non si candidi alle primarie d’autunnno. Crede che sia giusto e che poi andrà così?
«Io trovo che questa discussione sul dopo, almeno per come l’ho letta sui giornali, sia abbastanza insensata. Se Franceschini si candiderà al congresso o se non si candiderà, lo deciderà lui sulla base del lavoro e dei risultati di questi mesi, immagino. E fare entrare nella discussione di oggi quello che dovrà decidere lui tra otto mesi, è sbagliato. Inoltre, non dovrebbe sfuggire a nessuno che cominciare a discutere oggi di questo ci fa riprecipitare negli errori che già tanto ci sono costati».

da lastampa.it


Titolo: Bersani "Tre progetti per salvarci dalla crisi"
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2009, 10:29:23 am
9/3/2009 (7:23) - PARLA L’EX MINISTRO

"Tre progetti per salvarci dalla crisi"
 
«Franceschini? Niente patti segreti con lui Se vuole a ottobre può correre da leader»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Dritto e schietto, perfino più del solito: «Ma lasci stare... è soltanto propaganda. Che Franceschini sia diventato un signor no, è argomento buono - forse - per i loro comizi. Noi non diciamo solo no: avanziamo proposte alternative, come si è visto negli ultimi giorni». Pierluigi Bersani cita l’ultimo esempio: il piano casa. «Il governo propone una via che può scardinare l’Italia. Bene, noi non diciamo solo no: aggiungiamo che è meglio puntare su una sorta di tridente, di cui magari le dirò...». E infatti, poi parleremo del tridente: prima, però, è ovvio chiedere a Bersani un parere sui passi d’avvio di Franceschini: «Io dico: bene. Dobbiamo riconoscergli dei meriti». E non basta, perchéio dall’unico leader democratico che ha già annunciato la sua candidatura alle primarie d’ottobre, arriva un importante chiarimento intorno al futuro di Franceschini: «Dietro la sua elezione non ci sono patti segreti. Nessuno gli ha detto “ti facciamo segretario, ma alle primarie non devi candidarti”. Deciderà Dario cosa fare: e se vorrà candidarsi, nessuno potrà impedirglielo».

Interessante... ma lei vorrà partire dal tridente, no?
«Con l’aria che tira, magari interessa più del futuro leader del Pd... Se il punto - col piano casa - è attivare il settore costruzioni ed edilizia, faccio una controproposta: attiviamo una sorta di tridente. Primo: i cantieri locali. Sbloccando un po’ di soldi per le grandi opere e mettendo un po’ di libertà al patto di stabilità dei Comuni, apriamo mille cantieri locali per manutenzione di scuole, strade, sovrappassi, rotonde, qualunque cosa ci sia da fare e che possa partire in sei mesi. Secondo: le detrazioni fiscali per le ristrutturazioni. Potenziamole. Il governo le aveva stoppate e le ha comunque complicate, ma sono la prova che si può attivare l’edilizia senza stravolgere le regole. Terzo: fare finalmente il piano casa pubblico. Questo governo ha bloccato soldi che avevano stanziato Prodi e Di Pietro, assieme alle Regioni: sono sempre lì, aspettano di essere investiti».

Si tratta di direttrici molto diverse l’una dall’altra...
«Sì, ma perfettamente in grado di rilanciare l’edilizia senza stravolgere le regole. Non si vede perché dovremmo scardinare l’Italia introducendo - unici in Europa - un meccanismo che non prevede nemmeno l’approvazione dei progetti».

E perché il governo lo propone? Crede davvero che si voglia cementificare il Paese?
«Questa è una sicura conseguenza, al di là delle intenzioni. E comunque il punto è che il governo, inventa diversivi e inscena colpi di teatro: ma non ha il bandolo della crisi. Primo, perchè manca un giudizio equilibrato su quel che sta accadendo: senza far catastrofismi, ci aspetteremmo però che il governo andasse in tv - come stanno facendo tutti i governi del mondo - dicendo “abbiamo un problema, e c’è un pezzo d’Italia che questo problema ce l’ha gravissimo”. Secondo: perché non coglie la particolarità italiana della crisi, legata al fatto che abbiamo un particolare rapporto banche-imprese, visto che solo qui le banche impegnano i due terzi dei loro crediti alle imprese. Insomma, c’è il rischio del cedimento di un sistema produttivo totalmente bancocentrico».

E come si potrebbe fronteggiare questo rischio?
«Una via potrebbe essere un intervento fiscale di detrazione degli investimenti retroattivo al 2008, perché il guaio maggiore oggi lo hanno le imprese che hanno investito e che adesso hanno i macchinari fermi e le banche che chiedono i soldi. Poi, si tratta di vedere con le banche se esiste una quota di questo credito - appunto quello relativo in particolare agli investimenti - che possa essere trasferito dal breve al medio-lungo periodo, anche con una parziale garanzia pubblica: rafforzando, cioè, un fondo che sostenga un’operazione di allungamento del debito almeno per una fascia di imprese che hanno investito».

Il problema è sempre lo stesso: dove prendere i soldi...
«E infatti, la questione è che, da un annuncio all’altro, il governo riciccia sempre gli stessi soldi. E’ come il gioco delle tre tavolette: i soldi sono ora su questa carta, poi su quella, ma quando vai a vedere non li trovi mai. Però, io che giro parecchio il Paese, le dico che c’è tanta gente che l’ha capito e dice “questi ci stanno prendendo in giro”...».

Ma la questione resta, no?
«Resta perché per affrontare la crisi un po’ di soldi veri ci vogliono. E quei soldi veri li procuri accettando per il 2009 uno 0,5% in più di deficit, e recuperando poi con alcune misure - in particolare di rientro dall’evasione - più qualche intervento di controllo della spesa corrente. Il problema, naturalmente, è volerla fare la lotta all’evasione...».

Andando al Pd, si avverte un nuovo clima: polemizzate meno, lavorate come una squadra e sostenete, invece che affondare, le iniziative del segretario. Le chiedo: perché state concedendo a Franceschini quel che non avete concesso a Veltroni?
«Non è giusto dire così... Non è così. In più, diamo anche a Dario dei meriti, no? E’ uno che lavora molto di squadra, ed è una qualità che gli va riconosciuta. Ma vorrei anche dire, per dare a Walter quel che è di Walter, che questa piega più consapevole del momento l’avevamo presa già nelle ultime settimane».

Franceschini ripete che non sarà candidato alla guida del Pd: è vero che questa rinuncia fa parte di un patto stipulato prima della sua elezione? Cioè, “noi ti eleggiamo segretario, ma tu non ti candidi alle primarie”...
«Non c’è nessun patto di nessun genere. Vale quello che è stato detto nell’assemblea che lo ha eletto: è un segretario vero, con pieni poteri. Secondo: questa storia di ridurre le nostre vicende a chi è il leader, non va bene. Occorre convincersi che in un grande partito non può esserci separazione tra leadership, il progetto organizzativo, il profilo culturale e le idee che porti. Se non abbiamo fatto le primarie improvvisate, è perché ci siamo tutti convinti che non può più essere così». Però non ha risposto. «Come no? Le ho appena detto che non ci sono patti di alcun genere».

Glielo chiedo in un altro modo. Lei sarà candidato alle primarie: vincerle senza Franceschini, non sarebbe un po’ strano?
«Come vede, in questi giorni ci stiamo occupando d’altro... Comunque, io dissi: mi candido perché ho qualche idea su come correggere l’andamento della barca. Il resto lo vedremo. Se ci sono altre idee, ci confronteremo». Insisto: e Franceschini potrà, se lo vorrà, candidarsi alle primarie con le sue idee? «Le ho detto che non esistono patti segreti: più di così! Deciderà Dario cosa fare. E mi pare chiaro che se vorrà partecipare alle primarie, nessuno potrà impedirglielo».

Un’ultima domanda: visto che già se ne discute, quale risultato considererebbe positivo per il Pd alle elezioni europee? Il 25%? Il 28? Il 30, come si ipotizzava un paio di mesi fa?
«Considero un buon risultato da dove siamo oggi in sù. Noi dobbiamo andare in su, poi le percentuali le vedremo. Abbiamo il problema di rimotivare chi ci ha votato nell’aprile scorso, e tutto quello che ci aiuta a ripartire va bene. L’importante è cominciare la risalita. E poi ragionare, naturalmente, sul rilancio strategico del nostro progetto politico».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il nodo della Lega
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2009, 11:15:36 am
29/3/2009
 
Il nodo della Lega
 

FEDERICO GEREMICCA
 
Silvio Berlusconi concluderà oggi il congresso fondativo del Pdl e, archiviata con il discorso d’apertura l’epopea di una cavalcata certamente straordinaria, si attende ora di conoscere i propositi e i progetti che il maggior partito italiano ha in serbo per il futuro dell’Italia.

Non si tratta, ovviamente, soltanto di render note le ricette a breve - cosa pur decisiva - per affrontare la drammatica crisi in atto. Elettori e avversari del Pdl, infatti, intendono capire per quale idea di Paese Forza Italia e Alleanza nazionale hanno deciso di sciogliersi nel Popolo della Libertà: quale disegno istituzionale, quale politica estera ed economica, quali doveri e quali diritti (civili, etici, religiosi) in un’epoca di così repentini cambiamenti. Non troppo tempo fa, nei grandi spazi del Lingotto a Torino, Walter Veltroni tratteggiò, doverosamente, l’Italia per la quale nasceva il Pd: quel progetto fu sconfitto alle elezioni dell’aprile scorso, ma la circostanza certo non esime Silvio Berlusconi dalla necessità di render nota stamane la carta d’identità del neonato Pdl.

Concretissime e stringenti questioni
La richiesta potrebbe apparire singolare (o perfino strumentale) considerato che il Popolo della libertà, di fatto, esiste e governa il Paese già da quasi un anno: lo è invece assai poco, in verità, dopo aver ascoltato l’intervento svolto ieri al Congresso da Gianfranco Fini, «leader ombra» del neonato partito. Un discorso denso, quello del presidente della Camera, che oltre ad aver confermato evidenti diversità di accenti su questioni come il giudizio ed il rapporto con l’opposizione, ha decisamente posto il nuovo partito di fronte a concretissime e stringenti questioni programmatiche e di valori: la linea da tenere di fronte al dramma dell’immigrazione, l’approccio a temi «eticamente sensibili» come il cosiddetto fine vita, la posizione da assumere sull’imminente referendum elettorale, e la necessità di rilanciare un disegno di riordino istituzionale che accompagni e aiuti la trasformazione bipolare del Paese avviata dal Pd e consolidata dalla nascita del Pdl.

Su queste e altre questioni, Silvio Berlusconi dirà oggi la sua: e se è possibile azzardare una previsione, il tanto sottolineato dualismo tra «Silvio» e «Gianfranco» ne uscirà probabilmente ridimensionato. La loro sfida (ammesso che di sfida debba necessariamente trattarsi) ha infatti tempi lunghi, e non rende obbligatoria una resa dei conti immediata. E assai più probabile, invece, che se Berlusconi farà sua la filosofia che ha sotteso l’intervento di Fini, sarà un’altra la questione ad aprirsi in tempi che potrebbero essere assai brevi: e cioè, il rapporto con la Lega di Umberto Bossi. Nemica giurata del bipartitismo e dunque avversa al referendum di giugno, portatrice di un’idea nient’affatto coincidente del fenomeno-immigrazione e per di più assai innervosita dalle aperture all’Udc e dalla «vocazione maggioritaria» che anima il Pdl («Vogliamo il 51% dei voti», ha ripetuto il premier), è possibile che la Lega alzi il tasso di conflittualità che già da qualche settimana segna i suoi rapporti col resto della maggioranza. E questo - non sfugge a nessuno - potrebbe essere per Berlusconi un problema assai più delicato da gestire di quanto non lo sia la conflittualità con il suo vero o presunto delfino.

La «vocazione maggioritaria»
Del resto, è forse inevitabile che le cose vadano così. Infatti, proprio come accadde a Veltroni, è assai complicato annunciare una «vocazione maggioritaria», far passi verso il bipartitismo, auspicare il 51% dei consensi e tenere buoni rapporti con i partiti alleati del momento. È passato troppo poco tempo per aver già dimenticato che effetto ebbe sul governo di Romano Prodi la nascita del Pd. Ed è ancora sotto gli occhi di tutti quanto sia complicato, per i democratici, coltivare la politica delle alleanze propugnando un sempre più accentuato bipolarismo. Berlusconi, soprattutto all’avvio, lodò molto l’iniziativa «semplificatrice» messa in campo da Veltroni. Aveva ragione: anche se - in tutta evidenza - all’epoca ne vedeva più i vantaggi che le questioni che sarebbero sorte. Oggi, quei problemi si parano, assai simili, di fronte a lui. Come deciderà di affrontarli, potremo vederlo da subito: se avrà più fortuna di Romano Prodi, invece, lo capiremo solo più in là.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Troppa fretta
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:58:25 pm
7/5/2009

Troppa fretta
   
FEDERICO GEREMICCA


Quando un disegno di legge catalizza opposizioni che vanno dal Pontificio Consiglio per i migranti fino all’Associazione dei partigiani, coinvolgendo trasversalmente organizzazioni di ogni genere - da quelle dei medici fino ai funzionari di Polizia - delle due l’una: o il provvedimento legislativo è sbagliato oppure il governo che lo propone è sommerso da un tale livello di impopolarità che farebbe bene a lasciare il campo.

Poiché - stando anche agli ultimi sondaggi - non è certo questa la situazione nella quale si trova l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, è allora assai probabile che sia il disegno di legge sulla sicurezza - ancora in discussione alle Camere - a contenere innovazioni e norme ritenute assai discutibili, se non addirittura sbagliate.

In casi del genere - nient’affatto nuovi - buon senso reclamerebbe il tradizionale «approfondimento».

Il tentativo, cioè, di apportare aggiustamenti e correzioni attraverso il confronto. Il governo, invece, ha deciso di porre la questione di fiducia, perché - come ha onestamente ammesso il ministro Maroni - «ci sono malumori in una parte della maggioranza». Malumori tanto diffusi, evidentemente, da mettere seriamente a rischio l’approvazione del provvedimento, nonostante il largo margine di cui il centrodestra dispone in Parlamento. E così, mettendo da parte l’entusiasmo col quale al Quirinale è stata accolta la notizia dell’ennesimo voto di fiducia (più volte sconsigliato dal Capo dello Stato soprattutto in materia di diritti delle persone) non si può non annotare come la scelta dell’esecutivo abbia prodotto un immediato inasprimento dei toni della polemica, che ha spinto Dario Franceschini a evocare addirittura il ritorno alle leggi razziali (sortita che ha rischiato e rischia di cambiare del tutto il terreno della discussione).

Il tema, naturalmente, è assai delicato. E lo è doppiamente per maggioranza e opposizione, che oltre ad avere il dovere di garantire la serenità dei cittadini, sanno ormai per esperienza che sulla questione-sicurezza si vincono o si perdono le campagne elettorali: e giusto tra un mese gli italiani torneranno alle urne... Secondo i leader del Partito democratico, naturalmente, sarebbe proprio questa circostanza ad aver spinto il Popolo della libertà (sotto la pressione della Lega) a cercare l’accelerazione sulla legge in questione. Falso o vero che sia, quel che è evidente è che il clima di collaborazione e addirittura di «pacificazione» che si era determinato a cavallo tra l’emergenza terremoto e la celebrazione del 25 Aprile, sta finendo di nuovo alle ortiche: con quali vantaggi, e per chi, è difficile da intuire.

Quanto al testo in questione, non c’è dubbio che esso porti - ben marcati - i sigilli della Lega. Dall’introduzione del reato di immigrazione clandestina, passando per il prolungamento fino a sei mesi del tempo di permanenza nei centri di identificazione, per finire alla istituzionalizzazione delle «ronde», quasi tutti gli obiettivi del partito di Umberto Bossi sono ora nero su bianco, pronti a diventare legge. E se un paio delle proposte leghiste sono state accantonate (quelle cosiddette dei medici-spia e dei presidi-spia) lo si deve, per ironia della dialettica politica, più all’intervento di Gianfranco Fini che dell’opposizione. Il testo, comunque, rappresenta un fin troppo evidente «giro di vite» che, se potrà forse piacere alla maggioranza dei cittadini, non è detto serva davvero a garantire maggiore sicurezza e livelli di minore clandestinità tra gli immigrati. Alcune norme (illustrate in dettaglio nelle pagine interne) sembrano anzi fatte apposta per favorire un ancor più diffuso «inabissamento» degli immigrati non ancora regolari.

È una linea pagante, quella della «durezza» proclamata e talvolta praticata? Ad un anno dall’insediamento del governo, l’interrogativo è legittimo. E se le opinioni possono essere assai diverse, sulle cifre - invece - c’è poco da arzigogolare. Se per esempio si assume come parametro quel che è accaduto in questi dodici mesi a Lampedusa, luogo simbolo del dramma immigrazione, qualche dubbio è lecito. Gli sbarchi sono più che raddoppiati e dall’insediamento dell’attuale governo (e sull’isola di una vicesindaco leghista) Lampedusa è diventata un inferno: fughe dal centro di identificazione, incendi nella struttura, immigrati in corteo assieme ai lampedusani e l’isola trasformata in una sorta di Guantanamo, con centinaia e centinaia di carabinieri e poliziotti a pattugliare ogni angolo di strada.

Fare dunque un punto a dodici mesi dall’avvio della «terza era» berlusconiana, sarebbe quanto mai opportuno. La via imboccata con il ritorno ai voti di fiducia (è già annunciato analogo percorso anche per la legge sulle intercettazioni telefoniche) si sta però confermando la meno adatta ad una analisi oggettiva e ad un sereno bilancio di quanto fatto. È un peccato: anche perché non era poi così difficile prevedere ciò che avrebbe determinato.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Prigionieri dei processi del premier
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:42:58 am
20/5/2009
 
Prigionieri dei processi del premier
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
E adesso, purtroppo, si può affermare che quel che fino a ieri era solo una deduzione logica (se esiste un corrotto, esisterà pure un corruttore!) da oggi è una circostanza giudiziariamente accertata: l’avvocato David Mills, condannato a 4 anni e 6 mesi per corruzione in atti giudiziari, agì «da falso testimone per consentire a Silvio Berlusconi e al gruppo Fininvest l’impunità dalle accuse o, almeno, il mantenimento degli ingenti profitti realizzati».

È questo, infatti, quel che scrivono i giudici milanesi nelle motivazioni della sentenza di condanna emessa nel febbraio scorso nei confronti dell’avvocato Mills: una sentenza - ora è possibile affermarlo - che avrebbe colpito anche Berlusconi, se la sua posizione non fosse stata stralciata dal processo dopo l’approvazione del cosiddetto lodo Alfano (legge varata nel luglio scorso e che impedisce di portare in giudizio le quattro più alte cariche dello Stato durante il loro mandato).

Dicevamo «purtroppo»: e non soltanto perché le motivazioni della sentenza milanese non sono certo tra quegli avvenimenti capaci di inorgoglire un Paese (e perfino - crediamo - gli elettori di Silvio Berlusconi).

Ma anche perché quel che è andato in scena, dal momento in cui quelle motivazioni sono state rese pubbliche, corrisponde a un copione già assai noto. E, potremmo aggiungere, tristemente noto: da una parte il premier che definisce scandalosa la sentenza, attacca i giudici e avverte che «quando avrò tempo andrò a riferire in Parlamento e vedrete cosa dirò»; dall’altra le opposizioni che, con accenti diversi (si va dall’accusa al premier di piduismo alla più ragionevole richiesta di rinunciare allo «schermo» del lodo Alfano), tornano a cavalcare un già sperimentato «antiberlusconismo giudiziario», provando a modificare il corso delle cose in vista del voto del 6 e 7 giugno. Nulla di particolarmente edificante, insomma. E sarà pure retorico aggiungerlo: ma davvero nulla di edificante, proprio nel momento in cui è di ben altro clima che il Paese avrebbe bisogno. D’altra parte, non c’è nulla di cui ci si possa sorprendere. È da quindici anni esatti, dalla «discesa in campo» di Silvio Berlusconi (1994), che cittadini, commentatori, forze politiche, intellettuali e chi più ne ha più ne metta, si azzuffano intorno ai processi istruiti nei confronti del Cavaliere. Quindici anni di condanne, assoluzioni, appelli e prescrizioni che hanno reso venefica l’aria nel Paese. Le opposizioni ci hanno naturalmente messo del loro, in ragione dei toni apocalittici e degli argomenti (per altro rivelatisi elettoralmente improduttivi) che hanno spesso usato; ma non può esservi alcun dubbio intorno al fatto che la responsabilità maggiore gravi sul presidente del Consiglio, in virtù di una scelta che fu fin dall’inizio definita sciagurata: e la scelta - come spesso sottolineato in passato - è quella di aver deciso di difendersi «dai» processi, piuttosto che «nei» processi.

È tutto questo - intendiamo il comportamento dell’uno e la propaganda degli altri - che in fondo ha reso tutti noi, il Paese insomma, prigionieri dei processi di Berlusconi: prigioniera la politica in senso lato, l’informazione nel suo complesso, prigioniero il Cavaliere - naturalmente - e perfino le opposizioni. Che hanno ormai da anni come cartina di tornasole della propria identità, e come fattore spartiacque per alleanze e rotture, proprio il giudizio e l’intensità della polemica nei confronti di Berlusconi. E tutto ciò, nonostante sia ormai quasi matematicamente dimostrato che inchieste e sentenze rafforzano elettoralmente il premier, capace di compattare e motivare i suoi sostenitori con la tesi «c’è un complotto di giudici e comunisti contro di me».

Per questo, in realtà, la rituale difesa che il centrodestra ha fatto ieri di Berlusconi («Giustizia a orologeria in vista delle elezioni») appare poco sentita, oltre che offensiva nei confronti dei giudici. Piuttosto, è un altro meccanismo a orologeria che si è messo in moto da ieri e che deve - questo sì - preoccupare davvero: ci riferiamo all’intervento che il presidente del Consiglio ha intenzione di svolgere di fronte alle Camere. Ci pensi bene, il premier, prima di andare nelle aule del Parlamento e muovere da lì il suo j’accuse nei confronti di un organo costituzionale; eviti di aprire nuove crisi, come quelle già troppe volte sfiorate col Capo dello Stato; fornisca al Paese la sua versione dei fatti con il necessario senso di responsabilità. Insomma, non dia vita a nuovi scontri. Ne sia certo: il Paese apprezzerebbe assai di più.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La prima frenata per Silvio
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2009, 11:19:17 am
8/6/2009
 
La prima frenata per Silvio
 

FEDERICO GEREMICCA
 
Silvio Berlusconi lì, sempre in alto eppure in calo, lontano - più lontano di quanto immaginasse - dallo scavalcare l’asticella posta alla fatidica «quota 40»; i democratici in netto calo rispetto al 33,1 per cento guadagnato con Veltroni poco più di un anno fa,maancora in piedi, vivi, avendo evitato il temuto precipizio; in forte crescita Di Pietro e Bossi, in salita l’Udc di Casini e il resto - le diverse sinistre, Lombardo e la destra, i radicali di Bonino e Pannella - sotto la soglia del quattro per cento. Più o meno è fatta così l’istantanea ancora un po’ sfuocata consegnata agli italiani, intorno alle due di ieri notte, dalle prime proiezioni. E si può dire che, rispetto ai sondaggi della vigilia, il voto per il rinnovo del parlamento europeo, alla fine, ha fatto registrare una sola vera sorpresa: la battuta d’arresto - anzi, l’arretramento - di Silvio Berlusconi rispetto alle elezioni di appena un anno fa. Centrate le previsioni anche sull’aumento dell’astensionismo: ma l’affluenza alle urne degli italiani resta di gran lunga superiore alla media europea, e andrebbero anzi perfino ringraziati per essere andati a votare così numerosi alla fine di una campagna elettorale che resterà indimenticabile per la sua pochezza.

Già il fatto che i commenti finiranno inevitabilmente per concentrarsi sull’interrogativo principe della contesa appena conclusa - e cioè su quanto Noemi abbia pesato sul voto - la dice lunga sul tunnel attraversato (e dal quale, a campagna finita, si spera di poter venir fuori). Di Europa, come al solito, ci si è interessati poco o nulla. Non è che per questo occorra menar scandalo: ma in precedenti campagne elettorali, almeno, il voto europeo era stato utilizzato comereferendum su problemi un po’ più consistenti del giudizio da dare su veline e voli di Stato o su chi sarà il candidatogovernatore di Berlusconi alle prossime elezioni in Veneto.

Sia come sia, il voto riconsegna al Paese due leader diversamente ma contemporaneamente acciaccati. Su Dario Franceschini c’è poco da aggiungere a quanto già noto: solo un miracolo, cioè un risultato elettorale sopra al 30%, poteva forse salvarlo (e non è nemmeno detto). Prese il Pd in un gelido giorno del febbraio scorso - quando i sondaggi accreditavano il partito di uno sconfortante 22% - con un unico mandato: esecutore testamentario del primo anno di vita dei democrats, un anno fatto di sconfitte elettorali, segretari dimissionari e pesanti interrogativi sul futuro. Un traghettatore.Unreggente. Che però ha fermato l’emorragia e messo un po’ d’ordine in giro. Il risultato ottenuto non è male: eppure ieri pare abbia chiesto ai maggiorenti delPd di attendere almeno il secondo turno elettorale, prima di ricominciare le danze.

Anche su Silvio Berlusconi, in fondo, c’è poco da aggiungere. Apiù di un italiano su tre, piace così com’è: con i suoi guai giudiziari, le sue belle donne, l’aria da furbo e una apparente concretezza nel governare. Eppure oggi piace meno di un anno fa. Non solo non sfonda la soglia del 40% da lui stesso indicata come obiettivo possibile, ma cala fin sotto al 35% perdendo tre punti rispetto all’aprile del 2008. Certo, poteva andar peggio, nel pieno di una devastante crisi economica mondiale, con un terremoto sulle spalle, le foto osè nella villa e i giornali di mezzo mondo che ironizzano su di lui. Ma il premier sbaglierebbe a sottovalutare il segnale che arriva dalle urne. Le cicatrici cominciano a essere tante, e il prestigio traballa. In più, Bossi e Di Pietro, da sponde diverse, lo incalzano. Non si resiste a lungo sotto la bufera. Dovrebbe provare a prendere questo voto europeo come una possibile ripartenza. Cambi strada, abbandoni quel tono da perenne sfida e torni a governare. In fondo, al di là di veline e sentenze, è ciò di cui ci sarebbe più bisogno.
 
da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Massimo e Walter si riprendono il banco
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2009, 03:01:08 pm
17/6/2009 (7:49) - DEMOCRATICI VERSO LE ASSISE

Massimo e Walter si riprendono il banco
 
I rivali di sempre Massimo D'Alema e Walter Veltroni
 
Ricreazione finita: dietro Bersani e Franceschini, i capi sono i soliti due


FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Bisogna fare ammenda e ammettere onestamente che anche quella previsione si è rivelata sbagliata: intendiamo la certezza che, dopo le sfiancanti dispute su «partito leggero-partito pesante» e «dialogo sì-dialogo no», il top del surrealismo applicato al dibattito politico dei democrats fosse stato raggiunto. Errore: si può sempre fare di meglio. E i leader Pd lo stanno dimostrando. Il genere scelto, stavolta, ricorda un po’ il famoso “si fa ma non si dice”, e ci riferiamo - naturalmente - alla discussione divampata sul futuro segretario democratico. Che, sia chiaro, non è ancora cominciata, perché come ha ricordato ieri D’Alema da Crotone, «ora è inopportuna, va fatta dopo i ballottaggi». Però ovviamente nel Pd non si parla d’altro, e la notizia è che sappiamo che Bersani sarà di certo candidato, che D’Alema e Enrico Letta sono pronti ad appoggiarlo, che Prodi non si schiera, Rutelli sta pensando, che Veltroni, Fassino e i popolari ripuntano su Franceschini, e che i quarantenni sarebbero - invece - per un volto nuovo. Sarebbero, s’intende: con il condizionale.

Poi, naturalmente, c’è l’altra notizia. E’ anch’essa una non-notizia: eppure l’implacabile ciclicità con la quale si ripropone e l’inossidabile efficacia con la quale torna puntualmente a dividere, ne fanno qualcosa di addirittura superiore a una notizia, quasi l’unico elemento di certezza - di rassicurante certezza - tra le file composite del centrosinistra nostrano. Veltroni e D’Alema sono di nuovo in campo, ecco, l’un contro l’altro armati. Non è una novità, va bene; e probabilmente non è nemmeno una notizia. Ma di fronte alla desolante confusione che attraversa maggioranza e opposizione, è confortante sapere che almeno una cosa non cambia: la partita la giocano di nuovo loro due, capitani onorari di due modi così diversi di intendere la politica che viene da chiedersi com’è che da quarant’anni militano gomito a gomito nello stesso partito.

L’ingresso nell’arena è stato spettacolare, in ragione del fatto che nessuno dei due contendenti ha voluto cambiare di una virgola lo stile consueto. Giovedì 11 giugno Veltroni convoca le agenzie di stampa e giura: «Non mi tirate in ballo per cose che riguardano la vita interna del Pd, non ho intenzione di occuparmene. Vi stanno dando polpette avvelenate». Quattro giorni dopo, su Facebook, annuncia: «Se ritengo opportuno tornare a dire quel che penso, è perché avverto che il progetto di Partito democratico è messo in discussione», e comunica di aver chiamato a raccolta i suoi per il 2 luglio, «due anni dopo il Lingotto». E chi è mai che mette in discussione il progetto di Pd? Ma naturalmente Massimo D’Alema che, fiutando l’aria, qualche giorno prima se ne era andato a Red tv a spiegare che per la miseria ci sono voluti quasi due anni a sgombrare il campo dall’ubriacatura del Lingotto, fatta di incubi tipo i partiti di plastica e le vocazioni maggioritarie, e che sarebbe ora di rimboccarsi le maniche e cominciare a far politica sul serio. Lui è pronto, disponibile ad assumersi le proprie responsabilità. Per ora, pare, attraverso Pierluigi Bersani: ma non è detto che di qui all’estate qualcosa non cambi.

Per l’occasione Veltroni ha indossato l’ariosa e colorata armatura di sempre, sicuro di non deludere: «Il popolo delle primarie», Internet, il sogno che si è avverato, «ci vuole più riformismo, non il ritorno ad antiche certezze». D’Alema non si è fatto fregare e sempre più simile all’Andreotti del tempo che fu, ha accompagnato la sua scesa in campo con malefici, doppi sensi e profezie, lasciando che la tribù politica si interrogasse - e si dividesse - su scosse e governissimi, apprezzamenti alla classe dirigente del centrodestra e frustate al suo Pd. Scesi loro in campo - fingendo truce indifferenza l’uno nei confronti dell’altro - parapiglia e confusione sono come spariti. Della Serracchiani non si parla più; del segretario “outsider” nemmeno si bisbiglia; e il leader donna è una simpatica fantasia che è bello ricordare. Ma non ora, appunto: ora si fa sul serio. Come direbbe la Marcegaglia (e D’Alema probabilmente apprezzerebbe) la ricreazione è finita, e ognuno torni al posto di combattimento.

Confortante. Anche perché è evitato il rischio maggiore: il salto nel buio alla disperata ricerca della novità. Del resto, dall’altra parte non fanno così? Fini e Berlusconi non è tre, quattro lustri che stanno sulla scena? E Tremonti, La Russa e Bondi non è quindici anni che compaiono sempre uguali in tv? «Perché la politica è per professionisti, è una cosa seria», direbbe D’Alema. «Che è il motivo preciso per il quale la gente si disaffeziona e non sogna più», replicherebbe l’altro. Per dire che è talmente vero che si torna al canovaccio solito che in fondo si conoscono già strategie, argomenti, attacchi e difese dello scontro che verrà.

Proprio come quando litigano Berlusconi e Fini: già sai come comincia, e anche come finirà. E in effetti, se già ci sono tante cose serie su cui dividersi, che senso ha inventarne di nuove? La conclusione, dunque, è che non c’è da attendersi grandi novità: combatteranno i capitani, e gli altri si sistemeranno come sempre di qua o di là. Solo che, all’ennesima riedizione del solito duello, una cosa la si può dire: e forse è una novità. Basta dare la colpa a loro due. Basta dire che non se ne può più, se non si fa nulla perché non accada più. Non è colpa di D’Alema se ogni volta che apre bocca si scatena un pandemonio e le sue azioni crescono; e non è colpa di Veltroni se è ancora lui a incarnare il desiderio struggente di un partito che non c’è. Si organizzino i giovani o si coalizzino gli altri capicorrente; scendano in campo le donne e si armino i “coraggiosi”. Di più: si trucchino le primarie, perfino. Insomma, chi si lamenta dell’eterna sfida, faccia qualcosa. Altrimenti lasci godere gli altri di un duello così rassicurante. Sì, D’Alema contro Veltroni: perché se va avanti così, forse vuol dire che di meglio non c’è.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La partita di un uomo solo
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2009, 06:51:49 pm
20/6/2009
 
La partita di un uomo solo
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Quando l’ultima scheda di questa seconda e ancor più deprimente tranche elettorale sarà stata scrutinata, non risulterà affatto agevole provare a stabilire, per dire, se Michele Emiliano sarà stato confermato sindaco di Bari per le sue capacità di amministratore. O invece, vincerà per l’indignazione montata in città dopo la faccenda festini-Berlusconi-escort: oppure, per salire al Nord, se Podestà e gli altri candidati del centrodestra avranno consolidato la vittoria di Lega e Pdl in comuni e province per la loro credibilità o piuttosto per l’accorrere in massa alle urne del «popolo della libertà», infuriato per i presunti complotti e le aggressioni continue al premier. Infatti, ancor più che nel voto europeo di due settimane fa - condizionato oltre misura dall’affare Noemi e da suoi possibili effetti - il nuovo test elettorale rappresenta (o sarà considerato) un’ottima cartina di tornasole per pesare l’apprezzamento degli italiani verso l’operato di Silvio Berlusconi: e non intendiamo, naturalmente, il suo operato in politica, quanto - piuttosto - nella gestione delle sue faccende private.

L’ultima foto di questa seconda campagna elettorale (voteranno pur sempre quasi 14 milioni di cittadini) non ritrae, infatti, un leader su un palco o una selva di bandiere di partito. Ritrae un’altra foto, quella che «L’Espresso» pubblica oggi in copertina: il grande motoscafo del premier, con a bordo sette splendide ragazze, che naviga verso villa La Certosa. Questa foto - assieme a quelle di Patrizia D’Addario, l’avvenente escort pugliese - riassume il senso di questo secondo round elettorale con la stessa efficacia con la quale, nel primo, furono le immagini di Noemi in bikini e della sua festa a dirci per che cosa, anche, si votava. E’ perfino ovvio rimarcare come la politica tradizionalmente intesa non c’entri più niente, con tutto questo: ma è altrettanto ovvio prevedere che saranno proprio queste foto e gli sviluppi che produrranno a incidere sul futuro politico di Berlusconi assai più di quanto lo faranno i tanti sindaci e presidenti che il Pdl eleggerà. E questo accadrà, purtroppo, nonostante il fatto che la partita sia non proprio da poco. Sul piano generale, infatti, il voto di domani potrebbe permettere al centrodestra di affermare e ampliare una nuova classe dirigente locale capace di fare del Pdl (la Lega lo è già) un partito davvero radicato su tutto il territorio.

Più nel particolare, invece, si decidono sfide il cui esito potrebbe avere valore «storico» e determinare effetti dirompenti. Si pensi a cosa potrebbe accadere in un Pd già in ebollizione, per dirne una, se Flavio Delbono e Matteo Renzi - entrambi o anche solo uno dei due - perdessero i ballottaggi nelle «cittadelle rosse» di Bologna e di Firenze. O se, al contrario, anche per effetto della bufera che si è abbattuta sul premier, il centrodestra arrestasse la sua avanzata al Nord. Si tratterebbe di eventi - in alcuni casi di assolute novità - sui quali i partiti dovrebbero riflettere. Invece, diciamo la verità, è assai difficile che, passate le prime ore, siano comuni e province a tener banco nel dibattito politico. E’ Berlusconi per primo a non illudersi più. Ieri, nell’ultimo contestato comizio, è stato chiaro. Rivolto ai soliti «comunisti» ha avvisato: «E’ inutile che sperate di buttar giù il governo con trame giudiziarie e attacchi mediatici», confermando che non è al risultato elettorale che considera legato il suo destino. La partita è tutta un’altra: e per la prima volta, forse - mentre cresce il chiacchiericcio su dimissioni, governissimi ed elezioni - Silvio Berlusconi ha capito che dovrà giocarla quasi da solo.

Non con Fini, che evoca «bonapartismi» e incubi da deserto dei tartari; non con Tremonti, silenzioso magari anche solo per evitare equivoci ulteriori; non con tutto il suo partito, dove i dubbiosi e i silenziosi si moltiplicano; e forse, fino in fondo, nemmeno con Bossi, interprete di un’altra Italia, distante da quella del premier quanto lo è Gemonio dalla costa sarda. L’orizzonte insomma è fosco, l’assedio in cui si sente stretto Berlusconi non s’allenta e al Cavaliere tornano in mente immagini di tanti anni fa. I grandi appuntamenti internazionali, per esempio. Era il 22 novembre del 1994, il premier presiedeva a Napoli la Conferenza mondiale Onu sulla criminalità organizzata e fu proprio lì che gli venne prima annunciato (Corriere della Sera) e poi notificato un avviso di garanzia. Fra tre settimane i grandi del mondo si riuniscono a L’Aquila per un atteso G8: quale set migliore per la scena finale, per il temutissimo colpo di grazia? Anche per questo Berlusconi viene dipinto come nervoso oltre ogni possibile misura. Lo preoccupano le mosse degli «avversari», l’evolversi di inchieste che definisce «spazzatura». Lo preoccupano il progetto ed i tempi dei «complottardi». I tempi, già. Rischiosi per il Cavaliere, ma non infiniti nemmeno per l’opposizione. Da martedì, infatti, si tornerà a parlare non solo di Noemi, Patrizia e le ragazze in bikini: torneranno in primo piano anche le magagne del Pd. Finita la fase esoterica del confronto, infatti, i democrats metteranno in pista i candidati-segretari e comincerà una discreta baraonda. Così, una speranza consuma il Cavaliere: che si cominci a riparlare dei guai degli altri. Perché in fondo, come sempre, se Atene piange Sparta certo non ride.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ritorno al partito
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2009, 06:19:37 pm
2/7/2009
 
Ritorno al partito
 
FEDERICO GEREMICCA
 
La prima cosa che va comunicata agli iscritti, agli elettori ed ai simpatizzanti del Pd è che ieri, nel suo discorso della Corona, Pierluigi Bersani non ha citato Obama, non ha evocato catastrofi ecologiche.

Ha mal nascosto un certo scetticismo intorno all’uso di Internet applicato alla politica e soprattutto - non avendone parlato - crediamo non abbia neppure un sogno. Non sappiamo, onestamente, se tutto ciò vada preso come una buona o una cattiva notizia. E’ però facile immaginare che il percorso proposto da Bersani al Pd sarà rapidamente catalogato sotto la voce «ritorno al passato»: con un accento negativo che lo stato del presente, per la verità, non giustifica granché.

Sia come sia, il discorso di candidatura di Pierluigi Bersani ha ieri ufficializzato il bivio di fronte al quale saranno gli iscritti (al congresso) e poi gli elettori (alle primarie) del Pd. Da una parte, la proposta di una nuova scommessa sul futuro, andare avanti senza alzare il piede dall’acceleratore, continuando nell’innovazione e mettendo in campo una nuova squadra di giovani dirigenti; dall’altra, invece, l’idea che - dopo il triplo salto mortale col quale Ds e Margherita in agonia crearono i democratici - sia venuto il tempo di fare un punto: rivedendo la forma partito, ricucendo qualche straccio di alleanza, avendo meno puzza al naso per certe invocazioni che vengono dal profondo Nord e insomma tornando a discutere di cose concrete, piuttosto che se siano meglio i giovani dei vecchi o se sia ancora figo mettere la cravatta. Il Pd dell’«avanti tutta» è quello che hanno in mente Franceschini, Veltroni e la composita maggioranza determinatasi attorno a loro, da Marini alla Serracchiani; quello del «ritorno al passato», invece, candida Bersani, allinea Letta e Bindi, gode della protezione di D’Alema e forse perfino di Romano Prodi, anche se non vuole che si dica. Quel che questo pezzo di Pd ha in testa, ieri l’ha detto con la massima chiarezza.

Grandissime differenze programmatiche tra i due schieramenti non ce ne sono e la sfida si giocherà, presumibilmente, sul piano delle priorità da dare al Pd e sull’idea stessa, in fondo, di cosa siano oggi la politica e, dunque, un partito. Non è una novità dire che su questi terreni le convinzioni di Bersani siano di matrice più tradizionale: ma, anche qui, è coraggioso accompagnare questa affermazione con un giudizio negativo, considerati certi risultati del cosiddetto «nuovismo». E comunque sia, con un discorso poco enfatico, perfino noioso - infarcito com’è stato di rimandi alla riforma della pubblica amministrazione piuttosto che a nuove politiche produttive per la piccola impresa - la correzione di rotta proposta da Bersani è netta. Dopo i «sogni» veltroniani e i «radicalismi» di Franceschini, quello che tratteggia l’ex ministro - per i riferimenti alle alleanze politiche e per le questioni concrete affrontate - è un Pd assai più pragmatico e «di governo»: un partito che cambia priorità, tentando di recuperare terreno nel mondo della produzione e del lavoro, tra i ceti a lui storicamente più vicini.

Naturalmente, come ogni opposizione che si rispetti (per l’altro schieramento è pur sempre candidato il segretario) Bersani e i suoi possono godere del vantaggio «dello stato delle cose». Non è poco. Sconfitte elettorali a raffica e un diffuso disorientamento assegnano adesso a Dario Franceschini l’onere della prova: e cioè, che andando avanti così il Pd tornerà a vincere. Se convincerà di questo la maggioranza dei suoi elettori, il segretario resterà segretario: altrimenti, sarà il via libera a quello che alcuni già chiamano il «ritorno al passato». Come fosse sempre una colpa, anche quando il presente è quello che è...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - CHE AMAREZZA, UN CONGRESSO CONTRO DI ME
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2009, 11:32:35 pm
CHE AMAREZZA, UN CONGRESSO CONTRO DI ME

9 Luglio 2009


Intervista di Federico Geremicca – La Stampa


Roma - Aggressività. Gliel’hanno rimproverata in tanti: Fassino, Castagnetti, «Europa» e molti supporter di Franceschini. Hanno detto: troppa aggressività verso il segretario, nella prima uscita congressuale di Massimo D’Alema. È passato qualche giorno, ma ancora adesso dice di non capire: «La parola è sbagliata. Quella giusta è: amarezza. Amarezza per il fatto che si dica - senza che nessuno del gruppo dirigente replichi - che questo è il congresso del Pd contro di me; e poi perché invece di affrontare i problemi veri, qualcuno ha preferito aizzare le istanze di rinnovamento contro un immaginario nemico interno. È un un grave errore di partenza: ma è così che il segretario del Pd ha voluto dare il via alla nostra discussione». D’Alema appare davvero amareggiato: e poiché l’amarezza a volte può trasformarsi in rabbia, ecco che il confronto nel Pd rischia davvero il piano inclinato dello scontro per lo scontro. Anche per questo, forse, lui prova a rassicurare: «Questo non è il congresso del ritorno di D’Alema, altrimenti mi sarei candidato». Il che non vuol dire, però, che faccia sconti al modo in cui è stato costruito e gestito il Pd: «Ci siamo fatti del male. Il Pd è una grande novità che nessuno vuol cancellare: è il nerbo di un’alleanza senza la quale torniamo al prima, a quelle debolezze strutturali che ci facevano poco credibili come forza di governo. Però, è chiaro, molte cose devono cambiare».

Lei chiama in causa Franceschini: ma anche Fassino l’ha attaccata. Ha detto: uno statista non ha paura della Serracchiani.
«Non capisco. È parlamentare europea e protagonista autorevole del dibattito politico, tanto che si parla di lei come vicesegretario del Pd. Ha fatto un’intervista per dire che bisogna fare il congresso contro di me e io le ho risposto prendendola sul serio, il che mi pare una forma di rispetto. Che mi vuol dire, Piero? Che alternativa avevo? Ho risposto con più garbo di quanto lei ne abbia riservato a me: e vorrei una discussione politica per approfondire il perché di rilievi così violenti. Vorrei discuterne, ma senza polemizzare con Fassino».

Perché?
«Perché mi dispiace. E perché non credo siano questi i nostri problemi».

La preoccupa la prospettiva di uno scontro vecchi-nuovi?
«Sì, perché non è questo il tema: non siamo di fronte a un conflitto generazionale, ma a diverse opzioni politiche. I giovani hanno posizioni diverse tra loro: erano in tanti anche da Bersani. La divergenze sono politiche. Il resto è propaganda».

Infatti la piattaforma di Bersani è stata criticata politicamente: è stata definita un «ritorno al passato»...
«Se aveste ascoltato il discorso col quale Marini ha fatto sapere che sosterrà Franceschini... Altro che Bersani! Queste polemiche non reggono. Al contrario, credo che Pierluigi abbia posto il vero problema che abbiamo di fronte».

E il problema sarebbe tornare indietro? Magari mitigando le primarie, contrattando alleanze come ai vecchi tempi e puntando a leggi elettorali meno bipolari?
«Il problema è fare del Pd una grande forza politica che torna a occuparsi dei problemi del Paese, senza finte contrapposizioni tipo vecchio-nuovo. La ricostruzione che viene fatta del discorso di Bersani è caricaturale. Abbiamo di fronte problemi enormi, che riguardano la difficoltà di tutte le forze riformiste in Europa. Il grande interrogativo è: perché, quando esplode la crisi della stagione neoliberale, mentre nel mondo i progressisti colgono le nuove opportunità, in Europa non c’è una sola forza riformista in grado di raccogliere la sfida?».

E rimanendo all’Italia, qual è la sua risposta?
«Per quanto riguarda noi, il problema è costruire una stagione riformista a partire da una cultura politica robusta. Un partito nuovo deve fondarsi su un progetto per il Paese e su una solida cultura politica. Finalmente Bersani ha posto questi problemi, mentre noi veniamo da momenti un po’ così, in cui il nuovismo si è manifestato in forme perfino stravaganti...».

Siamo sempre al «partito liquido» e a tutto il resto?
«Non solo. Il problema di fondo è il progetto che noi abbiamo proposto al Paese. Qual è questo progetto? Certo, non il dire che noi siamo più liberisti di Berlusconi, perché non può essere questo il principio ispiratore del centrosinistra: così, infatti, si lascia alla destra l’idea di comunità, solidarietà, protezione delle fasce più deboli. È lì che siamo stati battuti. E ha certo pesato negativamente l’idea che il Pd muovesse dalla liquidazione delle culture solidaristiche da cui pure traeva origine».

Addirittura la liquidazione?
«Se ripensiamo alle parole d’ordine con le quali è nato questo partito, l’idea è quella dello sradicamento. Di più: è apparso che proprio lo sradicamento rispetto a quelle culture fosse il compito principale da proporsi. Senza rendersi conto, alla vigilia della crisi, che le difficoltà avrebbero riportato d’attualità proprio quelle culture».

E siamo di nuovo al nuovo contro il vecchio...
«Sto parlando di cultura politica e di progetti per il Paese. La destra non ne ha, e lo si è visto in questi mesi difficili: ma nemmeno noi siamo stati in grado di metterne in campo uno nuovo. Abbiamo parlato per mesi di alleanze da fare o non fare: dibattito puerile. L’Ulivo fu precisamente un’idea sul futuro del Paese, non solo uno schema di alleanze, che vennero dopo. Il progetto era portare l’Italia in Europa, era l’euro, risanare i conti: e la missione era modernizzare il Paese tenendo il passo del processo di integrazione europea. Dopo quel progetto, non c’è stato altro. È per questo che il discorso di Bersani a me è parso molto bello».

Lei vi ha visto un progetto?
«La maggiore novità - che non è certo un ritorno al passato - è la volontà di ricollocare il partito dentro la vicenda storica del Paese: di immaginarlo, in forme nuove, come il continuatore di qualcosa, perché altrimenti non si capisce che cosa si è. Per il Pd il problema più serio è stato che pochi hanno inteso cos’era questa forza nuova, cosa rappresentasse, qual era il suo profilo. Questo è il tema, oggi: non vecchi contro nuovi. La nostra vera debolezza è l’incertezza di identità, di fondamento. Per questo ha ragione Bersani quando dice “questo è un congresso fondativo”».

Però, presidente, forse anche lei poteva accorgersi prima che era tutto sbagliato. Verrebbe da chiederle dove è stato negli ultimi due anni...
«E’ una critica inappropriata. A me è stato chiesto di girare alla larga, in ragione di una presenza troppo ingombrante».

Poteva dare battaglia. Non sarebbe stata certo la prima, no?
«Chi fa questa obiezione è disonesto, perché da una parte mi si rimprovera di aver rotto le scatole (tanto che il congresso mi dovrebbe cancellare) e adesso mi si accusa di non aver combattuto. Sì, non ho fatto battaglie: e questo forse merita un’autocritica. Ma non è che adesso voglia rimettermi in mezzo. Stiano tranquilli: questo non è il congresso del ritorno di D’Alema, altrimenti mi sarei candidato io».

E perché non lo ha fatto?
«Perché non credo che in questo momento ci sia bisogno di tornare ad una leadership che appartiene al passato. Come ho detto, mi sarei candidato di fronte ad un’emergenza: ma questa emergenza non c’è. In più, c’è Bersani: uno che dice “non sono il candidato di nessuno però credo ci sia bisogno di tutti. E’ il ritorno alla normalità, finalmente, con una persona tranquilla che non pensa di dover fondare il proprio prestigio sulla persecuzione di quelli che c’erano prima: dirigenti, per altro, che hanno vinto elezioni senza offendere nessuno, hanno portato la sinistra al governo e prodotto innovazione culturale. Cose di semplice buon senso, certo. Ma a volte anche il buon senso è rivoluzionario...»



da massimodalema.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La legge del presidente
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2009, 11:11:04 am
9/8/2009
 
La legge del presidente
 
FEDERICO GEREMICCA
 
La conoscenza rende. Le persone che hanno imparato di più, attraverso un’istruzione efficiente, guadagnano di più. Ce lo ha ricordato recentemente James Heckman in una bella lezione per gli allievi del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri. Il capitale di conoscenza non solo giova agli individui che lo possiedono, ma quando si diffonde a livello collettivo produce benessere per tutti. Al contrario, nelle società povere di conoscenza, i singoli individui competenti e capaci anche al massimo grado non possono mettere a frutto il loro prezioso tesoretto cognitivo, e spesso sono costretti ad emigrare se non vogliono sprecarlo. Insomma, la conoscenza produce sviluppo, ma non bastano singoli punti di eccellenza, serve un tessuto, una «buona media».

Finché l’India ha avuto singoli eminenti scienziati non ce l’ha fatta a sviluppare industrie informatiche; le sono stati necessari centinaia di migliaia di tecnici di media qualificazione. Per produrre crescita economica serve una massa critica di buona conoscenza diffusa. E qui veniamo alla mai abbastanza discussa questione meridionale. Poniamo pure (anche se qualche dubbio è lecito) che i numerosi 100 e 100 e lode calabresi siano altrettanto validi - cioè assegnati a parità di criteri - degli sparuti corrispondenti padani; resta il fatto che le capacità medie riscontrate attraverso sistemi di valutazione davvero omogenei, e quindi comparabili, tra paesi sviluppati, rilevano un’Italia mediamente più incompetente, ma non in modo omogeneo. In certe capacità vuoi di lettura vuoi scientifiche, il Nord, in specie il Nord Est, se la cava bene, anche meglio della media europea. Il Nord Est è sopra media pure in matematica. C’è quindi, ed è stato detto e stradetto, un problema di squilibrio di capitale umano tra Nord e Sud. Come spezzare questa eredità negativa? Di nuovo ci vengono suggerimenti interessanti dalle ricerche economiche sull’istruzione, in questo caso sul rendimento degli investimenti nel sistema educativo. È nei primi anni di vita che i bambini acquisiscono i fondamenti del sistema logico e linguistico. Se in quel periodo i piccoli vivono in famiglie povere di conoscenza il loro sviluppo sarà compromesso. I recuperi sono inefficienti, costosi per gli individui e per le finanze pubbliche che sostengono i sistemi educativi in quei salvataggi tardivi.

Dunque è importante investire in nidi e materne di qualità. Così si offrono punti di partenza meno sfavorevoli ai figli delle famiglie svantaggiate e si mettono le basi per accumulare un buon capitale umano diffuso in futuro. Ma questa strategia produce ricchezza anche nell’immediato: perché crea posti di lavoro soprattutto femminile, perché libera tempo di lavoro delle donne per il mercato, e quindi potenzialmente consegna loro reddito da spendere. Di nuovo è il Sud che ha tassi di attività femminile, specialmente tra le giovani donne, incredibilmente bassi, rispetto agli obiettivi fissati dal Consiglio Europeo di Lisbona. Ed è ancora il Sud che manca in modo plateale un altro obiettivo di Lisbona, dove i governi dell’UE si erano impegnati a favorire l’occupazione femminile attraverso il rafforzamento dei servizi per l’infanzia entro il 2010. In Italia, c’è solo un capoluogo di Regione che supera l’obiettivo, Bologna, e l’Emilia Romagna è la Regione che più si avvicina al traguardo. Al Sud la diffusione di questi servizi è drammaticamente carente. L’obiettivo previsto è del 33% dell’utenza potenziale: in Puglia si arriva all’1%, in Calabria e in Campania al 2%.

Come noto, i contribuenti delle regioni del Nord a statuto ordinario versano una parte non piccola dei loro redditi a favore del Sud. Questa necessaria solidarietà ha bisogno di ragioni forti, di scopi convincenti. Una massiccia iniezione di istruzione di qualità che dia pari opportunità ai bambini meridionali e getti radici solide per lo sviluppo ha forse più probabilità di attrarre consensi nordisti di quanto possano farlo alcune spettrali grandi opere. La stanca litania per cui la chiave dello sviluppo sta in «più autostrade, porti e aeroporti» è sempre meno fondata, in un paese con troppi porti e aeroporti di dimensioni inadeguate, e troppo trasporto su gomma. Meglio puntare su istruzione e sull’altro investimento pubblico ovvio e necessario: la legalità. Sono molte e apprezzabili le iniziative che si stanno attuando nelle scuole del Sud per promuovere una cultura della legalità tra i ragazzi. Le ricerche empiriche sul rendimento dell’istruzione ci dicono che si tratta di iniziative importanti, perché non solo le competenze cognitive, ma anche altre capacità determinano sia il successo degli individui, sia quello delle società che ne sono ricche.

Le basi delle capacità non cognitive, ma di relazione, si possono costruire anche dopo la prima infanzia. Però iniziare presto ad acquisire anche queste capacità non guasta. Penso ad esempio alla difficoltà che ancora presentano molti adulti, per altri versi brillanti e istruiti, ad adattarsi all’Italia di oggi, che accoglie quasi 4 milioni di immigrati. Ci sono scuole con alta presenza di bambini immigrati che sfornano allievi bravi e capaci, eppure molti genitori italiani tolgono di lì i loro figli. È un peccato, perché quei bambini saranno meno in grado di convivere con la diversità, una dote utile nell’Italia di oggi, necessaria nella loro Italia di domani. Non tutti i genitori fortunatamente sono incapaci di guardare lontano. Le richieste di iscrizione in alcune scuole multietniche sono in aumento: non solo perché crescono, e molto, gli allievi stranieri, ma perché questi istituti non dispiacciono a un buon numero di saggi genitori italiani.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Le inutili guerre estive
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2009, 10:14:33 am
18/8/2009
 
Le inutili guerre estive
 
FEDERICO GEREMICCA
 
In fondo se ne può ancora ridere, perché siamo in agosto, le temperature sono quelle che sono, e non è vero che il caldo induca solo alla pigrizia: a volte mette la smania. Però, alla ripresa di settembre, Silvio Berlusconi e il Pdl non farebbero male se cercassero di capire a che gioco gioca la Lega: che sta impigliando il Paese in nervosismi inutili e cupe paure, sentimenti ai quali poi attinge a piene mani per i suoi successi elettorali. E la riflessione potrebbe risultare anche, come dire, egoisticamente utile: considerato che non è solo in questione il fatto che un Paese che boccheggia non sente per nulla bisogno di risse sul niente, ma anche la circostanza che l’avanzata elettorale «nordista» ormai inizia a erodere perfino i possedimenti del Pdl.

Ieri, per dire, è stata la giornata in cui ha rischiato di scoppiare la guerra del Castelmagno. Precisamente. Infatti, l’ultima istantanea delle condizioni delle nostre famiglie (il Rapporto di Confcommercio) fotografava un Paese che pare vivere di telefonini ed ha trasformato il vecchio hobby del bricolage in un modo per risparmiare le spese di idraulici e falegnami.

Ecco, mentre le statistiche confermavano che siamo messi così, la senatrice Poli Bortone - presidente di «Io Sud» - invitava i meridionali «a non comprare più i prodotti della Padania» (e se è per questo, il Presidente di «Neapolis 2000» ha proposto che il nuovo inno nazionale sia ‘O sole mio). La ragione? «Così Bossi - ha spiegato la senatrice - la smette con la cancellazione dell’inno di Mameli e la divisione dell’Italia».

Occhio per occhio. Più o meno. E pioggia di interventi e commenti a favore di Bossi (che pure ha giurato che la polemica sull’inno l’hanno inventata i giornali) piuttosto che della presidentessa di «Io Sud». Se ne può ridere ancora, perché è agosto. Ma è da settimane che le sortite leghiste sembrano fatte apposta per dividere il Paese a metà: e non sempre in senso orizzontale. Prima la faccenda dei dialetti nelle scuole e dei test ai professori; poi la trovata delle bandiere regionali da affiancare (solo affiancare?) al tricolore; quindi l’affondo sulle «gabbie salariali» (faccenda più seria); infine «Va’ pensiero» contro l’Inno di Mameli. Insulti e polemiche sul niente. Offensive probabilmente nate per finire nel nulla, ma utili a lanciare segnali agli elettori: ah, noi della Lega lo faremmo, se fossimo più forti...

Già in condizioni di economia «che tira» - e quindi con una maggiore predisposizione al buonumore - zuffe su dialetti e inni risulterebbero insopportabili: figurarsi, dunque, l’effetto che devono avere - nella situazione in cui si è - su cittadini di medio buon senso. Come se non bastasse, a una delle poche cose «solide» e forse fattibili proposta da Bossi (l’assegnazione a giovani disoccupati di terre incolte di proprietà dello Stato) è stata riservata un’attenzione del tutto inadeguata: del resto, vuoi mettere una bella polemica sui test di dialetto ai professori a confronto di una discussione su come trovare occupazione ai giovani? E poi c’è chi ancora si meraviglia e versa lacrime per il continuo crescere dell’astensionismo elettorale...

È per tutto questo che Silvio Berlusconi farebbe bene a occuparsi della Lega, appena agosto sarà finito. In autunno, infatti, il clima potrebbe essere di quelli che certe boutade è meglio lasciarle stare: pena procurare danni seri alla credibilità e all’autorevolezza del governo. I sindacati stanno tornando sul piede di guerra in vista della scadenza della cassa integrazione in aziende medie e grandi, e l’opposizione - tra un congresso e l’altro - proverà a riorganizzarsi. Il rischio, insomma, è di dover ingaggiare battaglie vere. E nessuno, allora, potrà sperare di cavarsela contrapponendo la mozzarella di bufala al Castelmagno...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Un leader in mezzo al guado
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2009, 04:17:16 pm
27/8/2009

Un leader in mezzo al guado
   
FEDERICO GEREMICCA


Alla fine del lungo faccia a faccia con Franco Marini, molti dei presenti al dibattito avevano forse più chiaro il motivo per il quale Gianfranco Fini - a differenza di molti ministri del governo in carica - non ha rifiutato l’invito rivoltogli dagli organizzatori della Festa democratica di Genova. Il presidente della Camera ha probabilmente deciso di intervenire e parlare non solo per rispetto del ruolo istituzionale che ricopre e che lo vuole super partes, ma perché aveva più di un «sassolino» da togliersi dalle scarpe. Fini lo ha chiarito fin dalle prime battute del suo intervento, ed è stato conseguente. E così, non c’è stato tema affrontato sul quale non abbia espresso posizioni del tutto dissonanti rispetto a quelle messe in campo dal Pdl - e soprattutto dalla Lega - in questo torrido mese di agosto.

Dall’immigrazione alle «gabbie salariali», dal testamento biologico («Farò il possibile per correggere il testo») fino alla legge sull’omofobia, è spesso parso ascoltare uno dei leader dell’opposizione, piuttosto che uno dei cofondatori del Pdl.

Il popolo democratico ha molto applaudito, come sovente accade quando le proprie posizioni vengono «legittimate» da interventi del campo avverso. Ha applaudito e si è interrogato intorno alle ragioni per le quali (non da ora) l’ex leader di Alleanza nazionale è solito prendere vistosamente le distanze dalla maggioranza che pure lo ha eletto presidente della Camera. Secondo gli scettici, Fini - con Berlusconi e Bossi - sarebbe nient’altro che il terzo attore di una sorta di oggettivo gioco delle parti che consente alla maggioranza di governo di coprire ogni spazio politico: quello più radicale, con la Lega; quello tendenzialmente centrista - salvo frequenti scivoloni - con Berlusconi; quello perfino con venature progressiste, appunto con gli smarcamenti di Fini. È una interpretazione, quella degli scettici, non peregrina e sostenuta - in fondo - dalla storia recente: che alla fine ha visto il presidente della Camera sempre accondiscendente con Berlusconi, anche a costo di giravolte sensazionali (come a proposito, per esempio, della fondazione del Pdl).

Ma c’è un’altra interpretazione possibile della linea sulla quale è da tempo attestato il presidente della Camera: Fini fa sul serio, è realmente in disaccordo con molte posizioni della maggioranza (soprattutto quelle imposte dalla Lega), annusa la fine naturale del lungo ciclo berlusconiano e si prepara per il dopo. È una interpretazione certo più generosa nei confronti dell’ex numero uno di An ma per ora - e forse non può che essere così - poco suffragata da fatti importanti. Ciò non toglie che tra le cose dissonanti dette ieri da Fini, molte siano state «cattive», e una addirittura velenosa: infatti, in materia di immigrazione e sicurezza, rovesciando sul premier un’affermazione da sempre utilizzata dal Pdl contro l’opposizione, il presidente della Camera ha invitato a non seguire la Lega perché «tra l’originale e la fotocopia, l’originale è sempre più convincente».

È facile immaginare che la prima uscita di Gianfranco Fini non sia granché piaciuta a Silvio Berlusconi, perché anche un eventuale gioco delle parti - insomma - va calibrato. Dal canto suo, però, l’opposizione sbaglierebbe a gioire per questo e ad enfatizzare oltre misura le cose dette ieri dal presidente della Camera. Infatti, nel giorno in cui - dal meeting di Rimini - Mario Draghi fa sapere che per l’Italia l’uscita dalla crisi sarà più difficile che per altri Paesi e si appella «a tutti» affinché si metta mano a riforme non più rinviabili (altro intervento che non sarà piaciuto né al premier né a Giulio Tremonti), ecco, in un giorno così, piuttosto che gioire l’opposizione farebbe bene a prendere Fini in parola ed a sfidarlo: chiedendogli, anche alla luce della carica che ricopre, di rispondere all’appello di Draghi e di dare impulso allo sforzo riformatore sollecitato dal governatore. Gianfranco Fini ha gli strumenti per farlo: sia politici, dovuti al suo prestigio, sia operativi, derivanti dalla carica che ricopre. Operando nelle direzioni che lui stesso indica, insomma, il presidente della Camera renderebbe un servizio al Paese fugando, contemporaneamente, interrogativi e sospetti intorno alle ragioni del suo dissenso.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'impossibilità di essere neutrali
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2009, 10:57:39 am
5/10/2009

L'impossibilità di essere neutrali
   
FEDERICO GEREMICCA


La D’Addario in tv a lavare i panni sporchi davanti a 7 milioni di italiani; l’alluvione di Messina a scatenare l’ennesima emergenza, ricordando a tutti come - più e prima del sempre promesso Ponte - sarebbe il caso di mettere in sicurezza quel che c’è; quindi la sentenza in sede civile per l’affaire Mondadori, con la Fininvest condannata a risarcire De Benedetti con 750 milioni di euro.

E infine, naturalmente, le decine di migliaia di cittadini in piazza per una manifestazione che, indetta per protestare contro il bavaglio che il Cavaliere intenderebbe mettere all’informazione, è stata raccontata e trasmessa da decine di quotidiani e di tv. Eccola, la «settimana nera» di Silvio Berlusconi. E, con l’ormai imminente pronunciamento dell’Alta Corte sul lodo Alfano, non è per nulla detto che quella che si apre sarà migliore di quella che è alle spalle. Ma il fine settimana appena trascorso non è stato duro solo per il premier. Infatti, in un incontrollabile vortice polemico, si sono sentiti altri sinistri scricchiolii. Le fibrillazioni nel sistema dell’informazione, dicevamo: con una sorta di guerra tra bande che ha visto per la prima volta schierato contro una piazza addirittura il Tg1. Poi - e proprio da quella stessa piazza - il Capo dello Stato esplicitamente accusato da Di Pietro di essere un vile: anche in questo caso con toni e argomenti mai ascoltati in precedenza. E le pressioni sulla Corte Costituzionale, che da oggi - è certo - aumenteranno: essendo rimasto nelle mani di quei quindici giudici il diabolico cerino del contestato lodo Alfano.
Dunque, libera informazione, Quirinale e Corte Costituzionale: contemporaneamente sotto violentissimo tiro incrociato. Poteri o organi dello Stato la cui funzione, fondamentalmente, è ergersi a garanzia che leggi ed etica pubblica siano rispettate. Non può essere un caso che al centro degli attacchi più aspri oggi siano capisaldi democratici il cui profilo dovrebbe essere la neutralità rispetto alle contese in atto. E infatti, probabilmente, non lo è: probabilmente, anzi, quel che è sotto gli occhi di tutti è l’ennesimo frutto marcio del cosiddetto bipolarismo all’italiana.

Quando la partita si fa così cattiva
Del resto, non c’è da sorprendersi del fatto che, quando la politica e addirittura la civile convivenza vengono ridotte a una brutale sfida a due (due leader, due sistemi di valori, due idee del mondo, contrapposte e senza sfumature), ecco, quando la partita si fa così cattiva, non può meravigliare che nemmeno a chi dovrebbe esser neutrale e terzo sia permesso di esser tale: né a chi racconta o assiste alla contesa (l’informazione e il suo pubblico); né a chi è chiamato a fare da arbitro (il Quirinale); e nemmeno al guardalinee, in questo caso - appunto - la Corte Costituzionale. Quando si passa dalle parole ai pugni, la pretesa dei contendenti è che si stia o di qua o di là. E intendiamo entrambi i contendenti: perché se è vero che è stato Berlusconi a definire farabutti i giornalisti, è pur vero che è stato Di Pietro a dare del vigliacco al Capo dello Stato.
È certamente una vergogna. Ma con l’annunciata Apocalisse che sta per abbattersi sulla Corte - qualunque sarà il suo verdetto - non è nemmeno detto che il peggio si sia già visto. Del resto, fino ancora a qualche mese fa, davvero si pensava che il fondo fosse stato toccato: poi sono arrivate le escort e le minorenni, e chi credeva che non fosse possibile di peggio si è dovuto ricredere suo malgrado. Quel che dovrebbe preoccupare, adesso, è che - data la violenza dell’escalation - non si riesca più nemmeno a capire come e quando potrebbe giungere la fine. Si va avanti tra gli insulti a fari spenti, giorno per giorno, pronti a veder succedere di tutto.

Verso una situazione fuori controllo
E cosa potrebbe accadere ancora, adesso? Cosa potrebbe avvenire se l’Alta Corte dovesse bocciare il lodo Alfano? Precipiteremmo davvero verso elezioni anticipate? Vedremo mezza Corte - o magari tutt’intera - dimettersi di fronte alle accuse che le verranno mosse? I quindici giudici diverranno d’un colpo mafiosi o «toghe rosse», a seconda del giudizio che emetteranno? Fino a non molto tempo fa, queste sarebbero state solo ipotesi di fantasia: oggi rischiano di diventare il segno che si precipita verso una situazione fuori controllo.
Il dibattito, e perfino la civile convivenza, degradano giorno dopo giorno. Ma se la faccenda finisce davvero per essere che l’Italia, d’un tratto, s’è trasformata in un «regime», nel quale il Capo dello Stato è uno zimbello, il premier un dittatore, l’Alta Corte corrotta e stampa e tv asservite a questo o a quello, ecco, se si radica nel Paese l’idea che l’Italia sia davvero così, la frittata è fatta: il danno sarebbe enorme negli anni, e lungo e faticoso da recuperare. Questa, purtroppo, è la direzione. E di fronte a questa irresponsabile escalation, purtroppo, già non basta più evocare lo stile che la politica aveva negli Anni 50 e 60: al punto in cui si è, ci si accontenterebbe perfino del più modesto realismo (a volte cinico) che i partiti furono in grado di mostrare in alcuni drammatici momenti degli Anni 70-80. Oggi basterebbe già quello. Ma certo resterebbe una domanda: e cioè, che comunità è - e da quale destino è attesa - quella comunità costretta a cercare ragioni di speranza e di ottimismo nel suo passato, piuttosto che nel futuro o nel presente?

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - E nei Palazzi si agitano tre ipotesi sul dopo-sentenza
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:09:51 am
6/10/2009 (7:27)  - RETROSCENA

E nei Palazzi si agitano tre ipotesi sul dopo-sentenza
   
Una crisi classica, il premier che s’arrocca in piazza o il voto anticipato, che pare remoto anche per il Colle


FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Macchine indietro tutta: si torna a dieci, anzi quindici anni fa. I fantasmi sono gli stessi, i toni e gli argomenti anche: giustizia a orologeria, disegno eversivo, poteri forti e complotto, da una parte; corruttore, criminale, antidemocratico e distruttore della Costituzione, dall’altra.

E così, prigioniera delle dietrologie a buon mercato e degli alibi di comodo da essa stessa costruiti e radicati negli corso del tempo, ieri la cittadella del potere politico è parsa alla vigilia di un nuovo impazzimento. Per una sentenza (già emessa) di risarcimento in sede civile, certo; ma soprattutto per un’altra sentenza ormai in arrivo, e attesa spasmodicamente da mesi. Sì, prima e più ancora dell’affaire-Mondadori, è il destino del lodo-Alfano a far fibrillare i palazzi del potere.

E in attesa che si pronunci, sulla Corte Costituzionale stanno piovendo avvertimenti e minacce più o meno velate di ogni genere. La prima e più pesante - e per la verità non recentissima, essendo stata ipotizzata addirittura dall’Avvocatura generale dello Stato nella memoria in difesa della costituzionalità del lodo - porta il nome di elezioni anticipate. E’ stato il primo elemento di pressione messo in campo già da alcuni giorni dal governo e rafforzatosi nella mattinata di ieri alla luce della sentenza Mondadori, considerata una sorta di avvisaglia della ripresa di un’offensiva giudiziaria nei confronti del premier. I

Il messaggio inviato alla Corte non era nemmeno particolarmente criptico: attenti giudici che se bocciate il lodo, qui va tutto per aria. Un po’ di no all’avventurosa ipotesi (quello di Emma Marcecaglia, quello di Bossi, la freddezza di Fini) hanno molto depotenziato la minaccia del corso delle ore. E così, a metà pomeriggio, Silvio Berlusconi ha completamente rovesciato lo schema di gioco. Poche righe, ma chiarissime: «Sappiano tutti gli oppositori che il governo porterà a termine la sua missione quinquennale». Cioè, qualunque cosa l’Alta Corte deciderà, il governo andrà avanti.

Avanti, a quel punto, contro «tutti gli oppositori»: ancor più aspramente di quanto accaduto fino a ora, e aggiungendo a pieno titolo al drappello di mestatori e tramatori di ogni risma i quindici giudici della Corte Costituzionale. A ben vedere, un’arma più affilata e insidiosa della minaccia di elezioni: che alcuni, come detto, hanno subito disinnescato; e che altri, invece, hanno spavaldamente invocato (da Antonio Di Pietro al leader Udc, Casini).

Del resto - è noto - arrivare allo scioglimento delle Camere non è cosa poi così semplice. Qualcuno, al Quirinale, la considera ipotesi - al momento - più che remota: «Il presidente dovrebbe andare in Parlamento - si argomenta - e dire alla sua maggioranza votatemi la sfiducia e andiamo tutti alle elezioni piuttosto che solo io a processo. Impraticabile».

Altra cosa, ovviamente, è se nel corso delle prossime settimane le tensioni nella maggioranza di governo dovessero raggiungere punte tali da non render più controllabile la situazione: ma in questo caso, si fa osservare, ci si troverebbe di fronte a una crisi “classica”, dovuta al deterioramento dei rapporti tra le forze di governo e di fronte alla quale ci sarebbe poco da obiettare.

Una terza ipotesi - tra elezioni anticipate e permanenza in carica dell’attuale governo - non è data. Silvio Berlusconi, infatti, non ha alcuna intenzione - ovviamente - di passare la mano; Gianfranco Fini lo ha rassicurato intorno al fatto che «la maggioranza è solo quella che esce dalle urne» e perfino il Pd è parso poco interessato a quel “governo del presidente” pure invocato da Francesco Rutelli.

Tolta dal campo l’ipotesi di elezioni anticipate, resta invece in piedi la possibilità che - a difesa del governo e contro la magistratura e le sue “sentenze a orologeria” - il Popolo delle libertà chiami la sua gente in piazza a manifestare. Non sarebbe la prima volta: è già accaduto in passato che i leader del Pdl ricorressero alla piazza contro - per esempio - le politiche economiche e fiscali dei governi Prodi. Sarebbe un inedito assoluto, invece, farlo per contestare sentenze emesse da un tribunale o addirittura da un organo costituzionalmente riconosciuto come, appunto, l’Alta Corte.

Tutto, dunque, è ancora in movimento in attesa dell’atteso pronunciamento sul lodo. Con quale serenità i quindici della Corte stamane avvieranno la loro discussione, è facile immaginare. Qualche giorno fa, l’assistente di uno dei giudici più in vista, confidava: «Siamo sotto cumuli di pressioni, pesanti e di ogni genere. Figurarsi che qualcuno ha avvicinato anche me, che pure non sono nemmeno sospettabile di simpatie berlusconiane». Giusto per dire il punto a cui si è...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Silvio e il Colle, l'equilibrio spezzato
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 12:15:14 pm
9/10/2009 (6:55) - LO SCONTRO

Silvio e il Colle, l'equilibrio spezzato
 
Dalla faticosa convivenza ai tentativi di moral suasion del Presidente

Fino all'ultimo incendio dopo la sentenza della Corte Costituzionale

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Adesso che lo stato dei rapporti tra i due presidenti è quello che è - inequivocabilmente logorato, se non inesistente - si può forse scriverne con meno ipocrisia. E dire, per tentare di svelenire il clima, che Silvio Berlusconi a Giorgio Napolitano ha procurato sempre un sacco di guai. A volte perfino involontariamente, e comunque sin da subito: sin da quella stretta di mano, cioè, che il Cavaliere propose all’allora capogruppo Pds alla Camera alla fine dell’intervento col quale Napolitano annunciava il «no» del suo gruppo alla fiducia chiesta da Berlusconi.

Era un’afosa mattina del maggio 1994. Il premier era allora al suo esordio a Montecitorio e quando l’attuale Presidente della Repubblica concluse il suo (pacato) discorso in aula, il Cavaliere lasciò i banchi del governo, attraversò l’emiciclo e - ricambiato - andò a stringergli la mano. Per quel gesto di cortesia politica e istituzionale, Napolitano subì un sacco di guai, di polemiche e perfino di pesanti attacchi. Per esempio da Armando Cossutta - leader di Rifondazione - che alzò l’indice e accusò: «Napolitano ha sempre concepito l’opposizione così, una opposizione di Sua Maestà. E’ per questo che piace a Berlusconi». Cose che, a rileggerle oggi, fanno sorridere.

Sia come sia, tra i due presidenti era cominciata così: verrebbe da dire, come meglio non si potrebbe. Poi, le loro strade si divisero: per ricongiungersi in un altro maggio di 12 anni dopo, quando Napolitano fu eletto Capo dello Stato. Berlusconi - e con lui tutta Forza Italia - non lo votò. In quella occasione si limitò a dire che il nuovo Presidente non avrebbe avuto il suo consenso perché «appartiene a una parte politica che non è la nostra». Pochi giorni dopo, per il solo fatto di aver conferito un incarico esplorativo a Franco Marini (allora presidente del Senato) per capire se era possibile formare un nuovo governo dopo le dimissioni di Prodi, Napolitano diventa «comunista». Da allora, tra i due presidenti il sereno non è mai più tornato. E in fondo, non può sorprendere: considerando che incarnano due idee della politica (e perfino della vita) che più lontane non si potrebbe.

Di scontri e tensioni se ne contano a decine, e vere e proprie leggende di palazzo circondano la difficile comunicazione tra i due, che hanno attraversato anche mesi senza vedersi e parlarsi direttamente (e nelle fasi di grande gelo è a Gianni Letta, naturalmente, che il Capo dello Stato ha fatto e fa giungere le proprie raccomandazioni). Era stato considerato un buon segno il fatto che, dopo averla disertata per anni, Berlusconi era tornato a calcare l’erba dei giardini del Quirinale in occasione della festa della Repubblica: si trattava, invece, solo di un’illusione. Infatti, in questo quasi anno e mezzo di coabitazione, il copione dei rapporti tra i due presidenti non è mai cambiato. Da una parte il premier a decretare, porre fiducie e lamentarsi dei freni impostigli dalla Costituzione; dall’altra il Capo dello Stato a frenare, correggere e adoperare quella che viene definita «moral suasion». Fino a che, dalle scintille su leggi come il lodo Schifani, la Finanziaria o il pacchetto sicurezza, si è passati all’incendio del caso Englaro fino al rogo che è oggi sotto gli occhi di tutti.

La vicenda Englaro, in particolare, rappresenta nelle valutazioni del Capo dello Stato una ferita che nemmeno il tempo potrà sanare. Informato del fatto che il premier intendeva affrontare con un decreto la delicatissima vicenda, prima lo sconsigliò e poi - la mattina in cui era prevista la riunione del governo - gli fece giungere una lettera personale nella quale spiegava perché non avrebbe mai potuto controfirmare un eventuale decreto. Una lettera personale tesa a evitare uno scontro aperto tra le due cariche dello Stato, che Berlusconi lesse invece in Consiglio dei ministri e interpretò come una limitazione dei suoi poteri. Partì la sfida e tra mille polemiche il governo varò comunque il decreto, che fu poi presentato alle Camere sotto forma di legge perché il Presidente - come annunciato - non lo firmò.

Al centro della contesa c’è sempre stata, insomma, una diversa interpretazione dei limiti che la Costituzione impone ai poteri dell’uno e dell’altro e - come oggi è chiaro - perfino il valore da attribuire alla nostra Carta fondante. E poi, naturalmente, come in tutti i rapporti ad alta tensione, possono giocare anche faccende minori. Secondo alcuni, per esempio, il premier mal sopporterebbe l’alto grado di fiducia di cui gode Napolitano (di molto superiore al suo) fino a scivolare in crisi che, si trattasse di due amanti, si potrebbero definire di gelosia. L’ultimo episodio risale a pochi mesi fa: G8 a L’Aquila e venuta di Obama in Italia. Non solo gli inviati al seguito del Presidente americano trovarono nelle cartelle stampa sette righe di biografia per Berlusconi e tre pagine per Napolitano. Ma Obama ebbe l’ardire di salutare il Capo dello Stato come «un grande leader che gode dell’ammirazione del popolo italiano per la sua integrità morale e la sua finezza». Integrità morale? Berlusconi se ne ebbe a male: perché, effettivamente, dall’«abbronzato» uno scherzetto così proprio non se l’aspettava...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Due voci nel gelo della steppa
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2009, 09:29:30 am
21/10/2009

Due voci nel gelo della steppa
   
FEDERICO GEREMICCA


Stavolta Giulio Tremonti ha del tutto ragione. La sorpresa manifestata dal ministro dell’Economia di fronte al gran polverone sollevato dalla sua affermazione che «il posto fisso è un valore», è giustificata. «Non capisco i giornali - ha spiegato ieri da Lussemburgo -. Ho detto una cosa scontata: come che tra stare al caldo e stare al freddo, preferisco stare al caldo». L’esempio è perfetto.

Perché sostenere, con la crisi economica (e occupazionale) ancora imperversante, che il «posto fisso» è meglio di un contratto a tempo, è appunto come imprecare - persi nella steppa siberiana - sul fatto che il caldo è meglio del freddo. Una cosa scontata. E anche inutile, considerata la sua irrealizzabilità. Il caso, quindi, potrebbe essere considerato chiuso qui. Se non fosse che resta una domanda: perché una personalità come Tremonti - cui certo l’acume non fa difetto - una mattina qualunque decide di andare a un convegno di importanti banchieri a raccontare «cose scontate», se non proprio banali?

Fatto rimbalzare nei palazzi della politica, l’interrogativo riceve una risposta tanto vaga quanto univoca: il ministro si sta preparando. E a cosa si starebbe preparando, il ministro? Qui le opinioni divergono un po’, ma solo un po’. Secondo alcuni, starebbe scaldando i motori in vista del «dopo» (e naturalmente ci si riferisce all’unico «dopo» del quale si parla nei palazzi della politica da 15 anni a questa parte: il dopo-Berlusconi). E si starebbe preparando a questo esoterico dopo, strizzando l’occhio ai sindacati, al Pd del post-primarie, alla Lega ed alla sua base, perfino all’anima «sociale» di quella parte di An confluita nel Pdl: quasi a voler testimoniare che esiste un’altra destra, capace di fare la faccia «buona» (sul «posto fisso» e forse non solo) dopo le tante facce «cattive» mostrate dal premier. Il quale premier, però, a dimostrazione che quindici anni in politica hanno fatto anche di lui un «professionista», si è ben guardato dal dargli addosso: «Sono in totale sintonia con Tremonti», ha fatto sapere ieri. Come a dire che ora sono in due, nel gelo della steppa, a sostenere che stare al caldo è meglio che morire di freddo.

Noi, naturalmente, non sappiamo se Giulio Tremonti stia davvero accendendo i motori in vista di un sempre evocato «dopo». Si ha il sospetto, però, che precisamente questo sia quello che invece pensano il presidente del Consiglio e il suo vasto mondo di riferimento. Quando una settimana fa «Il Giornale» rivelò il contenuto della lettera riservata con la quale Tremonti invitava personalità selezionate ad un convegno Aspen nientemeno che su «Costruire il dopo e rinnovare la leadership del Paese», si è inteso che il coperchio stava per saltare. Molti, infatti - a torto o a ragione - hanno considerato lo scoop del quotidiano di famiglia alla stregua di una sorta di avvertimento politico: del genere di quelli fatti giungere nelle settimane precedenti a «nemici» come Dino Boffo ed Ezio Mauro, ma anche ad «amici» troppo scalpitanti, come Gianfranco Fini, al quale fu ricordata l’esistenza di un «dossier a luci rosse» (con seguito di querela).

E nemmeno sappiamo, in verità, se mentre scriveva la sua lettera di invito al convegno Aspen (occorre «in Italia una leadership complessiva sul piano di un consenso che non sia solo immediato e mediatico») Giulio Tremonti lo faceva sapendo di varcare un suo personalissimo Rubicone: un passo, cioè, che agli occhi del premier lo faceva rientrare a pieno titolo nel cono d’ombra dei possibili «congiurati», e dunque meritevole di sospetti e di attenzioni. Non una condizione nuova, per Tremonti, si dirà. Ed è vero. Ma forse è nuova la situazione. Il Popolo della libertà, infatti, è un ribollire di opinioni diverse circa l’opportunità di andare avanti a colpi d’ascia contro le opposizioni, i magistrati, l’informazione e compagnia cantando; la Lega reclama un clima più disteso, capace di favorire - nella seconda parte della legislatura - il varo di qualche riforma; e Fini ed i suoi seguaci non fanno mistero, e ormai da tempo, di ritenere che la rotta vada rapidamente corretta. Non proprio un quadro da calma piatta, insomma. E se in questo quadro anche Tremonti si mette a discettare della leadership futura...

Comunque sia, l’ovvia sensazione è quella di aver visto in scena solo il primo atto di una pièce tutt’altro che vicina alla fine. Un atto per il quale Tremonti sta facendo ora i conti con le critiche che gli piovono addosso da Confindustria e da ministri amici e con la controffensiva - magari solo provocatoria - della Cgil. Ieri Epifani è stato netto: «Considerate le dichiarazioni del ministro Tremonti e la nota diffusa dal presidente del Consiglio a proposito del valore del posto fisso, la Cgil chiede di avviare subito un tavolo di confronto...». Come a dire che se erano solo «cose scontate», se era insomma tutto uno scherzo, il ministro dell’Economia venisse a raccontarlo lì.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Non può essere solo sfortuna
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2009, 04:16:54 pm
25/10/2009

Non può essere solo sfortuna
   
FEDERICO GEREMICCA


Di sicuro non se la immaginavano così, questa fredda domenica delle primarie. E certo non alla fine di un percorso interminabile e già costellato - qua e là - di «incidenti» più che imbarazzanti.

Non potevano supporre che il colpo finale fosse quello che trovano stampato proprio oggi sulla prima pagina di ogni quotidiano. Magari titoli del tipo «Ricatti e trans, Marrazzo si dimette»: il primo tra i governatori del Pd - per l’importanza della Regione che amministra - costretto, insomma, a gettare la spugna per una storia di «vizi privati», ricatti non denunciati, carabinieri arrestati e zone d’ombra ancora tutte da rischiarare.

Non lo potevano supporre, certo, gli iscritti e gli elettori democratici che oggi - con che animo è facile immaginare - andranno a deporre nelle urne milioni di schede per scegliere il loro segretario. Ma non lo potevano supporre, crediamo, neppure i duellanti per la leadership e il gruppo dirigente del Pd: che pure avevano avuto modo di verificare, nel corso della loro «campagna», quanto anche questo nuovo partito fosse esposto - a Roma come in periferia - a quella sorta di erosione morale che è il presupposto di ogni genere di inquinamento.

E così, l’appuntamento che doveva segnare l’avvio della riscossa si trasforma in un giorno nel quale, per il Pd, guardarsi allo specchio diventa ancor più indispensabile.
Che cosa racconta la parabola di Piero Marrazzo? E cosa segnalano, più in generale, gli «incidenti» a questo o a quell’iscritto che hanno accompagnato il lungo cammino verso le primarie?

Per i democratici non è stato certo un periodo fortunato: dallo stupratore «seriale», coordinatore di un circolo Pd di Roma arrestato a luglio, passando per il giovane dirigente emiliano che cercava su Facebook qualcuno che uccidesse Berlusconi, per finire alla sparatoria tra boss camorristi «iscritti» al partito a Castellammare, se ne sono viste e lette per tutti i gusti. E se non fosse bastato, ecco l’ultimo disastro: il capitombolo di Marrazzo. Onestamente, non può essere solo sfortuna.

Che l’indimenticata «diversità» proclamata ai tempi di Berlinguer fosse un ricordo del passato, l’avevano già dimostrato a sufficienza episodi accavallatisi nel corso degli ultimi tre lustri almeno. Prenderne atto fino in fondo - modificando, dunque, linguaggio, argomenti e postulati del nuovo partito - sarebbe stata cosa utile: per non farsi, almeno, trovare impreparati. Si è preferito, invece - in occasioni anche recenti - vestire la tunica bianca del Cavaliere senza macchia, pronto alla guerra col Male che è, naturalmente, sempre e soltanto dall’altra parte. Come se, per altro, prendere atto di una realtà a volte diversa da quella proclamata volesse dire accettarla e darla per scontata: mentre è indubbio che il primo passo per combattere inquinamenti e deviazioni è riconoscerne l’esistenza, chiamarli col loro nome e indicarli con chiarezza come fenomeni da debellare.

Suscitavano tenerezza e tristezza le immagini di Piero Marrazzo, passate ieri sera in tutti i tg, con la sua faccia di bravo ragazzo al tempo di «Mi manda Rai3» e di uomo perbene nei panni di governatore. Ha dubitato qualche ora che dimettersi fosse la scelta migliore, poi ha deciso con saggezza. Ecco, se proprio si vuole, quel che resta della «diversità» di cui dicevamo, si è rifugiata qui: nella diversità - appunto - dei comportamenti di fronte a inchieste e fatti più o meno criminosi. Dire che «dall’altra parte» ci sia una propensione assai meno spiccata a utilizzare lo strumento delle dimissioni non è una tesi a difesa: è una constatazione. Che certo non attutisce il pesantissimo colpo che i democratici subiscono nel giorno delle loro primarie, ma può rappresentare - proprio in una domenica così - il possibile punto della ripartenza.

A condizione, naturalmente, di un lungo bagno di concretezza e realismo, le caratteristiche forse meno evocate dall’atto di nascita del Pd in poi: ma senza le quali, come troppe cose dimostrano, è difficile trasformare un’idea in un partito. Trasformarla, cioè, in una comunità di uomini e donne che sbagliano come gli altri, che impastano il Male e il Bene e che si danno l’obiettivo di migliorare il mondo.

Non di evocarne uno che non c’è.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La svolta e il ritorno all'antico
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2009, 09:47:53 am
26/10/2009

La svolta e il ritorno all'antico
   
FEDERICO GEREMICCA


E’perfino ovvio, dopo una domenica come quella di ieri, dire che giornate così fanno certamente bene al Pd - lo rianimano, lo confortano - ma fanno bene, più in generale, all’intero Paese: che quasi tre milioni di italiani si autogestiscano in una prova di democrazia come le primarie testimonia di un Paese forse stanco ma non ancora fiaccato, nonostante le risse politiche di pessima lega e l’aria pesante che tira. Ma la massiccia affluenza alle urne - pur importante e oltre le aspettative, considerata la slavina di guai abbattutasi sul Pd - è solo la cornice entro la quale è maturata una svolta politica che potrebbe produrre novità in tempi anche molto brevi.

Infatti, il cambio di leadership e l’elezione di Pier Luigi Bersani, se non rappresentano già da soli una svolta, certo si candidano a esserne la premessa.

C’è una frase - pronunciata dal neosegretario nella fase finale della campagna per le primarie - che forse aiuta a capire più di tanti discorsi la bussola con la quale orienterà la sua leadership: «Il più antiberlusconiano è quello che lo manda a casa». Sottinteso: non quello che strilla di più. In fondo, è stato questo il vero spartiacque politico che ha diviso durante la sfida il vecchio segretario, Franceschini, da quello nuovo: il carattere e il profilo da dare all’opposizione e, dunque, anche al cosiddetto antiberlusconismo. L’obiettivo - sconfiggere il presidente del Consiglio - era ed è ovviamente identico per l’uno e per l’altro: sono i toni, i temi e lo stile politico col quale procedere che potrebbero invece rivelarsi profondamente diversi.

Dario Franceschini, e in dirittura d’arrivo anche Ignazio Marino, hanno definito questa possibile svolta come «il ritorno del vecchio». Se con questo s’intende il ritorno a qualcosa di noto, di già visto, è assai probabile che abbiano ragione. Non c’è dubbio, infatti, che tanto il nuovo segretario quanto il più convinto dei suoi sponsor - cioè Massimo D’Alema - non abbiano per nulla condiviso, da un certo punto in poi, la traiettoria nervosa e solitaria impressa al Pd dagli ultimi mesi della segreteria Veltroni, prima, e da quella di Franceschini poi: e ora, dunque, è ovvio attendersi delle correzioni. Nulla che non sia già in qualche modo noto: perché se è vero che durante la sua campagna Bersani non ha snocciolato i soliti dodici o tredici punti del solito programma, è altrettanto vero che la rotta che intende prendere l’ha tracciata a sufficienza.

Pochi punti, e pochissimi svolazzi. Primo: metter mano alla legge elettorale, certo per restituire ai cittadini la possibilità di scegliere i propri parlamentari, ma probabilmente anche per dare una sistemata ad un bipolarismo che va degenerando tanto nei toni quanto nei risultati che produce. Secondo: visto che «il più antiberlusconiano è quello che lo manda a casa», ritessere una tela di alleanze che permetta di raggiungere lo scopo, abbassare i toni di polemiche che possono risultare addirittura vantaggiose per il premier e spostare l’attenzione su quel che poi alla fine orienta davvero il voto della gente (la crisi prima di tutto, e la perdita di posti di lavoro). Terzo: pensare al Pd come a un partito europeo piuttosto che americano, un partito non di opinione ma «di massa» e radicato sul territorio, come si diceva un po’ di tempo fa.

Che queste direttrici di marcia - ammesso che siano poi davvero percorse - segnino il ritorno a qualcosa di già visto (al «prima», appunto, come ha contestato Franceschini) è fuor di dubbio. Che questo sia un male per il Pd, per l’idea che lo generò e perfino per il Paese, è cosa che ora tocca a Bersani riuscire a smentire. E tra le tante annotazioni possibili, per concludere, ne scegliamo due. Una dice che molte delle possibilità di riuscita del nuovo segretario stanno nel grado di unità che saprà costruire nel partito e nell’auspicio che gli altri leader non seminino il suo cammino di trappole, com’è avvenuto sia con Veltroni che con Franceschini. L’altra, più che una annotazione, è una speranza: che il «nuovo corso» contribuisca, per quanto gli spetta, a ricondurre il confronto politico a qualcosa che somigli - appunto - a un confronto, piuttosto che a una continua rissa. Già questo renderebbe l’aria più respirabile. E non sarebbe poco.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Sindrome Prodi al governo
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2009, 09:39:35 am
6/11/2009

Sindrome Prodi al governo
   
FEDERICO GEREMICCA


Chi conosce Silvio Berlusconi, chi lo frequenta e gli parla, descrive il premier in preda ad un umore pessimo.

Ed è pronto a scommettere che si sia davvero alla vigilia di qualcuna delle sue note e improvvise mezze rivoluzioni. Secondo costoro, infatti, il presidente del Consiglio sarebbe il primo ad esser convinto che l’esecutivo - meglio ancora: la maggioranza che lo sostiene - si stia inesorabilmente impantanando, e che l’alternativa ad un «colpo d’ala» (a un colpo di scena) sia fare la fine della legislatura 2001-2006: un rimpasto dietro l’altro per poi filare comunque dritto alla sconfitta elettorale. Forte di quel precedente, Berlusconi è deciso a non commettere gli stessi errori che caratterizzarono la sua ultima esperienza di governo, segnata da dimissioni importanti (da Ruggiero a Scajola a Tremonti) e da un finale di legislatura non proprio esaltante. Eppure, avendo chiara la malattia, meno chiaro è - per ora - il rimedio da utilizzare.

Del resto, qualche tentativo di premere sul pedale dell’acceleratore il premier l’ha fatto: ma è andata che peggio non si poteva. Ha provato ad annunciare l’abolizione dell’Irap, ma ha poi dovuto fare marcia indietro, bloccato dal rigore di Tremonti; ha quindi rilanciato l’idea di una Grande Riforma della giustizia, ma Gianfranco Fini l’ha subito rintuzzato; e intorno alle candidature per le prossime elezioni regionali - è storia di queste ore - è montata una tale confusione che quella che era stata annunciata come una marcia trionfale si sta invece trasformando in un’inattesa e dolorosa Via Crucis.

Se il paragone non risulta offensivo per l’attuale premier (e per il suo predecessore) potremmo dire che sono diverse settimane, ormai, che il governo di Silvio Berlusconi sembra il governo di Romano Prodi: una coalizione litigiosa, un caso al giorno, ripicche, minacce e l’attività amministrativa che va a farsi benedire.

Inutile dire che si tratti di un pessimo segnale: soprattutto oggi che occorrerebbe provare a pilotare il Paese fuori dalle secche della crisi.

Secondo alcuni non si tratterebbe di tensioni nuove. Il malessere di parte del Pdl nei confronti delle pretese del partito di Umberto Bossi, per esempio, non è affatto recente; e antico è anche il dispetto di molti per la «solitaria» politica economica di Giulio Tremonti. Un fattore, soprattutto, avrebbe fino a ora evitato l’esplodere dei diversi malumori: la scelta di Berlusconi di concentrare l’attacco delle opposizioni esclusivamente su se stesso, si trattasse di escort, di lodo Alfano e di processi da celebrare. E’ stato un modo - efficace - di tener compatta la sua maggioranza. Ma appena l’opposizione ha smesso di incalzarlo su questo (evitando di replicare colpo su colpo su faccende private e dintorni) e al centro della scena ci sono arrivati i problemi del Paese, la musica ha cominciato a cambiare.

Il quadro, dunque, oggi appare fortemente mutato. Momentaneamente accantonate le polemiche roventi (e spesso sul nulla) tra maggioranza e opposizione, la situazione è riassumibile più o meno così: sul proscenio non più un insopportabile tutti contro tutti, ma un governo che fa i conti con le scelte da fare: e facendo questi conti, litiga. Niente di eccezionale, in sé: in coalizioni composite, è sempre accaduto. E oltre a non essere necessariamente una tragedia, l’aprirsi di una dialettica all’interno della maggioranza e soprattutto la riduzione del conflitto tra maggioranza e opposizione hanno in sé un’opportunità: che si cominci, civilmente, a discutere di cose serie. Il Paese ne ha un gran bisogno, ed è perfino superfluo ripeterlo. Si facciano, dunque, le scelte che servono. Sperando, naturalmente, che la pronosticata mezza rivoluzione che avrebbe in testa il premier non riporti le lancette dell’orologio al tempo degli insulti e della rissa.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Chi vuol mandare D'Alema in Europa
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2009, 10:20:10 am
8/11/2009

Chi vuol mandare D'Alema in Europa
   
FEDERICO GEREMICCA


Va bene i paroloni e i grandi principi, come l’interesse dell’Europa, il prestigio dell’Italia, eccetera eccetera: ma c’è un bel po’ di gente che di questo se ne frega. E’ da un paio di settimane, infatti, che in conciliaboli più o meno riservati, si arrovellano invece intorno a una domanda alla quale non trovano una risposta. E la domanda è: ma per le nostre faccende, è più «pericoloso» - oggi e domani in prospettiva - un D’Alema in giro per il mondo come ministro degli Esteri d’Europa, oppure un D’Alema che resta in patria, ma amareggiato e magari voglioso di regolare un altro po’ di conti? Certo, è un approccio molto particolare - il solito machiavellismo italiano - a una questione che reclamerebbe, forse, altri interrogativi. Eppure, questo approccio esiste, ed è diffuso. E dunque: meglio osservare da lontano l’ipotetica missione europea del líder máximo (missione che potrebbe però trasformarsi in una nuova e potente rampa di lancio) o farci i conti qui, quotidianamente, tra una grana e un sarcasmo?

Non sembri strano che nel giorno che battezza l’avvio dell’era Bersani e della presidenza Bindi, gli eletti dell’Assemblea nazionale Pd facciano anch’essi i conti con questo interrogativo. C’è da capirlo: in fondo, fatte le differenze, somiglia un po’ a quel «che ne sarà di noi» che serpeggiò nelle file dell’Ulivo quando si fece strada l’ipotesi che Romano Prodi potesse abbandonare la sua creatura per trasferirsi a Bruxelles. E non basta. Perché in questa fredda mattinata di novembre, infatti, c’è anche un’altra suggestione - paradossale suggestione - che aleggia nei saloni del Palafiera: visto che Veltroni ha disertato anche questo appuntamento, è possibile - per caso - che il Pd «antico, socialdemocratico e troppo di sinistra» finisca invece per essere un partito che fa contemporaneamente a meno (magari solo per un po’ e solo per le posizioni di prima fila) tanto di Massimo quanto di Walter, duellanti da una vita?

I due interrogativi si intrecciano. Ma in verità, è soprattutto quello che riguarda il futuro di D’Alema a tener banco in ogni conciliabolo. Cosa è più conveniente che accada, per le nostre faccende interne? Se lo sono chiesto - e se lo chiedono - davvero in tanti. Amici e nemici, naturalmente: da Bersani a Berlusconi, per capirsi. Si può supporre che, con D’Alema emigrato in Europa, il primo sarebbe forse più libero nella gestione del partito; e che il secondo, ovviamente, vedrebbe aperta una linea di credito non da poco con l’intero stato maggiore del Pd. Invece, seduto alla presidenza del Palafiera, affianco alla neo-presidente Bindi, Bersani nega di essersi mai posto l’interrogativo: «Se Massimo riuscisse, sarei felice per lui, per l’Italia e per l’Europa, che farebbe un buon affare - dice -. Quanto al resto, a me lui non dà fastidio da nessuna parte: né se resta qui né se va lì». Di Berlusconi, purtroppo, è più difficile dire. Ed è inutile chiedere proprio a D’Alema che ne pensi e se si fidi delle mosse del Cavaliere: «La fiducia non è una categoria politica», risponde dalla sua poltroncina in prima fila al Palafiera. Ma i toni verso il premier non sono severi come al solito.

Per capirlo, basta chiedere al candidato-mister Pesc della faccenda del vero o presunto veto polacco nei suoi confronti: la domanda, infatti, diventa per D’Alema l’occasione per una riflessione non estranea a certe argomentazioni di Berlusconi. «Quel che dispiace - spiega mentre lo avvicinano in tanti per fargli gli auguri - è che a porre la questione maliziosa sia stato proprio un giornalista italiano. Siamo bravissimi a farci del male da soli all’estero e a denigrare il nostro Paese». Sì, è una tesi cara al Cavaliere. Ma l’obiezione, stavolta, non irrita D’Alema: «Intanto, lui sostiene che a essere anti-italiana è l’opposizione, il che è falso. E comunque non è che solo perché una cosa la dice Berlusconi, vuol dire che sia sbagliata».

Molti, naturalmente - anche nel Pd - fanno il tifo perché l’operazione riesca e D’Alema, per i prossimi cinque anni, abbia altro da fare che creare fondazioni, avvicendare segretari e fare e disfare maggioranze. Ma anche i dalemiani di stretta osservanza - seppur con altre aspettative - fanno il tifo perché il loro leader traslochi in Europa. «Già, sono in tanti a sperare che Massimo si tolga dai piedi - ammette Livia Turco -. Come se una volta assunto il possibile nuovo incarico, non possa intervenire ugualmente sulle cose italiane».

E Latorre, fedelissimo da sempre, aggiunge: «Si fanno delle illusioni: Massimo non abbandonerebbe comunque la politica italiana. E invece di star lì a fare calcoli, riconoscano anche loro - come avviene in Europa - la statura di un leader sempre troppo criticato». C’è altro che i dalemiani naturalmente non dicono: che se andasse in porto l’operazione-Europa, il percorso di D’Alema comincerebbe a somigliare in maniera impressionante a quello di Romano Prodi. Sempre un gradino più giù, è vero: ma la scala sembra proprio la stessa. Presidente del Consiglio come Prodi, anche se per solo un anno e mezzo; poi in Europa come lui, anche se con un ruolo appena meno di rilievo. Tutto qui? Tutto qui. Ma forse non è poco per chi ricorda che il professore tornò dall’Europa per ricandidarsi, battere Berlusconi e tornare a Palazzo Chigi...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bindi: "No alle riforme se servono solo al Cavaliere"
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 11:31:38 am
9/11/2009 (7:37)  - INTERVISTA

Bindi: "No alle riforme se servono solo al Cavaliere"

Il presidente Pd: «Pronti sul civile, ma non per i bisogni del premier»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


C’è una cosa, prima di tutto, che Rosy Bindi - neopresidente del Pd - tiene a chiarire: perché non vorrebbe che in tutto questo mare di parole circa il nuovo inizio, la ripartenza, il partito di alternativa piuttosto che di opposizione, ecco, in tutto questo sorgesse qualche equivoco. Dice: «Visto che il tema è come al solito sul tappeto, vorrei che Berlusconi avesse chiara qual è la nostra posizione: in materia di giustizia, se le proposte continuano a essere costruite esclusivamente sulle sue necessità, confermo che la disponibilità del Pd a discuterne non c’era prima e non c’è adesso. Se ci riesce, quelle riforme se le faccia approvare dalla sua maggioranza: ma osservo che, nonostante le pressioni al limite del ricatto, comincia ad avere dei problemi anche lì».

Come passo d’avvio di un nuovo dialogo non è granché...
«E su cosa dovremmo dialogare, scusi? Sulla ragionevole durata dei processi, della quale il premier si ricorda solo adesso perché gli è stato bocciato il lodo Alfano? Con Berlusconi siamo alle solite: fallisce una strada e allora ne prova un’altra. Ma l’obiettivo rimane sempre lo stesso: sottrarsi ai processi che lo attendono».
Qualcuno aveva inteso che con il “nuovo corso” la posizione del Pd potesse modificarsi: aveva inteso male?
«Certamente. E prima di tutto non aveva inteso Bersani, che anche sabato al Palafiera è stato chiarissimo: noi siamo pronti da subito a impegnarci per la riforma della giustizia civile, che interessa davvero milioni di cittadini. Ma sulla giustizia penale non accettiamo una discussione che sia condizionata dalla posizione personale del presidente del Consiglio. E guardi che ce ne spiace».
Ve ne spiace?
«Certamente. Perché occorrerebbe davvero intervenire per rendere più rapido ed efficace il funzionamento della macchina giudiziaria».
Cambiano i segretari ma il tasso di antiberlusconismo del Pd sembra restare immutato: c’è chi ne sarà deluso, forse.
«Chi si dice deluso, dovrebbe ricordare come era cominciata questa legislatura: all’insegna della nostra massima disponibilità al confronto. Se lo ricorda Veltroni? Rispettoso in campagna elettorale e poi, a esecutivo insediato, aperture, disponibilità al dialogo, governo ombra...».
E poi?
«E poi è cominciata la stagione dei lodi, della propaganda, degli attacchi personali. Il solito Berlusconi, insomma. Ed è vero che lì anche la nostra opposizione ha cambiato tono, fin quasi a entrare in concorrenza con Di Pietro, che forse se ne è addirittura avventaggiato».
E’ tempo quindi, dopo l’avvio di Veltroni e la segreteria di Franceschini, di una rifondazione? E’ questo, insomma, il mandato di Bersani?
«Nient’affatto. La verità è che, al di là delle battute d’arresto e degli errori che tutti abbiamo fatto, io considero questi ultimi 15 anni - dall’Ulivo fino al Pd - come una storia unica. E’ per questo, per intenderci, che così come ai tempi non mi piaceva la “nuova stagione” coniata da Veltroni, non mi pare il caso oggi di parlare di “rifondazione”. Bersani non parte da zero, e noi non dobbiamo ricominciare tutto ogni volta da capo. Oggi possiamo andare avanti e fare delle cose anche in ragione degli errori che abbiamo alle spalle».
Bersani, appunto: che segretario sarà?
«Io lo considero, per molti versi, il continuatore di Prodi: come Romano, non ha bisogno di strillare per dimostrare il suo antiberlusconismo. Ed ha uno stile e un messaggio fatto di semplicità che arriva a tutti. In un periodo di risse, salotti tv e cadute di stile, si presenta come un uomo che vive la realtà comune alla gente normale. Ed ha ragione a dire che Silvio Berlusconi lo si batte certo non cedendo su nulla: ma piuttosto che strillare soltanto, occorre avanzare al Paese proposte più forti di quelle del premier, mostrando il profilo di un partito già pronto per il governo».
Qualche strillo, in verità, si è sentito anche alla vostra Assemblea nazionale dell’altro giorno: quanto è rimasta colpita dal duro intervento di Franco Marini? «Molto, se devo dire la verità. Il partito va rafforzato col concorso di tutti: e uno dei motivi del mio sostegno a Bersani, è stata la certezza che avrebbe lavorato alla costruzione di un partito inclusivo. Intorno alla sua linea politica, l’unità del Partito democratico la si troverà. E’ per questo che non nascondo che il discorso di Marini mi ha un po’ toccato anche sul piano personale».
Si è forse sentita offesa?
«Non è questo il punto. Il punto è che non si può dire che in questo partito la cultura popolare non sia rappresentata: io sono presidente, Letta è vicesegretario e Franceschini è capogruppo a Montecitorio. E noi a quale storia apparteniamo? Io non credo che la cultura popolare possa essere ristretta in una corrente, perché è ben più larga e ben più forte. E non riconoscerlo mi sembra ingeneroso».
Posso chiederle, in conclusione, come mai si è commossa tanto quando ha parlato all’Assemblea nazionale?
«Per l’applauso che mi è stato riservato anche da chi aveva sostenuto altre candidature alla segreteria del partito. E soprattutto perché, dopo 20 anni di vita spesa alla realizzazione di un progetto, l’elezione a Presidente del Pd mi è parsa un grande riconoscimento ad un percorso politico e ad un impegno personale e collettivo che da oggi riprende con entusiasmo immutato».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La pistola che non può sparare
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2009, 02:31:26 pm
19/11/2009

La pistola che non può sparare
   
FEDERICO GEREMICCA


Non era un annuncio. E a sentire il presidente del Consiglio, nemmeno una minaccia. Insomma, l’inattesa sortita del presidente del Senato (che ieri i quotidiani hanno concordemente sintetizzato con un brusco «maggioranza unita o si vota») va derubricata, come si dice, a ipotesi di scuola: quando un governo è troppo litigioso, il danno minore è tornare alle urne. Silvio Berlusconi, infatti, non solo manifesta «stupore» per tutto questo straparlare di elezioni anticipate («mai pensato niente di simile»), ma fa addirittura sapere di considerare la guerriglia scatenatasi nel suo partito «una dialettica interna che ne accentua le capacità ideative». Meglio così: la frase sarà fatta, ma di tutto si sentiva la mancanza meno che di un’altra (per restare in tema) «legislatura breve». Molti saranno contenti, anche se non mancheranno certo i delusi. A cominciare, magari, dal direttore de «Il Giornale», Vittorio Feltri: al quale, stavolta, qualcuno ha girato una notizia fasulla, tanto da fargli titolare «Berlusconi deciso: tutti a casa».

Si fa fatica, naturalmente, a prendere per buona la versione dello stato delle cose fornita ieri dal presidente del Consiglio. Più probabilmente, il segnale che Silvio Berlusconi ha voluto far arrivare alla agguerrita pattuglia di «dissidenti» (dissidenti sull’epilogo da dare al caso-Cosentino o sul destino del ddl in materia di «processo breve») è che la sua pazienza è vicina al limite. Non solo: come spesso accade in politica, il premier ha forse anche voluto saggiare l’effetto che avrebbe sortito una più o meno velata minaccia di elezioni anticipate. Il responso è stato chiaro: nessuno dei destinatari dell’avvertimento è parso spaventato. Probabilmente, per la stessa serie di ragioni che hanno indotto ieri Berlusconi ad abbassare - e di molto - i toni.

Infatti, la minaccia di elezioni anticipate appare, al momento, quella che si è soliti definire una pistola scarica. A indurre il premier a maggior prudenza non sono stati solo i sondaggi ricevuti e non esaltanti: una coalizione che si autoscioglie nonostante una netta maggioranza in Parlamento, raramente è premiata nelle urne. Anche il paesaggio politico che avrebbe preparato e seguito l’eventuale voto, perfino in caso di vittoria, è apparso - infatti - assai sconsolante. Tanto per cominciare, appunto, ci sarebbe il problema di come affrontare le elezioni. Dando per scontato che una resa dei conti con il presidente della Camera provocherebbe certo degli esodi dal Pdl (solo lo stesso Fini e i «finiani»?), questo renderebbe necessario tentare di riportare nella coalizione con la Lega anche l’Udc (se non addirittura il nuovo partito al quale Casini lavora con Rutelli). Ne sarebbe felice, Bossi? Il leader dell’Udc è pronto a tornare nel centrodestra, e a quali condizioni? E non basta, perché il dopo-voto aprirebbe a Berlusconi - anche se vincente, e la cosa non è scontata - prospettive nient’affatto migliori di quelle attuali.

La questione giustizia, per esempio, si riproporrebbe negli stessi termini in cui è irrisolta oggi: e onestamente, cominciare per la quarta volta una legislatura con all’ordine del giorno l’«aggressione giudiziaria» al premier, appare improponibile. In più, come la recente storia politica gli ha già dimostrato, ritrovarsi con Casini in maggioranza non è che sia poi tanto più rilassante che dover fare i conti con le obiezioni di Fini. E come se non bastasse, per Silvio Berlusconi (73 anni già compiuti) si tratterebbe della sesta candidatura consecutiva alla guida del governo: una circostanza che farebbe dell’«amico Putin» un dilettante, e che non è difficile dire se e quanto sarebbe gradita alla maggioranza degli italiani.

Queste e altre ragioni, insomma, hanno consigliato e consigliano al premier di maneggiare con prudenza la «spada elettorale». La via del voto anticipato (sul quale toccherebbe comunque al capo dello Stato decidere) non è dunque percorribile: almeno non adesso, non così e non con motivazioni che disintegrerebbero il centrodestra. E se quella via è ostruita, quale resta? È banale dirlo, ma si possono utilizzare le parole scelte ieri dallo stesso presidente del Consiglio: «Governare per i cinque anni della legislatura, così come da mandato degli elettori... e completare le riforme di cui l’Italia ha bisogno». Non c’è, insomma, da inventare nulla: solo da realizzare quanto promesso. Magari con più serenità e sedendosi con gli alleati attorno a un tavolo per rivedere l’agenda delle cose da fare. Ma togliendo da quel tavolo, naturalmente, una pistola che si è mostrata - se non proprio scarica - quantomeno caricata a salve. Un’arma inutile, insomma, e che infatti non ha spaventato nessuno.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Di che opposizione si tratta
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2009, 11:11:27 am
3/12/2009

Di che opposizione si tratta
   
FEDERICO GEREMICCA


Quando una coalizione di governo dispone di una maggioranza fatta di decine e decine di parlamentari tanto alla Camera quanto al Senato, è chiaro che qualunque tentativo dell’opposizione di determinarne una crisi in Parlamento non può che esser destinato al fallimento.

La richiesta di voto segreto su questo o quel provvedimento (quando possibile) è solitamente destinata a non riservare sorprese, e la presentazione di mozioni di sfiducia può perfino sortire l’effetto paradossale di rafforzare l’esecutivo. Chi dunque oggi è insoddisfatto dell’azione del governo e però contemporaneamente rimprovera all’opposizione scarsa efficacia nel suo agire, non lo fa certo immaginando che l’occasione della caduta dell’esecutivo sia lì a portata di mano (e ciò nonostante non venga, colpevolmente, colta). Quel che si intende piuttosto lamentare, è il perdurare di una certa afasia politica che rischia di portare fuori dalla rotta annunciata durante le primarie anche la segreteria di Pier Luigi Bersani.

Se infatti si erano ben intesi i progetti dell’ex ministro allo Sviluppo economico e dei suoi sostenitori, il «nuovo» Pd avrebbe dovuto caratterizzarsi per poche ma notevolissime innovazioni. La prima: fine dell’antiberlusconismo urlato quasi a prescindere; la seconda: ritessitura di una politica delle alleanze che archiviasse la stimolante ma vana linea della cosiddetta «vocazione maggioritaria»; la terza: costruzione e radicamento sul territorio di un partito da definire - in conseguenza delle prime due novità elencate - più ancora che di «opposizione», di «alternativa». Ora, pur tenendo naturalmente conto che l’ascesa di Bersani alla guida del Pd risale ad appena un mese fa, bisogna dire che le svolte annunciate fanno fatica non solo ad affermarsi, ma in certi casi perfino ad essere percepibili. E tale ritardo - com’è inevitabile - risalta ancor di più di fronte alla situazione in cui versa la maggioranza di governo: che lo stesso Bersani, con sintesi efficace, ha definito di «confusione micidiale».

Esempi se ne potrebbero fare diversi. Qui basta limitarsi a due, tre episodi: capaci comunque di dare il senso di quanta «micidiale confusione» alberghi ancora anche nel quartier generale del Pd. I rapporti con Di Pietro e con «la piazza»: sabato va in scena il no-Bday e tra i democratici, intorno al cosa fare, regna la stessa «confusione» che segnò, in passato, la vigilia di iniziative simili; le questioni che riguardano le vicende giudiziarie del premier: tema assai delicato sul quale - però - si oscilla dai «no» a ogni iniziativa legislativa proposta (dal lodo Alfano al «processo breve») fino alla presunta legittimità del capo del governo a difendersi non solo «nel» ma anche «dal» processo; infine, la scelta dei possibili candidati-presidenti in regioni chiave come la Puglia, il Lazio e la stessa Campania: non solo le scelte restano nervosamente in alto mare, ma su questo terreno il «nuovo», eredità del Pd veltroniano (le primarie), e l’«antico», che si intende riportare in auge (trattative tra partiti e politica delle alleanze), stanno determinando il più insidioso dei cortocircuiti.

In fondo è per questo che può sorprendere ma non scandalizzare il commento col quale, l’altra sera a Ballarò, l’analista americano Edward Luttwak ha sintetizzato l’animo con cui la diplomazia statunitense guarda allo scontro in atto tra il premier e Gianfranco Fini: «Considerando che l’opposizione non lo è, almeno ora sappiamo che c’è un’alternativa a Berlusconi: si chiama Fini». Sarà pure un osservatore di chiare simpatie repubblicane, ma è difficile non intendere quel che Luttwak ha voluto dire: un ricambio possibile - anzi: il ricambio forse oggi più possibile - non è tra maggioranza e opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza. Non è certo un giudizio che possa rallegrare il nuovo gruppo dirigente del Pd, ma sarebbe saggio tenerne conto. Non foss’altro che poiché l’Italia - e la stessa opposizione in questo Paese - ha già conosciuto una stagione nella quale ricambi e alternanza tra leader della stessa maggioranza (anzi, dello stesso partito) erano la norma. Non andava bene il conservatore Rumor? Ecco in campo Aldo Moro. Le élite non tolleravano più i modi spicci di Fanfani? Nessuna paura, arrivava il duttile Andreotti. Sembravano ricambi, e talvolta lo erano davvero. Solo che, seppellita la Prima Repubblica, nessuno immaginava si potesse tornare a una situazione così.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Di che opposizione si tratta
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 03:52:28 pm
3/12/2009

Di che opposizione si tratta
   
FEDERICO GEREMICCA


Quando una coalizione di governo dispone di una maggioranza fatta di decine e decine di parlamentari tanto alla Camera quanto al Senato, è chiaro che qualunque tentativo dell’opposizione di determinarne una crisi in Parlamento non può che esser destinato al fallimento.

La richiesta di voto segreto su questo o quel provvedimento (quando possibile) è solitamente destinata a non riservare sorprese, e la presentazione di mozioni di sfiducia può perfino sortire l’effetto paradossale di rafforzare l’esecutivo. Chi dunque oggi è insoddisfatto dell’azione del governo e però contemporaneamente rimprovera all’opposizione scarsa efficacia nel suo agire, non lo fa certo immaginando che l’occasione della caduta dell’esecutivo sia lì a portata di mano (e ciò nonostante non venga, colpevolmente, colta). Quel che si intende piuttosto lamentare, è il perdurare di una certa afasia politica che rischia di portare fuori dalla rotta annunciata durante le primarie anche la segreteria di Pier Luigi Bersani.

Se infatti si erano ben intesi i progetti dell’ex ministro allo Sviluppo economico e dei suoi sostenitori, il «nuovo» Pd avrebbe dovuto caratterizzarsi per poche ma notevolissime innovazioni. La prima: fine dell’antiberlusconismo urlato quasi a prescindere; la seconda: ritessitura di una politica delle alleanze che archiviasse la stimolante ma vana linea della cosiddetta «vocazione maggioritaria»; la terza: costruzione e radicamento sul territorio di un partito da definire - in conseguenza delle prime due novità elencate - più ancora che di «opposizione», di «alternativa». Ora, pur tenendo naturalmente conto che l’ascesa di Bersani alla guida del Pd risale ad appena un mese fa, bisogna dire che le svolte annunciate fanno fatica non solo ad affermarsi, ma in certi casi perfino ad essere percepibili. E tale ritardo - com’è inevitabile - risalta ancor di più di fronte alla situazione in cui versa la maggioranza di governo: che lo stesso Bersani, con sintesi efficace, ha definito di «confusione micidiale».

Esempi se ne potrebbero fare diversi. Qui basta limitarsi a due, tre episodi: capaci comunque di dare il senso di quanta «micidiale confusione» alberghi ancora anche nel quartier generale del Pd. I rapporti con Di Pietro e con «la piazza»: sabato va in scena il no-Bday e tra i democratici, intorno al cosa fare, regna la stessa «confusione» che segnò, in passato, la vigilia di iniziative simili; le questioni che riguardano le vicende giudiziarie del premier: tema assai delicato sul quale - però - si oscilla dai «no» a ogni iniziativa legislativa proposta (dal lodo Alfano al «processo breve») fino alla presunta legittimità del capo del governo a difendersi non solo «nel» ma anche «dal» processo; infine, la scelta dei possibili candidati-presidenti in regioni chiave come la Puglia, il Lazio e la stessa Campania: non solo le scelte restano nervosamente in alto mare, ma su questo terreno il «nuovo», eredità del Pd veltroniano (le primarie), e l’«antico», che si intende riportare in auge (trattative tra partiti e politica delle alleanze), stanno determinando il più insidioso dei cortocircuiti.

In fondo è per questo che può sorprendere ma non scandalizzare il commento col quale, l’altra sera a Ballarò, l’analista americano Edward Luttwak ha sintetizzato l’animo con cui la diplomazia statunitense guarda allo scontro in atto tra il premier e Gianfranco Fini: «Considerando che l’opposizione non lo è, almeno ora sappiamo che c’è un’alternativa a Berlusconi: si chiama Fini». Sarà pure un osservatore di chiare simpatie repubblicane, ma è difficile non intendere quel che Luttwak ha voluto dire: un ricambio possibile - anzi: il ricambio forse oggi più possibile - non è tra maggioranza e opposizione, ma all’interno della stessa maggioranza. Non è certo un giudizio che possa rallegrare il nuovo gruppo dirigente del Pd, ma sarebbe saggio tenerne conto. Non foss’altro che poiché l’Italia - e la stessa opposizione in questo Paese - ha già conosciuto una stagione nella quale ricambi e alternanza tra leader della stessa maggioranza (anzi, dello stesso partito) erano la norma. Non andava bene il conservatore Rumor? Ecco in campo Aldo Moro. Le élite non tolleravano più i modi spicci di Fanfani? Nessuna paura, arrivava il duttile Andreotti. Sembravano ricambi, e talvolta lo erano davvero. Solo che, seppellita la Prima Repubblica, nessuno immaginava si potesse tornare a una situazione così.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Delusione del Colle: fine del dialogo
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2009, 04:27:54 pm
11/12/2009 (8:27)  - RETROSCENA

Delusione del Colle: fine del dialogo

Il presidente aspetta la rettifica, poi decide di reagire

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


A dir la verità, non è che lì sul Colle - forti delle amare esperienze fatte in questo ultimo anno - ci credessero davvero. Però, poiché la speranza è l’ultima a morire, lo speravano. Speravano, cioè, che per una volta il pesantissimo affondo portato dal Presidente del Consiglio contro la magistratura, la Corte Costituzionale e gli ultimi tre Capi dello Stato, venisse smentito o almeno corretto nei toni, attenuato nella sua inedita violenza. Dunque, hanno atteso. Naturalmente invano. Anzi, quando Silvio Berlusconi è tornato sulla questione («Non c’è niente da chiarire, sono stanco delle ipocrisie») anche i più prudenti tra i consiglieri del Presidente hanno inteso che non c’era altra via da seguire che mettere l’elmetto e tornare in campo.

Sono nate così le poche righe dattiloscritte nelle quali - forse per la prima volta - il discorso di un capo di governo (per altro svolto fuori dei confini nazionali) viene definito «violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia». Non solo: a far intendere che la misura è considerata ormai colma, nella nota del Quirinale viene espressa non solo la «preoccupazione» del Presidente della Repubblica, ma soprattutto il suo «profondo rammarico». Un rammarico che, a tarda sera, fonti della presidenza spiegavano sottolineando almeno un paio di fatti. Il primo: col suo «violento» j’accuse, Berlusconi ha di fatto mandato gambe all’aria quello che la nota del Colle definisce «spirito di leale collaborazione... che giorni fa il Senato ha concordemente auspicato».

Il secondo: giusto due mesi fa (il 7 ottobre) Napolitano era dovuto intervenire per difendere se stesso, i suoi predecessori e la Corte Costituzionale da un attacco dai toni e dai contenuti del tutto analoghi. In quella occasione - attaccando magistratura e Corte Costituzionale - il premier affermò polemicamente che «tutti sanno da che parte sta il Presidente della Repubblica...»: e il Capo dello Stato fu costretto a intervenire per ricordare che «il Presidente della Repubblica sta dalla parte della Costituzione». Si pensava che la questione fosse così chiarita. Ma naturalmente si pensava male... E non sono gli unici motivi di rammarico. Al Colle, infatti, si lamenta l’infondatezza di una serie di affermazioni con le quali la maggioranza (compresi alcuni ministri) ha contestato il fatto che l’unica istituzione che non sarebbe mai difesa quando attaccata sarebbe, appunto, la presidenza del Consiglio. «E’ di non molti giorni fa - si ricorda al Quirinale - l’intervento col quale il Presidente ha richiamato “tutte le istituzioni”, magistratura compresa, ad uno spirito di maggior serenità, responsabilità e collaborazione».

L’obiezione che arriva dal Popolo della Libertà sarebbe, dunque, infondata. Così come si smentisce, naturalmente, l’esistenza di un presunto «asse» tra il Quirinale e la presidenza della Camera. Ieri Fini è stato il primo a contestare le affermazioni tedesche di Silvio Berlusconi chiedendo al premier un «chiarimento» (e ricevendone in cambio un «sono stanco delle ipocrisie»). Ma anche in questa occasione, si spiega, tra Quirinale e presidenza della Camera non c’è stato alcun contatto preventivo. Anzi, la dichiarazione di Fini è arrivata quando il Presidente della Repubblica non era stato ancora nemmeno informato del nuovo attacco del premier: alla fine di una giornata fitta di impegni, infatti, il Capo dello Stato stava incontrando famiglie di bambini provenienti da vari paesi del mondo e curati (in alcuni casi addirittura salvati) grazie ai fondi raccolti da Telethon.

E’ solo finita quell’udienza che il Presidente è stato informato dell’accaduto, decidendo - come detto - di attendere una possibile rettifica di Berlusconi prima di intervenire in difesa della Costituzione e degli organi dello Stato pesantemente attaccati dal premier. E così, il tentativo di rinsaldare quello «spirito di leale collaborazione» invocato dal Presidente, subisce un colpo duro e dalle conseguenze nuovamente imprevedibili. Il premier andrà avanti con la sua polemica o raffredderà il clima? E cosa è lecito aspettarsi dal sistema dei partiti nei prossimi giorni? Lì al Colle si valutano con preoccupazione le dichiarazioni rilasciate nella durissima giornata di ieri: tanto quelle di sostegno al premier, quanto quelle di solidarietà al Capo dello Stato. Si cerca di tratteggiare, insomma, il quadro della situazione ed il dislocarsi delle varie forze in campo. E qualcuno, in fondo, segnala e fa notare alcuni rumorosissimi silenzi. Come quello della seconda carica dello Stato, il presidente del Senato, muto per tutto il giorno di fronte al pesante attacco mosso alla magistratura, alla Corte Costituzionale ed agli ultimi tre Presidenti della Repubblica...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ultimo appello al premier
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2009, 04:19:07 pm
22/12/2009

Ultimo appello al premier
   
FEDERICO GEREMICCA


Comincia a esserci qualcosa di fastidioso nel coro di elogi e consensi che fa puntualmente seguito a ogni importante discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica.

Non che, naturalmente, ci sarebbe da augurarsi il contrario: più semplicemente - e considerato il punto cui è giunta la parabola - sarebbe forse tempo di veder tradotti, almeno per una volta, quegli elogi e quel consenso in atti politici coerenti e conseguenti.

A un tale pensiero si è stati forzosamente indotti ieri, ascoltando appunto il Capo dello Stato rivolgere - nello splendido Salone dei Corazzieri - il suo preoccupato discorso di fine anno alle alte magistrature della Repubblica. Il motivo è assai semplice: nel suo intervento, Napolitano è stato costretto a citarsi più volte e a ricordare come alcuni suoi allarmi (intorno ai quali, naturalmente, registrò il massimo del consenso...) sono ormai vecchi di anni: le «severe considerazioni» intorno alle storture che accompagnano il percorso in Parlamento della legge finanziaria, per esempio, risalgono addirittura ai discorsi svolti di fronte allo stesso consesso nel dicembre del 2006 e poi del 2007. Anche in quelle occasioni, grande sostegno alle preoccupazioni presidenziali e poi pagina voltata e tutto come prima.

Pur evitando pessimismi - dei quali per altro non si sente affatto il bisogno - occorre però dire che, al momento, non par di scorgere novità tali da far ipotizzare sostanziali cambiamenti rispetto al copione di questi ultimi anni. Eppure, l’intervento del Presidente si è mosso con la consueta lucidità dentro quel quadrilatero di rapporti da tempo fonte di ogni problema: politica-giustizia-governo-opposizione. Si è trattato di un discorso severo e fermo, soprattutto nei confronti della maggioranza di governo e di Silvio Berlusconi, al quale - espressa solidarietà «istituzionale e personale» - non ha certo risparmiato rilievi: dall’evocare complotti contro il governo, che la Costituzione rende impraticabili; all’aver «compresso» il ruolo del Parlamento (con il continuo succedersi di decreti-legge: 47 dall’inizio della legislatura); fino a ritenere la nuova legge elettorale una modifica di fatto della Costituzione che ne farebbe addirittura un premier eletto dal popolo.

Secondo il Capo dello Stato non è percorrendo queste vie che si favorisce una distensione del clima e non è così, soprattutto, che si costruisce un terreno favorevole alla realizzazione di riforme condivise, per le quali «purtroppo ancora non si vede un clima propizio nella nostra vita pubblica». E se quello delle riforme - istituzionali, costituzionali ed economiche - rimane, per dir così, un chiodo fisso nei ragionamenti di Napolitano, va annotato che un altro elemento di fortissima preoccupazione vi si è aggiunto negli ultimi giorni: il dovere di «prevenire ogni degenerazione verso un clima di violenza». Può apparire scontato far riferimento a questo dovere oggi, dopo l’inaccettabile episodio dell’aggressione a Berlusconi: ma Napolitano ha ricordato che appena qualche giorno prima del 13 dicembre aveva rivolto un ennesimo appello affinché venisse fermata «la spirale di una crescente drammatizzazione delle polemiche e delle tensioni tra le parti politiche e le istituzioni».

Quell’appello - come purtroppo testimoniò anche il durissimo intervento contro la magistratura, la Corte Costituzionale e gli ultimi presidenti della Repubblica svolto da Berlusconi appena tre giorni prima dell’aggressione milanese - rimase inascoltato: l’auspicio del Capo dello Stato è che almeno ora tutti riflettano sulla china imboccata. «Stiamo attenti - ha chiesto ai leader e alle autorità presenti nel Salone dei Corazzieri - a non lacerare quel fondo di tessuto unitario» decisivo per la tenuta democratica del Paese e il suo sviluppo.
Anche stavolta l’appello è stato rivolto a tutti con tono appassionato ed è stato da tutti, naturalmente, apprezzato e condiviso.

Il solito copione, verrebbe da dire: anche se, soprattutto dopo l’aggressione subita da Silvio Berlusconi, c’è da sperare che alla solita trama fatta di polemiche e tensioni, uomini di buona volontà decidano di cambiare almeno il finale.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La Puglia e 'a guerra "Qua ci suicidiamo"
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 05:03:29 pm
7/1/2010 (7:18) - REPORTAGE

La Puglia e 'a guerra "Qua ci suicidiamo"
 
Il sindaco Emiliano sbotta: mi sono stancato di fare lo psichiatra

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI


Può capitare perfino di raccogliere belle frasi, andandosene in giro per Bari a sondare l’umore di qualcuno degli attori di una confusissima vicenda che tutti però ormai chiamano, per semplicità, «’a guerra».

Quella che regala, per esempio, Michele Emiliano, imponente sindaco di Bari, mentre si abbandona sulla poltrona del suo ufficio in questo tiepido mattino della Befana: «Le confesso che mi sono abbastanza stancato di fare lo psichiatra del centrosinistra pugliese. E ancor di più di starmene a guardare l’agonia, anche mentale, di certa sinistra delle nostre parti. Forse è davvero venuto il momento di pensare solo e soltanto all’amministrazione. Ma a Nichi io l’avevo detto per tempo: “Dacci una mano, che se no qui finisce che rischiamo di perdere le elezioni”. Quella mano io la sto ancora aspettando».

Anche qualcun altro dice di aver chiesto la stessa cosa a Nichi Vendola: dare una mano. Usando altri argomenti, però, e un’altra bella frase. Nicola Latorre: «A Nichi abbiamo detto: queste sono le chiavi della macchina, guida tu. Poi però abbiamo visto che sulla macchina guidata da lui non ci vuole salire nessuno, e noi invece abbiamo bisogno di riempire tutti i sedili. Casini ha detto che l’Udc sosterrà Francesco Boccia anche se Vendola dovesse candidarsi comunque. E anche a rischio di perdere. Mi pare importante, politicamente, e bisognerebbe capirlo». Ma per quanto importante, anche a Nicola Latorre - mentre lo dice - non può sfuggire che non deve essere proprio il massimo della vita, per un governatore, sentirsi dire (alla fine di una legislatura scoppiettante) «scusa ma fatti da parte che altrimenti l’Udc non sale a bordo».

E infatti Nichi Vendola non ha preso affatto bene né queste né altre richieste del genere. Lui, il «governatore del popolo» che sconfisse contro ogni pronostico uno dei più furbi leoni berlusconiani, Raffaele Fitto, non ci sta a mettersi in disparte. Per ragioni politiche e personali: «Casini dice che in Puglia non può votare per me perché sono la sinistra no global, ma sbaglia: i miei apologeti sono stati D’Alema e Latorre, che hanno parlato di me come di una forte novità nel campo del riformismo. Comunque sia, con l’Udc si regolino come credono: qui però si capirà cosa è destinato a essere il Pd. E per quanto mi riguarda personalmente, e a proposito di certe polemiche che al tempo hanno diviso i democratici, vorrei si ricordasse che non ho fatto una scissione per far affermare una vocazione minoritaria... Mi sono battuto per un compromesso tra la sinistra e il centro: e ora che dote dovrei portare a questo progetto, il mio suicidio politico?».

Il suo e, con ogni probabilità, dell’intero centrosinistra pugliese. Perché non c’è altro modo per definire quel che accadrebbe alle elezioni di marzo con in campo due candidati del centrosinistra, Vendola - appunto - e Francesco Boccia (economista 42enne, neodeputato, ormai più candidato che esploratore) che ha subito ottenuto il sostegno di Casini: un suicidio politico. Che Michele Emiliano aveva però profetizzato per tempo, e non solo chiedendo a Vendola - pena la sconfitta - il sostegno alla sua o a un’altra candidatura gradita all’Udc: «Quando arrivò in campo l’ipotesi di candidare me - racconta - io lo dissi anche a D’Alema: “Massimo, guarda che Nichi non mollerà e ci farà perdere le elezioni”. Bersani sta provando a convincerlo in ogni modo, perfino promettendogli di occuparsi di Giordano, di Migliore e di altri compagni: ma niente da fare.

In ogni caso, per me la linea di ampliare le intese con l’Udc ovunque possibile è giusta: con loro abbiamo già vinto a Foggia, a Brindisi, alla provincia di Taranto...». Allora, visto che insistevano, Nichi Vendola ha chiesto le primarie: «Facciamo scegliere ai cittadini. Io sono pronto a sfidare Emiliano e chiunque altro». Figurarsi Francesco Boccia, che già sconfisse alle primarie delle passate elezioni... Per ora gli è stato risposto di no: onestamente, con motivazioni diverse e non proprio chiare. Nicola Latorre si spiega meglio: «Tanto per cominciare ricordiamo che qui in Puglia abbiamo fatto in assoluto le prime primarie per la scelta del candidato-presidente: questo per dire che nessuno di noi è contrario alle primarie. Solo che non le vogliono l’Udc e Di Pietro, che qui sono i nostri alleati fondamentali. Per noi è strategicamente importante costruire un rapporto di alleanza con Casini, e la tappa pugliese non è irrilevante».

Ed eccola qui, in fondo, la questione delle questioni. Nelle settimane della sfida di Bersani e D’Alema a Franceschini e Veltroni, era parso un po’ astratto l’oggetto della disputa: nuovo contro vecchio, primarie-sì primarie-no, la sepoltura della cosiddetta vocazione maggioritaria. Qui in Puglia, nel fuoco dello scontro, si vede invece bene la differenza: e il fatto che la musica sia cambiata. Per esempio, privilegiare il rapporto tra i partiti - come sta avvenendo - e a questo subordinare la scelta dei candidati, rende le primarie non solo inutili ma addirittura pericolose, perché capaci di sconfessare la scelta già compiuta. E’ questo che fa dire a Vendola «qui si capirà cosa è destinato a essere il Pd». Ma non è affatto detto che non sia proprio questo quel che da qui si intende far capire.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Tra Cavaliere e Colle scende il disgelo
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:50:45 pm
12/1/2010

Tra Cavaliere e Colle scende il disgelo
   
FEDERICO GEREMICCA


In un Paese dalle dinamiche istituzionali normali, l’incontro tra il Presidente della Repubblica e il capo del governo non potrebbe esser certo considerato una notizia: e limitatamente all’ambito politico, tantomeno un piccolo evento. Ma siamo in Italia, e tra le tante particolarità nostrane, va annoverata la circostanza che erano praticamente quattro mesi - un’eternità - che i due presidenti non si incontravano faccia a faccia. L’ultimo colloquio, infatti, risaliva ai tempi della bocciatura del cosiddetto lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale: ed era stato preceduto e poi seguito da polemiche assai aspre tra i due Palazzi.

Dopo mesi di fuoco e di fiamme, di accuse e di difese, un lento e parziale disgelo era cominciato con la telefonata fatta giungere da Napolitano al premier dopo l’aggressione milanese; ed era stato poi rafforzato da analoga iniziativa - assunta stavolta da Berlusconi - in occasione del messaggio di fine anno rivolto agli italiani dal capo dello Stato.

Ma la prova del nove che i rapporti tra i presidenti stessero davvero cominciando a rientrare in un ambito di «normalità istituzionale», non poteva che arrivare da un colloquio diretto e personale tra i due: e ieri, in fondo, quella prova è arrivata.

Giorgio Napolitano ha molto apprezzato il fatto che, rientrato a Roma dopo un mese di assenza, tra le primissime cose da fare Berlusconi abbia voluto inserire - appunto - un incontro col Capo dello Stato. E l’apprezzamento del Quirinale verso questa forma di cortesia istituzionale, non è l’unico ad aver segnato la giornata di ieri. Il Colle, infatti, archivia l’incontro come un «sereno scambio di opinioni», dando dunque ad intendere che il faccia a faccia ha avuto toni ben diversi da alcuni tesi colloqui svoltisi nei mesi passati. Difficile dar per scontato - naturalmente - che il dato della ritrovata serenità possa esser considerato acquisito una volta e per sempre, ma il segnale è certo importante: perché arriva giusto alla ripresa dell’attività dopo la lunga pausa natalizia, e perché potrebbe dunque condizionarla dando un’impronta di maggior serenità all’intero dibattito politico.

Le poche indiscrezioni filtrate, per altro, segnalano come il colloquio sia da considerare positivo e perfino potenzialmente fruttuoso anche nel merito. «Abbiamo parlato degli impegni dei prossimi mesi e della cose da fare», ha spiegato Berlusconi alla fine del lungo faccia a faccia, e il Quirinale conferma: non celando una positiva sorpresa per i toni e gli argomenti del premier, che non è tornato sulle polemiche dei mesi passati, non ha insistito sui provvedimenti in materia di giustizia all’esame del governo (che ieri hanno determinato una nuova gelata nei rapporti tra maggioranza e opposizione) e - soprattutto - ha parlato con realismo delle cose che il governo ha in cantiere per i prossimi mesi.

Se il premier rispetterà l’agenda prospettata a Napolitano, è ipotizzabile immaginare un avvio d’anno privo di forti tensioni: ma la questione è, appunto, vedere se la scaletta di interventi illustrati al Capo dello Stato non sarà spazzata via - come spesso accaduto in passato - dalle questioni legate alla riforma della giustizia o, addirittura, dalle cosiddette «leggi ad personam». Rilancio dell’economia, Mezzogiorno, ordine pubblico (terreno sul quale Berlusconi ha sottolineato i risultati ottenuti dal suo governo), scuola e università sono i campi sui quali il premier ha annunciato a Napolitano una decisa ripartenza in questo 2010. E poi, naturalmente, c’è la partita appena aperta sulla riforma delle aliquote fiscali...

Non è passata inosservata, al Colle, la prudenza - addirittura la circospezione - con la quale il capo del governo ha affrontato le diverse questioni sul tappeto e, in particolare, l’annunciata riforma del fisco. La riduzione delle aliquote - promessa all’atto della sua discesa in campo, ormai 16 anni fa - è problema al quale Berlusconi vorrebbe metter mano con decisione, ma non ha nascosto al Presidente le difficoltà - di ordine politico e soprattutto economico - che ingombrano la strada di questa riforma.

Si rifaranno i conti e si proveranno proiezioni per valutare la riduzione ipotizzabile degli introiti nelle casse dello Stato: e la sensazione finale, insomma, è che la manovra sulle aliquote non sia cosa né scontata né realizzabile in poche settimane. Se ne continuerà a parlare. Ma già parlarne, piuttosto che scontrarsi usando le tasse come clava da brandire contro l’avversario politico, sarebbe un passo in avanti. Quel passo che il Paese attende invano ormai da più di un anno.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - D'Alema: "Nichi ha fallito come leader"
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 12:13:02 pm
21/1/2010 (7:24)  - COLLOQUIO

D'Alema: "Nichi ha fallito come leader"

Massimo D'Alema durante un incontro del Pd a Bari
   
«Da soli le elezioni si perdono. E io non ne ho persa nemmeno una»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI


La prima questione da dirimere, arrivando a Bari e avendo la fortuna di ritrovarsi faccia a faccia con Massimo D’Alema, è decidere se dar spazio alle divertenti divagazioni dell’ex premier oppure provare a cominciare subito dalle cose serie. Decidere, cioè, se farsi intrattenere sull’«Elogio della cozza pelosa» - romanzo breve in forma dialettale, scritto dal parroco di Gallipoli - oppure, senza perder tempo, chiedere a D’Alema di Nichi Vendola e delle sanguinose primarie pugliesi. Si opta, alla fine, per la seconda via: e naturalmente di elogi, in tutti i sensi, non se ne sentiranno più.

Infatti, il primo gesto che fa D’Alema è prendere dalla scrivania della stanza in cui si trova uno dei manifestini di propaganda stampati da Vendola per queste primarie che lo contrappongono a Francesco Boccia. La parola chiave, in grande e maiuscolo, è SOLO: «SOLO giovani idee», «SOLO lavoro stabile», «SOLO contro tutti» (con il «tro» finale semicancellato da un tratto di penna). «E’ una propaganda micidiale - annota l’ex premier -. Autolesionista. Non è da soli che si vincono le elezioni: da soli si perdono. Ma questo, a Nichi, pare non importare più nulla: noi siamo nelle primarie per battere la destra, lui è nelle primarie per battere noi del Pd».

I toni sono forti, e ce ne saranno di più forti ancora. Del resto, se per i democratici la posta in palio in Puglia è alta, per Massimo D’Alema personalmente è altissima: perdere le elezioni dopo aver avversato la ricandidatura di Vendola in nome dell’allargamento della coalizione all’Udc, sarebbe uno scatafascio difficile da spiegare e impossibile da difendere. Ma se qualcuno immagina che questa eventualità faccia tremare i polsi all’ex presidente del Consiglio, evidentemente conosce poco D’Alema ed il suo ego incontenibile: «Io non ho mai perso un’elezione, non ho mai perso un Congresso... Aspettiamo di vedere come va a finire e poi ne riparliamo».

E dunque, ventre a terra per città e paesini pugliesi, per tentare di centrare il primo e non facile obiettivo: far sì che Boccia batta Vendola nelle primarie di domenica prossima. Cosa tutt’altro che facile, e non solo perchè il Pd fatica a mobilitarsi e sconta una fronda pro-Nichi al suo interno: ma anche per la radicata popolarità del governatore che, proprio come D’Alema, qui si gioca un pezzo non irrilevante del suo futuro politico. E pensare che proprio sul «giovane» Nichi, non troppo tempo fa, l’ex premier fece un importante investimento politico, scommettendo che dalla scissione di Rifondazione potesse nascere un nuovo partito della sinistra meno «radicale» e più affidabile sul piano della responsabilità di governo.

«Ed è qui che Vendola ha fallito - spiega D’Alema -. Ha fallito come leader nazionale. Quando anche in Puglia si sono delineate le condizioni per un allargamento della coalizione all’Udc, doveva esser lui a indicare subito una personalità che lo avvicendasse e tenesse assieme la nuova alleanza. Non ha voluto farlo, è rimasto inchiodato al suo ruolo locale ed ha fatto un errore politico che ora può diventare un disastro. Io non ho astio verso di lui, e potrei perfino dire di conservare nei suoi confronti dell’affetto: ma il suo personalismo ha avvelenato una vicenda politica che doveva svilupparsi diversamente. Noi potevamo puntare su Boccia senza fare nemmeno le primarie, come ci chiedeva l’Udc. Abbiamo deciso di percorrere un’altra via. Ma se i risultati sono questi...».

Ed effettivamente, i risultati non sono brillanti. Tanto per cominciare, qui in Puglia sembrano in corso primarie assai stravaganti: Vendola contro D’Alema, potremmo dire, tale è la presenza e la passione che l’ex premier sta gettando nella sfida. Ma soprattutto va registrato un progressivo incattivimento della campagna, che già tracima in accuse da tribunale: dall’entourage del governatore, infatti, si fa trapelare la notizia che «dall’altra parte cominciano a girare soldi, soldi per pullman che portino la gente a votare, soldi in cambio di voti a Boccia alle primarie». Il clima, insomma, si fa pesante. E paiono gettarsi i presupposti per la contestazione dell’esito delle primarie: con tutto quel che potrebbe poi seguirne in vista della partita più importante, che resta la sfida al centrodestra.

Questo più di tutto pare irritare Massimo D’Alema: che intanto nega di aver avversato le primarie e di aver detto sì solo alla fine per evitare rischi peggiori. Tira fuori dalla tasca il cellulare e mostra il testo di un sms inviato a Boccia il primo gennaio: «Le primarie sono la via migliore da seguire...», c’è scritto. E c’è una cosa ancor più imporante che tiene a chiarire: «Qui non è in corso una guerra tra ras locali o capibastone. Qui si gioca una partita politica avviata da tempo e decisiva per il nostro futuro. Con l’Udc abbiamo vinto già in passato in molte realtà locali: e in assoluta controtendenza, mentre qualcuno perdeva Roma, noi riconfermavamo la nostra forza a Bari. Insomma, non siamo di fronte a un’operazione politicista calata dall’alto: lavoriamo a un progetto politico che ci permetta di battere la destra e Berlusconi».

Difficile, naturalmente. E se Boccia perdesse le primarie contro Vendola? E se alla fine, chiunque vinca le primarie, il Pd venisse sconfitto alle elezioni? I chiodi con i quali crocifiggere Massimo D’Alema sono già pronti, e lui naturalmente lo sa. «Immagino già le sciocchezze. La fine del dalemismo, la sconfitta del re di Puglia, il declino di D’Alema... Sono dieci anni che aspettano di poterlo dire o di poterlo scrivere. Che vuole che le dica? A me basterà non leggere i quotidiani nei tre giorni successivi al voto. Del resto, è quel che fa il 93 per cento degli italiani...».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - D'Alema: "Nichi ha fallito come leader"
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 05:57:31 pm
21/1/2010 (7:24)  - COLLOQUIO

D'Alema: "Nichi ha fallito come leader"

Massimo D'Alema durante un incontro del Pd a Bari
   
«Da soli le elezioni si perdono. E io non ne ho persa nemmeno una»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI


La prima questione da dirimere, arrivando a Bari e avendo la fortuna di ritrovarsi faccia a faccia con Massimo D’Alema, è decidere se dar spazio alle divertenti divagazioni dell’ex premier oppure provare a cominciare subito dalle cose serie. Decidere, cioè, se farsi intrattenere sull’«Elogio della cozza pelosa» - romanzo breve in forma dialettale, scritto dal parroco di Gallipoli - oppure, senza perder tempo, chiedere a D’Alema di Nichi Vendola e delle sanguinose primarie pugliesi. Si opta, alla fine, per la seconda via: e naturalmente di elogi, in tutti i sensi, non se ne sentiranno più.

Infatti, il primo gesto che fa D’Alema è prendere dalla scrivania della stanza in cui si trova uno dei manifestini di propaganda stampati da Vendola per queste primarie che lo contrappongono a Francesco Boccia. La parola chiave, in grande e maiuscolo, è SOLO: «SOLO giovani idee», «SOLO lavoro stabile», «SOLO contro tutti» (con il «tro» finale semicancellato da un tratto di penna). «E’ una propaganda micidiale - annota l’ex premier -. Autolesionista. Non è da soli che si vincono le elezioni: da soli si perdono. Ma questo, a Nichi, pare non importare più nulla: noi siamo nelle primarie per battere la destra, lui è nelle primarie per battere noi del Pd».

I toni sono forti, e ce ne saranno di più forti ancora. Del resto, se per i democratici la posta in palio in Puglia è alta, per Massimo D’Alema personalmente è altissima: perdere le elezioni dopo aver avversato la ricandidatura di Vendola in nome dell’allargamento della coalizione all’Udc, sarebbe uno scatafascio difficile da spiegare e impossibile da difendere. Ma se qualcuno immagina che questa eventualità faccia tremare i polsi all’ex presidente del Consiglio, evidentemente conosce poco D’Alema ed il suo ego incontenibile: «Io non ho mai perso un’elezione, non ho mai perso un Congresso... Aspettiamo di vedere come va a finire e poi ne riparliamo».

E dunque, ventre a terra per città e paesini pugliesi, per tentare di centrare il primo e non facile obiettivo: far sì che Boccia batta Vendola nelle primarie di domenica prossima. Cosa tutt’altro che facile, e non solo perchè il Pd fatica a mobilitarsi e sconta una fronda pro-Nichi al suo interno: ma anche per la radicata popolarità del governatore che, proprio come D’Alema, qui si gioca un pezzo non irrilevante del suo futuro politico. E pensare che proprio sul «giovane» Nichi, non troppo tempo fa, l’ex premier fece un importante investimento politico, scommettendo che dalla scissione di Rifondazione potesse nascere un nuovo partito della sinistra meno «radicale» e più affidabile sul piano della responsabilità di governo.

«Ed è qui che Vendola ha fallito - spiega D’Alema -. Ha fallito come leader nazionale. Quando anche in Puglia si sono delineate le condizioni per un allargamento della coalizione all’Udc, doveva esser lui a indicare subito una personalità che lo avvicendasse e tenesse assieme la nuova alleanza. Non ha voluto farlo, è rimasto inchiodato al suo ruolo locale ed ha fatto un errore politico che ora può diventare un disastro. Io non ho astio verso di lui, e potrei perfino dire di conservare nei suoi confronti dell’affetto: ma il suo personalismo ha avvelenato una vicenda politica che doveva svilupparsi diversamente. Noi potevamo puntare su Boccia senza fare nemmeno le primarie, come ci chiedeva l’Udc. Abbiamo deciso di percorrere un’altra via. Ma se i risultati sono questi...».

Ed effettivamente, i risultati non sono brillanti. Tanto per cominciare, qui in Puglia sembrano in corso primarie assai stravaganti: Vendola contro D’Alema, potremmo dire, tale è la presenza e la passione che l’ex premier sta gettando nella sfida. Ma soprattutto va registrato un progressivo incattivimento della campagna, che già tracima in accuse da tribunale: dall’entourage del governatore, infatti, si fa trapelare la notizia che «dall’altra parte cominciano a girare soldi, soldi per pullman che portino la gente a votare, soldi in cambio di voti a Boccia alle primarie». Il clima, insomma, si fa pesante. E paiono gettarsi i presupposti per la contestazione dell’esito delle primarie: con tutto quel che potrebbe poi seguirne in vista della partita più importante, che resta la sfida al centrodestra.

Questo più di tutto pare irritare Massimo D’Alema: che intanto nega di aver avversato le primarie e di aver detto sì solo alla fine per evitare rischi peggiori. Tira fuori dalla tasca il cellulare e mostra il testo di un sms inviato a Boccia il primo gennaio: «Le primarie sono la via migliore da seguire...», c’è scritto. E c’è una cosa ancor più imporante che tiene a chiarire: «Qui non è in corso una guerra tra ras locali o capibastone. Qui si gioca una partita politica avviata da tempo e decisiva per il nostro futuro. Con l’Udc abbiamo vinto già in passato in molte realtà locali: e in assoluta controtendenza, mentre qualcuno perdeva Roma, noi riconfermavamo la nostra forza a Bari. Insomma, non siamo di fronte a un’operazione politicista calata dall’alto: lavoriamo a un progetto politico che ci permetta di battere la destra e Berlusconi».

Difficile, naturalmente. E se Boccia perdesse le primarie contro Vendola? E se alla fine, chiunque vinca le primarie, il Pd venisse sconfitto alle elezioni? I chiodi con i quali crocifiggere Massimo D’Alema sono già pronti, e lui naturalmente lo sa. «Immagino già le sciocchezze. La fine del dalemismo, la sconfitta del re di Puglia, il declino di D’Alema... Sono dieci anni che aspettano di poterlo dire o di poterlo scrivere. Che vuole che le dica? A me basterà non leggere i quotidiani nei tre giorni successivi al voto. Del resto, è quel che fa il 93 per cento degli italiani...».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Primarie-trappola per il capo.
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2010, 06:05:43 pm
 23/1/2010 (7:32)  - RETROSCENA

Bari, il sospetto dei dalemiani "Vogliono fregare Massimo"
   
Primarie-trappola per il capo. Latorre «Calcolo miope e suicida»

FEDERICO GEREMICCA
BARI

Liberarsi di Massimo D’Alema. O almeno assestargli un colpo tale da ridurne drasticamente l’influenza e il potere, qui in Puglia e magari non solo in Puglia. L’occasione, stavolta, è ghiottissima: e in questa settimana di primarie c’è chi ha lavorato - senza farne nemmeno mistero - per non lasciarsela sfuggire. E così, imprevedibilmente, le urne che domani sera diranno chi tra Vendola e Boccia sfiderà il mister X scelto dal Pdl emetteranno anche un altro verdetto: se l’astro dalemiano continua a brillare alto nel cielo o se va mutando in stella cadente. Infatti, dopo aver bloccato la ricandidatura di Nichi Vendola e puntato su Francesco Boccia, per Massimo D’Alema una sconfitta del giovane economista in queste primarie-trappola rappresenterebbe un colpo assai pesante: micidiale, addirittura, se fosse seguito dalla perdita del governo pugliese nelle elezioni previste per fine marzo.

Un paio di giorni fa, sorseggiando un caffè, Nicola Latorre, senatore e amico dell’ex premier, confermava l’esistenza sia del rischio che del progetto: «La tentazione di assestare una botta a Massimo è forte, naturalmente. E’ chiaro che si tratta di un calcolo miope e suicida: ma quando vedo una parte dei democratici apertamente schierata con Vendola e contro il candidato sostenuto dal Pd, i miei sospetti aumentano». E i sospetti dalemiani - o di alcuni dei dalemiani - stavolta non sembrano infondati: assessori regionali, segretari di sezione e sindaci di città come Andria, Barletta o Foggia fanno da giorni campagna per Vendola. Lo fanno, certo, per opporsi all’operazione che prevede - pur di allargare l’alleanza all’Udc - proprio la defenestrazione del governatore in carica: ma è chiaro che - non foss’altro che come risultato «oggettivo» - una sconfitta di Boccia alle primarie porterebbe in dote con sé la sconfessione dell’operazione voluta prima di tutto da Massimo D’Alema.

Prima di tutto da lui: ma certo non solo da lui. L’altra sera, piombato a Bari per tentare di motivare le truppe del Pd, Pier Luigi Bersani ha infatti negato regie dalemiane: «Questa non è questione che riguardi solo D’Alema, perché la Puglia non è affatto un “laboratorio”: quel che si tenta qui, e cioè accorciare le distanze tra le forze d’opposizione, è pienamente dentro la nostra linea nazionale». Sarà. Però se è vero - come annota Bersani - che «le intese con Casini non ci vedono subalterni, perché i candidati-presidente sono quasi ovunque del Pd», è anche vero che non risultano sacrifici (se non in Puglia) di governatori uscenti silurati dopo il primo mandato. E comunque, che le ragioni del tentativo di affondare Vendola non siano state granché comprese è testimoniato anche dal fatto che persino i quotidiani locali (La Gazzetta, il Corriere del Mezzogiorno e le cronache di Repubblica) fanno il tifo per Nichi. Il che qualcosa vorrà pur dire.

Naturalmente, non c’è nulla di quanto finora detto che a D’Alema non sia chiaro. Nonostante i tanti successi (anche in elezioni recenti) ha sentito crescere nel tempo il dispetto verso una sorta di «protettorato» che comincia, secondo alcuni, a farsi soffocante.

Leader locali (e non solo locali) come Vendola e il sindaco Emiliano non nascondono insofferenza verso quella che considerano una sorta di «sovranità limitata»: e l’occasione di incrinare il potere dalemiano attraverso queste primarie a qualcuno sembra arrivata dal cielo. «L’esigenza di ridurre l’egemonia dalemiana - dice Cinzia Capano, deputata pd vicina ad Emiliano - è avvertita ormai da molti. La controprova è nel consenso intorno a Vendola: cresciuto a dismisura da quando gli si è parato contro Massimo D’Alema». Perfino dall’altra parte della barricata - nel centrodestra - si sa che una delle poste di queste primarie è proprio il potere dell’ex premier. Dice Salvatore Tatarella, eurodeputato e fratello dell’indimenticato Pinuccio: «E sì che vogliono dare una botta al mio amico Massimo. Sbagliano. E non so nemmeno se ci riusciranno...».

Se ci riuscissero, però, il lunedì post-primarie potrebbe non essere un giorno allegro per D’Alema (e per tutto il Pd, naturalmente). E tante cose potrebbero cambiare di segno. Così, perfino l’elezione dell’ex premier a presidente del Copasir (programmata per la prossima settimana) rischierebbe di esser vista sotto un’altra luce: da scelta poco comprensibile (considerato l’alto profilo di D’Alema) a ricovero dopo la sconfitta. Ammesso che, naturalmente, gli avversari non abbiano sottovalutato - per l’ennesima volta - il potere e la capacità di reazione dell’ex presidente del Consiglio...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bersani: "Non ci chiuderanno in una riserva indiana"
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2010, 03:43:34 pm
24/1/2010 (7:54)  - COLLOQUIO

Bersani: "Non ci chiuderanno in una riserva indiana"

Il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani
   
Bersani: ribadisco il no a scambi sul processo breve

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A BARI

Dice: «Io so cosa vorrebbero: chiuderci in una sorta di riserva indiana. Immaginano che alle prossime elezioni noi si sia già contenti di vincere in tre o quattro regioni, così che loro possano tenerci imprigionati lì, deboli e controllati. Ma se è questo quello che immaginano, rifacciano i conti, perché non andrà così e nella loro riserva indiana noi non ci finiremo». Sarà che la mattinata è cominciata com’è cominciata - e cioè con le prime pagine dei quotidiani che stampano l’ennesima inchiesta giudiziaria su Silvio Berlusconi, con tutto quel che segue - fatto sta che Pier Luigi Bersani sembra essersi davvero stufato: e in questo colloquio - a tre mesi dalla vittoria nelle primarie di ottobre - il leader Pd sfodera una durezza inusitata.

Sulle questioni delle riforme e della giustizia, per esempio: a proposito delle quali lascia intendere che l’approvazione al Senato del cosiddetto «processo breve» ha segnato un punto di non ritorno nei rapporti con la maggioranza di governo. «Continuo a ricevere inutili sollecitazioni a non cedere su questo o su quello. Ringrazio, ma risparmino la fatica: già al Congresso spiegai che, al punto cui si era giunti, non era immaginabile che il Pd potesse far da sponda a qualunque tipo di legge minimamente sospettabile di esser varata per risolvere i problemi del nostro premier. Oggi è ancora peggio, rispetto a due o tre mesi fa.

E poiché forse in giro c’è qualche equivoco e si immagina che il Pd possa barattare l’archiviazione del “processo breve” con un voto favorevole alla legge sul legittimo impedimento, vorrei essere chiaro: noi non voteremo mai, in nessun caso e per nessuna ragione, un singolo e isolato provvedimento in materia di giustizia che riguardi il Cavaliere e non sia inserito in un chiaro processo di riforma. Mai e per nessuna ragione. Loro andranno avanti lo stesso? Possono farlo. Ma sappiano che, a maggior ragione se si trattasse di leggi costituzionali - che se non approvate con una maggioranza dei due terzi permettono un referendum - noi siamo pronti al referendum. L’abbiamo già fatto e l’abbiamo già vinto».

Non era cominciato così, il viaggio del nuovo leader dei democratici. Ma come per una sorta di maleficio - e alla stessa maniera, in fondo, di quanto capitò a Veltroni - ha dovuto arretrare nella trincea: passando da una seppur prudente disponibilità al confronto ad un atteggiamento assai sospettoso verso qualunque invito al dialogo giungesse dagli emissari berlusconiani. Soprattutto quando l’oggetto del dialogo avrebbe dovuto essere - o dovrebbe essere - l’immunità del Cavaliere: «Berlusconi è ancora in tempo a farlo, certo - dice Bersani -. Ma già in questi quindici anni e passa, se fosse stato uno statista, avrebbe dovuto alzarsi in Parlamento e dire “me li risolvo da solo i miei problemi giudiziari, vi tolgo dall’imbarazzo”. Soprattutto quando era - come oggi - al governo di Palazzo Chigi. Non ci ha mai nemmeno pensato. Affari suoi. Noi del Pd, però, possiamo e dobbiamo decidere degli affari nostri: e la decisione è non intorbidire il percorso. Se noi dessimo strada a un qualunque provvedimento che, seppur spacciato per riforma, servisse solo a garantire l’immunità del presidente, noi imbratteremmo la parola riformismo, e se ne riparlerebbe tra vent’anni. Il nostro percorso è un altro: ed io certo non lo sporco con robe così, a prescindere da Di Pietro e compagnia bella».

Ridislocare le truppe più indietro nella trincea, guardarsi dal fuoco amico che arrivava da sinistra, ridare un’organizzazione più classica al Pd e intanto andare incontro alla trappola delle regionali: dire che dall’avvio a qui siano stati tempi facili per Bersani, sarebbe dire una bugia. E se il leader dei democratici preferisce non commentare la brutta vicenda in cui è finito il sindaco di Bologna, delle elezioni - invece - parla eccome. Perché è vero che si tratta di un voto-trappola con esiti impossibili da eguagliare (cinque anni fa il centrosinistra vinse in 11 delle tredici regioni che tornano alle urne), ma è proprio da qui che nasce l’orgoglioso discorso sulla «riserva indiana»: e l’amara constatazione che il difficile lavorio di preparazione non sia stato capito e raccontato per quel che è.

«Ci sono due cose che mi hanno veramente stufato - dice Bersani -. La prima è sentir ripetere che staremmo facendo intese qui e lì in maniera subalterna a questo o a quel partito; e la seconda è che il nostro agire non avrebbe una logica. Allora io vorrei ricordare che in 8 delle 9 regioni nelle quali la situazione è già definita, i candidati-presidente saranno espressione del Pd. E in quanto alla logica, stiamo semplicemente provando a seguire la linea annunciata in congresso: accorciare le distanze tra le forze d’opposizione parlamentare. Sapendo che non è facile, perché Casini ha la sua strategia e l’Idv le sue radicalità».

Poi ci sono, naturalmente, il Lazio e soprattutto la Puglia, dove il Pd e il suo giovane candidato - Francesco Boccia - sembrano avviati alla sconfitta contro il ciclone-Vendola nelle primarie di oggi. Dice Bersani: «Se lei mi chiede se in queste due regioni c’è stato un percorso lineare, io le rispondo di no. Ma nel Lazio venivamo da dove venivamo, c’erano difficoltà e io comunque considero un colpo di reni aver puntato, alla fine, su Emma Bonino. Quanto alla Puglia, ci possono anche esser stati dei nostri errori, ma ci siamo trovati di fronte a un problema grosso e inatteso: la posizione assunta da Nichi Vendola. L’importante sarà tornare uniti dopo le primarie: perché il vero obiettivo non è superarci tra noi ma battere anche in Puglia il centrodestra». Pena finire nella riserva indiana cui pensa Silvio Berlusconi...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Sconfitta la linea del partito
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2010, 09:53:00 am
25/1/2010

Sconfitta la linea del partito
   
FEDERICO GEREMICCA


Secondo alcuni «si sapeva». Per altri «non solo si sapeva, ma se la sono cercata». Le due cose non sono in contraddizione.

Ed è per questo che è praticamente certo che la direzione Pd che Bersani ha convocato per stamane dovrà trovare una risposta convincente alla seguente domanda: «Ma se si sapeva, perché diavolo ce la siamo cercata?». Tradotto: se si sapeva che Nichi Vendola avrebbe travolto non solo Francesco Boccia ma probabilmente chiunque si fosse presentato a sfidarlo accompagnato dal non fascinosissimo annuncio che bisognava liquidarlo per potersi alleare con Casini, Cesa (e Totò Cuffaro...), ecco, se tutto questo si sapeva davvero, perché il Pd se l’è cercata?

La riposta ufficiale - anche se non condivisa dall’intero stato maggiore dei democratici - è nota: la via battuta in Puglia non è una stramberia locale ma l’applicazione - in sostanza - della linea decisa al congresso, che punta a stabilire ovunque possibile un rapporto più stretto con l’Udc. Però: era questo il caso della Puglia? Era davvero pensabile - una volta certificato il rifiuto di Vendola a sacrificarsi - battere il governatore, con il Pd spaccato come una mela e solo una settimana a disposizione per «lanciare» Francesco Boccia? E’ ipotizzabile che il prevedibile affondo delle minoranze che fanno capo a Franceschini e Marino, stamane in direzione muoverà da qui. E non sarà facile per il segretario fornire risposte convincenti.

In realtà, la vicenda pugliese - a parte le molte altre annotazioni possibili - ha confermato l’evidente rischio di cortocircuito esistente tra l’uso delle primarie (architrave del Pd a trazione veltroniana) e il ritorno a forme più classiche dell’azione politica: comprese le trattative di vertice tra partiti per decidere il candidato migliore per questa o quella carica istituzionale. Il pericolo di clamorosi patatrac è dietro l’angolo: come appunto le primarie pugliesi hanno dimostrato, sancendo la sonora bocciatura del candidato-presidente che era stato concordato tra i potenziali alleati. Per altro, ne va di mezzo anche quella che si potrebbe definire l’«affidabilità» del Pd nei confronti dei possibili alleati: i quali potrebbero correttamente domandarsi che garanzie offre un partito i cui elettori sconfessano le intese stipulate dai loro gruppi dirigenti.

Ma le annotazioni possibili sono tante. E non tutte necessariamente negative per i democratici. I quasi 200 mila pugliesi che hanno affollato i seggi delle primarie testimoniano l’esistenza di un «serbatoio» di disponibilità all’impegno che non era scontato trovare intatto (e anzi accresciuto) dopo mesi di caos e di tensioni. E l’enorme prova di partecipazione fornita gettava una strana luce sullo scarno comunicato che - a pochi minuti dalla chiusura delle urne delle primarie - informava che «i coordinatori nazionali del Pdl, sentito il presidente Berlusconi, d’intesa con il coordinamento regionale della Puglia e col ministro Fitto» (cioè sette o otto persone in tutto) avevano deciso chi candidare alla guida della Regione Puglia: anche perché non è che questa decisione «ristretta» sia destinata a sollevare meno tensioni interne di quante ne sollevi la scelta «allargata» compiuta dall’altro versante della barricata.

Infine - e fermo restando che per Nichi Vendola i problemi cominciano adesso - due questioni sulle quali nei prossimi giorni la polemica sarà presumibilmente alta. La prima riguarda Massimo D’Alema e il suo ruolo (Francesco Boccia è stato sonoramente sconfitto perfino a Gallipoli). A schede non ancora del tutto scrutinate, Sandro Bondi ha subito voluto rigirare il coltello nella ferita annotando la «pesante e umiliante sconfitta personale e politica dell’onorevole D’Alema». Ad aver perso non è, naturalmente, solo l’ex premier: ma che il tutto sia avvenuto nella «sua» regione e sotto la sua regia, non è certo dettaglio di poco conto. La seconda riguarda la prevedibile resa dei conti interna: in Puglia e a Roma. Mezzo Pd, infatti, ha votato per Nichi Vendola senza farne mistero. Se i democratici fossero stati compatti, le cose - molto probabilmente - sarebbero andate in un altro modo. In fondo, anche questa è una risposta possibile - per Bersani - all’affondo dei suoi contestatori: non è che ce la siamo cercata, siete voi che ce l’avete tirata... Non è certo granché. Ma non è nemmeno una bugia.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il rischio della svolta pacifista di Di Pietro
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2010, 06:30:39 pm
7/2/2010 (8:2)  - RETROSCENA

Il rischio della svolta pacifista di Di Pietro

Ora l'ex pm dovrà fare i conti con i più riottosi dei suoi fedelissimi abituati allo scontro frontale e poco inclini alla via parlamentare

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Chi nasce tondo non muore quadrato, e Antonio Di Pietro - che di proverbi se ne intende - ha perfettamente chiaro che è giusto questo il problema che ora ha di fronte: decisa la svolta, farla digerire al partito che inventò dal nulla. Lavoro non facile, come si è visto bene ieri nella bolgia dell’hotel Marriot: il domatore, infatti, in questo nuovo e spericolato esercizio, non riesce ancora a controllare tutti i suoi leoni. C’è chi ruggisce e chi la spara grossa, chi si rintana in un angolo aspettando gli eventi e chi finge di esser d’accordo ma intanto frena. E così, quello che potremmo definire il tentativo di Antonio Di Pietro di costituzionalizzare l’Italia dei Valori - portarla, cioè, dall’opposizione di piazza all’alternativa di governo, con quel che ne dovrebbe seguire - si annuncia come una prova disseminata di insidie.

Del resto, dopo aver costruito un vero e proprio network da combattimento - con i suoi giornali, i suoi programmi tv e perfino un suo vocabolario di guerra - provateci voi a trasformarlo d’un colpo in un contingente impegnato a mantenere la pace: molti non capiranno e altri si metteranno di traverso. Come Luigi De Magistris - ala «sinistra» del movimento e gelosissimo custode di quel giustizialismo tanto caro all’Idv - che non fa mistero di non apprezzare la svolta proposta da «Tonino» e si dice apertamente indisponibile, per esempio, a sostenere il candidato Pd (De Luca) alla presidenza della Regione Campania; o come il discusso ma onnipresente Gioacchino Genchi, che ha voluto spiegare ai congressisti come e perché l’aggressione milanese a Silvio Berlusconi sia del tutto inventata (salvo dover poi dire, causa il putiferio scatenatosi, che il suo ragionamento era stato frainteso). Lavoro non facile, insomma, non dar più la caccia «solo ai voti di pancia, cioè di chi ha mal di pancia: quello è un voto da diarrea politica», come spiega Di Pietro.

E ancora meno facile a doverlo fare nell’ormai solito e nauseabondo clima da Seconda Repubblica, in mezzo ad assegni che appaiono e scompaiono, venefiche zaffate di sospetti intorno all’appropriazione indebita di soldi destinati al partito e cene più o meno imbarazzanti di cui viene chiesto il conto vent’anni dopo. Si giustifica Di Pietro: «E che ne potevo sapere, io, di chi c’era lì a cena nella caserma dei carabinieri? Nemmeno me lo ricordo... La prossima volta porto un’agenda e segno i nomi di tutti i presenti», ha spiegato provando a difendersi - però - con gli argomenti e gli omissis in passato così spesso cari ai suoi imputati. Per sancire la svolta e comunicarla nella maniera più comprensibile possibile alla platea, Di Pietro ha scelto una via che certo ha destato sorpresa: ha quasi ignorato - e citato pochissime volte - Silvio Berlusconi. Quando l’ha fatto, però, non è stato certo tenero: «Tutti stanno a chiedermi di quella cena e si dimenticano di un certo stalliere...

Ha al governo uno che i magistrati di Caserta vogliono arrestare, e ciò nonostante viene a rompere le balle a me». Ma nel suo lessico particolare e nel suo personalissimo gesticolare (simile a Totò quando si impegna in ragionamenti politici, e a Sordi quando cerca la battuta) la polemica stavolta ha trovato davvero poco spazio: con evidente delusione da parte delle diverse anime del network presenti nella platea del Marriot, da ex girotondini al «popolo viola», da giustizialisti tutti d’un pezzo a ex comunisti in cerca di nuove certezze. Però - se l’intera operazione non è solo destinata a coprire alleanze elettorali non sempre gradite al suo popolo - il dado è tratto, l’abbassamento dei toni probabile ed un nuovo rapporto col Pd forse possibile. Bersani, seduto in prima fila tra Latorre, De Magistris e Nichi Vendola, ha incassato con soddisfazione il messaggio che è stato lanciato dal congresso (dall’opposizione all’alternativa) non foss’altro che perché ripete pari pari lo slogan col quale è diventato segretario del Pd.

Ora, naturalmente, attende qualche fatto conseguente: un maggior raccordo nelle iniziative parlamentari, la fine delle violente polemiche col capo dello Stato e l’impegno su temi che non siano sempre e solo la giustizia e i guai di Silvio Berlusconi. In sintesi, l’effettiva costruzione di quell’alternativa di governo - promessa in congresso - da presentare agli italiani alle prossime elezioni politiche. Nulla naturalmente garantisce che la svolta e il percorso tratteggiati da Di Pietro abbiano un seguito coerente. E ancor meno certo è che il lavorio del segretario del Partito democratico riesca davvero a individuare un minimo comun denominatore che permetta di tenere assieme Casini e Di Pietro. Ma non paiono esserci altre vie all’orizzonte per tentare di battere il Cavaliere. Fallisse il tentativo di unire le tre opposizioni presenti in Parlamento, le chance di rimonta sarebbero ridotte al lumicino. E chissà quanto verrebbe rimproverato a Bersani e quanto pagherebbe in termini di consenso per quel caloroso abbraccio con «Tonino» lì sul palco dell’hotel Marriot...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il peggio non è passato
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 08:12:10 am
7/3/2010

Il peggio non è passato
   

FEDERICO GEREMICCA

I ragazzi e le ragazze del «popolo viola» che occupano la piazza del Quirinale; il Pd che annuncia ostruzionismo nelle aule del Parlamento; Antonio Di Pietro che pensa all’impeachment del Capo dello Stato; il Popolo della libertà che incassa il risultato e maramaldeggia nei confronti dell’opposizione.

E Gianfranco Fini che prova a gettare acqua sul fuoco ma non riesce a trovare argomenti più convincenti di un dimesso «quel decreto è il male minore». E’ vero che era ingenuo nutrire dubbi in proposito: ma ora si può onestamente dire che ha avuto senz’altro ragione chi aveva previsto che il «pasticcio delle liste» sarebbe finito assai peggio di com’era cominciato. E infatti è finito com’è sotto gli occhi di tutti: un altro mucchietto di macerie sull’ipocritamente invocato «dialogo» e nuove cicatrici su questa o quella istituzione.

Non è un bel risultato. E ancora meno bello è il tentativo di scaricare responsabilità e macerie dalle parti del Quirinale. Giorgio Napolitano è politico (e uomo delle istituzioni) di troppo lungo corso per aver sperato un solo momento che potesse finire diversamente. L’altra notte, per chiedergli di non firmare il decreto, si sono sdraiati in piazza del Quirinale un centinaio di uomini e donne del «popolo viola»: ieri mattina, se non lo avesse firmato, avrebbe trovato migliaia di bandiere tricolori e di militanti del Pdl sotto le finestre a scandire slogan contro il «Presidente comunista». E’ che in troppi, ormai, applicano al Presidente-arbitro il metro di giudizio che viene utilizzato negli stadi per gli arbitri veri: bravi se ti fischiano il rigore a favore, ladri se te lo fischiano contro. Una vergogna, certo: ma è con questo andazzo che Napolitano deve fare i conti.

In questo senso, la lunga nota con la quale il Presidente ha voluto spiegare il senso delle sue decisioni a due cittadini che gli avevano scritto, è a suo modo drammatica e segna una svolta. Il Capo dello Stato argomenta, polemizza, accusa e si difende in un inedito crescendo che mescola preoccupazione e rabbia. Napolitano domanda: si poteva andare al voto in Lombardia e a Roma senza le liste del maggior partito? Insiste: si era parlato di una soluzione condivisa, ma nessuno l’ha indicata. Argomenta: erano in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela, il rispetto delle procedure e il diritto dei cittadini di scegliere tra schieramenti diversi. E infine, una conclusione a metà tra un’accusa e una supplica: «Un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne funzioni e poteri».

Un inedito, nei toni e nella sostanza. Ma un inedito che è frutto di uno stillicidio che viene da lontano e che ha coinvolto ora i giornali, ora la Corte Costituzionale, ora il Quirinale: cioè organi o strumenti «terzi», garanti di imparzialità e invece finiti nel tritacarne di una polemica politica fattasi selvaggia, all’ombra di un bipolarismo assai malinteso. Uno stillicidio che ha portato qualche mese fa il presidente del Consiglio a dire «tanto si sa il Presidente da che parte sta» (cioè con i «comunisti») e Antonio Di Pietro, appena ieri, a chiederne l’impeachment: una follia politica e costituzionale, quest’ultima, proposta da chi le leggi e la Costituzione dovrebbe invece conoscerle a memoria.

E onestamente, è difficile dire che il peggio si possa considerare passato. Quando l’ennesimo grande incendio intorno al palazzo del Quirinale si sarà infatti spento, cominceranno a bruciare le micce cui quell’incendio ha dato fuoco: la reazione del Pd, che annuncia ostruzionismo e barricate alla Camera e al Senato; l’ulteriore deterioramento dei rapporti tra governo e opposizione; il bellicoso ritorno in campo di un Di Pietro che sembra aver già smesso i panni della «responsabilità»; una campagna elettorale che da intossicata che era si farà micidiale; e il tutto, ovviamente, a galleggiare in un lago ormai nauseabondo di tangenti e intercettazioni, prestazioni sessuali e simboli d’efficienza tirati giù dal piedistallo.

Un bell’affare. E se si ragiona sul fatto che a scatenare un simile putiferio sono stati un timbro poco leggibile e un «consegnatore di liste» ritardatario, pare tutto davvero incredibile. Purtroppo, invece, è vero. E ai cittadini che tra venti giorni vanno al voto non resta che attendere la nuova, pessima puntata...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Napolitano: "Ma ne valeva la pena?"
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 09:10:45 am
14/3/2010 (7:4)  - REPORTAGE

Napolitano: "Ma ne valeva la pena?"

In piazza le anime del centro-sinistra si incontrano senza unirsi davvero


FEDERICO GEREMICCA

Figuriamoci, a volersi mettere lì ad arzigogolare si può dire che sì, certo, uno striscione contro il Capo dello Stato c’era. E c’erano anche, in verità - quasi invisibili nella grande folla - un po’ di instant-shirt critiche verso il Colle. Ma si può ridurre ad uno striscione (Vendesi Repubblica: rivolgersi a Napolitano) e ad una decina di magliette («Pertini non avrebbe firmato») una manifestazione che ha riempito e colorato Roma per ore e ore? Non si può, naturalmente. E allora, visto che era proprio questo - paradossalmente - il guado che la folla di piazza del Popolo doveva attraversare indenne, si può dire che la missione è compiuta. Certo: che questa missione è compiuta, e che per le altre si vedrà. Ma intanto, già aver tirato fuori i piedi dall’insidiosissima trappola, è un risultato: sul quale, fino a ieri, avrebbero scommesso davvero in pochi. E tra i pochi, naturalmente, c’è quel signore lì, che - stravolto dalle fatiche di questa surreale campagna elettorale - prova a rilassarsi, se non proprio a sonnecchiare, sotto uno dei tendoni bianchi sistemati alle spalle del palco di piazza del Popolo. Sono le due e mezza del pomeriggio, e con Pier Luigi Bersani ci sono il fido Di Traglia e, più in là, Anna Finocchiaro. Preoccupato per Di Pietro, segretario? «Ma va là... Ancora co’ sta storia? Guardate che siamo persone serie, mica ci facciamo fregare da quelli là».

Per un istante viene il dubbio che - con “quelli là” - il leader del Pd intenda dire Di Pietro e le sue truppe giustizialiste. Ma è un dubbio infondato: «Quelli là, sono quelli là... Quelli dell’altra parte. Su Di Pietro non ho nessun dubbio: il momento è serio, e vedrete che si comporterà da persona seria». E infatti Bersani ha ragione, va così. Il capo dell’Italia dei valori sale sul palco e aziona il freno a mano: «Tirate un sospiro di sollievo: noi da oggi non affronteremo altro argomento che non sia la deriva antidemocratica del governo...». Il messaggio è chiaro: ma come è accolto dalle donne e dagli uomini del “popolo viola” che per giorni hanno bersagliato il Quirinale e ora sono qui a riempire la piazza, assieme ai militanti dei partiti del vecchio centrosinistra? Non hanno gradito, naturalmente: ma non considerano affatto chiusa la partita. Ecco, per esempio, il gruppetto che regge lo striscione (giallo come i cartelli usati dalle agenzie immobiliari...) «Vendesi Repubblica, rivolgersi a Napolitano». Saranno una decina e sono arrabbiatissimi. Non solo col capo dello Stato, ma anche con i militanti del Pd che usano le proprie bandiere per coprire il loro striscione. «Io mi chiamo Saverio e vengo da Udine - dice quello che sembra il capo -. Gli altri che vedi sono di Palermo, di Napoli, di tutta Italia, insomma». E che rimproverate al Presidente? «Di firmare tutto quello che gli arriva».

Magari è la Costituzione che glielo impone, no? «Macchè. Pertini non avrebbe firmato, e anche Ciampi ha rimandato indietro un sacco di decreti». Quindi voi pensate... «Guardi, noi pensiamo una cosa molto semplice: che contro il regime che sta costruendo Berlusconi bisogna che lottino tutti: anche il presidente della Repubblica, che non è che può pensare - in un momento così - di fare l’arbitro o il super partes». E se il concetto non fosse sufficientemente chiaro, ecco, poco più in là, un altro cartello: «Nano e Napolitano, datevi la mano». E’ anche per questo, per questo misto di ignoranza, di faziosità e di spericolata propaganda politica, che nelle stanze del Quirinale aleggia ancora una densissima amarezza. Giorgio Napolitano ha visto solo qualche immagine proveniente dalla piazza, venendo per il resto informato dai suoi più stretti collaboratori circa lo spirito della manifestazione. Nessun commento, ovviamente, da parte del capo dello Stato. Solo una sconsolata considerazione affidata a qualcuno del suo staff: «Ne valeva la pena?».

Cioè, valeva la pena che forze dell’opposizione mettessero nel mirino proprio lui, per poi accorgersi dell’errore politico commesso, tanto da trasformare la manifestazione di ieri in un pomeriggio di fibrillazione nel timore che certe accuse fossero rilanciate proprio dalla piazza? E’ un interrogativo retorico, naturalmente, dalla risposta scontata. Certo che non ne è valsa la pena: in fondo nemmeno per chi, sul versante giustizialista, cercava di lucrare qualche consenso elettorale mettendo sotto accusa perfino il Quirinale. E’ una questione che probabilmente si riproporrà. Assieme agli altri problemi politici che ancora stringono il centrosinistra. «Io sono qui contro Berlusconi, ma non con Bersani», avvisava ieri in piazza Marco Ferrando, comunista tutto d’un pezzo. «Noi socialisti siamo qui, ma non con Di Pietro», chiariva Bobo Craxi. I soliti venti di guerra, insomma. Ma questa, in tutta evidenza, è un’altra storia...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Incubo astensionismo
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 03:56:58 pm
19/3/2010

Incubo astensionismo
   
FEDERICO GEREMICCA

Se non si fosse di fronte all’ennesimo colpo alla credibilità delle istituzioni e della politica di casa nostra, l’arresto dell’ex vicepresidente della giunta regionale pugliese (a dieci giorni dall’apertura delle urne e a nove mesi dalle sue dimissioni e dall’avvio dell’inchiesta), quest’arresto - dicevamo - potrebbe essere considerato la ciliegina mancante sulla torta di una delle peggiori campagne elettorali che si ricordino.

Una campagna elettorale aperta - di fatto - dallo scandalo che ha investito la Protezione civile e alimentata, via via, da episodi criminosi e vicende nauseabonde che, in alcuni casi, hanno lasciato lettori ed elettori letteralmente di stucco.

Si fa perfino fatica, nel timore di dimenticarne qualcuno, a rielencare fatti e personaggi di questo stillicidio quotidiano. Si è andati dai massaggi in tanga brasiliano somministrati al dottor Bertolaso, ai pugni e ai calci tra ex di Forza Italia ed ex di An nella sede del Pdl milanese; dalla sconcertante vicenda che ha portato in carcere il senatore Di Girolamo, al balletto di corsi, ricorsi e carte bollate intorno alle liste del centrodestra di Roma e della Lombardia; per finire in bellezza - si fa per dire - con le sconcertanti intercettazioni telefoniche intorno ai talk show Rai ed alle pressioni esercitate (ed esercitate perfino nei confronti del comandante generale dell’arma dei Carabinieri...) per ottenerne la chiusura. Un elenco raccapricciante, forse non definitivo (al voto mancano ancora dieci giorni...) e al quale, comunque, si è aggiunto ieri l’arresto di Sandro Frisullo...

Intendiamoci: non che il materializzarsi di indagini e di arresti in campagna elettorale sia una novità per la malandata politica italiana. Ma una novità, stavolta, va segnalata. E riguarda il modo con il quale il Popolo della Libertà sta facendo i conti con i citati avvenimenti: per la prima volta, infatti, la sensazione (confermata dagli ultimi sondaggi) è che l’«aggressione giudiziaria» al Pdl non stia affatto portando vantaggi - come spesso in passato - a Silvio Berlusconi. Anzi. E infatti nel quartier generale del centrodestra è ormai diffusa una palpabile preoccupazione: che l’ultimo mese e mezzo di fango nel ventilatore stia allontanando dalle urne molti potenziali elettori del Pdl.

La maggioranza di governo teme, insomma, una sorta di replica dell’ultimo voto francese, con percentuali di astensione elevatissime e la sconfitta del partito di Sarkozy. Non a caso, ieri è stato un continuo lanciare l’allarme intorno a questo pericolo. Lo ha fatto Berlusconi da Napoli («L’astensione favorisce sempre la sinistra»), lo ha fatto il presidente Schifani («L’astensionismo è un deficit democratico che poi pagano le istituzioni elette»), ma lo ha fatto - soprattutto - Vittorio Feltri, che dalle colonne de «Il Giornale» ha avvisato: «Forse per la prima volta in quindici anni c’è gente che storce il naso e non ha voglia di andare a votare Pdl...».

E’ un allarme che va considerato assolutamente fondato. La via crucis di polemiche, malcostume politico, intercettazioni, inchieste, e tiro al bersaglio contro ogni istituzione di garanzia - dal Quirinale all’Agcom alla Corte Costituzionale - ha fiaccato la resistenza anche dei più ottimisti. La valutazione che comincia ad andare stavolta per la maggiore è la solita: sono tutti uguali. E il rischio è tutto racchiuso in un’affermazione sempre più in voga: stavolta non voto nessuno. Naturalmente, è superfluo dire che l’astensione dal voto non è mai una vittoria per nessuno: né per chi la subisce, né per chi ne è protagonista. Ma a questo assunto democratico, va onestamente aggiunta una valutazione non più contestabile: e cioè che il sistema dei partiti sta davvero facendo di tutto per allontanare i cittadini dal voto. Non è con le lacrime di coccodrillo, natu

ralmente - e tantomeno con gli appelli dell’ultima ora - che è pensabile arginare il rischio di un alto astensionismo. Andrebbe messa in campo - stabilmente - una nuova politica, come ieri ha reclamato la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Non è cosa che si possa fare in dieci giorni, certo: ma è cosa che il Paese reclama ormai da anni. Anche queste elezioni, invece, si caratterizzeranno come l’ennesima occasione sprecata. Non è affatto un bene: e i partiti, i loro leader e i loro rappresentanti nelle istituzioni farebbero bene a considerare sul serio il rischio che comincia a incombere sul Paese. Sul Paese, prima di tutto. Ma anche sulle loro teste...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - D'Alema: La sua proposta presidenziale, nemmeno Fini ci sta
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2010, 11:26:26 am
24/3/2010 (7:16)  - INTERVISTA

D'Alema chiude la porta "Dal premier solo bugie"

«La sua proposta presidenziale è demagogica, nemmeno Fini ci sta»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Gira e rigira tra le mani la copia de La Stampa con l’ultima intervista di Silvio Berlusconi ben richiamata in prima pagina. E però, sistemato dietro la scrivania di presidente del Copasir, Massimo D’Alema - in verità - invece che parlare sembra perplesso: «Vuole che la commenti? Dovremmo parlare dell’ultima esibizione di vitalità del nostro premier, un uomo che a 74 anni sfida ad una gara sui cento metri il suo intervistatore... Il resto, infatti, sono bugie dette con sconcertante naturalezza ed un vuoto assoluto di idee e di prospettiva». Sono le 11 del mattino e D’Alema è in partenza per il Piemonte, dove lo attende una raffica di iniziative in vista di un voto - quello imminente - al quale guarda con ottimismo. «Il messaggio di Berlusconi si è fatto ripetitivo e stanco - dice -. Parla di cose lontane dalle preoccupazioni vere degli italiani, che non vivono certo con l’ossessione dei talk show o del lavoro della magistratura...».

Sarà magari come dice lei, presidente D’Alema: ma il premier sostiene, invece, di esser dovuto scendere in campo anche stavolta proprio per l’attacco che subirebbe dai pm. Lei non ci crede?
«Berlusconi sta solo facendo il solito giochino: che consiste nel tentare di trasformare ogni voto - perfino un’elezione circoscrizionale - in un referendum su di lui. Lo fa anche perché ha poca considerazione dei suoi candidati e del suo partito. Ma è appunto di questo che si tratta: i magistrati sono un pretesto».

Comunque la si giudichi, è però una scelta che in passato spesso lo ha premiato, no?
«Non lo discuto, ma molte cose sono cambiate... La sua coalizione è in crisi evidente. Il suo messaggio si è fatto ripetitivo, il suo egocentrismo è cresciuto a dismisura e sta trasformandosi in un problema serio. Vede, perfino il fatto che un uomo che ormai ha 74 anni trovi offensivo che gli si facciano domande sul dopo, sulla successione, è segno di miopia e di scarso amore verso il Paese».

Evidentemente ritiene di avere energie e idee per andare avanti e fare altro: a cominciare dalla riforma della giustizia, annunciata per dopo il voto. Le pare così strano?
«Sono anni che annuncia cose che poi non fa. Nell’ultimo decennio ha governato per quasi otto anni: perché non ha varato le riforme che promette? Anche sulla giustizia abbiamo avuto leggine e non riforme. Sulle intercettazioni fummo noi a presentare una proposta seria ed equilibrata: non volle nemmeno discuterne. E se ora per riforma intende una norma che ostacoli il lavoro dei magistrati, può star certo che troverà la nostra più ferma opposizione. Inoltre, vorrei far notare con qualche amarezza che il garantismo del nostro premier ha mostrato, in questi giorni e a proposito delle inchieste pugliesi, un volto vergognoso: chiede impunità per sé e persecuzione per i suoi avversari politici».

Vede invece più possibilità di confronto sul piano delle riforme istituzionali? Berlusconi propone l’elezione diretta del premier o del Capo dello Stato: come risponde?
«Che gli ultimi anni hanno dimostrato quanto ci sia bisogno dell’autorità di un Capo dello Stato punto di equilibrio e garanzia per tutti: un presidente della Repubblica eletto nel fuoco di uno scontro elettorale non potrebbe esercitare quel ruolo con autonomia e credibilità. Ma questo è già parlare di merito: mentre è evidente che la proposta di Berlusconi è elettorale e demagogica. Neppure il presidente della Camera, Fini, che pure è sempre stato presidenzialista, lo ha seguito su questo terreno».

E perché non sarebbe seria?
«Ma come si fa a parlare indifferentemente di elezione diretta del premier o del Capo dello Stato, come fossero la stessa cosa? A parte che, nella sostanza, l’elezione diretta del presidente del Consiglio noi l’abbiamo già - visto che sulla scheda elettorale c’è il nome del candidato premier -, non è questo il problema che il Paese ha di fronte. Proprio perché abbiamo un presidenzialismo di fatto, la questione è restituire al Parlamento il suo ruolo legislativo e di controllo, permettendo ai cittadini di scegliere i loro parlamentari. E riducendo il numero degli eletti, a mio giudizio, a tutti i livelli. Anche per ridurre i costi della politica. Tuttavia la difficoltà non è neanche nel merito, ma nella confusione di un premier che sulle riforme costituzionali improvvisa e sembra cambiare idea a seconda delle convenienze».

La sua appare una chiusura totale: eppure proprio lei, dall’esperienza della Bicamerale in poi, è considerato il leader più aperto al confronto con Berlusconi. Tanto aperto da spingersi fino a quelli che sono stati addirittura definiti inciuci...
«La Bicamerale rappresentò un tentativo serio di riforma, che non a caso fu proprio Berlusconi ad affossare. Quanto al resto, si tratta di stupidaggini giornalistiche: io non parlo con Berlusconi che saranno dieci anni, e vorrei che qualcuno mi elencasse gli inciuci che avremmo fatto. Noi siamo una forza riformista e siamo pronti a partecipare alle riforme necessarie per il Paese. Se si accetta come base la cosiddetta bozza Violante, siamo pronti a discutere. Confusi presidenzialismi o norme contro l’indipendenza della magistratura non ci vedono disponibili».

In caso contrario il rischio è che resti tutto così com’è, no?
«Infatti. E sarebbe un danno per il Paese. Negli ultimi 15 anni il nostro bipolarismo, con questa estrema personalizzazione, ha prodotto governi che generalmente non hanno dato buona prova di sé: occorre metterselo alle spalle - cominciando con il cambiare la legge elettorale - e rifondarlo intorno a grandi forze politiche. Il Pd, con Bersani, sta lavorando in questa direzione. Ed è ridicolo raffigurarci come un gruppo estremista nelle mani di Di Pietro. L’alternativa alla quale lavoriamo non è una riedizione dell’Unione ma un progetto riformista intorno a un grande partito di tipo europeo, perché il Paese ha bisogno di una svolta».

Ma rispetto a cosa, presidente D’Alema?
«Rispetto ai risultati prodotti dal nostro anomalo bipolarismo. Ma anche a quanto realizzato da Berlusconi alla guida del Paese. Il solo fatto che continui ad annunciare sempre le stesse riforme, vuol dire che fino ad oggi non le ha fatte. E siamo l’unico Paese occidentale ad avere un premier che - mentre il mondo cambia sotto l’incalzare della crisi e delle novità che produce - è ossessionato dai giudici e dalla tv. Il cosiddetto “governo del fare” si è limitato a propagandare per oltre un anno la rimozione dell’immondizia a Napoli e le case per i terremotati dell’Aquila: ma Napoli è di nuovo circondata dalla “monnezza” e in Abruzzo i cittadini vanno in strada a protestare...».

In questo quadro che risultato elettorale si aspetta?
«Mi auguro un voto che ridimensioni un capo di governo più dedito al culto della sua personalità che impegnato a risolvere i problemi. E mi aspetto un risultato che confermi un equilibrio tra i governi regionali prevalentemente di centrosinistra e il governo nazionale, anche perché questo può spingerlo ad operare meglio. La nostra campagna elettorale sta andando bene, potremo avere un buon risultato. Per quanto riguarda il centrodestra, che è in evidente difficoltà, Berlusconi ha tentato di cambiare il corso delle cose con la manifestazione di sabato scorso: ma la partecipazione è stata quel che è stata, e l’insensata polemica sul numero dei presenti ha irrimediabilmente immiserito l’intera vicenda. Vedremo. Ma quel che è certo è che noi andiamo verso il voto fiduciosi e sicuri di un nostro rafforzamento».

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Berlusconi batte il non voto
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 11:14:28 am
30/3/2010

Berlusconi batte il non voto

FEDERICO GEREMICCA

E così, nonostante l’astensione che avrebbe dovuto penalizzarlo, le inchieste che lo riguardano, l’esclusione della sua lista nella provincia di Roma ed una certa stanchezza nell’azione del governo, Silvio Berlusconi - un po’ a sorpresa rispetto alle ultimissime previsioni - ha largamente vinto anche questa tornata elettorale. Governava in due sole Regioni (rispetto alle 11 del centrosinistra) e da oggi ne amministra sei.

Conferma, come da pronostico, Lombardia e Veneto; guadagna, come scontato da settimane, Campania e Calabria; ma soprattutto conquista il Lazio - nonostante l’assenza di liste Pdl nella capitale - ed espugna il Piemonte, che da oggi diventa una Regione a trazione leghista.

Il Pd perde ma non frana, confermandosi partito-guida in sette Regioni. All’opposto, il Pdl mette nel carniere quattro nuovi governi regionali, ma ottiene un deludente risultato come partito, arretrando non solo rispetto alle europee di un anno fa ma anche alle elezioni regionali del 2005. E se i risultati dei due maggiori partiti in campo sono in qualche modo in chiaroscuro - e si prestano a esser dunque letti in maniera diversa (in ossequio alla nota filosofia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) - su un dato non sono possibili divagazioni: e il dato è l’avanzata - l’ennesima - della Lega di Umberto Bossi.

Il fatto che il «partito padano» non abbia sorpassato in queste elezioni il Popolo della libertà, è circostanza francamente marginale. Quel che infatti conta sul serio sono le percentuali bulgare raggiunte in Veneto, l’ulteriore crescita in Lombardia, l’insediamento con consenso crescente in Emilia (il Carroccio è il primo partito perfino nel Comune natale di Bersani...) e soprattutto il fatto che, con un proprio candidato, abbia portato il centrodestra alla conquista del Piemonte. Il partito di Bossi governa ora due tra le più importanti e popolose Regioni del Nord, è già ben insediato alla guida di centinaia di amministrazioni e ora si accinge a chiedere il governo di Milano, e forse non solo di Milano. La lunga marcia dei lumbard dunque prosegue: e in assenza di risposte chiare e forti da parte della politica «romana», non si vede cosa possa fermarla.

E non è solo il radicalismo leghista a uscir premiato dalle urne. Se si guarda infatti a quel che accade nell’altra metà del campo, è possibile osservare un fenomeno analogo. Il «partito giustizialista» di Antonio Di Pietro, infatti, non esce ridimensionato dal voto e, anzi, importa a livello regionale le alte percentuali raggiunte un anno fa alle elezioni europee; le liste «fai da te» messe in campo da Beppe Grillo vanno quasi ovunque oltre il 3%, con punte di oltre il 6% in Emilia; e non può esser senza significato il risultato importante (e senz’altro inatteso) ottenuto da un candidato «radicale» come Nichi Vendola in Puglia e il successo sfiorato da Emma Bonino nel Lazio. Del resto, non si capisce come possa destare sorpresa il fatto che, dopo un anno di pesante crisi economica e con i partiti tradizionali impegnati in furibonde risse su tutt’altro (dalle escort ai processi brevi e alle intercettazioni), oltre la metà degli italiani abbia deciso di non votare o di sostenere forze estreme o radicali.

E al di là di chi ha vinto di più o di chi ha perso di meno, è questa la scoraggiante fotografia che il voto di ieri consegna alle classi dirigenti del Paese: il livello di sopportazione, il livello di guardia, non è lontano. E se l’altissima percentuale di astensioni ne è una spia, sarebbe errato non considerarne un effetto anche quel 20% di consensi distribuiti tra partiti estremi (come la Lega) e movimenti radicali quasi personali (Di Pietro e Grillo). Chi ha memoria, infatti, non può non ricordare come la Prima Repubblica - al di là delle successive inchieste giudiziarie - cominciò a scricchiolare proprio sotto l’incalzare del fenomeno leghista...

E’ giusto, dunque, interrogarsi sul tipo di risposta che sapranno dare a questo evidente disagio i due partiti maggiori, e le dinamiche che il risultato elettorale potrebbe avviare tanto nella coalizione di governo quanto nel fronte dell’opposizione. Ipotizzare una crescita dell’ipoteca leghista sull’esecutivo è fin troppo ovvio: ciò che è ancora difficile da immaginare, invece, è il tipo di risposta che arriverà da Silvio Berlusconi. Così come nient’affatto scontate sono le mosse che deciderà di compiere Gianfranco Fini, sempre più insofferente verso l’ «egemonia» leghista sul governo e segnalato - un giorno sì e l’altro pure - come ormai in uscita dal Pdl. Dopo questo voto, insomma, molto potrebbe cambiare: e onestamente, alla luce di quanto visto negli ultimi mesi, sarebbe davvero opportuno che molto cambiasse...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Convergenze parallele
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2010, 07:45:38 am
21/4/2010

Convergenze parallele

FEDERICO GEREMICCA

Cabina di regia. Consiglio di gabinetto. Diarchia. E, appunto, corrente. Nella ormai trapassata Prima Repubblica, era spesso grazie ad escamotage così che capi di governo e segretari di partito riaggiustavano la rotta.

E tenevano in piedi le rispettive ditte di fronte al profilarsi delle solite - fin troppo solite - tensioni politiche. Erano, il più delle volte, soluzioni a costo zero: nessuno infatti perdeva davvero, tutti potevano sostenere di averla spuntata e così si tirava avanti fino alla successiva - e quasi mai lontana - crisi di governo. Si tratta di alchimie politiche che potevano o non potevano piacere: ma è certo, per dirne una, che mai e poi mai un governo avrebbe rischiato la crisi (o un partito una scissione) solo perchè a qualcuno - nella Dc, nel Psi e perfino nell’allora Pci - veniva voglia di creare, per esempio, una propria corrente.

Nella Seconda Repubblica le cose vanno - e anche qui: può piacere o non piacere - assai diversamente: e bisogna riconoscere (o lamentare) che questo avviene quasi esclusivamente per la presenza in campo di Silvio Berlusconi. Infatti, così come Bettino Craxi non aveva imbarazzi nell’affermare che «quando non si vuole affrontare un problema ci si inventa una bella Commissione» (e anche lui ne favorì non poche...), ugualmente Silvio Berlusconi ripete con un certo orgoglio che «certi termini da Prima Repubblica a me fanno venire l’orticaria». Intendiamoci: non è che a quei tempi l’allora solo Cavaliere non conoscesse (e spesso sfruttasse) le alchimie e i riti di quella politica. Ma una volta al governo, comprensibilmente, la musica è cambiata.

Ed è tanto cambiata non solo al punto che lo scontro tra Berlusconi e Fini ha raggiunto toni francamente incomprensibili, se la questione è la nascita di una corrente: ma fino all’evidenza che il non aver adeguato regole del gioco e istituzioni della Repubblica al nuovo corso politico, ha determinato il proliferare di tensioni talvolta ingovernabili. Riformare funzioni, peso e ruolo di governo, Parlamento, Corte costituzionale e Csm - per dire - è certo possibile (ed anzi auspicabile): quel che appare sempre più traballante è quella sorta di doppio binario - tra Costituzione così com’è e Costituzione «materiale» - lungo il quale la politica e il rapporto tra le istituzioni spesso deraglia fragorosamente.

In fondo - e al di là delle sottaciute questioni di potere - forse è qui il nocciolo vero, la radice del dissidio apertosi tra il presidente della Camera e il capo del governo, con il primo a lamentare la scarsa democrazia interna al Pdl e il secondo a denunciare i limitati poteri dell’esecutivo o, magari, il fatto che alla Camera debbano votare tutti i deputati, mentre si guadagnerebbero tempo e danaro se lo facessero i soli capigruppo... Così come - e la circostanza è assai più seria - è stata spesso oggetto di critiche da parte di Fini la nota insofferenza del premier verso ogni istituzione terza - dal Quirinale alla Corte Costituzionale, fino alla magistratura - che intervenga per richiamare il governo al rispetto delle regole.

Ma se la questione è questa - e cioè una assai diversa concezione non solo della politica ma anche dei rapporti tra poteri dello Stato - è evidente che la crisi apertasi tra i co-fondatori del Pdl potrà anche trovare oggi una soluzione «pacifica», ma è destinata a rimanere irrisolta forse per sempre. Si potrà tentare una qualche forma di coabitazione, Fini e Berlusconi potranno magari provare a smussare alcune asprezze, ma è difficile immaginare per questa storia un epilogo diverso da quello che mise fine all’alleanza tra Berlusconi e l’Udc di Pierferdinando Casini.

Non è detto, naturalmente, che la separazione sia destinata ad avere tempi brevi: al contrario, la coabitazione potrebbe durare ancora a lungo, considerati i prezzi politici e non solo politici che i due leader potrebbero pagare. Impossibile? Nient’affatto. E chissa che non sia proprio dalla trapassata Prima Repubblica che possa arrivare l’ispirazione a restare ancora assieme. In fondo, è questo quel che Aldo Moro - con definizione non dimenticata - auspicò per il rapporto tra Dc e Pci: lo definì «convergenze parallele».

La necessità, insomma, di collaborare e stare assieme pur non amandosi e pur senza incontrarsi mai...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Separati in casa
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2010, 12:10:21 pm
27/4/2010

Separati in casa

FEDERICO GEREMICCA

Per un problema tecnico sull’edizione di ieri l’editoriale di Federico Geremicca è uscito incompleto in alcune edizioni. Lo riproponiamo nella sua interezza e ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori.


L’appello del Presidente Napolitano affinché le celebrazioni si svolgessero in un clima di serenità; l’invito del premier Berlusconi a far tesoro della libertà e della democrazia riconquistate con la Resistenza; le sollecitazioni e la speranza dell’Anpi, infine, che le manifestazioni non venissero turbate da tumulti e contestazioni. Tutto inutile. Assolutamente inutile. E così, anche questo 25 aprile - non il primo e probabilmente non l’ultimo - finisce in archivio con un bollettino di incidenti indegno della giornata che ricorda e simboleggia la liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Da Catania a Milano, è tutta un’interminabile teoria di contestazioni, diserzioni e incidenti di piazza e diplomatici. I più seri nella capitale, dove la protesta contro la presenza sul palco della neo-governatrice Polverini è culminata in un tiro al bersaglio contro il presidente della Provincia, Zingaretti, colpito da un limone in pieno volto.

Ma aspra è stata anche la contestazione subita, a Milano, dal sindaco Moratti e dal presidente della Provincia, Podestà. Nel capoluogo lombardo, il presidente della Regione, Formigoni, ha addirittura disertato la manifestazione di piazza Duomo con una motivazione che la dice lunga sul clima che si va radicando nel Paese: «Non sarò al corteo per la stesso motivo per il quale il Presidente Napolitano ha preferito commemorare la Liberazione con il momento di sabato alla Scala...».

Protagonisti delle contestazioni - che a Milano non hanno risparmiato nemmeno reduci dei campi di Auschwitz e Treblinka - giovani dei centri sociali e militanti della sinistra più radicale. «Chi semina vento, raccoglie tempesta», ha accusato il leader nazionale dei giovani del Pdci, giustificando - se non rivendicando - l’aggressione di cui sono stati fatti oggetto i presidenti Polverini e Zingaretti. E se non si capisce bene quale vento abbia seminato il presidente Zingaretti, davvero si fa fatica a cogliere il senso di una tempesta (di limoni, insulti e mandarini) in un giorno così.

Da più parti si sottolinea ormai con allarme e frequenza quasi quotidiana il fatto che il Paese stia perdendo coesione sociale. Significa che, dopo l’aggravarsi delle diseguaglianze economiche e il radicarsi di sempre più evidenti divisioni territoriali (tra Nord e Sud) l’Italia rischia di smarrire perfino quel minimo comun denominatore indispensabile a farne un Paese unito. Bisogna dire che la giornata di ieri, con provocazioni e incidenti del tutto inaccettabili, sembra esser appunto arrivata a confermare la fondatezza di quell’allarme.

Eppure era stato fatto di tutto per evitare che anche questo 25 aprile si trasformasse in una giornata da dimenticare. Sabato, a Milano, il Capo dello Stato aveva svolto un discorso tutto centrato sulla necessità di uscire da contrapposizioni pregiudiziali in nome di un’unità d’intenti capace di favorire lo sviluppo del Paese. E ieri Silvio Berlusconi è entrato nelle case degli italiani con un intervento dai toni unitari e pacati, con espliciti inviti alle forze di opposizione affinché partecipino alla riscrittura della seconda parte della Costituzione e non si tirino indietro rispetto all’annunciato processo di riforme istituzionali.

Tutto inutile, come dicevamo. Quel che resta - quel che anzi si rafforza - è infatti una incomunicabilità, una separazione che pare crescere giorno dopo giorno. In molti casi (Milano, Catania, Salerno, Bergamo...) sindaci e presidenti del centrodestra hanno addirittura preferito disertare le celebrazioni del 25 aprile temendo - come purtroppo in molte città è poi accaduto - polemiche e contestazioni. E’ un segnale quanto mai allarmante, perché l’idea che una parte politica (e quindi una parte del Paese) finisca per essere o per sentirsi esclusa da una giornata che - come ha ricordato Napolitano - è anche quella della riunificazione, ecco, tale circostanza non può che esser considerata foriera di divisioni ancor più profonde. Ci potrà guadagnare, forse, qualche «rivoluzionario» di professione. È assai più difficile, al contrario, che possa venirne una spinta positiva e in avanti per il Paese.

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La promessa mancata di Veltroni
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 12:22:46 am
13/5/2010

La promessa mancata di Veltroni
   
FEDERICO GEREMICCA


Alla fine, Walter Veltroni non ce l’ha fatta: e del resto, la promessa era di quelle difficili da rispettare.

Aveva annunciato, più o meno, un lungo periodo di distacco dalla politica, a vantaggio di un più serrato impegno civile e culturale; aveva assicurato agli amici del Pd che non «farò agli altri quello che è stato fatto a me»; e aveva gelato con uno sguardo chi ipotizzava la costruzione di una nuova e più organizzata «corrente» veltroniana. Il «ritiro», però, è durato solo un po’ di mesi: poi, in quel di Cortona, qualche giorno fa, il prevedibile (e temuto) ritorno in campo.

Non c’è da gridare allo scandalo, e nemmeno da restare sorpresi: in un Paese nel quale il ricambio generazionale è una chimera e l’istituto delle dimissioni una strada che ha sempre un ritorno, davvero in pochi avevano creduto che il leader che ha dato faccia e anima alla prima stagione del Pd potesse sul serio uscire di scena. Non è il ritorno in campo, quindi, quel che può stupire: a sorprendere, magari, sono le suggestioni, le idee e il bagaglio politico-programmatico, che hanno accompagnato questo ritorno. Tutto, infatti, rievoca e rimanda alla «bellissima sconfitta» subita da Veltroni e dal Pd appena due anni fa: la vocazione maggioritaria, il valore inviolabile e salvifico delle primarie, il partito leggero (come se l’attuale fosse «pesante»...) e via elencando.

Non è in questione il fatto che questa linea sia stata sconfitta nel Congresso che ha portato Pierluigi Bersani alla segreteria: è piuttosto in discussione la circostanza - evidentemente non trascurabile - che sia uscita battuta dalla contesa elettorale. E se c’è una cosa che appunto sorprende nelle prime mosse del nuovo-vecchio Veltroni, è il fatto che non un aggiustamento di rotta, non una novità teorico-programmatica sia arrivata a correggere o cambiare quel che c’era da cambiare.

Il ritorno di Veltroni, insomma, pare totalmente prescindere da quanto accaduto dalla discesa in campo del Lingotto in poi. Come se il tempo non fosse passato: e infatti, precisamente come se il tempo non fosse passato, il Pd si è ritrovato in un battibaleno aggrovigliato nelle identiche polemiche di mesi e mesi fa. Torna lo scontro sul valore delle primarie, si riaccendono dispute sulla politica delle alleanze e sul carattere del Pd, e sullo sfondo si intravede perfino il riprofilarsi all’orizzonte (per l’ennesima volta) della sfida infinita tra D’Alema e Veltroni. Insomma, punto e a capo: come in un infinito e autodistruttivo gioco dell’oca.

Affari del Pd, si dirà. Ma bisogna onestamente riconoscere che non è precisamente così. In un Paese che lamenta l’assenza di una credibile alternativa di governo (e Dio sa quanto ce ne sarebbe bisogno oggi) quel che accade in casa del maggior partito di opposizione non può esser considerato solo un affare suo. E a maggior ragione non può esserlo in una stagione nella quale il ricambio delle classi dirigenti viene ormai invocato come si invoca un’oasi nel deserto. Bossi impera sul suo partito dalla fine degli Anni 80 e così Fini sul Msi e poi An (fino alla fondazione del Pdl); Casini guida il suo drappello centrista da più di quindici anni e Silvio Berlusconi, nonostante le ripetute sconfitte, regna sul suo partito da 16 anni ed è al suo terzo mandato da premier.

Le classi dirigenti invecchiano e, in quanto a ricambio, fanno somigliare il nostro Paese all’Urss di antica memoria. Non serve ripercorrere quanti presidenti o quanti capi di governo si siano avvicendati negli Usa o in Francia o in Germania dal ’94 ad oggi. Basta un esempio assai più recente. I nuovi premier e vicepremier britannici (David Cameron e Nick Clegg) assommano, insieme, a 86 anni: appena nove di più di Silvio Berlusconi. L’avvento di nuove generazioni alla guida del Paese, insomma, passa anche (come è accaduto a Londra) attraverso il ricambio e il rinnovamento alla guida delle forze di opposizione. Ricambio di uomini ma, a volte, anche solo di progetti e di idee. Ecco, forse la vera ombra che si allunga sul ritorno in campo di Walter Veltroni (55 anni, non un dinosauro) è proprio l’assenza di un’idea nuova, di un’idea-forza capace di mutare questo andazzo. Da qui alle prossime elezioni politiche mancano - salvo sorprese - ancora tre anni. Il tempo è tanto, ma forse non è male cominciare a lanciare un allarme...

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7344&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Manovra, Napolitano irritato
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2010, 04:40:53 pm
29/5/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Manovra, Napolitano irritato

Il Colle teme un maxi-decreto

FEDERICO GEREMICCA

I giornali ne scrivono, gli addetti ai lavori la commentano, gli enti locali protestano. I mercati la giudicano: ma al Quirinale - dove pure il pacchetto di misure dovrà esser alla fine firmato - del testo della manovra economica licenziata dal Consiglio dei ministri ormai martedì scorso, non c’è alcuna traccia. Nè gli uffici nè il presidente della Repubblica hanno potuto esaminare il provvedimento: ed è per questo che, non nascondendo una robusta irritazione, Giorgio Napolitano ieri pomeriggio non ha potuto discutere del pacchetto di misure economiche col presidente del Consiglio, incontrato per circa un’ora. Già qualche giorno fa, dagli Stati Uniti, il capo dello Stato aveva manifestato un certo fastidio per questo stato di cose: ieri ha ribadito il concetto parlandone direttamente col premier (e col sottosegretario Letta).

Berlusconi non ha nascosto a Napolitano le grandi difficoltà che il governo sta incontrando nel definire la manovra; ma il presidente, da parte sua, ha confermato l’intenzione di esprimere una propria valutazione solo dopo aver ricevuto il testo “stabilizzato” (cioè con le tabelle d’accompagno e l’ok della ragioneria di Stato) della manovra annunciata. Per intanto, il capo dello Stato si è limitato a ribadire alcune indicazioni di carattere generale, chiedendo al premier che sulla manovra sia possibile un trasparente confronto in Parlamento e un dialogo che favorisca - ove possibile - una corresponsabilità delle stesse opposizioni. Sono raccomandazioni nient’affatto inusuali, per Giorgio Napolitano: già più volte in passato, infatti, il presidente è intervenuto alla vigilia delle sessioni di bilancio sollecitando l’esecutivo a evitare manovre concentrate in un unico articolo di legge sul quale, magari, alla fine viene poi apposta la fiducia. Si vedrà come andrà stavolta. Ma per il momento - e a parte l’irritazione per l’inusuale ritardo nella trasmissione al Colle di un testo licenziato dal Consiglio dei ministri ormai quattro giorni fa - al Quirinale la sensazione è che i problemi intorno al profilo della manovra siano tutt’altro che risolti: e la battuta serale del premier («La manovra non l’ho ancora firmata») non ha fatto che confermare questa impressione. Quanto occorrerà ancora prima che la manovra arrivi all’esame del capo dello Stato? Difficile fare previsioni, ma al Quirinale nessuno resterebbe sorpreso se l’invio del testo slittasse ancora di qualche giorno.

Il punto, naturalmente, non è l’entità della manovra (24 miliardi) chiesta all’Italia dall’Europa: la questione politica resta la suddivisione dei sacrifici da fare, faccenda intorno alla quale all’interno della maggioranza di governo sono ancora in corso diversi (e aspri) bracci di ferro. Stante così le cose, il confronto tra Napolitano e Berlusconi ieri è andato poco oltre la ragione per la quale il premier è salito al Colle: e cioè la definizione dei nomi dei venticinque cavalieri del lavoro da nominare nella ricorrenza della Festa della Repubblica (incombenza assunta dal premier che ha l’interim del ministero per lo sviluppo economico). Oltre a questo, poco altro.
Il capo dello Stato ha informato più nel dettaglio il premier circa l’incontro avuto col presidente Obama (l’aveva già fatto telefonicamente nei giorni scorsi) e ha chiesto a Berlusconi valutazioni intorno al summit economico europeo svoltosi in Francia. Per il resto, poco o nulla: con il premier che non ha nascosto imbarazzo per l’impossibilità di sottoporre al capo dello Stato i contenuti dell’attesa manovra. L’attesa al Quirinale, dunque, continua.

E tra i collaboratori del presidente c’è chi non nasconde la preoccupazione per problemi ancor più seri che potrebbero sorgere quando il testo arriverà al Colle. Sarà un decreto? Magari un decreto-monstre di un unico articolo con dentro tutto e il contrario di tutto?
E sul provvedimento verrà poi chiesta la fiducia? Dalla risposta a questi interrogativi dipenderà il tenore del prossimo incontro tra i presidenti: e al momento nulla può far escludere che non si risolva nell’ennesimo faccia a faccia gravido di tensioni...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201005articoli/55459girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Secessione silenziosa
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2010, 04:32:11 pm
3/6/2010

Secessione silenziosa

FEDERICO GEREMICCA

Naturalmente, si potrebbe anche prenderla con ironia e ammettere, per esempio, che «La gatta» - vecchia canzone di Gino Paoli - è certamente più orecchiabile dell’Inno di Mameli: anche se riesce poi difficile credere che sia per questa ragione che le autorità di Varese - alla presenza del ministro Maroni - abbiano deciso ieri di celebrare la Festa della Repubblica facendo intonare il motivetto del cantautore piuttosto che l’inno.

Ugualmente, si potrebbe considerare apprezzabile l’iniziativa del presidente della Provincia di Torino, che ha invece stabilito che da oggi la musica di sottofondo per l’attesa dei collegamenti telefonici con l’ente, sarà appunto l’Inno di Mameli: scelta apprezzabile, ma ovviamente non risolutrice di una questione della quale l’assenza di leader e ministri leghisti alle celebrazioni romane (la sfilata ai Fori ieri, la festa al Quirinale il giorno prima) è solo un ormai quasi folkloristico epifenomeno.

La questione è il solco sempre più profondo che divide il Nord dal Sud del Paese. Nei due giorni di festeggiamenti nella Capitale, il solco è stato visibilmente segnalato dalla mancata presenza di esponenti della Lega (ministri, capigruppo parlamentari e governatori di importanti regioni del Nord), ma sarebbe sbagliato non riflettere su assenze ancor più diffuse, anche se magari meno visibili: è stata una larga parte del mondo dell’imprenditoria, della politica e della cultura del Nord - infatti - a disertare le celebrazioni, rendendole qualcosa di quasi esclusivamente «romano», se non meridionale addirittura. E che tale fenomeno appaia acuito alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, è cosa paradossale solo all’apparenza.

Proprio gli ultimi mesi, infatti, hanno portato alla ribalta delle cronache avvenimenti che - letti con l’animo di un «cittadino del Nord» - non potevano che accrescere un sentimento che potremmo definire quasi di «secessione silenziosa». Ne citiamo due per tutti: lo spaventoso dissesto finanziario - in materia di sanità - di tutte le regioni meridionali, destinato comunque a pesare sul bilancio dell’intero Paese; e poi le imprese della «cricca»: un giro di corruzione e malaffare rispetto al quale - a differenza dell’antica Tangentopoli - il Nord può (a torto o a ragione) sentirsi del tutto estraneo. E in effetti, tra appartamenti che affacciano sul Colosseo, intercettazioni in romanesco, case a via Giulia e massaggi al «Salaria sport village» l’intera faccenda appare una perfetta rappresentazione degli andazzi nella odiata «Roma ladrona»...

Ieri il Capo dello Stato, commentando le assenze ai festeggiamenti (e in particolare quella del ministro dell’Interno) si è limitato ad un rammaricato «dovete chiedere a lui, erano stati invitati tutti». Una reazione addolorata ma serena: e consapevole cioè del fatto che - più che con bruschi richiami all’ordine - la questione vada affrontata in sede politica e con risposte politiche. Dopo tanto parlarne, per esempio, il federalismo andrebbe finalmente ricondotto nel novero delle cose concrete - e quindi da realizzare - tirandolo fuori da quella sorta di museo delle cere dove giacciono da anni i calchi dell’elezione diretta del premier, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del bicameralismo perfetto e via elencando di chimera in chimera.

In assenza di risposte politiche concrete e rapide, è infatti impensabile arrestare la «secessione silenziosa» che pare in atto: e che ha già concretamente prodotto, alle ultime elezioni, la conquista da parte della Lega di importanti regioni del Nord. Senza interventi che diano il senso di un visibile cambio di rotta, anche gli sforzi unitari del Presidente della Repubblica (che sabato e domenica sarà a Torino per iniziative legate al 150° anniversario dell’Unità d’Italia) non basteranno a risolvere il problema. Che si ripresenterà, il prossimo 2 giugno, magari amplificato: e inondato da lacrime di coccodrillo che certo non commuoveranno più il «popolo del Nord».

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7435&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il fastidio di Napolitano tirato per la giacca
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:04:36 pm
11/6/2010 (7:7)  - RETROSCENA

Il fastidio di Napolitano tirato per la giacca

«Ci sono professionisti della richiesta al Presidente»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Intanto, la definizione liquidatoria che ne dà: «Professionisti». Anzi: «Professionisti della richiesta al presidente di non firmare». Quindi l’ulteriore stilettata: «Questi professionisti sono numerosi, ma molto spesso parlano a vanvera». Dichiarazioni, se si vuole, irrituali: soprattutto per un capo di Stato del profilo di Giorgio Napolitano. Ma stavolta - e giusto nella sua Napoli - il Presidente della Repubblica proprio non è riuscito a nascondere il suo fastidio verso il pressing cui è sottoposto da chi vorrebbe che non firmasse la legge sulle intercettazioni approvata ieri in Senato. Un fastidio crescente e dovuto in particolare al fatto - in questa circostanza - che molti di questi «professionisti» conoscono bene la Costituzione, il ruolo che essa assegna al Capo dello Stato e i limiti che gli impone: ma ciò nonostante «parlano a vanvera», il più delle volte per evidenti interessi di parte. Chi sono questi «professionisti»?

Qualche quotidiano dalla campagna martellante, forse; sparute pattuglie della cosiddetta «sinistra radicale», probabilmente; ma soprattutto il vertice dell’Italia dei Valori, con Luigi De Magistris e Antonio Di Pietro in prima linea. Non a caso, in replica alle dichiarazioni di Giorgio Napolitano, proprio il leader dell’Idv si è lasciato andare ad una risposta stizzita: «Non abbiamo né intenzione né soprattutto tempo per polemizzare con il Capo dello Stato», ha fatto sapere Di Pietro. Che però ha poi aggiunto: «E’ una legge iniqua, incostituzionale e immorale: e una forza politica che crede nella Costituzione ha il dovere di attivarsi per impedirne l’approvazione». Legittimo - questa l’opinione del Colle - che un partito politico faccia le battaglie che ritiene opportune; non corretto, invece, farsi scudo del Quirinale, «parlare a vanvera» e chiedere fin da ora al Presidente della Repubblica di non firmare un testo che al momento, per altro, è ignoto.

Il lavoro del Parlamento è infatti giusto a metà: perché se è vero che il Senato ha licenziato ieri (con voto di fiducia) il provvedimento sulle intercettazioni voluto dal governo, la Camera non ha nemmeno iniziato a esaminarlo. E se lo cambiasse, magari rendendolo più accettabile a tutti? In gergo politico - e proprio a sottolineare il rispetto che il Capo dello Stato deve alle Camere - si dice che «quando il Parlamento lavora, il Presidente della Repubblica tace». Il Parlamento è appunto ancora all’opera: e il Colle tirerà le somme solo alla fine del suo lavoro. E dire che appena tre giorni fa il Quirinale aveva ribadito il concetto con una nota nella quale si chiariva che l’esito di questo lavoro sarebbe stato esaminato «solo quando il Capo dello Stato riceverà la legge per la promulgazione»: e che, fino ad allora, «non entra nel merito di nessuna formulazione e non è partecipe di alcun contatto». Tutto inutile.

Ed anche questo ha infastidito Napolitano: per altro tenuto, secondo Costituzione, a verificare solo che le leggi sottoposte alla sua firma non presentino palesi elementi di incostituzionalità (l’esame più approfondito spetta infatti alla Corte Costituzionale). D’altra parte, al Colle non si dispera che la Camera possa magari apportare al testo almeno qualcuno degli ulteriori cambiamenti sollecitati a gran voce da opposizione, magistrati, editori e giornalisti, così da renderlo - appunto - più accettabile. Si fida sul lavoro della Commissione Giustizia, presieduta fa Giulia Bongiorno, «addetta ai lavori» nient’affatto convinta del testo in discussione e finiana della prima ora. Un attento esame del provvedimento in commissione potrebbe produrre elementi di novità da non sottovalutare: e comunque - questo è il concetto di fondo - è fuori da ogni logica chiedere al Presidente della Repubblica di non firmare una legge che nessuno ancora sa come sarà. Lo si può fare, naturalmente, se si prescinde dal dettato costituzionale e si ha l’unico obiettivo di snaturare il ruolo del Capo dello Stato per arruolarlo in un composito fronte antigovernativo: e sarebbe giusto questo il tentativo dei «professionisti». Professionisti però, secondo il Colle, del «parlare a vanvera»...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201006articoli/55830girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ma il Quirinale non si è mosso
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:19:40 am
18/6/2010

Ma il Quirinale non si è mosso
   
FEDERICO GEREMICCA

Qualcosa si muove. E se qualcosa si muove, paradossalmente, è perché qualcuno è rimasto cocciutamente fermo sulla propria posizione.
La chiave di lettura che il Quirinale offre come possibile spiegazione delle novità che nelle ultime 48 ore sembrano aver reso un po’ meno pesante il clima intorno alla contestata legge in materia di intercettazioni, in fondo è molto semplice.

A rimanere fermo, naturalmente, è stato il Colle: che ha sia evitato coinvolgimenti nella stesura (o nelle correzioni) del provvedimento in questione, sia respinto ogni tentativo di far intendere - a lavori parlamentari in corso - che non avrebbe firmato il testo così come licenziato da Palazzo Madama. Questa posizione ha non solo «ridato dignità al Parlamento e al lavoro di entrambe le Camere» (come annotano al Quirinale) ma anche prodotto le novità di cui si diceva all’inizio. Novità che, a stringere, possono essere ridotte a due: la disponibilità di Berlusconi a non insistere (almeno per ora) su una approvazione-lampo della legge anche alla Camera, e l’invito alla prudenza e alla disponibilità al confronto lanciato ieri da Bossi dopo un incontro con Fini.

Il leader leghista, infatti, è uscito dal colloquio con il presidente della Camera con una ferma convinzione: «Se il Colle non firma la legge, siamo fregati». E’ la conclusione cui è arrivato dopo che Fini gli ha tratteggiato il vicolo cieco che vede di fronte alla maggioranza nel caso di forzature. A cosa potrebbe portare, infatti, un ulteriore surriscaldamento del clima? A un devastante braccio di ferro in Parlamento, con due possibili conseguenze. La prima: una prova di forza inutile, considerato che il Quirinale potrebbe davvero non controfirmare il testo, se non modificato (per esempio nelle direzioni indicate ieri da Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera); la seconda: un ulteriore e rapidissimo peggioramento del clima politico, che potrebbe forse mettere in discussione la stessa sopravvivenza del governo, e certamente seppellire ogni ipotesi di riforma condivisa.

Si tratta di argomenti che hanno preoccupato e fatto breccia nelle convinzioni di Bossi, che ora afferma: «Bisogna dare un’accelerazione per trovare una via d’uscita». E gli stessi argomenti, in fondo, devono aver fatto venire qualche dubbio anche al premier. Per una lunga fase, infatti, Silvio Berlusconi ha coltivato (e non è detto non coltivi ancora...) la tentazione di andare allo showdown con l’opposizione e la parte recalcitrante della sua maggioranza, ponendo tutti di fronte a un bivio: o si approva la legge così com’è o si fila dritti alle elezioni anticipate. I dubbi devono esser cresciuti quando gli è stato spiegato che, in caso di crisi, l’approdo al voto sarebbe tutt’altro che scontato...

Chi glielo ha spiegato? Va detto, intanto, che il premier ha ormai sufficiente esperienza politica per aver chiaro che andare a elezioni anticipate non è proprio cosa semplicissima; ma molto, in questo senso, devono aver pesato anche le ambasciate e i consigli di Gianni Letta. È vero che è un po’ di tempo che l’uomo di raccordo tra Palazzo Chigi e il Colle non sale al Quirinale per colloqui ufficiali col Capo dello Stato: ma non perde nessuna occasione per sondare gli umori di Giorgio Napolitano.

E’ andata così anche un paio di giorni fa, quando Letta e il Presidente si sono incontrati alla presentazione dei diari di Croce, alla Laterza. Il colloquio non è stato lunghissimo, ma è bastato a far capire al sottosegretario alla presidenza che dal Quirinale non sarebbero arrivati ostacoli pregiudiziali alla legge ma nemmeno sconti di alcun genere: un modo per dire «non fate affidamento su una mia firma se il testo non verrà modificato nei suoi aspetti più discutibili». Quali siano questi aspetti, ieri lo ha fatto intendere bene Giulia Bongiorno, che ha proposto correzioni al testo nient’affatto marginali. Insomma, come si ipotizzava, alla Camera è cominciata un’altra partita, assai diversa da quella giocata al Senato. Come finirà? E’ presto per dirlo. Tanto presto che forse se ne riparlerà tra settembre e ottobre...

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7488&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - "Il miliardario vada a casa"
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2010, 08:03:22 am
20/6/2010

"Il miliardario vada a casa"

E Bersani già vede le urne
   
FEDERICO GEREMICCA

Lo chiama «il miliardario». Gli dice che è in caduta libera e che racconta balle. Ironizza pesantemente su Tremonti e sulla Lega. Infine avvisa l’avversario: «Attenti, siamo un partito di governo provvisoriamente all’opposizione». È la prima notizia, allora (la seconda è senz’altro l’irrompere di queste maledette vuvuzelas perfino nei raduni di partito).

La prima notizia - dicevamo - è che Pier Luigi Bersani comincia forse a sentire un po’ di vento nelle vele. Sarà magari più per demerito del «miliardario» che per merito suo, ma fatto sta che quello che si è presentato al «popolo del Pd» radunato nel Palasport di Roma, è stato un Bersani pimpante e ottimista come da tempo non si sentiva.

Sarà pure vero, naturalmente, che tempi e sceneggiatura della manifestazione anti-manovra hanno risentito di evidenti influssi veltroniani (parla il professore, l’attore, c’è il filmato, poi il sacerdote...); e mettiamoci pure che un Bersani così irresistibilmente «antiberlusconiano» non lo immaginava più nessuno (lui che chiarì che «il più antiberlusconiano non è chi grida, ma chi lo manda a casa»), ecco, mettiamoci pure questo: la sostanza, però, non cambia. E la sostanza è che, dopo che Enrico Letta ha evocato il Vietnam, ora è il segretario a metterla giù veramente dura. E quasi presagisse lo scontro all’orizzonte, avverte che sta arrivando il tempo di schierarsi. Chiama in causa imprenditori, commentatori, la «classe dirigente» del Paese. E il monito è duro: «Di fronte a quel che sta accadendo - fa sapere - berlusconismo e conformismo hanno uguali responsabilità».

Dicono che Pier Luigi Bersani si stia convincendo del fatto che le elezioni potrebbero non essere poi così lontane; che quel «provvisoriamente all’opposizione», insomma, sia sempre più provvisorio. Qualche giorno fa, l’ha perfino fatto intendere. Il malessere sociale che cresce, man mano che la manovra diventa più chiara; le inchieste giudiziarie sulla «cricca» che (dopo Scajola) potrebbero costare il posto ad altri ministri o sottosegretari; e poi, naturalmente, la guerriglia che si è scatenata nel partito di maggioranza. Troppe cose segnalano che la situazione potrebbe finire fuori controllo. E precipitare.

Il fatto che i toni di Bersani crescano, allora, si può forse spiegare così. Applaudito da una platea da combattimento, preannuncia al partito una lunga campagna da condurre fino all’autunno, e chiede ai democratici di tornare tra le gente. Ma soprattutto mette nel mirino (a volte attaccandolo, altre blandendolo) il partito che forse considera - allo stesso tempo - oggi l’«anello debole» del patto di governo e domani - chissà - perfino un possibile, potenziale, alleato. La Lega.

Raffiche di critiche alternate ad ironie. Una sorta di filo conduttore (un tempo si sarebbe detto una linea), perché anche Chiamparino ed Errani avevano puntato l’indice contro la Lega. Criticando la manovra e i tagli di Tremonti («Nel ministero di via XX Settembre c’è perfino un supermarket: bell’esempio di equità...»), il presidente dell’Anci aveva accusato: «La prepotenza centralistica può anche vincere: ma a perdere non saranno i sindaci, sarà il Paese». E il governatore dell’Emilia Romagna aveva provocato: «Il grosso dei tagli lo fanno fare a noi: complimenti signori della Lega, ecco il federalismo. Ma a parte un nuovo ministro, c’è rimasto qualche federalista nel governo?».

Sventolii e ovazioni dalla platea, per questo Pd tutto all’attacco. E il più duro è stato proprio Pier Luigi Bersani. Che prima ha cominciando scherzando: «Con Va’, pensiero e tifando Paraguay, non si mangia...»), poi ha messo il dito in dolorose contraddizioni: «Questa Lega - ha accusato - è dura sugli inni e sul calcio ma poi sulle leggi diventa mollacciona. Sulla legge speciale per la Protezione civile, per esempio: che non è stata fatta da Roma ladrona ma da quattro ladroni. E c’è una bella differenza...».

Nella sostanza, quel che l’adunata romana del Pd sembra aver mostrato, è prima di tutto una sorta di cambio d’umore. Non è solo che i due attuali e principali terreni di scontro (i tagli della manovra e i tagli alle intercettazioni) siano considerati evidentemente favorevoli all’opposizione, è più in generale il fatto che il Pd - o almeno Bersani - veda moltiplicarsi le difficoltà di Berlusconi. «Erano tutte balle», dice Bersani annotando la ricomparsa della «monnezza» a Napoli e descrivendo la parabola della «favola dell’Aquila», finita in un pozzo nero fatto di tangenti, cricche e massaggi... Del resto, a dare ottimismo al Pd, non ci sono solo le difficoltà in cui è precipitata la maggioranza, c’è la statistica: in epoca di Seconda Repubblica - dal 1994 in poi - non è mai accaduto che il governo uscente venisse premiato dalle urne. Ed è alle urne - sperando che non tradiscano la statistica - che Bersani comincia a guardare. Per farla finita, magari, con quel «provvisoriamente»...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il senatùr ora rischia tutto
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2010, 08:59:50 am
24/6/2010

Il senatùr ora rischia tutto
   
FEDERICO GEREMICCA

Non è che Napolitano abbia alzato la cornetta per chiamare il senatùr e dirgli «senta, senza le scuse alla nazionale italiana il nostro incontro rischia di farsi difficile»...

Però, con i modi discreti che contraddistinguono da sempre l’istituzione, il Quirinale ieri ha fatto in modo che Umberto Bossi capisse che sarebbe certo stato ricevuto volentieri dal capo dello Stato: ma che lo sarebbe stato ancor più volentieri dopo le scuse alla squadra di Lippi, accusata di voler «comprare» la partita di oggi con la Slovacchia. Le scuse - come era a questo punto inevitabile - sono arrivate poco dopo l’ora di pranzo, e la pagina è stata voltata. Del resto, meglio far retromarcia prima, piuttosto che dopo l’incontro: perché se c’è una cosa che si può dar per certa, è che Giorgio Napolitano - gran sostenitore dell’Italia, presente alla finale di Berlino nel 2006 e «portafortuna» degli azzurri - quelle scuse le avrebbe comunque fortemente sollecitate.

Non è stata questa faccenda, dunque, il cuore dell’incontro che il capo dello Stato ha avuto ieri pomeriggio con i ministri Bossi e Calderoli. Due, infatti, erano i problemi che Umberto Bossi voleva affrontare con Giorgio Napolitano (il colloquio ha avuto luogo su richiesta del leader leghista). La prima: assicurare anche al Presidente che il capitolo riforme - e in particolare il federalismo - resta competenza unica e assoluta della Lega in generale e di Bossi in particolare, nonostante alcune discusse nomine di nuovi ministri; la seconda: che il Carroccio è sempre più preoccupato per il crescere delle tensioni politiche, avendo il timore che a «rimetterci le penne» possa essere proprio il faticosamente avviato processo federalista. E allora: che pensa di quest’ultima questione il Presidente della Repubblica? E che consigli ha da dare?

E’ un Bossi così, insomma, quello che ieri si è accomodato di fronte a Giorgio Napolitano: un leader che, al di là delle «sparate» e della professione di ottimismo, non ha nascosto né preoccupazione né irritazione. L’irritazione è legata soprattutto alla vicenda della nomina a ministro per il Federalismo di Aldo Brancher (da sempre uomo di raccordo tra il premier e la Lega), un vero «giallo» di cui sono ancora incerti i vari passaggi, mentre è sicurissimo il nome del «danneggiato finale», Bossi appunto.

I ben informati sostengono che, nell’idea di Berlusconi, Brancher avrebbe dovuto occupare il ministero lasciato da Scajola (con una redistribuzione delle deleghe tra Brancher stesso e Romani, sottosegretario): bloccata questa scelta per dissidi all’interno della stessa maggioranza, Berlusconi ha fatto retromarcia, nominando Brancher ministro per il federalismo (addirittura convinto che la scelta sarebbe stata apprezzata dalla Lega). Ne è nato un piccolo pandemonio: che oltre all’irritazione di Bossi (che domenica scorsa ha dovuto fare i conti con lo sconcerto del «popolo leghista» radunato a Pontida) ha portato alla luce l’ambizione del Carroccio di avere un nuovo ministro («Ce ne manca sempre uno - ha spiegato il senatùr - dopo che ci hanno tolto l’Agricoltura che era di Zaia). Un problema.
In queste faccende, naturalmente, il Presidente della Repubblica si è ben guardato dall’entrare, ricordando - però - di aver soltanto raccolto la firma di un nuovo ministro senza portafoglio, e che le deleghe sono responsabilità esclusiva del presidente del Consiglio... Molto diverso, invece, l’interesse mostrato da Napolitano verso le preoccupazioni leghiste circa il deteriorarsi della situazione politica. Ai ministri del Carroccio che chiedevano una sua opinione sul da farsi, però, il capo dello Stato non ha potuto che spiegare di essersi già più volte espresso.

Inizialmente - ha ricordato - era intervenuto per sollecitare (in materia di intercettazioni telefoniche, per esempio) un confronto parlamentare che svelenisse il clima e coinvolgesse maggiormente l’opposizione. Poi, di fronte alla «voglia di accelerazione» di parte del Pdl e dello stesso presidente del Consiglio, Napolitano aveva fatto sapere che buon senso - e soprattutto gravità della situazione economica - consigliavano di non alterare un calendario di lavori che prevedeva prima l’approvazione della manovra economica e poi il prosieguo della discussione sulla legge per le intercettazioni. Certo che se poi un giorno sì e l’altro pure il premier va ripetendo che quest’ultimo provvedimento andrebbe approvato d’urgenza perché «ci sono dieci milioni di italiani spiati», beh, allora tutto diventa più difficile.
Ed è proprio questa la preoccupazione di Umberto Bossi. Preoccupazione che il capo dello Stato ha raccolto, non ignorando - e anzi dando atto - di qualche tentativo di distensione operato proprio dalla Lega. Se tali tentativi sortiranno risultati, lo si vedrà. Napolitano ci spera: Umberto Bossi, forse, ancora di più...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La pazienza di Napolitano sta finendo
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2010, 11:04:35 pm
2/7/2010 (7:9)  - INFORMAZIONE - LA LEGGE DELLE POLEMICHE

La pazienza di Napolitano sta finendo

Il Presidente: «Io inascoltato. Chiari i punti critici della legge»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Un presidente della Repubblica non può dire, a proposito dei suoi rapporti con l’esecutivo, che «adesso la misura è colma». Però può farlo intendere: lasciando anche capire che, per quanto lo riguarda, l’ora dei giochini - e perfino degli inganni - è vicina alla fine. Ed è precisamente questa la via imboccata ieri da Giorgio Napolitano. Il Presidente è stanco - a proposito della Grande Guerra sulle intercettazioni - di esser più o meno preso in giro (il presidente, naturalmente, non può dirlo così: e ricorre a un più diplomatico «non sono stato ascoltato...»). E così, l’estenuante braccio di ferro tra presidenza del Consiglio e Colle ha vissuto ieri un’altra giornata aspra: stavolta, come dicevamo, per iniziativa del Quirinale stufo di esser tirato per la giacca da Berlusconi che continua a reclamare un accordo preventivo con la presidenza della Repubblica sulla legge per le intercettazioni, pena l’”andare avanti comunque”.

Non è la prima volta che il premier fa sapere di essere in attesa dell’opinione del capo dello Stato sul testo ora in discussione alla Camera (tradotto: quali cambiamenti vanno apportati alla legge per esser certi che poi il presidente della Repubblica la firmi?). E non è la prima volta che gli viene ricordato che la richiesta è inusuale e, soprattutto, non ricevibile dal Colle. Comunque sia, ieri, ricorrendo alla pazienza residua, Giorgio Napolitano (in visita a Malta) ha ricapitolato quanto al premier è già noto da tempo. Con toni, però, di inusitata durezza. Stavolta vale la pena di riportare per intero il pensiero del presidente proprio per apprezzarne la perentorietà: «I punti critici della legge approvata dal Senato risultano chiaramente dal dibattito in corso, dal dibattito già svoltosi in Commissione giustizia alla Camera, nonché da molti commenti di studiosi, sia costituzionalisti sia esperti in materia. Ovviamente - ha chiarito Napolitano - quei punti critici sono gli stessi a cui si riferiscono le preoccupazioni della presidenza della Repubblica: e ciò non si è mancato di sottolinearlo anche nei rapporti con esponenti della maggioranza e del governo. Ma non spetta a noi indicare soluzioni da adottare o modifiche da approvare».

Ragionamento non nuovo - come detto - e, comunque, chiarissimo. E affinché non restassero incertezze (più o meno interessate...) ecco la conclusione, non certo rassicurante per l’esecutivo: «Valuteremo obiettivamente se verranno apportate modifiche adeguate alle problematicità e alle criticità di quei punti che sono stati già messi in così grande evidenza. E ci riserveremo una valutazione finale nell’ambito delle nostre prerogative». Il messaggio, dunque, è inequivoco. Primo: inutile insistere nel cercare accordi preventivi col Quirinale sul testo in discussione, perché non è quello del “coautore” di leggi il ruolo riservato dalla Costituzione al capo dello Stato. Secondo: quel che va cambiato nel testo, non solo è emerso dalla discussione in Commissione giustizia alla Camera e dal parere di esperti e costituzionalisti, ma è stato per tempo sottolineato dal Quirinale «nei rapporti con esponenti della maggioranza e del governo».

Terzo: la presidenza, per rispetto del Parlamento e della Costituzione, valuterà la legge alla sua approvazione, senza pregiudizi ma anche senza sconti. Poi ci sarebbe un quarto punto, che Giorgio Napolitano non può però esplicitare ma solo lasciar intendere. E il punto in sintesi è: basta con i giochetti e le prese in giro. Berlusconi, infatti, sa da tempo quel che va e quel che non va nella legge; cambi quel che c’è da cambiare, se vuole, oppure vada avanti: ma senza chiedere “coperture” al Colle. In più, sarebbe ora di interrompere il giochino secondo il quale il governo plaude alle prese di posizione del Quirinale per poi fare tutt’altro. Uno degli ultimi casi - che ha molto infastidito il Colle - è stata la calendarizzazione della legge sulle intercettazioni per fine luglio, dopo che Napolitano aveva suggerito di lasciar campo - prima di tutto - ad una approfondita discussione sulla manovra economica: «Anche senza essere monsignor de Lapalisse è evidente che quel consiglio non è stato ascoltato, nel momento in cui sono state prese determinate decisioni a maggioranza nella conferenza dei capigruppo...».

Questo è quanto ha riservato la giornata di ieri, almeno sul fronte rovente dei rapporti tra Quirinale e palazzo Chigi. In serata Napolitano è rientrato a Roma. E non è detto che oggi non se ne risentano delle belle...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Napolitano teme l'ingovernabilità
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 10:54:36 am
8/7/2010 (7:12)  - RETROSCENA

Napolitano teme l'ingovernabilità

Al Quirinale freddezza e interrogativi sul Cavaliere e l'unità delle sue truppe

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Il Quirinale replica, e va bene. Berlusconi si scusa, e va bene anche questo. Ma lassù, nelle stanze del Colle, la questione ha lasciato molti dubbi e più di un interrogativo.

La vicenda è nota: il Pd presenta al Senato un emendamento al cosiddetto lodo Alfano per creare - in pratica - uno scudo totale da ogni tipo di processo per il capo dello Stato; la notizia viene data da «Il Fatto» nella sua edizione di martedì; l’emendamento («Una errata valutazione politica di cui non ero a conoscenza», ha chiarito Anna Finocchiaro) viene subito ritirato; ma «Il Giornale» - ieri - ci è tornato su a modo suo, con un grande titolo in prima pagina e un interrogativo mica da niente: «Vogliono sottrarlo alla legge. Ma che ha combinato Napolitano?».

La replica del Quirinale - a questo punto inevitabile - ieri è arrivata di prima mattina. I toni sono fermi. Si ripete che il Colle «resta sempre rigorosamente estraneo» alle discussioni che le Camere hanno su questa o quella legge; si chiarisce che «il presidente della Repubblica non ha nessun motivo, né personale né istituzionale, per sollecitare innovazioni alla normativa vigente sulle prerogative del Capo dello Stato»; si polemizza duramente con «Il Giornale» «per un sensazionalistico titolo e articolo di prima pagina, destituiti di qualsiasi fondamento, la cui natura ridicolmente ma provocatoriamente calunniosa nei confronti del presidente della Repubblica non può essere dissimulata da qualche accorgimento ipocrita: la Presidenza non può non rilevarne la gravità».

Eppure, chiarito quel che c’era da chiarire - e respinte al mittente le «calunnie» de «Il Giornale» - lì al Colle è rimasto sospeso un inquietante interrogativo: perché mai l’attacco a Napolitano proprio nel giorno in cui Berlusconi torna dopo tempo al Quirinale (era in programma una riunione del Consiglio supremo di Difesa) per un possibile colloquio chiarificatore - in materia di intercettazioni e non solo - col capo dello Stato? Era stato lo stesso premier ad annunciare ai suoi l’intenzione di approfittare dell’occasione per un faccia a faccia (che ovviamente non c’è stato) con Napolitano: e allora perché quelle «calunnie» sulla prima pagina del giornale di famiglia?

Il premier è arrivato al Quirinale con un po’ di ritardo, e naturalmente si è subito scusato col presidente: «Non ne sapevo niente e non c’entro davvero nulla. Non so davvero più cosa fare col Giornale. Dovrei liberarmene... Sì, dovrei liberarmene». Giorgio Napolitano non ha praticamente proferito parola: si è accomodato al tavolo del Consiglio supremo di Difesa e ha dato il via alla riunione. Ma proprio il tipo di scuse del premier e l’occasione particolare scelta da «Il Giornale» per l’uscita contro il Colle, hanno fatto crescere ulteriormente i dubbi e gli interrogativi tra i collaboratori del Presidente.

«Considerato che un colloquio col Capo dello Stato era nelle speranze del premier e che sarebbe stato importante soprattutto per lui - ci si è chiesto - che senso ha e come spiegare l’iniziativa di Feltri?». Perché va bene l’esistenza - nota - di «falchi» e «colombe» nell’entourage del premier; va bene anche la forte tensione tra i due Palazzi: ma è possibile che, oltre a quella sorta di «liberi tutti» che agita il Pdl, Silvio Berlusconi non governi più nemmeno il giornale di famiglia?

Gli interrogativi, valutati dal punto di osservazione del Colle, sono tutt’altro che irrilevanti: infatti, da quando Fini ha messo le sue carte in tavola - terremotando il partito del predellino e di conseguenza l’attività dell’esecutivo - la preoccupazione maggiore del Capo dello Stato è diventata la capacità di governo e, più complessivamente, la tenuta della maggioranza. In una parola, si potrebbe dire la «governabilita»: valore considerato assoluto in una fase di difficoltà economica e di crescenti tensioni sociali. Quanto è ancora forte, allora, la tenuta del premier rispetto alla sua maggioranza? E ancora: escludendo che Berlusconi fosse a conoscenza dell’uscita de «Il Giornale» (stavolta il premier davvero non aveva alcun interesse a nuove polemiche) non è forse un segnale allarmante il fatto che il quotidiano di famiglia gli metta i bastoni tra le ruote mentre tenta un qualche riavvicinamento col Capo dello Stato?

I maggiori timori del Colle riguardano, insomma, la tenuta della maggioranza e il suo visibile sfilacciamento. Se la verità fosse che nella Grande Guerra apertasi nel Popolo della Libertà «falchi» e «colombe» combattono scambiandosi ormai colpi di ogni genere, fino ad utilizzare il giornale della famiglia Berlusconi per imporre le rispettive posizioni, questo sarebbe un pessimo segnale: capace di dare la misura del punto cui è giunta la situazione. È questa, al di là delle polemiche pur aspre che spesso contrappongono Quirinale e Palazzo Chigi, la preoccupazione crescente del Presidente: una crisi per implosione della maggioranza, un tracollo del governo in ragione dell’impossibilità del premier di tenere unita la sua coalizione. Certo, è un’ipotesi che ancora due o tre mesi fa sarebbe apparsa fantascienza. Ma in politica, si sa, il tempo a volte corre veloce...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'opposizione e il rebus dell'alternativa
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2010, 04:24:55 pm
19/7/2010

L'opposizione e il rebus dell'alternativa
   
FEDERICO GEREMICCA


Da un paio di mesi almeno, i riflettori dell’informazione politica, le analisi dei commentatori e perfino l’attenzione delle Cancellerie sono puntati - con preoccupazione crescente - sulle vicende che scuotono la maggioranza di governo. Del resto, non potrebbe essere altrimenti: con il Pdl che pare ogni giorno di più a un passo dall’implosione, le inchieste giudiziarie che investono perfino gli uomini più vicini al premier (Bertolaso e Verdini) e le dimissioni di tre esponenti del governo (Scajola, Brancher e Cosentino) in poco più di due mesi, di materia - da analizzare o da raccontare - ce ne è ben oltre la sufficienza.

Una delle inevitabili conseguenze di questa attenzione forzatamente «a senso unico», è stata il perder un po’ di vista quanto accadeva nel fronte delle opposizioni, le cui strategie - però - tornano oggi in primissimo piano in ragione del possibile precipitare della crisi politica in crisi di governo. E però, riaccendendo le luci nel campo delle forze sconfitte alle ultime elezioni, si scopre che molti dei nodi che erano stati lasciati mesi fa come irrisolti, sono ancora lì in attesa di una soluzione.

E la miglior cartina di tornasole per valutare quanto profondi siano ancora i problemi aperti, è forse l’atteggiamento che Pd, Udc e Italia dei valori hanno assunto - o vanno assumendo - di fronte all’ipotesi di una improvvisa crisi di governo.

Non si sono infatti sentite due proposte coincidenti. Si è andati (e si va) da «elezioni subito» a governo tecnico, passando per un esecutivo a tempo che riformi almeno la legge elettorale, per un governo di larghe intese presieduto da Berlusconi, per un altro che non sia invece guidato dall’attuale premier ma magari da Tremonti o dal «tecnico» di turno che assicuri la transizione fino all’inevitabile ritorno alle urne. A parziale giustificazione di un tale stato di incertezza - quando non di confusione - c’è certamente il fatto che, a partire dallo «smarcamento» di Gianfranco Fini, la crisi politica del centrodestra ha assunto una velocità difficilmente prevedibile: nel giro di due o tre mesi, infatti, si è passati da un governo che sembrava granitico a un esecutivo che appare boccheggiante ogni giorno di più.

Ma la sorpresa di fronte al rapidissimo declinare del governo, è un elemento che spiega (e giustifica) solo parzialmente le difficoltà che segnano il campo dell’opposizione. Dietro il vasto campionario di ipotesi per il dopo-Berlusconi, si celano - infatti - divergenze del tutto irrisolte e che non è azzardato definire strategiche. Esse riguardano, fondamentalmente, il tipo di assetto da dare al sistema politico (mitigare e razionalizzare l’attuale bipolarismo oppure no?), le alleanze da privilegiare e perfino il leader da mettere in campo in una nuova, eventuale contesa contro Silvio Berlusconi.

E’ da qui che nascono differenze altrimenti non comprensibili. E’ la questione delle alleanze future, probabilmente, che spiega l’evidente scarto tra le posizioni di due leader come D’Alema e Casini che pure sono assieme all’opposizione: il primo, per un governo tecnico che non sia guidato dal premier in carica; e il secondo (su una linea più soft, che punta a non perder ogni contatto con il centrodestra) che considera questa ipotesi velleitaria e che suggerisce un nuovo esecutivo di salute pubblica guidato da Berlusconi. E deve essere la grande varietà di strategie in campo (con tutti i rischi annessi) ad aver spinto ieri un leader certo non sprovveduto come Nichi Vendola a rompere gli indugi sul tema del futuro candidato-premier: «No a governi tecnici e no a larghe intese: le primarie non sono una minaccia per il Pd e io mi candido per sparigliare i giochi».

Non sarà facile - non lo sarà soprattutto per il Presidente della Repubblica - fare ordine e trovare una possibile soluzione di governo nel caso la crisi politica costringesse davvero Silvio Berlusconi alle dimissioni. Ma non sarà facile trovare il bandolo della matassa nemmeno per Pierluigi Bersani, sul quale pesa la responsabilità della guida del maggior partito di opposizione. Uno degli slogan con i quali ha vinto il congresso del Pd diventandone il segretario fu «dall’opposizione all’alternativa». Queste settimane concitate sembrano dimostrare che il passaggio non è ancora compiuto, e che un’alternativa di governo coesa e credibile è ancora di là da venire. Nulla è perduto e nulla è compromesso, naturalmente: ma il tempo forse stringe. Perché nulla sarebbe più paradossale che trovare l’opposizione impreparata di fronte a quelle dimissioni che reclama a gran voce un giorno sì e l’altro anche.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Intercettazioni, il Colle è pessimista
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2010, 10:25:54 am
20/7/2010 (7:32)  - RETROSCENA

Intercettazioni, il Colle è pessimista

Il Presidente rimane sereno nonostante non siano arrivate aperture sulle criticità già espresse sul diritto di cronaca

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Se non si trattasse del presidente della Repubblica - poco avvezzo allo scontro ed ai toni alti, prima di tutto per dettato costituzionale e poi per inclinazione personale - potremmo dire: Giorgio Napolitano infila l’elmetto e si prepara.

L’immagine, seppur forzata, renderebbe bene l’idea della difficile settimana (l’ennesima...) che pare attendere il Quirinale. La spina delle spine resta il disegno di legge sulle intercettazioni. Oggi, infatti, la Commissione giustizia della Camera inizia l’esame e il voto dei molti emendamenti presentati: e dalle scelte che verranno fatte, il Colle potrà capire se e quali risultati avrà prodotto la moral suasion esercitata nelle settimane passate.

Al momento, in verità, sarebbe azzardato dire che al Quirinale regni l’ottimismo. Uno degli ultimi contatti tra la presidenza della Repubblica e l’esecutivo - nelle persone del segretario generale del Quirinale e del ministro di Grazia e Giustizia - non ha fatto registrare (la settimana scorsa) novità incoraggianti. Nessuna apertura, in particolare, sarebbe arrivata su una delle «criticità» segnalate per tempo dal dibattito parlamentare, da costituzionalisti e da addetti al settore: e cioè il fatto che il disegno di legge limiti pesantemente e in maniera non accettabile il diritto di cronaca.

È un tema delicatissimo per molti aspetti. É questo, infatti, il terreno sul quale va trovato il giusto equilibrio tra il diritto alla privacy e il diritto dei cittadini ad essere informati. Un emendamento al disegno di legge presentato dalla stessa presidente Bongiorno (più alcuni sub-emendamenti delle opposizioni) potrebbe permettere di giungere ad un testo più equilibrato: il punto è vedere se la maggioranza lo accetterà, decidendo di percorrere una via che sgombrerebbe il campo da molte tensioni, rendendo probabilmente più agevole l’approvazione del ddl. Si capirà oggi qual è la scelta che farà il governo. Quel che è certo è che l’esecutivo sa - e da tempo - che il presidente della Repubblica ritiene che su questo punto occorra intervenire, così come segnalato da più parti, dentro e fuori il Parlamento. Non modificare la norma in questione - che secondo molti presenterebbe evidenti profili di incostituzionalità - potrebbe insomma portare alla mancata firma della legge da parte del capo dello Stato.

L’aria che si respira al Colle, dicevamo, non pare improntata a particolare ottimismo. Il clima, però, è di grande serenità: la serenità - in fondo - di chi ha per tempo e con chiarezza raccolto e segnalato le «criticità» emerse nelle ultime settimane, suggerendo di intervenire per rimuoverle. Tocca ora al governo decidere la via da imboccare: assumendone - naturalmente - l’esclusiva responsabilità.

Ed è stato proprio questo terreno - quello della responsabilità delle scelte - il campo sul quale per settimane (soprattutto le ultime) si è combattuta una aspra anche se silente battaglia. In ogni modo, infatti - con dichiarazioni del premier ed esplicite richieste di qualche ministro - il governo ha provato ad ottenere dal Quirinale quasi un elenco delle modifiche da apportare al testo, concordando con il Colle le soluzioni possibili. A queste richieste Napolitano si è sottratto da subito - senza comunque riuscire ad arrestare del tutto il pressing - richiamando il ruolo assegnatogli dalla Costituzione e i diversi ambiti di responsabilità.

Inoltre, considerato il clima non proprio sereno all’interno della maggioranza di governo, al Colle si è avuta spesso la sgradevole sensazione che una eventuale intesa del governo con la presidenza venisse inseguita per esser poi giocata dentro il Pdl contro il presidente della Camera, Fini, ed i suoi seguaci. Un pasticcio, insomma, che ha reso il terreno ancor più scivoloso e la ricerca di un accordo assai più complicata. Ma trucchi, giochini e mosse tattiche hanno ormai le ore contate. Come si dice in questi casi, è giunta l’ora della verità e delle scelte. Al Quirinale attendono solo di conoscerle. Per poi regolarsi di conseguenza...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56869girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - De Mita: Cossiga un grande, però alla fine dal Colle ...
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2010, 03:18:12 pm
19/8/2010 (7:9)  - INTERVISTA

"Il mio patto segreto con Natta Ma poi Francesco mi deluse"

De Mita: Cossiga un grande, però alla fine dal Colle consumò solo vendette

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Di Cossiga bisognerebbe conoscere e raccontare l’intero percorso politico, non solo gli ultimi due anni al Quirinale. Invece è stata creata una figura quasi mitologica, completamente alterata». E infatti, se potesse, Ciriaco De Mita li tirerebbe via con un colpo di spugna, quegli ultimi due anni: non solo perché li considera i peggiori, ma anche in ragione dei tanti rimproveri che dovette subire in quei quasi 24 mesi. «Bel colpo aver mandato questo matto al Quirinale», gli dicevano mentre le picconate del Presidente sgretolavano la Dc.

E non avevano tutti i torti ad avercela con lui, visto che fu appunto De Mita - a quel tempo potentissimo segretario Dc - il gran regista dell’ascesa di Cossiga al Colle: unico Presidente della storia repubblicana eletto al primo scrutinio. È anche per questo (oltre che per la storica rivalità che ha sempre diviso tutti i grandi capi democristiani) che oggi parla con qualche difficoltà dell’«amico Francesco»: quegli ultimi due anni al Quirinale, infatti, hanno rischiato di cancellare per sempre oltre mezzo secolo di impegno comune. Ma è una testimonianza, quella di De Mita, che (anche se non autorizzata) vale la pena di riportare.

Cossiga dunque la deluse, Presidente?
«La delusione non è una categoria della politica. Così come il pentimento. Il pentirsi delle cose avvenute, è inutile: ha senso pentirsi se puoi in qualche modo correggere quel che hai fatto».

E l’elezione di Cossiga non la si poteva correggere.
«Per rispetto della verità e di Francesco stesso, bisognerebbe parlare di lui senza ipocrisie. Io lo conobbi nel 1954 e posso dire di lui che è stato un cattolico e un democristiano perbene, colto, moderno, attento alle novità. Una figura che resterà per sempre nella storia della Democrazia cristiana e del Paese».

Quegli ultimi due anni, però...
«Quegli ultimi due anni li passò, purtroppo, a consumare vendette. Essendosi fatto l’idea che il popolo lo seguisse nelle sue esternazioni, si lasciò andare. E diventò di una cattiveria a volte insopportabile. Ogni giorno ne aveva per qualcuno. Pensi che una volta mi incontrò e mi disse “Certo non dormirai la notte per quel che hai fatto in Irpinia col terremoto...”. Sono passati vent’anni ma ancora me lo ricordo».

Eppure, dicevamo, fu lei a costruirne l’elezione, no?
«In verità il mio candidato era Andreotti. Ma i comunisti mi dissero no, e poiché il cosiddetto “metodo De Mita” prevedeva un’intesa larghissima sul nome del nuovo presidente, rinunciai».

E puntò su Cossiga.
«Spadolini mi disse che a Craxi stava bene. E quando ne parlai a Natta, allora segretario Pci, mi disse che si poteva tentare. Ma ad una condizione: che tenessi segreto il nostro accordo. Cosa che fece anche lui, naturalmente: non si fidava, e temeva problemi nel partito. Pensi che fino all’ultimo tenne all’oscuro del patto anche Chiaromonte e Napolitano, i capigruppo di allora, che intanto - con mio grande imbarazzo - insistevano perché prendessi contatto con Natta...».

Comunque l’operazione andò in porto. Che Presidente è stato poi Cossiga?
«Un buon Presidente, per i due terzi del suo mandato. Poi, un Presidente incommentabile».

Con il merito, però, di aver intuito in anticipo i problemi che la fine del comunismo avrebbe creato alla Dc.
«E questa è un’altra panzana, parte di quella mitologia di cui le dicevo all’inizio. Tutti noi, nell’89, sapevamo che le cose sarebbero cambiate. Alla conclusione della Festa dell’Amicizia dissi testualmente “la caduta del Muro complicherà i nostri problemi, piuttosto che risolverli”».

Dunque non fu un anticipatore?
«Per certe cose senz’altro sì. Anche lui, per dire, avvertì in tempo la necessità di riformare il nostro sistema istituzionale. E da Presidente, nella seconda metà degli Anni 80, pose apertamente il problema. Solo che non fu conseguente».

In che senso?
«Nel senso che in occasione di una delle crisi del governo Andreotti (1989-1992, ndr) fu proprio lui a chiedere che i partiti la risolvessero trovando, però, un accordo anche sulle riforme da varare. Solo che poi diede ugualmente il via libera al governo, anche se nel programma di riforme non si parlava affatto».

E perché, secondo lei?
«Non saprei. Sulle ragioni della mutazione di Cossiga nella parte finale del settennato, ne girano tante...».

Una, per dirla fuori dai denti, è il manifestarsi di una vena di ironica follia.
«Cosa alla quale non saprei se credere. Altri, per esempio, sostengono che temesse certe minacce di Bettino Craxi».

Addirittura?
«Pare per certi rapporti con Licio Gelli. Mai dimostrati».

Una leggenda.
«Che nacque, credo, alla fine degli Anni 70, all’epoca della tentata nomina di Cesare Golfari a presidente della Cassa di Risparmio delle province lombarde. Cossiga era capo del governo, e poiché c’erano resistenze sulla nomina di Golfari, qualcuno dice che gli consigliò di andare a parlarne con Gelli».

Episodio credibile?
«Non so. Ma Golfari non fu nominato e il suo nome, invece, comparve poi nella lista P2, con la quale non c’entrava niente».

Uno dei tanti misteri che hanno circondato la figura di Cossiga, insomma.
«Che Francesco stesso, nell’ultima fase, alimentò. Del resto, c’era poco da fare».

In che senso?
«Non ascoltava nessuno, ce l’aveva con noi della Dc e ci attaccava sempre, in ogni modo, a torto o a ragione. Anche a me fece passare una brutta mezz’ora...».

Perché?
«Un giorno mi chiamò dal Quirinale e mi disse che voleva nominare uno dei miei fratelli giudice della Corte Costituzionale. Io gli spiegai che non mi pareva il caso, immaginando le polemiche che si sarebbero scatenate. Allora Cossiga scelse Giuliano Vassalli, che però era ministro in carica. Io feci una nota per avanzare qualche perplessità, visto che si indeboliva la compagine di governo. Cossiga se la prese e, per tutta risposta, fece sapere che ero arrabbiato perché volevo la nomina di mio fratello! Ma ormai lasciamo stare... Meglio ricordare il resto. E cioè la storia di un grande democristiano sardo, onesto, moderno e colto. Un pezzo di Italia da non dimenticare».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57758girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Marchionne scrive al Colle "Ecco le nostre ragioni"
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2010, 03:15:19 pm
26/8/2010 (7:41)  - RETROSCENA

Marchionne scrive al Colle "Ecco le nostre ragioni"

Il numero uno del Lingotto: rispettiamo le decisioni dei magistrati

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Una telefonata di John Elkann e una lettera di Sergio Marchionne indirizzata al presidente Napolitano.

Ecco la via scelta ieri dalla Fiat per chiarire la propria posizione al Presidente della Repubblica che, in una lettera inviata martedì ai tre operai dello stabilimento di Melfi sospesi dall’azienda e reintegrati dal Tribunale di Potenza, aveva espresso «il vivissimo auspicio - che spero sia ascoltato anche dalla dirigenza della Fiat - che questo grave episodio possa esser superato, nell’attesa di una conclusiva definizione del conflitto in sede giudiziaria».

Nella lettera «personale» inviata ieri a Giorgio Napolitano, Sergio Marchionne - nella sostanza - ha ricapitolato i termini della delicata questione aperta, motivando le ragioni dell’azienda e rassicurando il Capo dello Stato circa il fatto che la Fiat non ha né intenzione né interesse al permanere di uno stato di tensione in fabbrica.

L’amministratore delegato di Fiat - che farà rientro oggi in Italia da Detroit - ha anche illustrato a Giorgio Napolitano la linea alla quale si atterrà l’azienda da qui in avanti: massimo rispetto, naturalmente, per le decisioni della magistratura, qualunque esse siano; ma anche difesa della scelta fatta con il tipo di reintegro adottato nei confronti di Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, che è nel solco della prassi solitamente seguita da ogni azienda in attesa del pronunciamento finale dei giudici.

Invece John Elkann ha parlato direttamente con Napolitano, e lo ha chiamato al Quirinale per un colloquio che si è poi rivelato cordiale e chiarificatore. Il presidente della Fiat non ha nascosto al Capo dello Stato una certa sorpresa per come giornali e tv hanno interpretato la lettera del Presidente della Repubblica: e cioè un prender parte delle ragioni dei lavoratori contro quelle dell’azienda. «Cercare e trovare soluzioni di lungo periodo di fronte alle difficoltà del momento e alle tensioni che talvolta ne derivano - ha spiegato Elkann al Capo dello Stato - è l’auspicio di tutti, Fiat in testa». Ed è appunto a questo obiettivo che l’azienda orienterà i propri comportamenti nella nuova fase apertasi.

Un chiarimento, se vogliamo dir così, lo ha fornito anche il Presidente della Repubblica: l’intenzione del Quirinale, ha spiegato Napolitano, non era certo quella di scender in campo a favore dell’una o dell’altra parte in causa (per di più mentre sulla vicenda è atteso il pronunciamento definitivo della magistratura). La questione cruciale, ha ribadito il Presidente a John Elkann, resta quella di superare non solo nel modo meno traumatico possibile il caso apertosi tra la Fiat di Melfi e i tre lavoratori, ma di farne l’occasione e il punto di partenza per il recupero di più serene relazioni sindacali. E intorno a tale esigenza, l’intesa registrata tra Quirinale e Fiat è stata assoluta.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201008articoli/57949girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: proporre alleanze che vadano da Fini alla ...
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2010, 05:50:29 pm
14/9/2010 (7:26)  - DEMOCRATICI. IL SINDACO DI FIRENZE

"I dirigenti hanno fallito Basta, vadano a casa"

Renzi: proporre alleanze che vadano da Fini alla estrema sinistra allunga la vita a Berlusconi

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Quando un paio di settimane fa Pier Luigi Bersani lanciò la proposta di un “nuovo Ulivo”, Matteo Renzi - giovane sindaco democratico di Firenze - fu quasi sprezzante: «Uno sbadiglio ci seppellirà - disse -. E’ venuta l’ora di rottamare i nostri dirigenti»... Ora che il segretario pd, chiudendo la festa di Torino, ha rilanciato la formula del “nuovo Ulivo”, Renzi - che tutto è meno che un ingenuo - non ci casca. Dice: «Un discorso perfino apprezzabile, quello di Bersani: almeno c’è stato lo sforzo di uscire dal politichese...».

E noi, signor sindaco, che immaginavamo dicesse “stavolta doppio sbadiglio”.
«Così che mi si incolli addosso per sempre la figura del Pierino che ha sempre qualcosa da ridire o - peggio ancora - dello sfasciacarrozze? E’ un giochino vecchio, troppo semplice, non mi presto».

Beh, è lei che aveva parlato di dirigenti da rottamare, per la verità...
«E ci hanno detto che siamo maleducati, che non si parla così e che critichiamo ma non proponiamo. Falso».

Cosa falso?
«Intanto, che non proponiamo nulla. Vedrete, per esempio, nell’iniziativa - praticamente autoconvocata - che terremo qui a Firenze con Civati e altri dal 5 al 7 novembre. E poi quelle obiezioni sul linguaggio... Rottamare ha offeso qualcuno e non va bene? Guardi che la stessa cosa la so dire anche in un altro modo, in politichese, appunto: molti dei nostri dirigenti sono una risorsa, sono delle “riserve della Repubblica”, come si dice. Ma intanto lascino la prima linea...».

La sostanza è la stessa.
«Certo che lo è, perchè è il problema a essere reale: intendo il ricambio dei nostri gruppi dirigenti. E non è che uno pone la questione per simpatia o antipatia: sono le mancate risposte alla crisi del Partito democratico e del centrosinistra a reclamare un rinnovamento generale».

Quindi, nessuna marcia indietro.
«Per carità. Marcia avanti, al contrario. A partire dai gruppi parlamentari: fatte tre legislature, che sono tante, si va a casa. Noi del Pd lo abbiamo scritto anche nello Statuto: e ho pronto un ordine del giorno per la prossima Assemblea nazionale così da capire se crediamo almeno in quello che abbiamo scritto nello Statuto del Partito democratico».

Continua a non esser convinto di come vanno le cose, vero?
«Continuo a pensare che più che le alleanze e le geometrie politiche contino le identità: a partire dalla nostra. Il Pd è ancora una cosa troppo vaga e indefinita, nella testa della gente. E non è che il problema si risolve - e lo dico io che non sono certo veltroniano - continuando semplicemente a demolire la piattaforma del Lingotto».

E come si risolve?
«Intanto cercando di non essere noi, con la nostra politica, l’assicurazione sulla vita per Berlusconi».

In che senso, scusi?
«Nel senso che proporre alleanze che vadano dall’estrema sinistra fino a Gianfranco Fini, rappresenta l’unica vera chanche di sopravvivenza per il premier: tutti assieme contro di lui, così da farlo rivincere per l’ennesima volta».

E invece?
«E invece andrebbe cambiata del tutto l’ottica. Basta polemizzare col premier per quello che fa: bisogna attaccarlo su quello che non fa, dal milione di posti di lavoro mai visti alla riduzione delle aliquote fiscali mai realizzata. Bersani insiste su una grande campagna porta a porta in autunno. Può anche andare, ma dovremmo avere qualcosa da dire: perchè non è che il porta a porta lo possiamo fare contro Minzolini. Alla gente di Minzolini non frega niente».

Alla gente importano le cose concrete, no? Dicono tutti così...
«Lo dico anch’io. Ma provo a esser conseguente. Pensi all’istruzione e al disastro che c’è nel Paese. Pensi allo scandalo della scuola con i simboli leghisti di Adro, una cosa che nemmeno nella Corea del nord... Dovremmo montare una rivoluzione e invece siamo quasi silenti. A Firenze - per restare alla scuola - il Comune non ha tagliato ma ha aumentato gli investimenti. E questo non riguarda solo me o Firenze, naturalmente».

Che vuol dire? Pensa al lavoro dei Chiamparino, dei Vendola e degli Zingaretti?
«Penso al fatto che sul territorio ci sono amministratori di centrosinistra che fanno, operano e provano a risolvere problemi. E se non ci riescono, vanno a casa».

Normale, no?
«Normale fino a un certo punto. Io non ho nulla di personale contro D’Alema, Bindi, Veltroni e gli altri: ma non ce l’hanno fatta. E allora lo dico, col massimo rispetto e col massimo dell’umiltà, però lo dico: adesso basta, tocca ad altri. Il loro tempo è davvero finito».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58523girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - "Deve essere il segretario a sfidare il centro-destra"
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2010, 10:22:22 am
16/9/2010 (7:33)  - INTERVISTA

"Deve essere il segretario a sfidare il centro-destra"

D'Alema: Vendola alle primarie? Ma se fu tra i problemi maggiori di Prodi...

FEDERICO GEREMICCA

Dev’essere la giornata che celebra i buoni sentimenti, questo 15 settembre. Perché Massimo D’Alema, dal suo ufficio di presidente del Copasir, ci tiene a dirlo quasi subito: «Se la preoccupazione di Walter è che qualcuno pensi che piuttosto che rafforzare il Pd si possa aggirare il problema con alchimie sulle alleanze, allora Veltroni sappia che la sua preoccupazione è anche la mia». Si dirà: quando l’uno si dichiara d’accordo con l’altro, di solito c’è qualcosa che non quadra. E in genere o si è alla vigilia di grandi rivolgimenti interni oppure la situazione è così difficile da suggerire una sospensione delle ostilità. Stavolta conviene propendere per la seconda ipotesi. L’ultima riunione del “caminetto” dei capi pd è filata via senza scontri; e le dichiarazioni rese dai leader alla fine sono tutte rasserenanti. Ma l’offerta di pace avanzata da D’Alema, ha un paio di condizioni: il rafforzamento della leadership di Bersani e uno spirito più unitario all’interno del Pd.

Scusi, presidente, e tutte le polemiche dei giorni scorsi?
«Nel nostre partito le polemiche hanno spesso una tonalità superiore a quella che dovrebbero avere. Ma nella sostanza credo la stragrande maggioranza del popolo del Pd si riconosca nelle parole e negli impegni annunciati da Bersani a Torino».

Sarà anche così, ma alcuni “giovani leoni” del Pd - da Renzi a Civati, ma non solo - continuano a chiederle di farsi da parte...
«Ma io ormai lavoro in Europa. Torno da Bruxelles, prima ero in Russia. Tra qualche giorno parto per New York, poi Manchester per il Congresso del Labour, quindi Washington e Berlino... Mi occupo dell’elaborazione della cultura politica dei progressisti. In ogni caso sono soddisfatto di come è andata la riunione del nostro Coordinamento proprio perché ha affrontato la questione di fondo che abbiamo davanti, piuttosto che polemiche inutili».

E quale sarebbe la questione di fondo?
«E’ tutta in un interrogativo. Berlusconi certo non è finito, reagirà e avremo ancora delle fasi aspre: ma perché, di fronte alla evidente crisi della destra, il Pd non riesce a crescere? Al di là delle polemiche - perché naturalmente le risposte possono essere diverse - questo è un problema. Che Bersani, però, con l’importante discorso di Torino, ha affrontato nel modo giusto».

Applaude a Bersani per smentire le voci che la vorrebbero insoddisfatto del segretario?
«Questa non l’ho mai sentita. Non riesco neppure a immaginare come possa nascere una voce del genere. Applaudo Bersani perché ha fatto un discorso rivolto al Paese e ai suoi problemi; e perché, cosa che noi sapevamo, sta venendo fuori alla distanza, con concretezza e ragionevolezza, secondo le sue caratteristiche».

Smentita, quindi, ogni freddezza verso il segretario...
«Non solo: l’appello è a rafforzare la sua leadership. Noi siamo un partito democratico, non abbiamo un padrone che si aiuta a restare in sella con molti quattrini e molte tv: ma proprio perché siamo democratici, la forza della nostra leadership è data dall’investimento che su di essa fa il gruppo dirigente. Abbiamo scelto un leader nemmeno un anno fa: indebolirlo, magari mentre si è in vista di possibili elezioni, non mi pare una mossa geniale».

Invece, c’è una piccola folla che intende sfidarlo alle primarie per la candidatura a premier: da Vendola a Chiamparino, fino a Veltroni, secondo alcuni...
«Ma perché, partecipano tutti alle primarie?».

Almeno Vendola di sicuro.
«Credo che prima occorra vedere se c’è intesa sulle basi politiche e programmatiche necessarie a stringere una alleanza non scontata. Vendola fa parte di quella sinistra che ha costituito il problema maggiore per Prodi, fin dal primo governo. Ha fatto i conti con questo? Sa che gli italiani non vogliono che quanto accaduto si ripeta?».

E se l’intesa fosse raggiunta?
«Che si candidi. Anche se trovo singolare questa agitazione autopromozionale che utilizza - per altro - le primarie: strumento di un altro partito - il Pd - verso il quale non ha mai avuto parole di apprezzamento».

E che dire, invece, dei possibili altri candidati pd?
«Che considererei la loro scelta legittima ma sbagliata».

Addirittura sbagliata?
«Un aspetto costitutivo del Pd è aver guardato ai grandi partiti riformisti europei: e i grandi partiti europei candidano il loro leader alla guida del governo. E’ un principio che abbiamo perfino inserito nel nostro Statuto».

Quindi?
«Quindi troverei ragionevole che, se vi sono dirigenti del Pd che intendono candidarsi alla guida del governo, si candidassero prima alla segreteria del partito».

Ma avete fatto un Congresso pochi mesi fa...
«Appunto. Ed è per questo che suggerisco di impegnarci prima di tutto sulla proposta da fare al Paese, piuttosto che continuare in polemiche dannose e infondate».

Pensa a qualcosa in particolare?
«Penso a certi postulati che accompagnano la polemica, del tutto legittima, sui possibili modelli di riforma elettorale. Anche qui: vorrei rassicurare Veltroni e dirgli che non è vero che pensare a sistemi diversi da un certo maggioritario significa voler “uccidere” il Pd. Non siamo nati per l’esigenza di adattarci a una nuova legge elettorale: e non saremmo messi in crisi nè da un sistema che si ispirasse a quello tedesco né dalle difficoltà - evidenti - del “partitone” di Berlusconi. Insomma, possiamo sopravvivere anche alla crisi del bipolarismo berlusconiano... Il Pd, infatti, non nasce da una legge elettorale, ma dalla convergenza politica, ideale e culturale tra le grandi tradizioni del riformismo e del progressismo italiano. Queste sono le basi del partito che stiamo costruendo».

Perché tiene a questa rassicurazione?
«Perché è caricaturale la divisione tra chi vorrebbe un Pd forte e chi lo vorrebbe debole ma con più alleati. Se questa fosse la discussione, io starei di certo con i primi».

Non avete molto tempo per mettervi d’accordo
«Vedremo se e quando si faranno le elezioni. Ma la cosa peggiore, cone ha denunciato Bersani, sarebbe un governicchio che tirasse a campare. Continuiamo a essere un Paese strano, dove si taroccano le cifre economiche per nascondere la crisi; dove se un deputato passa dalla maggioranza all’opposizione è un golpe, mentre è tutto normale se accade il contrario; un Paese nel quale il ministro dell’Economia fa una impegnata intervista per dire che entro l’anno bisogna approntare un piano economico che ci porti al 2020, e vorrei sapere di questo piano dove si sta discutendo. Qui l’unico piano che interessa a Berlusconi è come aggirare la sentenza Mills. Lo so che è da inizio legislatura che va così. Ma che vuole, non mi ci sono ancora abituato...».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201009articoli/58584girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bipolarismo malato
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:22:41 pm
17/9/2010

Bipolarismo malato

FEDERICO GEREMICCA

Gli ultimissimi sondaggi elettorali - sostanzialmente univoci nel loro responso - consolidano e confermano un dato difficilmente contestabile.

La crisi di consenso dei partiti maggiori non solo continua, ma sembra subire addirittura una accelerazione. Le cifre, nella loro crudezza, parlano chiaro. Se si tornasse oggi alle urne, Pd e Pdl assieme assommerebbero a poco più del 55 per cento dei consensi. Appena due anni fa, alle elezioni politiche del 2008, erano riusciti a superare la soglia del 70 per cento (70,6).

E’ evidente che un calo di quasi 15 punti percentuali in poco meno di 30 mesi, è difficilmente considerabile fisiologico: se non altro perché, a differenza di quel che si potrebbe normalmente supporre, della flessione dell’uno non si avvantaggia affatto l’altro. La crisi di consensi, infatti, è parallela e contemporanea: e si può anzi ipotizzare che essa sia in qualche modo perfino contenuta dal sistema elettorale vigente, visto che alle elezioni europee del 2009 (sistema elettorale proporzionale) Pd e Pdl già andarono ben al di sotto (quasi 10 punti percentuali) dei consensi ottenuti alle politiche di appena un anno prima.

Il dato è lì, e pare meritevole di analisi magari un po’ più sganciate dal contingente. Considerate le dimensioni della crisi, infatti, spiegazioni che risolvono il tutto richiamando l’effetto-delusione sugli elettori di pur evidenti conflitti personali (l’eterno duello D’Alema-Veltroni da una parte o la più recente frattura tra Berlusconi e Fini, dall’altra) cominciano a rivelarsi parziali e forse insufficienti. Del resto, il fatto che i sondaggi segnalino la contemporanea crescita di quasi tutti i partiti “minori” (dall’Idv alla Lega fino all’ipotetico “terzo polo”) aggiunge al quadro un dato impossibile da ignorare. E’ dunque già finita - e perché - la capacità di attrazione, sul modello europeo, di un sistema fondato su due grandi partiti che si confrontano e magari si alternano alla guida del Paese?

Mettiamo assieme alcuni fatti. I cosiddetti parlamentari teodem che lasciano il Pd, preferendo la più piccola Udc; Francesco Rutelli che abbandona il partito che ha co-fondato con Piero Fassino; Veltroni che lancia un suo movimento, anche se per il momento all’interno del Pd; Gianfranco Fini che abbandona la “casa madre” del Pdl; lo stesso Pdl che si frantuma in Sicilia (la regione del famoso 60 a 0...) e attraversa difficoltà evidenti tanto al Sud (eroso dagli uomini di Fini) quanto al Nord (accerchiato dai leghisti di Bossi)... Ce n’è forse a sufficienza per dire che i «partitoni»-calamita attraggono sempre meno, e che la forza che sprigionano pare trasformarsi sempre più da centripeta in centrifuga.

La questione, in fondo, sarebbe provare a capire se tra le due crisi esiste un rapporto diretto - cioè se l’una influenza l’altra, e perché - o se le difficoltà in cui si trovano Pdl e Pd hanno origini autonome e diverse. Fu abbastanza evidente - e del resto fu ammesso dallo stesso Berlusconi - il fatto che l’«invenzione» del Popolo della Libertà fu una conseguenza praticamente diretta e una risposta alla nascita del Partito democratico. Esiste lo stesso rapporto - oggi - tra la crisi dell’uno e le difficoltà dell’altro?

E’ fuori di dubbio che il bipolarismo sia considerato dai cittadini-elettori un dato ormai acquisito. Decine di sondaggi, però, informano che è un bipolarismo che piace - e che funziona - soprattutto a livello locale (e lo dimostra, a parte la stabilità delle giunte, l’alta popolarità di cui godono sindaci, governatori e - talvolta - perfino presidenti di Provincia). Assai più discussi, invece, sono gli effetti a Roma (ed i risultati) del cosiddetto bipolarismo all’italiana: un sistema che ha ormai trasformato il confronto politico in un perenne muro contro muro, in uno scontro continuo nel quale perfino alle parti «terze» (dal Quirinale agli organi di garanzia, fino alla Corte Costituzionale) è spesso chiesto di schierarsi dalla parte del vincitore in nome di una presunta ma proclamata «Costituzione materiale».

Difficile dire se Pd e Pdl stiano pagando appunto questo - e cioè un bipolarismo trasformato in una sorta di insopportabile camicia di forza - oppure se, cacciata dalla porta, stia rientrando dalla finestra la storica predisposizione italiana al particolarismo e alla frammentazione (sentimenti che avevano nel sistema proporzionale lo strumento per realizzarsi). Che sia una la causa oppure l’altra (o ancora una terza o una quarta...) sarebbe però opportuno cominciare a rifletterci. Molti, infatti, affermano che la situazione è ormai a livello di guardia, e che la Seconda Repubblica dovrebbe presto cedere il posto alla terza. Nessuno, però, o quasi nessuno, indica soluzioni e vie da seguire. Si litiga sul «porcellum» e sul sistema tedesco, ci si chiede se è meglio tornare al Mattarellum o provare il doppio turno alla francese. Ci si azzuffa e non si sceglie. Intanto la disaffezione verso la politica cresce, e l’astensionismo tocca punte mai raggiunte prima...

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7843&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Mezz'ora di colloquio, ma il Capo dello Stato resta freddo
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2010, 12:09:26 pm
2/10/2010 (7:25)  - RETROSCENA

Tra Cavaliere e Napolitano scetticismo reciproco

Incontro di routine tra Berlusconi e Napolitano

Mezz'ora di colloquio, ma il Capo dello Stato resta freddo

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Una mezzoretta, non di più. Ma mezz’ora, a volte, è meglio di niente: meglio, per esempio, del niente al quale si erano ridotti i rapporti e gli incontri tra il Presidente della Repubblica e il capo del governo.

Silvio Berlusconi è dunque salito ieri al Quirinale - che lo attendeva da settimane, in verità - per riferire a Giorgio Napolitano dello stato di salute della sua maggioranza e informarlo delle prossime mosse che ha in calendario. Il capo dello Stato ha ascoltato, ha dato qualche consiglio, ma è rimasto scetticamente silenzioso di fronte alle ripetute assicurazioni circa il fatto che «la maggioranza è unita, e oggi è anche più ampia di quella su cui potevo contare ad inizio di legislatura».

Scetticismo: reciproco e ormai perfino malcelato. Il capo del governo non ha infatti dimenticato la lunga serie di stop subiti dal Quirinale in questi primi due anni e mezzo di legislatura, ed è ormai graniticamente convinto che - in caso di difficoltà - una mano tesa dal Colle non gli arriverà mai; e il Presidente della Repubblica, del resto, ha memorizzato e rimuginato a sufficienza la sequela di accuse e attacchi di cui è stato fatto oggetto, fino ad ora, dal partito del presidente del Consiglio e dal premier stesso. Rinfocolare vecchie polemiche o aprirne addirittura di nuove in un momento così delicato, ieri sarebbe stato irresponsabile: ed è per questo, in fondo - per gli obblighi del ruolo che ricopre - che Napolitano si è limitato ad ascoltare il capo del governo senza quasi intervenire.

Ha più o meno dato l’impressione di credere, per esempio, che la crisi politica che ha scosso il centrodestra sia stata davvero ricomposta, e che la maggioranza sia oggi più solida e ampia di prima. Naturalmente, per un Presidente dal lungo corso politico è difficile immaginare che le cose stiano davvero così. «Il Capo dello Stato prende atto che il governo va avanti, avendo ancora una maggioranza in Parlamento», è la sintesi più o meno ufficiale che vien data della posizione del Quirinale alla fine del colloquio; meno ufficialmente, il Presidente - che ha assistito in passato alla conclusione di cicli politici storici, dal centrismo al centrosinistra - si chiede come il premier speri e intenda andare avanti, di fronte ad una maggioranza preda di una crisi che al Colle si considera nient’affatto risolta.

L’incontro è avvenuto proprio mentre le agenzie di stampa cominciavano a dare notizia delle dichiarazioni del premier diffuse da un video di Repubblica.it. Paradossalmente, si può considerare perfino una fortuna il fatto che l’ultima «esternazione privata» del premier - a base di barzellette, bestemmie e attacchi alla magistratura - non abbia fatto parte del colloquio tra i due presidenti, che avrebbe rischiato di assumere (come già diverse altre volte in passato) il profilo dell’ennesimo aspro faccia a faccia. Su al Colle, infatti, si considerano già sufficienti i motivi di tensione e preoccupazione esistenti, per doverne aggiungere degli altri (per di più, su questioni nient’affatto nuove).

Non che il breve colloquio non abbia comunque riservato nuovi motivi di amarezza e perplessità a Giorgio Napolitano. E’ accaduto quando la discussione è inevitabilmente scivolata sulla nomina del nuovo ministro dello Sviluppo economico. Nei mesi passati il Presidente della Repubblica aveva più volte sollecitato il premier a compiere una scelta, vedendo puntualmente vanificati i suoi appelli. Poi, quando parve che il prescelto fosse stato individuato in Paolo Romani, il Quirinale fece sapere al premier di considerare quella scelta inopportuna, in ragione di possibili conflitti di interesse dell’onorevole Romani e perfino di qualche vicenda giudiziaria in divenire. Ieri Berlusconi ha spiegato al Capo dello Stato di aver tentato in ogni modo di trovare altre soluzioni ma di non esserci purtroppo riuscito...

Sarà dunque quello di Romani il nome che Berlusconi indicherà (forse già a inizio settimana) a Napolitano e che Napolitano nominerà ministro. La scelta non è apprezzata, ma non ci saranno bracci di ferro da parte del Colle. La situazione è già abbastanza difficile - e all’orizzonte già si intravedono nuove polemiche su questo o quel provvedimento in materia di giustizia - per rendere fin da ora incandescente un autunno che, a giudizio del Quirinale, si presenta già sufficientemente caldo di suo...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201010articoli/59048girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il ritorno "dell'uomo dei miracoli"
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 08:44:26 am
23/10/2010

Il ritorno "dell'uomo dei miracoli"
   
FEDERICO GEREMICCA

Il sindaco di Boscoreale, esponente del Pdl, che non ci crede e dice: «Se Berlusconi ce la fa in dieci giorni è un miracolo, e vuol dire che lo proporremo come santo»; L’Unione Europea che va su tutte le furie, annuncia «niente soldi per la Campania» e minaccia procedure di infrazione nei confronti dell’Italia; le popolazioni della zona che innalzano barricate e bruciano il Tricolore; e il Presidente della Repubblica, infine, che invita ognuno ad assumere - con chiarezza - le proprie responsabilità.

Ecco: non è precisamente uno scenario confortante. Ma è giusto in questo quadro che va in scena «il ritorno di Bertolaso»: che se fosse il titolo di un film, reclamerebbe il rassicurante lieto fine, mentre lì - tra i falò, l’immondizia, i blindati e i pianti dei bambini - di lieto non si intravede davvero nulla. Silvio Berlusconi, però, ha deciso di riprovarci così: rimettendo cioè in campo «L’uomo dei miracoli», che tanto lustro diede ai primi mesi del suo terzo ritorno a Palazzo Chigi. Solo che da allora ad oggi molta acqua (e molta immondizia) è passata sotto i ponti: e quel che apparve convincente due anni fa, oggi sembra non incantare più nessuno.

Nella torrida primavera - estate del 2008, Silvio Berlusconi era fortissimo, saldo in sella, e Guido Bertolaso il «manager dell’emergenza» reclamato qui e li praticamente a ogni cader di pioggia. Oggi le cose stanno come stanno: il premier non sa quanto ancora sopravviverà alla guerra di posizione dichiaratagli da Fini, sulle barricate di Terzigno si srotolano striscioni con su scritto «Berlusconi hai perso il Sud» e Bertolaso, come è noto, non è che abbia meno gatte da pelare, indagato a Perugia per l’inchiesta sui grandi eventi e inseguito dal fantasma di equivoche intercettazioni e belle massaggiatrici in bikini. Insomma: un tandem, quello tra B&B, stanco e affaticato, se non proprio azzoppato.

E un tandem, soprattutto, con qualche problema in più e parecchia credibilità in meno per poter ricorrere all’armamentario di due anni fa, tutto ordinanze, esercito, blindati e maniere forti: ma se quella via non fu una soluzione, come dimostrano i cumuli di immondizia per le strade, quale altro percorso è possibile oggi, tra gli altolà dell’Unione Europea e le barricate della gente di Terzigno? Lo si vedrà: e l’auspicio, naturalmente, è che un percorso lo si trovi. E lo si trovi evitando, soprattutto, allarmismi e confusioni: su quanto ci sia di disperazione nella protesta della gente - per esempio - e quanto pesi, invece, lo zampino della camorra o di movimenti anarco-insurrezionalisti.

Ieri, per dire, il sottosegretario Mantovano aveva lanciato un allarme acutissimo: non è la gente che protesta, ma personaggi che puntano all’eversione. Berlusconi ha dovuto correggerlo: «Non ci sembra che il fenomeno sia così esteso da richiedere un piano d’emergenza». E’ un chiarimento non risolutivo, certo: ma è assai apprezzabile il ritorno a parole di prudenza e di saggezza.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Pd, il ricambio non può essere dolce
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2010, 05:17:49 pm
28/10/2010

Pd, il ricambio non può essere dolce

FEDERICO GEREMICCA

I modi sono quelli che sono: senz’altro ruvidi, bruschi, ai limiti della scortesia. Ed anche i toni non possono esser certo definiti rituali: spicci, diretti, sovente a un passo dall’offesa personale. E i modi e i toni - per l’appunto - sono i chiodi ai quali rischiano di «finir impiccati» Matteo Renzi, Pippo Civati e il cosiddetto gruppo dei «rottamatori», ormai in apertissima polemica con lo stato maggiore del Pd. Ma se «la rivoluzione non è un pranzo di gala» (citazione ben nota, si immagina, ad almeno mezzo gruppo dirigente pd...) nemmeno il rinnovamento lo è: motivo per il quale le obiezioni che si avanzano circa i modi e i toni dei «rottamatori», appaiono - più che altro - divagazioni non ricevibili.

A Renzi, a Civati e alla folla di giovani (e meno giovani) che tra una settimana si riuniranno a Firenze, il gruppo dirigente del Pd dovrebbe - in verità - delle risposte nel merito delle questioni poste: che non sono, poi, chissà che.

Sollecitano un rinnovamento vero al vertice del partito: ed è difficile - in un Paese nel quale è invocazione quotidiana la richiesta di un ricambio delle classe dirigenti a tutti i livelli - considerare questa domanda alla stregua di una provocazione. E spingono affinché vengano rispettate - ma stavolta davvero - le regole che il Pd stesso si è dato due anni fa: per esempio, il limite dei tre mandati parlamentari, norma di fatto vanificata dalla gran quantità di eccezioni.

Modi e toni, dicevamo, sono quel che sono: ma non si ricordano, in verità, rinnovamenti «dolci», operazioni di ricambio nelle quali chi deve lasciare il posto (e il potere) offre con cortesia la propria poltrona a chi deve subentrare. Esistono rinnovamenti pilotati, questo sì: ed è un po’ la via, in fondo, che tentò Veltroni dopo la fondazione del Pd. Ma il confine tra rinnovamento pilotato e cooptazione è spesso labile: e comunque, se la questione è di nuovo d’attualità, vuol dire che qualcosa non funzionò prima, durante o dopo la messa in campo dei vari Calearo e Madìa, Sassoli o Serracchiani, per dirne solo alcuni.

E tanto non funzionò, che divenne un caso il rumoroso abbandono di Irene Tinagli (giovane ricercatrice all’epoca «emigrata» a Pittsburgh) voluta da Veltroni addirittura nel Coordinamento nazionale del Pd. Dopo non molti mesi la nomina, si dimise con una lettera intrisa di rabbia e delusione: «Mi chiedo se era necessario fare tanto chiasso sul ricambio generazionale quando basta guardare chi sta ancora in cabina di regia per capire che, in fondo, non è cambiato niente». La lettera è di due anni fa e molta acqua è passata sotto i ponti: a Veltroni sono succeduti prima Franceschini e poi Bersani, la crisi di consenso del Pd si è acuita e la questione del ricambio torna bruscamente in primo piano. Ma stavolta meno controllabile che mai.

Viene da chiedersi se, al punto cui si è giunti, il tema del rinnovamento (un rinnovamento non necessariamente legato all’età) non sia - per il Pd - addirittura una opportunità. E invece, sarà per i toni, sarà per i modi, ma Pier Luigi Bersani non ha preso affatto bene la scesa in campo dei «rottamatori». Anzi, l’ha presa così male da convocare a Roma, proprio nei giorni del «raduno» fiorentino i dirigenti di tutti i circoli Pd d’Italia. La mossa è stata intesa come il tentativo di depotenziare l’iniziativa di Renzi e Civati: può esser che sia così, ma non è detto. E comunque non è questo l’importante. Quel che sorprende, trattandosi di Bersani - uno che «uomo nuovo», in fondo, a modo suo lo è - è che al segretario del Pd non sia venuta voglia di fare un salto a Firenze per ascoltare le ragioni ed i propositi di un pezzo di «popolo Pd» ormai a un passo dalla libera uscita. A parte l’impatto politico e mediatico della scelta, ne avrebbe forse tratto stimoli e intuizioni probabilmente non inutili in una fase di perdurante difficoltà. Sarebbe bastato (basterebbe) una sola mattinata; anche solo mezzo pomeriggio. Il segnale sarebbe stato (sarebbe) assai importante e forte: la prova, tra l’altro, che il «vecchio» non solo non è indifferente ma non ha paura del «nuovo». Al «raduno» fiorentino manca ancora una settimana: c’è tempo per riflettere, ragionare e magari - perché no? - perfino cambiare idea...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bersani incalza Fini sulla crisi: "Stacca tu la spina o...
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2010, 10:05:30 pm
3/11/2010 (7:51)  - COLLOQUIO

Bersani incalza Fini sulla crisi: "Stacca tu la spina o ci pensiamo noi"

«Berlusconi ormai è per il "muoia Sansone con tutti i filistei". Inaccetabile»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Se ne sta lì, la giacca sbottonata, il colletto della camicia aperto, appoggiato con le spalle alla grande libreria bianca nel suo ufficio al secondo piano di largo del Nazareno. Pier Luigi Bersani è teso in volto. Stavolta sembra davvero preoccupato. Tira un fiato per cacciar via la tensione della dura conferenza stampa appena terminata, e ragiona ad alta voce. Sono le quattro del pomeriggio, e Stefano Di Traglia - la sua ombra, in fondo - informa il leader Pd delle ultime novità: ce ne fosse una, dicasi una, capace di scalfire l’angoscia che pare attanagliare il segretario. «Va tutto a rotoli - mormora - e magari quel che leggiamo è niente, è solo l’inizio. Quando sarà caduto, vedrete, uscirà fuori di tutto, sarà una valanga: perché questo Paese, quando perdi il potere, sa diventare cattivo, perfino impietoso...».

Non cita la fine di Bettino, ma è chiaro che pensa a lui. Si parla - invece - di Silvio Berlusconi, naturalmente. Ma a doverla dire tutta, non pare più lui - il premier - la preoccupazione principale del leader del Pd. Magari sbaglia: ma considera il Cavaliere un uomo politicamente morto. Si tratterebbe di prenderne atto, rapidamente atto, come ha detto in conferenza stampa: «Non è questione di mesi, e nemmeno di settimane...». Non capirlo, vuol dire continuare a moltiplicare il rischio che Bersani vede chiaro come mai: lui lo chiama «il Paese che stacca la spina, anzi che l’ha già staccata». Ed è chiaro quello che vuol dire. «Per me - argomenta - siamo già ben oltre il 1992. Il discredito, il distacco della gente dalla politica oggi è maggiore. Ed è per questo che chi deve battere un colpo è ora che lo faccia». Ce l’ha con Fini, come è chiaro: è a lui che chiede la mossa capace di disarcionare il premier.

Lo chiede: ma fa sapere che non aspetterà all’infinito: «E’ incredibile, ogni volta sembriamo a un passo, a un solo passo, ma poi... Mi dicono che ora avrebbe deciso. Può darsi: però io aspetterò fino a domenica, non oltre; fino al suo discorso di Perugia, poi bisognerà muoversi. Berlusconi, ormai è chiaro, è per il “muoia Sansone con tutti i filistei”: noi non possiamo permettere al Paese di fare quella fine lì». Mezz’ora prima, in conferenza stampa, sembrava aver escluso la presentazione di una mozione di sfiducia in Parlamento: ora chiarisce. «Un momento, vedremo. Io la mozione non la escludo, perché alla fine potrebbe essere necessaria. Ci sono anche altre vie, certo: quel che è chiaro è che non possiamo starcene così, le mani in mano, mentre l’Europa ci ride dietro. Il problema non è trovare l’accordo per fare un governo; il problema è come arrivarci...». Una via potrebbe essere quella di presentare in Parlamento una risoluzione sulle cose più urgenti da fare: nuova legge elettorale, innanzitutto.

Si vota la risoluzione e le forze che la sostengono - di fronte a una maggioranza che senza i voti di Fini diventa minoranza -, si trasformano nelle protagoniste della nascita di un nuovo governo... «E’ una via, anche se so bene che la legge elettorale, per quel che rappresenta, dovrebbe essere votata dal 100 per cento dei parlamentari... Infatti, noi lavoriamo a una proposta aperta, che dovrebbe piacere anche alla sinistra, visto che rispetto allo zero rappresentanti di oggi avrebbe almeno accesso al Parlamento grazie al diritto di tribuna. Ma non è che possiamo fare un governo solo per riformare la legge elettorale. Con un’operazione simile, da Grillo alla Lega ci sparerebbero addosso tutti. E anche i nostri... col clima che c’è nel Paese, con l’economia a rotoli, verrebbero qui sotto con i forconi, se ci occupassimo soltanto delle cose che paiono interessare noi».

Bisogna impedire, certo, «che col 34% dei voti uno non solo vinca le elezioni ma possa anche farsi eleggere al Quirinale, e non so se si è capito di chi parlo», aveva detto poco prima di fronte a telecamere e tv. Ma aveva aggiunto: due cose in economia bisognerebbe pur farle: «Dipendesse da me, uno stralcio della riforma fiscale e un provvedimento per il lavoro ai giovani». Intanto, però, va sgombrato il campo dal governo che c’è: «Liberateci di Berlusconi, vedrete quanta gente - anche tra loro - sarà felice come una Pasqua. E noi potremo fare qualcosa per il Paese e poi tornare alle urne, avendo il tempo di sistemare tutte le faccende, la coalizione, le primarie e il resto». Non sarà facile, e naturalmente lo sa. Anche perché non è che questo sia l’unico fronte aperto cui badare. Ci sono le tensioni interne, lo scalpitare dei veltroniani e - prima ancora - il rumore metallico dei rottamatori del tandem Renzi-Civati. Andrà all’imminente raduno di Firenze, il segretario?

«Oggi vedo Renzi e dovrà rispondere ad una domanda: di che si parla, lì? Perché se si parla dell’Italia, di quello che vogliamo per il futuro di questo Paese, allora possiamo ragionarne. Ma se invece la questione è linciare i “vecchi” del Pd, se la vedano loro. Avendo una preoccupazione, però: Berlusconi, con i suoi tg e i suoi giornali, farà di tutto per sviare l’attenzione dai suoi guai. Offrirgli un Pd che litiga, una base “in rivolta”, sarebbe per lui un regalo insperato e inaspettato. Vogliono farlo? Decidano loro, e io mi regolerò...».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201011articoli/60105girata.asp


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bersani e il Pd tra piazza e Facebook
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2010, 03:55:25 pm
6/11/2010

Bersani e il Pd tra piazza e Facebook

FEDERICO GEREMICCA


A Roma, stamane, sarà Pier Luigi Bersani a parlare ai segretari dei circoli Pd per dir loro di tenersi pronti in vista della morte di Sansone e di prepararsi alla piazza, alla grande manifestazione - la tradizionale spallata al governo - da tenere entro la fine di novembre.

A Firenze, ieri, sono stati invece Wile il coyote e Boris (pesce rosso di una serie tv politicamente assai scorretta) a illustrare - diciamo così - il punto di vista del tandem Renzi-Civati e dei loro «rottamatori» sulla crisi del berlusconismo e sulle cose da fare.

Bersani, Renzi e Civati militano, come è noto, nello stesso partito: e messa così, verrebbe anche da ridere. In realtà, in casa democrats c’è poco da star allegri: anche se ha ragione il giovane sindaco di Firenze quando giura che «si possono dire cose terribili e serissime anche col sorriso sulle labbra». Berlusconi docet. Due grandi adunate di partito nello stesso giorno; due modi di intendere la politica assai distanti; due vocabolari così diversi da far crescere il rischio dell’incomunicabilità. Il tutto, appunto, ancora dentro lo stesso partito: e la questione, adesso, sarà capire se queste diversità possono ancora essere portate a sintesi e diventare una ricchezza o se già siano - in controluce - la premessa per altri dolorosi addii. «Noi siamo gli unici - assicura Civati - a minacciare di voler restare...».

C’è da credergli, per il momento. Ma è un momento che durerà all’infinito: come altri abbandoni e altre separazioni hanno dimostrato a sufficienza. In fondo, le adunate degli eterodossi di Firenze e degli ortodossi di Roma (è una semplificazione, ma forse aiuta a capire) mettono in piazza e sintetizzano il problema dei problemi del Pd: partito a vocazione maggioritaria, nato per unire e amalgamare, e invece alle prese con l’acutissima difficoltà a far convivere al proprio interno le sue tante diversità: i laici e i cattolici, i riformisti e i radicali, i vecchi e i giovani, gli ex comunisti e gli ex popolari e - non paia una bestemmia, perché potremmo esserci vicini - «quelli del Nord» e «quelli del Sud». Diversità che sono già state l’anticamera di dolorosi addii; e che appaiono controllabili con sempre maggior fatica, in assenza del potentissimo collante rappresentato dal potere e dal governo, e impossibili da «mettere in riga», da parte di leadership che mai potranno avvicinarsi all’onnipotenza di Berlusconi (e pure da quella parte si comincia ad apprezzare quanto anche l’onnipotenza abbia i suoi squallidi rovesci e i suoi limiti).

Tutto questo lo si vedeva bene, ieri, nella vecchia e bellissima stazione Leopolda di Firenze, dov’è in scena (e il termine è davvero appropriato) «Prossima fermata Italia», inedito raduno post-moderno di rottamatori veri e rottamatori per caso. All’appello di Renzi e Civati hanno risposto anche dirigenti dei circoli che avrebbero dovuto essere invece a Roma: non è grave, forse è addirittura utile e comunque non è questo il punto. Il punto sono la filosofia, la regia e l’anima di questa tregiorni: tutta interventi (un centinaio e più) di cinque-minuti-cinque, spezzoni di film, cartoni e gag tv, facebook e Internet dappertutto, Renzi e Civati a intervallare il dibattito da una consolle come si fosse in discoteca.

Si può storcere la bocca, come accadde di fronte ai cieli azzurri della scesa in campo di Berlusconi; si può sorridere, come ancora accade, di fronte a un certo «parlar facile», assai diretto e nient’affatto «politichese». Ma forse il Pd ha poco da ridere, da un po’ di tempo in qua. E fossimo nello stato maggiore dei democrats, forse scruteremmo nel raduno fiorentino per vedere se c’è qualcosa - un linguaggio, un’idea, uno stile - che possa esser utile alla riscossa. Quando è tempo di vacche magre, dicono nelle campagne emiliane, non si butta via mai niente. Nemmeno se a offrirti qualcosa è qualcuno del quale - a torto o a ragione - in un altro tempo non ti saresti fidato mai...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: nessuno ci può oscurare
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2010, 07:12:06 pm
7/11/2010 (7:16)  - REPORTAGE

Renzi: nessuno ci può oscurare

In cinquemila a Firenze con i rottamatori e Civati. «Alle urla noi rispondiamo con gli applausi»

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A FIRENZE

Si può cominciare la cronaca di un grande raduno politico con l’intervento di un vignettista, di un satirico, di un comico, o quasi, insomma? Si può - forse - se il suo nome è Sergio Staino, Bobo per gli amici, storico vignettista de «l’Unità». Sale alla tribuna di «Prossima fermata Italia» - la rutilante tre giorni voluta da Renzi, Civati e i loro «rottamatori» - e in cinque minuti va al cuore del problema: «Sono venuto qui con curiosità e diffidenza - dice -. Il tempo di sedermi e arriva un giornalista che mi chiede come mai sono qui. Farfuglio qualcosa.

Ne arriva un altro e mi chiede come mai sono qui. Comincio a spazientirmi. Arriva il terzo e mi chiede la stessa cosa. Allora gli dico: rispondo se lei cambia la domanda e mi chiede come mai Bersani non è qui». Ovazione. Che Staino ferma subito: «Credo sia un errore, ed un brutto segnale. Qui ho sentito testimonianze bellissime, piene di emozioni e di idee: come usciamo dalla nostra crisi senza tutto questo?». Cominciamo da Staino anche perché non è facile cominciare da altro. E poi forse perché iniziare da lui può dare il senso di cos’è questo raduno di «rottamatori» (quasi 5 mila registrati per accedere ai lavori, oltre 120 interventi, a ieri sera) fatto di democratiche giovanissime e carine, di assessori e sindaci del Pd, di ricercatori e insegnanti, condito da spezzoni di film e musica a gogò: il tutto coordinato da Civati e Renzi, dietro la loro consolle da disk jokey (lavoro che saprebbero fare alla perfezione...).

Si arriva alla tribuna e si hanno cinque minuti per dire quel che si ha da dire. Partendo da una parola e da idee e proposte relative a quella parola. Scuola. Ricerca. Immigrazione. Casa. Tasse... Michele, sindaco Pd di Sant’Anna di Strazzena, sceglie la parola pace. Giovanni, sindaco Pd di Mugnano (Napoli) naturalmente monnezza. Paola Concia, deputata, parla di diritti civili e omosessualità. E Andrea Manciulli, segretario del Pd toscano, decide - ovviamente - di parlare del partito. E’ un ortodosso, non un «rottamatore», e dice, pensando a Renzi: «Il rinnovamento ha bisogno di gruppi dirigenti nuovi, non di avventure solitarie. E noi stiamo rinnovando: in Toscana 10 segretari su 13 hanno sotto i trent’anni». Difende la ditta, come direbbe Bersani. E poi, finito l’intervento (5 minuti anche per lui) racconta: «Pier Luigi l’avevo avvisato, che sarei venuto qui.

Bene, mi ha risposto. E avete visto che anche se ho detto cose diverse da loro, mi hanno tutti applaudito?». L’entusiasmo e gli applausi, infatti, si sprecano, qui. E il più lungo e fragoroso non immaginereste mai a chi viene dedicato: all’assemblea dei segretari dei circoli Pd, riuniti a Roma con Bersani... A un certo punto, infatti, succede che a Renzi portino un’agenzia, e che lui la legga in diretta ai «rottamatori» che affollano la vecchia stazione Leopolda: a Roma fischi e ululati - dice Renzi - accompagnano ogni citazione del suo nome e di quello di Civati.
Il sindaco di Firenze si ferma e spiega: «Noi siamo quelli del sorriso: e quindi propongo di salutare gli amici e i compagni riuniti a Roma con un applauso». Quella che parte è un’ovazione. Che pare sincera. Più tardi, chiacchierando con i cronisti, il sindaco di Firenze spiegherà: «Qui nessuno ha mancato di rispetto o ha attaccato Bersani.

Noi andremo a letto col sorriso sulle labbra: se qualcun altro ci andrà accompagnato da fischi e ululati, è un problema suo». Un’ora dopo, da Roma, Lorenza Giani, segretaria del Pd fiorentino, informerà Civati e Renzi che i fischi e gli ululati erano stati niente di che: e questo, quello del ping pong Roma-Firenze, cioè, è un aspetto di questo raduno nient’affatto secondario... Al di là delle luci, dei colori, della musica e della grandinata di interventi - alcuni serissimi, alcuni un po’ così - è del tutto evidente, infatti, come dalla stazione Leopolda di Firenze sia partito un treno che prelude a una battaglia politica che potrà farsi molto dura. Spiega Matteo Renzi: «Dite che Bersani ha annunciato la manifestazione contro il governo per oscurare la nostra iniziativa? A noi non ci oscura nessuno: possiamo oscurarci solo noi. Se il segretario viene qui, ne siamo contenti.

Altrimenti vuol dire che è andata così...». Spiega Pippo Civati: «Noi siamo il Pd, precisamente come gli altri. Non è che loro abbiano il bollino di garanzia e noi no». Conclude Renzi: «Noi siamo la generazione cresciuta a pane e Tangentopoli e finita al bunga bunga. Se chiediamo che dopo trent’anni qualcuno si faccia da parte, è mancare di rispetto? Da Firenze non esce un nuovo leader ma un popolo. Noi non vogliamo né correnti né spifferi: ma nemmeno il rompete le righe».
I «rottamatori», insomma, non nascono e non muoiono a Firenze. Come dire: uomo avvisato, mezzo salvato...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Napolitano il garante
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2010, 03:20:22 pm
10/11/2010

Napolitano il garante

FEDERICO GEREMICCA


Nel Paese dei dietrologi in servizio effettivo permanente e del «qua nessuno è fesso», l’ultima paradossale novella che fa il giro dei palazzi romani, recita più o meno così: Berlusconi salvato da Napolitano, chi l’avrebbe mai detto. Sussurrata a mezza voce, è questa - infatti - l’interpretazione maliziosa dell’appello (o meglio: dei suoi possibili effetti) rivolto dal capo dello Stato alle forze politiche affinché, nella corsa verso la crisi, non venisse travolta anche la legge di bilancio.

Un invito ad un «sussulto di responsabilità», insomma: interpretato, invece, alla stregua di una mossa tattica, del sostegno a questa o a quella parte politica. Al Quirinale - inutile dirlo - si usa un solo avverbio per commentare tali interpretazioni: avvilente. Ma non è questo il punto.

Che l’Italia sia alla vigilia di una importante emissione di titoli di Stato, poco importa: e ancor meno, probabilmente, pesa la preoccupazione che in uno scenario ulteriormente compromesso i tassi d’interesse possano schizzare alle stelle, come è accaduto in Irlanda. Irrilevante - evidentemente - deve esser considerato il fatto che la manovra di bilancio possa servire a ridare un po’ d’ossigeno a enti locali in ginocchio per i precedenti tagli o a indirizzare quel po’ di risorse disponibili verso i settori maggiormente in crisi. Niente di tutto questo è parso interessare, nel fuoco dello scontro apertosi nella maggioranza di governo. E in nome di una sorta di micidiale proprietà transitiva, tanto meno può aver interessato il Colle, del tutto estraneo a responsabilità di governo: dunque, se il Quirinale si è mosso, è per aiutare questo o quello, per allungare i tempi della crisi favorendo Silvio Berlusconi.

Si potrebbe intanto annotare come - in una crisi dai percorsi totalmente imperscrutabili - sia tutto da dimostrare il fatto che il possibile rinvio dell’annunciato show down, sia cosa più gradita al premier che ai suoi avversari. Eppure la situazione resta così confusa che il non dover decidere in 48 ore su ritiro di ministri, salite al Colle per dimissioni e valutazioni sulla possibilità del varo di governi tecnici o elettorali, è eventualità - in fondo - forse utile a tutti. Del resto, davvero nulla appare prevedibile e scontato: a maggior ragione dopo aver osservato Umberto Bossi - nemico giurato di Gianfranco Fini e accalorato sostenitore delle elezioni anticipate - vestire nientedimeno che i panni del mediatore tra i due contendenti... Ma tant’è: poiché «qua nessuno è fesso», se Giorgio Napolitano si è mosso, stavolta è stato per dare una mano a Silvio Berlusconi.

Se questo fosse vero - supponiamolo per un istante - sarebbe davvero singolare la situazione in cui verrebbero a trovarsi, in base a questo assunto, gli storici critici del Presidente (e il premier in testa a tutti) che da anni gli contestano a ogni piè sospinto di essere, di volta in volta, «un comunista» che boccia le leggi del governo, che copre le malefatte dei magistrati, che influenza la Corte Costituzionale nelle sue decisione e chi più ne ha più ne metta. Stavolta, invece, il premier dovrebbe ringraziare il «presidente comunista», che richiamando tutti alle proprie responsabilità determina l’effetto - magari - di allungare un po’ la vita ad un esecutivo la cui sorte appare già segnata.

Si tratta, come è evidente, di un modo micidiale e distruttivo di ragionare: frutto, probabilmente, perfino di genuino stupore di fronte all’evidenza che figure «terze», istituzioni di garanzia e punti di equilibrio non solo sono indispensabili alla nostra democrazia, ma esistono davvero. Che il riconoscimento di ciò abbia bisogno di malizie e grossolanità per realizzarsi, è avvilente. Quanto al fatto che si tratti, poi, di un riconoscimento definitivo e vero, lo vedremo: novembre e soprattutto dicembre, saranno mesi in cui le possibili controprove non mancheranno...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il gelo del Quirinale
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2010, 05:32:44 pm
15/11/2010

Il gelo del Quirinale

FEDERICO GEREMICCA


E’ possibile, alla fine, che il Presidente della Repubblica sciolga un solo ramo del Parlamento - e cioè la Camera - se l’aula di Montecitorio, a differenza di quel che potrebbe accadere al Senato, negasse la fiducia al governo di Silvio Berlusconi?

Questo è quel che chiedono con sempre maggior insistenza il premier e lo stato maggiore del Pdl: ma sollecitare su tale questione una risposta dal Quirinale è tempo sprecato. A meno che non si mettano in fila gli scampoli di valutazioni che filtrano dal Colle e si provi a fare due più due. Un tale esercizio - rischioso, certo - conduce a un risultato univoco e, al momento, immodificabile: e cioè che è estremamente improbabile che la richiesta di Silvio Berlusconi possa essere accolta. E che se lo sviluppo della crisi dovesse mettere in chiaro l’impossibilità tanto della «ripartenza» del governo in carica quanto della nascita di un nuovo esecutivo, il Capo dello Stato scioglierà entrambe le Camere richiamando gli italiani alle urne.

E’ con crescente fastidio che dal Colle si osserva il moltiplicarsi di ipotesi fantasiose e di pressioni tese a condizionare il comportamento del Capo dello Stato. Un fastidio che rende più simile a una replica che a una semplice constatazione il richiamo all’articolo 88 della Costituzione, che attribuisce all’esclusiva responsabilità del Presidente il potere di scioglimento delle Camere. Infatti, a chi solleciti risposte alla richiesta del premier, dal Colle viene seccamente ricordato che «la materia è regolata dall’articolo 88 della Costituzione». Tradotto: il presidente del Consiglio può chiedere quel che vuole, ma a decidere su se, cosa e quando sciogliere è il Capo dello Stato.

E non basta. Infatti, se si fa notare che proprio l’articolo 88 contempla la possibilità di scioglimento di una sola delle due Camere, dal Colle giungono riflessioni il cui senso non è difficile da interpretare: ci si ricordi di quanto accaduto a Romano Prodi, sfiduciato (per una manciata di voti) solo dal Senato. E magari si vada a controllare se in quella occasione il centrodestra chiese lo scioglimento del solo Senato o, più correttamente, di entrambi i rami del Parlamento. Spiegazioni e rimandi il cui senso appare inequivoco.

E’ anche per questo, per stare alla sostanza delle questioni ed evitare confusioni, che al Quirinale nessuno pare appassionarsi più di tanto all’altra polemica divampata negli ultimi giorni: e cioè se nella cosiddetta «guerra delle mozioni» si debba cominciare dalla Camera, come chiedono le opposizioni, o dal Senato come invece reclama il governo. E’ una questione che lo staff del Capo dello Stato (che ha ricoperto anche la carica di presidente della Camera, e che quindi di regolamenti parlamentari un po’ ne mastica...) liquida come faccenda dall’esclusivo rilievo tattico-propagandistico. E’ vero, infatti, che in una guerra è sempre meglio cominciare vincendo una battaglia, piuttosto che perdendola: ma quel che conta è il risultato finale, che sarà dato dai voti espressi da entrambe le Camere. E se anche uno solo dei due rami del Parlamento negasse la fiducia al governo, la crisi sarebbe - come è evidente - inevitabile.

Una ultima annotazione. Assai meglio sarebbe - si valuta al Colle - se le forze politiche tutte (ma ovviamente quelle di governo in testa) concentrassero per ora idee e sforzi sulla legge di bilancio, piuttosto che su quel che sarà tra un mese o giù di lì. Al richiamo rivolto in tal senso da Napolitano la settimana scorsa tutti (e governo prima di tutti) risposero con applausi e rassicurazioni. Ora, invece, l’impegno di ognuno pare indirizzato quasi esclusivamente a precostituire posizioni polemiche, a lanciare ultimatum e a tentare di trarre il massimo profitto da questo o quello escamotage. Esercizi non solo inutili ma perfino dannosi, se sottraggono attenzione alle vie da battere per rilanciare l’economia del Paese.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8089&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Vendola: primarie subito
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2010, 10:00:50 am
23/11/2010 - INTERVISTA

Vendola: primarie subito

«L'aggiustamento di cui parla Bersani? Se sono furbizie non portano da nessuna parte»

FEDERICO GEREMICCA

ROMA
Nichi Vendola deve averci pensato a lungo durante il suo «viaggio americano». E così, rientrato in Italia - e quasi parafrasando Primo Levi - chiede: se non ora, quando? «Questo è il momento in cui la sinistra - dice - deve smettere di percepire se stessa come un problema e non come, invece, la soluzione al problema; questo è il momento, soprattutto, in cui dovrebbe uscire fuori dal Palazzo; questo, insomma, è il momento giusto per le primarie, indipendentemente dalla vicenda del voto di fiducia e dalle sorti del governo. Infatti è ora che la sinistra alzi la testa e dica all'Italia che ha la forza per costruire una nuova speranza: e che non ha paura delle sue ragioni». E lo dica, appunto, in una grande, lunga e partecipata campagna di primarie.

L'idea farà discutere, incontrerà resistenze e naturalmente dividerà: soprattutto perché a proporla è lui, Vendola, pronto a scendere in campo contro Pier Luigi Bersani e dato in vertiginosa ascesa da ogni sondaggio. La proposta nasce da un'analisi della situazione che è assai diversa da quella del Pd: ed è argomentata con la fascinazione che ormai segna ogni ragionamento del popolare governatore di Puglia. In questa intervista, dunque, Vendola ne illustra il senso: lanciando messaggi - dalle primarie di Milano agli agognati governi tecnici - non sempre di pace verso il Pd e il suo segretario.

Lei dice: facciamo le primarie subito e comunque. Perché?

«Perché vedo una situazione che si avvita. Prima c'è stato un panico trasversale di fronte all'idea di elezioni anticipate; ora il panico riguarda la prospettiva di un Berlusconi-bis e di un galleggiamento nella melma per tre anni. La paura è nemica della sinistra: e la sinistra, allora, deve finalmente diventare nemica della paura. Per farlo bisogna uscire dalle logiche di Palazzo, riagganciare la vita della gente e i problemi veri della società: con un grande processo che è un lungo discorso, un programma partecipato sul cambiamento di questo Paese. Dico primarie perché non conosco un altro strumento. Non ho il mito delle primarie: ma in un processo di cessione di sovranità da parte dei partiti e di dissequestro della politica come bene comune, io credo che il centrosinistra possa ritrovare l'anima e la forza per vincere».

Le verrà obiettato che chiede che le primarie si svolgano subito perché teme che la sua candidatura possa «sgonfiarsi» se i tempi si allungano troppo: come risponde?

«Io non vivo questa vicenda come l'episodio centrale del mio percorso: ma quando ti accade che in ogni angolo d'Italia - e non solo d'Italia - gente di ogni ceto sociale ti indichi come una speranza, allora sento il dovere di fare la mia parte, di dare il mio modesto contributo. E vorrei chiarire una cosa una volta per tutte: non c'è nessun minoritarismonelle cose che dico e che propongo, e non sopporto più la definizione di sinistra radicale. Sono stufo di perdere bene: è venuto il momento di vincere bene».

Lei chiede primarie subito proprio mentre Bersani, dopo il voto di Milano, vede invece la necessità di un «aggiustamento» di questo strumento. Ne sapeva niente? E' preoccupato?

«Non ne sapevo niente ma non mi preoccupo. Non mi preoccupo perché può darsi che di tratti di un pensiero giusto: per esempio l'idea che, una volta in campo i candidati per una bella gara, si eviti la militarizzazione della sfida. A Milano è stato battuto chi ha dato, appunto, un carattere quasi militare alla contesa. Quando ci sono bei candidati in campo, si può puntare con serenità su quella che chiamo la saggezza della nostra gente».

E se non fosse questo l'«aggiustamento» cui pensa Bersani?

«Se si trattasse di accorgimenti e furbizie per pregiudicare il risultato, io comunque non mi preoccuperei: viviamo un'epoca in cui la furbizia non porta da nessuna parte. Ma non posso nemmeno immaginare che sia questo l'approccio a uno strumento vitale e per noi importante come le primarie».

E' chiaro, comunque, che la formalizzazione della crisi aiuterebbe non poco la sua corsa e i suoi progetti, no?

«Guardi, io sono tra quelli che non sopportano più la genericità retorica delle formule che vengono adoperate guardando alla crisi del Paese: questa crisi non può essere un pretesto per operazioni iperpoliticistiche. Non c'è una guerra tra le forze politiche: c'è una guerra tra la destra e il Paese reale. E' una guerra che si chiama povertà, precarietà, che ha il volto di provvedimenti di autentica crudeltà sociale».

Magari il quadro che lei fa è un po' drammatizzato...

«E' vero o no che la destra ha portato il Paese in una situazione di declino? Se è così, è di questo che bisogna discutere ed è su questo che bisogna schierarsi e dire una parola definitiva: non sui vizi e i vezzi di Berlusconi, ma sul ciclo del berlusconismo. E invece mentre le destre discutono di se stesse e del loro futuro e mentre il centro discute di se stesso e prova a riorganizzarsi, la sinistra discute del centro e della destra: fino a coltivare l'idea - che mi pare più frutto di disperazione che di lucidità - di un'alleanza con Gianfranco Fini. Basta. Per la sinistra è il momento di uscire dal Palazzo e smettere di percepire se stessa come un problema. Ed è per questo che insisto: il momento giusto per le primarie è arrivato. Ed è questo».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/376132/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La tentazione dell'addio alle primarie
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2010, 11:59:13 pm
26/11/2010

La tentazione dell'addio alle primarie

FEDERICO GEREMICCA

La preoccupazione che li ha spinti all’inatteso dietro front, non è affatto diversa da certi attualissimi timori italiani: ed è in fondo sintetizzabile con l’adagio secondo il quale errare è umano, ma perseverare è diabolico. E così, i socialisti francesi hanno deciso - se non proprio di cancellarle - certo di dare una sostanziosa «aggiustata» (per dirla con Bersani) alle primarie per la scelta del candidato che sfiderà Nicolas Sarkozy nella corsa all’Eliseo.

In due parole: Martine Aubry, Ségolène Royal e Dominique Strauss-Kahn - cioè i tre big favoriti per la vittoria nella sfida interna al Partito socialista d’Oltralpe - hanno annunciato che non gareggeranno l’uno contro l’altro. In primavera valuteranno i rispettivi consensi (e le possibilità di vittoria finale contro Sarkozy) e dei tre resterà in pista soltanto il candidato più forte. Martine Aubry, segretario del partito, ha spiegato la svolta così: «Dal passato abbiamo imparato delle lezioni, le lezioni della divisione, per esempio...». Dunque, basta continuare a farsi del male: a scendere in pista nelle primarie contro alcuni giovani e ambiziosissimi leoni del Psf, sarà solo uno dei big del partito (che a quel punto potrà contare sul sostegno dell’apparato e dell’intero stato maggiore socialista). Le primarie, dunque, non sono formalmente cancellate: ma svuotate e notevolmente addomesticate, di sicuro sì (tra le forti e ovvie proteste dei «giovani leoni» del Psf).

E’ facilmente prevedibile che la scelta dei socialisti francesi divenga oggetto di analisi e discussione anche nel centrosinistra italiano, e non solo per il fatto che le primarie furono importate in Francia nel 2007, proprio dopo la prima esperienza italiana (che vide Romano Prodi vincere quelle dell’Ulivo nel 2005 e poi battere Berlusconi). Infatti, i dubbi intorno alla circostanza che siano diventate uno strumento per «farsi del male» vanno crescendo molto anche qui da noi: e soprattutto nel partito che più di ogni altro le ha volute e che più di ogni altro - da un po’ in qua - ne sta pagando il conto, cioè il Pd. Le vittorie riportate contro lo stato maggiore del Partito democratico da Matteo Renzi, Nichi Vendola e in ultimo Giuliano Pisapia a Milano, sanguinano ancora: ed è nulla di fronte a quel che potrebbe accadere in occasione dell’annunciata sfida tra Bersani e Vendola per la nomination a candidato premier.

Tra le primarie francesi e quelle italiane le differenze, come è noto, sono molte e non di poco conto: Oltralpe sono «di partito» e qui da noi «di coalizione»; inoltre, in Francia possono votare per la scelta del candidato solo gli iscritti, mentre in Italia tale possibilità è garantita anche ai semplici elettori. Tradotto vuol dire, per esempio, che a Roma il Pd potrebbe magari decidere di far ritirare eventuali candidature interne e alternative al segretario (per esempio Chiamparino, Renzi o chiunque ci stesse pensando) ma non potrebbe certo fermare la corsa di Vendola.

E’ chiaro, comunque, che - annotate tutte le differenze - della scelta francese andrebbe colto e discusso il messaggio di fondo: che è un ripensamento dello strumento-primarie, del suo uso e delle sue degenerazioni. Che vi siano problemi crescenti, è evidente. Sergio Chiamparino ieri li ha riassunti così: «Non possono essere il modo per regolare i rapporti tra partiti, gruppi e correnti». Andrebbe aggiunto che, utilizzate per gli obiettivi denunciati dal sindaco di Torino, le primarie a volte non servono nemmeno a selezionare il candidato con le maggiori possibilità di vittoria finale.

Materia per riflettere in Italia sulla scelta dei socialisti francesi, ce n’è dunque a sufficienza. Resta da capire se oltre alla materia ce ne sia anche il tempo. Infatti, il precipitare della crisi verso le elezioni, renderebbe praticamente impossibile qualunque aggiustamento condiviso. E non resterebbe che mandare in scena e attendere l’esito dell’annunciata sfida tra Bersani e Vendola. Una sfida dal risultato sempre più incerto: e che, dopo la débâcle milanese, comincia a preoccupare seriamente l’intero stato maggiore del Pd...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Lo sforzo del Colle per frenare il caos
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:26:57 am
Politica

04/12/2010 - RETROSCENA

Lo sforzo del Colle per frenare il caos

Legittimo impedimento, si va verso lo slittamento

FEDERICO GEREMICCA

ROMA

Le Borse che tremano, i partiti che tramano, la Camera che chiude, gli studenti sui tetti, il Pd che va in piazza: e come se non bastasse, i micidiali report di Wikileaks che avvelenano i pozzi. L'Italia entra così - e non potrebbe dunque entrarci peggio - nella settimana che precede l'annunciatissimo big bang del 14 dicembre, martedì, festa di San Giovanni. Tensione e nervosismo che si tagliano a fette. Tensione, nervosismo e invasioni di campo: che hanno di nuovo costretto il Quirinale - ieri a tarda ora - a ricordare i propri poteri e le proprie prerogative in tempo di crisi.

Non tocca ai partiti, dunque, fissare la data delle elezioni; non tocca a loro stabilire se, come e quando sciogliere le Camere. E non tocca a loro nemmeno - Costituzione alla mano - indicare il nome del futuro ed eventualissimo nuovo presidente del Consiglio. Il Colle stavolta ha scelto la via soft della nota super ufficiosa («Negli ambienti del Quirinale si apprende...») perché non è questo il tempo di nuovi bracci di ferro e di ulteriori scontri. La parola d'ordine, anzi, è raffreddare il clima, abbassare la tensione e affrontare con calma e responsabilità l'atteso passaggio parlamentare del 13 e 14 dicembre. Certo che se altri dessero una mano...

La data fatidica dunque si avvicina e al Colle si annotano i segnali distensivi (pochi) e i continui lanci di benzina sul fuoco (molti e quotidiani). Tra i primi vanno annoverati - nulla ancora d'ufficiale, s'intende - il possibile slittamento a gennaio della decisione della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, questioni sentitissima dal premier e fonte di sospetti e nervosismi. La coincidenza col dibattito parlamentare (la Corte ha fissato da tempo le sue udienze per i giorni 14 e 15 dicembre), il fatto che il premier ed i suoi legali saranno impegnati in Parlamento e la necessità di eleggere un nuovo presidente, pare stiano orientando i vertice dell'Alta Corte ad un rinvio della discussione alla prima seduta utile di gennaio. E' una decisione con la quale la politica non c'entra niente, naturalmente: ma se maturasse, sgombrerebbe temporaneamente il campo almeno da un problema. Il resto, invece, è un affastellarsi di polemiche grevi e di tensioni. Al Quirinale si considera il livello di guardia assai vicino. Del resto, quando un parlamentare e coordinatore del Pdl (Verdini) giunge ad affermare che «il presidente ha le sue prerogative ma noi ce ne freghiamo» c'è poco da aggiungere. Si continua a sperare, naturalmente, in una qualche iniziativa che riporti il confronto a livelli decenti; si continua a ripetere «non si può arrivare al 14 così, qualcosa accadrà»: ma anche al Colle - ormai - non ci sperano quasi più. Del resto, grazie ai pochi e m a l c o n c i “ambasciatori” rimasti a far la spola tra i due palazzi (Napolitano e Berlusconi di fatto non si parlano più) una via per riportare la crisi su binari “normali” era stata individuata. Ma il premier pare non volerne sapere...

Nella sostanza, una soluzione poteva (può) esser celata proprio nella contestualità non perfetta dei dibattiti e delle votazioni che avranno luogo al Senato e alla Camera il 13 e il 14. La prima aula a votare sarà quella di palazzo Madama, dove è certo che il premier otterrà una larga fiducia. A quel punto (ed evitando il voto di sfiducia praticamente certo dell'aula di Montecitorio) Berlusconi potrebbe salire al Colle per riferire al capo dello Stato la situazione, dimettersi e prospettare - però - l'intenzione di provare a formare un nuovo governo: in un caso così, un reincarico largamente possibile, se non addirittura certo. Ma Berlusconi (nonostante le insistenze di Gianni Letta, “consigliere” del quale il premier pare fidarsi sempre meno) non sembra intenzionato a seguire questa via, preferendo - come al solito - il muro contro muro.

Se nulla accadrà nella settimana che sta per aprirsi, dunque, in campo non resteranno che le compravendite di deputati, il voto della Camera praticamente al buio e possibili tensioni al momento difficili da immaginare. E in un caos fatto di minacce di elezioni, speranzedi governi tecnici e parole a vuoto, toccherà a Napolitano indicare la via. Saranno giorni certo non facili per il presidente: un presidente - questa è la sensazione - che alcuni temono forse troppo e nel quale altri forse sperano ugualmente troppo...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Le strategie dietro agli insulti
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2010, 12:09:59 pm
7/12/2010

Le strategie dietro agli insulti


FEDERICO GEREMICCA

La Camera chiusa - ormai da una settimana - per sopraggiunta impraticabilità del campo; i canali di comunicazione all’interno della ex maggioranza irrimediabilmente ostruiti da tempo; l’insulto - di ogni tipo - che ha soppiantato ogni pur flebile tentativo di dialogo; e tutt’intorno il Palazzo di Montecitorio, l’apparire di manifesti forse più amari che offensivi: «AAA deputato meridionale si offre per votare la fiducia. Prezzi modici. No perditempo». A una settimana dal voto che deciderà le sorti (e il futuro) di Silvio Berlusconi e della legislatura, il quadro è questo: e il peggio, forse, non è ancora arrivato.

In fondo, l’assurdità della crisi in corso è sintetizzata tutta da due circostanze. La prima: l’assoluta assenza di un filo di dialogo capace - dalla rottura della maggioranza a oggi - di far fare un solo passo in avanti alla crisi stessa.

La seconda: il fatto che, a pochi giorni dai voti di fiducia (e di sfiducia) non si trovi un solo leader politico che abbia voglia di azzardare un qualunque pronostico circa l’epilogo della vicenda. Che siano ritenute ugualmente possibili soluzioni che vanno dallo scioglimento delle Camere a un nuovo governo Berlusconi che addirittura completi la legislatura (passando per esecutivi tecnici o nuovi governi di centrodestra non guidati dall’attuale premier) dice a sufficienza dello stato confusionale in cui pare esser caduta la politica: anche quella con la presunta P maiuscola. Alcune dichiarazioni recenti e i timori montanti di leader come Fini e Casini di tenere unite le rispettive truppe di fronte all’ipotesi di scioglimento delle camere stanno facendo risalire le quotazioni di un possibile Berlusconi-bis: ma si tratta di segnali forse ancora troppo deboli per affermare che in fondo al tunnel della crisi si cominci a vedere una luce.

E’ questo, in fondo - l’assenza della ricerca di una soluzione possibile e condivisa - ad aver lasciato campo aperto all’insulto: corollario inevitabile della politica del muro contro muro. Al «ce ne freghiamo del Presidente» (Verdini) hanno fatto seguito il «non lascerò mai a vecchi maneggioni» (Berlusconi) e il «se noi siamo vecchi, lui è catacombale» (Casini). Considerando che manca ancora una settimana al d-day che andrà in scena tra Camera e Senato, non è detto che si sia già visto il peggio. Ciò nonostante, i ben informati e gli analisti più ottimisti hanno una «lettura» di quanto va accadendo perfettamente in grado - a loro dire - di spiegare l’inarrestabile escalation polemica.

La chiave di tutto starebbe, naturalmente, proprio nell’appuntamento e nei voti di martedì 14 dicembre. Come è pensabile - spiegano - che mentre entrambi gli schieramenti sono impegnati in una disperata «caccia al voto» di questo o quel parlamentare, possano trovare spazio aperture al dialogo, offerte di trattativa e - magari - ipotesi di soluzioni condivise? Questo - argomentano - è il tempo dei messaggeri di guerra, non degli ambasciatori di pace. Quindi - è la conclusione - non fatevi illusioni e preparatevi a toni ancor più aspri: il dialogo potrà partire solo dopo i voti di Camera e Senato.

E’ un’analisi, naturalmente, condivisibile e che - per altro - non aggiunge nulla di nuovo a certi notissimi rituali della politica. Se non fosse per due non irrilevanti particolari. Il primo è del tutto evidente: così continuando, l’escalation di accuse e controaccuse potrebbe finire per consumare del tutto i margini per qualunque possibile intesa futura; il secondo è meno scontato, ma non per questo meno rilevante: dopo il voto dei due rami del Parlamento potrebbe esser troppo tardi per qualsiasi tentativo di ricucitura e salvataggio della legislatura (e non è detto che non sia questo, in fondo, l’obiettivo ultimo del presidente del Consiglio).

Comunque stiano le cose, scenario e prospettive non sono certo esaltanti: ed è inutile - e perfino retorico - ripetere che è ben altro ciò di cui il Paese avrebbe oggi bisogno. Ma se non è per gli interessi (il bene) del Paese che vale la pena di far appello ai partiti per un recupero di ragionevolezza, forse può avere un senso invitarli alla saggezza guardando ai loro stessi interessi. L’Italia ha già conosciuto crisi che hanno travolto, in conclusione, gli stessi partiti, i loro leader e perfino la loro possibilità di restare in campo. Stiano attenti, dunque, a giocare troppo col fuoco e con la pazienza degli italiani. Alla fine del percorso, infatti, oltre che la crisi e le elezioni, potrebbero trovare amare, anzi amarissime e impreviste sorprese...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bersani, la ricreazione finita e quelle urne da evitare
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2010, 04:19:59 pm
12/12/2010

Bersani, la ricreazione finita e quelle urne da evitare


FEDERICO GEREMICCA

Nell’ottobre di due anni fa, il Pd a «vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni radunò il suo popolo al Circo Massimo per una delle più grandi manifestazioni che la Capitale avesse (e abbia) mai ospitato.

Tre mesi e mezzo dopo, però, il segretario fu costretto a gettare la spugna («Non ce l’ho fatta e chiedo scusa per non avercela fatta») e in qualche successiva intervista raccontò di aver sentito, su quel palco romano, la gelosia e l’invidia di molti dei dirigenti che gli erano affianco, in ragione del grande successo di quella manifestazione. Molta acqua - non moltissima, in verità - è passata sotto i ponti: ma se c’è una cosa della quale si può esser ragionevolmente certi, è che nessuno - ieri - sopra o sotto il palco di piazza San Giovanni, fosse animato da sentimenti d’invidia nei confronti di Pier Luigi Bersani.

Dall’ottobre del 2008 ad oggi, infatti, la crisi del Partito democratico è andata avanti senza soluzione di continuità: e se gli ultimissimi sondaggi lo danno in risalita dopo mesi di declino, è pur vero che lo stimato 25 per cento colloca il partito oltre otto punti al di sotto della soglia raggiunta nelle elezioni politiche del 2008. L’opera alla quale Bersani è stato chiamato giusto un anno fa, insomma, non sembra - come i fatti confermano - di quelle capaci di calamitare invidie: meriterebbe, al contrario, il pieno sostegno da parte degli iscritti e - soprattutto - di tutti i dirigenti. Appunto quel sostegno ieri invocato dal segretario con un appello inequivoco: «La ricreazione è finita anche per noi».

Il leader dei democrats, al contrario, sembra andare incontro ad appuntamenti decisivi per la sorte del governo, della legislatura e forse dello stesso Partito democratico in un clima di traballante solidarietà. Non che la sua leadership, naturalmente, sia oggi messa in discussione: ma il discorso già si fa diverso - e di molto - se invece il tema diventa la sua candidatura a premier (questione non oziosa, considerata l’alta possibilità di elezioni la prossima primavera). Scontata fino a ieri - essendo il segretario del maggior partito della coalizione che si opporrà a Berlusconi - da qualche tempo è messa seriamente in discussione: sia da destra che da sinistra, come si è soliti dire.

L’enorme folla che ieri ha riempito piazza San Giovanni ha forse chiaro solo in parte quanto avanti siano certi giochi: la partita, invece, è già avviata e non pare affatto semplice per il leader del Pd. Chi continua a insistere (D’Alema, ad esempio) affinché il Partito democratico si impegni per un’alleanza elettorale con il Terzo polo, sa bene che una delle implicazioni di tale scelta politica è la rinuncia - da parte del Pd - ad esprimere il candidato premier. Se, al contrario, si decidesse (magari di necessità) di puntare su un’alleanza elettorale «di sinistra» - con Vendola e Di Pietro - le cose non sarebbero certo meno complicate. Infatti, risorto dalle ceneri di quella sinistra radicale ridotta in polvere proprio dalle scelte del Pd a «vocazione maggioritaria», il governatore della Puglia è pronto a sfidare il leader dei democrats in elezioni primarie in quel caso difficilmente aggirabili. E non c’è pronostico che dia - nel migliore dei casi - Bersani in affanno a spuntarla su Vendola.

Si vedrà. Per ora il segretario del Pd tira dritto, a maniche rimboccate, sperando nella solidarietà del suo gruppo dirigente e avendo, nel breve periodo, due obiettivi tutt’altro che segreti: abbattere il governo di Silvio Berlusconi e allontanare le elezioni anticipate. Il voto va certo evitato per le condizioni in cui versa il Paese, e per la pessima legge elettorale che lo disciplinerebbe: ma è evidente che - per Bersani - uno dei risultati «collaterali», in caso di slittamento delle elezioni, sarebbe guadagnare tempo per rimettere su gambe più salde il Pd e perfino le sue legittime aspirazioni a guidarlo verso la riconquista di Palazzo Chigi.

Il leader dei democrats proverà con ogni forza a centrare entrambi gli obiettivi, e questo è certo. Al contrario, in caso di fallimento, c’è già chi ipotizza che piazza San Giovanni possa diventare, per lui, quel che il Circo Massimo fu per Veltroni: il canto del cigno.

Con la differenza che a rimetterci le penne, stavolta, non sarebbe solo un segretario, ma forse l’idea stessa che fu all’origine della nascita del Pd

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Sulla legge elettorale si arena il fronte degli anti-Silvio
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2010, 04:04:41 pm
Politica

13/12/2010 - IL CASO

Sulla legge elettorale si arena il fronte degli anti-Cavaliere

Dubbi dei finiani, no di Vendola: così è crollato l’asse Fli-Udc-Pd

FEDERICO GEREMICCA

ROMA
Doveva essere la madre di tutti gli argomenti, l’intesa a partire dalla quale provare a convincere il Capo dello Stato a dare il via libera a un governo tecnico: e invece, il possibile accordo su una nuova legge elettorale - al quale Pd, Udc e finiani hanno lavorato fino a qualche giorno fa - è finito miseramente in frantumi.

A far tramontare la possibilità di un’intesa ci hanno pensato - da una parte - gli uomini di Fini, avviando una trattativa parallela con gli emissari del Pdl; e dall’altra il “niet” di Nichi Vendola, che il Pd - in fondo - s’aspettava. Se a queste due posizioni si aggiungono le perplessità crescenti dell’Udc intorno al sistema cui si lavorava, il quadro delle ragioni del naufragio è completo.

L’effetto del fallimento è evidente, e pesante come mai in queste ore che decideranno dei destini del governo e - forse - della legislatura: viene a cadere, infatti, un argomento forte (e cioè l’esistenza di un accordo sul tipo di riforma da varare) a sostegno della richiesta - di fatto già prospettata da tempo al Capo dello Stato - di evitare il ritorno alle urne con il Porcellum, sistema elettorale oggi contestato anche da chi (Fini) diede l’ok in Parlamento sul finire della legislatura 2001-2006. Il fallimento della trattativa, com’è chiaro, indebolisce di molto la posizione di chi vede come il fumo negli occhi nuove elezioni anticipate disciplinate dall’attuale legge elettorale. E riduce non poco, di fatto, anche gli ipotetici margini di manovra del Presidente della Repubblica.

Lo schema d’intesa cui Pd, Udc e Fli hanno lavorato per settimane prevedeva l’assegnazione del 50% dei seggi della Camera con un sistema a doppio turno, il 45% in maniera proporzionale (collegio unico nazionale, al quale avrebbero avuto accesso i partiti che avessero superato una soglia di sbarramento fissata al 5%) ed il restante 5% dei seggi - come diritto di tribuna - alle forze che fossero rimaste al di sotto della soglia di sbarramento. In questo schema, l’indicazione del candidato premier sarebbe avvenuta al secondo turno di ballottaggio nei collegi uninominali.

Le perplessità degli ambasciatori di Pier Ferdinando Casini hanno riguardato, sin dall’avvio, la quota di deputati da eleggere col sistema proporzionale (infatti elevata dall’iniziale 40% fino al 50%) e la perdurante assenza del voto di preferenza. Ma non sono state le obiezioni dell’Udc - in verità - a far franare l’intesa, quanto il comportamento ondivago avuto dai finiani e il no molto netto arrivato dalla sinistra di Nichi Vendola. Due le obiezioni del governatore della Puglia: una confessabile, diciamo così, e l’altra tenuta sullo sfondo (seppur nota ai più).

L’argomento non messo esplicitamente sul tavolo dagli uomini di Vendola riguarda la circostanza che Sinistra, ecologia e libertà è contraria a governi tecnici o di responsabilità e preferisce - in caso di crisi del governo di Silvio Berlusconi - un immediato ritorno alle urne. L’obiezione avanzata esplicitamente agli “alleati” del Pd punta, invece, direttamente al cuore di una questione assai sentita da Vendola: e cioè le primarie. Naturalmente, non è sfuggito agli uomini del governatore della Puglia il fatto che il sistema elettorale in esame rendeva, di fatto, impossibile lo svolgimento delle primarie. Con l’obbligo dell’indicazione del candidato premier soltanto al secondo turno nei collegi, sarebbe risultato tecnicamente impossibile tenere la “consultazione” di iscritti ed elettori alla vigilia dei ballottaggi.

Sia come sia, il cumulo di distinguo ed obiezioni più o meno motivate ha condotto al naufragio della complicata trattativa. E la situazione, alla vigilia delle 48 ore che decideranno dei destini di governo e legislatura, è riassumibile più o meno così: su un piatto della bilancia c’è la posizione di Berlusconi che dice “o il mio governo o le elezioni”: sull’altro... Beh, sull’altro - a questo punto - c’è poco o nulla. Anche se la perdurante emergenza economica, naturalmente, resta pur sempre un’ottima ragione per chiedere a Napolitano il varo di un governo di "responsabilità nazionale"...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - A sinistra la resa dei conti
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 09:35:54 pm
15/12/2010

A sinistra la resa dei conti

FEDERICO GEREMICCA

L’obiettivo era «mandarlo a casa». E Bersani, in fondo, l’aveva perfino promesso alla folla di militanti radunati sabato a piazza San Giovanni.

Invece l’assalto è fallito: e come inevitabilmente accade ogni volta che si dichiara una guerra e poi la si perde, il contraccolpo nel campo degli sconfitti rischia di essere assai pesante. La mazzata è certamente dura per Antonio Di Pietro, che dopo essersi speso nella battaglia con tracotanza ed energia, ha subito lo smacco di abbandoni e defezioni nel suo gruppo proprio al momento del voto. Ma se per l’ex magistrato è dura, per il Partito democratico la mazzata potrebbe farsi addirittura terribile, in ragione della «resa dei conti» che pare già avviata e delle prospettive a breve termine, da ieri avvolte da una luce sinistra.

Non che non vi siano, come sempre, motivi di parziale (o apparente) soddisfazione. E senz’altro vero, infatti, che - a dispetto delle voci fatte circolare ad arte - il Pd ha «tenuto botta» in maniera granitica al momento del voto (206 sì alla sfiducia su 206 deputati componenti il gruppo); ed è ugualmente un fatto - come afferma Bersani - la circostanza che il campo delle opposizioni si sia allargato, mentre quello della maggioranza abbia perso pezzi e si sia ristretto. Ma se si vuol guardare avanti, bisognerebbe riconoscere che i motivi di soddisfazione finiscono qui: mentre la battaglia persa sembra destinata a ingigantire tre problemi dalla cui soluzione dipende il futuro delle opposizioni e del Pd in particolare.

La prima questione riguarda senz’altro la capacità delle forze che si oppongono a Berlusconi di raggiungere almeno un minimo comun denominatore in grado di farle apparire alternativa credibile. E’ un problema assai serio, manifestatosi in tutta la sua nettezza proprio nei lunghi mesi che hanno preceduto il voto di ieri. Quanto più il momento dello show down si avvicinava, tanto più emergeva l’incapacità delle opposizioni - dal Pd fino al Fli - di far fronte comune mostrandosi, di fronte al Paese, pronte al ricambio. Una babele di voci distinte e, alla fine, perfino il serpeggiare di reciproci sospetti. E non può essere un caso il fatto che il Pdl, in caduta libera da questa estate, abbia cominciato a risalire nei sondaggi proprio con l’avvicinarsi del fatidico 14 dicembre: probabilmente in ragione dell’assenza - agli occhi degli elettori - di un’alternativa seriamente praticabile. La seconda questione punta direttamente al cuore del progetto che fu alla base della nascita del Pd. Un minuto dopo il risultato del voto di ieri, le tradizionali (e ormai stucchevoli) polemiche sono ripartite, quasi non si aspettasse altro. Polemiche note: un Pd senza «vocazione maggioritaria» finisce per essere tanto subalterno da inseguire, senza prudenza, Fini e perfino la Carfagna; un Pd «troppo di sinistra» è destinato a non tessere alleanze e ad essere battuto nelle urne; un Pd dei «soliti noti» e incapace di aprirsi al rinnovamento interno - infine - non può che imboccare il suo viale del tramonto. E si potrebbe continuare. Con una complicazione da non sottovalutare: con le elezioni anticipate forse alle porte e il fantasma di Nichi Vendola ormai incombente, questi problemi - da irrisolti che sono - rischiano di diventare letteralmente esplosivi.

La terza questione investe direttamente Pier Luigi Bersani. Il segretario - dal quale si attendeva il consolidamento e il rilancio del Pd - è all’inizio di una serie di tornanti dai quali dipenderà non solo il suo personale futuro ma probabilmente quello del Partito democratico così come fin’ora noto. La voglia di rivincita dei veltroniani cresce e può nutrirsi degli impacci e delle cadute che vanno segnando il cammino del Pd «bersaniano»; l’insofferenza dei cattolici rischia di giungere al punto limite della rottura; e l’incalzare di Vendola - sfidante già in campo in vista di primarie difficili da liquidare - pare poter avere un effetto moltiplicante di quelle tensioni. La via di Bersani, insomma, oltre che tortuosa è in salita: considerato, tra l’altro, che il pallino è tornato nelle mani di Berlusconi che potrebbe decidere di precipitare il Paese verso il voto anticipato, cogliendo il Pd nel mezzo di un guado gelido e profondo.

Che fare? Difficile dirlo, naturalmente. Ma forse è giunto il tempo di smettere di temporeggiare e di accettare le sfide proposte. A cominciare da quella lanciata da Vendola, che sembra rappresentare un po’ il cuore delle tre questioni fin qui proposte. Bersani, dunque, abbandoni burocratismi e divagazioni, chiami a raccolta gli iscritti e gli elettori del centrosinistra e accetti la sfida delle primarie, che - decidendo del candidato premier - potranno quasi naturalmente sciogliere i nodi delle alleanze politiche da ricercare, della natura del Pd e perfino del suo essere o non essere «troppo di sinistra». E’ una sfida che Bersani può vincere. Del resto, se fosse battuto, nessuno potrebbe immaginare di cavarsela dicendo «ha perso Bersani»: a perdere, infatti, sarebbe l’idea stessa di Partito democratico e non certo solo il suo segretario. E’ una sfida rischiosa, è vero. Ma appare sempre più evidente che ancora più rischioso è restar fermi o continuare a tergiversare.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Via libera condizionato al legittimo impedimento
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2010, 05:00:05 pm
Politica

27/12/2010 - IL RETROSCENA

Via libera condizionato al legittimo impedimento

Consulta, proposta del relatore sullo stop ai processi del premier

FEDERICO GEREMICCA

ROMA
Nemmeno i termini tecnico-giuridici, stavolta, riescono ad attutire la portata della notizia. Che è la seguente: con «sentenza interpretativa di rigetto», la Corte Costituzionale si accingerebbe a respingere il ricorso proposto dal pm milanese De Pasquale circa la costituzionalità della legge sul legittimo impedimento. Questa, almeno, è la soluzione che il giudice relatore del caso (Sabino Cassese) proporrà agli altri membri della Corte, che torneranno a riunirsi per la sentenza l’11 o il 12 gennaio.

La relazione istruttoria di Cassese dovrebbe essere già da qualche giorno a disposizione di tutti i membri della Corte, che la studieranno e ne discuteranno prima di dar via libera ad un verdetto dal cui tenore - secondo molti - dipenderebbero addirittura le sorti della legislatura. Ma che vuol dire «sentenza interpretativa di rigetto»? E qual'è - nella sostanza - il parere che la Corte Costituzionale starebbe maturando sul legittimo impedimento? Proviamo a spiegare nella maniera più semplice possibile l’orientamento maturato dal relatore e, quindi, quel che la sentenza di gennaio dovrebbe affermare. Nella sostanza, il sottile confine che fa del legittimo impedimento una norma costituzionale oppure incostituzionale, sta tutto in una parola-chiave: automatismo.

Secondo il relatore, infatti, se si ritenesse (interpretasse) che l’essere ministro o presidente del Consiglio costituisse di per sé un legittimo impedimento a rispondere alla convocazione in tribunale da parte dei giudici, questo equiparerebbe di fatto lo «scudo» ad una vera e propria (e automatica) «immunità» che, in quanto tale, andrebbe disciplinata con legge costituzionale. Se, al contrario, la valutazione del legittimo impedimento invocato dall’imputato (in questo caso si parla di Berlusconi) venisse di volta in volta affidata al giudice di competenza, allora nulla osterebbe a che la materia fosse regolata (come è nel caso, appunto, del legittimo impedimento) con legge ordinaria. Ed è precisamente così, secondo la «sentenza interpretativa» che la Corte si accingerebbe ad emettere, che la legge andrebbe dunque intesa e, quindi, applicata.

L’orientamento del relatore - se confermato dal «plenum» della Corte - potrebbe sembrare il solito bizantinismo giuridico o, peggio ancora, somigliare ad una decisione pilatesca, che rigetta la patata bollente nel campo in cui litigano da anni Silvio Berlusconi e i magistrati che provano a processarlo. In realtà, è possibile anche un’altra interpretazione: e cioè che si tratti del tentativo da parte dei giudici della Corte di tenere assieme diritti e doveri fondamentali e costituzionalmente garantiti. In sostanza: da una parte salvaguardare il principio secondo il quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, e dall’altra il diritto-dovere dei membri dell’esecutivo a governare e ad assolvere le loro funzioni senza impedimenti e turbative. In realtà, stante il fatto che il legittimo impedimento è regolato con legge ordinaria, è apparso fin da subito evidente che la sua applicazione avrebbe richiesto serietà di comportamento da parte dei soggetti in causa. Serietà o - meglio ancora - quello spirito di «leale collaborazione» tra autorità politica e giudiziaria invocato dal presidente Napolitano all’atto della firma della legge, nella primavera scorsa. Uno spirito di collaborazione che dovrebbe evitare che il premier o i suoi ministri invochino un legittimo impedimento in ragione di impegni irrilevanti e rinviabili; e che, contemporaneamente, porti il giudice a riconoscere serenamente il diritto a ricorrervi, nei casi seri e comprovati.

Nulla a che vedere, insomma, con quanto accadde nel caso di Aldo Brancher che, nominato ministro, invocò subito il legittimo impedimento in quanto occupato a «organizzare il ministero»: e dovette intervenire il Quirinale per affermare che, visto che si trattava di un ministero senza portafoglio, Brancher non aveva un bel nulla da organizzare... Occorrerà attendere ancora un paio di settimane per vedere come finirà questa spinosissima questione e se la Corte farà propria in toto l’impostazione proposta dal relatore. Quel che invece è certo fin da ora, è che i giudici sono attesi da un lavoro tutt’altro che facile, sottoposti come sono da giorni agli attacchi preventivi del presidente del Consiglio e sul cui capo si vorrebbe addirittura far pendere la responsabilità di una crisi di governo o addirittura di elezioni anticipate nel caso di bocciatura del legittimo impedimento. In un Paese normale, l’interpretazione della legge che la Corte si accingerebbe a proporre e lo spirito di «leale collaborazione» invocato da Napolitano sarebbero del tutto inutili: perché scontati e dunque superflui. Ma sono anni che l’Italia appare quanto di più distante vi sia da un Paese normale. E non è detto, purtroppo, che l’avvio del 2011 - con tutto quel che rappresenta quest’anno celebrativo - faccia uscire il Paese da questa insopportabile anomalia, piuttosto che tenerlo prigioniero della guerriglia politico-giudiziaria che lo soffoca da ormai vent’anni...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il tramonto dei "duri" in politica
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2011, 04:38:20 pm
3/1/2011

Il tramonto dei "duri" in politica

FEDERICO GEREMICCA

L'anno appena concluso ha di fatto arenato la legislatura in un pantano che ancora pochi mesi fa era difficile perfino da immaginare. E invece la situazione - sul piano della stabilità politica, certo, ma non solo su questo - è quella che è. L’eredità che il 2010 lascia all’anno che comincia, insomma, è pesante: ma nella lunga crisi politica che ha preceduto i voti di fiducia e di sfiducia del 14 dicembre, almeno un paio di questioni sono emerse con la forza dell’evidenza. E non sarebbemale tenerne conto per cercare di correre finalmente ai ripari.

La prima è certamente il naufragio dell’idea che una politica spiccia e muscolare sia sempre meglio che confrontarsi per poi, se possibile, scendere a patti: o almeno provare a cercarli.Da settembre in poi (mese in cui la crisi ha iniziato ad avvelenarsi) non un solo canale di comunicazione è stato aperto, non una posizione politica è cambiata, nulla si è mosso: «colombe » ed ambasciatori di pace sono stati subito additati come potenziali traditori ed il risultato è stato il finale thrilling cui abbiamo assistito. Una cosa a metà tra il codice penale ed un’amara commedia all’italiana. Da farci un film.Titolo: Il Venduto.

Partiti tutti lancia in resta - i luogotenenti di Berlusconi e i fedelissimi di Fini - e convinti di spuntarla col mero uso del diktat e della forza, hanno finito col mercanteggiare un cambio di campo o il rispetto della fedeltà appena giurata.

Comunque lo si guardi, l’epilogo rappresenta una sconfitta per i più duri tra i duri, da La Russa e Cicchitto, da Bocchino a Gasparri, passando per i colpi da cecchino di Maroni e Calderoli, poche uscite ma tutte distruttive: una gioiosa macchina da guerra - si sarebbe detto qualche tempo fa - che ora si lecca le ferite, prova a riaggiustare i pezzi e fa i conti con quel che è rimasto e che il mercato ancora offre. Mercato in tutti i sensi, naturalmente.

E’ stato - anche - un passaggio terribile per Silvio Berlusconi, avviatosi in battaglia con fanfare e minacce, per poi concluderla - più modestamente - con promesse e blandizie: ma non è che gli altri leader, nelle stesse settimane, se la siano passata granché meglio. Anzi, mai come stavolta, forse, i limiti e le debolezze del «leaderismo all’italiana» sono apparsi nella loro impietosa evidenza. Della rabbia impotente di Silvio Berlusconi abbiamo detto. E che aggiungere dell’incedere via via più barcollante di Gianfranco Fini o delle sentenze sempre più oscure di Umberto Bossi, che ormai parla come la Sibilla cumana e come tale viene interpretato?

E’ una difficoltà - una debolezza - che ha riguardato tutti: Bersani, nel suo zigzagare contraddittorio, condizionato ora da Vendola e ora da D’Alema; Casini, impegnato prima di tutto a evitare altre scissioni ed emorragie, dopo quella (dolorosissima) in terra siciliana; Di Pietro, il più duro dei duri, costretto a scoprire i «traditori» proprio nella sua agguerritissima falange, ed ora oggetto di sberleffi e di contestazioni. Mai come stavolta si è avvertito che il «leaderismo all’italiana» sta forse esaurendo le sue ultime cartucce. Lo spettacolo non regge più: e il potere che segretari e presidenti hanno fondato su risorse economiche illimitate, sul potere di decidere con un cenno chi entra e chi esce dal Parlamento e perfino sul fatto di aver stampato il proprio nome sulle insegne del partito, va inesorabilmente consumandosi, come la cera di una candela.

E’ evidente da anni che il sistema avrebbe bisogno di una profonda risistemata; e senza andare troppo indietro nel tempo, lo dimostrano le ultime due legislature: quella di Prodi, naufragata dopo due anni, e la terza di Berlusconi, quella attuale, avviatasi alla deriva appena giunta al giro di boa. Ed è ugualmente chiaro che sarebbe stato anche simbolicamente significativo che alla riscrittura delle regole si riuscisse a metter mano proprio in questo 2011, 150˚ anniversario dell’unità d’Italia. Sperare non costa nulla, naturalmente, ma gli ultimatum di Bossi e Calderoli - puntuali come i botti di fine anno - non paiono un gran viatico. L’ipotesi più probabile - purtroppo - è che leader sempre più deboli e partiti senza più radici, finiranno per continuare a galleggiare sulle loro promesse: nuova legge elettorale, fine del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari, abolizione delle province... E’ una filastrocca che si potrebbe mandare a memoria: e che - questo è il timore - continueremo magari a recitare anche in questo anno, che doveva essere di orgoglio e di celebrazione...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ma l'opposizione è nel pantano
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 12:30:39 pm
19/1/2011

Ma l'opposizione è nel pantano

FEDERICO GEREMICCA

Qualcuno gli ha chiesto di sgombrare il campo «per evitare al Paese ulteriore discredito internazionale». Qualcun altro lo ha invitato al passo indietro «per il suo stesso bene e per poter difendersi meglio». E c’è perfino chi lo ha sollecitato ad abbandonare Palazzo Chigi «per restituire l’onore a tutte le donne italiane». E’ vero: in alcuni casi, più che brusche richieste di dimissioni, quelle rivolte al premier sono apparse invocazioni, quasi preghiere.

Ma i numeri in Parlamento sono quelli che sono, e alcuni recentissimi rovesci nelle aule di Camera e Senato - per di più - fanno sì che le mosse delle opposizioni siano improntate, in queste ore, a un atteggiamento che si potrebbe definire di «aggressiva prudenza».

Si può naturalmente sorridere, di fronte a questo. Ed è certamente lecito dissentire. Ma la forzata prudenza cui sono inchiodate le opposizioni ha radici lontane - e motivazioni recenti - che non sarebbe corretto ignorare. L’azione del Pd, del Terzo polo e delle altre forze che avversano il governo è infatti frenata e condizionata da un pantano psicologico, strategico e politico evidente ormai da tempo: quanto meno dalla primavera scorsa, stagione della inattesa rottura tra Berlusconi e Fini.

A pesare, tanto per cominciare, c’è un dato psicologico (e in parte naturalmente politico) difficile da rimuovere: e cioè la convinzione che Berlusconi non sia vulnerabile sul piano giudiziario, a maggior ragione se le vicende contestategli riguardano «comportamenti privati» (deprecabili finché si vuole). Lo hanno già dimostrato almeno un paio di campagne elettorali e anche il responso di sondaggi successivi all’esplodere del primo caso-Ruby, hanno confermato una sorta di «indifferenza etica» degli elettori rispetto allo «stile di vita» del presidente del Consiglio. Una indifferenza che può certo non piacere (e che dovrebbe, anzi, allarmare) ma della quale occorre necessariamente tener conto.

Un peso non minore hanno, poi, le difficoltà politiche che attraversano - nessuna esclusa - tutte le forze di opposizione. Il «duro» Di Pietro è alle prese con le crescenti fibrillazioni seguite al passaggio di un paio di suoi deputati alla maggioranza di governo; la triade Fini-Casini-Rutelli è nel pieno di un faticoso lavoro di costruzione del cosiddetto Terzo polo, insidiato quasi quotidianamente dal rischio di nuove defezioni di parlamentari; il Pd, infine, resta preda dei suoi difficili problemi interni, acuiti dal sotterraneo lavorio di Nichi Vendola che continua a erodere consensi. E come se non bastasse, sull’opposizione intera pesa ancora l’indimenticabile sconfitta nel voto parlamentare del 14 dicembre, con l’inattesa bocciatura delle mozioni di sfiducia al governo.

Infine, il grumo di questioni strategiche o di prospettiva, che hanno condizionato e tutt’ora condizionano il fronte delle opposizioni. Il «che fare dopo» è la ragione, in fondo, che non ha permesso a Pd, Terzo polo e Idv di raggiungere almeno una intesa temporanea su ipotetici governi tecnici o di responsabilità, nei mesi roventi della rottura tra Fini e Berlusconi. L’idea di sostenere insieme al presidente della Camera un simile esecutivo ha scosso e sconcertato la base del Pd quasi quanto l’ipotesi di ritrovarsi alleati in campagna elettorale con l’ex segretario del Msi (e si può ipotizzare che analoghi imbarazzi determinerebbe tra gli elettori di Fli). L’Udc di Casini, del resto, non ha problemi minori nel far digerire al proprio elettorato l’accordo con Fini da una parte e Rutelli dall’altra; e analogo discorso si potrebbe fare a proposito dei partiti di Vendola e Di Pietro e della prospettiva di patti e alleanze col Terzo polo.

E’ evidente che di fronte a tutto questo un’avventura elettorale in tempi ravvicinati (ammesso che le opposizioni potessero determinarla: e non possono, come abbiamo visto) sarebbe assai rischiosa. Di qui l’«aggressiva prudenza» di cui si diceva all’inizio. Le dimissioni di Berlusconi sono chieste «ma senza che questo significhi elezioni anticipate»: ci si affida al Presidente della Repubblica ed alla sua richiesta di fare chiarezza in fretta. Una linea - una pretesa - certo comprensibile, ma che sa troppo del famoso desiderio di avere la botte piena e la moglie ubriaca. In un momento, per di più, in cui di vino ce ne è davvero poco, e di mogli (di donne) è forse meglio non parlare...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Napolitano "sbigottito" dalla linea del Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:24:56 pm
Politica

20/01/2011 - RETROSCENA

Napolitano "sbigottito" dalla linea del Cavaliere

Irritazione al Quirinale: la stabilità non è un valore assoluto


FEDERICO GEREMICCA

Giorgio Napolitano non ci è rimasto di sasso solo perchè a quell’ora era a un concerto, e non ha dunque potuto apprendere in tempo reale le dichiarazioni rese dal presidente del Consiglio un paio d’ore dopo il loro faccia a faccia di martedì sera. Ma una volta informato, l’irritazione e soprattutto lo sbigottimento gli hanno rovinato la serata. Quasi non poteva credere a quel che i collaboratori gli riferivano. Infatti, aveva fatto precedere l’incontro con Silvio Berlusconi da una nota nella quale il Quirinale affermava, nella sostanza, due cose; la prima: il turbamento del Paese di fronte alle nuove accuse rivolte al premier; la seconda: che si facesse rapidamente chiarezza «nelle previste sedi giudiziarie». Solo che la risposta...

Al Quirinale tutto pensavano di potersi attendere ma non dichiarazioni di quel tenore. Il Paese è turbato? «Mi sto divertendo, sono assolutamente sereno», replicava Berlusconi. Sarebbe opportuno fare chiarezza di fronte ai giudici? «I miei avvocati mi hanno detto che non è logico che io vada». E prima durante e dopo, un non inedito rosario di accuse e contestazioni nei confronti dei magistrati (ripreso poi ieri, nel secondo videomessaggio in quattro giorni). Se l’avvio del nuovo casoRuby è questo, c’è da aspettarsi sicuramente il peggio...

La sorpresa del Quirinale era in qualche modo doppia, considerato il tenore dell’incontro tra i due presidenti. Certo, a confrontarsi erano «due mondi totalmente diversi, e forse inconciliabili», come annota uno dei collaboratori del capo dello Stato: ma i toni erano stati pacati, si era discusso a lungo del calendario delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia (in realtà il vero motivo del colloquio fissato da tempo) ed era stato proprio Berlusconi a tirare in ballo la questione dell’indagine milanese. Al capo dello Stato aveva garantito della sua totale estraneità ai fatti contestati, dichiarandosi indignato per le accuse e smanioso di dimostrare la propria innocenza rispetto alle accuse mosse. Se è così - aveva immaginato il presidente della Repubblica - allora troverà il modo di chiarire, magari recandosi dai giudici per fornire la propria versione dei fatti e difendersi dalle accuse. E invece...

E invece - questo è il timore che comincia ad aleggiare nelle stanze del Quirinale - forse c’è un equivoco da chiarire: e l’equivoco potrebbe riguardare i ripetuti appelli alla stabilità rivolti ormai da molte settimane dal capo dello Stato a tutte le forze politiche, e a quelle di maggioranza in primo luogo. «Che il presidente della Repubblica, per l’ufficio che ricopre e per la difficile situazione che il Paese sta attraversando, sia per la stabilità - chiarisce una fonte - non vuol dire che sia per la stabilità purchessia». Affermazione non difficile da decifrare. Se le condizioni per la tenuta dell’esecutivo e della maggioranza ci sono, bene; ma se non ci sono, vanno costruite: a partire - nel caso in questione - dalla necessità di fare chiarezza nelle sedi proprie, così da fugare le pesanti ombre che gravano sul premier.

E’ possibile, insomma - si ragiona al Quirinale - che qualcuno (Berlusconi, in questo caso) abbia confuso l’impegno del capo dello Stato per la prosecuzione della legislatura (se possibile) con la disponibilità del Colle ad accettare, se non coprire, qualunque scelta o decisione del presidente del Consiglio. E’ una sensazione che forse aveva sfiorato il presidente della Repubblica anche nella parte finale del colloquio avuto con Berlusconi martedì sera. Infatti, sollecitato a dire la propria, il premier non aveva in alcun modo spiegato come intendesse contribuire a fare quella chiarezza da lui stesso invocava...

La risposta, purtroppo, è arrivata una paio di ore dopo, e poi è stata ulteriormente inasprita con il videomessaggio di ieri sera: guerra aperta ai giudici e accuse alla magistratura di voler sovvertire l’esito del voto. E’ una linea - si ragiona - con la quale non si va lontano. Anche perchè l’idea di un presidente disposto a barattare la stabilità con comportamenti ai limiti - quando non oltre - della Costituzione, è un’idea sbagliata. Un equivoco, forse. Che magari è giunto il momento di chiarire...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il rischio-caos che minaccia il Paese
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2011, 11:29:50 am
28/1/2011

Il rischio-caos che minaccia il Paese


FEDERICO GEREMICCA

Un cumulo di macerie fumanti, circondate da miasmi venefici, mentre fango e melma ricoprono quel che non è stato ancora distrutto del tutto. Come se un terremoto si fosse abbattuto sulle istituzioni repubblicane, ecco quel che si osservava ieri, alle otto della sera, di uno dei giorni più neri che la Repubblica ricordi: un panorama sudamericano. In una sorta di resa dei conti finale, infatti, in questa guerra autodistruttrice di tutti contro tutti, non una istituzione - e non un uomo che la rappresenti - ha mantenuto intatto il prestigio e il decoro che dovrebbero legittimarla. Così, non è un caso se dall’alto del Colle del Quirinale - unico e preoccupato riferimento in questi giorni di convulsioni - filtri una sola e allarmata considerazione: «Una situazione ingestibile».

I giornali che stampano in prima pagina l’ennesima slavina di ricatti, bugie e miserie intorno alle notti e alle frequentazioni del presidente del Consiglio sono solo la premessa al peggio che sta per arrivare. E il peggio è presto raccontato, in una sequenza impietosa che mostra - soprattutto - come il senso di ogni limite sia stato superato, in una sorta di occhio per occhio dal quale non si salva più nessuno.

Si comincia al Senato, dove il ministro Frattini, rispondendo ad una interrogazione, produce in aula documenti provenienti dall’isola di Santa Lucia (già noti e giunti alla Farnesina oltre un mese fa) che proverebbero come la ormai famosissima casa di Montecarlo sarebbe di Giancarlo Tulliani, cognato del presidente Fini.

Le conseguenze della mossa - prevedibili e aspre - sono immediate: il partito di Berlusconi e la Lega di Bossi chiedono, con parole durissime, le dimissioni del presidente della Camera. Le opposizioni, al contrario, attaccano il presidente del Senato per aver permesso un simile dibattito e chiedono che si dimetta. Come se non bastasse, un elettore di Fli (il neo-partito di Fini) denuncia il ministro degli Esteri per abuso d’ufficio: lo annuncia in conferenza stampa il capogruppo Fli alla Camera, Bocchino, accusando il capo del governo di dossieraggio e spiegando che Frattini dovrà presto presentarsi di fronte al Tribunale dei ministri.

Intanto, miasmi e veleni irrompono in altri organismi parlamentari. La giunta per le autorizzazioni a procedere vota a maggioranza il rinvio a Milano di tutti gli atti spediti a Roma dalla procura meneghina e riguardanti l’inchiesta su Silvio Berlusconi. Viene eccepita la competenza della magistratura milanese: volano parole grosse, in attesa che sia ora l’aula di Montecitorio a dire l’ultima parola. Contemporaneamente, il terremoto investe anche il Copasir, l’organismo di controllo sui servizi di sicurezza presieduto da Massimo D’Alema. Nel pomeriggio era programmata l’audizione del sottosegretario Letta: Lega e Pdl, contestando con parole durissime tempi e procedure, abbandonano i lavori annunciando che non parteciperanno più ad alcuna riunione dell’organismo. Di fatto, è la paralisi.

Riassumendo. La maggioranza di governo torna a chiedere con accuse gravissime le dimissioni del presidente della Camera; le opposizioni contestano apertamente il comportamento del presidente del Senato, e ne sollecitano le dimissioni. Il ministro degli Esteri - rappresentante dell’Italia nel mondo - viene denunciato per abuso d’ufficio. Il Copasir - comitato dalle funzioni delicatissime - è messo nelle condizioni di non poter più operare. Inoltre, e per gradire, cascate di insulti investono la procura della Repubblica di Milano, una mail di minacce raggiunge il presidente dell’Anm, Palamara, e la giornata si conclude con risse dai toni inaccettabili in questo o quel talk show televisivo.

Il crollo generale del senso di responsabilità è evidente. Qualunque forma di rispetto verso le istituzioni e i loro rappresentanti è ormai venuta meno. E l’esempio - il messaggio - che dai palazzi romani raggiunge i cittadini e il Paese, è devastante. In tutto questo, il presidente del Consiglio - semisommerso da elementi fattuali e intercettazioni inequivoche e mortificanti - continua a rifiutare qualunque tipo di contraddittorio e di confronto circa le vicende che lo riguardano. Non un’ammissione, naturalmente: ma nemmeno giustificazioni, spiegazioni, mezze autocritiche che almeno provino a confortare i suoi elettori, ormai assai più che turbati. E’ un crepuscolo terribile, quello che accompagna l’ormai inevitabile fine della legislatura. Forse perfino più terribile di quello che accompagnò il crollo di Bettino Craxi, di Arnaldo Forlani e della mai rimpianta Prima Repubblica...

da lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La palude è peggio del voto
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2011, 11:07:52 am
9/2/2011

La palude è peggio del voto

FEDERICO GEREMICCA

C’è qualcosa di peggio delle elezioni anticipate nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia e con l’economia in una situazione di profondo rosso? Forse sì, qualcosa di peggio c’è. E lo ha testimoniato - in fondo - perfino la giornata di ieri, una giornata «politicamente tranquilla» che il presidente del Consiglio ha però impegnato quasi interamente in interminabili riunioni col suo più sperimentato gabinetto di crisi: il ministro di Grazia e Giustizia e i suoi avvocati Ghedini e Longo (ai quali si è poi aggiunto a sorpresa uno dei legali della prima ora del premier, l’onorevole Gaetano Pecorella: a testimonianza, forse, dell’ora grave).

Il peggio, rispetto a elezioni anticipate, è la stagnazione, la palude, un governo inerte che annaspa e lentamente sprofonda nelle sabbie mobili. E’ un rischio che - da Emma Marcegaglia alle opposizioni più responsabili, fino a ogni statistica sullo stato del Paese - hanno segnalato in molti. Ed è un pericolo che, a onor del vero, lo stesso Berlusconi ha denunciato fino a non troppo tempo fa: «O abbiamo i numeri per governare e fare le riforme, oppure è meglio andare al voto».

Con la nascita del gruppo dei cosiddetti «responsabili», ora l’esecutivo i numeri li ha: ma non si sono osservate svolte, a riprova del fatto che in politica i numeri sono certo necessari, ma non sempre sufficienti. Un paio di accelerazioni, in verità, nelle ultime 24 ore ci sono state: ma non riguardano l’azione di governo sul fronte delle emergenze da affrontare e sono accelerazioni - entrambe - che non paiono promettere nulla di buono. La prima ha riguardato il cosiddetto «processo breve», rimesso in calendario e all’ordine del giorno in tutta fretta per la prossima settimana; la seconda ha per obiettivo un riequilibrio dei rapporti numerici tra maggioranza e opposizioni in molte commissioni parlamentari: a cominciare, naturalmente, dalla Bicamerale che ha in esame i decreti attuativi del federalismo.

Si dice che le due decisioni siano il frutto di un accordo - ma più correttamente sarebbe meglio dire di un baratto - tra il presidente del Consiglio e l’ultimo degli alleati rimastigli, Umberto Bossi: a te quello che è necessario per accelerare il varo del federalismo, a me quel che occorre per fronteggiare l’offensiva giudiziaria (vecchia e nuova) di cui sono oggetto. Si tratta, in tutta evidenza, di due pessime notizie: la prima, infatti, riporta al centro del dibattito politico (e dei lavori parlamentari) una iniziativa legislativa che, oltre a non esser avvertita come urgente e di interesse generale nella situazione in cui si trova il Paese, tornerà a surriscaldare il clima politico oltre ogni misura e con le conseguenze immaginabili; la seconda, invece - il riequilibrio dei rapporti di forza, a cominciare dalla Bicamerale per il federalismo - pare confermare l’idea di voler procedere, anche su questo delicato terreno, a colpi di maggioranza, lasciando intravedere un nuovo muro contro muro dal quale - e i fatti lo hanno già dimostrato - il governo ha poco o nulla da guadagnare.

E’ certo che anche di questo il Presidente della Repubblica avvertirà il leader leghista, atteso oggi al Quirinale per un incontro «chiarificatore» chiesto dallo stesso Bossi. Napolitano ne aveva già parlato qualche giorno fa a Bergamo, culla leghista, ripetendo che scontri all’arma bianca non avrebbero affatto favorito una più rapida approvazione dei provvedimenti tanto attesi da Bossi. Per tutta risposta, dal Quirinale hanno dovuto osservare il muro contro muro nella Bicamerale e il successivo, maldestro tentativo del governo di varare comunque il decreto legislativo, non controfirmato dal Capo dello Stato.

Non sappiamo se Napolitano riuscirà a persuadere Bossi dell’insensatezza di un agire «muscolare» non sostenuto - per di più - dagli ampi consensi necessari. Sappiamo invece - per cronaca più o meno recente - quali saranno le conseguenze del combinato disposto delle due scelte sulle quali il governo pare intenzionato a tirar dritto: clima d’inferno nella città della politica (e nel Paese), con conseguente paralisi di ogni altra attività che non siano, appunto, il processo breve e la composizione della Bicamerale. Il risultato? Un’altra fase di polemiche al vetriolo e di blocco dei lavori parlamentari, con conseguente stagnazione. Che davvero, al punto in cui è il Paese, rischia di esser peggio delle pur dannose - e da tutti temute - elezioni in primavera.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Lampedusa: calcio, caffè e una parvenza di normalità
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 04:52:07 pm
Cronache

16/02/2011 -

Lampedusa: calcio, caffè e una parvenza di normalità

Partita di calcio a Lampedusa tra Italiani e immigrati tunisini

I tunisini sbarcati organizzano partite e cortei al grido di "Viva l’Italia"


FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Le ultime dall’Isola oggi sono migliori delle ultime dall’Isola ieri. Nessun nuovo sbarco (ed è la seconda notte che fila via liscia); due aerei decollati e 200 immigrati, dunque, portati altrove (il che significa che a Lampedusa ne restano ancora intorno a duemila, liberi di scorazzare a piacimento); arrivati un po’ di rinforzi (carabinieri e militari dell’Esercito) subito sistemati a pattugliare i punti strategici e a far da deterrenza verso possibili mal intenzionati; corteo di un gruppo di giovani tunisini che hanno sfilato lungo il corso principale dietro uno striscione «Viva l’Italia, grazie Lampedusa»: una ruffianeria, forse. Ma con l’aria che tira quaggiù, anche una ruffianeria può servire.

La sfida
Memorabile quella tra i soldati italiani abbandonati su un’isola greca in «Mediterraneo». Meno memorabile, forse, ma vera e significativa quella svoltasi ieri pomeriggio sul campo di calcio nella zona del porto: Lampedusa-Tunisia. Si sono confrontate due squadre un po’ rabberciate, ma generose oltre ogni limite: l’unica rissa, per ora, la si è fiorata proprio lì. Partita sospesa a metà del secondo tempo (col Lampedusa in vantaggio...) a causa dell’arrivo di un gruppetto di carabinieri che pretendevano addirittura di riportare la squadra ospite nel centro di accoglienza. Hanno protestato prima di tutto i calciatori lampedusani. Ma non c’è stato niente da fare. In più, stava calando il sole ed era quasi pronta la cena...

L’invalido
Si chiama Tarek e tra gli sbarcati sull’Isola è quello che ha colpito di più per la sua condizione: poliomelitico, è su una sedia a rotelle da quando era bambino. In questi giorni lo hanno ripreso tutti i fotografi e le tv. Gli abbiamo parlato l’altro ieri, per sentirne la storia e capire come era arrivato fin qui. «Grazie ai miei due fratelli minori, Hassan e Youssef, 15 e 17 anni. Sono loro che mi hanno caricato e scaricato dalla barca che ci ha portato qui. Non abbiamo più i genitori, a Tunisi è tutta una guerra tra bande e noi stiamo cercando di arrivare in Francia». Tarek è stato tra i primi, assieme ai due fratelli, ad esser trasferito in un centro d’accoglienza in Puglia. Ha 22 anni, E l’unica cosa che ci ha nascosto, è il lavoro che faceva a Tunisi per mantenere i fratelli minori: il borseggiatore nel mercato principale della città. Attività, diciamo così, per la quale ha scontato alcuni mesi di galera.

La sociologa
Silvana Lucà ha 52 anni, i capelli biondi raccolti sulla nuca e gestisce il Bar Mediterraneo su via Roma, proprio di fronte al vecchio Municipio. Per il lavoro che ha scelto di fare, nessuno lo direbbe: ma ha due lauree, in Scienze politiche e in sociologia. «Ho lavorato per anni a Milano, poi qualche anno fa ho rilevato questo bar essendo nata qui e avendo quest’isola nel cuore - dice -. Ho visto gli sbarchi passati, quelli terribili degli scafisti e dell’immigrazione clandestina. Stavolta è tutta un’altra storia. Questi fuggono davvero da una guerra civile, sono mediamente persone perbene, affollano il mio bar e pagano senza fare storie. I lampedusani all’inizio si sono spaventati, poi hanno capito. Hanno solo paura per le loro donne. Ma delle loro donne, e dei guai conseguenti, a questi migranti non importa nulla. E non importa nulla nemmeno dell’Italia: la maggior parte è diretta in Francia, qualcuno vuol raggiungere i parenti in Germania. Tra loro c’è gente colta, che sa quel che vuole e sa quel che fa».

L’imam
Tra i migranti sbarcati nottetempo sull’isola di Lampedusa, c’è anche un imam. E Simona Moscarelli, attivissima esponente dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ringrazia il cielo che ci sia. L’imam Al Sihary chiama i fedeli alle preghiere nell’ora stabilita e i volontari delle Ong presenti sull’Isola ne approfittano. «È l’unico momento in cui è possibile parlar loro mentre sono tutti assieme - spiega Simona - e noi naturalmente cogliamo l’occasione per spiegar loro cosa possono e cosa non possono fare. E come devono comportarsi per evitare che la situazione degeneri». Durante la preghiera l’imam impartisce ai fedeli indicazioni di comportamento. E invita loro a rispettare le regole imposte dagli italiani. «L’imam avrebbe potuto lasciare l’Isola tra i primi - racconta Simona - ma non ha voluto: dice che resterà qui, tra i suoi connazionali e fedeli, fino a quando non sarà tutto finito».

Il comandante
Il capitano De Tommaso è il comandante della stazione dei carabinieri di Lampedusa. E possiamo dire tranquillamente che si tratta di una persona eccezionale. Ha la pazienza e l’umanità di un carabiniere da film di Sordi o di De Sica. E non ha mai perso la calma nemmeno quando con i suoi soli trenta uomini ha dovuto fronteggiare migliaia di tunisini. «Io sono della scuola che la durezza non porta a niente: soprattutto se gli altri sono duemila e noi nemmeno trenta...», confessava l’altra sera alla fine dell’ennesima dura giornata. L’altroieri lo abbiamo sorpreso al telefono mentre sbraitava con uno degli albergatori dell’Isola. «Non mi far perdere la pazienza. Ti ho detto che arrivano sei carabinieri e che ho bisogno di due doppie e una tripla. Non fanno sette posti, scimunito! Nella tripla ci devono andare due marescialli e devono stare larghi. Se gli do una doppia come agli appuntati, s’incazzano. Per la miseria, te lo devo spiegare io che i carabinieri sono sempre carabinieri». In questo delirio che è l’avamposto di Lampedusa, vorremmo rivolgere i nostri complimenti al capitano De Tommaso. Non foss’altro che per l’irresistibile senso dell’ironia.

È soltanto qualche appunto, qualche cartolina da Lampedusa. Isolani e migranti hanno trovato un punto d’equilibrio e, per ora, la convivenza tiene. È evidente a tutti, però, che non può durare a lungo. Prima o poi i soldi dei tunisini finiranno, e allora addio cappuccini, arancine e shopping qui e là. Finiti i soldi, finita la vacanza. E allora chissà se torneranno in corteo dicendo «Viva l’Italia e forza Lampedusa»...

da - lastampa.it/cronache


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Mare calmo, l'incubo della Grande Invasione
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2011, 03:18:54 pm
Cronache

03/03/2011 - QUI LAMPEDUSA

Mare calmo, l'incubo della Grande Invasione

Dopo sette giorni di burrasca sbarcate in poche ore 800 persone

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Alla fine sono arrivati. Dopo una settimana di falsi allarmi e mare in burrasca, sono arrivati.
Sull’isola l’attesa si era fatta ansiogena, spasmodica, tesa.

Lontano di qui, invece - in Italia, cioè - è difficile dire... Sono arrivati - di notte, all’alba e poi durante l’intero giorno - e su Lampedusa si riaccendono i riflettori, che vento a raffiche da nord e nubi nere avevano oscurato per una settimana intera. Quasi cinquecento, spalmati lungo 24 ore, e almeno altri trecento (già intercettati al largo dell’Isola) che dovrebbero giungere a terra nella notte appena trascorsa, quella tra mercoledì e giovedì: niente male, come avanguardia della temuta, sbandierata e inevitabile Grande Invasione. Per l’Italia gli sbarchi di ieri sono come un avvertimento: ma anche una sorta di cartina di tornasole per quel che sta accadendo e - soprattutto - per quel che accadrà.

Appena il mare si è fatto abbordabile, sono arrivati in 500: ed è sembrato perfino un piano studiato a tavolino. Infatti, mentre le motovedette di Capitaneria e Finanza si concentravano sulla grande imbarcazione intercettata di notte e proveniente dalle coste tunisine (a bordo 347 migranti, tra i quali 4 donne), altre due barche più piccole eludevano ogni controllo e approdavano indisturbate prima sulla piccola Linosa e poi a Lampedusa. Sull’isola maggiore, all’alba, i carabinieri hanno bloccato 44 tunisini (tra i quali tre donne) che avevano toccato terra giusto vicino al cimitero: provavano a riscaldarsi un po’, strizzando i vestiti, dopo la notte trascorsa tra onde e maestrale. Su Linosa, invece, sono sbarcati in 22: quasi tutti giovanissimi, ma fiaccati dalla terribile traversata. Poi, nel pomeriggio e in serata, altri due sbarchi «minori»: e così, altri circa 70 migranti si sono sommati a quelli già giunti sull’Isola, facendo salire il numero a quasi 500 (in attesa dei 300 e oltre che approderanno in nottata). Numeri che è inutile commentare: e in un solo giorno di mare calmo.

Gli arrivi - che hanno rituffato l’Isola nell’emergenza, come poi vedremo - rappresentano prima di tutto la mezza conferma di qualcosa che era già assai più di un mezzo sospetto: e cioè che dall’altra parte del Mediterraneo le faccende non vanno affatto meglio, nonostante la caduta o l’agonia di rais e colonnelli. Dal punto di vista più strettamente italiano, invece, i cinquecento e più fuggisaschi sbarcati a Lampedusa in questo martedì di inizio marzo, materializzano un pezzo della grande domanda alla quale dovremmo dare una qualche risposta: li aspettavamo, e ora che sono arrivati, che facciamo?

A Lampedusa fanno quel che hanno fatto fino ad ora. Anzi: quel che fanno da almeno 10 anni. Li hanno accolti, li hanno sfamati e rifocillati, li hanno condotti nel centro di identificazione ed hanno perfino regalato loro tabacco e sigarette: così che i carabinieri italiani devono esser sembrati ai migranti tunisini quel che i soldati americani sembrarono a noi, mentre risalivano l’Italia alla fine della guerra. Solo che, proprio come allora, finite le sigarette son cominciati i guai: sovraffollamento, paura e nervosismo tra la popolazione: quasi 6mila anime stufe di aver l’onore di rappresentare nel mondo la faccia buona dell’Italia, tutta generosità, disponibilità e accoglienza...

Il fatto che nella stessa giornata di ieri si sia comunque riusciti a evacuare dall’Isola un paio di centinaia dei migranti che erano ospiti nel Centro, ha permesso alle autorità di provare a riproporre il cosiddetto «modello Lampedusa»: cioè, massima assistenza ai migranti, ma una volta dentro il Centro, cancelli chiusi e non si esce più. A conti fatti, tra arrivi e partenze, ieri sera nella struttura sistemata poco lontano dal centro del paese, c’erano poco meno di 500 fuggiaschi. A loro, tra la notte e l’alba di stamane, se ne sono aggiunti altri trecento o poco più: il che vuol dire che il Centro è già saturo, potendo accogliere tra le 800 e le 850 persone. Se oggi dovessero esserci altri sbarchi, la situazione tornerà esplosiva: e la prima cosa sarà che risulterà impossibile tenere i migranti chiusi nel Cie.

E così, lo spettacolo cui potrebbero assistere il paio di delegazioni in arrivo a Lampedusa - la prima della Regione Sicilia, la seconda della Lega, pare guidata dall’onorevole Borghezio - potrebbe dunque essere quello al quale gli abitanti sono ormai abituati: un’Isola per metà siciliana e per metà tunisina, con i migranti ai tavoli dei bar e ad affollare negozi per acquistare cibo, sigarette e ricariche telefoniche. Il malessere tra i lampedusani, dunque, comprensibilmente cresce: un giorno sì e l’altro pure si tengono assemblee infiammate dalle parole del noto ex generale dei carabinieri Antonio Pappalardo - ex capo dei Cocer e maestro di musica - nominato assessore a Lampedusa e in prima fila «contro gli immigrati che mettono in pericolo le nostre donne e ci rovinano il turismo».

Non è l’unica stranezza - l’unica destabilizzantestranezza - della quale in queste ore di tensione si farebbe volentieri a meno, qui sull’Isola. Singolari sono apparse, infatti, anche un paio di iniziative della Procura di Agrigento che ha pensato bene, prima, di incriminare seimila tunisini senza nome per avviare un’inchiesta contro gli scafisti; e poi di mettere sotto accusa il sindaco dell’Isola - che non è certo scevro da responsabilità - addirittuta per «istigazione all’odio razziale» - in ragione di una delibera contro i bivacchi per strada e l’accattonaggio .

Ieri mattina, riferendo al Parlamento, il ministro Maroni ha dato i numeri dei migranti sbarcati a Lampedusa: 6mila in due mesi. Vuol dire cento al giorno, al netto degli ultimi arrivi (che sembrano essere solo l’avvisaglia di quel che accadrà). È una situazione pesante. E se ha ragione il capo dello Stato a chuedere di evitare vittimismi e allarmismi, è altrettanto giusto che da quaggiù si chieda una qualche forma di intervento di fronte all’annunciatissima invasione. Un intervento che rassereni gli animi. E che eviti, prima di possibili incidenti, un niente affatto impossibile precipitare della situazione...

da - lastampa.it


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La fuga di Khaled, il doppio clandestino
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:27:03 pm
Cronache

05/03/2011 - LA STORIA

La fuga di Khaled, il doppio clandestino

Ha 12 anni, si è nascosto dentro un barcone che partiva per Lampedusa

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Questa è la storia di Khaled, il doppio clandestino. Ai soccorritori del Centro di identificazione di Lampedusa, ieri, ha raccontato di esser nato nel 1995: 16 anni, dunque, non ancora festeggiati. Invece ne avrà 12 o 13, questo ragazzino dai capelli scuri e mossi, gli occhi nerissimi, magro e bello in ogni lineamento. È arrivato a Lampedusa l’altro ieri, a bordo di una vecchia barca lunga 8 metri. Erano in trentadue, stipati e sbattuti dal mare mosso. Per cinque o sei ore, Khaled ha viaggiato sottobordo, in un spazio angusto, di fianco al motore, seminascosto tra vecchie cime bagnate. S’era imbarcato di nascosto dai suoi stessi compagni di fuga: e s’è mostrato loro, uscendo dal suo rifugio, solo quando ha pensato che era passato molto tempo, e che non avrebbero mai invertito la rotta per riportarlo a casa. Allora è sbucato fuori, infreddolito e affamato.

Questa storia ce la racconta, con emozione inevitabile, un giovane eritreo che è qui a Lampedusa per «Save the children»: parla lui con i migranti, raccoglie le loro storie, spiega come andranno da quel momento in poi le cose. Ha sentito da Khaled quel che ci racconta: storia vera perché altri migranti l’hanno confermata. E perché ci crede lui, Tarek, fuggiasco anni fa dall’Eritrea, abbordato una prima volta in mare e riportato nelle galere libiche, ma la seconda volta no, la seconda volta ce l’ha fatta. E ora racconta la storia di Khaled come fosse la sua. O come fosse una favola. Khaled viveva sull’isola di Kerkennah, Tunisia, ha un padre pescatore e una madre che pochi anni dopo averlo messo al mondo ha perso la ragione. Il padre pescatore si risposa, ma la matrigna non ama affatto Khaled, che vorrebbe continuare ad andare a scuola come i compagni, e questo sembra una perdita di tempo in una famiglia di pescatori.

Sembra soprattutto alla matrigna. Che convince il marito a portare Khaled in mare, che così aiuta in barca, impara il mestiere e la smette con la storia della scuola. La vita del ragazzino cambia, niente più libri ma pesanti reti da pesca, da gettare e ritirare tante volte al giorno. Tarek racconta che la prima cosa che lo ha colpito di Khaled, quando lo ha visto al Centro, sono state le mani gonfie, rosse e rovinate. Il ragazzino vorrebbe continuare ad andare a scuola: la mattina guarda i compagni e la faccia si fa triste. Vorrebbe anche una mamma, forse, invece che una matrigna tanto cattiva. Nelle favole tante cose succedono per caso: e anche in quella di Khaled è proprio per caso che una gli fa battere il cuore e venire un’idea. Origliando i discorsi di due pescatori, scopre che si sta preparando una barca per andare in Italia. L’Italia, quel paese ricco e bello che ogni tanto vede in televisione. Khaled vuole studiare, vuole scappare, forse vuole la mamma e non la matrigna: comunque la vita che lo attende a Kerkennah non la vuole più fare.

Bisogna fuggire, ma ci vuole un piano per fuggire. Prima di tutto sapere quando si parte e qual è la barca. Khaled origlia ancora, sull’isola ormai della fuga sanno in molti: e scopre facilmente quel che gli serve. Perché nel suo piano una cosa è chiara: poiché sulla barca della fuga ci saranno pescatori che conoscono il padre, lui sulla barca deve salirci di nascosto. Doppiamente clandestino, appunto. Ci si intrufola una prima volta di giorno, per ispezionarla e cercare un posto buono. Ci torna una notte, poche ore prima della partenza. Si rannicchia nel nascondiglio scelto. È buio, bagnato, freddo. Quando si accendono i motori è un rumore d’inferno. Poi il fumo, la puzza e le cime che gli inzuppano i vestiti. Khaled batte i denti, ma il tempo non passa mai.

Deve aspettare che la barca si allontani molto dall’isola, deve essere sicuro di essere così lontano che a quelli non passerà nemmeno per la testa di invertire la rotta, tornare indietro e riconsegnarlo al padre. Perde un po’ l’idea del tempo, ma poi decide di venir fuori, gelato, spaventato, affamato. I migranti sono stupefatti, qualcuno ride, qualcun altro si rabbuia. Ma non succede quello che Khaled temeva, nessuno lo rimprovera: gli passano un maglione perché si cambi e si riscaldi un po’. Dopo qualche ora ancorapassata a battere i denti e a dormire, l’Italia è in vista: e qui l’Italia si chiama Lampedusa. «La prima cosa che ha fatto quando lo abbiamo portato al centro è stato telefonare al padre per dirgli che era vivo ma non sarebbe tornato più - racconta Tarek, mentre un vento leggero gli agita i foltissimi capelli, inconfondibili qui sull’Isola -. È minorenne, non può essere espulso: andrà in una comunità, o forse in una casa famiglia. È un ragazzino furbo e straordinariamente intelligente, vuole imparare l’italiano e lavorare qui». Khaled parte stamane con la vecchia e lenta nave che unisce Lampedusa alla Sicilia. Ce l’ha fatta, e al primo colpo. Perché le favole, per esser belle, devono avere un lieto fine: proprio come fu ed è per Tarek, «immigrato clandestino» prima di lui...

da - lastampa.it/cronache


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Sulla pelle di Lampedusa
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2011, 12:08:43 pm
26/3/2011

Sulla pelle di Lampedusa

FEDERICO GEREMICCA

Fotogrammi che fanno il giro del mondo. Immortalano centinaia di uomini accampati con tende e fuochi su una collina come fossero apaches; fermano l’immagine di decine e decine di ragazzini tunisini che dormono per terra avvolti in giacche a vento e teli.

Fotografano l’isola di Lampedusa ridotta a pattumiera, migliaia di buste di plastica portate via dal vento, puzza ed escrementi ovunque, l’odore acre della creolina nei luoghi pubblici trasformati in dormitori. Tv francesi, tedesche, americane, canadesi... I cameramen si fregano le mani: come per Napoli e la monnezza. Non è una gran figura, a volerla dire con qualche ottimismo. E nei tinelli e nei salotti di Lione o di Los Angeles qualcuno, certo, si starà chiedendo com’è possibile che un civilissimo Paese occidentale, la settima od ottava potenza del mondo, una comunità di sessanta milioni di persone, insomma, non riesca ad accogliere (in maniera cristiana, verrebbe da dire...) poche migliaia di migranti. Se lo chiedono in mezza Europa. E forse sarebbe ora di cominciare a chiederselo anche da noi.

Dopo settimane e settimane di fatica e di obbedienza, se lo è chiesto - per esempio - Dino De Rubeis, sindaco dell’isola. E si è risposto. «Contro di noi c’è una strategia malefica», dice alla fine di una burrascosa assemblea con le mamme di Lampedusa: che si conclude con la decisione di chiudere a tempo indeterminato tutte le scuole dell’isola. «La tragedia di Lampedusa - continua - più grande è e meglio è. Serve a chiedere i soldi all’Europa. E magari a prendere un poco di voti al Nord perché, potranno dire, vedete che i tunisini li teniamo tutti a Lampedusa e al Sud?».

Di fronte a quel che accade qui ormai da settimane - i grovigli umani, i ragazzini tunisini con gli occhi sbarrati, la sporcizia, i rischi di infezione - e considerato il Paese in cui questo accade, non ci sono che due possibilità: o quel Paese è in mano a un governo di uomini inetti, oppure a un governo di cinici politicanti. Il sindaco di Lampedusa opta per la seconda delle due possibilità. Ed è difficile dargli torto. La tesi è: c’è una drammatizzazione dell’emergenza, un tanto peggio tanto meglio dal quale trarre tragica forza nel contenzioso con l’Europa e magari anche qualche vantaggio interno, sfruttando le immagini infernali di Lampedusa per passare alla linea dura, rimpatri, respingimenti e indiscriminate dichiarazioni di clandestinità. Solo che questa «strategia malefica» del tanto peggio tanto meglio - difficile da contestare di fronte a quel che si vede qui - si gioca tutta intera sulla pelle di Lampedusa. Che ieri, infatti, ha vissuto tre rivolte. Quella del pane, quella delle mamme e quella dei ragazzini arrivati dalla Tunisia.

La prima è divampata alle due del pomeriggio, quando sulla banchina della stazione marittima è arrivato il camion con il cibo per i migranti: pareva uno dei mezzi della nettezza urbana e aveva due ore di ritardo. Momenti di tensione, cibo rifiutato, urla, centinaia di tunisini che vengono giù dalla collina su cui sono accampati. Tre ore prima era stata la volta delle mamme: se vogliono la tragedia allora noi di tragedie ne vogliamo due, e poi vediamo che succede. Non intendono più mandare i bambini a scuola per le condizioni igieniche dell’isola e perché hanno paura. Propongono: chiudiamo le scuole, drammatizziamo. Il sindaco accetta. E poco dopo, tocca ai ragazzini tunisini stipati nei tre stanzoni dei locali puzzolenti della riserva marina: rifiutano il cibo perché è indecente. Guardiamo in una delle buste: fagioli bolliti di un colore indefinibile. Uno dei ragazzini si taglia le vene dei polsi perché non vuole più stare qui: è soccorso e medicato.

Nei bar dell’isola le tv trasmettono le immagini dei ministri Maroni e Frattini volati in Tunisia per cercare di convincere le nuove autorità di quel Paese ad arginare le partenze via mare. Stringono un accordo, sperano che sia rispettato: ma non si capisce quanto ci credano. Il fatto, forse, è che non si può puntare sempre sulla politica del piattino in mano: chiedere all’Europa che gli immigrati siano equamente spartiti tra i Paesi membri, e sentirsi rispondere - ovviamente - che una cosa così non si è mai vista; chiedere ai tunisini - che hanno ben altri problemi, a cominciare dalla pressione alle frontiere di terra - di fermare le partenze, sentendosi rispondere forse, e sapendo che per le autorità di quel Paese più gente va via e meglio è. Bisognerebbe metterci del proprio. Come ha tentato di fare ieri la nave San Marco.

Tonnellate di acciaio arrivate alle nove della mattina per portar via 500 migranti: e rimaste lì, alla fonda, fino a sera (e i tunisini, naturalmente, sulla banchina prima al sole e poi al freddo). Dal Viminale non sapevano dirle verso quale porto fare rotta. Tutti i centri di accoglienza sarebbero pieni. Alle sette della sera, infine, l’ordine: imbarcateli e portateli a Taranto. Tutti in una tendopoli dalle parti di Manduria. Che non sarà la Sicilia, certo, ma sempre Sud è...

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Nulla chiude "il rubinetto libico" che porta i migranti...
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2011, 04:55:13 pm
Cronache

28/03/2011 - REPORTAGE

Altri mille profughi E l’Italia alza le mani di fronte all’emergenza

Dalla costa del Paese di Gheddafi ora c'è da attendersi un fiume ininterrotto di nuovi arrivi

Nulla chiude "il rubinetto libico" che porta i migranti sull’isola

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Quasi un migliaio in 24 ore, e altri, molti altri in arrivo. Il primo barcone giunto l’altra notte - quello sul quale una donna eritrea ha messo al mondo un bambino bello e fortunato - era dunque solo l’avanguadia: il «rubinetto libico» è stato dunque aperto, e dalla coste del Paese di Gheddafi ora c'è da attendersi un fiume ininterrotto di nuovi arrivi. Il ministro Roberto Maroni lo aveva detto alcune settimane fa: 50mila, 100mila, 200mila, sarà un’invasione. Ma per fronteggiare l’ondata di etiopi, eritrei, sudanesi e ghanesi in arrivo dalla Libia, non si è trovato di meglio che continuare in una mortificante politica dello scaricabarile: l’Europa scarica sull’Italia, l'Italia scarica su Lampedusa e Lampedusa, da ieri, scarica su Linosa - poco più che uno scoglio in mezzo al mare - cui toccherà ospitare il flusso libico.

Non che tutto questo significhi, purtroppo, che - contemporaneamente - si siano fermati gli sbarchi dei migranti tunisini. Ieri, in poche ore, sono giunti sull’isola altri 500 fuggiaschi. E a sera era atteso a Lampedusa un altro barcone dal carico macabro. Su un’isola che ha imparato a soprannominare zone e personaggi di questa interminabile tragedia - la «collina della vergogna», il «centro dei disperati», la «base di donne e bambini» - il barcone è subito diventato la «barca della morte»: a bordo, infatti, vi sono i cadaveri di due migranti deceduti durante la traversata. Magari anche la piccolissima Linosa meriterà un qualche soprannome: ieri, infatti, una donna eritrea ha dato alla luce un bambino morto per scarsa assistenza un paio di ore dopo.

Si fa fatica a scriverlo: ma di fronte a quanto accade l’Italia sembra un Paese con le mani alzate, una nazione civile e sviluppata arresasi di fronte all’annunciata emergenza, un governo che va a tentoni, cambia strategia ogni 24 ore e sforna idee balzane con stupefacente continuità. Ieri è toccato al presidente siciliano, Lombardo, venire finalmente qui a dire la sua: «Perché non pensare a traghetti e navi da crociera qui, davanti all’isola, per ospitare i migranti e alleggerire la morsa su Lampedusa?». E perché, allora, non requisire alberghi e case private? Oppure pensare ai treni in disuso? La sensazione - che qui è assai più che un’ipotesi - è che si proceda a fari spenti. Nulla ci sarebbe da dire di difficoltà di fronte ad eventi improvvisi e imprevisti: ma è due mesi che sull’Isola si va avanti così e la gente è stufa di sentire ogni volta una storiella diversa.

Diciamo, allora, della contabilità: che può sembrare una faccenda burocratica ed è - invece - il miglior termometro della situazione. Tra aerei (tre voli speciali) e navi (un traghetto della Grimaldi) ieri hanno lasciato Lampedusa - diretti in Sicilia e in Puglia - quasi 1.100 emigrati tunisini. Cinquecento tra eritrei, ghanesi ed etiopi sono stati portati via da Linosa con la «Palladium», la nave che collega Lampedusa ad Agrigento. Tanti vanno via ma tanti altri - spesso di più - arrivano. Ieri all’alba Antonino Grimaudo, comandante di un peschereccio di Mazara, ha soccorso 300 fuggiaschi provenienti dalla Libia e poi dato l’allarme alla Capitaneria di Lampedusa: «Erano stremati - dice - bevevano acqua di mare. A bordo la grande maggioranza era composta da donne».

Il rumore degli elicotteri in perlustrazione e degli aerei da ricognizione scandisce le ore delle giornate lampedusane e spesso si confonde con il sibilo dei caccia da guerra che sorvolano l’isola. Non c'è corpo - dai Carabinieri alla Guardia di Finanza, dalla Capitaneria di porto alla Polizia - che non abbia a Lampedusa propri uomini ormai disintegrati da una fatica che non ammette soste. Nemmeno di notte. Dice Laura Boldrini, portavoce dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati politici: «Non c’è nulla di quanto sta accadendo che non fosse in qualche modo prevedibile. Del possibile arrivo dalla Libia di una marea di profughi aveva parlato il nostro stesso governo settimane fa. Si è evocata la parola invasione: e dalle notizie che noi abbiamo, il momento potrebbe essere arrivato. Solo che ci siamo fatti trovare impreparati. E invece il modello Lampedusa deve riprendere a funzionare a pieno ritmo: qui accoglienza, identificazione e poi via tutti verso altri centri in Italia. Con l’avvio del flusso dalla Libia, l'isola non può restare occupata da migliaia di tunisini».

E invece così è. Nessuna delle iniziative propagandate è al momento a regime: non lo sbandierato centro di Mineo, non il piano concordato tra governo e regioni italiane. E sull’altare di questa inefficienza, Lampedusa continua a pagare un prezzo altissimo. L'avvio della stagione turistica, previsto per Pasqua, è già certamente compromesso; e sulla stagione estiva, nessuno è disposto a scommettere una lira. Le immagini dell’isola fanno il giro d’Italia e del mondo: sporcizia ovunque, tunisini che dormono in grotte, dentro a barche e sulle spiagge. Buste di plastica che il vento ha seminato ovunque o affondato in mare. Difficile immaginare che a qualcuno possa saltare in testa di venire a trascorrere le vacanze in un inferno così...

da - lastampa.it/cronache/sezioni


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Prima di ripartire incontro con le mamme e gli albergatori
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2011, 06:05:04 pm
Politica

31/03/2011 - UN SOGNO AD OCCHI APERTI

"Speriamo che ci aiuti, vogliamo diventare come la Sardegna"

Promesse: Rimboschimento, campo da golf, esenzioni fiscali, casinò e nuova scuola.

Prima di ripartire incontro con le mamme e gli albergatori

In serata lo choc: affonda barcone, per i superstiti ci sono 11 morti

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Alla fine di questa giornata che ha trasformato l’Isola in una specie di Disneyland - con casinò, case colorate, nuove scuole e niente tasse per tutti - alla fine di questo sogno ad occhi aperti, i lampedusani dicono che l’unica buona notizia, in verità, è che «Berlusconi s’è comprato una villa qua». L’ha vista su Internet, nella notte tra martedì e mercoledì, e l’ha presa senza nemmeno visitarla. Un milione e mezzo di euro, pare. Quasi completamente abusiva, pare. «Ma se l’ha comprata - dice Antonio, il titolare di uno dei più noti albergo-ristorante dell’isola - magari si occuperà davvero di questo posto. Come ha fatto in Sardegna...».

Ma questa è la fine, la considerazione conclusiva di una giornata tesa e nervosa, che l'isola ha vissuto con sentimenti contrastanti (applaudire o fischiare? Credere o non credere?) e Berlusconi al solito modo suo: aneddoti e battute, ironie e stilettate. Come fosse a Roma: mentre invece era circondato da 12 mila disperati - per metà tunisini e per metà lampedusani - che da cinquanta giorni vivono in una puzzolente pattumiera. «Svuoteremo quest’isola in 48-60 ore» ha annunciato subito, parlando da una gradinata davanti al Comune, dopo che il sindaco di Lampedusa aveva tentato di arginare le contestazioni. «E basta con quei minchia di striscioni, con i razzetti e le botte: è il momento di ascoltare, non di contestare, altrimenti chiudo tutto e me ne vado a casa».

E ascoltare Berlusconi è stato un piacere, come sempre. Perché non solo ha annunciato il «piano di liberazione» di Lampedusa (sei navi, ma a ieri erano solo tre, per trasferire altrove tutti gli immigrati) ma ha spinto l’acceleratore sul futuro dell’isola: che lui vorrebbe diventasse come Portofino. «Sorvolandola ho visto un certo degrado del verde e dei colori - ha detto parlando davanti al Comune, tra il governatore Lombardo e il sindaco di Lampedusa -. Interverremo anche su questo». Naturalmente qui si pensa che sarebbe meglio intervenire prima per riportare l'isola in una situazione da Paese occidentale: «Ma come si fa a fischiarlo - dice l'ex sindaco Martello - quando promette gasolio gratis per i pescatori, programmi su Rai e Mediaset per rilanciare l’immagine di Lampedusa, la creazione di una zona franca, la costruzione di fogne e la sistemazione di tutte le strade?».

L'elenco delle cose promesse agli isolani - al di là del «piano di liberazione» - è impressionante, perfino eccessivo, visto che qui chiedevano solo di poter tornare a camminare per le strade in sicurezza e senza rischiare infezioni e malattie. Proviamo a riassumere, ma qualcosa certo ci sfuggirà: rimboschimento, ritinteggiatura delle case, un casinò, un campo da golf, esenzioni fiscali, bancarie (mutui) e previdenziali, l’istituzione di una zona franca, una semplificazione di ogni procedura detta «burocrazia zero», gasolio a prezzi ridotti per i pescatori e perfino gratis per i primi giorni, una nuova scuola, fogne ovunque, il potenziamento dell'ospedale che è semichiuso, programmi tv per pubblicizzare l’isola nel mondo. E dulcis in fundo: «Visto quello che ha sopportato, il governo candiderà Lampedusa al premio Nobel per la pace...». Addirittura.

I lampedusani che stavano ad ascoltarlo si sono stropicciati gli occhi. Qualcuno ha abbozzato un sorrisetto ironico. Lo stesso presidente del Consiglio deve aver avuto il sospetto di aver esagerato, e allora ha detto: «Ieri notte mi chiedevo: come fare affinché mi credano? E allora ho pensato: mi compro una casa a Lampedusa, divento isolano anch’io. Sono andato su Internet, ne ho trovato una bellissima e l'ho presa. E vi dico questo: la casa è qui e se non manterrò le promesse, siete autorizzati ad imbrattarla». Berlusconi è andato a vederla subito dopo aver fatto un rapido giro (in auto e con i finestrini chiusi) sulla banchina del porto e vicino alla maleodorante «collina della vergogna», dove migliaia di tunisini sopravvivono da settimane accampati in tende di stracci e plastica come una tribù indiana.

Nel pomeriggio, prima di ripartire, ha incontrato nei locali del Comando dell'aviazione militare, rappresentanti delle Ong presenti sull’isola, il comitato delle mamme in lotta e gli albergatori. A tutti, senza peli sulla lingua, ha ripetuto che l’isola è brutta e ridotta in condizioni da far pena. Qui molti, in verità, se ne erano già accorti. La conferenza (assai veloce: il premier era atteso a Roma per una festa a Villa Miani in onore del governatore Polverini) gli ha dato l’occasione di maltrattare un paio di giornalisti che si erano permessi di chiedere se, per caso, questa tournée sull’isola non servisse a distogliere l’attenzione dalle polemiche sul processo breve. Apriti cielo, naturalmente.

Silvio Berlusconi è volato via - seguito dal governatore siciliano, onestamente perplesso - poco dopo le sei del pomeriggio. Agli isolani e ai giornalisti è toccato tornare con i piedi per terra. L'isola era uguale a prima. Via Roma piena di tunisini; la «collina della vergogna» sempre lì; e sempre lì anche le navi per portar via gli immigrati, ancora vuote in rada. Le prime operazioni di imbarco sono cominciate a tarda sera. Bisogna accelerare, perché 48-60 ore non sono poi tante. In più, a sera fatta, una motovedetta della Capitaneria entrava in porto con sei nuovi clandestini a bordo. Solo sei, ma sul gommone, raccontano, erano partiti in diciassette. Undici sarebbero morti in mare: tra loro c’era un bambino. Lampedusa si rimbocca le maniche e ricomincia a piangere.

da - lastampa.it/politica/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - "L'isola è svuotata".
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2011, 04:42:10 pm
Politica

10/04/2011 - REPORTAGE

Il Cavaliere soddisfatto festa al bar con i cannoli

"L'isola è svuotata".

Resta la candidatura al Nobel, saltano casinò e campi da golf

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Un cannolo. Un po’ di paste di mandorla. E un tè caldo, nonostante il sole già arroventato. Sono le tre e mezza del pomeriggio, e Silvio Berlusconi se ne sta tranquillamente seduto a un tavolino del bar dell’Amicizia, il più frequentato dell’isola. Certo, deve sorbirsi la recita dell’ennesima poesia («Il vento e la zappa») del vecchio don Pino, proprietario del locale. Ma l’umore è buono: e poi ha potuto appena fare i complimenti a Giorgia, una delle bariste, che - capelli biondi e occhi azzurri - è stata per settimane l’attrazione di centinaia di migranti tunisini. Al tavolo con lui, tra Prefetti e comandanti di ogni arma, anche la bella Gabriella Giammanco, deputata pdl, forse sull’isola in missione di piacere.

Del resto, la visita è stata un piacere anche per il presidente del Consiglio, tornato sull’isola e fiero di poter registrare che la più importante delle promesse fatte ai lampedusani nel suo viaggio precedente, sia stata mantenuta: tunisini in giro non se ne vedono più, gli ultimi arrivati - assieme a oltre 500 migranti del centro Africa provenienti dalla Libia - sono stati sistemati tra il centro di identificazione e la base Loran e sono già in via di trasferimento. Dopo quasi due mesi di emergenza acutissima - con migranti, donne e bambini stipati praticamente ovunque o a zonzo per le strade di Lampedusa - l’isola insomma è svuotata: e Berlusconi incassa, orgoglioso, il risultato ottenuto.

Che in una settimana si sia riusciti a fare quel che non si era fatto nei due mesi precedenti può, naturalmente, prestarsi a critiche e malizie di ogni sorta. Ma più che impegnarsi in obiezioni retrospettive, conviene - forse guardare avanti: a quel che sarà, o a quel che potrebbe essere. Un po’ come accadde al tempo della monnezza di Napoli, infatti, anche qui a Lampedusa non è mai stata in discussione la possibilità tecnica, la capacità, di portar via dall’isola quattro o cinquemila migranti: il punto, a Napoli come qui, è sempre stato il dopo. Va bene, possiamo togliere la monnezza dalle strade o i tunisini da Lampedusa, ma poi dove li mettiamo? A Napoli si è punto e a capo precisamente perché il problema era e resta lo smaltimento dei rifiuti e il fatto che nessuno vuole nuove discariche o inceneritori; a Lampedusa, con i migranti, potrebbe accadere lo stesso, considerata la ritrosia delle Regioni ad accoglierli, l’assoluta indisponibilità di molti altri Paesi europei e il fatto che gli sbarchi siano ripresi appena il mare è tornato navigabile.

Silvio Berlusconi pare assolutamente consapevole del rischio, tanto che la conferenza stampa che ha tenuto nei locali della base dell’Aviazione militare non avuto i toni trionfalistici che pure era lecito attendersi. Il premier, anzi, non ha nascosto nessuna delle difficoltà sul tappeto: la posizione di Francia e Germania, il braccio di ferro con le Regioni, la difficoltà delle autorità tunisine a rispettare i patti sottoscritti e - soprattutto - il fatto che la guerra in Libia potrebbe davvero riversare nel nostro Paese (e a Lampedusa prima di tutto) decine e decine di fuggiaschi in cerca di asilo politico... Per ora, comunque, Berlusconi registra il successo della prima fase: «Il piano di liberazione di Lampedusa ha trovato attuazione», dice. Il resto verrà: la candidatura al Nobel, gli spot per il rilancio turistico dell’isola, gli accordi con l’Eni per il prezzo del gasolio, la defiscalizzazione di alcune attività, la zona franca (non ha più parlato, però, di casinò e campi da golf...).

Si vedrà. Per intanto ieri il premier ha deciso di dare un’occhiata un po’ più approfondita all’Isola. E’ tornato sulla collina della vergogna, quasi del tutto ripulita, ha girato in auto per le vie del centro, ma soprattutto si è fatto portare sul pianoro dal quale osservare la spiaggia dell’Isola dei conigli e la baia della Tabaccara. Naturalmente, essendo sempre senza soluzione il piccolo giallo della villa che il premier intenderebbe comprare qui a Lampedusa (ieri ha mostrato un contratto d’acquisto per «Villa Due palme», subordinato però ad alcune severe clausole) tra i giornalisti si è subito diffusa l’idea che Berlusconi fosse sceso sulla spiaggia dei conigli per vedere la famosa casa di Domenico Modugno (da qualche anni di proprietà di Valerio Baldini, alto dirigente di Mediolanum). Il premier non ha confermato questa ipotesi, però...

Però ad accoglierlo per la breve visita all’Isola dei conigli è stata Giusy Nicolini, direttrice della riserva naturale che comprende la piccola isola. Racconta: «Il presidente ha cominciato a parlare subito della villa. Che Baldini lo ha invitato più volte, che lui non è mai riuscito a venirci, che il posto è meraviglioso e che la casa anche... Ci si può arrivare via mare? mi ha chiesto. E d’estate quanta gente ci viene in spiaggia? E si può scendere fin giù con l’auto...? Insomma, un cortese interrogatorio. Se vuole comprarla non lo so - conclude Giusy Nicolini -. Che gli sia piaciuta da morire, invece, è sicuro. Del resto, sa, non è certo l’unico...».

da - lastampa.it/politica/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il silenzio del premier spinge il Colle ad intervenire
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2011, 04:52:09 pm
Politica

19/04/2011 - GIUSTIZIA- RETROSCENA

Il silenzio del premier spinge il Colle ad intervenire

Il Presidente ha aspettato invano per tre giorni una presa di distanza del Cavaliere

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Ha aspettato un giorno, poi due, poi tre. Ha sperato fino all’ultimo che, dopo la dissociazione di questo o quell’esponente della maggioranza di governo, «l’ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano» (parole del Quirinale) venisse finalmente stigmatizzata dallo stesso presidente del Consiglio. Alla fine, quando ha avuto chiaro che questo non sarebbe accaduto, la decisione: e stavolta non una nota di critica per i toni e i modi, non un generico invito alla moderazione e nemmeno un messaggio alle Camere oppure al Paese. Piuttosto, il passo più istituzionale possibile, un’iniziativa che coinvolgerà e rappresenterà tutte le istituzioni: comprese quelle che mai avrebbero voluto che il prossimo Giorno della Memoria (9 maggio) venisse dedicato alle vittime del terrorismo, magistrati in testa a tutti.

Attesa da molti e temuta da altrettanti, ecco - dunque - la mossa del Quirinale. Che il Capo dello Stato intervenisse di fronte all’ormai incontrollabile escalation polemica in materia di giustizia era inevitabile: più difficile - piuttosto - era scegliere modi e toni capaci di evitare che a scontro si aggiungesse scontro, con tutto quel che avrebbe potuto seguirne. Di qui la decisione di non scegliere la via dell’ennesimo richiamo esplicitamente diretto al capo del governo, a vantaggio di un’iniziativa dal profilo inequivocabilmente istituzionale: il Giorno della Memoria - celebrazione voluta tre anni fa proprio da Giorgio Napolitano - ricorderà i magistrati assassinati dal terrorismo. Già, proprio quei magistrati definiti brigatisti nell’«ignobile manifesto» milanese e pesantemente attaccati come «eversori» dallo stesso presidente del Consiglio (che non ha avuto remore nel parlare addirittura di «brigatismo giudiziario»).

In verità, la scelta della via da seguire non è stata semplicissima. Da una parte, infatti, era evidente la necessità di una scesa in campo del Quirinale in difesa della magistratura (dalla Corte Costituzionale fino al singolo pm) sottoposta ad attacchi di gravità crescente; dall’altra - e altrettanto evidente - vi era la necessità di non contribuire a un ulteriore surriscaldamento del clima: col rischio, addirittura, di agevolare il capo del governo in una strategia che, giorno dopo giorno, si va sempre più manifestando in tutta la sua chiarezza.

Non si tratta di una strategia inedita: l’attacco alle «toghe rosse» e l’indice puntato verso «i comunisti» sono praticamente un classico per Berlusconi alla vigilia di ogni campagna elettorale. Con l’importante voto amministrativo di maggio alle porte (Torino, Napoli, Bologna e soprattutto Milano) il leader del Pdl ha ricominciato a suonare lo stesso ed evidentemente noto spartito. Per il Quirinale, dunque, l’esigenza era doppia: difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura senza fornire altra «benzina polemica» al capo del governo, così da poter corroborare una linea tipo «sono tutti contro di me, giudici, Alta Corte, poteri forti e perfino il Presidente della Repubblica...». Il fatto che la mossa del Quirinale non potrà comunque non essere intesa anche come un richiamo severo alle più recenti sortite di Silvio Berlusconi lascia immaginare che essa non risulterà particolarmente indigesta al capo del governo. Anzi. Nonostante l’attenzione del Colle a scegliere con cura un’iniziativa (il Giorno della Memoria, appunto) che non si prestasse a letture inevitabilmente polemiche, è facile prevedere che proprio in questo senso sarà - invece - utilizzata dal presidente del Consiglio. In questo - bisogna riconoscerlo - Berlusconi continua a dimostrare una indubbia abilità tattica: tanto che per l’avversario politico la scelta, a volte, sembra essere tra il non reagire (rischiando di apparire arrendevole, se non peggio) o passare all’attacco, col rischio di enfatizzare ulteriormente ogni argomento propagandistico del Berlusconi versione campagna elettorale.

Ieri il premier ha taciuto. Nessuna replica né diretta né indiretta all’annuncio che il Quirinale intende dedicare il 9 maggio ai magistrati vittime del terrorismo. Non è escluso che qualche commento possa arrivare di qui ad allora. Ma è soprattutto un altro l’interrogativo che comincia a fare il giro dei «palazzi romani»: che farà Berlusconi il 9 maggio? Potrà partecipare a una celebrazione che suonerà oggettivamente critica nei suoi confronti? E potrà mai, al contrario, disertare una cerimonia in ricordo di magistrati che hanno dato la vita per il loro Paese? Un bel rebus. Alla cui soluzione, forse, Silvio Berlusconi ha cominciato a pensare già ieri sera...

da - lastampa.it/politica/sezioni/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - E a Napoli per Silvio più fischi che applausi
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2011, 11:05:53 am
Elezioni 2011

28/05/2011 - REPORTAGE

E a Napoli per Silvio più fischi che applausi


Il Cavaliere duetta con D'Alessio, promette di non acquistare Hamsik e assicura: niente crisi anche se perdo ai ballottaggi

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A NAPOLI

È vero, sì, va bene, ha scelto Napoli: però che delusione. E infatti avete mai visto Berlusconi rinunciare al solito «bagno di folla» tra il lungomare e piazza del Plebiscito? Oppure trattenersi dal salutare la gente con tanti ciao ciao mentre l’auto sfreccia (si fa per dire, trattandosi di Napoli...) per le vie del centro città? O addirittura - inedito tra gli inediti - entrare col folto seguito all’Hotel Vesuvio dal garage, cioè dalla porta di servizio? Sì, va bene, ha scelto Napoli: ma c’è qualcosa che non va. Come se tra la sua Milano e la Napoli che sembrava sua, Silvio Berlusconi avesse scelto il male minore. Una scelta quasi obbligata, insomma, compiuta con umore nero e tradottasi, alla fine, nel disastro dell’apparizione sul palco di piazza Plebiscito, accolto con qualche applauso, molti fischi e tanti spazi vuoti. Ha duettato con Gigi D’Alessio, ha promesso che non comprerà Hamsik, ma non ha convinto del tutto la piazza.

Del resto, la situazione è quella che è: sia sul piano politico che su quello dello stato della città. Le ultimissime rilevazioni continuano a dire di un De Magistris nei panni della lepre e Gianni Lettieri - un po’ a sorpresa - in quelli dell’inseguitore. Il clima si è notevolmente appesantito nelle ultime ore: scambi di accuse grevi intorno a voti comprati e venduti, annunci di ricorso alla magistratura, il comitato elettorale di Lettieri dato alle fiamme a Santa Lucia. E questo venerdì di fine maggio s’è anche incaricato di ricordare - a chi lo avesse dimenticato nella concitazione elettorale - che impresa sarà governare Napoli da lunedì in poi: un intero quartiere, quello di Chiaia, svegliato nella notte dal tritolo col quale il racket ha fatto saltare in aria il bar Guida, nell’elegante via dei Mille; e poi la morte in ospedale, dopo giorni di agonia, del turista americano scippato in via Marina, trascinato per terra e ridotto in fin di vita: un altro ottimo spot per la città, che ormai maledice, avvertendone la macabra ironia, il vecchio motto che recita «vedi Napoli e poi muori»...

Che la situazione sia tesa e il risultato assai incerto, se non perfino compromesso, lo si avvertiva con inedita nettezza ieri nella hall del Vesuvio, dove i maggiorenti del Pdl si sono riuniti in attesa del Cavaliere. Nessuna traccia del candidato sindaco («debole», secondo la sentenza di Berlusconi), organizzazione affidata al noto e discusso Cosentino, molta meno gente del solito e una «papi girl», Francesca Pascale, prima guardata con sospetto e poi indirizzata ai piani alti dell’albergo, dov’era stata bloccata una suite per Berlusconi. L’idea che il presidente del Consiglio limitasse il suo sostegno a Lettieri ad una comparsata e a qualche battuta durante il concerto di Gigi D’Alessio, è parsa a molti un pessimo segnale. Ma questo è stato il massimo concesso alla sua Napoli da Berlusconi: uno che - ed è questo quel che preoccupa i suoi fan, quaggiù - sa bene come, dove e quanto spendersi. Il premier ha confermato di avere allo studio un provvedimento per fermare l’abbattimento delle case abusive e ha escluso una crisi anche in caso di doppia sconfitta. Ma oltre non è andato.

Del resto non può essere considerata semplicemente una smargiassata la battuta con la quale Luigi De Magistris ha salutato l’arrivo di Berlusconi in città: «E’ venuto a sostenermi. Dirà di nuovo che i napoletani sono senza cervello se votano per me e i napoletani si vendicheranno votandogli contro». Può essere. Ma può anche essere che, alla fine, la voglia di cambiamento tout court prevalga, l’alternanza appaia la scelta migliore e Luigi De Magistris perda la sua sfida: che all'inizio - va comunque detto - sembrava più una provocazione che una cosa seria. A giudicare dal clima di ieri - che vale quel che vale, naturalmente - non pareva però questa l’aria che tira in città. E perfino i «concerti contrapposti» trasmettevano questa sensazione...

Nella grande piazza Plebiscito, folla per D’Alessio e Sal da Vinci. Però «tutta gente - si sentiva dire in giro - che a votare manco ci andrà». Sul lungomare, in un clima più festoso, bandiere e giovani per Arbore, Teresa de Sio e i 99 Posse. La sfida dei concerti, insomma, l’ha vinta il centrosinistra. Magari è un segnale. Anche se i più anziani tra i sostenitori di De Magistris, incrociando le dita, ricordavano il vecchio detto «piazze piene, urne vuote». Fosse ancora davvero così, si potrebbe serenamente dire che la corsa dell’ex pm è finita ieri sera, mentre il sole calava sul lungomare...

da - lastampa.it/focus/elezioni2011/articolo/lstp/404423/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA Sentimenti e rifiuti, il laboratorio politico di De Magistris
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 06:03:48 pm
Elezioni 2011

01/06/2011 - PERSONAGGIO

Sentimenti e rifiuti, il laboratorio politico di De Magistris

Napoli, l'ex pm: il voto mi ripaga delle amarezze del passato

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A NAPOLI

Quando uno ha per le mani una cosa che non sa ancora bene che cos’è; quando il vagheggiato «nuovo» si afferma travolgendo tutto, perfino al di là delle più ottimistiche speranze; e quando poi si deve far quadrare il cerchio tra tradizione e innovazione, e magari non si sa nemmeno da dove cominciare, ecco, quando ci si trova di fronte a tutto questo, lo si battezza «laboratorio politico», si prende tempo e poi si vedrà. Furono un «laboratorio politico» (finito come finito...) le giunte varate a Palermo da Leoluca Orlando a cavallo tra gli Anni ‘80 e ‘90; è senz’altro un «laboratorio politico» il cantiere aperto in Puglia, ormai da tempo, da Nichi Vendola; e quella del «laboratorio politico», appunto, è la via scelta per sè anche da Luigi De Magistris, il neo-sindaco a furor di popolo che ieri ha rivelato di non disprezzare, in via di principio, nemmeno l’appellativo di Masaniello... E che gli piaccia giocare al Masaniello, si è visto bene ieri, quando «’o giudice» si è presentato ai giornalisti per la sua prima, vera, distesa conferenza stampa da «padrone» della città.

Gli viene chiesto: signor sindaco, avrà rapporti con Cosentino, coordinatore regionale Pdl, sospettato di qualche contiguità con la camorra? «Per niente. Quel signore non ha cariche istituzionali. Non ho voglia di incontrarlo e non ho nessun obbligo a farlo». Teme ostruzionismi da Regione e Provincia, governate dalla destra? «Ostruzionismi? Non ho avuto segnali del genere, anzi. D’altra parte, bisogna stare attenti: il voto di Napoli è inequivoco e contiene indicazioni chiare. Chi fa politica lo ha capito e ne terrà conto anche nel suo interesse, ne sono certo...». E Berlusconi? «Devo ringraziarlo, veramente. Quello dei napoletani senza cervello se votavano me, è stato lo spot migliore della mia campagna elettorale. Gli avevo promesso una torta: la stiamo preparando. Stia tranquillo, il presidente, che gli arriverà...».

Forte sulle questioni nazionali e generali, allusivo quanto basta circa le sue ambizioni future, Luigi De Magistris non ha ancora granchè da dire sulla squadra che varerà e sulle sue priorità. «L’immondizia è la numero uno, certo. La prima delibera riguarderà la monnezza. La linea sarà quella della campagna elettorale: raccolta differenziata porta a porta, separare secco e umido, compostaggio e niente nuovo termovalorizzatore. E vedrete: convincerò il presidente della Regione a revocare il bando per costruirne uno a Napoli est». L’altra faccenda di cui occuparsi in fretta è la legalità: «C’è un problema urgente di sicurezza urbana. Non possiamo andare avanti a turisti scippati o addirittura uccisi, come l’americano di qualche giorno fa. Ho già sentito il questore. Qualche idea ce l’ho, ne parleremo...».

Essendo Napoli una bruttissima gatta da pelare ed essendo il lavoro di sindaco della città «forse l’impegno più difficile che ci sia in un momento così» (parole di Giorgio Napolitano), la postazione conquistata dal «Masaniello del Vomero» può somigliare, indifferentemente, a una splendida rampa di lancio o a un terribile patibolo. Che ha in testa De Magistris? Ha paura del fallimento o è pronto - come tanti sindaci e governatori prima di lui - a un poderoso ritorno sul palcoscenico romano? «’O giudice» non ha ancora le idee chiarissime. Quel che gli pare necessario - secondo l’abc del far politica - è però prender tempo e non spaventare nessuno. Quindi eccolo aggrapparsi al famoso «laboratorio»... «Le mie ambizioni, dite? Riuscire a mantenere gli impegni presi in campagna elettorale, governare per cinque anni e poi magari per altri cinque e non disperdere quella connessione sentimentale che si è creata con una parte così grande di questa città».

Tutto qui, signor sindaco? «Tutto qui? Mica è poco... Lunedì ho vissuto il giorno più bello della mia vita. Un giorno che mi ripaga di tante amarezze del passato». Se fosse tutto qui, perchè si è dimesso dal suo partito? «Ecco, vorrei chiarire... Io ero il responsabile del settore giustizia dell’Idv, e certo non è incarico cui posso ancora assolvere. Ma con Di Pietro, checchè se ne dica, i rapporti erano buoni prima e sono buoni adesso, solo che...». Solo che? «Niente. Ma io voglio lavorare a questo laboratorio politico che è diventata Napoli. Qui può nascere un nuovo centrosinistra, ne sono sicuro. Ma il mio impegno e la mia ambizione sono restare qua: lo dico davanti a tutti così che sia chiaro a tutti».

Il «Masaniello del Vomero», dunque, conosce e sa usare anche le parole della prudenza: faccenda che forse completa il profilo di un amministratore ormai leader politico e della quale converrà tener conto. L’uomo che i napoletani hanno scelto come «padrone» - alla stessa maniera e con lo stesso plebiscitario consenso che fu riservato ad Achille Lauro prima e a Valenzi e Bassolino poi - non è insomma liquidabile alla maniera di un becero giustizialista punto e basta. Può crescere e riservare sorprese, come accadde ai tempi del «governatore con l’orecchino» (Vendola) o più recentemente del «sindaco rottamatore» (Renzi). Ma non deve sottovalutare che inferno è Napoli: una città che, storicamente, prima ti porta in trionfo e ti incorona la testa; ma poi, alcune volte, quella testa te la taglia...

DA - lastampa.it/focus/elezioni2011/articolo/lstp/405000/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Primarie, un mito riabilitato
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2011, 04:34:20 pm
4/6/2011

Primarie, un mito riabilitato


FEDERICO GEREMICCA

Come talvolta accade di fronte a certi annunci di Silvio Berlusconi, la tentazione (purtroppo dettata dall’esperienza) sarebbe quella di non prendere il premier troppo sul serio. Un riflesso simile è scattato anche ieri, di fronte all’affermazione del presidente del Consiglio di «non esser contrario», a certe condizioni, all’uso delle primarie per eleggere i dirigenti del suo partito, il Pdl. Lo scetticismo - nel caso in questione non è dettato da riserve pregiudiziali, ma dalla circostanza che lo stesso premier, appena un paio di giorni prima, aveva nominato il nuovo segretario del partito (Angelino Alfano) nel chiuso di una delle sue stanze di Palazzo Grazioli: e non pare, stando alle cronache, dopo un confronto particolarmente animato e magari concluso da un voto...

Fatta questa premessa, però, la novità potrebbe essere di quelle davvero rilevanti: e segna, comunque, la «rivincita» di uno strumento - le primarie, appunto - spesso bistrattato e caricato di colpe e responsabilità certo non sue. La consultazione di iscritti e militanti - storicamente a esclusivo appannaggio del centrosinistra - è stata infatti fin qui giudicata più per il verdetto finale di volta in volta sancito, che per i meccanismi e i processi, oggettivamente positivi, messi in moto: partecipazione dei cittadini a scelte importanti, riavvicinamento degli elettori ai loro partiti, maggior autonomia e autorevolezza per i prescelti con voto popolare. Tutti fattori dei quali la democrazia italiana (alle prese con un progressivo aumento delle astensioni dalle urne) mostra di aver bisogno come dell’aria.

E invece, fin qui, si è di volta in volta ironizzato (sia da destra che da sinistra) su «primarie finte» o plebiscitarie, su «primarie-suicidio» per il Pd, su «primarie-scandalo» quando la consultazione (è il recentissimo caso di Napoli) è degenerata in brogli veri o presunti e denunce alla magistratura. Raramente è parso opportuno - invece - soffermarsi sulla lungimiranza dei cittadinielettori, riconoscendo loro almeno parte del merito di scelte vincenti (si pensi ai casi di Milano e a Cagliari) che i partiti difficilmente sarebbero stati in condizione di compiere. Il risultato di questo «tiro incrociato» è stata, com’era inevitabile, la messa in discussione tout court delle primarie: strumento, però, largamente rilegittimato dalle ultime elezioni amministrative e dalla inattesa scelta di campo di Silvio Berlusconi.

Il presidente del Consiglio, come si annotava, si è limitato a sostenere di non esser contrario (a condizione che siano ben regolamentate) a primarie che riguardino la scelta dei dirigenti di partito: ma è evidente - e il Pd ne sa qualcosa - che una volta imboccata quella via è poi difficile spiegare perché vadano individuati attraverso consultazioni popolari i segretari di partito e non - invece - i sindaci o i candidati a qualunque carica istituzionale elettiva. Che Berlusconi abbia comunque aperto all’uso di questo strumento anche da parte del centrodestra - sia pur con i limiti che dicevamo - è senz’altro una significativa novità. Della quale, però, si potrebbero forse discutere i tempi.

Le primarie, infatti, per quanto si possa tentare di adattarle alle diverse convenienze e situazioni (primarie di partito o di coalizione) restano uno strumento classicamente funzionale a sistemi politici bipolari, se non addirittura bipartitici (valga per tutti l’abusatissimo esempio americano). Ora la domanda è: è questa la direzione verso cui marciano i comportamenti elettorali degli italiani e i progetti di alcuni tra gli stessi partiti di centrodestra e centrosinistra? Con tutto il gran parlare che si fa di crisi del bipolarismo e di una nuova legge elettorale proporzionale che accantoni per sempre la «sbornia maggioritaria» degli ultimi tre lustri, che utilità (e che destino) potranno avere le primarie? Lo si vedrà, e forse anche rapidamente. Per ora si può annotare, con un po’ di ironia, come Nichi Vendola non sia più solo nella difesa strenua delle primarie: da ieri può contare sul sostegno anche di Silvio Berlusconi. E’ una novità: sorprendente, forse. Ma certo non da nulla...

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Primarie, un mito riabilitato
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:35:18 pm
4/6/2011

Primarie, un mito riabilitato

FEDERICO GEREMICCA

Come talvolta accade di fronte a certi annunci di Silvio Berlusconi, la tentazione (purtroppo dettata dall’esperienza) sarebbe quella di non prendere il premier troppo sul serio. Un riflesso simile è scattato anche ieri, di fronte all’affermazione del presidente del Consiglio di «non esser contrario», a certe condizioni, all’uso delle primarie per eleggere i dirigenti del suo partito, il Pdl. Lo scetticismo - nel caso in questione non è dettato da riserve pregiudiziali, ma dalla circostanza che lo stesso premier, appena un paio di giorni prima, aveva nominato il nuovo segretario del partito (Angelino Alfano) nel chiuso di una delle sue stanze di Palazzo Grazioli: e non pare, stando alle cronache, dopo un confronto particolarmente animato e magari concluso da un voto...

Fatta questa premessa, però, la novità potrebbe essere di quelle davvero rilevanti: e segna, comunque, la «rivincita» di uno strumento - le primarie, appunto - spesso bistrattato e caricato di colpe e responsabilità certo non sue. La consultazione di iscritti e militanti - storicamente a esclusivo appannaggio del centrosinistra - è stata infatti fin qui giudicata più per il verdetto finale di volta in volta sancito, che per i meccanismi e i processi, oggettivamente positivi, messi in moto: partecipazione dei cittadini a scelte importanti, riavvicinamento degli elettori ai loro partiti, maggior autonomia e autorevolezza per i prescelti con voto popolare. Tutti fattori dei quali la democrazia italiana (alle prese con un progressivo aumento delle astensioni dalle urne) mostra di aver bisogno come dell’aria.

E invece, fin qui, si è di volta in volta ironizzato (sia da destra che da sinistra) su «primarie finte» o plebiscitarie, su «primarie-suicidio» per il Pd, su «primarie-scandalo» quando la consultazione (è il recentissimo caso di Napoli) è degenerata in brogli veri o presunti e denunce alla magistratura. Raramente è parso opportuno - invece - soffermarsi sulla lungimiranza dei cittadinielettori, riconoscendo loro almeno parte del merito di scelte vincenti (si pensi ai casi di Milano e a Cagliari) che i partiti difficilmente sarebbero stati in condizione di compiere. Il risultato di questo «tiro incrociato» è stata, com’era inevitabile, la messa in discussione tout court delle primarie: strumento, però, largamente rilegittimato dalle ultime elezioni amministrative e dalla inattesa scelta di campo di Silvio Berlusconi.

Il presidente del Consiglio, come si annotava, si è limitato a sostenere di non esser contrario (a condizione che siano ben regolamentate) a primarie che riguardino la scelta dei dirigenti di partito: ma è evidente - e il Pd ne sa qualcosa - che una volta imboccata quella via è poi difficile spiegare perché vadano individuati attraverso consultazioni popolari i segretari di partito e non - invece - i sindaci o i candidati a qualunque carica istituzionale elettiva. Che Berlusconi abbia comunque aperto all’uso di questo strumento anche da parte del centrodestra - sia pur con i limiti che dicevamo - è senz’altro una significativa novità. Della quale, però, si potrebbero forse discutere i tempi.

Le primarie, infatti, per quanto si possa tentare di adattarle alle diverse convenienze e situazioni (primarie di partito o di coalizione) restano uno strumento classicamente funzionale a sistemi politici bipolari, se non addirittura bipartitici (valga per tutti l’abusatissimo esempio americano). Ora la domanda è: è questa la direzione verso cui marciano i comportamenti elettorali degli italiani e i progetti di alcuni tra gli stessi partiti di centrodestra e centrosinistra? Con tutto il gran parlare che si fa di crisi del bipolarismo e di una nuova legge elettorale proporzionale che accantoni per sempre la «sbornia maggioritaria» degli ultimi tre lustri, che utilità (e che destino) potranno avere le primarie? Lo si vedrà, e forse anche rapidamente. Per ora si può annotare, con un po’ di ironia, come Nichi Vendola non sia più solo nella difesa strenua delle primarie: da ieri può contare sul sostegno anche di Silvio Berlusconi. E’ una novità: sorprendente, forse. Ma certo non da nulla...

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: domenica il voto non è contro il premier
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2011, 10:36:25 am
Politica

10/06/2011 - DEMOCRATICI: LA SPINA NEL FIANCO

Renzi: domenica il voto non è contro il premier

Matteo Renzi potrebbe occupare la poltrona che è stata di Sergio Chiamparino. «Non sono nè rompiscatole nè normalizzato»

«Un errore politicizzare i referendum, tanto se perde non si dimette»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Solitamente, quando si comincia un’intervista sostenendo che «ora io non vorrei guastare il clima di festa e passare per il solito rompiscatole, però...», ecco, quando si inizia così, in genere i guai sono già dietro l’angolo. Ed è precisamente questo l’avvio del breve colloquio con Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, che - secondo alcuni maliziosi il vertice pd vorrebbe sistemare alla guida dell’Anci con il non confessato obiettivo di «normalizzarlo».

Intanto, sindaco, conferma?

«Non confermo e non smentisco. Ma aggiungo: nè rompiscatole né normalizzato...».

Che vuol dire?

«Vuol dire, semplicemente, che intendo continuare a fare quel che ho fatto finora: e che stiamo per ripartire. In autunno, tra ottobre e novembre, faremo la Leopolda 2, cioè lo sviluppo di “Prossima fermata Italia”; e prima ancora riuniremo a Firenze un gruppo di amministratori - vecchi e nuovi - per una sorta di primarie delle idee. Ripartiamo dai contenuti: 100 cose da fare subito per l’Italia. Così da non disperdere il significato delle elezioni appena vinte».

Vede rischi di dispersione?

«Direi di sì. Intanto mi parso sbagliato caricare di tanti significati politici i referendum. Stiamo offrendo a Berlusconi la possibilità di una rivincita. Se il quorum non venisse raggiunto, potrà dire di aver pareggiato i conti con le amministrative; e se invece ce la si farà, alzi le mani chi crede che il premier si dimetterà davvero».

Lei non ci crede?

«Perché, lei sì? Cioè lei pensa che, essendo rimasto al suo posto nonostante i processi, i bunga bunga, lo stato del Paese e tutto il resto, Berlusconi perde il referendum e si dimette? In più, c’è anche una questione di merito: che riguarda il Pd come affidabile forza di governo».

In che senso?

«Vorrei capire se, per caso, noi non si stia cambiando linea su questioni importanti. Quando siamo stati al governo, abbiamo avuto posizioni giustamente assai liberalizzatrici. Ora chiediamo di votare sì al quesito numero due sull’acqua, cioè sulla remunerabilità degli investimenti per l’erogazione dell’acqua pubblica. Vorrei ricordare che la norma la introdusse nel 2006 il governo Prodi: con un provvedimento firmato dall’allora ministro Di Pietro...».

Lei non è d’accordo?

«No. A Firenze ho fortemente voluto un investimento da 70 milioni che consentirà la depurazione al 100% dell’acqua in città. Rispetto chi cambia idea in nome dell’opportunità politica, ma chi amministra ha il dovere della coerenza. E di produrre risultati concreti».

Il risultato delle elezioni amministrative, invece, l’aveva molto soddisfatta, è così?

«Certamente. Ma ora bisogna non disperdere - o addirittura rinnegare - le principali indicazioni che ci hanno consegnato».

Che sarebbero?

«La prima è senz’altro l’insensatezza del continuare a inseguire il cosiddetto Terzo polo. Casini da solo prendeva più voti di quanti ne ha presi assieme a Fini: gli elettori chiedono progetti chiari e riconoscibili, e il loro non lo è. Basta a inseguire Bocchino».

E la seconda?

«Che le primarie sono insostituibili e devono essere libere. Dopo il primo turno, c’era chi voleva seppellirle».

Le primarie sono sempre libere, no?

«Nient’affatto. Per libere intendo che il Pd non deve parteciparvi con un proprio “candidato ufficiale”, come ha fatto a Milano, a Cagliari e altrove: prendendole di santa ragione».

Tradotto?

«Alle primarie per la scelta del candidato premier ci vogliono più candidati democratici. Noi, almeno, ne metteremo certamente in campo uno».

Sarà lei?

«Sarà, preferibilmente, una donna under 40. Poi vedremo. Ma la mia generazione non può correre il rischio corso da quelli che oggi hanno 50 o 60 anni, e che a furia di aspettare magari hanno sprecato un’occasione».

E Bersani?

«Sarà candidato, ci mancherebbe. Per intanto, mi pare stia lavorando bene».

La convince, oggi, ripartire puntando sulla riforma della legge elettorale?

«La gente ci capisce poco. Mi verrebbe da citare il filosofo Benigni: uninominale all’inglese, doppio turno alla francese o bagno alla turca, purché sia una cosa chiara. Ecco: Bersani presenti una sua proposta di riforma, ma ci aggiunga la riduzione del numero dei parlamentari. Spero lo faccia. E se lo fa, giuro che corro io ai banchetti per raccogliere le firme...».

da - lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/406422/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: domenica il voto non è contro il premier
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2011, 11:01:22 pm
Politica

10/06/2011 - DEMOCRATICI: LA SPINA NEL FIANCO

Renzi: domenica il voto non è contro il premier

Matteo Renzi potrebbe occupare la poltrona che è stata di Sergio Chiamparino. «Non sono nè rompiscatole nè normalizzato»

«Un errore politicizzare i referendum, tanto se perde non si dimette»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Solitamente, quando si comincia un’intervista sostenendo che «ora io non vorrei guastare il clima di festa e passare per il solito rompiscatole, però...», ecco, quando si inizia così, in genere i guai sono già dietro l’angolo. Ed è precisamente questo l’avvio del breve colloquio con Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, che - secondo alcuni maliziosi il vertice pd vorrebbe sistemare alla guida dell’Anci con il non confessato obiettivo di «normalizzarlo».

Intanto, sindaco, conferma?

«Non confermo e non smentisco. Ma aggiungo: nè rompiscatole né normalizzato...».

Che vuol dire?

«Vuol dire, semplicemente, che intendo continuare a fare quel che ho fatto finora: e che stiamo per ripartire. In autunno, tra ottobre e novembre, faremo la Leopolda 2, cioè lo sviluppo di “Prossima fermata Italia”; e prima ancora riuniremo a Firenze un gruppo di amministratori - vecchi e nuovi - per una sorta di primarie delle idee. Ripartiamo dai contenuti: 100 cose da fare subito per l’Italia. Così da non disperdere il significato delle elezioni appena vinte».

Vede rischi di dispersione?

«Direi di sì. Intanto mi parso sbagliato caricare di tanti significati politici i referendum. Stiamo offrendo a Berlusconi la possibilità di una rivincita. Se il quorum non venisse raggiunto, potrà dire di aver pareggiato i conti con le amministrative; e se invece ce la si farà, alzi le mani chi crede che il premier si dimetterà davvero».

Lei non ci crede?

«Perché, lei sì? Cioè lei pensa che, essendo rimasto al suo posto nonostante i processi, i bunga bunga, lo stato del Paese e tutto il resto, Berlusconi perde il referendum e si dimette? In più, c’è anche una questione di merito: che riguarda il Pd come affidabile forza di governo».

In che senso?

«Vorrei capire se, per caso, noi non si stia cambiando linea su questioni importanti. Quando siamo stati al governo, abbiamo avuto posizioni giustamente assai liberalizzatrici. Ora chiediamo di votare sì al quesito numero due sull’acqua, cioè sulla remunerabilità degli investimenti per l’erogazione dell’acqua pubblica. Vorrei ricordare che la norma la introdusse nel 2006 il governo Prodi: con un provvedimento firmato dall’allora ministro Di Pietro...».

Lei non è d’accordo?

«No. A Firenze ho fortemente voluto un investimento da 70 milioni che consentirà la depurazione al 100% dell’acqua in città. Rispetto chi cambia idea in nome dell’opportunità politica, ma chi amministra ha il dovere della coerenza. E di produrre risultati concreti».

Il risultato delle elezioni amministrative, invece, l’aveva molto soddisfatta, è così?

«Certamente. Ma ora bisogna non disperdere - o addirittura rinnegare - le principali indicazioni che ci hanno consegnato».

Che sarebbero?

«La prima è senz’altro l’insensatezza del continuare a inseguire il cosiddetto Terzo polo. Casini da solo prendeva più voti di quanti ne ha presi assieme a Fini: gli elettori chiedono progetti chiari e riconoscibili, e il loro non lo è. Basta a inseguire Bocchino».

E la seconda?

«Che le primarie sono insostituibili e devono essere libere. Dopo il primo turno, c’era chi voleva seppellirle».

Le primarie sono sempre libere, no?

«Nient’affatto. Per libere intendo che il Pd non deve parteciparvi con un proprio “candidato ufficiale”, come ha fatto a Milano, a Cagliari e altrove: prendendole di santa ragione».

Tradotto?

«Alle primarie per la scelta del candidato premier ci vogliono più candidati democratici. Noi, almeno, ne metteremo certamente in campo uno».

Sarà lei?

«Sarà, preferibilmente, una donna under 40. Poi vedremo. Ma la mia generazione non può correre il rischio corso da quelli che oggi hanno 50 o 60 anni, e che a furia di aspettare magari hanno sprecato un’occasione».

E Bersani?

«Sarà candidato, ci mancherebbe. Per intanto, mi pare stia lavorando bene».

La convince, oggi, ripartire puntando sulla riforma della legge elettorale?

«La gente ci capisce poco. Mi verrebbe da citare il filosofo Benigni: uninominale all’inglese, doppio turno alla francese o bagno alla turca, purché sia una cosa chiara. Ecco: Bersani presenti una sua proposta di riforma, ma ci aggiunga la riduzione del numero dei parlamentari. Spero lo faccia. E se lo fa, giuro che corro io ai banchetti per raccogliere le firme...».

da - lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/406422/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ennesima bufera sul governo
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 08:30:28 am
16/6/2011

Ennesima bufera sul governo

FEDERICO GEREMICCA

E ora il quadro non solo è completo, ma è anche fosco come soltanto nei momenti peggiori. Frasi a effetto informano che «i palazzi tremano», che agli arresti c’è finito «l’uomo che porta dritto nelle stanze del governo», che l’enfant prodige di certo segretissimo malaffare potrebbe mettere nei guai un sacco di bella gente.

Nessuno può sapere se è davvero così e se accadrà, ma voci insistenti raccontano di un Berlusconi pessimista e preoccupato: prima le elezioni, poi i referendum, quindi la solita magistratura... La conclusione? «Ci vogliono far fuori», avrebbe confidato uno sconsolatissimo presidente del Consiglio, una volta informato dell’arresto di Luigi Bisignani.

Pur prescindendo dalla solita lettura di parte dell’iniziativa della magistratura napoletana (avviata mesi e mesi fa...) non si può tuttavia negare come i timori del capo del governo vadano facendosi sempre più fondati: l’errore sta però nel cercare lontano dalla politica - e dall’azione del governo, e dallo stato della sua maggioranza - le ragioni delle crescenti difficoltà. I colpi subiti con le elezioni prima e il referendum poi non c’entrano nulla - in tutta evidenza - con i presunti tentativi di «far fuori» il premier e il suo esecutivo per via giudiziaria. E a volerla dire tutta, anzi proprio la reazione a questi rovesci ha dato il senso di una vicenda politica ormai in vista del capolinea: una sorta di passaggio di fase, di chiusura di stagione che pare aver preso una china inarrestabile.

I segnali sono molteplici e, purtroppo, contemporanei. Intanto, la reazione nervosa e scomposta, appunto, del principale degli alleati di governo di Silvio Berlusconi, e cioè quella Lega che appare sempre più come il dominus della situazione. Scegliere come cavalli di battaglia per la ripartenza il trasferimento di qualche ministero al Nord e il no alla guerra in Libia - con la parziale, modesta e discutibile motivazione che essa starebbe determinando un aumento del flusso migratorio verso il Nord - è forse la prova migliore di un pericoloso stato confusionale, a voler essere generosi. Né è stata più convincente, a dir la verità, la reazione del partito del presidente, con la pretesa di varare su due piedi la sempre promessa (e oggi difficilmente proponibile) riforma fiscale. Il risultato ottenuto è stato infatti doppiamente negativo: si è aperto un delicatissimo contenzioso col ministro Tremonti e si è seminato a piene mani altro nervosismo nella coalizione.

Segnali molteplici, dicevamo. L’aria da si salvi chi può che comincia a tirare tra i gruppi e i gruppetti parlamentari che al momento garantiscono al governo la maggioranza nelle aule di Camera e Senato è uno di questi: e si tratta di un brutto affare, che il premier sbaglierebbe a sottovalutare. Un altro - tradizionale spia dello stato degli equilibri politici del momento - è la situazione in cui versa la Rai, in bilico tra epurazioni e paralisi, con nomine annunciate e rinviate in attesa di capire che accadrà: e nell’attesa, naturalmente, tutto resta fermo, con danni evidenti per la maggior azienda culturale del Paese. Poi il Parlamento che ha toccato sconcertanti limiti di produttività, il governo che lavora appena 15 ore in tre mesi... Insomma, ce ne sarebbe a sufficienza per serrare le fila e ripartire dal buon senso: ma l’aria che tira non pare affatto quella.

L’aria che tira, infatti, racconta di un mondo politico (di maggioranza, a dir la verità) col fiato sospeso per quel che accadrà tra qualche giorno a Pontida, giusto sul «pratone» fino a ieri più noto per i fumi delle salsicce alla brace che per le strategie lì elaborate. Berlusconi si chiede cosa chiederà Bossi: i cittadini, magari, si domandano invece se tutto quel che chiederà verrà concesso. L’Italia interromperà il suo impegno nella missione libica perché così vuole Calderoli? Tremonti (fino a ieri definito il miglior ministro dell’Economia d’Europa) finirà spalle al muro perché Maroni chiede coraggio e una riforma fiscale da varare su due piedi? E basterà qualche ufficio di rappresentanza o Reguzzoni vuole dei veri e propri ministeri tra Milano e Varese? E soprattutto: Berlusconi dirà sì a una qualunque di queste richieste?

L’aria è quella del passaggio di fase, del cambio di stagione. Ma c’è modo e modo di chiudere un capitolo per aprirne un altro. Berlusconi e Bossi lo ricordino e scelgano il migliore. Il migliore per il Paese, naturalmente, non per il destino delle rispettive botteghe.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La spinta propulsiva è finita
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 04:59:54 pm
20/6/2011

La spinta propulsiva è finita

FEDERICO GEREMICCA

E passi per i tanti militanti che affollano il pratone di Pontida vestiti da Alberto da Giussano, con mantello, spadone e tutto il resto, nonostante i trenta gradi all’ombra. E passi anche per quelli che sfoggiano elmi da unni o da vichinghi, con belle corna lunghe e arcuate.

Ma quando in attesa dell’arrivo di Bossi il segretario della forte Lega di Bergamo chiama sul palco «i templari del bel fiume Serio» - e loro sul palco ci salgono davvero - allora il dubbio svanisce, e si può dire con certezza che da queste parti qualcosa non va: o almeno non va più. E non va più perché il folklore va bene quando adorna e rappresenta - come è stato fino a ieri - una linea corsara, furba e spesso fin troppo aspra; ma quando quella linea non c’è più, quando l’affanno è evidente e il Capo non ha una rotta da indicare alla sua gente, allora non resta che il folklore: e di folklore anche una forza come la Lega, ben radicata nelle valli di quassù, lentamente può morire.

Forse è questo, al di là degli ultimatum veri o presunti spediti all’indirizzo di Silvio Berlusconi, il messaggio che arriva da Pontida: il vecchio Carroccio è nei guai, fermo e incerto sulla via da imboccare perché scosso e stupito - forse perfino più del Pdl - dal doppio capitombolo elezioni-referendum. La battuta d’arresto ha lasciato cicatrici profonde in un partito non abituato alla sconfitta: e la reazione, a cominciare dal gran raduno di ieri, non sembra affatto all’altezza dei problemi che ha di fronte. E’ come se, gira e rigira, la Lega avesse esaurito la propria spinta propulsiva, fosse d’improvviso a corto d’argomenti e a nulla servisse - anzi - riproporre gli stessi con più enfasi e più durezza.

E’ un problema non da poco perché - al di là delle tattiche su quando e come votare - riguarda il futuro stesso del movimento. Ed è un problema - alla luce di quel che si è visto e sentito ieri a Pontida, tra bandieroni e facce dipinte di verde - che la Lega farebbe bene ad affrontare. Dovrà chiedersi, per esempio, quale ulteriore forza espansiva può avere un movimento che chiede la fine dei bombardamenti in Libia non perché lì continuino a morire donne e bambini, ma perché costano troppo e poi finisce che arrivano nuovi immigrati a Ponte di Legno o a Gallarate. O che ha individuato l’approdo della Grande Guerra a Roma ladrona nella richiesta che almeno qualche ministero, anche di serie B, venga trasferito al Nord. Si può crescere ancora con slogan e obiettivi così? Forse nelle valli. O lungo le sponde di fiumi custoditi dai templari... Ma già se si guarda a Milano, moderna capitale del Nord, occorrerebbe interrogarsi sul perché alle ultime elezioni solo un cittadino su 10 ha deciso di votare Lega.

Quella della modernità - modernità di linea, di organizzazione e di idee e proposte per il Paese - è un’altra questione che ieri a Pontida è saltata agli occhi in maniera ineludibile. Sembra paradossale dirlo della Lega che al suo irrompere sulla scena modernizzò non poco in quanto a temi (quello della sicurezza nelle città, per dirne uno) e perfino in quanto a proposte istituzionali (il federalismo): ma ieri il folklore e il richiamo all’identità, utilizzati per supplire all’assenza di linea, sono apparsi d’improvviso vecchi, inattuali e quasi figli di un’altra epoca. Tra un supermercato e un nuovo grande parcheggio, la modernità sta letteralmente (e simbolicamente) mangiandosi il pratone di Pontida: e a fronte dei tanti cambiamenti, la Lega risponde riscoprendo la secessione (tema degli esordi), l’identità padana e inasprendo la lotta ai clandestini (triplicato il tempo di internamento nei Cie). Difficile andar lontano, così. E difficile anche - se non in virtù dei meri numeri - mettere davvero spalle al muro l’amico-nemico Berlusconi.

Se serviva una controprova di quanto fosse ormai logorato il rapporto tra la Lega e il premier, ieri la folla di Pontida - una gran folla, come solo nei momenti di grandi vittorie o di grandi difficoltà - l’ha fornita. Fischi ogni volta che veniva citato il suo nome, grandi striscioni per invocare «Maroni premier». Bossi ha definito la leadership di Berlusconi alle prossime elezioni «non scontata»: ma si è dovuto fermare lì, avendo chiaro che una parola in più lo avrebbe spinto in un vicolo al momento del tutto cieco. Il punto è che la base leghista - antiberlusconiana per ragioni quasi antropologiche e caricata per anni a pallettoni fatti di slogan duri e modi spicci - digerisce sempre peggio certe prudenze (obbligate) del Gran Capo. E’ a Berlusconi, alle sue ossessioni giudiziarie e ai suoi bunga bunga che vengono infatti attribuite le sconfitte dolorose non solo di Milano ma di Comuni-simbolo nell’iconografia leghista, da Gallarate a Desio, fino a Novara. A fronte di questo, la prudenza dei capi è sempre meno accettata, e molti non nascondono di avercela anche con chi, nella Lega, si sarebbe «romanizzato»...

Un’immagine, ieri, ha colpito molti dei cronisti accorsi a Pontida. E’ accaduto quando, poco prima dell’arrivo di Bossi sul palco, volontari del servizio d’ordine leghista hanno sequestrato e poi minuziosamente sbrindellato un lungo striscione bianco con delle frasi vergate in nero: «Datevi un taglio. Abolite le Province e dimezzate il numero dei parlamentari. Ce lo avevate promesso». Una contestazione figlia dei furori del passato, certo; e frutto, magari, di quelle compatibilità politiche che nessun capo leghista, nelle valli, ha mai spiegato ai militanti della base e ai templari che vigilano sul fiume Serio... Un problema, anche questo. E a giudicare da certi umori, nemmeno semplicissimo da affrontare.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8876&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - A sinistra è l'ora di decidere
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2011, 10:12:44 am
23/6/2011

A sinistra è l'ora di decidere

FEDERICO GEREMICCA

Magari, come a volte gli capita, Antonio Di Pietro l’ha detto male, sbagliando toni, tempi e luogo: ma intorno al fatto che per le opposizioni stia arrivando il tempo di definire itinerario e profilo dell’alleanza che sfiderà il centrodestra alle prossime elezioni, i dubbi sono davvero pochi. Il leader dell’Idv poteva naturalmente scegliere un luogo diverso dall’aula di Montecitorio per porre a Pierluigi Bersani il problema dell’urgenza della costruzione dell’alternativa all’attuale maggioranza; e avrebbe certo fatto meglio a utilizzare toni meno aggressivi nei confronti di quello che lui stesso ha definito «il partito di maggioranza relativa», cioè il Pd.

Ma resta la sostanza della richiesta: ed è una sostanza che, sfrondata da inutili polemiche, è forse condivisa dallo stesso leader del Partito democratico.

La crisi lenta ma inesorabile dell’attuale maggioranza - e il conseguente calo di consensi nel Paese - è infatti solo uno degli «ingredienti» necessari affinché la coalizione di centrosinistra possa puntare a vincere le prossime elezioni: l’altro, in tutta evidenza, sta nella credibilità dell’alternativa proposta. E su questo, la strada da fare pare ancora lunga. Un paio di giorni fa, un sondaggio Ipsos ha confermato con evidenza come le cose stiano precisamente così: giudizio negativo sul governo, fiducia in Berlusconi ai minimi, il Pd che supera il Pdl ma ben il 60% degli interpellati che giudica «non credibile» l’alternativa di governo rappresentata dalle opposizioni.

Come fare, allora, a convincere gli elettori che il «nuovo» centrosinistra non pensa minimamente di riproporre l’indimenticata esperienza dell’Unione, che tanto condizionò (e poi affondò) l’ultimo governo di Romano Prodi? Intanto, evidentemente, fissando paletti che limitino l’alleanza a partiti realmente omogenei tra loro; quindi - e di conseguenza - lavorando a un programma che non ricordi nemmeno da lontano le 280 pagine di bizantinismi che in campagna elettorale costarono non pochi consensi al Professore; e infine individuando e proponendo agli italiani un candidato premier credibile per esperienza, consensi e autorevolezza. Il percorso non è certo facile, ma è sufficientemente obbligato perché si possa pensare di cominciare a muovere i primi passi. E il compito di indicare la rotta, oggi, non può che toccare al Pd. Pierluigi Bersani - leader dal passo lento ma sicuro, come hanno dimostrato i risultati delle amministrative e dei referendum - non pare smaniare dalla voglia di cominciare: e a parte l’annotazione che non si ha nemmeno un’idea vaga di quando si andrà alle urne, e la considerazione che il lavoro iniziale sarà certo il più aspro, c’è un’altra circostanza che può forse spiegare la prudenza del leader democratico. E riguarda la possibilità che alle elezioni ci si vada con una legge elettorale diversa dall’attuale. Come è chiaro, si tratterebbe di una novità non da poco: capace essa stessa, per altro, di risolvere almeno un paio dei problemi che sono di fronte al Partito democratico.

Il primo riguarda la qualità (e l’eterogeneità) delle alleanze da fare: una legge che non prevedesse più premi di maggioranza per la coalizione, renderebbe più semplice scegliere e selezionare gli eventuali compagni d’avventura. Il secondo riguarda senz’altro la premiership: un sistema elettorale che non rendesse vincolante e obbligatoria (nemmeno in maniera fittizia, come quello attuale) l’indicazione del premier, probabilmente svelenirebbe non poco l’intricata - e discussa - faccenda delle primarie. Si tratta di novità sulle quali anche altre forze politiche (dalla Lega al Terzo polo) stanno cominciando a riflettere: tanto che il problema di una riforma della legge elettorale probabilmente sarà - assieme allo stato dell’economia - il tema centrale del prossimo autunno.

I tempi, però, potrebbero comunque non esser lunghi: soprattutto se la crisi del centrodestra rendesse inevitabili elezioni nella prossima primavera. Per il Pd, dunque, il tempo delle decisioni potrebbe arrivare in fretta: e si tratterà di scegliere se praticare fino in fondo il tentativo di varare una nuova legge oppure fare quanto necessario per affrontare al meglio le urne con questo sistema elettorale. Sarebbe bene cominciare a pensarci, perché conta poco il fatto che oggi il vento sembri soffiare nelle vele delle opposizioni. Il Pd, infatti, non può aver dimenticato come si concluse la campagna elettorale della primavera 2006: sembrava vinta a mani basse, alla fine Prodi la spuntò per ventimila voti (con tutto quello che ne seguì). Errare è umano, insomma: perseverare, per di più alla luce di un’esperienza così recente, sarebbe invece imperdonabilmente diabolico...

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8888&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Disoccupati e abusivi scendono in piazza
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 10:01:11 am
Cronache

25/06/2011 - REPORTAGE

Il lento declino della città-discarica. Ancora decine di roghi nei giorni passati

Non solo «caos monnezza»: il capoluogo campano annaspa mentre la politica non trova soluzioni.

Cresce la protesta: i negozianti minacciano la serrata. Disoccupati e abusivi scendono in piazza

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A NAPOLI

Quando l’altra sera, rientrati a casa, migliaia di napoletani si sono inaspettatamente trovati faccia a faccia con il loro sindaco, tanto chi l’aveva votato un paio di settimane fa quanto chi non si era fidato, hanno certamente pensato «questo è uscito pazzo». Dagli schermi delle tv locali e di diversi siti Internet, infatti, Luigi De Magistris - camicia azzurra con coraggiosi risvolti rosa - stava promettendo che non solo in cinque giorni avrebbe ripulito la città (Berlusconi aveva detto sette), ma che ogni quartiere di Napoli avrebbe presto avuto la sua «isola ecologica». Questo stava annunciando il sindaco a chi era appena riuscito - fortunosamente - a rientrare in casa evitando barricate di immondizia, blocchi stradali, roghi e labirinti di cassonetti rovesciati nei pochi tratti di strada lasciati miracolosamente liberi dalla monnezza.

La verità, naturalmente, è che Napoli non sarà liberata da questo schifo in cinque giorni; e anche che tratteremmo la notizia alla stregua di un miracolo se ogni quartiere della città davvero avesse un giorno - la sua «isola ecologica». Ciò nonostante, Luigi De Magistris non è un pazzo. Più probabilmente, istruito dalle amarissime vicende degli ultimi anni, ha deciso che forse l’unica via da battere è appunto tentare di apparire pazzo: visto che a mediare, a trattare e a rassicurare, qui ci hanno già rimesso le penne un paio di amministrazioni e un’intera classe dirigente. Quindi, le promesse iperboliche. Ma anche le denunce e gli avvertimenti: dobbiamo lottare contro dei «poteri occulti» (intendendo, forse, quanto di più evidente c’è: cioè la camorra) - ha informato il sindaco ma noi reagiremo, cominciando col far scortare i camion incaricati di rimuovere la monnezza dalla strada.

Quanti anni è che si va avanti così, sulla pelle di una città che nemmeno questo leggero vento di maestrale riesce ormai a liberare dagli effetti venefici dei roghi e dei fumi? I medici napoletani lanciano l’allarme infezioni, visto il caldo in arrivo; mentre il direttore della più grande Asl della città chiede addirittura al sindaco di chiudere gli spazi aperti di ristoranti e bar: «In questa situazione - spiega - non è possibile servire da bere e da mangiare all’aperto». I commercianti minacciano la serrata, stufi di dover liberare ogni mattina l’ingresso dei negozi da mucchi di spazzatura; e il sindaco, con una mossa drammaticamente ad effetto, dispone che i camion-compattatori siano accompagnati da uomini armati nei loro giri di raccolta per la città. Un tempo, per difendere l’immagine della città dalle analisi di detrattori spesso interessati, anche in dotti convegni meridionalisti era d’uso u n ’ e s p r e s s i o n e frutto d’un residuo d’orgoglio: «Napoli non è Calcutta» si esclamava a un certo punto, per dire che era pur sempre una grande città dell’Occidente europeo quella di cui si parlava. Oggi, nessuno ripete quella frase: e i cittadini di Calcutta probabilmente si offenderebbero di fronte a tale, mortificante paragone...

E mentre Napoli annaspa tra sacchetti nauseabondi e cassonetti in fiamme, la gara di solidarietà cui s’assiste tutt’intorno al destino della vecchia capitale del regno è davvero commovente. A Roma, la Lega - quella di Pontida e dei cori contro i napoletani blocca il decreto che avrebbe permesso il trasferimento in altre regioni di un po’ della monnezza accumulatasi; a Macchia Soprana, nel Salernitano, si preparano le barricate per impedire la riapertura della discarica che potrebbe accogliere parte dei rifiuti che soffocano Napoli; e a Castellammare un comitato di mamme è già in piazza al solo sospetto che un po’ dell’immondizia del capoluogo possa finire da quelle parti. Ci sarebbe da restare senza parole, stupefatti: se non fosse che son già tre anni che la musica è questa qui...

«La legge che distribuisce territorialmente le competenze in materia di rifiuti è illogica», annota sfiduciato il rettore dell’Università Massimo Marrelli. «Napoli si deve dotare di siti di trasferenza temporanea. E comunque, dove portare la spazzatura, al sindaco di Napoli glielo devono dire la Regione e la Provincia», ammonisce Alessandro Gatto, presidente regionale del Wwf. Ognuno ha la sua diagnosi, ognuno la sua ricetta e tutti - ovviamente - ottimi motivi di polemica, verso la destra o verso la sinistra. Evidente, naturalmente, il tentativo di cavalcare questa drammatica emergenza per cercare una rivincita dopo il naufragio elettorale di due settimane fa. Come se la città non fosse di tutti. O come se liberare Napoli dalla sua monnezza fosse una cosa - così come fu detto per la sicurezza - di destra o di sinistra...

Di destra o di sinistra - e ad aggravare la situazione di una città che non esplode solo perché non sa più con chi deve prendersela - sono le promesse elettorali rimaste sul terreno a inquinare quel che resta da inquinare. Ieri mattina, per esempio, mentre la città nella parte alta e nel centro antico zigzagava tra la sua immondizia, il palazzo della Regione era preso d’assalto da gruppi di comitati che chiedono sia mantenuta la promessa (fatta da Berlusconi) di bloccare le demolizioni di migliaia e migliaia di case abusive. Vogliono il decreto che fu annunciato in cambio del voto al candidato-sindaco del Pdl. Tensione, scontri e traffico in tilt. Altri cortei naturalmente con blocchi stradali e caos nella circolazione - li hanno inscenati per tutto il giorno gruppi di disoccupati e di operai di fabbriche in crisi. L’impatto, per chi viene da fuori, è terribile. E non solo perché Napoli stessa, ormai, somiglia a una gigantesca discarica: ma anche in ragione del visibile collasso contemporaneo del tessuto sociale, civile e produttivo della città.

E così, mentre il sindaco «fa il pazzo» e altri il Ponzio Pilato, si attende che qualcuno faccia quel che gli spetta, e cioè evitare l’emergenza sanitaria verso cui galoppa la città. Il tempo sta finendo e Napoli affonda: anche se lentamente, visto che le sue sabbie mobili sono fatte di sacchetti, cassonetti e rabbia solida come un grumo di dispiacere...

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/408694/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il bisogno di "coesione" mette in crisi l'opposizione
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2011, 09:38:04 am
Politica

13/07/2011 - LA CRISI: I TENTATIVI DI DIALOGO

Il bisogno di "coesione" mette in crisi l'opposizione

L'emergenza l'ha costretta a non ostacolare una manovra «iniqua»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Non ci sono ambasciatori. E nemmeno telefoni roventi. In più, zero incontri segreti, zero patti e zero accordi intorno a quel che resta della legislatura. L’idea di un governo di «salvezza nazionale», insomma, da ieri è materia buona per qualche titolo di giornale, e nulla più. Non ci voleva molto per averne conferma: e ora che la conferma è arrivata, i leader dell’opposizione sono lì a decantare al Paese il loro di senso di responsabilità, e a interrogarsi preoccupati - intorno a cosa sarà da lunedì in poi.

L’illusione che Silvio Berlusconi potesse favorire la propria cacciata da Palazzo Chigi, così come chiesto dai leader del centrosinistra («noi favoriamo l’approvazione-lampo della manovra, ma lui poi si deve dimettere») si è liquefatta a ora di pranzo, quando una lunga nota del premier ha triturato le speranze degli ottimisti a oltranza: non un cenno alle dimissioni chieste, non un ringraziamento alle opposizioni, nessun apprezzamento per l’intervento salvifico del capo dello Stato e addirittura la riaffermazione, un po’ surreale, che «il governo è stabile e forte, e la maggioranza coesa e determinata».

Per Berlusconi, insomma, l’avventura di un governo che non sia presieduto da lui è finita prima ancora di cominciare. E il fatto che la sua posizione resti immutabile nonostante la sconfitta alle amministrative e al referendum, i ripetuti guai giudiziari di un bel pezzo di governo e lo spettro incombente della speculazione finanziaria, dimostra - anzi, conferma - una cosa della quale Bersani, Casini e Di Pietro sono in fondo consapevoli da tempo: Berlusconi non lascerà mai Palazzo Chigi, a meno che non vi sia letteralmente costretto. O dall’ennesimo rovescio giudiziario o da quella che un tempo si sarebbe chiamata «congiura di Palazzo».

Si hanno notizie di possibili «congiure di Palazzo»? Nel quartier generale delle opposizioni ci avevano sperato, qualche settimana fa. Certi silenzi di Giulio Tremonti e certe minacce di Umberto Bossi dopo la secca sconfitta di Milano, sembravano il preludio a che qualcosa potesse accadere: poi il leader leghista ha fatto marcia indietro, il super-ministro è finito in una palude di guai e di case in prestito, e la speranza è svanita. «Ora non resta che Claudio Scajola - ammette Roberto Rao, deputato e braccio destro di Casini -. Intendiamoci, nessuno si fa soverchie illusioni, ma lui è l’unico che può contare su una pattuglia di deputati potenzialmente capaci di mandare il governo gambe all’aria».

Lo farà? Difficile. E se non lo farà, cos’è che potrebbe costringere o convincere il premier a farsi da parte? Al momento non ci sono risposte. E l’unica ipotesi in campo è di quelle che è meglio non evocare: «Se lunedì Borsa e mercati crollassero di nuovo, nonostante il varo della manovra - aggiunge Rao - allora sarebbe chiaro che il problema non è in cosa metti nella padella ma nella padella stessa, cioè nel manico». Una sorta di mozione di sfiducia politica da parte del mondo dell’economia e della finanza, insomma: che nemmeno Rao e Casini, però, arrivano ad augurarsi.

Approvata la manovra, insomma, per l’opposizione tutto rischia di tornare al punto di partenza. E stavolta sarebbe un ritorno non precisamente indolore. Sul terreno, infatti, resterebbero un’occasione perduta e una non rassicurante certezza. L’occasione perduta è, appunto, la possibilità di una grande campagna nel Paese contro una manovra giudicata iniqua, inadeguata e furbesca: difficile svilupparla dopo averne comunque favorito l’approvazione in tempi così rapidi da non aver precedenti in Italia e probabilmente in Europa. La certezza è che senso dello Stato, galateo politico e atteggiamenti responsabili, sono termini e atteggiamenti del tutto estranei all’agire politico del premier: e quindi è inutile insistervi attendendosi in cambio chissà che cosa...

Questa certezza rischia ora di diventare foriera di polemiche tra i partiti d’opposizione, all’interno di alcuni di essi e perfino nei confronti del palazzo del Quirinale. Va bene il senso di responsabilità e va bene anche che gli interessi del Paese vengono prima di ogni altra cosa: ma l’intervento col quale Napolitano ha chiesto «coesione» di fronte all’emergenza economico-finanziaria, alla fine ha messo l’opposizione spalle al muro e si è trasformato in una sorta di regalo al Cavaliere.

Si poteva non rispondere all’appello del Capo dello Stato? No, non si poteva. Ma forse si potevano concordare condizioni diverse: «Noi abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere che dopo l’approvazione della manovra in tempi così rapidi da esser sconosciuti in democrazia, il governo si dimetta - annota Rosi Bindi -. Forse potevamo cambiare l’ordine dei fattori: prima ti dimetti e poi noi facilitiamo l’approvazione della manovra. Comunque, è andata: e speriamo che ai mercati basti». Ma è l’ultima volta, sembra sottinteso. E da domani si torna all’antico: lotta dura senza paura...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/411272/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Le due debolezze
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2011, 04:19:27 pm
22/7/2011

Le due debolezze

FEDERICO GEREMICCA

C’è ancora qualche ostacolo, certo: per esempio il rifinanziamento delle missioni italiane all’estero e la posizione di esplicita critica assunta dalla Lega.

E c’è, naturalmente, la spada di Damocle di una situazione economico-finanziaria che tiene ancora mezza Europa col fiato sospeso, anche se il quadro pare quello di una lenta ma progressiva ripresa. Per il resto, il rinvio a settembre delle questioni più spinose e la difficoltà del concretizzarsi di un’alternativa, paiono far presagire un’estate senza crisi e col governo comunque in sella.

Si sente ripetere spesso, soprattutto in riferimento alle esigenze dei mercati, che la stabilità sia un valore in sé. Nel caso in questione, e di fronte ai deprimenti avvenimenti dell’ultima settimana, qualche dubbio sarebbe lecito: ma agosto è alle porte, e quasi tutti - fuori e dentro il Palazzo - sono pronti a scommettere che la voglia di vacanza finirà per prevalere su tutto il resto. Che questo sia un bene - o piuttosto una ulteriore perdita di tempo rispetto ad una fase politica che pare ormai avviata a conclusione - lo si vedrà appunto alla ripresa: ma per adesso è precisamente così che sembrano destinate ad andar le cose.

Può non piacere, naturalmente, e ce ne sarebbero molte ragioni. La confusione è tale, infatti, che ormai si fa perfino fatica a recuperare il bandolo della matassa di un confronto politico (e soprattutto di un’azione di governo) totalmente schizofrenica. E così, a seconda degli umori, la questione delle questioni - sulla quale ognuno minaccia crisi e ritorsioni - diventa un giorno il federalismo e quello successivo la riforma delle intercettazioni; poi si passa ai costi della politica, si torna alle riforme da varare e si riprecipita, naturalmente, sulla giustizia che così non va. L’ago della bussola sembra impazzito, la rotta si trasforma in un incomprensibile zig zag: il risultato è la paralisi, ed il rinvio a tempi migliori di questioni - spesso urgenti - che è assolutamente impossibile affrontare in un clima così.

Si potrebbe discutere a lungo sul come e sul perché una maggioranza in origine ampia e solida si sia ridotta a dipendere da Domenico Scilipoti e dal farsi e disfarsi di nuovi e improbabili gruppi parlamentari. Certo ha pesato l’addio di Fini e del suo drappello di parlamentari: ma la brusca accelerazione della crisi politica e l’aumento delle difficoltà dopo le elezioni amministrative e i referendum, dicono che ormai la questione è un’altra. E non è difficile individuarla nell’evidente indebolimento delle due leadership che da quasi vent’anni, ormai, rappresentano l’essenza e l’anima del centrodestra così come lo conosciamo.

L’altro ieri alla Camera, durante e dopo il voto sul destino di Alfonso Papa, si è avuta una rappresentazione perfino plastica di questa debolezza, di questa inattesa impotenza: intendiamo il pugno sbattuto sul banco da Silvio Berlusconi e la desolante assenza in aula di Umberto Bossi, che prima ha cambiato posizione tre volte sulla concessione degli arresti per l’ex magistrato e poi ha pavidamente disertato il voto. Certo, il vecchio «senatùr» ha il problema di Maroni che lo incalza sempre più da presso; e Berlusconi è stato costretto a cedere (o fingere di cedere) il bastone del comando al giovane Alfano. Ma si tratta, appunto, degli effetti di una doppia e contemporanea crisi: che sta dilaniando il centrodestra, paralizzando il governo e creando difficoltà sempre più serie all’intero sistema-Paese.

Cosa accadrà ora non è poi forse così difficile da prevedere. Tempi e oggetto della definitiva resa dei conti sarebbero già fissati e ben visibili all’orizzonte. Il tempo è settembre, l’oggetto saranno due voti che si preannunciano delicati fin da ora: quello sulla richiesta di dimissioni del ministro Romano, rinviato a processo per mafia, e quello sull’autorizzazione all’arresto per Marco Milanese. Sarà allora che tutti i nodi - a cominciare dal rapporto tra la Lega e Silvio Berlusconi - verranno probabilmente al pettine. Si spera solo che ciò possa avvenire senza le risse, gli insulti e i pugni mostrati dopo il voto su Alfonso Papa: spettacolo intollerabile e deprimente in un Parlamento dove nemmeno i rapporti personali, ormai, sono più quelli del bel tempo che fu...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9006


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La riflessione che il Pd deve fare
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 05:27:15 pm
28/7/2011

La riflessione che il Pd deve fare

FEDERICO GEREMICCA

Il caso di giornata è lo sfogo amarissimo e indignato di Pier Luigi Bersani che - messo alle strette dalle inchieste che dalla Puglia alla Lombardia stanno facendo tremare il Pd - preannuncia una inedita «class action» dei militanti democratici: e punta l’indice contro il ritorno in funzione della micidiale macchina del fango, da troppo tempo - ormai protagonista assoluta delle vicende e degli equilibri politici del Paese. E’ il caso di giornata, ed è giusto e necessario discuterne.

Con una premessa ed una avvertenza, però: che rincorrere la cronaca e continuare a stare al giorno per giorno oggi riflettori su questa inchiesta e domani su quell’arresto - rischia di occultare e far perdere il senso del quadro d’insieme. Un quadro, in tutta evidenza, assai allarmante per una democrazia.

Anche la lettura dei giornali di ieri - oltre agli inquietanti sviluppi di inchieste già note - offre notizie che stimolano sentimenti ormai sempre più difficili da definire. Finisce sotto inchiesta un assessore regionale lombardo della Lega, accusato di aver favorito l’elezione in Consiglio di Renzo Bossi attraverso una sorta di spionaggio politico-personale dei suoi rivali alle elezioni; vanno agli arresti, in Abruzzo, un sindaco e il coordinatore regionale dell’Api - il partito di Rutelli - per una presunta tangente di 100 mila euro chiesta per permettere la costruzione di un centro residenziale su un terreno non edificabile. E si potrebbe naturalmente continuare. A conferma del fatto che se una volta (ma accade ancora oggi...) era la guerra ad essere definita la prosecuzione della politica con altri mezzi, oggi si può serenamente dire che lo sono le inchieste giudiziarie: o meglio, l’uso politico che troppo spesso se ne fa (con quel che ne segue in termini di credibilità del sistema). Ma torniamo al Pd di Bersani.

L’amarezza del segretario dei democrats, costretto a difendere se stesso e il partito da accuse e sospetti che non lo riguardano direttamente, è comprensibile e può ricordare - in qualche modo - quella del ministro Tremonti, per restare solo al caso più recente: Bersani non poteva non sapere chi fosse e cosa facesse Filippo Penati, così come il titolare del dicastero dell’Economia non poteva non sapere chi fosse, cosa facesse e che regime di vita avesse Marco Milanese. E’ una logica apparentemente micidiale ma lo si voglia o no, è la logica imperante nel malefico rapporto giustizia-politica almeno dal ’92 in poi. Il leader del Pd ha tutto il diritto, naturalmente, di difendere la propria onorabilità (e quella del partito che dirige) da una interpretazione diciamo così «estensiva» delle responsabilità penali: politicamente, invece, la faccenda in questione è più controversa e non sarebbe male se venisse colta come occasione per una riflessione che vada oltre la contingenza.

Non è infatti né un mistero né un’affermazione offensiva rilevare come il far leva sulle disavventure giudiziarie di esponenti del maggior partito concorrente (intendiamo il Pdl, e a partire dai guai di Berlusconi) sia pratica politica costante per il Pd e le altre opposizioni da molto tempo in qua. Si può naturalmente discutere (e distinguere) la gravità e la frequenza dei reati contestati e delle vicende giudiziarie alla ribalta, ma la logica e le semplificazioni a volte strumentali sono identiche a quelle che oggi deve fronteggiare il leader Pd. Ed è addirittura possibile, anzi, che dietro la rabbia e l’indignazione del gruppo dirigente democratico ci sia il disappunto per il fatto che le recenti tegole giudiziarie siano arrivate proprio nel momento in cui tegole simili e continue nel tempo avevano di fatto colpito e fiaccato gli avversari politici (non pochi, Pd escluso) fino a far apparire proprio il partito di Bersani come l’unica alternativa al dilagante malcostume.

La domanda alla quale proprio di fronte a vicende così occorrerebbe dare una risposta è se è possibile (oltre che utile, accettabile e civile) andare avanti in questo modo. La pratica dell’occhio per occhio, prevede un seguito: dente per dente. E se i fatti si stanno incaricando di dimostrare come una guerra politica combattuta di sponda con le procure non possa vedere vincitori, la memoria dovrebbe aiutare a ricordare cosa fu Tangentopoli (di cui, pure, tutti ricominciano a parlare): cioè chi vinse, chi perse e che volto aveva il «Cavaliere bianco» che scese in campo per salvare l’Italia...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9027


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: "Rottamarli? Macché, si stanno liquefacendo da soli"
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 05:50:40 pm
Politica

18/08/2011 - INTERVISTA

Renzi: "Rottamarli? Macché, si stanno liquefacendo da soli"

«Bisognava intervenire sulle pensioni, senza riforme fra tre anni saremo daccapo con queste comiche»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Dice, lui che è diventato suo malgrado famoso proponendosi come rottamatore di un’intera classe dirigente, che gli hanno praticamente rubato il lavoro: «Si stanno liquefacendo da soli, sono all’ultimo giro e temo che non se ne siano nemmeno accorti». Spiega che la manovra è quel pasticcio iniquo e inutile che è sotto gli occhi di tutti «perché da Berlusconi mi aspettavo, e ancora ci spero, un colpo d’ala che non è arrivato, e da Bersani maggior coraggio». E rimettendo al centro del dibattito un tema che non gli procurerà simpatie a sinistra, argomenta: «Una manovra che non affronta la questione ineludibile della riforma delle pensioni non può che ridursi a quel che è: tasse, balzelli e tagli lineari. Che sono il contrario della capacità di scegliere e governare». Parla Matteo Renzi, sindaco di Firenze.
E ne ha per tutti: Tremonti in testa, naturalmente.

Perché Tremonti, scusi?
«Perché le sue vicende personali, che qui non commento, gli hanno tolto lucidità e autorevolezza. Le misure che propone lo dimostrano.
Ormai somiglia all’imitazione che fa di lui Corrado Guzzanti: solo che Guzzanti, almeno, fa ridere».

Ammetterà che intervenire nel pieno della crisi non è facile.
«Governare non è mai facile: ma con Bankitalia e il Quirinale a far quotidianamente da sponda, era lecito attendersi di più.
Invece hanno confermato di essere al capolinea. E Berlusconi è messo così male da pendere dalle labbra di Bossi. Che è quanto dire».

E’ l’ultimo alleato rimastogli.
«Sarà. Però ormai è il capo dei conservatori. Fa tristezza. Lui, che ha cominciato come rivoluzionario, si è fatto nominare ministro delle Riforme per bloccare qualunque riforma. Ma non è che un Paese moderno possa accettare l’idea che di pensioni non si può nemmeno discutere perché arriva Bossi e dice no».

Anche i sindacati erano contrari, in verità.
«Hanno tra i pensionati il maggior numero di iscritti: non condivido ma capisco le difficoltà. Certe prudenze di Bersani, invece, non me le spiego. Ho letto le cose scritte da Prodi sulla crisi, e stavolta l’ho trovato più avanti del mio segretario».

Renzi spara sul quartier generale: siamo alle solite?
«Niente affatto. Però ci vuole più coraggio. Quando si liberalizza, bisogna farlo sul serio. Prenda la vicenda delle licenze per i taxi.
A Firenze abbiamo deciso di aumentarne il numero e vorremmo venderne un paio di centinaia. Fatti i conti, il Comune ci farebbe un bel po’ di quattrini. Poi, in un codicillo nascosto, ho scoperto che l’80% del ricavato deve essere redistribuito tra i tassisti... Direi che così proprio non va».

Ripeto: Renzi spara sul quartier generale?
«E io ripeto: niente affatto. Anzi, alcune delle proposte avanzate da Pier Luigi sono del tutto condivisibili. Il prelievo sui “capitali scudati”; l’aumento dell’Iva sui beni di lusso; la lotta all’evasione... Ma l’Italia, nonostante tutto, è un Paese grande, moderno e vitale. Bisogna capirlo e non averne paura».

E che c’entra, scusi?
«L’aumento dell’aspettativa di vita fa parte della crescita e del benessere di un Paese. Vivere di più, lavorare più a lungo e andare in pensione più tardi ne è una inevitabile conseguenza. Dobbiamo convincercene: anche perché in assenza di riforme strutturali che riducano la spesa non “una tantum” ma stabilmente, tra tre anni saremo punto e a capo con queste comiche».

Addirittura?
«Ma sì. A Firenze taglieranno, a occhio e croce, 50 milioni di euro: però mi permettono di portare l’addizionale Irpef dallo 0,3 allo 0,8%, così ne recupero 35... Le Province? Da abolire, ma solo un po’. Come direbbe Flaiano, la ragazza è incinta ma soltanto un po’.
E’ da ridere. E in aggiunta, dove occorrerebbe il bisturi, usano la sega elettrica: e dunque vai con i tagli lineari... Una classe dirigente seria avrebbe cominciato dalla previdenza: ma questi sono al lumicino e si vanno spegnendo come una candela».

Le sue critiche sono aspre, ma sull’abolizione delle Province anche lei ha dei dubbi, no?
«Nemmeno per idea. Solo che o le aboliamo tutte o non ha senso cancellarne una qui e una lì. Il governo aveva la possibilità di riscrivere la storia dei rapporti tra istituzioni in questo Paese: ha scelto di riscriverne la geografia».

Sarà d’accordo con lei Formigoni, secondo il quale con questa manovra il federalismo fiscale è morto.
«Già, ma sono io a non condividere il suo ottimismo. Parla del federalismo come di una cosa che c’era: io non l’ho mai visto.
E mi conceda una battuta sulla “macelleria sociale”: suona offesa verso i macellai, perché per tagliare un buon filetto ci vuole cura e attenzione. Lei in questa manovra ne ha viste, per caso?».

Non molte, in verità. E lei invece ha altre battute?
«No, solo una considerazione amara. Che a quelli della mia generazione i genitori hanno lasciato qualche soldo in banca e magari una casa in cui vivere: ai nostri figli, dopo aver lautamente mangiato, lasceremo il conto del ristorante da pagare. Non mi pare un successo di cui vantarsi...».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416056/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Nuove regole per salvare la politica
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2011, 09:26:02 pm
20/8/2011

Nuove regole per salvare la politica

FEDERICO GEREMICCA

L’interrogativo non è nuovissimo, ma resta - irrisolto - al centro di accesissime dispute politiche, economiche e non di rado perfino filosofiche: in società complesse e globalizzate, il potere vero - cioè la capacità di dettare regole e perfino comportamenti collettivi e individuali - appartiene alla sfera della politica o a quella dell’economia? Le vicende delle ultime settimane, con l’annaspare impotente dei governi di tutto il mondo di fronte alle scorribande della finanza più o meno speculativa, paiono contenere una risposta in sé: nell’assetto attuale, è la politica - ormai - a dover rincorrere in maniera sempre più evidente l’economia alla ricerca di un qualche accordo.

Governanti e classi dirigenti illuminate prenderebbero atto di tale evidenza per tentare - finalmente - di concordare nuove regole comuni e salvare, come si dice, quel che è ancor possibile salvare. In queste pesanti settimane, invece, si è spesso sentita ripetere - e non è questione solo italiana - una tesi per metà consolatoria e per metà frutto di calcoli politici, certo legittimi ma poco producenti. La tesi, nella sostanza, è così riassumibile: il grosso delle responsabilità dello spaventoso tsunami finanziario che sta sommergendo le Borse di tutto il mondo, sta nella pochezza - peggio: nell’assenza di qualsiasi autorevolezza - delle classi politiche governanti. L’assunto è stato esposto ripetutamente anche in Italia il mese scorso, al momento del varo della prima (e insufficiente) manovra del governo: per le opposizioni, a non esser credibili erano non solo e non tanto le misure proposte dal governo quanto gli stessi governanti, da Berlusconi a Tremonti e via via elencando. Ora, pur essendo del tutto evidente il crescente deficit di autorevolezza della compagine al governo, questa tesi - alla luce del profilo mondiale rapidamente assunto dalla crisi - viene riproposta assai più flebilmente: il che, naturalmente, non sposta di un millimetro il giudizio negativo che da tempo, ormai, circonda il governo.

A rischiarare con la giusta luce i termini - e la dimensione - del problema, ci hanno per altro pensato alcuni avvenimenti degli ultimi giorni. Due su tutti: l’effetto paradossale e addirittura controproducente avuto sui mercati dal vertice Merkel-Sarkozy (presentato alla vigilia come quasi risolutivo degli affanni europei) e il paio di capitomboli in cui è incappato Barack Obama, prima nel suo braccio di ferro con Standard&Poor’s e poi con l’annuncio di un piano di rilancio dell’economia americana (accolto da Wall Street con una serie di cali memorabili). Si può seriamente sostenere, allora, che alcune delle più forti e riconosciute leadership mondiali abbiano improvvisamente cominciato a soffrire dello stesso deficit di credibilità di Silvio Berlusconi? Dando per scontato che è dalla politica - e non dalla sola economia - che possono e devono arrivare risposte alle drammatiche difficoltà attuali, andrebbe forse modificato il «capo d’imputazione» da contestare alle classi governanti: la questione, insomma, forse non riguarda la loro credibilità tout court quanto la loro lungimiranza, la capacità di ragionare in maniera più «generosa», globale e solidale. L’approccio alle nuove e indispensabili regole da ricontrattare, insomma, non dovrebbe continuare ad esser condizionato da interessi esclusivamente nazionali, quando non addirittura - e peggio - elettoralistici.

Giunti sull’orlo del baratro, occorrerebbe prender consapevolezza del fatto che altri passi nella stessa direzione potrebbero esser esiziali. E’ un segnale di questo tipo che attendono i «cittadini del mondo», sulle cui spalle sta gravando il grosso della crisi. Dall’ultima querelle europea sugli eurobond, in verità, non arrivano messaggi incoraggianti. Ma si può ancora sperare. Nella forza delle cose, prima di tutto. E nel fatto che raramente il «vecchio ordine» ha lasciato campo al nuovo tra brindisi e tappeti rossi...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9106


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bersani: sulle pensioni sono pronto a discutere
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2011, 10:10:16 am
Politica

23/08/2011 - INTERVISTA

Bersani: sulle pensioni sono pronto a discutere

Il segretario del Pd: ascolto Napolitano, ma noi siamo alternativi a Berlusconi

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Ne ha per il tandem Berlusconi-Tremonti, rei «di aver disseminato il Paese di macerie»; e ne ha - naturalmente - per la Lega, perché «è un anno che denuncio le loro contraddizioni, e ora osservo l’effetto della crisi strategica in cui sono caduti». Ma Pier Luigi Bersani commenta anche l’ultima uscita (lunedì a Cortina) di Luca Cordero di Montezemolo, prendendosela con «un certo terzismo che attacca destra e sinistra ma non dice mai da che parte sta». Interrotte le vacanze (in realtà mai cominciate) per tornare a Roma e definire gli emendamenti pd alla manovra-bis del governo, il leader democratico accoglie con cortesia la richiesta di intervista. Che non può che cominciare dall’intervento pronunciato dal Capo dello Stato l’altroieri a Rimini.

Il Presidente Napolitano è parso avercela anche col Pd, colpevoli di far risalire a Berlusconi qualunque problema investa il Paese.
«Noi ripassiamo sempre due o tre volte, nella nostra testa, quello che dice il Presidente. Lo ascoltiamo. Io rivendico al Pd di aver fin dal primo giorno, inascoltato, descritto la situazione per quel che era: inascoltato sia da chi raccontava le favole sia da chi faceva finta di crederci. La crisi è stata sottovalutata e tenuta nascosta: è un’accusa che teniamo ferma e che siamo pronti a documentare. Mi pare che il Presidente riconosca che sia andata così. Mi piacerebbe un riconoscimento anche da parte di altri...».

Quanto al resto?
«Quale resto?».

Chiamiamolo un presunto eccesso di antiberlusconismo.
«Il Presidente, come tutto il Paese, sa che noi intendiamo essere un’opposizione di governo assolutamente responsabile: ma alternativa. Ripeto: alternativa. Perché la cura berlusconiana cui è sottoposta l’Italia, è un assoluto disastro».

Il Quirinale insiste nel chiedere a tutti coesione e senso di responsabilità. Dopo il varo della manovra di luglio e poi le mancate dimissioni del governo, lei disse: la nostra responsabilità si ferma qui. E oggi, dunque?
«Intendevo ed intendo che la nostra responsabilità si ferma alla soglia del merito delle scelte. Noi ci prendiamo come sempre la responsabilità di cercare soluzioni, garantiamo il saldo di bilancio e perfino i patti con l’Europa fatti da Tremonti (sui quali avremmo molto da dire). Però le ricette no: la nostra collaborazione si ferma davanti a un merito che non condividiamo. Perché non ci possono raccontare, per esempio, che in un momento così non si può far pagare chi non ha mai pagato».

Raccontano questo?
«Da molte parti sta venendo fuori questa favola: che non è possibile, non è mai possibile far pagare chi non ha mai pagato. E’ vergognoso. E noi su questo ci impuntiamo con tutti e due i piedi».

Si riferisce al “no” ricevuto all’idea di prelievo sui capitali cosiddetti “scudati”?
«Non solo a quello. La nostra proposta di articola su pochi punti. Primo: una terapia choc contro l’evasione. Proporremo l’uso di sette o otto grimaldelli che, se utilizzati, possono aiutare a cominciare a vincere la battaglia. Secondo: una imposta sui patrimoni immobiliari rilevanti. Terzo: un ridimensionamento drastico di pubblica amministrazione, istituzioni e costi della politica. Quarto: un contributo di solidarietà che finalmente gravi non sui tassati ma sui condonati. A questo aggiungiamo liberalizzazioni, dismissioni ragionevoli del patrominio pubblico, e un po’ di politica industriale e di sostegno all’economia. Per l’amor di Dio: si può non essere d’accordo, ma non si snobbi questo piano. Perché non ci faremo intimidire da chi dice semplicemente che non si può».

E le pensioni, scusi?
«Le pensioni sono un discorso serio, ed è ora di smetterla di tentare di cavar soldi da lì, per coprire il buco del giorno, per non toglierli agli evasori o a chi è sempre al riparo. E’ insopportabile. Comunque, se dopo tutto quello che ho elencato si vuol parlare di evoluzione del sistema pensionistico a favore dei giovani, si ricordi che noi siamo i primi ad aver fatto la riforma. Io sono per discutere, dunque. Abbiamo sempre detto che per noi la messa a regime del sistema consiste nell’individuare una fascia di anni nella quale ci sia flessibilita di uscita in ragione di meccanismi di convenienza. Parliamone. Quel che non accetto è che per colmare il buco degli enti locali si vogliano toccare le pensioni: si facciano pagare i condonati e si metta una tassa sui patrimoni rilevanti. Se non sanno come si fa, glielo spieghiamo noi».

Magari lo sanno ma non vogliono farlo...
«Possibile. Allora, però, non accusino noi di chiusura. Della flessibilità di cui dicevo, per altro, avevamo parlato già nella nostra conferenza sul lavoro, mesi fa. Altro che chiusura».

Anche Montezemolo, però, critica il presunto silenzio del Pd sulla manovra e dice che il poco che avete proposto la ritassazione dei capitali “scudati” non si può fare.
«Devo dire la verità: a me le sue dichiarazioni non sono piaciute. Nel merito: si limiti a dire se sia più giusto chiedere solidarietà ai condonati o ai tassati, perché siamo grandi e non siamo nati ieri, a renderla praticabile ci pensiamo noi. Più in generale - e alludo a Montezemolo e non solo - è uno sport antico di certo terzismo cercare di farsi largo semplicemente criticando a destra e a manca: ma sono cose, diciamo così, da precampionato... Noi siamo in un sistema ormai radicalmente bipolare: e oltre a dire cosa si vuol fare, bisogna anche spiegare da che parte si sta. Perché finché c’è il precampionato, va tutto bene: ma quando si arriva al dunque, bisogna scegliere. Chiunque entra in politica con obiettivi positivi, naturalmente, è sempre benvenuto: ma scelga e spieghi da che parte sta. Perché l’Italia, al punto in cui è, per i precampionati davvero non ha più tempo».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/416553/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Gli effetti del voto blindato
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2011, 05:37:07 pm
7/9/2011

Gli effetti del voto blindato

FEDERICO GEREMICCA

Aveva utilizzato perfino un incontro mattutino col ministro degli Esteri, sperando che Frattini potesse fare in qualche modo da ambasciatore nei confronti del presidente del Consiglio.

E il titolare della Farnesina - in verità - non è venuto meno all’impegno: così, lasciato il Quirinale e utilizzando un post sul proprio blog, ha auspicato che la manovra venisse approvata attraverso un confronto con l’opposizione e senza la «blindatura» del voto di fiducia. Silvio Berlusconi ha invece deciso di battere un’altra via, diciamo pure la solita via: e basterebbe questo per intendere qual era l’aria che si respirava ieri sera nelle stanze ordinatamente frenetiche del Quirinale.

Uno stato d’animo scisso: forse l’umore di Giorgio Napolitano potrebbe esser descritto così. Da una parte, la consapevolezza - e la soddisfazione - per il fatto che l’appello lanciato lunedì sera («Si è ancora in tempo per introdurre misure capaci di rafforzare l’efficacia e la credibilità della manovra») alla fine fosse stato raccolto dall’esecutivo; dall’altra, un malcelato disappunto per la scelta del governo di soffocare ogni possibilità di confronto con l’opposizione, ricorrendo al voto di fiducia.

Non solo: bisogna infatti aggiungere che permane una certa circospezione nella valutazione delle scelte effettuate dall’esecutivo, visto che il testo - a ora tarda - non era stato ancora trasmesso al Colle. E se è vero che al capo dello Stato non compete certo un giudizio di merito del provvedimento, è altrettanto vero che i tecnici del Quirinale non di rado hanno scovato in questo o quel decreto norme relative a materie che non c’entravano affatto con i provvedimenti in questione...

Al di là delle non sindacabili scelte di merito del governo, insomma, quel che certamente non è stato apprezzato dal capo dello Stato è il ricorso alla solita «tagliola» del voto di fiducia. Il governo ha motivato tale scelta con ragioni quasi tecniche: la necessità, cioè, di approvare il provvedimento in almeno una delle due Camere prima dell’importante riunione del board della Banca centrale europea previsto per domani. Non è escluso, naturalmente, che vi siano anche altre motivazioni dietro la scelta compiuta da Berlusconi (per esempio le crescenti fibrillazioni all’interno della maggioranza di governo): quel che è sicuro è che le opposizioni hanno preso assai male l’annuncio dell’ennesima fiducia. E questo, in qualche modo, rappresenta un problema anche per il capo dello Stato.

Nel suo continuo lavoro di cucitura e stimolo, infatti, Napolitano ha sovente fatto appello al senso di responsabilità delle forze di opposizione, reclamando coesione e chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Il Pd - e Bersani in particolare - non si sono sottratti all’invito del Quirinale, pur chiarendo che l’invocato senso di responsabilità si fermava, naturalmente, sulla soglia delle scelte di merito che l’esecutivo andava compiendo. E’ evidente che il ricorso al voto di fiducia - annullando ogni possibilità di confronto - non solo vanifica i ripetuti inviti alla coesione lanciati dal Capo dello Stato, ma fornisce un potente alibi a chi ritiene che anche in momenti tanto delicati - l’opposizione debba scindere nettamente le proprie responsabilità da quelle dell’esecutivo (per esempio Di Pietro, che ieri ha annunciato l’ostruzionismo dell’Italia dei Valori nei confronti del provvedimento del governo).

Non è un buon viatico per il futuro: e considerando che è da escludere che l’emergenza economica venga risolta con la semplice approvazione del decreto in discussione, la scelta del governo di ricorrere alla fiducia rischia di render più difficili o addirittura compromettere i passi che si renderanno necessari dalla settimana prossima in poi. Per ora, in ogni caso, quel che conta più di ogni altra cosa è la risposta che arriverà stamane dai mercati. Tutta l’attenzione sarà per la Borsa e l’andamento dei listini: sperando che, fiducia o non fiducia, la manovra annunciata dal governo riesca almeno ad arginare un declino che ancora ieri sembrava inarrestabile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9169


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - NAPOLITANO: SULLA COSTITUZIONE TROPPA APPROSSIMAZIONE
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2011, 05:50:37 pm
Politica

09/09/2011 - NAPOLITANO: SULLA COSTITUZIONE TROPPA APPROSSIMAZIONE

Napolitano, il presidente supplente e quelle sollecitazioni irricevibili

"Sulle modifiche alla Costituzione troppa improvvisazione e approssimazione"

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A PALERMO

Se ne sta finalmente lì, con la moglie Clio, un momento tranquillo a guardare il vuoto oppure il mare dai giardini di Villa Igiea, splendido albergo circondato da ficus, oleandri e palme africane.È ora di pranzo, la Bce a Francoforte sta benedicendo la manovra faticosamente varata dal governo e questo 8 settembre, allora, non è precisamente il giorno di un’altra resa: eventualità pure concretissima fino a non troppe ore fa. Non lo è: e se non lo è, molto lo si deve proprio a lui, Giorgio Napolitano, cioè il presidente che Gianfranco Pasquino - in un dialogo pubblico nell’aula magna di Ingegneria - definisce con bella immagine «predicatore dei valori costituzionali».

E sarebbe stato assai più riposante, per il presidente, esser questo e solo questo, nell’ultimo paio di anni. E’ un compito, certo, cui ha dovuto assolvere, perchè ancora oggi - dice nel suo colloquio con Pasquino - «con molta improvvisazione e molta imprecisione, ci si sveglia una mattina e si propone di cambiare questo o quell’articolo della Costituzione, magari solo perchè non piace più». Ma non è toccato solo questo, a Napolitano: tanto che spesso ha dovuto interrompere il suo pellegrinare per l’Italia - in questo anno di anniversario dell’unità per rimettere ordine, richiamare, svelenire contrapposizioni e frenare pericolose tracimazioni. «Ormai non è solo il capo dello Stato - si legge o si sente dire - ma fa anche il capo del governo». E come se non bastasse, c’è chi vorrebbe che ora vestisse addirittura i panni di capo dell’opposizione: che, certo con quale azzardo, tra i tre ruoli si potrebbe forse definire quello che gli si addice meno...

Si è molto raccontato, negli ultimissimi giorni, di un intenso lavorìo del Quirinale - di sponda con Mario Draghi - per la definizione di una manovra che avesse finalmente un senso e fosse accettata in Europa: non ce ne è prova, ma probabilmente è vero. E’ invece sicuramente vero che al suo indirizzo vengono rivolte di sovente sollecitazioni non ricevibili: soprattutto da un presidente come lui. Non troppi giorni fa, in un cordiale ed importante incontro al Quirinale, Napolitano ne ha fatto cenno al suo interlocutore: «C’è chi chiede a me - ha spiegato - di dare una spallata al governo, fingendo di ignorare che questo è impossibile, e che è impensabile che un presidente si avventuri lungo una via che potrebbe portare a tremendi scontri istituzionali. Lo smottamento del partito di maggioranza - che molti pronosticavano - non c’è stato. I segnali e le defezioni annunciate sono state poca cosa... Il governo ha una maggioranza, di alternative all’orizzonte non se ne vedono e dunque la mia preoccupazione principale è la tenuta e la credibilità del nostro Paese in Europa. Al resto pensino altri, non è compito mio».

Il suo compito, accettando la definizione offertagli da Pasquino, ma poi spiegando di preferire quella di Calamandrei («viva vox Costituzionis»), è tener salda l’unità del Paese, rappresentarlo all’estero, predicare non solo i valori costituzionali ma - dati i tempi - a volte i valori e basta. Nel suo dialogo con Pasquino, che gli chiedeva degli errori commessi dall’unità in poi e delle difficoltà a stare in Europa, Napolitano ha ripetuto per due volte una frase che a molti è parsa rivolta al presidente del Consiglio, a certi suoi modi di fare, a certe sue abitudini: «Io speravo, pensavo, che la celebrazione del 150˚ anniversario dell’unità, favorisse un esame di coscienza collettivo del lavoro fatto da quella data ad oggi. Dobbiamo interrogarci su quali comportamenti
- comportamenti anche individuali - occorra cambiare per andare avanti e stare al passo con l’Europa».

E’ stato, se si vuole, uno dei pochi accenni polemici di Napolitano in una giornata - in una fase - nella quale non è lo scontro quel che secondo il presidente serve, bensì quell’unità, quella «coesione» così spesso invocata. Pasquino ha provato a provocarlo: ti pare valorizzato il ruolo del Parlamento (49 voti di fiducia da inizio legislatiura a oggi)? «Ho trascorso 43 anni netti in Parlamento: dunque per me il suo ruolo è fondamentale, irrinunciabile». Risposte indirette, prudenza e attenzione a non surriscaldare il clima in una fase tanto delicata. Ma chi conosce la storia politica e personale del capo dello Stato, non fa fatica a immaginare il disappunto e lo scoramento di Napolitano di fronte a scelte e decisioni delle quali non afferra l’utilità. Della manovra, come è ormai noto, non ha apprezzato tutte le scelte: alcune gli sono parse inique, altre poco comprensibili. Si è detto, per esempio, dei suoi dubbi rispetto alla modifica dell’articolo 8: da ieri si sussurra addirittura di una iniziativa che - a manovra approvata - il presidente intenderebbe assumere per spingere il governo ad un ripensamento. «E’ un problema che si pone - spiegavano i suoi collaboratori -. Ma non è l’unico, e forse non è nemmeno il primo...».

Il primo impegno, per dirla come l’ha detta Gianfranco Pasquino, è continuare a predicare il rispetto dei valori, dei ruoli, dare con l’esempio il senso di un Paese che non si arrende e recupera l’antico orgoglio. Battere l’Italia per dare lustro a mostre e iniziative che festeggiano i 150 anni dall’unità e restituiscono quel senso d’appartenenza colpevolmente dilapidato. E’ un’opera non facile per quest’uomo che fu delfino di Giorgio Amendola, che incontrava a cena Zaccagnini e Lama, che fu amico di Pertini e De Martino e che dal palco, assieme a Pasquino, confessa che «alcuni mi consideravano addirittura una quinta colonna di Altiero Spinelli dentro il Pci».

Però non si arrende, e dialoga con chi c’è e con quel che c’è. E poiché c’è poco - e negli ultimi tempi anche meno di poco - a volte lo scoramento è grande. «Mai il livello di apprezzamento per un capo dello Stato ha raggiunto vette così alte - lo incoraggia Pasquino -. In qualunque altro Paese si parlerebbe di rielezione...». Giorgio Napolitano glissa, lascia cadere. Ci sono certe telefonate e un tal Lavitola di cui forse occuparsi. Ne farebbe a meno, è chiaro. Ma che predicatore sarebbe se rinunciasse a dire quel che è necessario?

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/419338/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Terzo polo una chimera per il Pd
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2011, 03:40:34 pm
30/9/2011

Terzo polo una chimera per il Pd

FEDERICO GEREMICCA

Si sente ripetere spesso - e la tesi non è infondata - che il fatto che il grosso della polemica politica resti tutta ancora incentrata sulle vicende giudiziarie del premier, in fondo, per l’esecutivo non sia un male.

Avrebbe di certo più difficoltà, infatti, a trovare argomenti e reggere il confronto sulle riforme promesse e non realizzate o sulle ricette, per esempio, messe in campo per l’uscita dalla crisi. Fatte tutte le differenze (e la principale sta nelle responsabilità che riguardano chi governa) analogo ragionamento sembra valere anche per l’opposizione: unitissima nell’attacco a Berlusconi ma pronta a dividersi su quasi qualunque altro tema.

La vicenda del non-voto della pattuglia radicale sulla mozione di sfiducia al ministro Romano o le profonde differenze intorno al modello di legge elettorale (ipoteticamente) da adottare sono solo alcuni esempi recenti di tali divisioni. In verità, non sono nemmeno i più preoccupanti, considerato che, col gran parlare che si fa di elezioni anticipate, due questioni stanno riemergendo con irrisolvibile nettezza: le alleanze con le quali andare al voto e il leader chiamato a guidare la coalizione nella sfida al centrodestra.

Negli ultimi giorni, diciamo a partire dalla presenza contemporanea di Bersani, Vendola e Di Pietro alla festa dell’Idv di Vasto, le due questioni si sono fuse dando il via ad un fuoco di fila che ha per bersagli il modello di alleanza prefigurato nel raduno abruzzese (che ha fatto evocare la «gioiosa macchina da guerra» di occhettiana memoria) e la circostanza che il candidato premier del centrosinistra debba inevitabilmente essere Pierluigi Bersani, qualunque sia il tipo di alleanza con il quale il Pd affronterà le elezioni. La polemica contro la «triade di Vasto» è stata cavalcata soprattutto dall’area cattolica del partito democratico, che non fa mistero di considerare irrinunciabile un’alleanza col Terzo polo di Pier Ferdinando Casini; a non dare per scontata la candidatura a premier di Bersani, invece, sono i cosiddetti veltroniani - animati ancora da un qualche spirito di rivalsa - oltre che Vendola stesso, naturalmente.

Si tratta di questioni certamente non facili da risolvere, tanto è vero che sono lì del tutto aperte. Ma, giunti a questo punto, non è forse azzardato ipotizzare che una soluzione - in fondo - sia già nelle cose: e che non venga accettata (riconosciuta) perché forse dolorosa e sgradita ai più. Intendiamo dire che la posizione ripetutamente espressa da Pier Ferdinando Casini (mai con Di Pietro e Vendola) andrebbe, a questo punto, presa per quel che è: cioè una seria dichiarazione di intenti. E che l’eclissi di Berlusconi e le grandi manovre in corso nel centrodestra rendono certamente più allettante - oltre che più naturale - per il leader dell’Udc un patto con un centrodestra libero (se sarà libero...) dalla presenza di Silvio Berlusconi.

Le difficoltà dell’area cattolica del Pd a «digerire» una tale soluzione sono del tutto comprensibili: la caccia al sempre inseguito «voto moderato» (se non proprio cattolico) si farebbe infatti assai difficile. Eppure, se la scelta del Terzo polo va maturando nella direzione che si diceva, forse converrebbe prenderne atto per tempo, provando almeno a valorizzarne le conseguenze. La prima è certamente una maggior chiarezza strategica da trasmettere agli elettori: fine, insomma, dell’imbarazzante ritornello «vi diremo poi con chi ci alleiamo», che è uno dei limiti maggiori delle forze oggi all’opposizione. La seconda potremmo definirla un atto di fiducia (in condizioni di necessità, certo) verso quello che viene di solito chiamato il «popolo di sinistra».

Pochi mesi fa, dopo l’esito delle primarie in città come Milano e Cagliari (dove i candidati cosiddetti «radicali» sconfissero gli alfieri del Pd) o dopo il risultato del primo turno a Napoli (con De Magistris al ballottaggio al posto del favorito Morcone), vennero intonati molti «de profundis», perché le partite sembravano inevitabilmente perse. Fu invece un trionfo, col centrodestra scompaginato nelle sue roccaforti (Milano) e battuto in città già date per conquistate (Napoli). Ora, naturalmente, una cosa è vincere (per di più delle elezioni amministrative) e un’altra è riuscire a governare, come testimoniò l’ultimo esperienza di Romano Prodi. Ma intanto, banalmente, è sempre meglio vincere che perdere. E soprattutto, se la via dell’alleanza elettorale col Terzo polo si va tramutando sempre più in una chimera, tanto vale - forse - prenderne atto, smetterla di inseguire fantasmi e rimboccarsi le maniche, piuttosto, in vista di quel che sarà...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9261


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Dove sono i giovani del Pdl?
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:13:36 am
12/10/2011
Dove sono i giovani del Pdl?

FEDERICO GEREMICCA

Nell’ennesima giornata crepuscolare per il governo guidato da Silvio Berlusconi, due notizie - una senz’altro di rilievo, l’altra magari minore - hanno contribuito a dare il senso di quel che si muove - in quest’epoca di crisi - nei due partiti maggiori degli opposti schieramenti.

La prima è il lungo faccia a faccia tra il presidente del Consiglio e l’«eterno» Scajola, portavoce di un dissenso non solo suo ma anche del vecchio e saggio Beppe Pisanu; la seconda è il piccolo dispetto fatto da Pier Luigi Bersani a Matteo Renzi, chiamando a raduno duemila giovani democrats del Sud proprio nei giorni in cui il sindaco di Firenze riunirà per la seconda volta i suoi agguerriti «rottamatori».

Le due notizie illuminano, in qualche modo, il carattere ed il profilo della discussione (diciamo pure della battaglia interna) che sta scuotendo Pdl e Pd. E c’è un dato che balza agli occhi, un dato naturalmente anagrafico: Scajola e Pisanu, assieme, assommano a poco meno dell’età dei quattro «giovani leoni» che stanno agitando le acque nel Pd, e cioè Renzi, Serracchiani, Civati e Zingaretti. Non è la giovane età da sola - come dovrebbe esser chiaro da sempre - a garantire della bontà di un progetto politico o di una leadership: ma della vitalità di un partito, invece, molto probabilmente sì.

Alcuni osservatori hanno ironizzato intorno alla circostanza che in questa metà di ottobre saranno addirittura tre i raduni organizzati dai giovani «irrequieti» del Partito democratico: è un’ironia che può esser condivisa limitatamente al fatto che fa sorridere (e dà modo di pensare) l’esistenza di solchi già così profondi (profondi fino al punto da ricordare le «correnti» degli adulti) all’interno di una generazione relativamente nuova alla politica. Ma detto questo, sarebbe forse più utile domandarsi - alla luce del venerando pressing del duo Scajola-Pisanu - dove sono, che fine hanno fatto e che progetti hanno i giovani del Popolo della libertà: partito germinato da Forza Italia, che proprio dell’immissione di nuove leve nell’agone della politica fece un suo tratto distintivo (e interessante).

Nel campo del centrodestra, infatti, non manca certo una generazione di trentenni-quarantenni che era parsa - a un certo punto - davvero in grado di lasciare un segno. Dalla Geminino alla Meloni, da Fitto alla Carfagna, passando per Alemanno, Brambilla, Ravetto e Prestigiacomo - solo per fare alcuni nomi - era stata messa in campo una squadra sulla quale non solo Berlusconi ma il «popolo del centrodestra» erano parsi puntare con decisione. Di questa squadra faceva parte lo stesso Alfano, poi cooptato e «comandato» dallo stesso premier a sostituirlo alla guida del partito: dove piuttosto che promuovere il rinnovamento di una affaticata classe dirigente, si è dovuto dedicare (con scarso costrutto) a sbrogliare vecchie matasse e mediare tra stagionati «capibastone» e antichi padroni delle tessere.

Quel che sorprende (oppure che la dice lunga intorno a certe qualità e certi metodi di selezione) è che, nemmeno nella fase declinante del berlusconismo, dai più giovani siano arrivati segnali di insofferenza e iniziative propedeutiche ad una sempre possibile riscossa. Tutti lì, fermi, obbedienti, forse sgomenti e sorpresi dal crepuscolo del leader: tanto che la fronda - e in taluni casi la rottura - è dovuta arrivare da sessanta-settantenni come Fini, Tremonti, Scajola e Pisanu. Il tutto, se si riuscisse a guardare lontano, non rappresenta affatto un’assicurazione sul futuro del Popolo delle libertà, o come si chiamerà in futuro il nuovo partito del centrodestra.

Ci sono molti rischi, è vero, in certe forme di giovanilismo e - a volte - perfino nell’affidare a dei «non anziani» responsabilità di guida politica. Ma il Pdl, a guardarlo ora, non sembra aver più molto da perdere. Sarebbe tempo che i giovani del centrodestra battessero un colpo. E così come Pippo Civati ripete «vorrei un Parlamento senza D’Alema e senza Veltroni», sarebbe un segno di vita e di novità sentir dire da qualche giovane leader del centrodestra «e io ne vorrei uno senza più Bossi e nemmeno Berlusconi»...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9311


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Opposte debolezze
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2011, 05:31:50 pm
15/10/2011

Opposte debolezze

FEDERICO GEREMICCA

Silvio Berlusconi e la sua maggioranza esultano per la cinquantatreesima fiducia incassata, che stavolta ha significato davvero portare a casa la pelle; Pier Luigi Bersani e le opposizioni parlamentari, invece, sono soddisfatti per aver dimostrato al Paese che il governo è debole ogni giorno di più. E così, alla fine di una giornata nient’affatto edificante, può perfino accadere che tutti - o quasi tutti - abbiano un buon motivo per festeggiare. È qualcosa di diverso e di peggio dell’eterno «chi si contenta gode»: è il prodotto di un ormai lungo ed estenuante braccio di ferro tra due debolezze che da un anno e mezzo, di fatto, tengono praticamente in ostaggio il Paese.

Quel che è accaduto ieri nell’aula di Montecitorio assediata da Indignati, Draghi Ribelli e Popolo viola, non ha bisogno di molte spiegazioni, trattandosi del triste ed identico copione che va in scena dall’aprile dell’anno scorso: da quando, cioè, Fini e la sua pattuglia abbandonarono Silvio Berlusconi lasciandolo in balia di un drappello di cosiddetti «responsabili». Da allora, ogni voto di fiducia è al cardiopalma, preceduto da ricatti e minacce, e seguito da ringraziamenti e prebende ai dubbiosi e agli incerti: ieri, con la nomina fulminea di due nuovi sottosegretari e di due viceministri, il ringraziamento è stato tempestivo come mai. Non si è badato nemmeno a salvare l’apparenza: ma il punto, ormai, non è più nemmeno questo.

Quel che infatti comincia seriamente a preoccupare - anche per le prospettive che apre: altri mesi di paralisi in attesa di elezioni la prossima primavera - è il totale smarrimento del bandolo della matassa, l’assenza di qualunque strategia politica, nella convinzione che prove muscolari - da una parte - o semplice attesa della consunzione del nemico - dall’altra - siano sufficienti ad assolvere ed a legittimare i rispettivi ruoli. Il drammatico declino economico - e ormai perfino etico - lungo il quale si è incamminato il Paese, dovrebbe dimostrare che non è così: ma le locomotive sono lanciate l’una contro l’altra, e fermarle si sta rivelando ormai impossibile.

Un po’ di «politica all’antica» (detto senza nostalgia) e un briciolo di lungimiranza, avrebbero forse fatto intendere a Berlusconi, già un anno fa, che la via del governo del Paese - non della sopravvivenza: perché in quella è riuscito - non poteva passare da un patto/ricatto con gruppi di transfughi in cerca di fortuna. E’ a quell’epoca che andava offerta un’intesa al Terzo Polo di Casini, un patto proposto oggi in maniera affannosa e non credibile. Non averlo fatto ha condotto il governo sulle secche che lo bloccano da mesi. Oggi una soluzione non appare più possibile: e quel che per Berlusconi è peggio, è che questa sorta di muoia Sansone con tutti i filistei non ha solo paralizzato l’esecutivo in un momento difficilissimo, ma ha anche - secondo qualunque sondaggio - compromesso ogni possibilità di alleanza e di vittoria del centrodestra alle prossime elezioni.

Fatte molte differenze (e la fondamentale attiene alle diverse responsabilità di chi governa e di chi è all’opposizione) anche il Pd - perno dell’alternativa - dovrebbe interrogarsi circa il fallimento della propria strategia (caduta del governo Berlusconi a vantaggio di un esecutivo di responsabilità nazionale). Considerata l’aria che tira - e non da oggi - non ha senso sorprendersi delle fiducie incassate dal premier, se l’alternativa è il puro e semplice scioglimento delle Camere: i fatti continuano a dimostrare (ieri qualche «responsabile» l’ha perfino detto in chiaro) che molti parlamentari non intendono «tornare a casa», e che difenderanno stipendio e vitalizio con le unghie e con i denti.

Come mai e perché - in una legislatura che ha visto scissioni, rotture e nascita di nuovi gruppi parlamentari - il tandem Bersani-Casini non è riuscito a catalizzare consensi e voti nelle aule parlamentari, così da render credibile (e possibile) la nascita di un governo diverso, che costituisse per incerti e dubbiosi un’alternativa al bivio «o Berlusconi o il voto»? Cos’è che ha frenato un’iniziativa politica capace di sbloccare la situazione, offrendo perfino qualche margine d’azione in più allo stesso Quirinale?

Le risposte possono essere molte, e vanno cercate. Un partito-calamita come vuol essere il Pd, infatti, non può rassegnarsi a questa apparente incapacità di costruire e allargare le sue alleanze. E’ un tema ineludibile, visto che condiziona anche linea e strategia con le quali affrontare le future elezioni. Se la storia insegna qualcosa, verrebbe da dire che puntare solo sulla crescente debolezza di Silvio Berlusconi, potrebbe essere fatale. Come rischiò di esserlo nelle elezioni del 2006, considerate una passeggiata e vinte, alla fine, per la miseria di 20 mila voti...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9322


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'operazione verità del Colle
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2011, 09:26:48 am
20/10/2011

L'operazione verità del Colle

FEDERICO GEREMICCA

L'ultimo braccio di ferro, per fortuna, non attiene alle sue responsabilità, né dirette né indirette: ma potesse dir qualcosa sulla sconcertante vicenda della nomina del Governatore di Bankitalia, Napolitano non nasconderebbe delusione e disappunto.

Di quel che si è mosso e si muove intorno alla sostituzione di Mario Draghi, non gli è piaciuto probabilmente niente: non le sponsorizzazioni politiche di questo o quel candidato e nemmeno certi comportamenti personali - diciamo talune impuntature - che hanno ulteriormente complicato la ricerca di una soluzione.

Del resto, non è che manchino campi e questioni sulle quali il Presidente sia da tempo costretto a manifestare la propria combattiva amarezza: e ieri, intervenendo alla tradizionale cerimonia per la nomina dei nuovi cavalieri del lavoro (con al fianco un Berlusconi stanco e sonnecchiante) ha appunto rielencato questi campi e queste questioni. Aggiungendovene un paio del tutto nuove: la preoccupazione che il clima sempre più preelettorale peggiori ulteriormente le cose, e poi quella che ha definito «la frustrazione giovanile», andata in piazza sabato a Roma e deturpata dall’azione irresponsabile di frange estreme.

Al Quirinale, qualcuno dei collaboratori del Capo dello Stato, si spinge a paragonare l’intervento di ieri del Presidente a una sorta di «operazione verità». Una verità che le forze politiche annusando aria di elezioni anticipate probabilmente non possono o non vogliono più dire. E la verità, secondo Napolitano, è che in una situazione così difficile per il Paese non si scorgono né il clima né l’impegno e nemmeno le misure adatte a fronteggiare l’emergenza.

Ognuno dovrebbe fare la sua parte, e questo non accade: il richiamo è «in primis» per il governo, inevitabilmente, mentre - annota Napolitano - «molto sta facendo il mondo delle imprese». E’ qualcosa, ma certo basterà: soprattutto se non si mette con urgenza mano a quel «pacchetto crescita» per il quale, invece - secondo il premier una volta non ci sono i soldi, un’altra non c’è fretta ed una terza «qualcosa ci si inventerà». Non è così che si riuscirà a tirar fuori la testa dall’acqua: a maggior ragione se, come sottolineato, maggioranza e opposizione dovessero cominciare a torcere questioni e soluzioni in rapporto alle rispettive convenienze elettorali.

Un’ultima annotazione, facilmente comprensibile da chi ha seguito da vicino l’evolversi degli sforzi e degli appelli del Capo dello Stato. E’ dall’apparire all’orizzonte della crisi che Giorgio Napolitano ripete incessantemente il suo invito all’unità e alla coesione sociale: bene, da questo punto di vista, l’ultimo mese viene definito - al Quirinale - un mese «gonfio di amarezze». Infatti, non c’è settore nel quale - piuttosto che al crescere della coesione non si sia assistito al moltiplicarsi delle divisioni e delle spaccature.

Diviso il sindacato, divisa Confindustria, divise - perfino al loro interno - le forze di maggioranza e di opposizione. E per finire, drammatiche divisioni in piazza: novità che sembra avere scalato molte posizioni nella graduatoria delle preoccupazioni del Presidente. La frase pronunciata ieri di fronte ai cavalieri del lavoro è di quelle forti, e nient’affatto dettate dal caso: «La questione della disoccupazione e della frustrazione giovanile - ha annotato Napolitano - deve essere al centro delle nostre preoccupazioni. E parlo di preoccupazioni per la coesione sociale e anche per l’equilibrio democratico e la convivenza civile».

E’ perfino questo che si rischia, lasciando senza risposte una generazione che non può continuare a fare della precarietà l’unica propria certezza. Presidente dalla lunga esperienza politica e parlamentare, Napolitano ha già visto le terribili degenerazioni che si possono strumentalmente innescare a partire dalla «frustrazione giovanile». E’ per questo che lancia il suo allarme. Sperando che non segua sorte identica agli appelli alla coesione, applauditi da tutti ma ascoltati - in verità - quasi da nessuno...

DA - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9342


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'anomalia Renzi, il Pd che piace a destra
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2011, 11:46:32 am
1/11/2011

L'anomalia Renzi, il Pd che piace a destra

FEDERICO GEREMICCA

È possibile che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, abbia ragione, e che le idee proposte da Matteo Renzi all’adunata della Leopolda siano (magari non proprio tutte...) roba «da Anni 80».

Ciò, però, non risolve affatto - e anzi in qualche modo appesantisce - il vero problema che sembra esser oggi di fronte allo stato maggiore del Pd: l’interpretazione, cioè, del consenso crescente che accompagna l’azione del giovane sindaco di Firenze. È evidente, infatti, che quanto più si sminuisce quel che Renzi dice (e quel che propone), tanto più diventa complicato spiegarne il successo. A meno di non volersela prendere con il comprensibile disorientamento che da tempo, ormai, attraversa il Paese: tesi certo possibile, ma assai simile all’anticamera di una resa.

Ovviamente - e invece - Pier Luigi Bersani non ha alcuna intenzione di arrendersi e lasciare il passo a Renzi: rivendica le prerogative garantite dallo Statuto del Pd al segretario del partito in caso di primarie per la scelta del candidato premier; insiste (come domenica a Napoli) sul profilo di un Pd certo responsabile ma «da combattimento»; prepara (sabato a Roma) una manifestazione di piazza per esporre le sue ragioni politiche e programmatiche. Va tutto bene: se non fosse che ognuna di queste contromosse appare (o rischia di apparire) vecchia e vana di fronte al caleidoscopio di idee (certo non tutte convincenti) e di emozioni che il sindaco di Firenze maneggia con spregiudicata maestrìa.

Dunque, piuttosto che una reazione dettata da una sorta di antico riflesso condizionato (il richiamo alla disciplina, l’anatema nei confronti dell’avversario, il declassamento delle idee proposte) sarebbe forse più utile interrogarsi davvero sulle ragioni del consenso conquistato da Renzi, ed anche - se non soprattutto - sulla «spendibilità» di quel consenso. Un sondaggio reso noto ieri, infatti, conferma un fenomeno del quale molti osservatori si dicevano già certi: il sindaco di Firenze raccoglie più favore a destra (48%) o al centro (47%) piuttosto che nel centrosinistra (44%) o a sinistra (addirittura 25%). Si tratta di dati sui quali non sarebbe male ragionare, visto che segnalano una situazione certamente inedita e che però potrebbe paradossalmente rappresentare una soluzione ad un antico problema del centrosinistra in tutte le sue versioni (dall’Ulivo all’Unione e via dicendo).

Per dirla in estrema sintesi: Matteo Renzi sembra esser di quei candidati capaci di vincere delle elezioni alle quali però non arriverebbero mai, visto che prima perderebbero (stando al sondaggio in questione) il test delle primarie. Si tratta di una circostanza, di un profilo che - fatte tutte le differenze - ricorda non poco la vicenda di Tony Blair, più amato fuori che dentro il Labour party. E’ una situazione appunto inedita: che contiene, però, la parziale soluzione di uno dei più irrisolvibili rovelli del centrosinistra, la sua difficoltà (incapacità) ad intercettare voti moderati e di centro. Ora, l’interrogativo è: esiste un modo per rendere spendibile e produttiva l’anomalia costituita dalla qualità del consenso che va cementandosi intorno a Matteo Renzi?

La risposta non è certamente facile, ma la soluzione non pare però raggiungibile attraverso i toni aspri e la chiusura a riccio che contraddistinguono da sempre la reazione del vertice del Pd alle iniziative del sindaco di Firenze. Contestargli un eccesso di populismo o un uso strumentale del dato anagrafico, non paiono infatti argomenti capaci di arrestare una parabola che porta in sé - comunque la si giudichi - il segno della novità. Le vie da battere, evidentemente, sono altre. Pena un rischio che, per il leader e il gruppo dirigente del Pd, potrebbe davvero farsi concreto e quindi mortale: che di qui a qualche tempo, per il «popolo del centrosinistra» l’alternativa non sia più rappresentata dalla scelta tra Bersani e Renzi, ma tra Vendola (l’altra novità) e Renzi. Se questo accadesse - in una situazione nella quale la pazienza nel Paese è al limite e la voglia di rinnovamento e cambio sempre crescente - nessuno, alla fine, potrebbe considerare un tale epilogo una sorpresa...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9384


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Attaccare Renzi, corteggiare Casini
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2011, 11:55:30 pm
6/11/2011

Attaccare Renzi, corteggiare Casini

FEDERICO GEREMICCA

Una bella manifestazione. Pacifica, prima di tutto: e con i tempi che corrono, non è poco. Affollata, poi: e anche questo, vista la dilagante disaffezione verso la politica, sarebbe un aspetto da non sottovalutare. Con poche novità, certo: ma col premier asserragliato nel bunker, neanche dall’altra parte ce ne sono, e dunque niente da dire. Però con una contraddizione che è tutta dentro una domanda: ma come fa il Pd a inseguire Casini e a contestare Matteo Renzi?

Il battibecco tra il sindaco di Firenze e la militante democratica mandato ieri in onda da tutte le tv, dà forse il senso del punto cui è giunta la tensione. «Stai facendo del male al Paese e al partito», accusa lei. «Il Pd è la mia casa, e spero di poter continuare a dire quel che penso», ribatte lui. Perché Renzi starebbe facendo male «al Paese e al partito»? Le risposte - ammesso che la si pensi così - possono essere molte. Ma resta comunque assai poco comprensibile il rigurgito settario (parola d’altri tempi, è vero) che è alla radice della contestazione (piccola, a dirla tutta) riservata al sindaco di Firenze.

E’ vero: forse stampa e tv, sempre alla ricerca di novità (e meno male), stanno enfatizzando il ruolo che Renzi può giocare dentro il Pd, e magari anche fuori di esso. Non è affatto detto - per altro - che questo sia un bene, per lo stesso Partito democratico: ma quando si arriva a indire una manifestazione come quella di ieri con una parola d’ordine (Ricostruzione) che non a caso è giusto l’opposto di quella che ha portato alla ribalta Renzi (Rottamazione), con chi vogliamo prendercela? A volte viene da pensare che abbia davvero ragione il sindaco di Firenze quando confessa agli amici che metà del suo successo lo deve all’irrigidimento (quando non peggio) dello stato maggiore democrats. E’ questione sulla quale riflettere.

Resta la contraddizione, il corto circuito di cui si diceva all’inizio: si può «corteggiare» Casini (per un governo di transizione oggi e un’alleanza elettorale e di governo domani) mettendo all’indice uno degli esponenti moderati e con maggiore appeal (piaccia o non piaccia) di cui il Pd dispone? Parrebbe una follia. A meno che, naturalmente, quella sorta di rigetto che pare in atto nei confronti del sindaco di Firenze non nasconda qualcosa di più profondo: e cioè il prevalere - al vertice e alla base - di un’anima movimentista e radicale durissima a morire. Ma questo, come è chiaro, sarebbe tutto un altro discorso...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9402


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La strada obbligata della chiarezza
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2011, 05:55:20 pm
9/11/2011

La strada obbligata della chiarezza

FEDERICO GEREMICCA

Adesso, naturalmente, ci si potrebbe chiedere quanto tempo è stato perso invano: e soprattutto quanto è costato, questo tempo, in termini economici e di credibilità politica. Di fronte a una situazione che appariva compromessa da un paio di mesi almeno, sono state fatte trascorrere inutilmente settimane e settimane, in attesa di un miracolo che non era ormai più possibile e che infatti non è arrivato. Dopo la Spagna e perfino dopo la Grecia, il governo italiano buon ultimo - si è dunque arreso di fronte ad un dato che gli stessi mercati, negli ultimi giorni, avevano evidenziato in maniera perfino impietosa.

Il nostro Paese ha certo problemi - e non tutti recenti - di conti e di crescita, ma ha anche (se non soprattutto) un gap di autorevolezza e credibilità politica, accentuato dall’attuale esecutivo e dal suo premier in particolare.

Silvio Berlusconi ha testardamente negato fino all’ultimo che fosse così. Lo ha negato di fronte ai richiami ripetuti e severi dell’Unione europea, di fronte agli allarmi di Mario Draghi e perfino dopo aver osservato in tv gli offensivi sorrisetti della Merkel e di Sarkozy. Ha sperato troppo a lungo di poter sopravvivere grazie a un qualche nuovo Scilipoti o inscenando, magari, processi preventivi al Pd, ai suoi alleati e alle loro divisioni (del tutto irrilevanti, nel caso in questione). Alla fine, ma solo alla fine, ha dovuto arrendersi di fronte all’intransigenza del Presidente della Repubblica ed alla scelta delle opposizioni, capaci di far emergere in Parlamento - grazie ad una giusta scelta tecnica - l’inesistenza di una maggioranza di governo. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire...

Ciò nonostante, non siamo ancora di fronte alle dimissioni dell’esecutivo (anche se il capo dello Stato considera tale la comunicazione ricevuta ieri al Quirinale dal premier) ma solo all’annuncio che esse arriveranno una volta approvata la legge di stabilità: presumibilmente, dunque, entro la fine del mese. Queste dimissioni «postdatate» non sono in assoluto una novità per il nostro Paese (la storia repubblicana segnala qualche precedente) ma sono accompagnate - stavolta - da un grande rischio: che di qui al giorno dell’abbandono ufficiale si tenti ancora di cambiare le carte in tavola, si provi l’ennesimo gioco di prestigio, si avvelenino i pozzi, rendendo irresponsabilmente teso - ed in una situazione economica così drammatica - il clima politico nel Paese.

Silvio Berlusconi, del resto, ha già fatto sapere di non considerare percorribile l’idea di un governo diverso rispetto al suo, e che l’unica via che ritiene praticabile sia quella che porta alle elezioni anticipate. Al contrario, molti (anche nel Pdl) continuano ad insistere per la formazione di un governo di transizione e larghe intese che traghetti il Paese al voto, fronteggiando la fase più acuta dell’emergenza e riformando - magari - l’attuale legge elettorale. Entrambe le ipotesi, naturalmente, hanno un fondamento ed una loro legittimità democratica. Quel che però va reclamato, dopo tanti mesi di confusione e patti oscuri, è che la via maestra dei giorni che ci attendono sia la più assoluta chiarezza.

E’ possibile affidare la formazione di un nuovo esecutivo ad una personalità dall’indiscusso prestigio interno e internazionale? Se ne discuta con trasparenza, senza frapporre ostacoli preventivi: e se la possibilità esiste, si provi a tradurla in intese politiche con rapidità. Al contrario: non c’è una maggioranza parlamentare disposta a sostenere un tale governo? Bene, se ne traggano le conseguenze e si permetta al Paese di rieleggere Parlamento e governo. Quel che non sarebbe accettabile, è menare ancora troppo a lungo il can per l’aia, confondere le acque, perdere tempo prezioso mentre i mercati continuano a fare, in modo impietoso, il loro lavoro. Non è questo, in tutta evidenza, quel che a Bruxelles ora attendono dall’Italia. Ma soprattutto non è questo quel che chiedono a maggioranza e opposizione i cittadini di un Paese stremato dalla crisi, dall’arroganza e da troppi bizantinismi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9414


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Dilemma Bersani: appoggiare Monti col rischio di sparire
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2011, 04:58:11 pm
Politica

11/11/2011 - LA CRISI, L’OPPOSIZIONE

Dilemma Bersani: appoggiare Monti col rischio di sparire

La probabile vittoria alle elezioni barattata col governo tecnico

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Mettetevi nei panni di chi era lì, deliziato da questo e quel sondaggio, tutti da mesi concordi nel proclamarlo vincitore. Mettetevi nei suoi panni, cioè negli abiti di chi era pronto ad incassare - di fronte a elezioni a gennaio - l’investitura a candidato-premier senza nemmeno il rischioso fastidio della prova delle primarie. Mettetevi nei panni di Pier Luigi Bersani, insomma, così da capire come il piombare in campo di Mario Monti poteva somigliare - per lui ad una vera e propria sciagura. «Invece non un tentennamento - assicura Rosi Bindi, la voce intermittente per qualche problema col telefono -. Non un’oscillazione. E se devo dire chi si è speso, anzi chi si sta spendendo di più per convincere i dubbiosi - perché qualche dubbioso c’è l’abbiamo anche noi - nemmeno io tentenno: Bersani».

Si potevano avere dei dubbi, in questo giovedì di tensione e di passione: sarebbero stati legittimi. Si poteva pensare a qualche giochino, anzi doppiogiochino: in politica se ne vedono ogni giorno, e se ne vedranno ancora. E si poteva, infine, immaginare l’umano prevalere dell’interesse personale e di partito: la storia è piena di scelte dettate da paura o da egoismo. Al contrario, da ieri sera una cosa è diventata irreversibilmente chiara: se dall’inizio della prossima settimana Monti siederà a Palazzo Chigi, molto lo si dovrà - certo - a Giorgio Napolitano, ma il resto del merito sarà suo, dell’uomo che «mica siamo qua a smacchiare i leopardi»...

Intendiamoci: se si provano a enumerare i vantaggi e gli svantaggi personali e di partito che la scelta comporta, verrebbe da dire che la rotta individuata dal leader del Pd ricorda da vicino un tentativo di suicidio. I democrats, infatti, barattano un futuro prossimo certo (la pronosticata vittoria alle elezioni anticipate) con un domani del tutto incerto; Bersani rende di nuovo contendibile con le primarie la postazione di candidato premier; il Pd si espone agli attacchi che gli arriverannoda sinistra, a cura di chi resterà fuori dal governo (Di Pietro e Vendola, al momento); «e c’è un rischio per noi forse ancor più serio - aggiunge Rosi Bindi -. E cioè che all’ombra di un lungo governo tecnico e di fronte a un Pdl che cambia pelle, il Terzo Polo slitti di nuovo dall’altra parte del campo, e la frittata è fatta. È un pericolo vero: ma noi siamo gente seria, e vengono prima i pericoli ai quali Berlusconi ha esposto il Paese...».

Sarà pure così, anzi è certamente così: ciò non toglie che, dietro l’apparente sicurezza, tutto il Pd ha fibrillato a lungo intorno alla scelta da fare. Riunioni al largo del Nazareno, sede del partito; faccia a faccia più o meno riservati nei corridoi di Camera e Senato; telefoni roventi per tentare di capire se il governo nascerà davvero e se (domanda che non guasta mai...) vi entreranno uomini del Pd; interrogativi irrisolti sull’accelerazione e la direzione imposte da Giorgio Napolitano all’andamento della crisi. Se il partito ha tenuto la barra dritta e ha messo tutto il proprio peso (politico e parlamentare) al servizio di una soluzione, è senz’altro per la posizione assunta sin da subito da Bersani. Non possiamo rischiare la bancarotta - è stato il ragionamento - per poi magari ereditare il classico cumulo di macerie: dobbiamo insistere per un governo che tiri fuori il Paese dal pantano in cui è finito. Non ad ogni condizione, naturalmente.

E le condizioni del Pd - almeno quelle fondamentali - sono due e sono chiare. La prima, un governo che marchi una grande discontinuità rispetto a quello uscente: quindi Gianni Letta, Nitto Palma, Franco Frattini e compagnia bella possono metterci una pietra sopra e prenotare un viaggio oppure una vacanza. La seconda, la parola chiave dei provvedimenti che andranno presi per fronteggiare la crisi deve essere «equità»: Bersani non dice patrimoniale, tassazione delle rendite finanziarie, guerra senza quartiere all’evasione fiscale, ma è chiaro che senza assicurazioni in questo senso, la disponibilità del Pd potrebbe traballare.

Va bene assumere come riferimento la lettera della Bce: ma una cosa è farne un riferimento e altra è trasformarla nel nuovo Vangelo... Tutto bene, dunque, in casa democratica? Dirlo sarebbe una bugia: ma il dado è tratto e ora non si può arretrare. «Il passaggio è storico - ammette Nicola Latorre -, si sta certificando la fine della Seconda Repubblica: una fine sancita dal governo di Berlusconi e determinata non dai giudici, come lui temeva, ma dal fallimento della sua politica». Festeggia (assai in privato...) anche Matteo Renzi, croce e delizia (più la prima che la seconda) del segretario del Pd. «Quel che sta accadendo - confessa - è il trionfo dell’idea di rottamazione. E che a mettere il timbro sul fallimento di un’intera classe politica sia un signore di quasi settant’anni, può sembrare paradossale ma ci sta, ci sta...».

DA - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429291/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'occasione per le riforme
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 12:06:48 pm
13/11/2011

L'occasione per le riforme

FEDERICO GEREMICCA

C’ è un errore che il nascente governo Monti, e i partiti che decideranno di sostenerlo, non dovrebbero commettere: e cioè definire il proprio orizzonte programmatico solo in rapporto all’emergenza economico-finanziaria che pure si troverà a fronteggiare. Segnando la sua nascita, nei fatti, la fine della cosiddetta Seconda Repubblica, il nuovo esecutivo dovrebbe rapidamente porsi l’obiettivo di sostenere la Terza con quelle innovazioni costituzionali (e di regole elettorali) la cui assenza ha certo contribuito anche al mesto naufragio del governo Berlusconi. Avendo i partiti politici autolesionisticamente dimostrato, fin qui, di non esser in grado di varare riforme che ne scalfiscano l’influenza e il potere (a vantaggio, naturalmente, di un miglior funzionamento del sistema nel suo insieme) tale opera riformatrice può esser invece tentata oggi - con speranze di successo - da un governo nel quale i partiti, appunto, si limitano ad assolvere a un compito da retrovia. Non riuscire nell’impresa - o non tentarla nemmeno - rischia infatti di condannare anche la prossima legislatura (e dunque l’avvio della Terza Repubblica) ad una vita stentata e grama: e ad una conclusione che potrebbe essere non molto diversa dalla fine toccata alla Prima ed alla Seconda.

Già troppi elementi, infatti, rendono assai simili l’epilogo delle legislature 1992-‘94 e 2008-2011, per non ritenere che sia il caso finalmente di intervenire. Il primo elemento è senz’altro l’assoluta e deludente incapacità mostrata dai partiti di autoriformare un sistema - ieri come oggi - evidentemente contraddittorio e traballante. Alla fine del terribile biennio ‘92-‘94, furono fondamentalmente Tangentopoli e i magistrati a suonare la campanella di fine ricreazione: oggi i titoli di coda scorrono per la spinta dei mercati e le pressioni dell’Europa. In entrambi i casi, crisi praticamente imposte dall’esterno: ieri in ragione della corruzione dilagante, oggi a causa di inettitudine e cattivo governo. Non può essere considerato un caso il fatto che la prima legislatura della cosiddetta Seconda Repubblica - con l’avvento al governo di Silvio Berlusconi - durò quanto durò (appena due anni) e finì come finì. A fronte di una legge elettorale marcatamente maggioritaria e di un assetto sempre più bipolare, infatti, il sistema istituzionale non fu dotato degli aggiustamenti e delle semplificazioni necessarie. E’ da allora che si cominciò a discutere di fine del bicameralismo perfetto, di uno statuto dell’opposizione, della riduzione del numero dei parlamentari, eccetera eccetera.

Da allora ad oggi, ad ogni scadenza elettorale, i partiti hanno inserito queste riforme nei propri programmi elettorali: non se ne è mai fatto nulla, e il sistema politico-costituzionale è rimasto bicefalo (un po’ maggioritario, un po’ proporzionale) con conseguenze che sono - da anni - sotto gli occhi di tutti. Oggi si ripropone - e non per una libera scelta dei partiti, ma in ragione di un’emergenza drammatica - la possibilità di pensare seriamente agli aggiustamenti di cui il sistema politico ha mostrato di avere un disperato bisogno. A quindici anni di distanza dall’ultimo esecutivo (presieduto da Lamberto Dini) in qualche modo paragonabile a quello che dovrebbe esser guidato da Mario Monti, il ritorno di un governo tecnico potrebbe render possibile le riforme promesse e mai realizzate da tre lustri in qua. Occorrerà, naturalmente, l’impegno e il consenso dei partiti: quantomeno dei partiti maggiori. E non è detto che, giunti al punto cui si è giunti e in un clima che dovrebbe rapidamente «raffreddarsi», stavolta questo non diventi realmente possibile. La pre-condizione, ovviamente, è che il governo Monti veda la luce.

L’alternativa, del resto, rischia di essere esiziale. Chi chiede che «la parola torni al popolo» e che «la democrazia non ceda il passo alla tecnocrazia» dovrebbe infatti avere l’onestà di dire che parola potrebbe mai pronunciare il popolo e che successo marcherebbe la democrazia con una legge elettorale che - stando a tutti i sondaggi - non produrrebbe alcuna maggioranza al Senato, con tutto quel che ne discende. L’occasione per completare un percorso riformatore finora appena accennato, dunque, c’è. Buttarla al vento assieme al governo Monti - al di là del possibile tracollo economico che questa ipotesi determinerebbe - sarebbe un delitto: e a guardarla dal punto di vista degli stessi partiti, anzi, qualcosa di assai simile a un suicidio...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9428


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bindi: attenti, non sta nascendo un governo di Grande ...
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 04:54:32 pm

Politica

17/11/2011 - intervista

Bindi: attenti, non sta nascendo un governo di Grande coalizione

"Giusto che non ci sia Letta, evitiamo la confusione delle larghe intese"

 Federico Geremicca

Roma


Onorevole Bindi, il governo Monti ha giurato e molti elettori del suo partito già si chiedono perché sostenere questo esecutivo sarebbe una scelta migliore rispetto a elezioni che avrebbero visto - secondo i sondaggi - il Pd tornare al governo.

«Io credo che il partito democratico è cresciuto nei consensi degli italiani perché ha dimostrato nel tempo di essere una forza politica credibile e responsabile, alla quale si può affidare il governo del Paese. Ora investiamo questa credibilità nel sostegno al professor Monti: e sono certa che, quando si voterà, saremo premiati per la scelta fatta».

D’accordo: ma per il Pd non era meglio votare?

«Per il Pd certo. Ma per l’Italia? Era questa la scelta migliore per il Paese? Immagini due mesi di campagna elettorale dura, mentre i conti peggioravano ogni giorno di più...».

Cosa le dà la sicurezza che con questo governo invece miglioreranno?

«Questa sicurezza non ce l’ha nessuno: ma siamo certi che questa è la soluzione politica che offre al Paese le maggiori chanche di venir fuori dalle difficoltà. E’ la svolta che permette un lavoro serio, un recupero di credibilità. Monti dice di aver fiducia e io come lui credo nelle possibilità dell’Italia».

Ammetterà, però, che questa inedita esperienza di governo nasconde molti rischi per il Pd...

«Rischi naturalmente ce ne sono, ma rischiamo tutti. Però prima di tutto viene l’interesse del Paese. Abbiamo chiesto un esecutivo tecnico per riaffermare l’autonomia del governo, il primato della politica in Parlamento e per marcare la netta discontinuità con l’esecutivo precedente...».

Motivo per il quale avete detto no alla presenza di Gianni Letta.

«Sarebbe stato difficile spiegare la presenza nell’esecutivo di un esponente di primo piano di un governo, quello uscente, che abbiamo criticato e critichiamo».

Il Pdl, invece, non aveva preclusioni.

«Per la ragione opposta alla nostra: noi chiedevamo discontinuità, loro segni di continuità. Per noi, inoltre, è importante evitare qualunque confusione tra il sostegno a questo governo e la strategia politica del Pd...».

Che vuol dire, scusi?

«Che non sta nascendo un governo di grande coalizione: respingo questa idea. Noi non siamo alleati né col Terzo polo né col Pdl: non ci sono né larghe intese né nuove coalizioni. Ed è per evitare appunto il rischio di confusione che è giusto che i partiti non vi partecipino con leader o vicepresidenti».

Ciò nonostante è presumibile che sarete oggetto di una opposizione «da sinistra»: Vendola già dice che nel governo vede segni di continuità col passato...

«Non credo che sia così. Non vedo la continuità. In ogni caso noi terremo aperto il cantiere della costruzione del Nuovo ulivo e continueremo il confronto con il Terzo polo. E mentre Monti fa il suo lavoro - che dovrà essere improntato a principi di rigore, crescita ed equità - proveremo a fare finalmente in Parlamento le riforme necessarie: a partire dalla legge elettorale e dalla riduzione del numero dei parlamentari».

Lei è davvero sicura che Monti potrà fare quel che è necessario? Le ricette economiche di Pd e Pdl sono molto distanti, no?

«Nessun dubbio su questo. Ma ci sono questioni sulle quali ci sono state impuntature ideologiche che forse oggi sarà possibile rimuovere. In ogni caso, ci vorrà generosità e buon senso da parte di tutti per trovare di volta in volta i punti di incontro e la sintesi migliore».

Si dice che Bersani abbia personalmente fatto un sacrificio dando il via libera a Monti perché, votando adesso, la sua candidatura a premier non sarebbe stata discussa. Crede sia così?

«Siamo stati molto assieme in queste ultime ore, e devo dire - per altro - di non aver mai visto il Pd così unito, pur in un passaggio tanto delicato...».

Sì, ma Bersani?

«E’ quello che più di tutti ha lavorato per questa soluzione. E io dico che vale per lui quello che vale per il Pd: sarà premiato per la scelta fatta. In più, guardi, questa faccenda delle leadership a tempo, che oggi sono forti e tra un anno no, non mi convince affatto.
E’ leader chi ha più filo per tessere: e Bersani in questi ultimi giorni ha dimostrato che di filo per tessere ne ha davvero tanto...»

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/430282/



Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Vendola barricadero imbarazza il Pd "Un Bossi di sinistra?"
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2011, 04:01:59 pm
Politica

22/11/2011 - CENTROSINISTRA I PRIMI GUAI

Vendola barricadero imbarazza il Pd "Un Bossi di sinistra?"

Il leader accusa le "ombre lobbistiche" nel governo

Timori tra i riformisti.

Perplessi anche gli elettori di Sel


Federico Geremicca
Roma


Qualcuno già pensa di rispolverare per lui l’appellativo che marchiò per mesi Gianfranco Fini al tempo delle sue prime polemiche con Berlusconi e soprattutto con Giulio Tremonti: “Signor no”. Qualcun altro, invece, ci va giù in maniera più netta e aspra: «E’ il Bossi di sinistra”. Tanto nel primo quanto nel secondo caso il riferimento è a lui, Nichi Vendola: che non ha fatto mistero - né prima né dopo - di apprezzare assai poco la scesa in campo del professor Mario Monti e della sua pattuglia di ministri tecnici.

Domenica sera, incalzato da Fabio Fazio, ha spiegato: certo, finalmente «un governo senza tacchi a spillo»; è vero, «si recupera il decoro»; è poi, sì, è un successo esser «passati dalle veline ai professori». Però... E i però sono tanti, e assai affilati: «Se la politica economica di Monti sarà in continuità con quella vecchia, avremo nuovi indignati per le strade»; oppure: «Lo stile di Berlusconi era la commistione tra pubblico e privato: e da questo punto di vista, mi spiace, ma anche nel nuovo governo c’è qualche ombra che danza»; e infine: «Nel centrosinistra vedo molte democristianerie in azione». E se questo è il giudizio a pochi giorni dall’insediamento dell’esecutivo, qualcuno si chiede cosa ci sia da attendersi quando Monti varerà le sue prime misure: che difficilmente potranno entusiasmare Sel e il suo leader...

Non si parla ancora apertamente di un “caso-Vendola”, naturalmente, ma è chiaro che in casa Pd la preoccupazione cresce. Si tratta di un doppio timore, in verità: il primo riguarda certamente la navigazione del governo Monti, che i democratici sostengono senza riserve e contro il quale probabilmente non sarebbe (non sarà) difficile cavalcare la piazza; il secondo - e più serio - investe invece il futuro: e cioè la prospettiva di un’alleanza politico-elettorale(con Di Pietro e Vendola, appunto) che i mesi del governo del professore - pochi o tanti che saranno - rischiano di mandare letteralmente in frantumi.

Sono preoccupazioni fondate? O sono più fondati - al contrario - i timori che attraversano i partiti nient’affatto entusiasti dell’avvento di un governo tecnico? Bobo Maroni, a nome dell’unica forza politica dichiaratamente all’opposizione di Monti, per esempio dice: «Dietro l’obbligo di mettere i conti in sicurezza c’è anche l’obiettivo di mettere da parte Berlusconi e smantellare il sistema bipolare... Quindi si tratta di eliminare le anomalie della politica, marginalizzandole: la Lega in primis, ma anche Vendola e Di Pietro...». Uno scenario da fantapolitica? Forse sì. E in ogni caso, gli ultimi a lamentarsene dovrebbero essere i protagonisti di quella evidente incapacità di governo che ha portato il Paese a un passo dal baratro e dunque alla nascita del poi contestato governo Monti.

Diverso, ovviamente, è il discorso che riguarda Nichi Vendola e il suo partito, da sempre opposizione a Berlusconi. In questo caso, infatti, più che guardare ai “disegni segreti” che avrebbero portato all’avvento dei tecnici, sarebbe forse utile interrogarsi su cosa questo esecutivo possa effettivamente fare per il Paese e dunque sugli scenari futuri. Non può infatti sfuggire a Vendola che l’annunciata alleanza elettorale tra Pd-Idv e Sel difficilmente guadagnerà credibilità se i soggetti in causa avranno, in questi mesi, comportamenti troppo diversi rispetto al neonato governo Monti. E’ vero, naturalmente, che un problema del tutto analogo a quello di Bersani ce l’ha Silvio Berlusconi nel rapporto con la Lega, ma è altrettanto vero che nell’altra metà del campo questioni simili vengono risolte (o aggirate) con assai più semplicità: quasi come se una certa volubilità di comportamenti avesse scarso o nessun peso...

Nel fronte riformista le cose vanno diversamente, invece. E molti, per esempio, avevano addirittura sperato (e sperano ancora) che proprio intorno al difficile lavoro che attende Monti le forze dell’alternativa potessero guadagnare sul campo quella credibilità che fino a ieri è parsa latitare. La scelta (in divenire) di Nichi Vendola pare andare in un’altra direzione. Ma stavolta c’è una novità sulla quale il leader diSel non potrà non interrogarsi: gli ultimissimi sondaggi (quello del TgLA7 di ieri, per esempio) danno il suo partito e quello di Di Pietro per la prima volta in deciso calo. I loro voti passano al Pd... Possibile, dunque, che gli stessi elettori di Sel non condividano l’eccessiva freddezza nei confronti del governo Monti? Possibile, certo. A Vendola, dunque, capirne le ragioni...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/431034/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ma i partiti non giochino a nascondino
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2011, 10:58:42 pm
9/12/2011

Ma i partiti non giochino a nascondino

FEDERICO GEREMICCA

Strizzatine d’occhio in Parlamento, così che solo chi deve capire capisca; incontri alla maniera dei carbonari, preferibilmente col buio e solitamente in luoghi inusuali; telefonate da cellulare a cellulare, senza passare dalle segreterie; e poi, naturalmente, distinguo, prese di distanze e la ripetizione sempre più stanca di un ritornello che dice «questi provvedimenti non ci piacciono, ma dovremo votarli per forza».

Ecco, mentre la manovra di Monti muove i primi passi in Parlamento, c’è un interrogativo che va facendosi ormai ineludibile: per quanto tempo ancora i partiti che hanno deciso di sostenere il governo del Professore potranno continuare così, in questa sorta di «si fa ma non si dice», un piede dentro e l’altro fuori nel tentativo di ridurre i danni elettorali che temono di subire in ragione della manovra in discussione?

Intendiamoci, nessuno ha mai immaginato nemmeno per un istante che dalla feroce contrapposizione che ha segnato nell’ultimo quindicennio i rapporti tra centrodestra e centrosinistra, si potesse passare d’incanto a una sorta di magica e pacificata «unità nazionale»: ma è pur vero che tra un esecutivo di larghe intese - classicamente inteso - ed un governo di vaghe intese (intese tanto vaghe al punto da risultare indecifrabili) forse un punto di equilibrio era lecito attenderselo, e soprattutto è necessario trovarlo. L’idea, infatti, che si possa arrivare fino alla primavera del 2013 in mezzo a questo stillicidio di distinguo e recriminazioni (soprattutto da parte delle forze della ex maggioranza, a dir la verità) appare illusoria ogni giorno di più.

Approvata la manovra, con l’anno nuovo diventerà assolutamente indispensabile fare una scelta: o al voto subito, costi quel che costi, e perfino con l’attuale e pessima legge elettorale; oppure ancora un anno di lavoro, ma con uno spirito che non può esser quello di queste ore e - soprattutto - con strumenti di coordinamento tra i partiti (da cabina di regia a «direttorio»: li si chiami come si vuole) che rendano meno cervellotiche e complicate le necessarie consultazioni del premier, e diano il senso di un impegno pieno delle forze politiche che appena tre settimane fa hanno deciso di non andare al voto per evitare la bancarotta del Paese.

Che la larga maggioranza dei soggetti politici in campo (con la dichiarata esclusione del Pd di Bersani) abbia vissuto con fastidio e disappunto l’investitura di un governo tecnico, è apparso chiarissimo fin dai giorni convulsi della nascita dell’esecutivo. Ugualmente evidente è il fatto che la forza del gabinetto-Monti risiede (oltre che nell’esplicito sostegno del capo dello Stato) nei risultati che riuscirà ad ottenere, piuttosto che nel sostegno di una maggioranza parlamentare pure larghissima. Detto tutto ciò, nessuno avrebbe potuto immaginare che la tiepida disponibilità della maggioranza uscente si sarebbe così rapidamente trasformata prima nel no della Lega e poi in quella sorta di gelo critico col quale il Popolo delle Libertà sta avvolgendo il governo del Professore. È un quadro che non può reggere a lungo, in tutta evidenza. Ed è un atteggiamento che dubitiamo finirà per risultare pagante, quando arriverà il tempo delle elezioni.

Difficile infatti immaginare che gli italiani abbiano dimenticato dov’eravamo appena tre settimane fa: le solite risse sulle escort e sulla giustizia mentre il Paese affondava, lo sconcerto (e gli sfottò) della stampa internazionale intorno al caso-Italia, i sorrisi insopportabili - ma indimenticabili - della Merkel e di Sarkozy sollecitati a dire la loro sull’affidabilità italiana. Eravamo lì: e da lì, purtroppo, non siamo ancora sufficientemente lontani. E l’idea che a colpi di distinguo e prese di distanze si possano convincere gli elettori che il governo uscente avrebbe fronteggiato la crisi in maniera più efficace di quello presente, è del tutto illusoria: i cittadini, infatti, non potrebbero che chiedersi «e allora perché non l’avete fatto?».

Meglio sarebbe rimboccarsi le maniche e dare una mano per quel che si può, ognuno rinunciando - come inevitabile, considerata la situazione - a qualcuno dei «punti fermi» dei propri vecchi e spesso fallimentari programmi. Insomma: uno sforzo esplicito e leale per il bene comune, come si sarebbe detto un tempo e non si dice più. È assai probabile, in fatti, che gli elettori siano più disposti a premiare nelle urne - quando sarà - un impegno evidente (e perfino autocritico) piuttosto che questa già insopportabile melassa fatta di ipocrisia, distinguo e incontri segreti più o meno smentiti...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9531


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il doppio messaggio dal Colle
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2012, 03:15:34 pm
2/1/2012

Il doppio messaggio dal Colle

FEDERICO GEREMICCA

La prima è ripresa dal severo discorso tenuto da Papa Benedetto XVI in occasione degli auguri rivolti il 22 dicembre scorso ai membri della Curia romana: intendiamo il riferimento a quella «forza motivante» necessaria ha insistito Napolitano - «perché si sprigioni ed operi una volontà collettiva» indispensabile per superare le difficoltà e guardare al futuro con più ottimismo; la seconda è quella che il Presidente della Repubblica ha definito una «digressione personale»: e cioè la sua lunga militanza nelle file del Partito Comunista Italiano e «la vicinanza al mondo del lavoro, alle sue vicende e ai suoi travagli».

Ricordare che la propria formazione politica sia avvenuta «nel rapporto diretto con la realtà delle fabbriche della mia Napoli», serve certo al Capo dello Stato per dire della comprensione che ha delle attuali difficoltà e per farsi garante - quasi - del fatto che non saranno né ignorate né sottovalutate; ma il richiamo ad una quasi comune provenienza, legittima - nel paragone con quanto accaduto negli anni del dopoguerra e poi della crisi economica del 1977 - la richiesta alle classi lavoratrici ed alle loro organizzazioni sindacali di rimettere in campo quello slancio costruttivo e quel senso di responsabilità mostrati in passato e indispensabili in un passaggio difficile come quello attuale.

Che dire, invece, della «forza motivante» invocata da Napolitano sulla scia di quanto già affermato da Papa Benedetto XVI? L’esigenza e l’obiettivo appaiono chiari: ricercare un orizzonte, una motivazione, un traguardo - insomma - che sia capace di dare un senso ai sacrifici oggi richiesti ed una speranza per il futuro, soprattutto ai più giovani. Di recente, è quanto si è tentato di fare - con successo - ai tempi dell’ingresso nell’euro, di fronte ai sacrifici Era sicuramente il messaggio di fine anno più difficile da quando, nell’ormai lontano maggio del 2006, Giorgio Napolitano fu eletto presidente della Repubblica. Auguri complicati dal fatto che gli italiani sanno che l’anno che li attende sarà forse perfino peggiore di quello appena archiviato; ed una ricostruzione non facile di come si sia arrivati fin qui (la crisi economica e finanziaria, la caduta di Berlusconi, l’avvento dei tecnici) anche in ragione delle tante tensioni ancora vive e di talune fantasiose ricostruzioni intorno al ruolo che proprio il Capo dello Stato avrebbe giocato nello sviluppo della crisi.

Come era lecito attendersi, nella sera dell’ultimo dell’anno, il Presidente non ha evitato alcuno dei temi in campo, affrontandoli con quel «linguaggio della verità» esplicitamente (ma inutilmente) invocato fin da quest’estate al Meeting di Rimini: e prendendo di petto le due questioni forse più spinose (un orizzonte di speranza e crescita che giustifichi i sacrifici chiesti; e le tensioni sociali e il malessere che serpeggiano tra le classi più colpite dalla manovra) è ricorso a due citazioni solo apparentemente così distanti tra loro.

che anche allora vennero chiesti agli italiani. L’orizzonte, a quel tempo, era una Italia forte in una grande Europa: la stessa Europa alla quale oggi Giorgio Napolitano chiede - perfino con qualche rudezza - il riconoscimento degli sforzi che il nostro Paese sta compiendo.

Queste due questioni sono collocate dentro un percorso che il Capo dello Stato definisce con nettezza: elezioni oggi sarebbero una jattura, e dunque va lasciato al governo di Mario Monti il tempo necessario a portare il Paese fuori dalle secche in cui è finito (incidendo ulteriormente su privilegi inaccettabili e spese dello Stato); i partiti politici (che devono metter mano a una profonda rigenerazione) affrontino intanto quelle riforme istituzionali evocate da decenni, mai realizzate e diventate oggi realmente indispensabili alla nostra democrazia. Per Silvio Berlusconi, infine, una sola fredda citazione: «Ha preso responsabilmente atto» della travagliata crisi politica che era in corso. Quasi come un sipario fatto calare, tra un brindisi e un fuoco d’artificio, su oltre tre lustri di vita politica capaci di segnare più nel male che nel bene - la storia e la vicenda italiana...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9604


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Addio «eccellente»: Vecchioni lascia la presidenza del ...
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2012, 10:49:18 pm
Colpo di scena. nuovo presidente è Sergio Marotta

Addio «eccellente»: Vecchioni lascia la presidenza del Forum delle culture

Il cantautore amareggiato: «Pensavo di dovermi occupare solo di cultura. Scusate, mi sbagliavo. Torno a fare il lanciatore di coltelli, che forse mi riesce meglio»


NAPOLI — «Cari amici ci tenevo a farvi sapere che ho dato le mie dimissioni dal mio controverso ruolo di presidente del Forum di Napoli. Pensavo di dovermi occupare solo di cultura. Scusate, mi sbagliavo. torno a fare il lanciatore di coltelli, che forse mi riesce meglio». E’ il messaggio postato sul suo blog da Roberto Vecchioni, col quale annuncia che rinuncia all’incarico di presidente del Forum delle culture 2013. «Solo due cose voglio dire», aggiunge il cantautore. «Tenterò di farmi scivolare addosso le chiacchiere, non risponderò e nemmeno commenterò tutte le critiche e le voci maligne che metto già in conto, sarà solo e sempre quello che faccio a parlare per me. Ringrazio tutti (tantissimi) quelli che mi sono stati vicini in questo momento non facile per me. L’amore per la città della mia infanzia e per la cultura mi hanno forse fatto pensare di essere diverso da quello che sono: l’artista, il giocoliere di sogni e di parole vorrei regalarlo anche a Napoli».

LA LETTERA - Solo poche ore prima il cantautore aveva comunicato la sua decisione con una lettera al direttore del Forum, Francesco Caruso, e con una telefonata al sindaco Luigi de Magistris. Quello tra il primo cittadino e l’artista è stato un colloquio, raccontano i più stretti collaboratori del primo cittadino, lungo e dai toni pacati. Alla base della scelta del cantautore, secondo quanto egli stesso ha detto a de Magistris, la difficoltà a conciliare la sua vocazione di artista con le necessità organizzativo-manageriali connesse
all’incarico. Si conclude dunque, ancor prima di cominciare davvero, l’avventura del cantante alla presidenza del Forum. Una vicenda che era stata già segnata dalle polemiche, dalle discussioni, dal dibattito relativi al compenso assegnatogli per ricoprire il ruolo. Inizialmente gli erano stati infatti proposti 150 mila euro sotto la voce «diritti d’immagine» e «spese di staff». Troppi, secondo chi aveva criticato quella scelta. Era stato peraltro proprio Vecchioni, circa un mese fa, a troncare di netto le polemiche. «Ho deciso di accettare l'incarico senza compenso - aveva annunciato - perché nutro un sentimento di profondo amore per Napoli, perché a Napoli è iniziata una nuova ed entusiasmante stagione politica, perché il Forum sarà un'occasione per rilanciare la città e per consolidare l'unità del nostro Paese». Il sindaco de Magistris non era stato meno prodigo di complimenti, di auspici, di belle speranze. «La decisione di Vecchioni», aveva detto ad inizio dicembre, «fa onore non solo all'artista ma soprattutto alla sua persona. Ieri il colpo di scena, anche se, a dar credito alle parole di Daria Colombo, moglie e manager del cantante, quello di Vecchioni non è un addio a Napoli. «Roberto», sostiene, «continuerà ad impegnarsi per la città, anche se lo farà nella maniera che gli è più consona, quella di artista».

Fabrizio Geremicca

10 gennaio 2012© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La rivincita dei forconi
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2012, 12:06:20 pm
18/1/2012

La rivincita dei forconi

FEDERICO GEREMICCA

Si può metterla alla solita maniera, naturalmente, e dire che è l’ennesima storia siciliana, confusa, opaca, certamente incomprensibile sul continente, e comunque un paio di giorni e la fiammata si spegnerà.

Possibile. Intanto, però, i primi due giorni sono passati, e mentre a Palermo - già quasi in emergenza - le auto fanno la fila per accaparrarsi le ultime gocce di benzina, nei magazzini di mezza isola tonnellate di frutta, verdura e pesce fresco vanno in malora, e il traffico stradale e ferroviario è già pesantemente in tilt. Con scarsa fantasia, forse, contadini, pescatori e camionisti hanno chiamato la loro «rivolta» (cominciata lunedì, finirà alla mezzanotte di venerdì) Operazione Vespri siciliani. Le analogie sono inesistenti: tranne, forse, per l’agitarsi sullo sfondo di ombre misteriose e dagli obiettivi nient’affatto chiari...

Comunque la si voglia vedere - e da vedere ci sarà molto - dopo mesi e mesi di crisi inarrestabile, quel che da 48 ore sta andando in scena tra Catania e Ragusa, Caltanissetta e Palermo, è l’irruzione in campo di quella che un tempo si sarebbe definita semplicemente «gente in carne e ossa». E’ la rivincita dei trattori sullo spread, insomma, dei forconi sui Btp e dei Tir sugli Eurobond. Dopo tanto parlare di tensioni sociali e famiglie che non arrivano più a fine mese, dunque, la rivolta è esplosa. Non è che ci sia da rallegrarsene, naturalmente: ma se qualcuno ancora sperava che la crisi potesse restar confinata nel limbo, nel mondo asettico dei titoli e degli indici di Borsa, ora potrà rifare i propri conti.

La miccia che ha fatto esplodere la rivolta, dopo settimane di lenta incubazione, è tutta in una domanda alla quale i siciliani aspettano ancora una risposta: ma com’è possibile che qui, dove si raffina il 40% della benzina italiana, gasolio e super spesso costano perfino più che altrove (Lampedusa, per dire, ha il record europeo del caro-benzina)? Gli ultimi aumenti hanno di fatto messo definitivamente in ginocchio il mondo dell’autotrasporto, della pesca e dell’agricoltura: e sono giusto queste tre categorie - spalleggiate da indignatos più o meno indigeni - ad aver dato il via alla protesta che sta paralizzando interi settori produttivi dell’isola.

Dietro le quinte - o addirittura sul proscenio della protesta - si muovono figure ambigue, sfuggenti, dal profilo sfumato. Il capo del «Movimento dei Forconi», che organizza braccianti e contadini, è un uomo non lontano da Raffaele Lombardo, governatore siciliano; nelle retrovie di «Forza d’urto» si agitano esponenti di Forza Nuova, movimento dell’estrema destra, il cui leader - Roberto Fiore - inneggia da giorni alla protesta; alle assemblee preparatorie dell’Operazione Vespri siciliani si è spesso visto Maurizio Zamparini, presidente del Palermo calcio e addirittura fondatore di un movimento anti-Equitalia. L’elenco potrebbe naturalmente continuare, ma con l’unico risultato di aumentare la confusione. Chi invece questa confusione dovrebbe provare a scioglierla, chi dovrebbe moderare le esasperazioni (ieri c’è stato il primo ferito) e indicare una rotta - la politica, intendiamo - è del tutto assente. E quando è presente è quasi peggio, visto che soffia pericolosamente sul fuoco.

Delegittimata dai suoi stessi comportamenti e ora platealmente commissariata dall’équipe di tecnici del professor Monti, la politica - i partiti - cercano confusamente la via da seguire. La destra aizza la rivolta, ma non è l’unica: condizionati dall’importante tornata elettorale alle porte (in primavera si va al voto in centinaia di comuni, Palermo, Trapani e Agrigento compresi) forze politiche e singoli leader provano a stare nella «rivolta». Leoluca Orlando - nuovamente candidato a sindaco di Palermo - e l’Italia dei valori siciliana, esprime comprensione per la protesta (e ci mancherebbe...), blocchi stradali e ferroviari compresi. Raffaele Lombardo si schiera e promette. E altri lo seguono. Non sono segnali tranquillizzanti. Ma soprattutto non è tranquillizzante l’idea che la politica piuttosto che risolvere i problemi - li amplifichi e li esasperi, sperando di ricavarne vantaggi. Vecchi sistemi e modi di fare usurati: che nemmeno l’avvento di Monti, però, è riuscito a cancellare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9661


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Anime morte il veleno della politica
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2012, 12:10:47 pm
3/2/2012

Anime morte il veleno della politica

FEDERICO GEREMICCA

Ormai è come una caccia all’uomo. Casa per casa, ufficio per ufficio, segretaria per segretaria, vitalizio per vitalizio. Non siamo ancora al clima dei mesi terribili di Tangentopoli, quando politici, ministri e amministratori di qualunque livello non potevano nemmeno mostrarsi in pubblico - pena insulti e lanci di monetine - ma non è detto che non ci si arrivi.

E non sarebbe un bene, se è vero (come è vero) quel che ha lamentato ieri Bruno Tabacci, uno che Tangentopoli l’ha vista da vicino: «Siamo passati da Severino Citaristi a Luigi Lusi... La questione morale non è stata affatto risolta. Anzi: negli ultimi venti anni si è andata appesantendo».

Si tratta di un giudizio difficilmente contestabile: e di una situazione - quella attuale - della quale i partiti portano, naturalmente, il massimo della responsabilità. Tutti i partiti, con differenze non significative: a cominciare da quella Lega «di lotta e di governo» che un tempo con pessimo gusto - faceva penzolare cappi nell’aula di Montecitorio ma i cui parlamentari, oggi, ricorrono in massa contro la riforma dei vitalizi. E’ ai partiti, dunque, che va imputato l’attuale stato di cose, compreso il perdurante discredito che li circonda: ma se si vuole davvero cambiare questa insostenibile situazione, è precisamente dai partiti (soprattutto in presenza di un governo che per il momento, saggiamente, si tiene alla larga dalla canea montante) che va pretesa una soluzione.

Naturalmente, il punto è volerla davvero, una soluzione. E non limitarsi considerata la già provata insufficienza - a campagne di denuncia, invettive e cavalcate moralistiche (nelle quali i partiti stessi sono spesso in prima fila...) che possono tutt’al più fungere da lavacro per troppe cattive coscienze, ma certo non cambiare lo stato delle cose. Se nonostante il moltiplicarsi di censori severissimi e di moralizzatori dell’ultima ora nulla è cambiato da Tangentopoli a oggi, è semplicemente perché nulla di concreto è stato fatto: nulla che impedisse - o rendesse più difficile - il ripetersi di episodi di corruzione e di malcostume politico.

Oggi, in tutta evidenza, il bivio è chiaro: si intende far qualcosa o solo dare l’impressione di star facendo qualcosa? Se la maggioranza degli eletti in Parlamento pensasse che sia la seconda la via da battere, sappia che il rischio è elevatissimo, perché non c’è Paese democratico che possa restar tale a lungo con la politica, i partiti e le istituzioni ridotte ad anime morte. Se invece - anche solo per l’evidente impossibilità di difendere posizioni di privilegio non più tollerabili - ci si fosse finalmente convinti ad intervenire, il lavoro da fare è certo molto: ma la strada è tracciata. E sono le stesse forze politiche, del resto, ad elencare da anni (e naturalmente a non fare) le tre, quattro cose da cui partire.

Una legge che dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione e disciplini ruolo, funzioni e regole interne dei partiti politici; una legge elettorale che ridia ai cittadini il diritto di scegliere i propri eletti, così da poterli cambiare (oggi nemmeno questo è possibile!) in caso di inefficienza o immoralità; norme che disciplinino le primarie, così da assicurarne la regolarità e da renderne vincolante l’esito; una legge che riduca il numero dei parlamentari (è imbarazzante perfino scriverlo per la millesima volta...) e differenzi compiti e ruoli delle due Camere. E poi regolamenti che ristabiliscano - per gli ex presidenti della Repubblica, gli ex presidente di Camera e Senato, gli ex parlamentari e quelli in carica - chi ha diritto a cosa e perché.

Senza riferimenti certi - senza leggi, insomma - tutto resterà nell’incertezza e nella discrezionalità più assoluta: e il populismo demagogico imperante (dentro e fuori i partiti) non potrà che ingrossare ulteriormente le proprie fila. Ciò a cui si assiste ormai da mesi, infatti, non è un dibattito (magari duro ma civile) su come rifondare politica e partiti, quanto - piuttosto una sorta di regolamento di conti, una guerra senza quartiere che difficilmente potrà avere vincitori.

Accadde lo stesso venti anni fa con Tangentopoli, dopo la quale sul terreno non rimasero che macerie politiche. Su quelle macerie nessuno ricostruì un sistema fatto di regole e leggi che impedissero il ritorno del malcostume e della corruzione: il risultato, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che l’errore rischi di ripetersi è avvilente. Avvilente e pericoloso: per il Paese - certo - e per gli stessi partiti ormai sul punto di affogare nel loro stesso discredito.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9730


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Pd e Pdl tentati dal ritorno agli antichi riti
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2012, 02:43:07 pm
12/2/2012

Pd e Pdl tentati dal ritorno agli antichi riti

FEDERICO GEREMICCA

Mentre Mario Monti lavora lungo l’asse Roma-Bruxelles-Washington per convincere - a quanto pare con successo - capi di governo e mercati circa la rinnovata affidabilità italiana, i partiti politici sembrano aver deciso di metter finalmente mano alla riscrittura di alcune regole di sistema fondamentali per il futuro del Paese: a cominciare, in particolare, da una nuova legge elettorale. Si tratta di un lavoro complicato, naturalmente, difficile - per altro - da immaginare del tutto sganciato dall’impalcatura istituzionale che la nuova legge dovrebbe animare e però avviato (a quel che è dato capire) col piede sbagliato.

Il punto di partenza assunto è sacrosanto: restituire ai cittadini il potere di scegliere i propri eletti in Parlamento. Già il fatto, però, che questo obiettivo sia considerato raggiungibile solo col ritorno ad una legge elettorale proporzionale (è su questo che si lavora) è cosa discutibile; che il passaggio successivo - poi - debba consistere nell’abbandono dell’assetto bipolare del sistema politico, lo è ancor di più; ma quel che appare davvero sorprendente, è l’approdo cui la nuova legge dovrebbe portare.

Infatti, messa in agenda per permettere agli elettori di selezionare i propri eletti, essa potrebbe finire per negare ai cittadini il potere di una decisione perfino più importante: la scelta dell’uomo chiamato a governare il Paese. Il condizionale è d’obbligo, considerato che il lavoro è solo iniziato: ma proprio la circostanza che si sia ancora nel pieno dell’opera, permette di porre un paio di questioni che sarebbe sbagliato sottovalutare.

La prima riguarda il fatto che la traccia su cui si sta lavorando costituisce oggettivamente un atto di prepotenza nei confronti del milione e più di cittadini che nei mesi scorsi ha firmato per un referendum che si proponeva addirittura un rafforzamento del profilo maggioritario dell’attuale legge elettorale: occorre convincersi che continuare a ignorare le indicazioni che vengono dal Paese (in materia di acqua, di finanziamento pubblico ai partiti, di legge elettorale...) non solo è insopportabile, ma rischia di ridurre ancor di più la già scarsa fiducia di cui godono i partiti. La seconda questione - invece - è tutta in una domanda ed è, se possibile, ancor più rilevante: ma davvero si pensa ad un ritorno al passato tale da riproporre un sistema noto e abbandonato, una legge elettorale - cioè - per la quale votavi La Malfa e ti ritrovavi a Palazzo Chigi Craxi, e se sceglievi il Psdi potevi esser certo che il governo l’avrebbe guidato un democristiano?

Dopo quasi vent’anni - non certo idilliaci - durante i quali gli italiani si sono divisi intorno alla possibilità o meno di avere Berlusconi a Palazzo Chigi (Berlusconi: non un leader alleato o un altro esponente del Pdl), continuando intanto a scegliere il sindaco, il governatore o il presidente della Provincia che li avrebbe governati, un tale salto all’indietro appare non solo poco comprensibile, ma anche poco digeribile. Viene da chiedersi dove siano finiti i tanti paladini del bipolarismo. E sorprende che nessuna protesta - anzi! - si alzi dalle file del centrodestra, da anni sempre pronto al «o Berlusconi o elezioni» e a grida e lamenti su ribaltoni presunti e complotti in divenire.

Nessuna persona ragionevole e in buona fede, naturalmente, può negare quanto rabberciato, confuso e incompleto sia stato in questi anni il «bipolarismo all’italiana». E tutti capiscono perché l’indicazione diretta del premier oggi appassioni assai meno il centrodestra, orfano di un Berlusconi che ripete di non volersi ricandidare. Ma sono motivi sufficienti per buttar via - come si è soliti dire - il bambino con l’acqua sporca? E il Pd dell’alternativa (e prima ancora della «vocazione maggioritaria») non ha nulla da dire o da obiettare?

Il passaggio è delicato - molto delicato - visto che è in discussione l’assetto futuro del Paese. E sarebbe forse il caso di affrontarlo con qualche furbizia in meno e un po’ di lungimiranza in più. Per altro, tra i tanti problemi che i partiti politici hanno di fronte, ce n’è uno che sarebbe micidiale sottovalutare: il confronto tra il loro agire e l’agire del governo Monti. L’esecutivo ha dalla sua rapidità di decisione, sobrietà e un crescente prestigio internazionale; a questo sarebbe suicida contrapporre anche solo la sensazione che si intenda chiudere in fretta la parentesi, e non per andare avanti ma per tornare agli antichi riti. Se si è finalmente avviato il confronto sulla legge elettorale affermando che occorre ridare al cittadino la possibilità di scegliere il suo deputato, sarebbe grottesco concluderlo togliendogli il potere di scegliere chi lo governerà. Pochi capirebbero. E molti, magari, penserebbero «teniamoci i tecnici, che chi si fida di quei partiti là».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9762


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Articolo 18 un'occasione per il Pd
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2012, 11:30:19 am
23/2/2012

Articolo 18 un'occasione per il Pd

FEDERICO GEREMICCA

Che si tratti di obiezioni di merito o di metodo, piuttosto che di una scelta tattica (o addirittura generata dalle crescenti tensioni interne al Pd), sta di fatto che il «nuovo corso» avviato da Pier Luigi Bersani nei confronti del governo-Monti, rischia di precipitare i democratici in un paradosso del tutto inatteso: e cioè, «regalare al centrodestra» (per usare una formula assai di moda) attori e risultati di un esecutivo che il Pd più di ogni altro - e Bersani prima di tutti - ha voluto così fortemente da rinunciare addirittura a elezioni che lo avrebbero visto sicuro vincitore.

La prospettiva (lontana ma certo non più remota) sta naturalmente molto agitando le acque in casa democratica: ma poiché non tutti i mali vengono per nuocere, sarebbe allora utile che il Pd cogliesse l’occasione di questa nuova divisione interna non per concluderla con la solita conta tra correnti, ma per meglio definire - prima di tutto come dovere verso i suoi iscritti ed elettori - gli altri «pezzi» non secondari della sua ancora labile identità.

Infatti, anche se la sorpresa sarebbe grande, può certo accadere che - in ragione dei tentennamenti e delle prese di distanze del Pd - proprio Silvio Berlusconi (che ha dovuto lasciare Palazzo Chigi di malavoglia per far spazio a Monti) si ritrovi ad essere lo sponsor più convinto del suo indesiderato successore: ma il partito che avesse determinato una tale parabola cioè il Pd - avrebbe l’obbligo di una chiara e limpida spiegazione. Cos’è che è cambiato? In cosa i democratici non sono (o non sono più) d’accordo con Monti? E che cosa propongono di fare in alternativa?

Da questo punto di vista, la discussione che si è aperta intorno alla possibile riforma dell’articolo 18 potrebbe essere perfetta per un chiarimento che investa la natura stessa (la ragione sociale, si potrebbe dire) del Partito democratico. Essa, infatti, potrebbe aiutare a meglio definire - e una volta per tutte - questioni tutt’altro che marginali, ma ciò nonostante ancora irrisolte: a partire dall’idea che si ha del mercato del lavoro e dei meccanismi che devono regolarlo, fino al rapporto con le organizzazioni sindacali e con il loro presunto diritto di condizionamento (e talvolta di veto) dentro e fuori i luoghi di lavoro.

Purtroppo, invece, la via imboccata sembra esser fatta - ancora una volta di scorciatoie, divagazioni e uso strumentale (a fini interni) delle questioni sul tappeto. Piuttosto che discutere per dirne una - se sia possibile per un esecutivo varare norme senza l’accordo dei sindacati, si litiga sull’opportunità che il responsabile economico del partito sfili in corteo con la Fiom contro i provvedimenti di un governo al quale ha votato la fiducia (questione che si credeva risolta, in verità, già al tempo dei ministri comunisti in piazza contro il governo Prodi...). Per non dire, naturalmente, degli ulteriori elementi polemici (molto spesso assai distanti dalla questione sul tappeto) con i quali gli oppositori interni del segretario appesantiscono e deviano la discussione: dalla legge elettorale alle primarie, fino ai futuri e possibili rapporti con Monti e la sua squadra.

Il risultato è quello che va delineandosi con sempre maggior chiarezza: un ritorno di quell’incertezza e quella confusione - insopportabile ai più - che aveva caratterizzato l’ultimo anno almeno del governo di Silvio Berlusconi. E il riproporsi - in maniera perfino più acuta - di quello che è stato forse l’elemento più penalizzante per il Pd in questa legislatura: la sensazione, cioè, che non costituisse una alternativa credibile al centrodestra. Che non fosse, insomma, una forza politica affidabile.

Un vecchio proverbio afferma che una scelta è sempre meglio di due mezze scelte. Applicato al rapporto del Pd col governo Monti, lo si potrebbe tradurre così: o di qua o di là è sempre meglio che un po’ di qua e un po’ di là. Anche perché, ripresosi dallo choc delle dimissioni, Berlusconi sembra aver fatto la sua scelta: tutti a sostegno del governo, senza se e senza ma. Il rischio, per il Pd, è dunque il paradosso di cui si diceva all’inizio: «regalare Monti» alla destra dopo aver fatto tanto per averlo al governo. A occhio e croce, non proprio un buon affare...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9806


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’amarezza di Rita e il tramonto di una città che non c’è..
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:43:50 am
Politica

06/03/2012 - reportage

L’amarezza di Rita e il tramonto di una città che non c’è più

Palermo, vince Ferrandelli alle primarie

E nei bar qualche elettore Pd sbuffa contro "i professionisti dell’antimafia"

FEDERICO GEREMICCA
inviato a Palermo

In una domenica un po’ grigia, col vento fresco che spazza le vie e le piazze della città, «Rita» - oppure «la signora» - come semplicemente la chiamano qui, è stata bocciata e rimandata a casa dal suo stesso «popolo della sinistra». Che questo sia accaduto a pochi mesi dal ventennale del barbaro assassinio del fratello, forse non è un caso: e certo non resterà senza conseguenze... E’ una fase che si chiude, una pagina che si volta: e per paradossale che possa sembrare, non è scontato che sia un male per Palermo.

Seduto a un tavolino del bar Spinnato, uno dei più celebri della città, Antonello Cracolici - capogruppo Pd alla Regione, tessitore del patto di governo con Lombardo e grande sponsor di Fabrizio Ferrandelli, il giovane vincitore della disfida di Palermo - non infierisce perché sa che non è il caso, e che non bisogna esagerare. Dunque, minimizza: «Alle ultime elezioni europee, Rita ha avuto 240 mila voti: compreso il mio. E se si ricandiderà a Strasburgo, lo avrà di nuovo. Ma non credo che sarebbe stato un buon sindaco della città: ed è per questo che abbiamo sostenuto un altro candidato». E’ una motivazione possibile, certo. Plausibile. Ma forse non completa, e non del tutto vera. Un pezzo di verità, infatti, quasi lo urla un anziano signore che riconosce Cracolici al bar, gli si avvicina e dice: «Bravo onorevole. Basta a farsi belli con il merito degli altri...». E in questo caso intende col sacrificio di Paolo Borsellino.

E’ un problema antico. Leonardo Sciascia ci si avvicinò e fu lapidato per aver coniato una definizione che, spesso stravolta, ha comunque fatto storia: «professionisti dell’antimafia». La faccenda, naturalmente, non può certo riguardare «Rita» (il solo pensarlo è una bestemmia) ma il modo di intendere trent’anni di antimafia, forse sì: i buoni - anzi gli ottimi - tutti da una parte, i cattivi inesorabilmente tutti dall’altra; una linea dritta, tirata per dividere la città: di qua gli ottimi, di là i «contigui». Una cultura (e poi una politica) manichea e senza dubbi, senza zone d’ombra: inevitabile, forse, negli anni terribili dello scontro armato, ma delle stragi del ’92 ricorre il ventennale, tanta acqua più pulita è passata sotto i ponti, la mafia ha rinculato sotto i colpi dello Stato (trasformandosi in qualcos’altro per l’ennesima volta) e tentare di far rivivere a ogni costo gli steccati degli anni bui non solo non sembra utile, ma non funziona più.

«Rita» se ne sta nella sede del suo comitato elettorale, poche stanze affollate e disadorne a due passi dal centro della città. Non parla, è delusa, incerta sul futuro, dubbiosa su quel che è stato. Bersani la chiama, la ringrazia per la forza e il coraggio con cui si è spesa. Ma alle sette della sera «la signora» guarda la tv e si imbatte in Enrico Letta, che avvisa: «Il segnale di Palermo è chiaro: ci chiedono facce nuove...». Anche il primo - e il più ingombrante - dei suoi sponsor, Leoluca Orlando, per ora tace: anzi, pochissime parole per dire che le primarie sono state inquinate dal voto dei fan di Lombardo a Ferrandelli (che fino a un mese fa, peraltro, militava nell’Idv assieme a lui). E’ il ritorno in campo dell’anatema, della scomunica. Ma, su 30 mila partecipanti alle primarie, quasi 20 mila hanno detto no a «Rita»: e forse è troppo semplice marchiarli tutti con il timbro di «contigui», «inquinatori» e via dicendo.

Sia come sia, si ricontrollano i voti. I garanti sono al lavoro e già oggi, probabilmente, emetteranno la loro sentenza. Il verdetto, se confermasse l’esito della consultazione, getterà altra benzina sul fuoco della polemica che infiamma a Roma intorno ai destini della cosiddetta «foto di Vasto», cioè l’alleanza tra Pd, Sel e Idv. Qui, invece, la questione sarà un’altra: provare a vincere le elezioni di maggio, ricostruendo - prima di tutto - un minimo di solidarietà e fiducia tra vincitore e vinti di queste primarie velenose. Lei, «Rita», ci sarà poco o forse niente. «La mia linea - aveva detto all’inizio dell’avventura - è mai accordi con Lombardo e il Terzo polo». Fabrizio Ferrandelli (una faccia da Cetto La Qualunque) e i suoi sponsor - Antonello Cracolici e il senatore Lumia - non la pensano così, visto che già in Regione sono al governo con Lombardo. Tutti «contigui»? Chi lo sa... Certo, se così fosse, bisognerebbe riscrivere un po’ di storia. Ma non è questo, adesso, il problema di Palermo. E si spera, anzi, che non lo sia mai più...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/445202/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - la nuova emergenza Lampedusa polveriera
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2012, 10:14:03 am
Cronache

18/03/2012 - immigrazione, la nuova emergenza Lampedusa polveriera

L'isola rivive l'incubo del 2011

Le salme dei cinque migranti deceduti in mare durante la notte arrivano al porto di Lampedusa

Il sindaco: qui il clima è già pesante, Monti intervenga subito

FEDERICO GEREMICCA
Lampedusa

Alle cinque del pomeriggio sono tutti lì, sul molo, isolani e autorità, curiosi e militari, tragici protagonisti di un film purtroppo già visto e perfino rivisto. Le cinque bare con i corpi degli immigrati morti (tre giovani e due donne) sono poco lontano: ed è forse proprio la presenza di quei feretri a mitigare almeno un po’ la rabbia che monta. Ai primi sbarchi e ai primi morti, Lampedusa è già una polveriera. E ci sono molti motivi - alcuni buoni, altri cattivi - perché la situazione sia così.

Quelli ufficiali - e dunque, diciamo, quelli buoni - li urla nel cellulare il sindaco dell’isola, Dino De Rubeis, già in prima linea l’anno scorso, proprio di questi tempi, di fronte a ondate di sbarchi (50mila fu il totale degli arrivi nel 2011) che travolsero letteralmente Lampedusa. E’ furibondo: «La libera informazione va garantita, ma sono qui in mezzo a gruppi di fotografi che continuano a scattare centinaia di immagini delle bare, e a che diavolo serve - se non a danneggiarci - mandare in giro per il mondo foto di bare? Tutti i telegiornali hanno già cominciato a parlare di una nuova invasione dell’isola, e questo ci rovina perché produrrà altri danni al turismo e noi qui è di turismo che viviamo». Tira il fiato per un attimo, poi continua: «E’ inutile nascondersi dietro a un dito: qui il clima è già pesante e io chiedo ufficialmente a Monti di intervenire immediatamente: sono tecnici, non rischiano polemiche e strumentalizzazioni, quindi si diano da fare. E lo facciano in fretta».

Clima già pesante, dice il sindaco. Che non dice tutto, però: più di un ufficiale della Marina, infatti - oltre a qualche funzionario dello Stato - ieri si è sentito rispondere da diversi albergatori che non c’erano stanze per loro: hotel pieni o in ristrutturazione... La verità è che i lampedusani non vogliono che si rimetta in piedi quel «circo» (lo chiamano così) fatto di giornalisti, militari e volontari che l’anno scorso occupò di fatto l’intera isola da gennaio a giugno. Donato De Tommaso, instancabile comandante della stazione dei carabinieri di Lampedusa, non nega che ci sia tensione, ma chiarisce: «Intanto le stanze per gli operatori che devono venire qui, sono state trovate... Certo, c’è nervosismo: ma vedrete che i lampedusani si confermeranno popolo generoso».

E’ possibile che sia così. Ma almeno un paio di faccende inducono - invece a un certo pessimismo. La prima riguarda il Centro di accoglienza dell’isola che (proprio come l’anno scorso all’inizio della grande «invasione») è desolatamente chiuso, in attesa da mesi di esser sottoposto a collaudo dopo l’incendio che ne distrusse un’ala l’anno scorso. Dice De Rubeis, il sindaco: «Decidano cosa farne. Noi non vorremmo che riaprisse, ma questo è possibile solo se si riesce a bloccare il flusso di migranti all’origine: perché se invece li fanno arrivare fin qui, certo non possiamo ritrovarci come nel 2011 con migliaia di tunisini e libici liberi e in giro per le nostre strade». E’ un problema, certo: che rischia di esser ingigantito dalla seconda faccenda, potenzialmente ancor più esplosiva.

E’ presto detto: il 6 e il 7 maggio Lampedusa vota per rieleggere il suo sindaco, e considerato che l’anno scorso l’«invasione» degli immigrati costò all’isola un calo di oltre il 50 per cento delle presenze turistiche, la battaglia elettorale rischia di trasformarsi in una gara a chi è più duro verso i clandestini e a chi promette interventi e misure il più rigide possibile. Non lo dice così chiaramente, ma nemmeno lo nasconde, Angela Maravantano, senatrice leghista di Lampedusa (fu eletta candidandosi in Emilia...) che ancora non ha deciso se candidarsi a sindaco. «Noi siamo solidali con i clandestini: ma se vengono intercettati in acque internazionali, a 70 miglia dall’isola, qualcuno ci deve spiegare perché vengono portati sempre e tutti qui».

L’attacco della senatrice, naturalmente, è al governo Monti: «Qui non è il momento di proporre baratti del tipo voi accogliete gli immigrati e noi in cambio vi diamo questo o quello... Quest’isola vive di turismo, l’anno scorso la stagione è stata disastrosa, c’è gente che non ha guadagnato una lira e non accetteremo che anche quest’anno vada così. Chi ha il dovere di intervenire lo faccia, perché dopo che i Tg hanno dato la notizia dei cinque morti e dei nuovi sbarchi, sono arrivate le prime disdette di prenotazioni. Facciano in fretta, però, perché rischiamo la “sindrome maltese”, cioè il rifiuto degli immigrati; e perfino lo sciopero fiscale: non pagheremo più le tasse, perché non abbiamo nemmeno un ospedale e ci sentiamo lasciati in balìa delle ondate di clandestini».

Gli aerei della Guarda di Finanza e della Capitaneria di porto si alzano in volo a metà giornata e scorgono all’orizzonte nuove carrette del mare. Almeno 300 immigrati arriveranno sull’isola in meno di 24 ore: e potrebbero essere solo l’avvisaglia della nuova e temuta invasione. La gente bestemmia, le condizioni meteo non sono ideali per la traversata dalle coste libiche o tunisine, ma nemmeno così negative da impedirla. Si scruta l’orizzonte, dunque, e si spera nel cattivo tempo. Proprio come un anno fa. E proprio come se quanto accaduto non avesse insegnato niente...

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/446818/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La quaresima della classe politica
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2012, 05:04:02 pm
4/4/2012

La quaresima della classe politica

FEDERICO GEREMICCA

Sarà perché a volte le cose si vedono meglio stando lontano dal campo di battaglia, oppure sarà per la circostanza che il passo indietro fatto in autunno non ha appannato un certo fiuto politico.

Fatto sta che ci ha dovuto pensare Silvio Berlusconi ieri - a raffreddare gli spiriti di rivalsa che vanno montando nel suo partito.

Il governo di Monti non si tocca fino a fine legislatura, ha ripetuto. E a chi considera questa scelta rinunciataria, ha spiegato: «La classe politica gode della fiducia del 4-5 per cento degli italiani. E una percentuale di elettori che sfiora il 60 per cento, oggi non saprebbe nemmeno per chi votare». Quindi, nervi a posto, sostegno a Monti e avanti sulla via delle riforme.

Si tratta di una presa d’atto assai realistica circa il clima che si respira nel Paese, e che restituisce tutt’altro peso e valore alla pur importante tornata elettorale del 6 e 7 maggio. In entrambi gli schieramenti, infatti, fino ad ancora un paio di settimane fa c’era chi attribuiva al prossimo voto amministrativo addirittura il valore di un giudizio sull’operato del governo, da mandare eventualmente a casa per accorciare la penitenza cui sono obbligati i partiti. Non ci voleva molto, in verità, a capire che le cose stavano in tutt’altro modo: e che a rischiare l’osso del collo - nel voto di maggio - saranno certo più i partiti che l’esecutivo tecnico di Mario Monti.

Lo “scandalo dei tesorieri” (prima Lusi, Margherita, e ora Belsito, Lega) ha soltanto aggravato una situazione di difficoltà che era già sotto gli occhi di tutti. Difficoltà che, in parte, sono addirittura oggettive: se solo si pensa, per esempio, alla complessità di condurre una campagna elettorale contro partiti che sono avversari magari a Palermo o a Verona - per dire ma alleati (seppur di malavoglia) a Roma. O, ancora, al fatto che nessun candidato - né di centro, né di destra e nemmeno di sinistra - potrà stavolta esser sostenuto da ministri e sottosegretari col solito corteo di auto blu (con tutto quel che significa in termini di clientela, promesse e consenso). Non è forse mai accaduto, in Italia, nemmeno ai tempi del governo «tecnico» di Ciampi. Il fatto è che la «classe politica» - per usare un termine che andrebbe cancellato - è in piena Quaresima: ma con una Pasqua che appare ancora lontanissima...

A queste difficoltà oggettive si sono via via aggiunti, nelle ultime settimane, problemi che hanno fiaccato ancor di più lo stato di salute di tutte le forze politiche, praticamente nessuna esclusa. Scandali a catena - da Sud a nord - con sindaci sotto tiro per regali a base di ostriche e prelibatezze di mare, e tesorieri indagati per spaghettini al caviale a spese del partito. Poi, naturalmente, le difficoltà politiche legate all’incalzante (e discussa) azione del governo: dall’alta tensione nel triangolo Pd-CgilFiom ai malumori nel Pdl, che ha visto colpita dal governo anche parte (piccola parte...) del proprio insediamento elettorale.

I partiti, insomma, arrivano senza potere e senza quasi più onore all’appuntamento elettorale che avrebbe dovuto invece decidere della durata del governo Monti e che - al contrario - si va caratterizzando come un esame delicatissimo circa le loro possibilità di ripresa e di rilancio. Il proliferare di liste civiche e l’enorme numero di candidati in campo, forse riuscirà a mascherare le difficoltà di questo o quel partito rendendo praticamente quasi impossibile separare vinti e vincitori. Ma c’è un dato che sarà difficilmente aggirabile: il livello crescente di disaffezione elettorale.

In calo ormai da anni, la partecipazione al voto rischia di essere ulteriormente depressa dalla presenza a Roma di un governo che rappresenta - per la sua stessa e sola presenza - un muto atto d’accusa verso i partiti. A fronte di questa novità, ben altro - si era detto - avrebbe dovuto essere l’azione dei partiti. E invece, dagli scandali a raffica fino all’efficacia dell’azione politica (si pensi alla palude in cui sembrano finite le riforme) si è continuato l’andazzo di prima. Si poteva far senz’altro meglio: e il rischio, adesso, è raccogliere frutti amarissimi nelle prime vere elezioni al tempo dei tecnici...

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9961


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Come ripartire dalle ceneri dell'antipolitica
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2012, 03:38:23 pm
12/4/2012

Come ripartire dalle ceneri dell'antipolitica

FEDERICO GEREMICCA

Faceva perfino un po’ di tenerezza, ieri mattina, ascoltare Bobo Maroni all’uscita della Procura di Milano: «Siamo a completa disposizione dei giudici - spiegava -. La Lega non ha niente da nascondere...». Meno tenerezza, naturalmente, avevano fatto - per anni - gli slogan razzisti e i cappi penzolanti: versione audio e video di una furia antipolitica giunta - per fortuna di tutti - al capolinea. E un sentimento analogo - quasi di umana pietà - ha accompagnato l’ascoltare certe difese cui è stato più volte costretto Antonio Di Pietro, ora per coprire gli scivoloni del figlio Cristiano (ah, questi figli) ora per giustificare storie di ristrutturazioni e appartamenti giudicati sospetti. Anche Di Pietro, naturalmente, prima e dopo questi passi falsi, non è che suscitasse - e susciti - sfrenate simpatie, sempre in groppa ad un giustizialismo rapidamente sconfinato nell’antipolitica.

L’elenco è lungo. E potrebbe comprendere - fatte le dovute e non irrilevanti differenze le difficoltà ciclicamente incontrate da Beppe Grillo o la marginalizzazione che è toccata alla sinistra cosiddetta «radicale».

Ma quel che qui importa, dopo il terremoto che ha scosso via Bellerio, è registrare il declino - anzi: il fallimento - di un’idea eccessivamente semplificata della politica e del far politica: la convinzione, cioè, che basti fiutare il vento, orientare le vele, cavalcare qualunque onda e il gioco è fatto.

La gente è stufa degli sperperi di danaro pubblico? Ecco pronto il «Roma ladrona». I cittadini non ne possono più del potere onnipresente e soffocante dei partiti? Ecco «la Casta», attacco indifferenziato a tutto e tutti, postulato e propellente per ogni antipolitica: di destra e di sinistra, sia chiaro.

L’idea che alcuni problemi - in questo caso la drammatica degenerazione del ruolo e del carattere dei partiti politici - abbiano bisogno di una soluzione e non solo di una continua e opportunistica denuncia del malaffare, ormai non sfiora quasi più nessuno. Per anni - e da più parti - si è continuato a gettare benzina sul fuoco dello sdegno popolare convinti che questo avrebbe conservato e anzi accresciuto il consenso del proprio gruppo o del proprio movimento. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. «Padroni in casa nostra» trasformato in «Ladroni in casa nostra», è solo la rappresentazione visiva di quel che è accaduto: la sostanza è nella disaffezione elettorale, nell’astensione crescente, nella distanza siderale che ormai separa eletti ed elettori.

Chi di antipolitica ferisce di antipolitica perisce, è uno slogan, una semplificazione forse utile a descrivere lo stato delle cose: ma c’è un dato politico - certo meno evidente - sul quale sarebbe invece ora di iniziare a ragionare. E il dato è che nel crepuscolo della Seconda Repubblica non c’è solo la verticale crisi di credibilità della politica e dei partiti, ma anche - in maniera sempre più evidente - il disfarsi, il capolinea dell’antipolitica. Entrambe arrivano esauste alla fine del loro ventennio, travolte dai loro stessi eccessi. E se il declino dei partiti e della politica è inequivocabilmente rappresentato dall’avvento dei tecnici di Mario Monti al governo del Paese, il cortocircuito dell’antipolitica ora ha il volto in lacrime di Umberto Bossi e le urla padane di un popolo che si sente tradito.

Eppure, queste due crisi allo specchio costituiscono un’occasione forse imperdibile per ritrovare la via smarrita e ricominciare. Tocca alla politica, naturalmente, ai partiti fare il primo passo. Le occasioni non mancano: dalla revisione di tutti i meccanismi del loro finanziamento fino alle sempre promesse riforme elettorale e istituzionali, opportunità e lavoro da fare ce ne sono a iosa. E’ un banco di prova che, è evidente, sarebbe suicida fallire. Rigenerare la politica è certo più difficile che battere la grancassa propagandistica dell’antipolitica: ma va fatto, e il momento non è più rinviabile. In caso contrario, si fornirebbe benzina inattesa ad un’antipolitica agonizzante: e nulla, a quel punto, potrebbe escludere che un altro «Cavaliere bianco» arrivi a passeggiare sulle rovine della Seconda Repubblica. Così come un suo antenato-predecessore galoppò su quella della Prima...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9986


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il tempo è scaduto
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2012, 03:48:53 pm
26/4/2012

Il tempo è scaduto

FEDERICO GEREMICCA


Gli applausi, come al solito. E poi le lodi e l’apprezzamento, naturalmente. Ed è così, praticamente senza eccezione alcuna, che anche ieri leader e comprimari hanno accolto il discorso di Giorgio Napolitano: probabilmente l’intervento più allarmato e severo mai svolto da un Presidente della Repubblica nei confronti dei partiti politici.

Non si riesce più a intendere, ormai, se tali reazioni siano frutto di impotenza o di ipocrisia.

Ma qualunque sia la ragione di apprezzamenti che non si traducono mai o quasi mai in scelte conseguenti, il Capo dello Stato ha voluto avvertire ieri che il tempo è praticamente scaduto: e che alcune scelte non sono più rinviabili, e certi atteggiamenti non più tollerabili.

Non è che Napolitano abbia chiesto alle forze politiche qualcosa di diverso da quel che i partiti stessi ogni giorno proclamano di voler fare e - anzi - di esser sul punto di fare: una nuova legge elettorale che permetta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento; impegnarsi affinché «dove si è creato del marcio, questo venga estirpato»; approvare una legge sui partiti e modificare radicalmente le norme che ne prevedono il finanziamento: fissando più limiti e maggiori controlli. Sono mesi - anzi: anni - che le forze politiche applaudono, ringraziano ma poi la cosa finisce lì: e così, però, anche l’idea, l’affermazione che la cattiva politica possa esser battuta davvero soltanto dalla buona politica - piuttosto che dalla dilagante «antipolitica» - resta lettera morta. Declamazione. Ipocrisia.

Come non bastasse - come non bastasse, cioè, l’infimo livello di credibilità toccato - i partiti fanno altro: si moltiplicano, cambiano di nome, annunciano metamorfosi e «grosse sorprese» che, se non sono un tentativo di distogliere l’attenzione dai guai presenti, certo conclamano una distanza dal Paese reale che rischia di essere foriera di ogni guaio. Nessuno, naturalmente, la fa facile e pensa che sia opera semplice ricostruire il sistema politico sotto il tiro incrociato del populismo e della demagogia: ma immaginare che il compito sia ulteriormente rinviabile - magari correndo verso elezioni anticipate, che Napolitano ha nuovamente chiesto di scongiurare - è solo testimonianza di confusione o di vera e propria irresponsabilità.

Sia l’una che l’altra, in fondo, appaiono in qualche modo l’inevitabile conseguenza della crisi verticale nella quale è precipitato il modello-partito nato dalle ceneri della Prima Repubblica. Partiti «non-partito», li ha definiti D’Alema. O anche «partiti del leader», come ha voluto correggere qualcun altro. In ogni caso, partiti che il più delle volte - e con le necessarie distinzioni - sono plasmati e rappresentati da un uomo solo. Leader senza vice, senza eredi e senza ricambi, verrebbe da dire.

E infatti chi è l’erede di Silvio Berlusconi? Nessuno, in fondo, pensa davvero che possa essere il volenteroso Alfano. E chi è l’erede di Bossi? Forse Maroni, tuttora bisognoso di tutela, protezione e investitura? E lo stesso discorso vale per Casini e per Di Pietro, leader solitari e senza vice. Lo stesso modello - come in un inarrestabile circolo vizioso - viene incredibilmente e paradossalmente riproposto perfino nel magmatico campo dell’«antipolitica»: o c’è qualcuno che pensa davvero che Beppe Grillo abbia un erede e che il suo Movimento possa sopravvivere ad una sua (non prevista) uscita di scena?

Leader senza vice. Leader senza eredi. E il più delle volte, senza nemmeno un gruppo dirigente capace di supplenza. E naturalmente, colpito il leader - perché sconfitto, perché finito nei guai o perfino perché ammalato - quel che resta è la desolante confusione che è oggi sotto gli occhi di tutti. I partiti navigano a vista, non hanno rotta, subiscono quasi passivamente l’ondata di melma scagliata loro addosso dalla demagogia e dal populismo dilagante. Appaiono paralizzati. E invece l’unica di via di salvezza sarebbe agire e trovare «soluzioni che sono diventate urgenti, anzi: indilazionabili», come ha avvertito ieri il Capo dello Stato. Pena non solo il loro destino: ma al punto cui siamo, anche le sorti del Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10033


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La grande paura del Pd
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:45:19 pm
Politica
06/05/2012 - CENTROSINISTRA
Vincere e restare soli

La grande paura del Pd

FEDERICO GEREMICCA

Le vittorie elettorali fanno sempre bene: eppure a volte, paradossalmente, possono aprire problemi dei quali si farebbe volentieri a meno. Se è possibile sintetizzare in una battuta lo stato d’animo che regna nel quartier generale del Pd in attesa del primo turno delle amministrative, lo si potrebbe descrivere così. L’ evidente ottimismo intorno ai risultati che arriveranno dal voto, è appena mitigato da un paio di preoccupazioni che riguardano il futuro.

La prima di queste preoccupazioni, se si vuole la più ovvia, riguarda (al di là del numero di nuovi Comuni che saranno conquistati) i voti che otterranno le liste Pd e quelli che - al contrario - guadagneranno i partiti e i movimenti concorrenti all’interno dello stesso schieramento di centrosinistra: e cioè Sel, Idv e in parte - secondo alcuni - lo stesso Grillo. A Largo del Nazareno, infatti, nessuno ha grandi dubbi intorno al fatto che a conclusione del turno di ballottaggi saranno molti i Comuni la cui guida sarà passata dal centrodestra al centrosinistra: l’interrogativo non irrilevante per il futuro - riguarda piuttosto i rapporti di forza che il voto ristabilirà tra Bersani, Vendola e Di Pietro.

Il risultato delle liste concorrenti, infatti, non solo dirà di eventuali nuovi equilibri tra alleati-concorrenti: ma anche quanto avrà pagato (per Vendola e Di Pietro) stare all’opposizione del governo di Mario Monti. E qui arriva la seconda preoccupazione: che accadrà, dopo il voto, intorno all’esecutivo tecnico di SuperMario? E’ un interrogativo non da poco, visto che investe sopravvivenza e durata della legislatura e - in sostanza - data e prospettive dell’appuntamento considerato più importante: le prossime elezioni politiche. A volerla dire tutta, anzi, è forse proprio questa la maggiore delle preoccupazioni di Pier Luigi Bersani. In verità, le premesse affinché il clima dopo il voto si faccia irrespirabile ci sono tutte.

Il centrodestra, infatti, arriva a queste elezioni in ordine sparso e in condizioni pessime. Lega e Pdl si presentano quasi ovunque divisi, e la sconfitta in molti Comuni (anche significativi) è data già per certa. E chiaro che le somme verranno tirate solo dopo i ballottaggi, ma l’interrogativo è chiaro fin da ora: come reagirà Berlusconi - di fronte ad una sconfitta che potrebbe assumere il profilo della disfatta? Il rischio è che le fibrillazioni diventino ingovernabili e possano portare alla saldatura di due nervosismi: quello già evidente della Lega e quello crescente del Pdl. Già oggi i rapporti tra il partito di Berlusconi e il governo di Monti appaiono tesi: e ieri, da Brunetta a Gasparri, per finire a Sandro Bondi, è stato tutto un rosario di ultimatum e avvertimenti. Che cosa potrebbe accadere se il Pdl uscisse da queste elezioni con le ossa rotte? Lo scenario non è difficile da immaginare, e tratteggia una ulteriore presa di distanze dal governo Monti, fin quasi a prefigurare quel che molti dirigenti del Pdl chiedono già ora:e cioè una sorta di appoggio esterno all’esecutivo dei tecnici, da sostenere o avversare di volta in volta, provvedimento per provvedimento.

Uno scenario certamente allarmante per il governo in carica: e per il Pd più in particolare. A quel punto infatti, l’esecutivo - il cui consenso nel Paese comincia decisamente a calare - diventerebbe quasi un governo targato Pd: non proprio un buonissimo affare per un partito la cui base è già in sofferenza per molti dei provvedimenti varati da Mario Monti. Senza contare il rischio che una tale evoluzione possa addirittura portare ad una brusca interruzione della legislatura. Le incognite del dopo-voto, insomma, sono tante. Bersani lo sa e se ne preoccupa. Anche se intanto si prepara a gustare quella che si annuncia - fin forse da domani - come una robusta vittoria elettorale.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/453011/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'argine-Pd contro l'esasperazione
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2012, 09:35:58 am
8/5/2012

L'argine-Pd contro l'esasperazione

FEDERICO GEREMICCA

Un cumulo di macerie politiche. E in mezzo ai rottami di partiti che non ci sono più (il Pdl), di movimenti messi in ginocchio dai loro stessi errori (la Lega) e di esperimenti rivelatisi nelle urne espedienti mediatici o poco più (il Terzo polo) solo il Pd sembra reggere l’urto dell’esasperazione popolare.

Il Pd si conferma - e adesso di gran lunga - il primo partito del Paese. Non che il voto non abbia riservato amarezze anche ai democratici di Pier Luigi Bersani, com’era prevedibile: ma a fronte della polmonite che ha colpito gli altri, quel che turba il Pd può esser per ora considerato un semplice seppur fastidioso raffreddore. E nulla più.

Le vicende di Palermo e Genova, certo, non sono esaltanti. Nel capoluogo siciliano il candidato Pd vincitore delle primarie va sì al ballottaggio, ma è più che doppiato dall’inossidabile Leoluca Orlando: comunque la si pensi, un leader vero, passato indenne attraverso cambi Repubblica (sindaco nella Prima e salvo terremoti anche nella Seconda) e cambi di partito; e a Genova, ferita ancora sanguinante, i democratici devono assistere al trionfo di Marco Doria, l’uomo che ha sconfitto alle primarie le due candidate del Pd. Qualche altra delusione, certo, è arrivata qua e là: ma nulla di paragonabile alla vera e propria messa in liquidazione che ha ridotto il Pdl a forza minore e la Lega - salvo Verona - ad un esercito in rotta anche al Nord e nelle sue troppo enfatizzate valli.

Ci si potrà interrogare a lungo intorno al risultato ottenuto dal partito di Bersani: si potrà, cioè, andare a cercare il pelo nell’uovo oppure dettagliare complicate spiegazioni circa la sua capacità di resistenza di fronte alla slavina che ha investito l’intero sistema politico. Ma forse varrebbe la pena di accontentarsi - per il momento - di analisi semplici, a cominciare da quella che riguarda - in fondo - la natura stessa del Pd: l’unico partito realmente strutturato lungo tutta la penisola e che - erede di due forze storiche e diversamente ideologiche (la Dc e il Pci) - gode di un residuo «voto di appartenenza» che ne permette la tenuta anche in momenti difficili come quello in questione.

Solo stamane, facendosi largo nella miriade di liste civiche e di formazioni di questo o quel sindaco, sarà probabilmente possibile avere percentuali più attendibili e capaci di indicare con precisione lo stato di salute del Pd. Ma due cose appaiono chiare fin da ora: che saranno moltissime le amministrazioni (anche importanti) che passeranno dal centrodestra al centrosinistra e che il voto - per la sua carica dirompente - consegna ai democratici certo buone soddisfazioni, ma anche un problema di non poco conto: e cioè il rapporto da tenere (da continuare a tenere) con il governo di Mario Monti.

Ieri, a scrutinio ancora in corso, Pier Luigi Bersani ha confermato sostegno e lealtà all’esecutivo tecnico di SuperMario, chiedendo solo che il Pd venga ascoltato un po’ di più e le sue proposte valutate con meno sufficienza. Ma non è dal rapporto diretto col premier e i suoi ministri che, presumibilmente, arriveranno insidie e difficoltà: il problema (l’eventuale problema) rischia piuttosto di esser determinato dalla possibile reazione di Berlusconi e di quel che resta del Pdl all’indomani di un voto che è assai più di un ultimatum o di un avvertimento.

Quel che lo stato maggiore del Pd può temere è una netta e brusca presa di distanze del Popolo della libertà dal governo Monti. Non una reazione, naturalmente, che arrivi fino al punto di rovesciare il tavolo e aprire una crisi, ma un cambio di passo, di atteggiamento che trasformi la sua fiducia e il suo sostegno in qualcosa di simile (se non di peggio) a un appoggio esterno. Questo consegnerebbe al Pd (e ad un Terzo polo deluso e ferito) la quasi esclusiva responsabilità di tener in vita il governo: con tutto quel che ne potrebbe seguire in termini di popolarità, consenso e tenuta della sua base elettorale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10074


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Dove arriva l'onda lunga di Grillo
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 03:45:29 pm
Politica

22/05/2012 -

Dove arriva l'onda lunga di Grillo

Per battere l’astensionismo e le spinte dell’antipolitica, i sondaggisti non hanno dubbi: i partiti devono abbattere i costi della politica e, senza dover pensionare i vecchi leader, favorire la partecipazione di volti e forze nuove

Federico Geremicca

Non c’è nulla da inventare, davvero nulla. Se i partiti tradizionali soprattutto i maggiori - vogliono evitare che le prossime elezioni politiche nazionali si trasformino in un trionfo dell’astensionismo e dell’«altra politica», non devono che metter mano a ciò che sondaggisti, opinionisti e perfino il senso comune suggerisce loro di fare da almeno un anno a questa parte.

«Le leve per recuperare credibilità nei confronti dei cittadinielettori - spiega Nando Pagnoncelli, Country manager di Ipsos Italia - restano due: dare un segnale forte sul fronte della riduzione dei costi della politica e far emergere nuove personalità, che non vuol dire necessariamente cacciare i vecchi leader ma favorire la partecipazione di volti e forze nuove, attraverso strumenti più moderni di quelli tradizionalmente utilizzati dai partiti».

Se questo non avverrà, allora sì che il rischio che il movimento 5 Stelle dilaghi anche nelle elezioni politiche (Pagnoncelli lo stima già al 16% nelle intenzioni di voto) diventa assai concreto. «Un successo di Grillo nelle elezioni per Camera e Senato - aggiunge - non è scontato. Rispetto al voto per le elezioni di un sindaco, i “grillini” hanno un problema in più: mettere in campo personalità il cui profilo rassicuri gli elettori circa la loro competenza a risolvere i problermi che il Paese ha di fronte, e dei quali gli elettori sono ormai ben informati».

Tutti gli elettori, compresi i quelli del movimento di Beppe Grillo, che rappresentano - per altro una fascia non facilmente addomesticabile... «Le nostre ricerche chiarisce Pagnoncelli - lasciano spazio a pochi dubbi: chi vota 5 Stelle è solitamente laureato o diplomato (oltre la media degli altri partiti), ha un’occupazione, è in maggioranza di età compresa tra i 25 e i 40 anni, ha precedenti esperienze politiche e non ha una ostilità pregiudiziale verso la politica ma verso questa politica». Cittadini informati, colti e politicamente non sprovveduti, insomma: riconquistare il loro voto anche nell’elezione del Parlamento non è scontato. Nemmeno per Beppe Grillo...

Non a caso, Nando Pagnoncelli insiste sulla necessità di definire un giudizio meno approssimativo sul successo di Grillo e sul profilo di chi lo vota. Lo sbaglio più serio è catalogare il tutto sotto la voce “antipolitica”, e chiuderla lì. «E’ un errore che può anche portare all’elaborazione di strategie sbagliate - dice -. In realtà, il consenso ora un po’ in calo di Mario Monti e quello crescente di Beppe Grillo, sono le due facce di una stessa medaglia: e cioè, esprimono entrambi (sono entrambi il risultato) della necessità, della richiesta di una politica diversa, altra rispetto a quella attuale». Di Monti - potremmo tradurre - si apprezza la diversità e la competenza; di Beppe Grillo piace, evidentemente, la ventata di novità che lo circonda.

A partire dai risultati di queste elezioni amministrative è però difficile tratteggiare il possibile scenario che potrebbe determinarsi nel voto politico della primavera prossima, considerato che ancora non si conoscono le allenze che saranno in campo, i leader che le guideranno e perfino la legge elettorale con la quale si voterà. Ma un altro errore va evitato commentando i risultati di ieri: e cioè dire “mettiamo questi grillini alla prova, tanto falliranno”. E’ la stessa cosa che si ipotizzò, anni fa, con la Lega: ora che governeranno - si disse - tutti potranno vedere che non sono altro che populisti e demagoghi... Oggi, invece, non c’è nessuno che non ritenga che proprio gli amministratori del Carroccio (da Zaia e Tosi) siano quanto di meglio prodotto da un movimento che sul piano nazionale, invece, accusa ormai colpi su colpi...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/455097/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'ultimo intreccio delle riforme
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2012, 11:42:32 am
23/5/2012

L'ultimo intreccio delle riforme

FEDERICO GEREMICCA

Sono anni, molti anni ormai, che partecipano a talk show, organizzano convegni, tengono comizi elettorali e ripetono - ormai a memoria quel che occorre fare: riforme costituzionali che rendano più moderno e competitivo il Paese; una legge elettorale che permetta ai cittadini di scegliere i propri eletti; rinnovare profondamente la politica, nei volti e nella prassi; e urgenza delle urgenze, da qualche mese in qua (da quando si è scoperto che i partiti sarebbero alla mercé di tesorieri disonesti...) ridurre i finanziamenti ai partiti e tagliare le spese di smisurati apparati politico-amministrativi che, come sanguisughe, continuano a succhiar sangue anche dove non ce ne è più.

Sono anni che leader politici di ogni latitudine e di ogni schieramento, ripetono che occorre fare in fretta: una fretta che aumenta all’indomani di ogni tornata elettorale che certifica (proprio come quest’ultima) il crescere della disaffezione al voto e la richiesta di una politica diversa (finalmente si è smesso di definirla antipolitica tout court).

Ma ciò nonostante, quest’opera riformatrice - nota negli obiettivi da perseguire e negli strumenti da utilizzare - si è nuovamente trasformata in un’affannosa e confusa corsa contro il tempo. Una cosa da non credere. Da non credere soprattutto perché - come ogni elezione ormai conferma - a rischiare l’osso del collo non è solo (e soprattutto) il Paese: ma sono innanzitutto loro, i partiti. Vecchi o nuovi che siano.

Ieri, a Montecitorio, è stato finalmente battuto un colpo. Un colpo non definitivo (perché le votazioni continuano, e resta sempre l’incognita di un nuovo passaggio al Senato) ma certo significativo: le forze politiche hanno infatti deciso di dimezzare per gli anni a venire il finanziamento di cui godono e di ridursi della metà anche l’ultima tranche dei rimborsi loro assegnati. Col clima in cui è sprofondato il Paese, si dirà certo che si poteva fare di più: e forse è vero. Ma un primo segnale è arrivato: e anche il poco, considerati i tempi, è certo meglio del niente.

Le note dolenti - dolentissime, anzi - arrivano purtroppo da tutto il resto: oggi comincia al Senato l’esame del testo di riforme costituzionali (dalle quali dipende anche la possibilità di modificare la legge elettorale) e il rischio che tutto si areni è grande. «Dobbiamo darci una mossa», ha detto Anna Finocchiaro, capo dei senatori Pd. Ha ragione, naturalmente: ma il suo allarme rischia di essere tardivo.

Le doppie letture da parte dei due rami del Parlamento (necessarie in caso di leggi che modifichino la Costituzione) e la complessità delle materia in esame, rendono infatti concretissimo il pericolo che il treno faticosamente avviato si fermi alla prima stazione. In pochi giorni il Senato dovrebbe dare il via libera alla riduzione del numero dei parlamentari (da 945 a 750), al superamento del bicameralismo perfetto e attribuire maggiori poteri al capo del governo. Si riuscirà a fare in una manciata di settimane quel che non è stato portato in porto nel corso di più e più legislature?

Lo scetticismo, naturalmente, è lecito. Soprattutto perché a condizionare il confronto c’è il rapporto tra queste urgenti innovazioni di sistema e quella che per i partiti rappresenta da sempre la «madre di tutte le riforme» (decidendone rappresentanza e potere): cioè quella della legge elettorale. L’intreccio è perverso: è infatti impossibile modificare le regole con le quali gli italiani torneranno alle urne se prima non è noto il numero di parlamentari che dovranno eleggere. Tirare per le lunghe il confronto sulle modifiche costituzionali, insomma, di fatto significa bloccare la riforma della legge elettorale.

L’augurio - rivolto prima di tutto ai partiti, che in caso di fallimento rischiano davvero l’inesorabile messa in liquidazione - è che riescano, pur nei tempi stretti, a modificare quel che c’è da modificare nella Costituzione per poi passare al varo di una nuova legge elettorale. La speranza (di più: la forte sollecitazione) è che, nel caso fallisca la prima tornata di riforme, non si rinunci a cambiare la legge elettorale. Mai come stavolta, infatti, il meglio è nemico del bene. E se segretari e forze politiche non ne sono convinti, pensino a quanto sarebbe autolesionistico tornare a votare con il Porcellum: dopo averlo definito per anni - tutti, indistintamente - l’origine della malattia di cui soffre la politica in questo Paese...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10135


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il rischio di non uscire dal passato
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2012, 10:24:43 pm
18/8/2012

Il rischio di non uscire dal passato

FEDERICO GEREMICCA

Adesso, naturalmente, molti dicono che non poteva che finire così, che il destino era segnato e che il bivio sarebbe stato necessariamente quello - micidiale - materializzatosi nelle ultime settimane.

Scegliere se morire di fame oppure di un qualche tumore. Lo dicono in molti: a partire, naturalmente, da quelli che nel corso di decenni hanno trasformato il Mezzogiorno d’Italia in una nauseabonda pattumiera e adesso - non avendo più tappeti sotto i quali nascondere veleni e scorie inquinanti - scrollano le spalle e puntano l’indice contro giudici «che così portano il Sud alla rovina e alla fame».

Già, il Sud: per vaste aree, lande ormai de-industrializzate, grondanti disoccupazione e rifiuti venefici, malavita capace di trasformare in oro anche le scorie tossiche, e panorami di archeologia industriale. Perché l’Ilva di Taranto è solo l’ultimo gigante ferito di una politica cosiddetta industriale che, oltre che fallimentare, oggi va rivelandosi in tutta la sua incosciente pericolosità.

Naufragato prima il polo chimico e poi quello minerario del Sulcis, la Sardegna è ormai - produttivamente - quasi un deserto; la Puglia difende il poco che ha: e senza l’Ilva quel poco diventa praticamente niente; la Calabria sperava nel mitico Ponte - la Grande Opera, buona a raccattare voti ad ogni elezione - così come aveva sperato in Gioia Tauro, il leggendario porto sospeso nel nulla; la Sicilia boccheggia sotto il peso della crisi della chimica, e della Campania e di Napoli - città che ha precorso i tempi di questo inarrestabile disastro - è quasi meglio non parlare.

Quel che c’era da dire - soprattutto sull’ex Italsider di Bagnoli, anch’essa poi Ilva - è stato infatti magnificamente detto da Ermanno Rea, in un libro terribile andato in stampa giusto dieci anni fa. È la storia commovente della fine della gigantesca acciaieria (due milioni di metri quadri, cinque milioni e mezzo di metri cubi fatti di altoforni, ciminiere, colate e capannoni) smontata pezzo a pezzo da operai con gli occhi a mandorla e ricostruita a Meishan, nel cuore della Cina (Paese ancora così poco attento all’ambiente da portarsi faticosamente a casa una vera e propria bomba ecologica). Fu la fine del sogno industriale della capitale del Mezzogiorno: con una morte effettivamente più spettacolare di quella toccata - un po’ in sordina - alle raffinerie, ai cantieri navali e alle piccole industrie che vivevano di indotto.

Uno sviluppo, se vogliamo chiamarlo così, le cui macerie fumanti sono oggi sotto gli occhi di tutti. Classi dirigenti - locali e nazionali - dedite alla rapina e alla raccolta di voti: raccolta che, mentre i pochi presidi industriali franavano miseramente, continuava producendo disastrosi rigonfiamenti del debito e delle amministrazioni pubbliche. Dalle fabbriche alle Regioni, alle Province e ai Comuni: e ora, naturalmente e inevitabilmente, via anche da lì. Quasi nessuno degli avventurieri travestiti da imprenditori ha pagato per il saccheggio di danaro pubblico e lo scempio del territorio perpetrato nel Sud d’Italia. E alla magistratura, infatti, andrebbero contestati non gli interventi di oggi, ma i mancati interventi di ieri...

Perché nulla è stato fatto in questi anni? Perché in Germania (e non è per dire la solita Germania: accade anche in Francia) l’acciaio è una produzione «pulita» e da noi una fabbrica di veleni e di morti? Per quanti anni si è ripetuto che senza lo sviluppo al Sud non ci sarebbe stato sviluppo per l’Italia? Intere scuole di meridionalismo - liberale, cattolico, comunista - si sono spese per tentare di convincere il «ricco Nord» che, per quanto amara, questa era la verità. Fatica sprecata. E una dopo l’altra, intanto, le cattedrali nel deserto essiccavano al sole. Crollavano vittime della loro stessa improduttività. Oppure mettevano operai e cittadini di fronte al drammatico bivio che oggi angoscia gli abitanti di Taranto: morire di fame o di un qualche tumore. Nel cuore dell’Europa, all’alba del terzo millennio. Da non credere, davvero.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10435


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Veleni e rancori spaccano il centrosinistra
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2012, 10:10:19 pm
Politica

22/08/2012 - analisi

Veleni e rancori spaccano il centrosinistra

Sulle intercettazioni del Quirinale, contrapposti politici, magistrati e intellettuali

Federico Geremicca
Roma

Amicizie consolidate e antiche che si incrinano. Alleanze che d’improvviso si sfaldano. Partiti-non-partiti che si spaccano a metà come fossero mele e tutt’intorno, mentre le polemiche alimentano i veleni e arroventano i rancori, si ammucchiano le macerie fumanti di uno scontro interno al centrosinistra e del tutto inedito per temi e per protagonisti.

L’intensità autolesionistica ricorda quella che, nella primavera del 2008, portò alle dimissioni di Romano Prodi, lesionando seriamente la credibilità di quell’alleanza di governo.
Oggi (e per il momento) non ci sono esecutivi che rischiano la crisi: ma non per questo la vicenda è meno clamorosa.

E la vicenda, naturalmente, è quella che vede contrapposti - a partire dallo scontro in atto tra la Procura di Palermo e il Quirinale - pezzi di sinistra, di magistratura, di intellettualità e perfino di carta stampata. Stare con Napolitano o con i pm che indagano sulla presunta trattativa tra Stato e mafia? Firmare l’appello de «Il Fatto quotidiano» a sostegno dei magistrati siciliani o schierarsi con il Quirinale, che ha chiesto alla Corte Costituzionale di stabilire il destino di certe discusse intercettazioni (quelle tra il Presidente della Repubblica e l’ex ministro Mancino)?

Lo scontro è senza quartiere. E ieri, mentre il centrodestra stava ancora fregandosi le mani, ecco l’ultimo capitolo: in campo, infatti, è sceso anche Valerio Onida - ex presidente della Corte Costituzionale e membro del Consiglio di presidenza di «Libertà e giustizia» - per contestare le tesi sostenute qualche giorno prima da Gustavo Zagrebelsky, suo predecessore alla guida della Corte e presidente onorario di «Libertà e Giustizia». Onida si è schierato decisamente con il Quirinale (a differenza di Zagrebelsky). Di più: è arrivato a sostenere
l’illegittimità dell’indagine dei giudici di Palermo: «Mi sembra - ha spiegato a “l’Unità” - che sia di competenza del Tribunale dei ministri, non della Procura. E non lo dico io, lo dice la Costituzione».

E’ l’ultima clamorosa spaccatura: «Ma noi non siamo un partito: ci si confronta liberamente, e che la si pensi in maniera diversa non mi pare onestamente un caso», dice Sandra Bonsanti, presidente di «Libertà e Giustizia». Nemmeno «la Repubblica» è un partito - nonostante lo si definisca da sempre giornale-partito (e conti di certo assai più di un partito) - ma anche lì sono volati gli stracci, con Eugenio Scalfari accorso in difesa di Napolitano pesantemente criticato, due giorni prima e proprio su «la Repubblica», da Gustavo Zagrebelsky. Nemmeno il partito dei giudici è un partito: eppure anche tra le toghe divampa uno scontro furioso che contrappone correnti interne, personalità e magistrati di primissimo piano.

E’ un intero mondo - fino a ieri legato da un comune sentire - a liquefarsi nell’afa di un agosto terribile. Sconcerta che il campo di battaglia sia la giustizia, e sorprendono le accuse che rimbalzano tra i due fronti: presunti «giustizialisti» contro ipotetici «affossatori della verità». E cosa ci sia dietro - cosa potrebbe esserci dietro - alla fine lo ha denunciato senza mezzi termini Luciano Violante (pure considerato tra i padri fondatori del partito dei giudici: paradosso dei paradossi). «Vedo in corso un attacco politico al ruolo del Quirinale e al governo... C’è un blocco che fa capo a “Il Fatto”, a Grillo e a Di Pietro che sta reindirizzando il reinsorgente populismo italiano... Il “populismo giuridico” utilizza le Procure come clava politica».

Vera o traballante che sia la tesi dell’ex presidente della Camera (ed ex magistrato), il livello del punto cui è precipitato lo scontro lo si coglie bene nella replica che arriva
dall’Italia dei valori: «Violante continua a farneticare di un progetto comune tra magistratura, politica e informazione per abbattere Napolitano e Monti. In realtà, lui è un uomo al servizio dei poteri forti e solleva polveroni... Con le sue dichiarazioni dimostra un’imbarazzante sintonia con Cicchitto... sono fatti l’uno per l’altro».

Chi fosse stato lontano dall’Italia nelle ultime settimane, non potrebbe che rimanere strabiliato di fronte a tutto questo. Quando aveva lasciato il Paese, «giustizialista» era l’accusa tradizionale che la destra rivolgeva al centrosinistra: e non la spada impugnata da un pezzo di sinistra contro un altro pezzo fino a ieri alleato; Di Pietro e Bersani apparivano ancora sorridenti nella foto di Vasto; «Libertà e Giustizia» non si divideva, il partito di «Repubblica» non si spaccava e, soprattutto, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di contestare al Capo dello Stato l’intenzione di occultare la verità sulla presunta trattativa tra Stato e mafia.

E’ vero, la politica italiana (ed i rapporti tra la politica e la magistratura...) regala di sovente sorprese: ma ad un terremoto di tali dimensioni - e su un simile terreno - forse nessuno era preparato. L’origine, naturalmente, sarebbe tutta politica: e cioè la nuova collocazione di Antonio Di Pietro fuori dal centrosinistra, in aperta concorrenza col Pd e in gara con Beppe Grillo e la Lega per la conquista di consensi «radicali» e di voti da recuperare nell’enorme bacino dell’astensione e dell’antipolitica. Da qui, secondo molti, la decisione di tracciare una riga: immaginaria, certo, ma invalicabile e insidiosa. O di qua o di là: di qua dovrebbe voler dire stare con i magistrati di Palermo, di là con Napolitano, Monti e i partiti che lo sostengono.

Sullo sfondo - sia detto senza retorica - si stagliano i problemi del Paese: quasi sfocati rispetto alla questione in primo piano, che è di nuovo - e come sempre da vent’anni a questa parte - la giustizia. La novità è che, fino a ieri, oggetto degli strali «giustizialisti» era Silvio Berlusconi, non Napolitano... Così, il Cavaliere tira un sospiro di sollievo e ringrazia: e si gode, soprattutto, quella che i suoi definiscono una «rivincita postuma». In fondo, il suo cavallo di battaglia è sempre stato lo stesso: in Italia la giustizia non funziona. Sentirlo dire oggi alla sinistra, è musica fantastica per le sue orecchie...

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/466108/


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - E Bersani ora dubita degli alleati
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2012, 04:46:39 pm
5/9/2012

E Bersani ora dubita degli alleati

FEDERICO GEREMICCA

Matteo Renzi cresce nei sondaggi, miete simpatie anche fuori del Pd, richiama folle crescenti alle sue iniziative eppure - paradossalmente - non è il sindaco di Firenze, in queste ore, la preoccupazione maggiore di Pier Luigi Bersani. A campagna per le primarie ormai aperta (aperta senza regole e senza nemmeno la certezza che la consultazione avrà poi davvero luogo) quello che comincia a impensierire il segretario dei democratici sono gli scricchiolii e i riposizionamenti all’interno della maggioranza che lo ha sostenuto fino ad ora, e che dovrebbe spingerlo alla vittoria contro lo scatenato sindaco di Firenze.

Infatti, sotto l’effetto del ciclone-Renzi e alla luce di un paio di mosse del segretario - che non pochi nel Pd hanno giudicato sbagliate - la geografia interna al partito sembra mutare col passar dei giorni in maniera imprevedibile e non favorevole a Bersani.

Walter Veltroni è perplesso, tanto da augurarsi - mentre molti degli uomini a lui vicini cominciano a spostarsi verso Renzi - che le primarie non si svolgano; Enrico Letta e i suoi riflettono e tacciono, dopo alcune sortite del segretario giudicate eccessivamente anti-montiane; Romano Prodi non annuncia quello che pareva uno scontato sostegno al suo «ministro delle lenzuolate» e i cosiddetti «giovani turchi» sono partiti decisamente all’attacco e chiedono (proprio come il sindaco di Firenze) che «i vecchi si facciano da parte».

Un quadro, come si vede, non incoraggiante. Al quale si è aggiunta ieri una pesante e inattesa critica di Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale Pd, che ha chiesto a Bersani «una parola chiara» in difesa del gruppo dirigente, pena il rischio che - «tra il battutismo renziano e le intemerate dei giovani turchi sul ricambio generazionale» - le primarie si trasformino «in una farsa o in una impropria resa dei conti». E’ l’intero gruppo dirigente del Pd, insomma, a fibrillare sotto l’incalzare del «tutti a casa» urlato da Renzi in giro per il Paese. Fibrilla e sospetta che - di fronte all’efficacia di quello slogan - Bersani stia mettendo nel conto di abbandonare al loro destino alcuni dei più stagionati dirigenti del partito...

Non basta. Per i leader della maggioranza legata al segretario, infatti, gli imbarazzi di Bersani sul tema del rinnovamento non sono l’unica ragione di perplessità. Non sono piaciuti, per esempio, i toni riservati di recente al governo di Mario Monti e alla necessità del ritorno in campo della politica: sono parsi uno sgradito avvicinamento alle posizioni di chi considera il governo tecnico «una parentesi» da chiudere rapidamente, quasi fino a mettere in discussione perfino quell’«agenda Monti» considerata - ancora ieri - la stella polare del cammino futuro. La preoccupazione insomma è che - complice la necessità di contrastare la linea moderata e filo-montiana di Matteo Renzi - Bersani faccia ancor più sue posizioni «gauchiste» alla Fassina.

Anche il piglio da «candidato in pista» assunto dal segretario non convince molti. Non è piaciuta la decisione (solitaria) di dare del fascista a Beppe Grillo, trasformando in un colpo il Pd nel «nemico numero uno» del popolare comico genovese; non ha convinto l’articolo su Togliatti e il pantheon del Pd pubblicato da «l’Unità» (che avrebbe fatto davvero infuriare Romano Prodi) e ancor meno è stato gradito il mancato invito al ministro Fornero alla Festa nazionale Pd. Insomma, un decisionismo insolito per Bersani: e che sembra poter riservare una sorpresa al giorno, mentre i big del partito chiedono al segretario rassicurazioni e collegialità.

Una partita che sembrava senza storia, dunque, rischia di trasformarsi in una sfida dall’esito e dalle conseguenze imprevedibili. A ciò, più in generale, va aggiunta la sgradevole sensazione di confusione che regna con e tra i possibili alleati elettorali e di governo: Vendola contro Casini, Casini contro Vendola e il Pd che cerca di rassicurare e tenere tutto assieme. Inevitabilmente, torna a volteggiare il fantasma dell’Unione, quell’alleanza così indimenticabilmente eterogenea da portare al naufragio del secondo governo di Romano Prodi. E al di là delle primarie, è questo quel che rischia di render davvero più difficile una vittoria elettorale che pareva certa...

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10490


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - "Adesso": Renzi sceglie la sua parola d'ordine
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2012, 10:09:02 pm
11/9/2012 - CENTROSINISTRA

"Adesso": Renzi sceglie la sua parola d'ordine

FEDERICO GEREMICCA

La parola è ADESSO. Che va bene, magari ricorda il «The time is now» della vittoriosa campagna di Ronald Reagan nell’ormai lontano 1980: ma non c’entra niente. ADESSO, infatti, è la parola chiave della sfida spericolata che Matteo Renzi ha lanciato a Pier Luigi Bersani (e Nichi Vendola e Bruno Tabacci, per ora) e che comincia ufficialmente dopodomani a Verona.

ADESSSO. Come «ADESSO è il nostro momento» oppure «Il momento di cambiare è ADESSO». Le lettere (blu) che compongono la parolaslogan scelta dal sindaco di Firenze per le primarie del centrosinistra compariranno per la prima volta («Con una scenografia minimal», spiega Renzi) sul palco di Verona, città di partenza della campagna. Dopo, di corsa a Longarone (Vajont) per parlare di emergenze e politica del territorio, poi Belluno e infine Padova, per discutere di cultura e università. Un giovedì frenetico: che se solo dovesse somigliare davvero ad una giornata-tipo della campagna di Renzi, c’è da prepararsi a rimanerci secchi.

Nel corso delle quattro tappe di dopodomani, il sindaco di Firenze presenterà pezzi del programma col quale sfida Pier Luigi Bersani: nulla ancora di completamente definito, perché la bozza - aperta a proposte e contributi - verrà messa in rete e quindi inviata al centinaio di «Comitati per Renzi» già sorti spontaneamente in giro per l’Italia. E nulla di definito, naturalmente, perché il vero punto di forza del giovane sindaco fiorentino non è certo il programma, ma chi dovrà realizzarlo: cioè, non più i «soliti noti» (da «rottamare», come è evidente...).

La campagna di Renzi si annuncia imprevedibile, ricca di sorprese e momenti assai particolari. Da tener d’occhio, per esempio, la giornata di venerdì a Firenze. Matteo Renzi, infatti, ha tutta l’intenzione di salire su una ruspa e abbattere - vicino al vecchio Torrino, nella zona di San Frediano - delle costruzioni abusive messe da tempo sotto sequestro dalla magistratura. «In questo Paese non si tocca mai nulla... Io invece sono dell’idea che le cose brutte, a maggior ragione se abusive, vanno abbattute, fatte sparire - spiega -. Ho già buttato giù la vecchia pensilina della stazione, un eco-mostro che deturpava un’intera area, i resti di un antico complesso industriale e due o tre edifici scolastici cadenti e in disuso. Non per niente, prima che “rottamatore” mi chiamavano “sindaco demolitore”...». Non per niente: anche perché spesso è lui stesso a salire su gru e ruspe per procedere alle demolizioni...

In quasi tutte le prime tappe, Matteo Renzi sarà affiancato da sindaci e giovani amministratori che costituiscono la spina dorsale del movimento che punta su di lui come candidato premier del centrosinistra alle elezioni di primavera. Lo staff del primo cittadino di Firenze è già al lavoro da tempo. E molto leva sulle donne. Simona Bonafè, assessore a Scandicci, si occuperà delle tappe del camper sul quale Renzi girerà l’Italia; l’agenda sarà tenuta da Sara Biagiotti, consigliera provinciale a Sesto Fiorentino, mentre Maria Elena Boschi - giovane avvocatessa - terrà i contatti con i diversi comitati.

Su tutti «regna» e regnerà fino alla fine Roberto Reggi, ex sindaco di Piacenza «quadro» molto solido, come si sarebbe detto un tempo responsabile dell’intera organizzazione della campagna. Di comunicazione e dintorni, invece, si occuperà Giorgio Gori: un nome e un’esperienza che sono assai più di una garanzia...

Sono tutti già al lavoro, sono tutti molto entusiasti e sono tutti moderatamente preoccupati dalla quantità di polemiche, risposte stizzite e accuse di ogni genere che accompagnano quotidianamente Renzi in questo avvio di avventura. «Qualche amico dovremmo conservarlo...», viene sussurrato ogni tanto al sindaco. Che però non è d’accordo, se per amico si intende qualcuno dei «capi» o dei «lungopresenti» in Parlamento da tre o più legislature. La sfida ingaggiata dal giovane sindaco, del resto, è abbastanza senza ritorno. E soprattutto, se il momento è ADESSO, la partita va giocata fino in fondo: costi quel che costi e rischiando tutto quel che c’è ancora da rischiare...

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10513


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Trasparenza nuova sfida dei partiti
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 09:38:08 am
Editoriali

30/09/2012

Trasparenza nuova sfida dei partiti

FEDERICO GEREMICCA

Fa certamente sensazione, soprattutto se rapportata alla grandinata di scandali in arrivo da molte Regioni italiane, la nettezza con la quale la quasi totalità dei partiti ha rivendicato - dopo l’annunciata disponibilità di Mario Monti ad un nuovo mandato - il diritto della politica a tornare alla guida del Paese. 

Si tratta, infatti, di una rivendicazione che - pur essendo del tutto legittima - fa tuttora a pugni con la condizione in cui versa il sistema politico italiano, con la confusione che regna in materia di leadership e alleanze, e la persistente vaghezza (quando non peggio) sul piano dei programmi e delle cose da fare.

Ciò nonostante, non è affatto da escludere che - dopo il voto della prossima primavera - sia appunto un governo sostenuto da una maggioranza politica a prendere in mano il destino del Paese. 

Del resto, stando ai più recenti sondaggi, è quel che chiede una parte non più minoritaria dell’elettorato.

Che invoca, però - e questo è il punto - un rinnovamento profondo di uomini e modi d’agire, la riduzione dei costi e dell’invadenza della politica e il proseguimento nell’opera di risanamento economico del Paese, pena il ritrovarsi di nuovo sull’orlo del baratro sfiorato giusto un anno fa.

Fino a oggi i partiti (tra di loro ed al loro stesso interno) hanno litigato soprattutto sulla cosiddetta Agenda Monti, diventata simbolicamente quasi lo spartiacque tra chi vuole continuare su una linea di rigore e chi, al contrario, immagina sia possibile un ritorno al tempo delle vacche grasse: abolendo - per esempio a partire dall’Imu - alcune delle misure e delle riforme varate dal governo, soprattutto in materia di riduzione del debito.

La discussione - difficile e delicata allo stesso tempo - naturalmente continuerà: ma le previsioni di un lento miglioramento della situazione economica, accompagnate dal contemporaneo esplodere di scandali odiosi e grotteschi, impongono - se non un cambio di obiettivi - certamente l’urgenza di definire con chiarezza i rimedi da mettere in campo contro l’ormai insopportabile andazzo di ruberie, cialtronerie e malaffare. Per esser chiari: all’emergenza economica se ne è aggiunta un’altra che - di fronte al dilagare dello sperpero di danaro pubblico da parte delle forze politiche - si può ormai tranquillamente definire «emergenza democratica».

Il che fare per arginarla sarà uno dei terreni sui quali verranno giudicati i partiti che vogliono riprendere le redini del governo del Paese. E sarebbe dunque ora che, dopo le inadempienze e i ritardi di questi mesi, le forze politiche facessero conoscere con precisione e nel dettaglio le misure che intendono assumere per arrestare l’onda melmosa della corruzione e del malaffare politico. Quel che occorre è che i partiti o le coalizioni che si candidano alla guida del Paese redigano un vero e proprio «manifesto» della trasparenza e della lotta agli sprechi e alla delinquenza politica: con il dettaglio delle spese da tagliare, degli apparati da ridurre, degli enti da abolire o da snellire, nella loro composizione e nei loro costi.

Di fronte a feste in maschera costose e di pessimo gusto, a vacanze pagate da consulenti amici, a spese ingiustificate e a continue ruberie di danaro pubblico, la richiesta della politica di fare un passo avanti non solo non è credibile, ma rischia di diventare non condivisibile in assenza di un nettissimo segnale di cambio rotta: l’«emergenza democratica» determinata dalla decomposizione del sistema dei partiti, insomma, va arrestata prima che sia troppo tardi.

L’antipolitica ha oggi il linguaggio inaccettabile di Beppe Grillo: ma nulla può rassicurare circa il fatto che il peggio sia questo e che il fondo sia stato toccato. E’ per questo motivo - per una forma che potremmo perfino definire di legittima difesa - che occorre una reazione chiara e immediata da parte delle forze politiche. Si mettano nero su bianco, in un «manifesto della buona politica», le cose che si intendono fare: quando, come e con chi. E si chieda su questo il giudizio e il voto degli italiani. In caso contrario, la richiesta di tornare alla guida dell’Italia rischia di essere poco credibile. Di più: rischia di esser considerata inaccettabile e perfino pericolosa. Con buona pace di ogni rivendicazione della regola democratica che vuole che il Paese sia governato da chi vince le elezioni...

da - http://www.lastampa.it/2012/09/30/cultura/opinioni/editoriali/trasparenza-nuova-sfida-dei-partiti-BvIh2X2AGF84UNEsbVrJoL/index.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Onore al segretario rischia la trappola
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2012, 03:28:03 pm
Editoriali

07/10/2012

Onore al segretario rischia la trappola

Federico Geremicca

Onore e complimenti a Pier Luigi Bersani, per il coraggio, la coerenza e la già nota generosità. Ma anche tanti auguri e in bocca al lupo a Pier Luigi Bersani, per aver deciso di rendere possibile una sfida, quella delle primarie, che ora rischia di trasformarsi in una trappola micidiale per lui ed il suo gruppo dirigente. E’ lui, infatti, l’uomo che nella competizione con Renzi e Vendola ha tutto da perdere e poco o niente da guadagnare; ed è lui, soprattutto, che - sceso in gara per conquistare lo scettro di candidato-premier - potrebbe uscirne senza più nemmeno i gradi di segretario.

Ma questi sono, diciamo così, i possibili effetti collaterali - non irrilevanti, certo - di un approdo che getta invece le premesse per una possibile iniezione di vitalità alla fiaccata democrazia italiana: milioni di italiani andranno ai gazebo per scegliere il candidato premier del centrosinistra nel pieno di un crepuscolo etico e politico che - contemporaneamente - spinge milioni di altri ad annunciare che non andranno alle urne neppure per le elezioni vere.

 

Ogni iniziativa che tenti di riavvicinare alla politica cittadini nauseati da quel che leggono o vedono tutti i giorni in tv è - naturalmente - salutare e benvenuta. E questo vale, a maggior ragione, nel caso di primarie come quelle messe in cantiere dal Pd, che non saranno un giro di valzer ma un passaggio duro e aspro: capace, a seconda dell’esito, perfino di precipitare in una vera e propria scomposizione e rifondazione del campo riformista (ed è una svolta che molti elettori di centrosinistra auspicano da tempo). Dunque, proprio il carattere che potrebbero assumere queste primarie - con i rischi che nascondono - rende ancor più apprezzabile la rotta tenuta fin qui da Pier Luigi Bersani.

 

Ha accettato una sfida che, secondo lo Statuto del Pd, avrebbe incontestabilmente potuto rifiutare; da un certo punto in poi, è parso volere le primarie addirittura contro il parere degli stessi big che lo sostengono (da Bindi a D’Alema, passando per Veltroni e Marini); le regole che ha fissato - in parte ancora da definire - sono state accettate da Renzi, il che vuol dire che del suo potere di segretario ha approfittato poco o niente. Non è dunque sbagliato affermare che se le primarie si terranno, ciò accadrà - in larga parte - per merito del leader del Pd. Detto tutto questo, però, è da qui che cominciano i guai.

 

Pier Luigi Bersani, infatti, queste primarie può perderle per davvero: è una sensazione ormai largamente diffusa anche tra i suoi sostenitori. Se fossimo di fronte all’avvio di una regata, potremmo dire che Matteo Renzi è entrato nel campo di gara con le vele tese dal vento della voglia di ricambio (che non è liquidabile come antipolitica tout court) mentre il segretario è costretto ad un’andatura di bolina: avendo quel vento, insomma, che gli soffia contro. Renzi va illustrando, in giro per l’Italia, un programma assai semplice: in fondo, per ora si limita a dire «cari amici, eccolo il programma, sono io, mandiamo a casa chi ci ha portato fin qua». Bersani non può farlo, ed è un handicap non da poco: preannuncia una gara tutta in salita.

 

Sarà insomma una sfida dura per il leader del Pd, e questo rende ancor più significativo il fatto che l’abbia voluta lo stesso. Certo, ora i rapporti con i big della sua maggioranza (leader che giocano una partita per la sopravvivenza) non sono dei migliori. E infatti, col tono di chi vuol mostrarsi preoccupato, da qualche giorno vanno proponendo interrogativi micidiali: che succede se al primo turno delle primarie Renzi batte Bersani? Può restare segretario del partito un leader sconfitto dal voto dei suoi stessi iscritti ed elettori? «Sarebbe un problema», si rispondono da soli. In verità sarebbe un gigantesco problema: e Pier Luigi Bersani naturalmente lo sa.

 

Dicono che abbia voluto la sfida con Renzi per non trasformarsi nel simbolo del vecchio da «rottamare», per evitare che - di fronte a primarie negate - il sindaco di Firenze scendesse in campo con liste proprie, e per non restare prigioniero dei capicorrente della sua stessa maggioranza. Chissà se, in fondo, Bersani stesso non condivida il giudizio espresso ieri su di lui da Carlo De Benedetti: «E’ una persona equilibrata e saggia, ma deve scrollarsi di dosso una nomenklatura che lo ha condizionato e che è stata assolutamente negativa per il Paese». Riuscirà a farlo, lanciando segnali già nel corso della campagna per le primarie? Lo si vedrà. Da ieri, però, Bersani sa che se non ci proverà lui, potrebbe farlo qualcun altro: Matteo Renzi adesso è lì, pronto a sfruttare qualunque errore e qualunque timidezza. Uno stimolo non da poco a trasformare una semplice «resa dei conti» in una salutare (e indispensabile) rivoluzione...

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/editoriali/onore-al-segretario-rischia-la-trappola-2lgsOfB2oebN0Wu7ewNutN/index.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: “Le regole? Un delirio ma Walter li ha inguaiati"
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 04:18:18 pm
retroscena
16/10/2012

Renzi: “Le regole? Un delirio ma Walter li ha inguaiati”

Lo sfidante di Bersani contro i meccanismi delle primarie: non siamo a quel tavolo e nemmeno ci informano

Federico Geremicca
Roma

Noi andiamo avanti: senza arroganza, con serenità e sempre col sorriso sulle labbra. Detto questo, ora davvero non vorrei essere nei panni di Pier Luigi...». Sono le quattro del pomeriggio, e Matteo Renzi fa il punto con gli uomini e le donne del suo staff prima di rimettersi in movimento. 

 

«Incassiamo il bel gesto di Veltroni: dimostra che il problema che poniamo non è un’invenzione, ma esiste. So che era preoccupato che io, dopo il suo annuncio, continuassi ad attaccarlo. Perché avrei dovuto? Ho detto “onore a Veltroni”, e questo penso. Si è sfilato nei tempi giusti... ora nei guai ci sono gli altri».

 

E dunque: fosse un altro momento, Matteo Renzi potrebbe fermarsi e osservare i risultati che va incassando e lo scompiglio che comincia a serpeggiare nel campo avverso. Ma non è un altro momento, e di rallentare non se ne parla affatto. Nella riunione di staff si fa un punto sulle ultimissime novità: Bersani a Bettola, il passo indietro di Veltroni, la linea attendista scelta da D’Alema e Rosy Bindi che chiedono a Bersani di sapere se li ritiene ancora utili oppure no: «E la situazione - spiega Renzi ai suoi - è messa in modo tale che qualunque cosa Pier Luigi sceglierà, sarà per lui un problema».

 

Il ragionamento del sindaco-“rottamatore” non è poi così diverso da quello che si sente fare perfino negli stessi piani alti di largo del Nazareno, sede del Pd. «Se Bersani abbandonasse D’Alema e Bindi, credo pagherebbe un prezzo alto anche alle primarie - dice nella riunione di staff -. Se invece li difendesse, annunciando che li ricandiderà, farebbe arrabbiare un sacco di militanti e darebbe nuova forze alla nostra campagna». E in una posizione non molto diversa, secondo il sindaco di Firenze, si troverebbe anche Massimo D’Alema. Dice Renzi: «Che farà, dopo l’annuncio di Veltroni? Potrebbe insistere per ricandidarsi: sarebbe un suo diritto, ma io continuerei a ripetere che se vinco le primarie finisce la sua carriera, non il centrosinistra. Oppure potrebbe dire che rinuncia: ma arriverebbe secondo dopo Veltroni, che è stato bravissimo, si è smarcato da lui e lo ha anticipato. E immagino che, considerati rapporti tra i due, D’Alema non possa essere affatto contento...».

 

Una parte della riunione con lo staff fila via così, con un’analisi della situazione che si va delineando; il resto della discussione, invece, è più strettamente organizzativa: si parla di primarie e della campagna in corso. Renzi non nasconde ai suoi qualche preoccupazione, ed una profonda arrabbiatura. 

«L’idea della pompa di benzina era bellissima, ma andava forse declinata in altro modo - spiega ai suoi -. Ho visto, però, che c’era poca gente - meno di quanta è venuta ad ascoltare me a Salerno - nonostante qualche pullman di ragazzi fatti arrivare da fuori Bettola. Pier Luigi, comunque, ha con sé molti esperti in comunicazione: qualche sorpresa ce la farà...».

 

E’ una preoccupazione contenuta: a differenza dell’arrabbiatura che va montando verso regole (quelle delle primarie) diverse e restrittive rispetto a quel che gli era stato promesso. «Ne ho parlato anche con Nichi Vendola - rivela il sindaco-“rottamatore” - che mi dice di una forte insistenza di Pier Luigi per un voto a doppio turno complicato, scoraggiante, fatto di elenchi, registrazioni e voto in tempi diversi. Un delirio. Noi a quel tavolo non ci siamo, e abbiamo anche poche informazioni: quando cerco Migliavacca al telefono, non mi risponde...».

 

Le regole. E dopo le regole, le pressioni. Secondo Renzi, si starebbe perdendo il senso della misura: «Sapete quel che è successo alla vigilia della tappa di Salerno: il sindaco De Luca, che sta con Bersani, ha chiesto che nessuno della giunta si facesse vedere da me. Ha perfino richiamato Alfonso Bonaiuto, il suo assessore al Bilancio che era stato a Firenze alla nostra iniziativa dedicata agli amministratori...». Ma perfino per recriminare il tempo è poco. Dunque, fine della riunione e di corsa a Scandicci, dove sta arrivando Napolitano: forse uno dei pochi Grandi Vecchi che Matteo Renzi non vuol “rottamare”...

da - http://lastampa.it/2012/10/16/italia/cronache/renzi-le-regole-un-delirio-ma-walter-li-ha-inguaiati-LxRfd24xZiF0zVKbQD98nJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Sicilia, l’ora della verità per Grillo
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 05:32:37 pm
Editoriali
27/10/2012

Sicilia, l’ora della verità per Grillo

Federico Geremicca

Da una parte l’incalzare della magistratura, dall’altra i loro stessi (e ripetuti) errori: e così, alla vigilia dell’atteso voto siciliano, quella che si chiude è un’altra settimana drammatica per il sistema dei partiti nel suo complesso. La condanna di Berlusconi, la richiesta di venti mesi di carcere per Nichi Vendola e l’indagine sulla segretaria di Bersani, accusata di truffa, sono solo gli episodi più eclatanti di questo scampolo di fine ottobre che quasi tratteggia - con gli arresti nell’inchiesta Finmeccanica e le condanne dei membri della Commissione nazionale grandi rischi - il profilo di un Paese alla deriva. Se a tutto questo si aggiunge il no della Camera al decreto che riduce stipendi e numero dei consiglieri regionali (dopo gli scandali nel Lazio e in Lombardia) il quadro è tristemente completo. 

 

E’ in un clima così che i partiti attendono il verdetto delle urne siciliane. Nelle stanze degli stati maggiori si analizzano da giorni sondaggi riservati, si affastellano ipotesi di risultati, si cerca - insomma - il bandolo della matassa ma non lo si trova, essendo alla prova - nell’isola - alleanze inedite e spesso assai diverse da quelle che potrebbero competere nel voto politico di primavera. Su una cosa, però, tutti gli osservatori si dicono d’accordo: è il voto al Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo che va monitorato con attenzione, in quanto anticipatore di un possibile terremoto politico nazionale.

 

Chi ha seguito la campagna elettorale siciliana ed il lungo (e sempre affollato) tour del comico genovese, non ha praticamente dubbi: Grillo mieterà un buon successo. E l’interrogativo è solo uno: e cioè quanto sarà buono. Gli esperti dei diversi partiti attendono di conoscerne l’entità per poi provare a valutare, empiricamente, quale potrebbe essere il risultato che le liste di Grillo potrebbero ottenere nazionalmente. Il sistema di calcolo è semplice, e si fonda sulle abitudini elettorali dell’isola e sulla presenza di un gran numero di liste e candidati: alla percentuale che il Movimento Cinque stelle raggiungerà in Sicilia, basterebbe sommare un cinque per cento per ottenere - con buona approssimazione - la percentuale sulla quale potrebbe assestarsi Grillo nelle elezioni politiche generali. Per intenderci: se in Sicilia si collocasse tra il 10 e il 15 per cento, nel voto nazionale potrebbe attestarsi tra il 15 e il 20; se invece superasse il 15%...

 

Ecco, se superasse il 15 per cento, ci si dovrebbe davvero preparare al terremoto politico di cui si parla da mesi e che ogni rilevazione conferma: una grande avanzata di Grillo (un sondaggio Swg lo indica già come il secondo partito in tutte le regioni del Nord), un alto livello di astensioni e - di conseguenza - un indebolimento netto di tutti i partiti tradizionali. E’ una previsione che ha margini di approssimazione (non sono infatti ancora note le alleanze con le quali i partiti si presenteranno al voto, e nemmeno la legge con la quale si andrà alle urne) ma non dovrebbe discostarsi molto da quel che realmente accadrà.

 

I processi, gli scandali e le nuove inchieste della magistratura potrebbero, naturalmente, appesantire ancor di più il quadro. Senza contare l’effetto che sono destinate ad avere - nel bene e nel male - le già avviate primarie del centrosinistra e quelle programmate dal centrodestra. Le due consultazioni, infatti, potrebbero rafforzare Pd e Pdl (e dunque le coalizioni imperniate su questi due partiti) in caso di vittoria dei leader in campo, cioè Bersani e Alfano; ma potrebbero anche, al contrario, far implodere l’intero sistema se a vincere fossero Matteo Renzi o - a destra - un candidato diverso da Alfano.

 

Nubi scurissime, insomma, continuano ad addensarsi sul sistema politico: e la capacità (la possibilità) di reazione dei partiti pare ancora assai al di sotto di quanto sarebbe necessario. E’ per questo che tra voto siciliano, crisi che incalza, esito delle primarie, boom di Grillo e strali della magistratura, in primavera potrebbe accadere l’impensabile: e cioè che il panorama delle forze in campo per le elezioni politiche sia assai diverso da quello attuale, e perfino da quello immaginabile. C’è chi teme questa eventualità. Ma col crescere del degrado etico e politico c’è chi invece la auspica: tanto, si sostiene, peggio di così non potrà andare...

da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/editoriali/sicilia-e-l-ora-della-verita-per-grillo-SMkSkzTRLAj6ZKUnbmwCHJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’immagine di un sistema al collasso
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2012, 05:39:45 pm
Editoriali
30/10/2012

L’immagine di un sistema al collasso

Federico Geremicca

E adesso converrebbe che nessuno ricominciasse a parlare di «laboratorio siciliano». Oppure ritirasse fuori la metafora - solita e consolatoria - del «campanello d’allarme»: il verdetto emesso ieri dalle urne in Sicilia, infatti, è già oltre quel che si sarebbe potuto definire «l’ultimo allarme». 

 

L’ultimo allarme, per chi ha memoria, era suonato - invano - un anno e mezzo fa, prima col sorprendente esito di elezioni importanti come quelle di Napoli o Milano, e poi con l’avvento di Monti e dei suoi tecnici. E dunque, piuttosto che a un ultimo allarme, il voto siciliano di ieri somiglia assai più alla prima vera fotografia di un Paese dal sistema politico definitivamente collassato.

 

Basta mettere in fila quel che è uscito dalle urne: non c’è un dato, dicasi uno, definibile - tradizionalmente - normale. Vediamo. Intanto l’astensione: il muro del cinquanta per cento è stato alla fine infranto, e sono più i cittadini rimasti a casa che quelli andati alle urne. Poi lo stato di salute dei partiti: non ce ne è uno, tra quelli più o meno «storici», che arrivi al 15%, tratteggiando una situazione di grande debolezza e assoluta frammentazione. Ancora, il boom di Grillo: alcuni lo attendevano, altri lo temevano, ma nessuno avrebbe mai immaginato che l’M5S diventasse il primo partito certamente a Palermo e probabilmente nell’intera Sicilia.

 

Gli effetti di quel che ora appare come un inevitabile maremoto, sono naturalmente multipli. Per restare alla Sicilia, va annotato come il successo del neo-presidente Rosario Crocetta (sostenuto da Pd e Udc) sia stato così flebile e di dimensioni tanto contenute da non assicurargli neppure (stando agli ultimissimi dati) la maggioranza nella nuova Assemblea regionale. Se ci si sposta a Roma - e si mette da un canto il commovente ottimismo di Angelino Alfano, che ha definito «straordinariamente positivo» il risultato ottenuto dal Pdl - si avverte invece una preoccupazione, a volte addirittura un panico, ormai sempre più palpabile.

 

L’interrogativo al quale dovrebbero infatti rispondere i partiti dopo il voto siciliano, resta identico a quello che i fatti proposero un anno e mezzo fa: come arginare l’ondata dell’antipolitica (in tutte le sue forme) e recuperare credibilità e fiducia dagli occhi dei cittadini? All’epoca le risposte sembravano pronte: l’impegno era a ridurre drasticamente i costi della politica e a varare riforme costituzionali ed elettorali che - mentre Monti fronteggiava la crisi - rendessero il Paese più moderno ed efficiente. Sul primo fronte le risposte sono state tardive, insufficienti e spesso contraddittorie; sul secondo, nulla si è fatto: ma sarà proprio forse a questo nulla che ora ci si potrebbe aggrappare per tentare di salvare il salvabile e tenere in vita un sistema fiaccato e screditato.

 

La grande paura è legata, naturalmente, a quel che potrebbe accadere nelle elezioni politiche di primavera: partiti ancora in calo, astensione alle stelle, Grillo che continua a moltiplicare i suoi consensi... Con i pochi mesi a disposizione, non sono ormai più pensabili risposte politiche complessive e capaci di iniettare un po’ di fiducia nei cittadini. Si può però tentare, attraverso lo strumento della legge elettorale, di arginare fenomeni in altro modo non contrastabili. E a proposito di legge elettorale, il messaggio che arriva dal risultato siciliano pare quanto mai chiaro: con una legge elettorale che fosse decisamente proporzionale, l’ingovernabilità sarebbe assicurata...

 

E’ per questo - oltre che per il poco tempo ormai a disposizione - che è difficilmente immaginabile che il cosiddetto Porcellum finisca in cantina (come pure è stato assicurato per mesi). Si potrà forse procedere a qualche modifica marginale (una preferenza qui e lì, un ritocco alle soglie di sbarramento...) per però poi blindare l’impianto della legge e difendere sistema e partiti così come sono. Si dirà: ma il Porcellum non era da cambiare? Fa niente. E non si rischia di nuovo un Senato ingovernabile? Pazienza. Si fa un altro giro sulla stessa giostra, e poi si vedrà: magari annunciando in campagna elettorale che la prossima sarà una «legislatura costituente»... Non sembra una gran ricetta, è vero. Ma di migliori in campo davvero non ce n’è.

da - http://lastampa.it/2012/10/30/cultura/opinioni/editoriali/l-immagine-di-un-sistema-al-collasso-xSMs03mSH9RNBNRMoV1qIO/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il Pd e i “panni sporchi lavati in casa”
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2012, 04:03:30 pm
Politica
12/11/2012 - analisi

Primarie Pd, duello in tv: più dello share pesa il rischio dei troppi rancori

Il Pd e i “panni sporchi lavati in casa”

I timori di un eccesso di toni accesi

Federico Geremicca
ROMA

Il pericolo numero uno? Non è quello di un confronto a cinque che, alla fine, si riveli noioso (non che il rischio non ci sia: ma con la politica in tv ci siamo abituati...). Il pericolo numero uno, forse, è quello in cui si incappa - di solito - quando si decide di lavare i panni sporchi in piazza invece che in famiglia: rivelando una tale quantità di rancori, diffidenze e differenze da spaventare i vicini (in questo caso gli elettori di centrosinistra) che di tutto quel bailamme poco o nulla sospettavano. E il pericolo numero due? Il pericolo numero due è quello che in gergo tecnico viene di solito definito «flop»: un pericolo concreto, considerate le regole fissate per il confronto tra gli aspiranti candidati-premier del centrosinistra, il numero stesso dei partecipanti e perfino la tv scelta (Sky) per l’inedita sfida. Ma è considerato davvero un pericolo un basso livello di ascolti? O meglio: è considerato davvero un pericolo da tutti?

 

La domanda non è retorica (e naturalmente non può esser ritenuta offensiva) considerato che non c’è sondaggio che non faccia dipendere l’esito delle primarie del 25 novembre dalla quantità di elettori che si recheranno alle urne: un’alta affluenza favorirebbe Renzi, una partecipazione più contenuta significherebbe vittoria per Bersani. 

 

Tutto questo è noto da settimane, e non è dunque scandaloso immaginare che lo staff del segretario abbia tenuto conto di questi sondaggi, regolandosi di conseguenza anche a proposito della sfida tv: audience alta buona per Renzi, più bassa - invece - meglio per Bersani.

 

Da questo punto di vista, la scelta di sfidarsi su Sky (fortemente voluta dallo staff del leader Pd) garantisce certo qualità e regolarità nel dibattito, ma anche una platea di ascoltatori - e dunque potenziali elettori - assai più ridotta rispetto ad altre possibilità ed altre offerte (da Vespa a Fazio fino a Enrico Mentana). Si può naturalmente osservare come tale scelta faccia seguito ad analoghe decisioni in materia di regole per il voto alle primarie (a doppio turno per la prima volta e assai più complesse rispetto al passato). Ma resta la circostanza, comunque, che se primarie, sfide tv e tutto il resto sono in campo, lo si deve anche alla «generosità politica» di Bersani: e che se è riuscito - senza molti sforzi, pare - a convincere i suoi contendenti a sfidarlo su Sky, vuol dire che va bene così e la questione si può chiudere qui. Quindi, domattina, a dati di ascolto noti, avrà poco senso parlare di «flop» e di share basso, perchè la circostanza era nel conto e non potrà esser dunque presa a testimonianza, per esempio, di un cattivo stato di salute del centrosinistra (che magari esiste, ma si manifesta in altri modi...) oppure del fatto che le primarie hanno stufato prima ancora di andare in scena. Avrà più senso, invece, riflettere su quel che emergerà dal confronto: e soprattutto su quanti danni avrà provocato - se li avrà provocati - la decisione di «lavare i panni sporchi in piazza».

 

Il pericolo maggiore è senz’altro quello che da tempo, ormai, viene definito «rischio Unione»: e cioè una tale eterogeneità di proposte e posizioni da render assai preoccupante la prospettiva che a governare siano forze politiche i cui esponenti alle primarie potranno essere considerati magari bravi a duellare ma assolutamente inadatti a governare assieme, considerate le enormi differenze che esistono tra loro. Ecco, se alla fine del dibattito il commento della maggioranza dei telespettatori dovesse essere «ma tu lo metteresti il Paese di nuovo in mano a questi qui, che non sono d’accordo su niente?» allora il rischio boomerang sarebbe enorme. 

 

Qui in Italia si guarda e si fa spesso riferimento alle primarie americane spesso però confondendo - anzi sovrapponendo - le sfide tv tra i candidati alla presidenza e le primarie che le hanno precedute. Assumere i duelli tra Romney e Obama come traccia da seguire, per esempio, può portare fuori strada ed esporre a un pericolo mortale gli stati maggiori del centrosinistra: Obama e Romney, infatti, si sono duramente sfidati proponendo agli elettori - però - politiche e governi totalmente diversi. Bersani e Renzi, Tabacci, Puppato e Vendola, invece, dovrebbero stare - o almeno sostenere - lo stesso governo. E stasera, allora, questa è una delle prime cose che farebbero bene a non dimenticare... 

da - http://lastampa.it/2012/11/12/italia/politica/piu-dello-share-pesa-il-rischio-dei-troppi-rancori-EAKaLNU7wEIl9f4dlA0UMK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il fattore inaffidabilità economica
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2012, 09:20:23 pm
Editoriali
17/11/2012

Il fattore inaffidabilità economica

Federico Geremicca

Difficile chiamarle pressioni. Ma anche difficile far finta di niente. Soprattutto se da pronunciamenti isolati e un po’ generici, la faccenda si è andata trasformando - se non in una vera e propria campagna - certo in un coro ormai assordante. E un coro nel quale a dichiarazioni sempre più esplicite vanno ormai aggiungendosi iniziative politiche che ai piani alti di Largo del Nazareno - sede del Pd - definiscono dal profilo «ambiguo e preoccupante».

C’è un mondo che non vuole che il prossimo governo, qui in Italia, sia guidato da una personalità diversa da Mario Monti. C’è un mondo, più in particolare, che non ritiene che il prossimo esecutivo possa essere presieduto da un esponente del centrosinistra: peggio ancora se ex comunista. Non è una novità perché, fino alla caduta del Muro, questa era una regola non scritta (pur se talvolta perfino scritta...).
Ma il Muro è crollato un quarto di secolo fa: e Pier Luigi Bersani - nonostante fosse rimasto colpito da alcuni segnali ricevuti fin dalla ripresa dopo la pausa estiva - davvero non immaginava che potesse esser riproposto una sorta di veto simile. 

Larga parte delle gerarchie ecclesiali; il mondo della finanza nel suo complesso; le agenzie di rating; la Bce e la Commissione europea; autorevoli capi di governo come Angela Merkel: l’elenco dei sostenitori di un Monti-bis - per dirla in sintesi - non è né breve né ininfluente. E se a questo elenco si aggiunge ora la nuova amministrazione Obama, il quadro è completo. E per Pier Luigi Bersani e il suo partito, tutt’altro che tranquillizzante.

Non è, naturalmente, che il leader del Pd queste cose abbia dovuto leggerle sui giornali. E’ il discorso che si è sentito fare almeno un paio di volte da autorevoli esponenti dell’amministrazione Obama (anche qui in Italia). Gli argomenti utilizzati non erano ovviamente ignoti a Bersani: la credibilità di Monti in Europa, il fatto che questo costituisse una garanzia per gli Usa, il rischio insito nel cambiare uomini e linee di programma di una strategia di risanamento che qualche risultato lo sta dando... Il segretario del Pd ha ascoltato le opinioni dei suoi interlocutori ma ha naturalmente tenuto il punto: l’idea di andare al voto proponendo la riedizione di un governo Monti è irricevibile, e
dell’Italia, dei suoi elettori e dei suoi partiti bisogna fidarsi. Per Bersani, il governo futuro - dunque - sarà quello che sceglieranno i cittadini.

Una come Rosy Bindi - presidente dell’Assemblea nazionale del Pd - che conosce bene Bersani per il lavoro comune svolto assieme negli ultimi tre anni, arriva addirittura ad ipotizzare che una delle ragioni per le quali il leader Pd ha deciso di accettare la sfida delle primarie avanzatagli da Matteo Renzi, sia proprio qui: nella ricerca di una legittimazione popolare ampia alla sua ambizione di guidare il futuro governo. Difficile esserne certi, ma l’indurimento dei toni verso Monti e il suo governo («non scommetterei un centesimo sul suo bis»...) e la rivendicazione del diritto della politica a tornare in campo, sembrano segnali fatti apposta per confermare l’indisponibilità Pd ad esaudire i desiderata provenienti dall’Europa e da oltreoceano.

E’ anche per questo che i democrats guardano con sospetto crescente alla nascita della «Lista per Monti» targata Montezemolo-Olivero-Riccardi-Bonanni. Perché proprio ora? Perché Monti non ne prende le distanze? Perché alcuni suoi ministri sono tra i protagonisti e addirittura tra i
co-fondatori? E quanto può aver contato il peso nel mondo di un esponente come Andrea Riccardi, «ministro degli esteri» di un pezzo importante di mondo cattolico, nel convincere Cancellerie e governi europei dell’opportunità di mantenere in sella Mario Monti?

Sono gli interrogativi che ormai da giorni accompagnano Pier Luigi Bersani nel suo tour in giro per l’Italia a caccia di voti per le primarie. Un tour che nasconde, a questo punto, un doppio pericolo: quello di rischiare l’osso del collo contro Renzi e quello di ottenere la classica vittoria di Pirro. Vincere le primarie, cioè, poi vincere le elezioni ma non poter diventare capo del governo. E stavolta non per «generosità politica» ma per una sorta di veto che ancora pochi mesi fa non avrebbe certo immaginato. Un tempo si diceva «inaffidabilità democratica», ora qualcuno la chiama «inaffidabilità economica»...

da - http://lastampa.it/2012/11/17/cultura/opinioni/editoriali/il-fattore-inaffidabilita-economica-32pmnmcrU54En9JR1Ae7BP/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il doppio segnale del Colle
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 09:37:54 pm
Editoriali
23/11/2012

Il doppio segnale del Colle

Federico Geremicca


Con uno sforzo estremo di semplificazione, le parole pronunciate ieri a Parigi da Giorgio Napolitano sulla incandidabilità di Mario Monti e sull’eccentricità di una «Lista per Monti» alle elezioni («Non so che senso avrebbe») potrebbero esser tradotte così: partiti, basta tirare la giacca a Monti. Ma anche: Monti, basta farti tirare la giacca dai partiti. 

 

E per quanto il commento alle parole di un Presidente della Repubblica vada sempre prudentemente ponderato, è evidente che una novità sembra esserci: per la prima volta, forse, un intervento del Capo dello Stato lascia infatti trasparire in controluce una qualche insofferenza anche verso certi tentennamenti del premier. 

 

Fino ad oggi, il Presidente della Repubblica si era limitato a segnalare - in colloqui privati con Monti - i molti rischi che vedeva legati ad una eventuale perdita di neutralità e «terzietà» da parte del premier: i partiti, già in sofferenza, avrebbero infatti certamente mal reagito di fronte anche al solo sospetto che il presidente del Consiglio tecnico si stesse trasformando - con l’avvicinarsi delle elezioni - in presidente «di parte». Questo, secondo il Capo dello Stato, avrebbe potuto pregiudicare non soltanto la tenuta e l’operatività del governo in un momento ancora assai complicato, ma perfino la possibilità che l’esperienza-Monti potesse aver un seguito - dopo il voto - in caso di necessità (necessità economica, certamente, ma anche politica).

 

A fronte di questi consigli, dal Quirinale hanno potuto osservare - diciamo da settembre in poi - una crescita esponenziale della confusione e dei rischi segnalati: ministri, viceministri e sottosegretari «testimonial» di questa o quella iniziativa politica, esponenti di punta dell’esecutivo presenti al battesimo di nuove compagini o movimenti e addirittura l’annuncio dell’intenzione di presentare alle elezioni di primavera una «Lista per Monti». E di fronte a questa pericolosa effervescenza - che non ha mancato, come il Quirinale temeva, di moltiplicare timori e sospetti - il silenzio di SuperMario, nella migliore delle ipotesi, e nella peggiore, dei poco comprensibili avanti e indietro, chiarimenti, smentite e contro-chiarimenti che hanno reso ancor più nervosi i partiti che si preparano a difficilissime elezioni.

 

Il richiamo di ieri nasce da qui: arriva, cioè, da lontano. Un richiamo ai partiti, certo, che dimenticano la circostanza che Mario Monti - nominato senatore a vita da Napolitano proprio per garantirne la «terzietà» - non è candidabile alle elezioni. Ma come non leggere, nelle parole di Napolitano, un nuovo invito al premier a ponderare bene le sue prossime mosse? «Quale sarà il peso di questo ipotetico gruppo (la lista per Monti, ndr) in Parlamento»? E non è noto che l’incarico di formare il futuro governo verrà dato dal Presidente della Repubblica «sulla base dei risultati elettorali»? Insomma: cosa ha da guadagnarci, Monti, a sponsorizzare una lista o un movimento che ottenesse alle elezioni politiche poco più o poco meno di Beppe Grillo, e comunque certamente non la maggioranza (nemmeno relativa...) dei voti che verranno espressi?

 

C’è forse - infine - un ultimo elemento che potrebbe aver pesato nel doppio monito parigino del presidente: ed è cioè il fatto che Giorgio Napolitano si consideri, in qualche modo, il garante dell’equidistanza e del profilo tecnico di Monti e del suo governo. E’ per questo che lo ha voluto senatore a vita; è per questo che, quando decise per l’incarico a SuperMario piuttosto che le elezioni, patì qualche incomprensione da parte del suo partito d’origine (il Pd, dato vincente al voto già allora); ed è per questa scelta che si è ritrovato oggetto di pesanti attacchi da molte delle forze contrarie al governo-tecnico. Sarebbe paradossale, ora, che a smentirlo nella giustezza della scelta compiuta fosse proprio Mario Monti: magari scendendo in campo come padre nobile di un nuovo partito, dopo aver contribuito a rottamare quelli vecchi...

da - http://lastampa.it/2012/11/23/cultura/opinioni/editoriali/il-doppio-segnale-del-colle-bNpfyMiIvx7bAQTTeKBJWI/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La migliore risposta all’antipolitica
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 12:10:26 pm
Editoriali
26/11/2012

La migliore risposta all’antipolitica

Federico Geremicca


Oltre tre milioni e mezzo di cittadini pazientemente in fila per votare, decine di migliaia di volontari ai seggi, altre migliaia nei comitati elettorali dei diversi candidati, spalmati da Nord a Sud lungo tutto il Paese. Le primarie del centrosinistra sono state prima di tutto questo una boccata d’ossigeno e quasi un’assicurazione sulla vita per il sistema-Italia nel suo complesso. Non è retorico annotarlo: soprattutto all’indomani del voto siciliano, che ha infranto e superato la barriera del 50 per cento di astensioni. C’è un pezzo di Paese - insomma - che partecipa, vota, resiste e crede ancora che abbia un senso impegnarsi per cambiare.

 
Il dato è sensazionale, gonfio di significati e però - paradossalmente - non è certo piaciuto a tutti. Fa sensazione, ad esempio, la durezza che traspare dalle dichiarazioni di Beppe Grillo, leader del M5S. Ai milioni di cittadini in fila, ha riservato giudizi e commenti stizziti:
«L’ennesimo giorno dei morti», «un grottesco viaggio nella follia», «una autocelebrazione di comparse» e via recriminando.
A testimonianza, forse, che davvero la partecipazione attiva dei cittadini - e la buona politica, diciamo così - continuano ad essere il miglior antidoto alla cosiddetta antipolitica.

 
Nel cuore della notte e a dati tutt’altro che definitivi, le cifre dicono che la partita tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi va al secondo tempo, al ballottaggio. Il segretario - che stravince soprattutto al Sud - è davanti con un distacco tra i cinque e gli otto punti, lontano dal 51% ma comunque saldamente in testa. Il dato più sorprendente, però, è il risultato ottenuto da Matteo Renzi, che miete consensi nelle «zone rosse» - Toscana e Umbria in testa - e nelle città medie. A quasi metà spoglio è attorno al 35%, e si può dire - in una battuta - che Bersani ha voluto le primarie, ma Renzi ha dato loro un senso e un’anima. 

 
Il sindaco di Firenze, infatti, aveva contro gli stati maggiori di tutti i partiti del centrosinistra, eppure è riuscito a costringere Bersani al ballottaggio: non è poco. Soprattutto - con i suoi slogan aspri - ha reso chiari i termini della scelta che propone. Rottamazione contro usato sicuro, è stato detto. Tradotto in opzioni politiche: cambiamento radicale contro mantenimento dello status quo. Una sfida elettrizzante, quella di Renzi, ma generatrice - contemporaneamente - di molti timori. Il nuovo, infatti, spesso spaventa: e spaventa ancor di più in fasi come quella attuale, quando la crisi che scuote il Paese non invita certo a «salti nel buio».


Pier Luigi Bersani, che ha voluto le primarie contro il parere spesso esplicito (da Veltroni a Bindi a D’Alema) di molti leader della sua maggioranza, ora dovrà serrare ulteriormente le file infatti, anche se il suo vantaggio è notevole, è difficile immaginare che tutti i voti raccolti dagli altri tre contendenti (Vendola, Puppato e Tabacci) confluiranno automaticamente sul suo nome al secondo turno. E’ anche per questo che l’esito finale della sfida resta aperto. Molto dipenderà da se e chi decideranno di votare gli elettori di Vendola. E molto sarà determinato dalle dinamiche politiche (e perfino psicologiche) che il ballottaggio innescherà, dentro e fuori il centrosinistra.

 
Il cambiamento - la «piccola rivoluzione» - a molti sembrerà a portata di mano: alcuni ne saranno esaltati, altri - forse - spaventati.
E così, l’interrogativo - alla fine - resta lo stesso: se è meglio scommettere sulla rottamazione o andare più tranquilli tornando a scegliere l’usato sicuro...

da - http://www.lastampa.it/2012/11/26/cultura/opinioni/editoriali/la-migliore-risposta-all-antipolitica-HOZrum9KHJ5Kv1qXKZladL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il partito adesso non potrà più ignorare Renzi
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2012, 06:44:44 pm
Politica
03/12/2012 -  centrosinistra, le sfide del pd

Il partito adesso non potrà più ignorare Renzi

Come ha detto il segretario, sarà necessario “dare occasioni alle nuove generazioni”

Federico Geremicca
ROMA


Le elezioni primarie, maggioritarie per definizione, hanno una regola molto semplice: chi vince vince, chi perde è fuori.
Pier Luigi Bersani ha prevalso - e bene - nella sfida lanciatagli due mesi fa da Matteo Renzi: eppure è difficile immaginare che il sindaco-“rottamatore” sia fuori dai giochi. E questo non soltanto per la quantità di consensi ricevuti. Ma anche perché è difficile immaginare che sia proprio il segretario Pier Luigi Bersani a considerarlo fuori...

 

Quel che infatti da oggi dovrebbe essere evidente - o semplicemente: ancora più evidente - è quanto fosse sbagliato pensare (se qualcuno ai vertici del Pd l’ha pensato sul serio) che l’insoddisfazione per come vanno le cose, la rabbia per il pantano in cui è finita la politica e la voglia di cambiamenti radicali, fossero sentimenti che riguardassero altri, ma non il “popolo del centrosinistra”. Se non erano bastate le primarie-choc per la scelta dei candidati-sindaco in città come Milano, Genova, Cagliari e Napoli (finite tutte con la sorprendente sconfitta dei “candidati ufficiali”) i consensi raccolti da Matteo Renzi sono lì a confermarlo. 

 

Il quaranta per cento degli elettori andati alle urne in questa domenica di freddo e pioggia, ha infatti votato per il sindaco-rottamatore.
Il dato è politicamente rilevante. Ma lo è anche numericamente, se si considera che Renzi aveva come avversario il segretario del partito, la quasi totalità degli apparati e dei gruppi parlamentari, la larghissima maggioranza dei sindaci e dei governatori del centrosinistra e - al ballottaggio - anche gli altri tre candidati al primo turno (Vendola, Puppato e Tabacci). Aver raggiunto in queste condizioni il 40 per cento dei consensi, è un risultato non scontato e che può soddisfare Renzi. E che - visto che questa partita è ormai chiusa - può servire non poco allo stesso Pier Luigi Bersani.

 

Al segretario uscito vincitore da una sfida che nascondeva (come poi si è visto) più insidie di quante fossero prevedibili in avvio, Matteo Renzi - meglio: le esigenze di cambiamento da lui raccolte e rappresentate - offre una straordinaria occasione per far “girare la ruota” del rinnovamento, come più volte promesso dal segretario prima e dopo la sfida delle primarie. Lo stesso discorso con il quale Renzi ha commentato la sconfitta e “passato la palla” al vincitore, gliene offre tutta la possibilità. Sta al segretario, adesso, coglierla: sapendo, naturalmente, che il momento non è dei più facili e gli ostacoli che gli verranno frapposti saranno molti.

 

Non c’è dubbio che i primi arriveranno dal suo stesso partito, il Pd. E’ dentro il Partito democratico prima di tutto - come annotato dallo stesso Bersani - che la ruota deve girare. Vinte le primarie, quell’impegno non lo ha rinnegato, anzi: «Adesso - ha detto nel discorso col quale ha celebrato la vittoria - devo predisporre i percorsi e gli spazi per dare occasioni alle nuove generazioni». Non ha taciuto, inoltre, la circostanza di aver voluto le primarie nonostante lo scetticismo - quando non la esplicita contrarietà - dei maggiorenti del suo partito, e sa perfettamente che è con loro che adesso dovrà a fare i conti.

 

Potrà farlo, però, da una posizione di grande forza. «Bersani adesso è fortissimo», ha annotato dopo il voto Romano Prodi, che pure ha apprezzato e guardato con simpatia alla campagna di Matteo Renzi. Molti, addirittura, hanno parlato - ed a ragione - di una sorta di vera e propria “reinvestitura” per il segretario del Pd: non ci sono precedenti, infatti, di un leader eletto con primarie segretario e scelto - di nuovo attraverso primarie - come candidato premier del centrosinistra.

 

Infine Renzi. Chiaro, corretto e molto “moderno” il discorso con il quale ha riconosciuta la vittoria di Bersani. Ha confermato lealtà al segretario e disponibilità all’impegno. Solo un improvviso impazzimento - crediamo - potrebbe convincerlo ad accettare le “lusinghe romane”, una candidatura, una poltrona, un posto qualunque ai vertici dell’apparato. La rotta da seguire, in fondo, gliel’ha indicata proprio Romano Prodi, commentando il suo risultato: «Il futuro di Renzi è essere un’alternativa». Ha 37 anni, molto credito e qualche idea brillante. Il voto di ieri, in fondo, più che una bocciatura sembra un rinvio a settembre... Se non farà errori, il suo tempo inesorabilmente arriverà.

da - http://lastampa.it/2012/12/03/italia/politica/lo-sconfitto-adesso-nel-partito-non-potra-piu-essere-isolato-21iRqI895tdkJT3IWnPvHI/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La scelta del Pd tra Vendola e il Prof
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2012, 06:33:35 pm
Editoriali
22/12/2012

La scelta del Pd tra Vendola e il Prof

Federico Geremicca

Nel giorno in cui tutto doveva finire e per fortuna nulla finì, qui - nel cuore della cittadella politica, cioè a Montecitorio - qualcosa invece si conclude per davvero.

Si chiude la XVI legislatura, e va bene. Ma finisce anche la «carriera parlamentare» di due leader che hanno profondamente segnato la vita politica (e non solo politica) del Paese. Per «Walter» e «Massimo», infatti, questo venerdì della presunta Apocalisse è il giorno del passo d’addio al Parlamento: e Veltroni e D’Alema - diversissimi da sempre - affrontano in maniera differente anche quest’ultimo e non semplice passaggio. 

Veltroni parla in aula (piena solo per le tante presenze nei banchi del Pd) e D’Alema invece no. Il primo interviene per motivare il sì dei Democratici alla legge di stabilità, e lo fa con un discorso in puro stile veltroniano: parla del «limbo limaccioso» in cui è finita l’Italia, descrive il populismo come una sorta di «voto di scambio tra disperazione e demagogia», cita Olof Palme e invita a guardare avanti, ai giovani, al futuro; il secondo - D’Alema - ascolta, non regala battute, ma pare comunque di ottimo umore mentre chiacchiera con Fini, poi con Marianna Madia e infine si congratula con l’amico di tanti dissidi e tante battaglie.

Mentre il sipario (parlamentare) cala su due personalità che certo non usciranno dalla scena politica, Pier Luigi Bersani è a pranzo con Laurent Fabius, ministro degli esteri francese ed ex leader del Psf. Per il segretario si tratta di un passaggio non irrilevante in quella sorta di «giro delle sette chiese» che ha dovuto intraprendere presso le diplomazie europee per rassicurarle - diciamo così - circa l’affidabilità del Pd e dei suoi alleati come forza di governo. In vista del voto di febbraio, infatti, due cose hanno molto preoccupato (e naturalmente preoccupano ancora) Bersani: l’incessante pressing europeo per una discesa in campo di Mario Monti e l’attacco concentrico che viene mosso al Pd in ragione della sua alleanza con Vendola.

Per settimane il leader Pd ha dovuto difendersi dalla contestazione di esser «troppo poco montiano», e lo ha fatto a volte con toni anche duri, dicendosi stufo dei «prelievi che mi vengon fatti ogni mattina per stabilire il mio tasso di montismo». Sembrava quello il massimo della contestazione possibile. E invece, a Monti dimissionario, ecco il nuovo affondo: questo Pd sarà anche una cosa diversa dal vecchio Pci e dai suoi eredi, ma è ancora troppo poco riformista e l’alleanza col «radicale» Vendola lascia presagire una linea quanto mai massimalista.

Che sia una preoccupazione sincera oppure no, in verità importa poco. Quel che conta - e Bersani lo sa - è che l’obiezione è in campo ed è insidiosa quanto mai. Infatti, mentre per quel che riguarda il «tasso di montismo» possono parlare i fatti di questi 13 mesi (e la lealtà al governo sempre ribadita dal leader del Pd), l’accusa di radicalismo investe il futuro - cioè le prossime elezioni - e non è analogamente risolvibile richiamando dei «fatti».

Anzi. Ad avere memoria, gli unici «fatti» in campo - in verità - riguardano la deludente esperienza di governo di centro e sinistra (governo Prodi 2006-08) e non sono granché rassicuranti. E’ vero che a quell’epoca il Pd non esisteva ancora, ma si tratta di una rassicurazione che appare insufficiente. Soprattutto se si annota che Vendola attacca quotidianamente Monti, il suo governo e la sua agenda; e che anche nel Pd si alzano sempre più di frequente voci critiche circa la linea tenuta in questi 13 mesi dal Professore.

Nessuno può aver dubbi intorno al fatto che la prossima campagna elettorale sarà tutta giocata sul terreno dell’economia e delle politiche da perseguire per arginare la crisi in atto: in questo senso, allora, esser rappresentati come una forza «inaffidabile» sul piano delle ricette (riformiste) da mettere in campo, contiene in sè un pericolo mortale. E’ per questo che dal Pd e dalla coalizione in costruzione è lecito attendersi - se possibile - posizioni e proposte che fughino le perplessità in campo (genuine o strumentali che esse siano). Si lancino dei segnali, e si tratteggino prime linee di intervento che rassicurino le cancellerie, i mercati e gli elettori. E anche Vendola farebbe bene a considerare meglio tanto i rischi quanto la posta in palio. Perché il tempo stringe ed una scelta netta e chiara non pare più rinviabile. 

da - http://www.lastampa.it/2012/12/22/cultura/opinioni/editoriali/pd-alla-prova-del-riformismo-4xkpu9WaEhVynFElPR6PaM/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il patto Bersani-Renzi per conquistare i voti moderati
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2013, 05:51:21 pm
Elezioni Politiche 2013
02/02/2013

Il patto Bersani-Renzi per conquistare i voti moderati

E il segretario ammette: sì, Matteo è protagonista del grande allargamento di consensi

Federico Geremicca

inviato a Firenze


I suoi - cioè gli uomini e le donne dello staff messo in piedi per la dura e lacerante campagna delle primarie - spiegano che la frase chiave del discorso di Matteo Renzi sarebbe la seguente (pronunciata a metà dell’intervento e sepolta dagli applausi): “Non ci sono bersaniani e renziani: ci sono i democratici. I democratici, sì: che porteranno questo Paese fuori dalle secche”. L’entourage del segretario, del resto, insiste sul rilievo da attribuire alla risposta arrivata da Bersani: “Riconosco a Matteo di essere stato un protagonista del grande allargamento di consensi determinato dalle nostre primarie”. Tutto qui, verrebbe da dire?

 

Cioè, un migliaio di persone nella sala e alcune centinaia rimaste fuori sotto la pioggia, solo per una sorta di pace postuma all’insegna della nostalgia? L’evento mediatico atteso da giorni - la Grande Pace tra i due competitors - è dunque tutto in questo scambio di gentilezze e cortesie? No, naturalmente no. Le gentilezze ci sono, certo. Ma a sentirli e a vederli, lì sul palco - prima il sindaco e poi il segretario - si può apprezzare ancora meglio di quanto fosse possibile nella Guerra delle primarie, la distanza che corre tra di loro. Complementari, forse. Ma certo diversi: il presente e il futuro, azzarda qualcuno.

 

Quel che conta oggi, però, è il presente, cioè la campagna elettorale, le elezioni, la sfida a Berlusconi e Monti: ed è un presente che grava tutto sulle spalle di Bersani. Il piglio del segretario è quello ormai solito, fatto di repliche aspre e di risposte dure ad attacchi duri. Il cuore dello scontro, ormai, è la vicenda del Montepaschi. Dice a Berlusconi: “Non accetto che ci faccia la predica gente che ha abolito il falso in bilancio: che noi reintrodurremo subito”. E a Tremonti: “Quando ero al governo, dietro le mie porte c’erano le banche che urlavano: dietro quelle di Tremonti non le ho sentite urlare mai”.

 

Duro, durissimo, con chi pensa di vincere la campagna a colpi di bugie. E tagliente con Mario Monti: “Battuta veramente infelicissima, la sua... Attacca un progetto di rinnovamento che non conosce nemmeno lontanamente”. Rievoca l’allarme europeo per la situazione nella quale Berlusconi aveva precipitato l’Italia, ma tiene sulla corda la platea che applaude: “Non mi piace questa cantilena che noi avremmo già vinto le elezioni. Non lasciatevi incantare dalle sirene. La destra esiste, ed è in campo contro di di noi”.

 

Contro questa destra, Matteo Renzi può esser utile: e infatti scende nell’arena su richiesta del segretario, e proprio nei giorni in cui lo scontro si arroventa. E’ possibile che non l’avesse immaginata proprio così, questa sua prima, importante uscita fiorentina dopo le primarie, e cioè un teatro pieno di simboli e bandiere pd (rare nella sua campagna per la candidatura a premier) e lui sul palco, certo, ma secondo: o sconfitto, per dirla meglio. Ma è un impeccabile padrone di casa: “Benvenuto - esordisce - al prossimo presidente del Consiglio, Pier Luigi Bersani”.

 

Il resto, però, è “renzismo” puro: le foto che scorrono sui maxischermi (Balotelli, il 16enne iraniano che piange sulla spalla del suo boia), le battute (”Berlusconi ingaggia calciatori, ma nemmeno ingaggiando il mago Silvan riuscirebbe a far sparire i disastri che ha combinato”) e la politica, dove non ha cambiato idea: “Resto convinto che dobbiamo snidare gli elettori insoddisfatti del centrodestra”. Lo ripete quasi con le identiche parole usate durante le primarie: anche se proprio quel certo feeling con chi sta “dall’altra parte” gli è costato voti, e forse addirittura la vittoria alle primarie.

 

Bersani (durezza, certo, ma anche un grande senso dell’ironia) ride e si diverte ora che il “format renziano” non è più un pericolo per lui. Alla fine - e a discorsi conclusi - i due inforcano addirittura occhiali alla Blues Brother’s, il segretario è di ottimo umore e forse ripensa a quanto abbia avuto ragione volendo le primarie “anche contro il parere di qualcuno gli era vicino - annota Renzi -. Dicevano che ci saremmo indeboliti. Vi sembra che il Pd sia più debole, adesso?”.

 

Una tregua, se non proprio una pace (che in politica spesso si sigla sulla base di interessi: e qui gli interessi non sono proprio convergenti...). Ma comunque può servire ad un Pd circondato da sirene che lo illudono di esser già sicuro vincitore. Di questo avevano parlato nel breve faccia a faccia a Palazzo Vecchio, dove Renzi aveva invitato Bersani per presentargli i candidati “renziani” della Toscana. Battute, buon clima, tutto che va come doveva andare: perfino il trasferimento al Teatro Obihall, dove sindaco e segretario arrivano assieme su un’auto elettrica guidata da Renzi. Tutto ok, a differenza di quella volta che il sindaco attraversò la città su un mezzo simile per andare a un convegno e tamponò un’altra auto. Segno dei tempi e conferma del fatto che sbagliando s’impara... 


da - http://lastampa.it/2013/02/02/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-patto-bersani-renzi-per-conquistare-i-voti-moderati-eGlrpdBt1hYgKAxKLJAuiM/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: niente polemiche, ma non vengo ai summit di partito
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 05:31:53 pm
Elezioni Politiche 2013

27/02/2013 - colloquio

Renzi: niente polemiche, ma non vengo ai summit di partito con Rosy Bindi

Ieri il sindaco di Firenze non ha rilasciato dichiarazioni ma gli è scappata una battuta: «Oggi non è giornata»

Parla il sindaco di Firenze: “Abbiamo regalato un rigore a Beppe Grillo e sottovalutato Berlusconi”


Federico Geremicca
ROMA

I giornalisti telefonano, pressano, insistono per le interviste... Ma che cosa dovrei dire che non ho già detto? E se poi pensano che ora mi metta ad attaccare Bersani, vuol dire che non hanno capito niente: io non faccio lo sciacallo». Pomeriggio inoltrato, Palazzo Vecchio, il sole che tramonta mentre Matteo Renzi conclude una rapida riunione di staff per poi riunire la sua giunta. Come da subito dopo le primarie, infatti, è tornato e continua a fare il sindaco a tempo pieno: ma da 48 ore a questa parte è inseguito da struggenti appelli al ritorno in campo o da tweet e messaggini che evocano quel che avrebbe potuto essere e non è stato.

Scrivono: «Con Renzi avremmo vinto a mani basse»; «Se candidavamo Matteo, Grillo se lo sognava il 25%»; «Altro che smacchieremo il giaguaro: ci ha fatti neri così». Sono militanti, cittadini qualunque, giovani che avevamo scommesso su un giovane. Ma arrivano anche dichiarazioni sorprendenti, inattese: come quella del sindaco di Bologna Virginio Merola, ultrà bersaniano alle primarie del centrosinistra e fierissimo avversario del primo cittadino di Firenze, definito addirittura “un golpista”: «Matteo Renzi - dice ora Merola - è la nostra possibilità di rinnovamento: e di questo dobbiamo prenderne atto».

 

Riconoscimenti postumi. Ricostruzioni - ma senza controprova - di quel che poteva essere e non è stato. E la speranza - soprattutto - che possa finalmente decollare un progetto che lo stesso “popolo del centrosinistra”, però, ha affondato nel ballottaggio del 2 dicembre. Nessuno, naturalmente, può sapere se Matteo Renzi, in cuor suo, avesse puntato sul naufragio elettorale di Bersani sperando in reazioni così. La linea tenuta nelle ore successive al voto, però - nessun commento, nessuna polemica e l’invito agli uomini a lui più vicini di tacere e lavorare - sembra dire che, se anche lo avesse sperato, ora non intende maramaldeggiare su un partito scosso e pronto a dividersi.

 

«Sto zitto e non faccio polemiche, come dal ballottaggio in poi - ha confermato ieri allo staff riunito -. Ma non mi si chieda di condividere, e soprattutto di venire a Roma per fare riunioni di “caminetto”, come lo chiamano, assieme a Rosy Bindi: non è cosa che faccia per me». Ieri mattina, infatti, qualcuno ha chiamato Renzi per invitarlo a partecipare al vertice romano che si sarebbe svolto in serata nella sede del Pd per analizzare il voto e decidere cosa fare: ma il sindaco aveva una riunione di giunta e ha potuto motivatamente rifiutare l’invito.

Del resto, come aveva appena spiegato agli uomini dello staff, cosa potrebbe dire che non aveva già detto? «Dovrei ripetere che il nostro compito era snidare gli elettori delusi del centrodestra? Che non bisognava sottovalutare Berlusconi? Oppure che dovevamo fare nostri alcuni temi di Beppe Grillo? Inutile, ora. Inutile, dopo aver voluto le primarie salvo poi chiuderle al secondo turno per paura che venissero a votare elettori esterni al centrosinistra: che sono precisamente quelli che di cui avevamo bisono alle elezioni vere e che, naturalmente, non ci hanno votato».

 

Il punto sarebbe che cosa fare adesso. Ma su questo Renzi passa la palla al segretario: «Ha vinto le primarie, ha fatto la sua campagna elettorale ed è giusto che adesso sia lui a indicarci la rotta», spiega ai suoi che gli chiedono quale sia la via da seguire. «Annoto solo che ci stiamo mettendo nelle mani di Grillo. Gli abbiamo regalato un rigore, e ora vediamo come lo calcerà. Naturalmente, penso ai timori in Europa di fronte a un centrosinistra che pende dalle labbra di Beppe Grillo».

 

La sensazione che gli uomini a lui più vicini ricavano dai mezzi ragionamenti del sindaco, è che anche la sua rotta sia ancora da definire. Quel che sembra chiaro, è che per ora non si attacca il segretario (col quale Renzi ha scambiato un paio di sms di commento e solidarietà) ma nemmeno si dà sostegno a una linea che non pare condividere granchè. In un altro tempo si sarebbe detto “nè aderire nè sabotare”: ora si può azzardare un meno enfatico “aspettare e vedere”. Con la certezza che non ci sarà molto da aspettare per vedere che accadrà...

Resta un ultimo punto: lo stato d’animo della «speranza di cambiamento», come lo definisce oggi Virginio Merola. Onestamente, non pare un granchè, considerata la confusione tra rammarico e spinta a guardare avanti che agita i suoi pensieri. Senza confessarlo, Renzi lo ammetteva in qualche modo regalando ai suoi fedelissimi un’ultima battuta: «Durante le primarie dicevo che il Pd con me sarebbe arrivato al 40% e senza di me al 25. Oggi gli amici mi chiamano per prendermi in giro. “Caro Matteo, il candidato premier non lo potevi fare, ma come sondaggista hai un bel futuro”...». Magra soddisfazione, si potrebbe ipotizzare. Anzi: nessuna soddisfazione, a dir la verità .

da - http://www.lastampa.it/2013/02/27/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/niente-polemiche-ma-non-andro-a-nessun-vertice-con-la-bindi-cnwYp3TvbDlsXV9IShM0UJ/pagina.html


Titolo: GEREMICCA - Il cortocircuito dei Democratici tra Quirinale e dissidi interni.
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2013, 05:12:42 pm
Politica
05/03/2013 - retroscena

Il cortocircuito dei democratici tra Quirinale e dissidi interni

Pierluigi Bersani, segretario del Partito democratico, domani si misurerà con la direzione del suo partito

L’obbligo della prima mossa le pressioni istituzionali e i sospetti reciproci

Federico Geremicca
Roma


Che situazione è quella nella quale la presidenza della Repubblica si vede costretta a precisare (con una lettera a l’Unità) che dal giorno delle elezioni ad oggi nessun colloquio è mai intercorso tra il Capo dello Stato e i dirigenti del principale partito (il Pd) della coalizione che ha la maggioranza dei seggi alla Camera? O ancora: che situazione è quella nella quale la Direzione del Partito democratico si riunisce (domani) per dare il via libera ad una proposta politica - governo con Beppe Grillo o addirittura di minoranza - sulla cui praticabilità lo stesso organismo dirigente forse non scommetterebbe un euro? Una situazione insidiosa e pesante, naturalmente. E forse perfino peggio, considerato che partiti e istituzioni si trovano a dover dare un governo a quella che è gia stata frettolosamente definita Terza Repubblica, dopo un voto espresso con una legge elettorale (maggioritaria) da Seconda Repubblica e un esito (frammentato) addirittura da Prima Repubblica... 
Il risultato di questo cortocircuito - largamente prevedibile già prima del voto - è una sorta di rassegnata confusione nella quale ognuno avanza ipotesi di soluzione difficilmente praticabili, annuncia (o minaccia) ritorni alle urne e intanto spera che da qualche parte - dal Quirinale, presumibilmente - qualcuno tiri fuori il classico coniglio dal cilindro: e poichè questo non avviene (o non avviene ancora) il nervosismo dilaga, e le tensioni paiono cominciare a mettere seriamente alla prova soprattutto la tenuta del Partito democratico, uscito già sufficientemente scosso dalla ultima tornata elettorale. 

Quello in corso, infatti, è un dopo-voto che non ha assolutamente nulla del post-elezioni degli ultimi 20 anni, dove leggi elettorali maggioritarie (il Mattarellum prima e il Porcellum poi) avevano sfornato risultati che si sono sempre (1994, 1996, 2001, 2005 e 2008) tradotti automaticamente in governi del Paese. Stavolta, invece, in presenza di un Senato non governabile, una soluzione va costruita: ed essendo diverse le ipotesi percorribili, trappole e tagliole sono già disseminate sul campo. Appunto come al tempo della Prima (famigerata e in parte rivalutata) Repubblica.

È del tutto ovvio che al centro del centro delle tensioni ci siano il Pd e il suo segretario, Bersani, ai quali tocca - come si dice - la prima mossa. E la prima mossa di Bersani, se per un verso convince il partito (governo con Grillo e mai con Berlusconi) per un altro verso, cioè nel suo sviluppo (in caso contrario si torna al voto) preoccupa e perfino insospettisce parte del Pd. Bersani - questo è l’interrogativo - intende forse dire «a Palazzo Chigi o io o nessuno»? Ed è una posizione vera oppure qualcuno - sempre a Largo del Nazareno - ha già pronta una subordinata? Ai tempi della Prima Repubblica, quasi mai la prima proposta di governo avanzata era quella «vera», o comunque destinata al successo. E adesso?

«Adesso non vorremmo pasticci» - dice Matteo Orfini, tra i leader dei «giovani turchi« che hanno ripreso fitti contatti con Matteo Renzi, interessatissimo all’epilogo di questa crisi.
«Il timore - confessa Orfini - è che se la proposta di Bersani non dovesse aver successo, il Pd potrebbe spaccarsi sulla seconda mossa da fare. Noi - e crediamo anche Renzi - siamo per il ritorno alle urne, piuttosto che per un pateracchio che ci rimetta al governo assieme al Pdl. Ma non escluderei affatto che ci possa essere chi insista per un “atto di responsabilità” che eviti le urne, lasciando ancora in Parlamento - dopo l’abbandono di D’Alema e Veltroni - un gruppo dirigente che abbiamo già cominciato a rinnovare».

È un possibile scontro generazionale, quello che teme Matteo Orfini. Un braccio di ferro che certamente non segnerà la Direzione di domani, però, impegnata a meglio definire la proposta-Bersani, piuttosto che ipotetici piani b. Intanto si proverà a ricostruire rapporti politici incrinati durante la campagna elettorale (con Monti, prima di tutto) e magari si valuteranno le obiezioni che, secondo alcuni, il Quirinale avrebbe già maturato di fronte alla rigida posizione che il Pd va definendo.

Per esempio: il leader dei democratici ritiene che il suo «governo del cambiamento» debba, tra l’altro, ridurre il numero dei parlamentari e modificare la legge elettorale. Bene. La prima è una riforma costituzionale: è pensabile farla senza i voti del centrodestra? E dopo i risultati dell’ultimo voto, è pensabile riformare la legge elettorale senza i voti di Grillo?
E soprattutto: in un sistema politico fattosi almeno «tripolare», è ipotizzabile - per chiunque - tornare alle urne e pensare di vincere con una legge che certamente non ridarebbe una maggioranza chiara al Senato?

Obiezioni non di poco conto; alle quali, naturalmente, fanno da contraltare difficoltà politiche concretissime. Occorrerà tempo, dunque: nel Pd lo sanno, e qualcuno lavora e qualcun altro - intanto - affila i coltelli. E se si pensa che in appena un mese dovranno essere eletti i presidenti di Camera e Senato, quello del Consiglio e il nuovo capo dello Stato, facile immaginare che sia il lavoro sia tanto e i coltelli forse ancor di più... 

da - http://lastampa.it/2013/03/05/italia/politica/il-cortocircuito-del-pd-tra-quirinale-e-dissidi-interni-MZ8InfpqJksCsmjou111nO/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L'alternativa di Renzi come interlocutore
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2013, 06:49:08 am
L'alternativa di Renzi come interlocutore

Il Cavaliere tentato: telefonare al leader PD

L'ex premier convinto che Napolitano «non possa affidare la guida del governo a chi non ha una maggioranza»


ROMA - Una telefonata può allungare la vita di una legislatura? Chissà. E chissà se stamattina Berlusconi avrà fatto quella telefonata che ieri sera aveva in mente: «Sono indeciso se chiamare Bersani». L'ultima volta che si sono parlati, il segretario del Pd si era ripromesso di dare una «smacchiatina» al Cavaliere nelle urne. Che possano mettersi d'accordo pochi giorni dopo per formare una maggioranza di governo appare impossibile.

«Lo so che Bersani è un tipo testardo», sostiene il leader del centrodestra: «Ora vedremo se è un leader. Lui sa che l'unica soluzione naturale sarebbe una collaborazione tra noi e loro su precisi punti programmatici. Così come noi sappiamo che la base del suo partito è ostile a questa collaborazione. Però in certi passaggi storici un politico deve dimostrare di essere un leader. Se è un leader si fa seguire dalla base, perché indica qual è la strada giusta in quel momento».

Una telefonata può bastare per ripristinare le comunicazioni tra acerrimi rivali? «Non lo so, sono indeciso se chiamarlo», diceva ieri sera Berlusconi. Chissà se l'avrà fatto, pensando davvero di far cambiare idea a Bersani, che nel documento da presentare oggi in direzione ha voluto inserire un passaggio vincolante per il partito: senza far cenno all'ipotesi del voto anticipato - così da non esacerbare un rapporto già surriscaldato con Napolitano - il capo dei democrat ha posto una pregiudiziale sull'intesa con il Pdl. È un paletto che dovrebbe impegnare il Pd qualunque sorte toccasse al suo tentativo di formare un governo. Insomma, è un giro di parole per evocare comunque le urne, se il suo tentativo dovesse fallire.

«Ma l'idea di incastrare i Cinquestelle in maggioranza non può riuscire», secondo Berlusconi: «Grillo non si farà mai ingabbiare. La radice del suo successo poggia sul fallimento della politica economica europea. Eppoi, come potrebbero i Democratici accordarsi con uno che teorizza la rinegoziazione del debito? Queste parole sono un crimine contro lo Stato: come reagirebbero gli investitori stranieri?». Se è chiaro come reagirebbe il Pd nel caso in cui Bersani aprisse al Pdl, è altrettanto evidente nel ragionamento di Berlusconi che un tale progetto non potrebbe approdare nelle Aule parlamentari. E senza voler interferire con le prerogative del capo dello Stato, immagina che «Napolitano non possa far formare un governo a chi non ha una maggioranza».

Una telefonata può servire per esortare un rivale a siglare una tregua? Ieri sera il Cavaliere era indeciso se farlo: «La mia impressione è che Bersani voglia andare al voto mentre temo che vada a sbattere». In quel caso, dopo, inizierebbe un altro giro e «comunque si dovrebbe ragionare». Nella testa di Berlusconi sarebbe Renzi «l'interlocutore», non per indicarlo come presidente del Consiglio. No, in questa legislatura il leader del centrodestra immagina un governo a guida tecnica con innesti di esponenti politici, che duri «almeno tre anni» e che - attraverso un percorso di riforme - «sgonfi il fenomeno Grillo, lasciato intanto all'opposizione».

Con il sindaco di Firenze si dovrebbe invece ragionare di futuro, da parti contrapposte, per avviare una «rivoluzione di quarantenni che dia una svolta al Paese». I fondamentali del bipolarismo sarebbero salvi, perché questo è l'obiettivo di Berlusconi, che vede il «centrino» montiano come una sorta di Polonia a cui già stanno preparando l'assalto il Pdl e Renzi per spartirsi le spoglie. Alfano - all'incontro di ieri con gli eletti lombardi - lo ha teorizzato: «C'è una massa elettorale di dieci punti che è aggredibile, lo riscontriamo già nei sondaggi. Sono quanti hanno seguito Monti, Casini e Fini, e hanno visto fallire quel progetto. Questi dieci punti saranno il carburante per vincere alle prossime elezioni».

Resta da capire quando si terranno le prossime elezioni, e quale sarà la nuova geografia politica, perché - secondo il segretario del Pdl - il centrodestra avrà come avversario o il Pd o Grillo, «contro cui alla fine prevarremmo». Secondo Alfano, «dipenderà da Bersani» - dalle sue imminenti mosse - quale sarà lo scenario futuro. È stato un modo per lanciare al segretario democratico un messaggio, affinché comprenda la delicatezza del momento. Una telefonata può anche essere inutile, e chissà quindi se Berlusconi stamattina avrà chiamato il leader dei democrat. Ma c'è un motivo se Alfano ha puntualizzato al vertice del Pdl che «noi vogliamo tentare di costruire un nuovo bipolarismo insieme al Pd».

Francesco Verderami

6 marzo 2013 | 10:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_06/berlusconi-napolitano-governo-maggioranza_dbce405e-861f-11e2-8496-c29011622c49.shtml


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi è scettico: “Giusto provarci ma sarà difficile”
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2013, 06:56:07 am
Elezioni Politiche 2013

06/03/2013 - il dopo voto

Renzi è scettico: “Giusto provarci ma sarà difficile”

Per il sindaco incontri romani e lungo colloquio con Monti

“Napolitano saprà trovare la soluzione con saggezza”

Federico Geremicca
Roma


Bersani, certo. La linea resta quella che indica Bersani, ma i toni cominciano a cambiare: «Dopo le primarie il Pd si è seduto... Abbiamo sbagliato, ma non mi piacciono quelli che accoltellano alla schiena il giorno dopo. Quello che dovevo dire, a Pier Luigi l’ho detto in faccia.
E prima, non dopo...». 

Sono le otto della sera e Matteo Renzi lascia gli studi di Ballarò, dove ha appena finito di registrare una intervista con Floris.
Stamane lo attende la Direzione del Pd: anzi, lo attendono alla Direzione del Pd ex nemici, nuovi amici e quant’altri - molti, cioè - paiono paradossalmente prontissimi a saltare sul carro di un leader sconfitto. «La prima e ultima volta che ci sono andato - ricorda Renzi - è stato a gennaio, per le liste. Non parlai: fu il gelo. Mi dicono che stavolta l’accoglienza sarà diversa... Vedremo, non so se sarà vero».

Sarà vero, altroché. In un Pd lacerato e scosso, infatti, Matteo Renzi è vissuto ormai come l’uomo della possibile rivincita. Lui, invece, si muove con i piedi di piombo: un po’ perché non vuole aggiungere la sua coltellata a quelle già pronte per il segretario, e un po’ perché si orienta ancora con qualche impaccio in mezzo alle trappole romane. Ma ha cominciato a muoversi: e l’ordito della tela che ha in mente, inizia a rivelarsi...

Due ore con Monti a Palazzo Chigi, poi gli incontri con Vasco Errani (uomo di raccordo con Bersani) e Dario Franceschini.
Matteo Renzi comincia ad avere una rotta, e cerca di capire tra quanti scogli dovrà navigare. 

Con il Professore ha discusso del futuro: che ha in testa, Monti? Resta in campo o pensa al ritorno in Europa? Punta al Quirinale e ha bisogno di una mano? E che sarà della sua «Scelta civica»? La ripresa del dialogo con gli alleati possibili, è la prima mossa di Renzi: che ha chiaro come anche la rotta del Pd vada totalmente ritracciata. «E ha ragione - spiega Beppe Fioroni, mentre passeggia sotto la sede del Pd -. Se mettiamo la testa di Matteo sul corpo di questo Pd, siamo punto e a capo. Anche il partito va rivoluzionato». Mario Monti è interlocutore privilegiato: sia per le possibili alleanze future, sia per «nuove case» che dovesse improvvisamente essere necessario costruire...

La seconda mossa è il sostegno alla linea e al tentativo Bersani, anche se si intende a chilometri di distanza che Renzi vede all’orizzonte un naufragio certo: «Difficile, molto difficile - risponde a proposito di un possibile governo Pd-M5S -. Ma Bersani ha diritto a fare la prima mossa». La prima, appunto: e poi? «Napolitano troverà, con saggezza, una soluzione». Un governo-Renzi è possibile? «E le pare che dopo aver perso le primarie entro a Palazzo Chigi dalla porta secondaria?». E lei si sarebbe dimesso al posto di Bersani? «Ognuno reagisce alle sconfitte a modo suo... Ma non riduciamo queste elezioni a una resa dei conti». E nemmeno, diciamo la verità, a una fiera dove ognuno spara la sua.

Per dire: al suo malcapitato vicesindaco - Dario Nardella - era capitato di dire in mattinata che «se il tentativo di Bersani dovesse fallire, trovo legittimo pensare ad un accordo Pd-Pdl». Il tempo che Renzi si infuriasse, ed ecco di nuovo Nardella: «Non ho auspicato un governo Pd-Pdl, che nascerebbe da tentativi di inciucio...». Non è tenero con i suoi, Renzi: anzi. E non lo è a maggior ragione ora, ora che non un solo passaggio deve essere sbagliato in vista della mossa numero tre: l’assalto a Palazzo Chigi quando (quando?) si voterà di nuovo.
Farà altre primarie? «Le farò. Certo che rischio che alla terza sconfitta mi regalino una bambolina...».

L’umore è buono, la lingua affilata. Renzi non lo cita, ma davvero non gli riesce di non parlare di D’Alema: «Ho visto che uno statista ha proposto di dare le presidenze delle Camere una a Grillo e l’altra a Berlusconi... Trattare Beppe come fossero i dorotei, non mi pare una via, con tutto il rispetto per i dorotei». Altre sono le cose che andavano fatte, e prima: «Non aver dato risposta all’antipolitica ha aperto le porte a Grillo, ed eccoci qua. E poniamoci anche il problema di com’è possibile che Berlusconi, nonostante i disastri che combina, sia di nuovo al 30%...». Questo dirà stamane alla Direzione, se alla fine deciderà di intervenire. Ma l’incipit, l’avvio, sarà lo stesso: «Caro segretario, io che con te sono stato leale...». Ecco, quel che cambierà saranno i tempi: e al presente e al futuro utilizzati durante le primarie, Renzi sostituirà un enigmatico tempo passato... 

da - http://lastampa.it/2013/03/06/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/renzi-e-scettico-giusto-provarci-ma-sara-difficile-0xFO4PnhMoTka86OI5aN7J/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - da Pier Luigi nemmeno una parola sui temi anti-casta
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2013, 05:17:40 pm
POLITICA
07/03/2013 - il ribelle non ci sta Renzi lascia la sala in anticipo “Così non cambieremo mai”

Il sindaco ai fedelissimi: da Pier Luigi nemmeno una parola sui temi anti-casta

Federico Geremicca
Roma


La faccia di Matteo Renzi in tv in una carrellata che riprende D’Alema, Bersani, Epifani, Marini e chissà chi altro; oppure un primo piano zoomato che lo porta nelle case degli italiani, a ora di pranzo, mentre parla alla piccola tribuna del Partito democratico avendo affianco, magari, il presidente Rosy Bindi...

 

Chissà se sono precisamente questi i pensieri ed i volti che ieri si sono materializzati nella testa di Matteo Renzi quando - poco dopo mezzogiorno - ha voltato le spalle alla compagnia e se ne è tornato a Firenze. Fatto sta che è successo: ed è un nuovo piccolo-grande-caso.

 

C’è molto di studiato, naturalmente, nella mossa con la quale ieri Matteo Renzi ha deciso di riprendersi un po’ di titoli di giornali abbandonando, senza nemmeno intervenire, la Direzione del Pd: evitare il rischio, per esempio, di finire ritratto in quella sconsigliabile sorta di album Panini della nomenclatura democrats (e non solo democrats). Ma c’è anche molto di nient’affatto studiato, cioè di assolutamente incontrollabile: come un’allergia, un prurito tremendo, che resisti, resisti, ma alla fine ti devi grattare. Così, Renzi ha resistito, ha resistito, ma poi - appena finito l’intervento di Dario Franceschini - non ha retto più: ha girato le spalle alla presidenza e se ne è andato, percorrendo rapidamente i pochi metri che separavano il fondo della sala (dov’era in piedi) dal terrazzo che abbellisce l’ultimo piano della sede Pd.

 

Diremo poi se la mossa può esser considerata più giusta o più sbagliata: per ora raccontiamola. «Onestamente, quello che dovevo dire l’avevo detto - ha spiegato Renzi a qualche fedelissimo convinto che, stavolta, avrebbe addirittura preso la parola in Direzione -. Sostengo il tentativo di Bersani: posso pure impararlo a memoria e dirlo in cinese... Ma oltre questo, che devo fare? Tra me e lui le differenze ci sono: dovevo intervenire per esasperarle?». È la verità: fino ad oggi il sindaco di Firenze ha messo su un disco che dice “sto con Pier Luigi, sto con Pier Luigi” e non l’ha mai cambiato. Ma è anche solo una mezza verità: l’altra metà della spiegazione (dell’abbandono della sala della Direzione, intendiamo) è in una sorta di repressa delusione.

 

«Ma come - si è sfogato tornando a Firenze - sono giorni che insisto a dire che se avessimo cavalcato noi l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti avremmo spuntato qualche unghia a Grillo, e Bersani che fa? Nemmeno ne parla nella relazione introduttiva... Qua si rischia di andare avanti come prima. Ma come prima non va bene affatto». Dietro l’abbandono della Direzione, dunque, ci sono tante cose. Un po’ il timore di venir catalogato anche lui come “casta”, cosa che considera un pericolo mortale; un po’ un’insofferenza genuina verso certi interminabili vertici, considerati inutili liturgie di partito; ma un po’ anche la circostanza che con Bersani le cose continuano a non andare granché bene: Sono andate male durante le primarie, sono andate male in campagna elettorale e continuano ad andar male a fine campagna.

 

Uno spaccato di come sono andate le cose durante la battaglia elettorale lo offre, per esempio, Claudio Burlando - governatore ligure - quando va alla tribuna della Direzione: «Negli ultimi giorni della campagna ho invitato Renzi a Genova e mi sono reso conto che, ormai vicini al voto, non era impegnato altrove: un altro segnale che le cose non stavano andando nel verso giusto». Se era - se è - una risorsa (è l’implicita obiezione di Burlando) perché è stato lasciato così tanto in panchina?

 

Comunque sia, lo strappo è consumato. Niente di gravissimo, ma a tanti (da Fassina a Cuperlo) non è piaciuto. E non è piaciuto nemmeno a qualcuno nella folla di cittadini e militanti che ha seguito la Direzione via Internet e l’ha commentata via Twitter. Scrive Patrizia: «Sarebbe utile che Renzi parlasse al partito, oltre che a Ballarò. Coraggio, fallo». Il partito, già... Il sindaco di Firenze ne ha in mente uno del tutto diverso, rispetto a quel che è oggi il Pd: un partito “liquido”, leggero, senza praticamente apparati ma capace - attraverso i nuovi strumenti - di arrivare fin dentro le case degli italiani. Ma questo è il partito che sarà: se e quando sarà. Per ora il Pd è altro: e magari ignorarlo, mostrare fastidio e starne lontano potrebbe non essere un grande affare. Non è tempo di scelte a metà. O dentro o fuori, in genere è meglio. Mezzo dentro e mezzo fuori, si rischia molto: come proprio a Renzi hanno dimostrato le primarie perse giusto tre mesi fa...

da - http://lastampa.it/2013/03/07/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/renzi-lascia-la-sala-in-anticipo-cosi-non-cambieremo-mai-4x1Iay7TihS08anMZPP0aL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Un macigno sulla strada di Bersani
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2013, 06:12:24 pm
Editoriali
11/03/2013

Un macigno sulla strada di Bersani

Federico Geremicca


Ci sono porte che si chiudono, porte che vengono sbattute e porte che non erano mai state aperte. Quella di Beppe Grillo, per esempio, non si era mai nemmeno socchiusa, nonostante il bussare insistente del Pd. E invece per una settimana si è voluto far finta di credere (o di far credere) che l’ipotesi di un governo Bersani-Grillo - viene da sorridere al solo scriverlo - fosse una ipotesi, come si dice, in campo. Non lo era, e non lo è: e la giornata di ieri, con Grillo che annuncia l’addio alla politica se il M5S darà la fiducia «a chi ha distrutto l’Italia», e i capigruppo grillini di Camera e Senato che chiudono alla possibilità perfino di prendere un caffè «con quelli che ci hanno portati fin qui», dovrebbe averlo chiarito con sufficiente nettezza.

 

Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio e le schiere di parlamentari arrivate a Roma sull’onda di uno tsunami che continua a produrre effetti, non sono spendibili (perchè non intendono esserlo) nella soluzione del complesso ingorgo politico-istituzionale che è di fronte al nuovo Parlamento.

 

Saggezza e senso di responsabilità consiglierebbero, dunque, di guardare in faccia alla situazione con maggior realismo, così da concentrarsi - finalmente - sulle due opzioni rimaste in campo. La prima: un governo di un qualche tipo che - sostenuto dai voti di Pd e Pdl - vari una nuova legge elettorale e porti il Paese al voto presumibilmente con le europee della prossima primavera; la seconda: elezioni subito (cioè già a giugno) con la prospettiva, però, che - aperte le urne - ci si ritrovi poi di fronte a una situazione sostanzialmente identica a quella attuale... 

 

Comunque sia, la giornata di ieri ha cambiato le carte in tavola, consegnando al Presidente della Repubblica una matassa difficilissima da sbrogliare. Pesano, naturalmente, le difficoltà oggettive determinate da un voto che non ha prodotto maggioranze in grado di governare; ma pesano anche gli impacci - per usare un eufemismo - che frenano l’azione dei tre leader che dovrebbero indicare la via da imboccare. Silvio Berlusconi, per esempio, non ha nemmeno avuto il tempo di gioire per lo scampato disastro elettorale, che si è ritrovato sballottato tra aule di tribunale e corsie d’ospedale, per i suoi vecchi e nuovi guai giudiziari; Beppe Grillo, invece, ha certo avuto il tempo di esultare, salvo poi realizzare che il successo elettorale gli consegnava responsabilità politiche che non vuole o non è in grado di affrontare. E Pier Luigi Bersani, infine, ha subito un colpo così inatteso - e che lo ha così duramente provato - che ancora si attende di capire quale sia la via che intende davvero perseguire.

 

Non si può credere, infatti, che il leader del Partito democratico pensi sul serio che l’ipotesi di un governo con Beppe Grillo sia realmente percorribile (e se lo credeva, in ogni caso, da ieri può metterci una pietra sopra). È all’interno dello stesso Pd, del resto, che molti pensano che il segretario sia già concentrato sul suo personalissimo «piano b», che prevede un rapido ritorno alle urne. I più maliziosi, anzi, si spingono addirittura a ipotizzare che proprio le elezioni anticipate già a giugno siano - da subito dopo il risultato del voto - il vero «piano a» del segretario: i tempi stretti, infatti, renderebbero difficili nuove primarie, rinvierebbero a tempi migliori l’inevitabile «regolamento di conti» con Matteo Renzi e gli consegnerebbero quasi automaticamente una nuova chance di guidare da candidato premier il centrosinistra anche alle prossime elezioni.

 

Si vedrà se le cose stanno così. Alcuni segnali, però, lo lascerebbero credere. Chiuso in una sorta di «torre d’avorio», è giorni che Pier Luigi Bersani ha scarsissimi contatti con i dirigenti del suo partito: chi vuole parlare con lui, deve per ora accontentarsi dei fidati Errani e Migliavacca. «Ho capito - dice polemicamente Matteo Orfini - che dovrò chiedere a Crimi, capogruppo Cinque Stelle, quali sono i nomi che il Pd indica per le presidenze di Camera e Senato...». Già, le presidenze: cioè il primo impegno istituzionale di fronte al nuovo Parlamento (si inizia a votare venerdì).

 

Circolano molte ipotesi confuse, ma una pare essere diventata più forte delle altre: offrire la presidenza del Senato ai centristi di Monti e tenere quella della Camera per Dario Franceschini. Non è un’offerta che allarga la maggioranza, certo; né può esser considerata una «cortesia istituzionale» rivolta all’opposizione (o a una significativa forza di opposizione). Ma somiglia molto, invece, a una sorta di patto pre-elettorale: per portare il Partito democratico al voto il prossimo giugno forse ancora con Nichi Vendola, ma ancor più certamente - stavolta - da alleati con Mario Monti...

da - http://www.lastampa.it/2013/03/11/cultura/opinioni/editoriali/un-macigno-sulla-strada-di-bersani-bqeeSUaDOvg162UGKWuH1N/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Pier Luigi bacchetta Matteo “Accuse inaccettabili”
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2013, 06:44:14 pm
politica
12/03/2013 - retroscena

Pier Luigi bacchetta Matteo “Accuse inaccettabili”

Il segretario: “Non siamo qui a cercar deputati e senatori”

Federico Geremicca
Roma


dice Fabio Melilli, ex presidente della Provincia di Rieti e parlamentare neo-eletto: «Caro segretario, abbiamo trovato la protesta nelle nostre case, nelle nostre famiglie, dove meno ce lo aspettavamo». 

 

Aggiunge Ermete Realacci: «In campagna elettorale abbiamo parlato di lavoro, ma nemmeno i disoccupati ci hanno votato...». Avverte Lapo Pistelli: «Il nostro stordimento dopo il voto è diventato una specie di senso comune». Protesta Laura Garavini: «Però non lasciamoci trascinare nella sindrome del perdente». E mentre nel grande teatro Capranica i nuovi senatori ed i deputati del Pd discutono con Bersani di che diavolo fare, Grillo mette in rete un documento col quale annuncia la rinuncia del M5S ai rimborsi elettorali, sfida il leader Pd a firmarlo e Michele Emiliano, sindaco di Bari, twitta: «Scacco di Grillo a Bersani... Se non firmiamo, siamo finiti». 

 

Non poteva essere che questo, forse, la prima assemblea dei neo-eletti parlamentari del Pd: un confuso miscuglio di paura, orgoglio ferito, incertezza e perfino spaesamento. Le elezioni sono andate come sono andate, non c’è una cosa - dalle presidenze delle Camere a quelle dei gruppi, dal nuovo governo al futuro presidente della Repubblica - che vada come deve andare e i volenterosi ottimismi di Bersani non bastano a tirar su il morale: «C’è comprensione per la nostra proposta, più di quanto si possa immaginare... La strada è stretta, certo - dice il segretario - ma non è che in giro ci siano autostrade». Mal comune mezzo gaudio, insomma: è un modo di vedere le cose. E al momento, uno più definito (e propositivo) forse davvero non c’è.

 

Lo si capisce da come Bersani stesso avvia il ragionamento sulle questioni - caldissime - che sono sul tappeto: dicendo poche cose, e senza introdurre novità. Sul governo: il Pd farà il suo tentativo «e poi si rimette al percorso istituzionale previsto, confermando stima e affetto nei confronti del Capo dello Stato». Sulle presidenze di Camera e Senato: «Dobbiamo incoraggiare la discussione, e non accetto che se si parla di presidenze si sta facendo uno scambio di poltrone». Poi propone tre nomi (Calipari, Zanda e Zoggia) per una mini-delegazione che - sul tema presidenze - «faccia una ricognizione sul dialogo possibile, perché siamo ancora nella nebbia più totale».

 

Oggi l’incontro con i grillini, gli altri (Pdl, Scelta civica e gli altri) a seguire... Quel che Bersani non accetta (e il rimprovero è senz’altro rivolto a Renzi) «è che venga messa in giro la voce che siamo qui a cercare deputati e senatori: non lo accetto, tantomeno se viene da qualcuno di casa nostra».

 

Il resto è tutto un inevitabile rosario di avvertimenti, preoccupazioni e inviti alla riscossa. Corradino Mineo: «Nessuno può chiederci di fare un governo col nostro principale avversario». Lapo Pistelli: «Da dieci anni i presidenti delle Camere sono diventati uno degli strumenti dell’attività di governo: quindi, prima di offrire presidenze a chi occupa aule di Tribunale o a chi ha definito il Parlamento una scatoletta di tonno, ci penserei due volte». Dario Franceschini: «Dobbiamo sostenere il tentativo di Bersani sia nelle riunioni che sui giornali, evitando comportamenti sdoppiati... E a voi neo-eletti dico: state per entrare nel tempio della democrazia, non nel covo della casta...». Infine, Giorgio Tonini, durissimo nell’analisi del voto: «In campagna elettorale ci sono mancate tre cose: una vera coalizione, una vera proposta di governo e la capacità di apparire alternativi di fronte a chi voleva scappare da Berlusconi». Come a dire che al Pd è mancato tutto, e che se la sua coalizione è risultata comunque vincente, è solo per un miracolo: poco meno o poco più... 

DA - http://lastampa.it/2013/03/12/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/pier-luigi-bacchetta-matteo-accuse-inaccettabili-QFbN48289YmVJSV8oBYvsO/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Parisi: Prodi candidato più accreditato
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2013, 10:57:07 pm
D'Alema, altro nome in campo: «No agli arroccamenti antistorici delle toghe»

Ora la partita vera è per il Quirinale

Parisi: Prodi candidato più accreditato


ROMA - È iniziata la campagna elettorale. Ma non per le nuove consultazioni politiche, non ancora, bensì per la presidenza della Repubblica, l'unico appuntamento che conti in questa legislatura nata già moribonda. Fallita nelle urne la sfida per il governo del Paese, centrosinistra e centrodestra stanno già preparandosi alla battaglia decisiva per il Colle. Ed è un fatto che Prodi sia formalmente ai blocchi di partenza, nonostante abbia smentito a più riprese. Di più. Come sostiene l'ex ministro Parisi - che fu braccio destro del Professore ai tempi di Palazzo Chigi - il fondatore dell'Ulivo «oggi è il candidato più accreditato per il Quirinale. Certo, il fixing cambia di giorno in giorno, ma al momento Romano ha le maggiori chance di essere eletto», anche perché nel caos di questa fase «lui è l'unico che ha avuto e ha tuttora un progetto».

Analizzando l'attuale scenario, Parisi tiene da conto anche le tensioni provocate dal conflitto tra politica e magistratura, e contesta la tesi che l'avvento del Professore al Colle possa essere vissuto dal Pdl come un «atto provocatorio e divisivo». Eppure è questa la reazione nell'area berlusconiana solo a sentir nominare lo storico rivale del Cavaliere. L'idea nel centrodestra è che al Colle debba sedere una personalità che ponga fine all'«accanimento giudiziario» contro il loro leader, e Prodi non viene vissuto come l'uomo adatto. «E se andasse diversamente?», obietta Parisi, che si rifugia in una citazione storica: «De Gaulle fu l'unico che riuscì a fermare i militari». Il riferimento è al '58, alla caduta della Quarta Repubblica francese, quando l'allora generale evitò il putsch dei militari, e dopo esser giunto all'Eliseo li fece rientrare nei ranghi. È voluta l'analogia. Ed è concisa la chiosa di Parisi: «Magari Prodi...».
Non c'è dubbio che il cortocircuito tra politica e giustizia sia uno dei temi subliminali della campagna elettorale per il Colle. E c'è un motivo se anche D'Alema è della partita. Non è la citazione dell'inciucio fatta davanti alla direzione del Pd ad averlo inserito tra i partecipanti alla sfida, semmai è un ragionamento svolto un mese fa alla presentazione del proprio libro che ha colpito il Cavaliere. E una frase, che il capo del Pdl ha sottolineato con matita rossa e blu. Criticando i giudici di Palermo per il ritardo nella distruzione delle intercettazioni di Napolitano, D'Alema aveva prima spiegato che «simili comportamenti da parte della magistratura sono il risultato dell'aggressione berlusconiana di questi anni», per poi condannare gli «arroccamenti antistorici delle toghe»: «E chi governerà il Paese dovrà rimettere a posto queste cose»...

Sia chiaro, non c'è via d'uscita politica ai guai giudiziari di Berlusconi. Anche la storia delle pressioni per ottenere la grazia non regge, perché quell'istituto può valere per quanti sono stati condannati in via definitiva. Nel frattempo però il Cavaliere sarebbe spazzato via, e con lui il suo partito. Perciò, per quante manifestazioni possano organizzare i dirigenti del Pdl, è impossibile salvare il «soldato Silvio». Ne ha contezza anche lui. Semmai l'aventino politico che viene minacciato dal centrodestra serve per far saltare il timing impostato dal Pd, che vorrebbe prima affrontare il tema delle presidenze delle Camere, poi quello del governo, e infine il rebus del Colle.

Alfano ha rispedito al mittente la proposta dei democratici: «Sarebbe anche valida l'idea di procedere seguendo il modello europeo, cioè assegnando gli incarichi parlamentari in base ai gruppi e non in base alla logica maggioranza-opposizione. Ma per noi o si discute subito di Quirinale oppure non se ne fa nulla». In tal caso il disimpegno sembrerebbe già estendersi anche a un ipotetico «governo del presidente», per puntare alle urne entro giugno. Il Pdl non vuole arrivare all'autunno, per non farsi logorare, ed è convinto che i tempi per arrivare alle elezioni ci sarebbero, come ammette anche un dirigente del Pd: «Dopo aver sperimentato il voto in pieno inverno, potremmo sperimentare il voto in piena estate».

Ecco spiegato il motivo per cui i vertici istituzionali stanno costruendo delle «reti di protezione» per la legislatura: qualora tutti i tentativi di formare un governo non dovessero aver successo, ci sarebbe la possibilità di mandare il governo Monti alle Camere per affidarlo a un voto del nuovo Parlamento. E il premier, bloccato a Palazzo Chigi, vedrebbe così sfumare l'aspirazione di diventare presidente del Senato, dovendo traghettare le Camere verso nuove elezioni. Dettagli, mentre si prepara il tavolo del risiko per il Quirinale.

Francesco Verderami

12 marzo 2013 | 7:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_12/quirinale-prodi-verderami_26f428b8-8adb-11e2-b7df-bc394f2fb2ae.shtml


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ora impossibili i patti col Cavaliere ma nel Pd c’è chi...
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2013, 11:41:54 am
Elezioni Politiche 2013
13/03/2013 - analisi

Ora impossibili i patti col Cavaliere ma nel Pd c’è chi chiede prudenza

Si fa sempre più forte la convinzione che Berlusconi voglia andare subito al voto



Federico Geremicca

Roma


È praticamente un coro: ammesso che ce ne fosse la possibilità - e soprattutto l’intenzione - da lunedì 11 marzo non si può più. Non si può più, cioè, immaginare il Partito democratico al governo - in qualsiasi forma - con Silvio Berlusconi. Lo dice, con tutta la chiarezza possibile, Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale del Pd. «È chiaro e giusto, per le cose che sapevamo prima e per quello che è successo a Milano, che noi non si possa fare un governo con Berlusconi».

 

Lo dice Matteo Orfini, tra i leader dei «giovani turchi»: «Lo pensavo già prima di Milano che col Pdl non ci si può alleare: perché poi come fai le leggi in materia di corruzione, falso in bilancio e tutto il resto, con Silvio Berlusconi al governo con noi?». Già, come fai? Ma allo stesso modo, come lo fai un governo se con Berlusconi intese non se ne possono stringere e se Grillo non vuole stringerne con te? È la domanda senza risposta di queste due prime settimane post-voto. E se la forza della cronaca e dei fatti si incarica di introdurre novità, fino ad ora si è trattato di novità che hanno ristretto - piuttosto che allargare - lo spettro delle opzioni possibili. Si potrebbe dire che è comunque qualcosa, un elemento di chiarezza, cioè: ma un altro paio di elementi di chiarezza così, e la strada verso le elezioni rischia di trasformarsi in un’autostrada...

 

È per questo che, nonostante l’«assalto» al tribunale di Milano, dentro il Pd qualcuno reclama un minimo di prudenza. Nicola Latorre, per esempio, senatore cresciuto alla scuola politica di Massimo D’Alema: «Non vorrei essere drastico... Però è chiaro che i fatti di Milano rendono assai più problematica l’ipotesi di un governo con il Pdl. Ma a mio avviso la vera questione ormai è addirittura un’altra: proprio la scelta di manifestare davanti al Tribunale, segnala una rilevantissima novità, e cioè che Berlusconi vuole il voto. Ecco, il vero partito delle elezioni anticipate da ieri è il Pdl».

 

È una tesi della quale cominciano a essere convinti in molti nel Pd: e non rappresenterebbe un buon affare, visto che ancora ieri Beppe Grillo - a scanso di equivoci - ha regalato ad amici e nemici uno dei suoi inequivocabili tweet: «Se per caso non fosse chiaro, il Movimento Cinque Stelle non fa alleanze con nessun partito». E dunque? «Ora Bersani ha intorno al 30% delle possibilità di convincere i parlamentari di Grillo a votare la fiducia al suo governo», dice ancora Orfini: una percentuale che è meglio di niente, ma certo non può apparire rassicurante.

 

È anche per questo, per le oggettive difficoltà sul terreno, che all’interno del Pd si vedono fiorire posizioni che somigliano più a desideri che a proposte politiche. A metà pomeriggio, per esempio, Luigi Zanda (reduce da un indimenticabile incontro con una delegazione «grillina»: «Arrivavano uno alla volta, alla fine erano una quindicina che chattavano, registravano, non si capiva nulla...») Luigi Zanda, dicevamo, esprime una opinione così: «Basterebbe che Berlusconi si tirasse indietro. Non è più il 1994... non è amato come allora. Tre quarti dei gruppi parlamentari stanno con Alfano: e se il Cavaliere fa un passo indietro, un governo lo si riesce a mettere in piedi».

 

Anche quel che Rosy Bindi vede come ultima e unica soluzione possibile non appare di semplicissima realizzazione. «Dopo aver detto o Grillo o morte non è che possiamo tornare indietro, soprattutto dopo quanto accaduto. Sia il presidente della Repubblica, allora, a proporre un governo al Parlamento, e il Parlamento assuma le proprie responsabilità. Del resto, c’è qualcuno che pensa che tornare al voto con questa elegge elettorale ci dia un Senato governabile? Dobbiamo riformare quella legge, andare al pareggio di bilancio e poi, in autunno o nella primavera prossima, richiamare gli italiani alle urne». 

 

Un governo del Presidente. Lo si è già ipotizzato nei giorni scorsi: ma con i voti di chi? «Forse non possiamo dire con chi - annota Matteo Orfini - ma possiamo dire mai senza chi: e io dico mai senza il Movimento Cinque Stelle, perché non si può escludere il primo partito del Paese. Dunque, il Pd deve dirsi disponibile a fare un governo solo se lo vota anche Grillo. Dopo di che, se loro dicono di no a tutto, non restano che le elezioni, con tutto quel che significa...».

 

A due settimane dal voto, dunque, nulla o quasi si è ancora mosso. Intanto la tensione sale, la situazione si incancrenisce e chissà per quanto ancora si potrà contare sull’indifferenza - se non la benevolenza - dei mercati. Prima o poi, il conto verrà presentato. E far finta di non saperlo è prova di massima irresponsabilità... 

da - http://lastampa.it/2013/03/13/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/ora-impossibili-i-patti-col-cavaliere-ma-nel-pd-c-e-chi-chiede-prudenza-PWI8WYrDbuRXMeRnuMqAIJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Ma la strada resta in salita
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2013, 04:40:21 pm
Editoriali
17/03/2013

Ma la strada resta in salita

Federico Geremicca

Un giudice antimafia, forse l’ultimo vero erede di Giovanni Falcone, e una donna da anni in prima fila - come portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati - nel soccorso e l’aiuto a migranti e profughi politici. Piero Grasso e Laura Boldrini, cioè: entrambi arrivati per la prima volta in Parlamento tre settimane fa, sono da ieri i nuovi presidenti di Camera e Senato. Pier Luigi Bersani, il leader che ha scommesso su di loro, ha commentato la doppia elezione con uno di quei tweet tanto di moda: «Se si vuole, cambiare si può». 

L’ascesa di Grasso e Boldrini porta con sé due buone notizie ed una sensazione meno positiva. Le notizie, intanto. La prima: qualche tessera del complicato puzzle alla fine del quale dovrebbe esser rivelato l’assetto politico-istituzionale della nuova legislatura, comincia ad andare al suo posto. La seconda: le due tessere sistemate ieri costituiscono una (piacevole) sorpresa per novità, storia personale e perfino profilo etico, il che non guasta mai (a maggior ragione oggi, con la politica messa in un angolo dai frequenti scandali). 

La sensazione meno positiva riguarda invece il prossimo - e ancor più importante - obiettivo da centrare: la formazione del nuovo governo.

Alla doppia elezione di ieri, infatti, ci si è arrivati alla fine di un incerto dialogo tra le parti che ha ora lasciato sul terreno rancori, delusioni e propositi di rivalsa. Lo stato dei rapporti tra Bersani e Monti, per esempio, è senz’altro assai peggiore di quanto lo fosse prima; il partito di Silvio Berlusconi denuncia l’«occupazione» delle presidenze da parte del Pd e spinge per elezioni il prima possibile; e il Movimento Cinque Stelle, infine, è letteralmente imploso - tra pianti, urla e recriminazioni - di fronte alla prima occasione in cui è stato chiamato a compiere una scelta: il che lascia presagire che tenterà di tenersi il più distante possibile da circostanze simili... Un quadro che non pare certo propedeutico - sia sul piano del clima che dei rapporti politici - alla formazione di una qualsiasi maggioranza di governo. 

Anche perché, a differenza di quel che qualcuno aveva sperato, Pier Luigi Bersani non pare aver alcuna intenzione di cambiare la linea annunciata subito dopo la mezza vittoria (o la mezza sconfitta) del 24 e 25 febbraio. L’ha sintetizzata in uno slogan che sta diventando concretamente comprensibile ogni giorno di più: «Mai più responsabilità senza cambiamento». Che vuol dire: con larghe intese e governi tecnici abbiamo già dato, e con Berlusconi non si torna, a meno che della partita non sia anche Beppe Grillo. Cambiamento, dunque: come per i nomi ed i profili dei nuovi presidenti di Camera e Senato. Cambiamento: che ora, a proposito di governo, significa mai un esecutivo senza il Movimento Cinque Stelle, la dirompente novità politica frutto - appunto - della voglia di cambiamento degli italiani.

La maggioranza del Partito democratico è certa che Grillo non voterà mai la fiducia ad un governo-Bersani e si va ormai convincendo che il segretario non defletterà da questa linea: e che l’unico «piano b» che sarebbe disposto a prendere in considerazione sono elezioni anticipate a giugno. Il leader del Pd, infatti, è convinto che il no a soluzioni che replichino l’esperienza Monti, per esempio, può permettere di recuperare consensi tra i tanti elettori democratici incantati da Grillo. Senza contare il fatto che il precipitare verso elezioni da far svolgere in tempi brevissimi, renderebbe impossibili nuove primarie e toglierebbe dal campo Matteo Renzi.

Questo è un obiettivo gradito alla larga maggioranza del Pd, ma è soprattutto con i cosiddetti «giovani turchi» di Fassina, Orlando e Orfini che il segretario sta cercando di costruire un asse che abbia come obiettivo (dopo l’abbandono del Parlamento da parte di personalità come D’Alema, Veltroni, Turco e altri) una sorta di fase due della «rottamazione», da gestire da Largo del Nazareno - sede del Pd - piuttosto che da Palazzo Vecchio. Ma se questo è davvero il disegno, è chiaro che le acque potrebbero cominciare ad agitarsi notevolmente anche all’interno del Pd: con i prevedibili effetti destabilizzanti sul piano della formazione del governo...

Il lavoro che è di fronte a Napolitano ed alle forze politiche, dunque, resta difficile. Il primo passo, però, è compiuto: e due presidenze su quattro, sono assegnate. Resta da trovare una soluzione per le tessere più difficili dell’intero puzzle: capo del governo e Quirinale. Non sarà facile, e il tempo stringe. Non solo stringe per chi vuole tornare alle urne già a giugno: stringe soprattutto per le risposte urgenti da dare a un Paese squassato da una crisi economica e sociale che pare aggravarsi ogni giorno di più.

da - http://lastampa.it/2013/03/17/cultura/opinioni/editoriali/ma-la-strada-resta-in-salita-uowZ2EiiAhjLxeVvy9QTAP/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La solitudine del leader e i tanti malumori sopiti
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2013, 04:41:53 pm
Elezioni Politiche 2013
26/03/2013

La solitudine del leader e i tanti malumori sopiti

D’Alema ieri era a Parigi, Veltroni a casa con problemi di salute.

Dai big non sono arrivati segnali di particolare incoraggiamento a Bersani

Partite diverse nel Pd, nessuna (per ora) dichiarata

Federico Geremicca
Roma


Venerdì 22 marzo magari era tardi, Bersani ebbe l’incarico al calar del sole e forse qualcuno non ebbe tempo o era impegnato in riunioni chissà dove. Ma poi vennero il sabato e la domenica: e tutto, però, continuò a tacere. Silenziosa Rosy Bindi, silenzioso Massimo D’Alema, zitti altri leader del peso di Walter Veltroni e Franco Marini. A volte, la solitudine di un leader la si può far trasparire anche così: evitando qualunque commento, e perfino un semplice augurio - un in bocca al lupo - al segretario che parte in guerra per la sua missione impossibile. 

 

Anche la Direzione di ieri - che pareva esser diventata la sede madre di ogni decisione, il luogo in cui il Pd avrebbe dovuto dire «o Bersani o morte», ha trasmesso la stessa sensazione: un solo intervento, meno di un’ora in tutto (comprese introduzione e replica), assenze numerose e alcune eccellenti, Renzi (a fare il sindaco), D’Alema (a Parigi per impegni), Veltroni (ancora con qualche problema di salute) e si potrebbe continuare. Qualcuno si attendeva battaglia intorno alla domanda delle domande: ma se Bersani fallisse, che si fa? La battaglia non c’è stata: tutto rinviato alla prima occasione utile...

 

Non è un mistero, infatti, la circostanza che nel Pd le acque siano agitate e molti non abbiano condiviso granché la linea proposta da Bersani subito dopo il voto: e cioè, un governo per il cambiamento, che vuol dire mai più con Berlusconi, a meno che nella partita non ci siano anche i voti di Beppe Grillo. E ancor di meno hanno condiviso l’approdo che il segretario vorrebbe per tale linea: se io fallisco si torna al voto. Qualcuno (D’Alema) non ha condiviso per ragioni politiche, considerando un errore dire pregiudizialmente no ad un confronto con il Pdl. Altri non hanno condiviso - ma hanno taciuto - per ragioni che vedono sommate perplessità politiche e delusioni e rancori difficili da digerire.

 

Non c’è da scandalizzarsene, visto che la strategia che ha portato Bersani fino all’incarico di formare un governo, ha lasciato morti e feriti nel quartier generale del Pd. C’erano state - all’inizio - «rinunce elettorali» (Veltroni, D’Alema, Turco...) faticose da metabolizzare; poi la vicenda dei nuovi presidenti di Camera e Senato (con la grande delusione subita da Dario Franceschini e Anna Finocchiaro), infine l’elezione dei nuovi capigruppo, con la scelta a sorpresa di Zanda e Speranza , che ha infoltito la schiera di chi oggi ce l’ha con Bersani. Ma poiché - come Enrico Letta ha annotato aprendo la Direzione - «il tentativo di Bersani senza unità del Pd è impossibile», nemmeno ieri malesseri e dissensi sono venuti allo scoperto. E in fondo, solo di questo si tratta: di farli emergere. Perché che esistano, Bersani lo sa: meglio ancora, lo considera scontato. Del resto, far «girare la ruota» - come il segretario ripete - è operazione spesso dolorosa. E talvolta perfino rischiosa.

 

E così, il Pd osserva Bersani alle prese con la sua missione impossibile e lo fa con una passione e una partecipazione impalpabili. Cosa spera la maggioranza del partito? Difficile dirlo, in considerazione delle tante partite aperte tra i democratici (dal Quirinale fino alla possibilità di elezioni a giugno). E in fondo, la forza del segretario oggi sta soprattutto qui: nelle debolezze e nelle divisioni di chi - più o meno scopertamente - lo avversa. C’è chi vorrebbe che il governo nascesse (i bersaniani) ma magari per durare pochi mesi (è quel che sperano i «giovani turchi» ed i renziani); c’è chi vorrebbe che il governo non nascesse affatto e se ne varasse uno «del Presidente» (i veltroniani, i dalemiani e gran parte di quella che fu la maggioranza che elesse Bersani e lo ha poi sostenuto alle primarie), e c’è - infine - chi direbbe sì a qualunque ipotesi che tenga Renzi lontano (ma fino a quando?) dal quartier generale...

 

Una pentola a pressione, insomma, nella quale alle delusioni da «ruota che gira» si vanno sommando preoccupazioni politiche e timori personali. Ma è già noto a tutti il passaggio nel quale il coperchio della pentola potrebbe saltare: l’eventuale naufragio del tentativo Bersani. A quel punto, il Pd si ritroverà di fronte a un bivio micidiale: seguire Napolitano nel probabile tentativo di dare comunque un governo al Paese o stare sulla linea del segretario (dopo di me, solo il voto). Difficile dire come finirà: ma secondo alcuni, in nome della chiarezza,sarebbe già molto farlo cominciare... 

da - http://lastampa.it/2013/03/26/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/la-solitudine-del-leader-e-i-tanti-malumori-sopiti-iTm5augKE8RuN2xampPU1K/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il cruccio del segretario: non aver potuto usare l’asso
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 11:56:06 am
Elezioni Politiche 2013

29/03/2013 - chiusa una fase

Il cruccio del segretario: non aver potuto usare l’asso


Il rammarico è che il semestre bianco gli ha tolto la carta vincente

Federico Geremicca
Roma

La cravatta di traverso, la giacca sbottonata, la faccia un po’ sgualcita. Quando poco dopo le sette della sera Pier Luigi Bersani si è affacciato alla tribunetta del Quirinale, il cosiddetto «linguaggio del corpo» non lasciava presagire nulla di buono.

 

E invece il leader Pd - il suo tentativo, anzi - barcolla ma è ancora in piedi: e solo stasera, in questo Venerdì di Passione, se ne conoscerà la sorte ultima e definitiva. 

 

I margini, onestamente, sono esigui, sempre più stretti: ma se c’è una cosa che può esser data per certa, è che Bersani non arretra, non rinuncia e non si arrende. E dopo il colloquio di oltre un’ora col Capo dello Stato, s’è lasciato andare ad uno sfogo intorno alle ragioni che hanno minato (e forse addirittura già affondato) il suo tentativo di fare un governo: «Sarebbe stato tutto diverso con un Presidente nella pienezza dei suoi poteri - ha ripetuto ai suoi -. Avessimo avuto un Capo dello Stato in condizione di sciogliere il Parlamento, certo non avrebbero menato il can per l’aia trovando pretesti di ogni tipo». 

 

Corrucciato. Preoccupato. E soprattutto molto deluso: «Siamo arrivati vicinissimi all’obiettivo. Mancava, anzi manca, solo un passo - ha insistito con i suoi - ora vediamo se Napolitano ci aiuta a farlo. Ma al Presidente ho dovuto per onestà dire che, se io fallissi, sul dopo bisognerà ragionare con attenzione, senza dare nulla per scontato: il Pd non è disposto a sostenere qualunque governo, ed è vincolato ai deliberati della sua Direzione».

 

Fonti del Quirinale negano qualunque contrasto nel colloquio tra Napolitano e Bersani: «Del resto - spiegano - il segretario del Pd è venuto a resocontare circa lo stallo determinatosi, rimettendosi alle valutazioni del Presidente: non ha chiesto altro tempo, non ha sollecitato voti in Parlamento, non ha alzato barricate sul dopo, in caso di fallimento». In cambio, se si può dir così, il Capo dello Stato vedrà - con consultazioni brevissime - se è possibile rimuovere quello che, a detta di Bersani, appare l’ostacolo maggiore incontrato: e cioè le garanzie che Berlusconi solleciterebbe circa il nome del futuro presidente della Repubblica.

 

Si tratta, in tutta evidenza, di una questione della massima delicatezza. Si immagina, però, che un tale problema possa certo esser posto ad un presidente del Consiglio pre-incaricato: ma assai più difficilmente ad un Capo dello Stato in carica. Berlusconi potrà naturalmente porre la questione in altro modo: e dire, per esempio, che il Pd ha già eletto i presidenti di Camera e Senato, pare voglia eleggersi quello della Repubblica e dunque non può pretendere anche Palazzo Chigi. Ma è appunto questo quel che Napolitano intende capire: e cioè, se con un nome diverso da quello del segretario del Pd, Berlusconi e la Lega sono davvero pronti - come ripetono da giorni - a far nascere un governo o se invece il loro “piano a” non siano, in realtà, le elezioni anticipate.

 

Napolitano al lavoro, dunque, per provare ad evitare - se possibile - il naufragio del tentativo-Bersani. Al leader Pd, dunque, non resta che attendere: ma si tratta di un’attesa per nient’affatto rassegnata: «Chiunque dovesse venire dopo di me, compreso Saccomanni - assicurava in serata il segretario dei democratici - dovrà prima di tutto conquistare i voti dei 480 parlamentari della nostra coalizione: voti che io ho già. E non ci vengano a proporre governissimi, magari mascherati dietro un altro nome, perché lì il mio no è già scritto. C’è mezzo Pd che non voterà mai per una sorta di riedizione del governo Monti e che non vuole rompere la coalizione con Sel, visto che Vendola per quella via non ci seguirebbe...».

 

Appeso a un filo, insomma. E, come si dice da giorni, completamente nelle mani di Berlusconi. «Magari - annotava a fine giornata Bersani - ci ripensa e capisce che un “governo del Presidente” rischia di essere un pasticcio anche per lui». Lo diceva con la solita voce profonda: ma sembrava più un auspicio, stavolta, che una possibilità concreta, sulla quale puntare il famoso cent...


da - http://lastampa.it/2013/03/29/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-cruccio-del-segretario-non-aver-potuto-usare-l-asso-Za7UxjqQ3xLglmoYZ8MN4K/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il valore di un confronto a tutto campo
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2013, 06:43:44 pm
Editoriali
10/04/2013

Il valore di un confronto a tutto campo

Federico Geremicca


Settanta minuti l’uno di fronte all’altro, il giaguaro e l’uomo che lo voleva smacchiare. Doveva essere un incontro importante - se non decisivo - per avviare lo sblocco dello stallo post-voto, e non sarebbe andato male. Ma c’è da sperare, in verità, che le dichiarazioni rese dopo il faccia a faccia siano - come spesso e comprensibilmente accade - fuorvianti e non attendibili: in particolare per quel che riguarda il fatto che nel tanto atteso incontro non si sarebbe discusso del governo da varare.

 

Infatti, a quarantatrè giorni dal voto e in una situazione che appare irrimediabilmente ferma al palo, quel che forse si può cominciare a dire è che se tutto è ancora bloccato, questo in parte - forse in gran parte - è determinato da un evidente «gap di dialogo», cioè da una indisponibilità - o impossibilità - reciproca ad avviare un confronto capace di arrivare ad una soluzione. Tutti sono rimasti tenacemente fermi alle primissime dichiarazioni successive al voto e, come in una sorta di incomprensibile prosecuzione della campagna elettorale, non uno sforzo è stato fatto per tentare di avvicinare posizioni per altro non sempre e non totalmente inconciliabili.

 

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: lo stallo perdurante, l’impantanamento del tentativo-Bersani, l’elezione di due presidenti del Parlamento che - al di là delle qualità personali - è difficile definire «largamente rappresentativi» e il buio totale per quel che riguarda il futuro presidente della Repubblica e il governo da mettere in campo in una fase così complicata per il Paese. Che tale risultato sia il frutto della difficoltà a smaltire le scorie elettorali, piuttosto che l’effetto della presenza «grillina» (niente trattative, Grillo ci guarda!) è difficile dire. Quel che è certo, invece, è che proprio la necessità di rinnovare contemporaneamente tutte le cariche istituzionali (dal Parlamento al governo, fino al Quirinale) offriva - e in parte ancora offre - la possibilità di un confronto ad ampio spettro e, naturalmente, di una intesa. 

 

Ai tempi della Prima Repubblica, una situazione post-voto così sarebbe stata considerata una sorta di manna caduta dal cielo. Con ben quattro presidenze da attribuire, non solo il Cencelli (manuale della «corretta» lottizzazione) ma perfino il buonsenso, avrebbero rappresentato i fari per una rapida - e soddisfacente per tutti - uscita dalle difficoltà. Invece, l’aver sostituito alla parola confronto la parola «inciucio», e aver deciso di affrontare con filosofia «maggioritaria» una geografia post-voto che reclamava un approccio assolutamente «proporzionale», ha portato in un vicolo cieco.

 

Si era inteso, però, che la seconda e più importante fase delle scelte da compiere (Quirinale e Palazzo Chigi) sarebbe stata affrontata con logica diversa: che qualcuno potrebbe e potrà comunque liquidare come «spartizione», e che invece sarebbe assai più opportuno (e corretto) definire di ricerca di equilibrio (politico e istituzionale) tra le forze politiche. Si apprende, invece, che così non sarebbe: e che si intenderebbe continuare a sfogliare la margherita petalo per petalo. Il rischio - alla luce di quanto accaduto fino a ora - è che, alla fine, il presidente della Repubblica possa non esser considerato di «garanzia» da tutti: con la conseguenza che il governo che dovrebbe nascere subito dopo, possa non veder la luce.

 

Discutere contestualmente di Quirinale e governo non vuol dire necessariamente lottizzare, spartire, violare regole democratiche: a volte, rischia perfino di esser più vero il contrario. Discutere contestualmente degli assetti della Repubblica vuol dire (in teoria, certo) andare alla ricerca degli equilibri necessari - perchè reclamati dal responso elettorale - ad avviare su basi meno precarie una legislatura assai incerta. Del resto, la controprova è semplice: e basta guardare all’inasprimento della situazione dopo l’elezione di due presidenti (Grasso e Boldrini) «di sinistra». I fatti - oltre a quanto già accaduto - solleciterebbero un cambio di schema, alla luce del sole. Manca poco più di una settimana all’inizio delle votazioni per il nuovo Capo dello Stato. Tempo ne rimane. La speranza è che venga utilizzato al meglio...

da - http://lastampa.it/2013/04/10/cultura/opinioni/editoriali/il-valore-di-un-confronto-a-tutto-campo-Er9gXDCKpDFjNpmcUi9cqJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il Settennato e la lezione del dialogo
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2013, 11:19:01 pm
Editoriali
13/04/2013

Il Settennato e la lezione del dialogo

Federico Geremicca

Quando il 10 maggio 2006 Giorgio Napolitano fu eletto Presidente della Repubblica, tanto il suo profilo politico quanto la modalità di elezione, lasciavano presagire l’ascesa al Colle più alto di un leader che - secondo una lettura un po’ stereotipata - difficilmente avrebbe potuto esser qualcosa di diverso da un «Presidente di parte». Per la prima volta nella storia repubblicana, infatti, un ex comunista diventava Capo dello Stato; e lo diventava con un consenso tanto parziale da farne quasi un «Presidente di minoranza»: appena 543 voti su 1009 aventi diritto (il predecessore, Ciampi, ne ottenne 707; e Scalfaro, ancor prima, 672).

 

Sette anni sono lunghi, ma è difficile immaginare che il consenso di cui è circondato oggi Giorgio Napolitano - con le ripetute richieste di rimanere al suo posto - sia semplicemente il frutto del tempo che passa e cancella dolori e rancori: e in fondo, proprio la giornata di ieri - atto conclusivo della sua presidenza - ha in sé e ripropone la chiave vera di quell’imprevedibile crescita di consenso, di fiducia e di popolarità.

 

Si tratta di una ricerca continua: che si fonda su un metodo - quello del dialogo e del confronto - per il raggiungimento di un obiettivo dichiarato, e cioè il massimo dell’unità possibile tra le forze politiche e sociali ogni volta che si affrontano scelte-chiave per il futuro del Paese. 

 

È per questo che Giorgio Napolitano ieri era soddisfatto mentre illustrava il lavoro delle due Commissioni dei cosiddetti saggi: personalità distanti tra loro per profilo, idee politiche e formazione che pure hanno prima ricercato e poi trovato intese importanti su questioni importanti. «E’ il suo ultimo lascito da Presidente: la conferma che alla fine - spiegava ieri uno dei più stretti collaboratori del Capo dello Stato - pur partendo da posizioni distanti, ce la si può fare». La condizione, naturalmente, è voler discutere davvero del merito dei problemi: mettendo da parte una logica di contrapposizione politica esasperata che, a urne chiuse, non può che produrre danni su danni. 

 

Purtroppo per Napolitano, è proprio in questo clima di contrapposizione esasperata che ha invece dovuto esercitare la parte finale del suo settennato. Verrà naturalmente il tempo per bilanci che siano esaustivi circa il carattere e il profilo della presidenza che si conclude. Ma già oggi si può dire che, proprio in ragione di quel clima, le amarezze non sono mancate: e che le gioie - le soddisfazioni, meglio - sono apparse a Giorgio Napolitano ancor più grandi proprio per le difficoltà nelle quali, giorno dopo giorno, sono maturate.

 

Gli ultimi mesi, in particolare, hanno riservato al Presidente della Repubblica sorprese forse inaspettate e dispiaceri (per usare un eufemismo) che non gli sarà facile dimenticare. Durissimo - e tristissimo - per esempio, è stato il confronto, con la Procura di Palermo intorno alla cosiddetta trattativa Stato-Mafia: vedersi indicare come l’uomo che intendeva «ostacolare la ricerca della verità», mettendo i bastoni tra le ruote ai magistrati siciliani, ha rappresentato una ferita profonda, che solo il tempo - forse - rimarginerà. Ed anche la scelta di Mario Monti di abbandonare il suo profilo super partes per schierarsi e «salire» in politica, in verità, non fu compresa dal Capo dello Stato, che la ritenne - e forse la ritiene ancora - un indebolimento rispetto al ruolo assegnatogli ed alle future potenzialità.

 

L’esser riuscito, invece, a fare delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia un momento davvero importante per il Paese, un’occasione cioè di riflessione sul significato di quella data lontana, è forse la maggiore soddisfazione di questi sette anni. Che si chiudono, però, con l’amarezza forse più difficile da accettare: il non esser riuscito a risolvere lo stallo di una crisi incattivitasi, dopo il voto, ogni giorno di più. La scelta di insediare due Commissioni di lavoro - contestata da qualcuno come una presunta «perdita di tempo» - è l’ultimo lascito di Napolitano al Paese e, soprattutto, al suo successore. Ora ci sono basi programmatiche da cui ripartire, c’è un confronto avviato e da continuare. Il lascito di Giorgio Napolitano è questo: un metodo, con in più una indicazione. «Pur partendo da posizioni distanti, ce la si può fare». Sempre che, naturalmente, ce la si voglia fare...

da - http://www.lastampa.it/2013/04/13/cultura/opinioni/editoriali/il-settennato-e-la-lezione-del-dialogo-MmvpGv1tHxFZTCeBCNwDmJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il Pd tentato dall’abolizione delle “primarie di partito”
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2013, 11:06:29 pm
Politica
01/05/2013 - retroscena

Il Pd tentato dall’abolizione delle “primarie di partito”

Sergio Cofferati

L’ipotesi: basta elezioni per segretario e parlamentari, solo per il candidato premier

Federico Geremicca
Roma


C’è qualcuno, come Sergio Cofferati, che è furioso e non lo nasconde: «Ora vogliono abolire le primarie per l’elezione del segretario, ed è una follia». 
«In quella trincea - continua Cofferati - non possiamo arretrare nemmeno di un millimetro». C’è qualcun altro, come Arturo Parisi, ulivista della primissima ora, che prima che furioso si dice sconcertato. «Si toccano le primarie che io e Ilvo Diamanti abbiamo definito il “mito fondativo” del Pd: si pensa ad una riforma, insomma, che snatura completamente il Partito democratico». E c’è chi, come Beppe Fioroni, non si appassiona al tema solo perché ha da lanciare un allarme su una questione che viene prima: «Dobbiamo eleggere subito un segretario, altrimenti rischiamo di restare sotto le macerie del governo Berlusconi-Letta: il Pd deve fare sentire la sua voce, con orgoglio, e anche in dissenso dall’esecutivo, se necessario. Poi parliamo di primarie, che il tempo c’è...». 

E questa, dunque, è l’ultima novità che va maturando in casa Pd: niente più primarie per eleggere il segretario del partito e forse niente più primarie (ma questa seconda scelta dipenderà molto dal tipo di legge elettorale con la quale si tornerà al voto) forse niente più primarie, dicevamo, nemmeno per selezionare i candidati al Parlamento. Evocate come elemento costitutivo del Partito democratico ed esaltate come lo strumento capace di favorire il massimo di partecipazione dei cittadini, le primarie rischiano insomma di finire in soffitta. Un po’ in ragione delle cose che vanno male, un po’ per l’irrompere del ciclone-Renzi, la scelta sembra fatta: ma non passerà senza polemiche, a quanto par di capire sondando gli umori qua e là.

Prima di tutto, però, occorre spiegare le ragioni alla base dell’avviata marcia indietro. Per quanto riguarda le primarie per l’elezione del segretario (le prime le vinse Veltroni, nel 2007; le seconde Bersani, nel 2009) la motivazione è che avendo il Pd intenzione di tornare indietro e sdoppiare le figure di segretario e di candidato-premier (tutt’ora, per Statuto, coincidono) sarà scelto con le primarie solo il candidato per Palazzo Chigi, mentre il segretario tornerà ad essere eletto dal Congresso. Diverso invece il discorso (meno definito) per quanto riguarda la scelta dei parlamentari da candidare. Qui pesa, inutile dirlo, la prova fornita dai gruppi del Pd durante le votazioni per eleggere il nuovo presidente della Repubblica: centinaia di franchi tiratori in campo, sull’onda della protesta che arrivava dalla periferia prima sul nome di Marini e poi sulla mancata convergenza su quello di Stefano Rodotà.

Che l’«insubordinazione» potesse nascondere problemi e dissensi politici, è ipotesi finita presto (e consolatoriamente) in secondo piano: l’indice accusatore si è infatti subito puntato verso la debolezza e la permeabilità degli eletti, perchè scelti - appunto - con le primarie. Pochi hanno annotato l’evidente contraddizione con quanto affermato prima e dopo la campagna elettorale da Pier Luigi Bersani: con le primarie abbiamo ucciso il Porcellum, i nostri parlamentari li scelgono i cittadini ed abbiamo i gruppi più giovani, rinnovati e pieni di donne. Ma tant’è... La revisione pare avviata anche su questo fronte, e poco importa che il Pd sembri somigliare sempre più alla famosa tela di Penelope, dove regole, alleanze e criteri di selezione della classe dirigente vengono fatti e disfatti continuamente, sotto gli occhi perplessi di iscritti ed elettori.

«Si danno questi cambiamenti per scontati, ma non se ne è mai discusso», lamenta Parisi. È vero, ufficialmente il tema non è ancora stato posto, ma solo per la buona ragione che ricordava all’inizio Fioroni: e cioè che c’è da rimettere in piedi, in qualche modo, un gruppo dirigente. E qui, se possibile, la faccenda diventa ancor più confusa e delicata. Che fare? Un segretario-traghettatore fino al Congresso? Un segretario «vero», da insediare ora e confermare in autunno? O addirittura un semplice «comitato di garanti»?

Tutte le ipotesi sono in campo: ma non tutti i candidati in campo sono disposti ad accettare qualunque ipotesi. Guglielmo Epifani, di buona mattina su un divanetto di Montecitorio, per esempio dice: «Sono interessato solo se c’è una prospettiva: non è che voglio finire imbalsamato fino a ottobre e poi chi si è visto si è visto». Gianni Cuperlo è perplesso, molto tentato di tirarsi fuori. E Anna Finocchiaro, nome forte e in ascesa, attende di capire verso che soluzione si va. La confusione è grande, ma una decisione andrà pur presa: «Ci vuole subito un segretario, per un mese, per tre, per sei, decidano loro, ma ci vuole subito - insiste Fioroni -. Berlusconi la fa da padrone e non abbiamo una voce che dica ai nostri come la pensa il Pd. Dobbiamo ritrovare l’orgoglio di un partito forte e autonomo, altrimenti rischiamo di diventare il partito del governo: una cosa che era inaccettabile già ai tempi della vecchia Dc...».

da - http://lastampa.it/2013/05/01/italia/politica/il-pd-tentato-dall-abolizione-delle-primarie-di-partito-Vg3SFjjg541BgkNaNrXILJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - I funerali della Prima Repubblica
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2013, 05:38:43 pm
Politica
08/05/2013 - celebrazioni

I funerali della Prima Repubblica

Ieri, con le esequie del “Divo Giulio”, si è chiuso per sempre un certo modo sobrio e discreto di intendere la politica

Federico Geremicca
Roma

L’urlo del passante - solo un mezzo urlo, in verità - sale dal fondo della piazza, mentre la folla esce piano dalla basilica di San Giovanni dei Fiorentini: «Ahò, ce manca solo quello der bacio, Totò. Quegli artri, invece, ce stanno tutti».


Sono le sei della sera, il sole trafigge a fatica nuvole scure e spesse, e lo «spiritaccio romano» - che è stato il suo spirito per una vita - stavolta colpisce lui: ma non falsifica la realtà. È vero, intorno al feretro di Giulio Andreotti - Belzebù, il Divo Giulio o «la volpe che finirà in pellicceria», come profetizzò Bettino Craxi - «ce stanno tutti»: e prima di tutti, inevitabilmente, i «nemici» di una vita, i democristiani, ovunque siano finiti, comunque stiano in salute e qualunque cosa pensassero di lui. 

 

Si scriverà - ed è giusto scriverlo - che nella bella basilica a due passi dal Tevere, ieri si sono finalmente celebrati i funerali della Prima Repubblica, perché nessuno come lui - come Andreotti - l’ha percorsa dall’inizio (1947: sottosegretario di De Gasperi a Palazzo Chigi) fino alla fine (1992: presidente del Consiglio). Si dibatterà - ed avrà un senso farlo - intorno al fatto che, assieme a lui, è un pezzo d’Italia quello che se ne va. Ma la morte di Giulio Andreotti, compagno di strada degli italiani negli Anni 40, ’50, ’60, ’70, ’80 e addirittura ’90, è qualcosa di più ma anche di meno, contemporaneamente: è come la fine del 45 giri e dei dischi in vinile, come la morte della vecchia e cara lampadina, come la fine di Carosello, cancellato dalla Rai 36 anni fa e, guarda il caso, tornato in onda l’altra sera, il 6 maggio, proprio nel giorno della morte del Divo Giulio. È qualcosa di abituale, che se ne va. Qualcosa che, all’improvviso, in qualche momento, inspiegabilmente mancherà. 

 

È un’epoca, non solo un modello di Repubblica, quella che si chiude. È un’idea del mondo e della politica. È uno stile di gestione del potere, del quale - ed è tutto dire - a volte si sente perfino la mancanza: la discrezione, la sobrietà, la non ostentazione. Sui gradoni della Basilica di San Giovanni dei Fiorentini, a pochi passi dalla casa di Andreotti, in corso Vittorio Emanuele, Stefano Andreani - storico portavoce del sette volte presidente del Consiglio - racconta: «Viveva in quell’appartamento dal 1960. Lo comprò con un mutuo trentennale. L’ultima rata gliel’ho pagata io nel 1990...». Non erano tempi in cui gli amici compravano a tua insaputa un appartamento di fronte al Colosseo. Magari succedeva di peggio, nel 1960: ma con discrezione, senza ostentazione, con sobrietà...

 

Arriva Gianni De Michelis. Tra la ressa si fanno largo, Gianni Letta, Gasparri e Mario Monti. Ma arrivano soprattutto loro, i democristiani, divisi in mille partiti, va bene, un po’ al centro, un po’ a destra e un po’ a sinistra: ma accorsi tutti qui per seppellire un altro pezzo di sé. C’è l’amico-nemico di una vita, Ciriaco De Mita; c’è il sodale del più micidiale patto di potere che la Repubblica (la Prima ma anche la Seconda) ricordi: cioè Forlani, l’ultima iniziale vivente di quel Caf (con Craxi e Andreotti) che dall’89 al 1992 si spartì le scarne spoglie di quel che restava di un sistema al capolinea; c’è Emilio Colombo, l’unico sopravvissuto tra i costituenti; ci sono Casini ed Enzo Scotti, Mastella e Zamberletti, Fioroni e Riccardi, Sanza, D’Antoni e si potrebbe continuare. Ma ci sono prima di tutto loro, gli andreottiani: la corrente più «cattiva», imperscrutabile e meglio organizzata della fu Dc. 

 

Ci sono quelli che ci sono ancora, naturalmente, e mancano - dunque - «pezzi da 90» come Vittorio Sbardella, Salvo Lima e Franco Evangelisti. Ma tutti gli altri, i «responsabili di settore» per conto del Divo Giulio, sono qui: Paolo Pomicino, longa manus in economia; Roberto Formigoni, delegato ai rapporti con Cl; Francesco D’Onofrio, addetto alle riforme... Sono commossi, ma come si sarebbe commosso il loro capo: gli occhi degli andreottiani restano asciutti, come quelli degli altri democristiani...

 

Tra le corone di fiori spicca quella del «condominio 326», gli amici di palazzo del senatore; è messa lì, segno di normalità, tra quelle del Capo dello Stato e dell’ambasciata del Nicaragua. Si vede qualche volto tv, ex manager delle partecipazioni statali, molte suore e tanti preti. Ma si vede, soprattutto, la Roma di Andreotti, tassisti, pubblico impiego, insegnanti e commercianti ai quali - se anche appena tornato dagli Usa o dall’Urss - Belzebù dedicava tutti i sabato mattina, ricevendoli nell’ufficio di San Lorenzo in Lucina. È l’Italia Anni 60, facce di un boom economico che sognano di notte, cappotti logori e tanti «grazie Giulio, politici come te non ne verranno più». 

 

Alle sei della sera è tutto finito, e il lavoro degli storici può iniziare. Non sarà facile districarsi tra papi e mafiosi, banchieri e ambasciatori, cancellerie, logge segrete e trasferte siciliane. Che raccontare di quell’uomo capace di governare con la destra, prima, e con il Pci, poi? E che statista può esser stato un primo ministro «amico degli arabi» e per cinquant’anni «garante degli americani»? Lo dirà la storia, forse. Per intanto, incurante dell’effetto retrò, qualcuno srotola sui gradoni della basilica una vecchia bandiera col simbolo Dc. 

 

Già, la Dc. Sconfitta dalla storia, forse, e morta anch’essa, come il Psi, dentro la bufera di Tangentopoli. Un massacro, dal ’92 in poi. Tangenti, fondi neri, finanziamenti occulti... Da Forlani a Scotti, da Gava a Pomicino, uno dopo l’altro caddero tutti accompagnati dal grido «ladri-ladri». Giulio Andreotti invece no: lui intanto faceva i conti con la grande mafia e perfino con un assassinio. Un democristiano davvero diverso, in fondo: se più nel bene o più nel male lo dirà la storia. Quando forse non interesserà più...


da - http://www.lastampa.it/2013/05/08/italia/politica/i-funerali-della-prima-repubblica-uXtO52wQ8HkBcIgfytnFCN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Da Epifani un aiuto al premier
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2013, 05:43:35 pm
Editoriali
11/05/2013

Da Epifani un aiuto al premier


Federico Geremicca


Alla fine, dunque, la scelta è caduta su Guglielmo Epifani, uomo saggio, prudente, esperto, una vita in Cgil e tra i lavoratori. È a lui, infatti, che i capicorrente del Pd hanno deciso di affidare le sorti del Partito democratico nel momento più difficile dalla sua fondazione ad oggi. Se stamane i membri dell’Assemblea nazionale ratificheranno questa scelta col voto, una fase travagliatissima sarà dunque chiusa: e il Pd, finalmente di nuovo con una guida, potrà tornare a guardare ai problemi del Paese, avendo davanti qualche mese per cercare di avviare a soluzione i propri.

 

Il percorso che ha portato alla scelta dell’ex segretario della Cgil non è stato - però - né facile né lineare, e perfino l’approdo è circondato da ambiguità che solo il tempo potrà sciogliere. Secondo alcuni, infatti, Guglielmo Epifani ha accettato «per senso di responsabilità e spirito di servizio» l’incarico di reggente-traghettatore, e al Congresso del prossimo autunno non potrà candidarsi alla segreteria perché questo è l’impegno che avrebbe assunto con i maggiorenti del partito; secondo altri, al contrario, Epifani sarà un segretario a tutti gli effetti.

 

E avrà pieni poteri: e nel discorso che dovrebbe tenere oggi ai membri dell’Assemblea nazionale, non annuncerà affatto che considera il suo mandato concluso con l’arrivo dell’autunno.

 

È un nodo che solo il tempo e i fatti, come dicevamo, potranno sciogliere: per ora va registrato che l’ingresso in campo di Epifani è stato salutato da un entusiasmo composto, da molte silenziose perplessità e da alcuni espliciti dissensi: prima di tutto da parte dei militanti e dei giovani deputati di OccupyPd, che oggi manifesteranno alla Fiera di Roma (dove si svolge l’Assemblea) per protestare contro lo stato e la linea del partito. «Dobbiamo riprendere in mano il Pd - ha spiegato per tutti Fausto Raciti, leader dei giovani democratici - perché questa classe dirigente è finita». Non saranno tempi facili, quelli verso i quali si incammina Guglielmo Epifani: a partire già da oggi, con un voto - quello dell’Assemblea - che dopo le prove di tenuta fornite dai democratici nella Grande Guerra per il Quirinale, preoccupa (e non poco) gli sponsor dell’ex segretario della Cgil.

 

Però - almeno - qualcosa ricomincia a muoversi, dopo settimane e settimane di avvitamento e paralisi, con la base del partito in evidente sofferenza. Il Pd, infatti, torna in condizioni di piena operatività: ed a rallegrarsi per la scelta (e per il nome individuato) è prima di tutto Enrico Letta, capo di un governo che proprio i democratici sembrano disconoscere ogni giorno di più. La storia minore della politica italiana, infatti, racconta che nessun esecutivo può avere lunga vita se il partito di riferimento del premier non è saldamente unito nel sostegno al governo. E figurarsi, dunque, che futuro poteva immaginare per sé Enrico Letta, con Berlusconi in campo a dettare l’agenda delle cose da fare (ed a rivendicarle) ed un Pd silente - quando non critico - e interamente alle prese con la propria crisi.

 

Ora ci sono - o almeno così pare - le condizioni perché qualcosa cambi. Guglielmo Epifani è un convinto sostenitore dell’esperienza di governo avviata, ed ha autorevolezza sufficiente per convincere il Pd che il tempo dei suicidi (o dei tentati suicidi) è finito: e che un «programma politico» che avesse all’ordine del giorno l’abbattimento di un governo a guida democratica - seppur varato in stato di necessità - sarebbe l’ultima e forse irreparabile follia. Enrico Letta, dunque, potrebbe cominciare da domani a muovere anche l’altra gamba sulla quale si regge il suo esecutivo: e l’attività del governo e il suo equilibrio complessivo non dovrebbero che giovarsene.

 

Ma naturalmente, parlando di un Pd mai ripresosi dal mancato successo elettorale, ogni prudenza è giustificata e la cautela è d’obbligo: a partire dai lavori dell’Assemblea di stamane. Bisognerà vedere con quanti consensi Epifani sarà eletto (se questo avverrà...); e occorrerà ascoltare con attenzione gli interventi che verranno svolti. Dovrebbero prendere la parola tutti i big, a partire dal neo-premier, naturalmente, passando per Bersani, Bindi, probabilmente Renzi, forse Finocchiaro e Franceschini. Al di là di chi andrà alla tribuna per esprimere un esplicito dissenso, sarà interessante vedere in che modo e con che toni sarà espresso il consenso. Sapendo che potrebbe bastare poco per render incandescente il clima all’interno di un partito dove quasi nessuno, ormai, si fida più di nessuno... 


DA - http://lastampa.it/2013/05/11/cultura/opinioni/editoriali/dall-ex-cgil-un-aiuto-al-premier-ZNnj1nqItIAY8oorFemh6L/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi-Letta, amici sfidanti
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2013, 05:13:30 pm
Editoriali
22/05/2013

Renzi-Letta, amici sfidanti

Federico Geremicca


Matteo Renzi è sorpreso. Oppure simula così bene la sorpresa, da farla sembrare genuina. «Quest’idea che io vorrei una legge elettorale nuova e poi subito le elezioni - dice - è una balla. E l’altra sera, del resto, a “Porta a Porta” è stato più Della Valle che io a insistere su questo punto...».

 

Sarà certamente così: un equivoco e qualche esagerazione. Ma allora prudenza avrebbe voluto che il sindaco-ex rottamatore - capace ad ogni uscita di mandare letteralmente in fibrillazione il Pd - calibrasse meglio i toni e chiarisse quel che ci sarebbe da chiarire. E invece, ieri sera se ne è andato a Zapping (Radiouno) e ha perfino rincarato un po’ la dose: «La durata del governo - ha spiegato - non è una questione inutile come la scadenza dello yogurt. Se fa le cose, bene: se non le fa, vada a casa il prima possibile». Chiarendo, se non si fosse inteso, che «è fondamentale che il governo faccia quello che può fare nel più breve tempo possibile».

 

Già, il tempo: che in politica non è mai una variabile indipendente. E figurarsi - allora - se lo è per Renzi, in campo dalle primarie avviate a settembre (ormai fa otto mesi...) senza alzare un istante il piede dall’acceleratore. Stare sulla corda non è facile: e non lo è a maggior ragione se non sai per quanto tempo dovrai rimanerci, e sei lontano dai palazzi dove si decidono tempi e modi di quel che sarà. Un certo nervosismo, una certa ansia, è giustificata: anche perchè nella testa di Matteo Renzi vanno lentamente - ma necessariamente - a posto i pezzi del puzzle di addirittura due campagne elettorali, diversissime tra di loro.

 

«Sto lavorando come un matto, qui a Firenze», spiegava ieri in un rapido scambio di battute. «C’è ancora molto da fare e stiamo appunto cercando di farlo». Il governo - infatti - potrà durare «12, 24 o perfino 36 mesi» (come annotava a Zapping): ma la prossima primavera a Firenze si vota di sicuro, ed è un appuntamento che Renzi non può permettersi di snobbare. Ma avviare la campagna per Firenze senza sapere se per caso, all’improvviso, bisognerà invece impegnarsi nella sfida per la conquista del Paese, non è semplice. Come certe indecisioni e certi cambi di obiettivo, dimostrano a sufficienza.

 

Si era detto che avrebbe puntato alla presidenza dell’Anci; poi si è sostenuto che avrebbe avanzato la sua candidatura per la guida del Pd; infine che era tentatissimo dal provare a mandare a gambe all’aria la missione di Enrico Letta. Nulla di questo - anche se spesso avallato da Renzi stesso - è accaduto. Ed è in particolare sul rapporto con Enrico Letta ed il suo governo che il sindaco di Firenze sembra attentissimo alle critiche. «Con Enrico ci sentiamo spessissimo. Non ci sono problemi, e anzi ci daremo una mano».

 

Nell’incontro di giovedì scorso (Renzi era a Roma, Letta l’ha saputo e lo ha chiamato: «Sono a Palazzo Chigi, libero fino alle 13,30: perchè non vieni e ci facciamo due chiacchiere»?) è sostanzialmente questo che i due hanno scambiato: una mano del governo a Firenze, dove si vota; e la non belligeranza di Renzi nei confronti del governo, almeno fino al Congresso del Pd. È presumibile che i reciproci impegni siano stati assunti con assoluta lealtà: significa molto, certo, ma potrebbe significar poco - invece - col passar del tempo...

 

Pochi nel Pd hanno dimenticato quel che accadde nell’inverno del 2008 al governo Prodi, dopo la nascita del Partito democratico e con un Veltroni fresco di investitura alla guida del neonato Pd... Molti paragonano quella situazione al rapporto Letta-Renzi di oggi. Infatti, quando il governo di larghe intese avrà esaurito il suo compito, si tornerà alle urne ed è difficile immaginare un duello diverso da quello tra «Enrico» e «Matteo» per la conquista della candidatura a premier. Amici oggi, insomma, per poi diventare sfidanti domani. Se le cose andranno bene per l’esecutivo, le chance di Letta naturalmente aumenteranno. Ecco perchè, secondo i più maliziosi, Renzi non vorrebbe durasse a lungo. «Se fa le cose, bene; se non le fa, vada a casa in prima possibile», ripete il sindaco. Appunto... 

da - http://www.lastampa.it/2013/05/22/cultura/opinioni/editoriali/renzi-letta-amici-sfidanti-6KIIZxBy89jJPCjaqLCqII/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Record astenuti Per il governo una prova in più.
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2013, 05:09:41 pm
Editoriali
27/05/2013

Record astenuti

Per il governo una prova in più

Federico Geremicca

Non sono bastati diciannove candidati a sindaco, 1.667 aspiranti consiglieri comunali, alcune altre migliaia in lizza per un seggio nei municipi ed una scheda elettorale lunga nientedimeno che un metro e venti centimetri. E i casi sono due: o nemmeno una tale, gigantesca kermesse messa in piedi per la scelta del nuovo sindaco di Roma è stata sufficiente a motivare i cittadini chiamati alle urne.

 

Oppure – e non ci sentiremmo di escluderlo – è stato proprio quest’ennesimo confuso, discutibile e dispendioso «carnevale elettorale» a contribuire a tener la gente lontana dai seggi.

 

Sia come sia, la Capitale tocca il suo record negativo di partecipazione al voto in una tornata amministrativa: solo il 37,7% all’ultima rilevazione di ieri (ore 22). Che vuol dire quasi venti punti percentuali in meno rispetto alle elezioni di cinque anni fa. E se Roma piange, non è che il resto d’Italia rida. L’affluenza alle urne è infatti precipitata praticamente ovunque attestandosi poco oltre un misero 44 per cento, il che vuol dire quasi sedici punti percentuali in meno rispetto al voto del 2008. Il dato è generalizzato. Riguarda il Nord (Brescia, Sondrio, Vicenza e Treviso registrano flessioni oltre il 20%), il Centro (Pisa -25%, Massa -16%) così come il Sud e le Isole, dove il calo è più contenuto solo perché si partiva da percentuali solitamente assai più basse. Si vedrà oggi, a operazioni di voto concluse, la reale dimensione di questa ennesima crescita dell’astensione. Ma ieri i segnali erano tutti negativi, e tra gli addetti ai lavori (politici e sondaggisti) serpeggiava un certo pessimismo.

 

La politica, dunque, si conferma malata. E la malattia non solo contagia tornate elettorali in genere meno colpite dal fenomeno (quelle amministrative) ma non è arginata nemmeno dalla presenza diffusa di liste del Movimento Cinque Stelle, che si immaginavano capaci di convogliare la disaffezione e la protesta dall’astensionismo al voto per il loro simbolo. Non è accaduto. E non basta. Per i candidati di Beppe Grillo, infatti, la vigilia non sembrava preannunciare risultati particolarmente brillanti: quasi a riprova del fatto che il movimento del comico genovese non solo non «guarisce» la cattiva politica, ma ne viene negativamente contagiato una volta che – agli occhi dei cittadini – ha con essa contatti troppo ravvicinati.

 

Sarebbe il caso che si cominciasse a tener conto sul serio (cioè mettendo in campo risposte) della crescita esponenziale del fenomeno-astensione. Occorre ci si convinca che non si è, ormai, di fronte ad una crisi passeggera – è quel che si immaginò al tempo del suo primo segnalarsi: diciamo dopo Tangentopoli – quanto ad una tendenza che pare sempre più inarrestabile. Convincersene vuol dire operare concretamente per rallentare – se non fermare – una deriva negativa e perfino pericolosa: operare varando leggi elettorali e riforme che riavvicinino il cittadino agli eletti e alle istituzioni, e accelerando sul piano del taglio ai costi della politica (mettendo da parte annunci, promesse e inutili populismi).

 

E non farebbe male lo stesso governo a raccogliere il segnale che arriva da questa sorta di diserzione di massa: il Paese non è fuori dalla crisi e non sta meglio di prima solo perché – dopo mesi di estenuanti scontri e trattative – un governo finalmente è in campo. Conta quel che fa, e come lo fa. Continuare a ripetere ad ogni tornante – che siano le sentenze per Berlusconi o il voto di sette milioni di italiani – che quel che accade «non avrà ripercussioni sul governo» non è un buon modo né per difenderlo né per aiutarne la sopravvivenza. L’esistenza in vita, il governo Letta-Alfano dovrà guadagnarlo sul campo. E la strada, onestamente, appare ancora tortuosa e in salita.

da - http://lastampa.it/2013/05/27/cultura/opinioni/editoriali/record-astenuti-per-il-governo-una-prova-in-pi-n4tJIYqaCu1f9YUq9wiJlN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il flop grillino non illuda i vecchi partiti
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2013, 06:25:09 pm
Editoriali
29/05/2013

Il flop grillino non illuda i vecchi partiti


Federico Geremicca

Si sono fatti amare poco, e questo è fuori discussione. E il loro capo, Beppe Grillo, è il leader più detestato nella «cittadella politica».
In pochi mesi, gli insulti, lo spirito censorio e l’assoluta indisponibilità al confronto, hanno fatto del M5S un corpo estraneo rispetto al sistema politico nel quale - pure - il 24 e 25 febbraio avevano fatto irruzione.

 

Ce n’era a sufficienza, dunque, perché la prima sconfitta elettorale attirasse sul movimento critiche e commenti al vetriolo. Nulla di nuovo: chi vince irride all’avversario, chi perde si lecca le ferite. Ma dietro le reazioni sarcastiche, sembra trapelare - stavolta - un di più di eccitazione, quasi un’euforia, che pare spiegarsi - in alcuni casi - con un sentimento che va oltre la soddisfazione per la semplice sconfitta dell’avversario politico: l’idea, insomma, che per Grillo e il suo movimento sia cominciata la parabola discendente (il che, per altro, è possibile), che i «duri e puri» dello scontrino abbiano i mesi contati e che tra non molto - insomma - si potrà tornare a suonare la musica di prima. 

 

Il consenso ottenuto dal M5S e l’uso che di quel consenso è stato fatto, sono due cose diverse e meriterebbero due ragionamenti del tutto diversi.
Nulla di quanto scritto in queste prime ore può esser contestato, a proposito delle ragioni della sconfitta di Grillo: candidati poco noti, la deludente azione politica - se vogliamo chiamarla così - svolta dai parlamentari eletti, il profilo più nazionale che locale del movimento e il ruolo svolto da Grillo stesso, certo meno presente ed efficace che in occasione delle elezioni politiche. Detto tutto ciò, però, sarebbe illusorio immaginare che le ragioni alla base del consenso ottenuto solo tre mesi fa, si siano eclissate, superate da un positivo evolvere della situazione.

 

La crisi del M5S, insomma, non cancella e non toglie drammaticità ai motivi che avevano dato forza al movimento: in particolare non toglie dal campo
l’urgenza di una profonda riforma del sistema politico, del suo modo di funzionare e della modalità e quantità di risorse pubbliche che vi vengono destinate. Proprio il finanziamento ai partiti è stato - contemporaneamente - il miglior cavallo di battaglia di Grillo e l’affondo più doloroso subito dalle forze politiche tradizionali. Ma se su questo piano qualcosa si è mosso - inutile negarlo - è stato sotto l’azione pressante (e spesso sgradevole, è vero) del M5S; e se qualcosa di nuovo è accaduto anche nelle istituzioni - si pensi al profilo dei Presidenti di Camera e Senato - le ragioni vanno ricercate ancora lì: nel successo delle liste di Grillo (e qui, in fondo, è la vera differenza tra il disertare le urne ed esprimere comunque un voto, anche se di chiara protesta).

 

Lunedì, mentre venivano chiuse le urne, le agenzie di stampa battevano la notizia della condanna a 3 anni e 4 mesi per Franco Fiorito, che nella sua funzione di capogruppo Pdl alla Regione Lazio si era appropriato di più di un milione di euro dei finanziamenti destinati al suo partito: altri processi sono in arrivano e molti filoni di indagine restano aperti a conferma che anche questa emergenza (oltre alle altre che stringono il Paese) è tutt’altro che superata.

 

La cosa migliore da fare - ora che anche il Movimento Cinque Stelle è investito da una diversa ma ugualmente profonda crisi - sarebbe dunque andare avanti sulle riforme e sui tagli già annunciati dal governo, così da dimostrare che (Grillo o non Grillo) il sistema è in grado di riformarsi.
La cosa peggiore, invece, sarebbe pensare di averla scampata, tirare un sospiro di sollievo perché «quei rompiscatole hanno perso e sono finiti», e tornare all’andazzo di prima. Sarebbe un errore imperdonabile: un po’ come quel malato che continua ad avere la febbre ma butta via il termometro in modo che, non potendo misurarla, può illudersi di non averla più...


da - http://lastampa.it/2013/05/29/cultura/opinioni/editoriali/il-flop-grillino-non-illuda-i-vecchi-partiti-bgO4p8fQT4LuRGLmqxuwXK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il governo e la corsa di Matteo
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:41:31 pm
Editoriali
10/06/2013

Il governo e la corsa di Matteo

Federico Geremicca


Dalle parti del centrosinistra - e del Pd, più in particolare - va ormai radicandosi (fino ad esser giunta ad un passo dall’ufficialità) una incontrollabile novità. Infatti, c’è un giovane amministratore, Matteo Renzi, che potrebbe presto porre la propria candidatura alla guida del partito sull’onda di una linea che prevede il no all’ineleggibilità di Berlusconi, è critica con le «toghe rosse», ha da ridire sul ruolo svolto dal sindacato, ritiene perfettamente normale andare a pranzo con Briatore e a cena con finanzieri più o meno discussi, è scettica verso un governo guidato da un esponente del suo stesso partito e reclama - infine - «una sinistra finalmente non decoubertiniana»: che se ne frega, cioè, delle vecchie compatibilità e delle buone maniere, perché l’importante è vincere. Punto e basta. 

 

La prima reazione, di fronte a un elenco così (ma si potrebbe continuare...) è ovvia: o il potenziale candidato ha sbagliato partito oppure sono in molti nel partito (perché gli aficionados aumentano) ad aver sbagliato candidato. In realtà, è possibile una terza ipotesi: e che cioè - pur con tutte le approssimazioni e le cose da meglio definire - la sinistra italiana stavolta si trovi davvero di fronte a quel rischio-possibilità di radicale rinnovamento che da più parti (e perfino dal suo stesso interno) è ormai da tempo invocato.

 

È una ipotesi - quest’ultima - naturalmente più difficile da liquidare con un semplice «tanto si sa che Renzi è di destra»: e certamente più impegnativa circa la valutazione degli approdi cui potrebbe portare. 

 

Ieri, incalzato dalle domande dei colleghi de «la Repubblica», il sindaco di Firenze ha chiesto a Guglielmo Epifani di fissare data e regole del Congresso Pd. E ha aggiunto: «Stavolta non mi faccio fregare: prima le regole e poi dico se mi candido». Ma che si decida a farlo oppure no, è chiaro fin da ora che il pacchetto di «provocazioni» immesso da Renzi nel dibattito precongressuale dei democratici, segnerà - e non poco - l’intera discussione: a maggior ragione per la contemporanea presenza sulla scena di un governo che ha seminato depressione e insoddisfazione nelle file Pd.

 

Ecco, il governo: che sembra essere il più esposto di fronte al possibile tsunami della candidatura (e poi dell’elezione) di Renzi alla guida del Pd. E infatti non è certo per caso che, da quando presiede il suo esecutivo di «larghe intese», Enrico Letta cerchi di curare il più possibile i rapporti con l’«amico Matteo». L’altro giorno i due sono rimasti faccia a faccia a Firenze per un paio d’ore, cercando di capire se sia possibile una qualche intesa tra un leader che è a Palazzo Chigi e ci vuole restare, ed un altro che ne è fuori e ci vuole entrare. Non è semplice: e infatti, per quanto i riflessi di una antica e comune «democristianità» abbiano aiutato a smussare gli angoli, è proprio questo quel che è emerso dall’incontro.

 

Per tanti motivi - a cominciare dalle dichiarate ambizioni di Renzi - bisogna dunque cominciare ad abituarsi all’idea che una eventuale ascesa del sindaco di Firenze alla guida del Pd porterebbe con sé (anche solo oggettivamente) rischi serissimi per la tenuta del governo. Letta lo sa, e Renzi non lo nasconde: «Questo governo - ha ripetuto ancora ieri - non aiuta il bipolarismo». Il problema è che, pur di fronte a questa eventualità, è estremamente difficile che i due possano raggiungere un’intesa capace di evitare un quasi certo scontro frontale.

 

Enrico Letta, infatti, si trova nella posizione di non poter spingersi troppo oltre nelle rassicurazioni sul futuro, essendo legato ad alleanze interne al Pd (da Bersani a Franceschini) fatta anche di leader che non intendono stender tappeti rossi per l’arrivo dell’«amico Matteo»; e Renzi, d’altra parte, non si fida: e soprattutto, è poco incline a stringer patti quando non è lui ad esser il più forte. D’altra parte, è vero che è giovane, ma ha visto e letto di troppi accordi politici stretti e poi traditi: dal patto «della staffetta» tra De Mita e Craxi (Anni 80) a quello «della crostata» tra D’Alema e Gianni Letta (Anni 90) ce ne fosse uno andato in porto...

 

Dunque, meglio le mani libere. Che è precisamente la rotta che Matteo Renzi terrà da qui fino al momento in cui saranno fissate le regole per il Congresso. E se alla fine decidesse di candidarsi, una cosa può esser certa: nel bene o nel male, nulla sarebbe più come prima. Per il Pd, certo: ma anche per lo strano governo delle «larghe intese»... 

da - http://lastampa.it/2013/06/10/cultura/opinioni/editoriali/il-governo-e-la-corsa-di-matteo-SpNb0846M35bhXCRIDZO7H/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Strategia di sopravvivenza
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:48:54 pm
Editoriali
19/08/2013

Strategia di sopravvivenza

Federico Geremicca


Ben coperto sotto l’ampio ombrello protettivo di Giorgio Napolitano e con un paio di avvertimenti a quelli che ha definito i «professionisti del conflitto», Enrico Letta ha tratteggiato ieri - dalla tribuna del Meeting di Rimini - quella che potremmo definire la sua strategia per la sopravvivenza. «Gli italiani - ha pronosticato - puniranno tutti quelli che anteporranno i loro interessi personali e di parte a quelli del Paese».

 

Ma oltre tale avviso il premier non è potuto andare, essendo la situazione fuori da ogni controllo e le possibilità di intervento del governo sulla questione delle questioni (lo stato giudiziario di Silvio Berlusconi) praticamente nulle.

 

Ed è dunque affidandosi ad uno schema classico in politica (le cose buone fatte, e quelle che restano da fare) che Letta ha voluto avviare la ripresa delle attività dopo l’inesistente pausa estiva. I problemi che il governo ritrova sulla sua strada sono quelli - politici e programmatici - di due settimane fa: aggravati, naturalmente, dalla sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha di fatto messo Silvio Berlusconi in un angolo. Il premier non ha affrontato la questione nemmeno incidentalmente, limitandosi ad annotare (citando il calo dello spread) che il Paese ha alle spalle «due anni in cui un percorso doloroso si è compiuto» e che lui - Letta - non vuole «minimamente che qualcuno interrompa questo percorso di speranza».

 

Che quel cammino possa però proseguire con Silvio Berlusconi fuori dal Parlamento (e per di più incandidabile alle prossime elezioni) pare, al momento, poco più che una flebile speranza: ma è su quella speranza che il Presidente del Consiglio intende lavorare. E’ per questo che Letta chiede ai «professionisti del conflitto» - i falchi di ogni latitudine, si suppone - di abbandonare facili rendite di posizione e accompagnare il Paese verso l’uscita dalla crisi: ma il tono, inevitabilmente, è più quello di una ragionevole richiesta, piuttosto che il fermo richiamo all’ordine da parte di un premier che sa di controllare la sua maggioranza.

 

Enrico Letta, dunque, si posiziona così in attesa degli eventi: sapendo che si tratta di eventi rispetto ai quali - per ragioni diverse e numerose - le sue possibilità di intervento restano ridotte. Provvedimenti-simbolo come la rimodulazione dell’Imu o l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, vengono rinviate o restano al palo di fronte agli espliciti disaccordi nella maggioranza: una situazione di sospensione che solo la soluzione della questione delle questioni è forse in grado di sbloccare. Ma dalla sentenza della Cassazione sono ormai passate quasi tre settimane, e la situazione - piuttosto che rasserenarsi - pare farsi peggiore ogni giorno di più.

 

In un quadro di tal genere - esposto a venti che col governo dovrebbero entrarci poco o nulla: dal Congresso pd ai guai del Cavaliere, dallo scalpitare di Renzi all’agitarsi dei «duri» del Pdl - in un quadro così, dicevamo, Enrico Letta chiede da Rimini alla sua maggioranza senso di responsabilità e la predisposizione, comunque, di una «rete protettiva» nel caso tutto crolli: e il riferimento, naturalmente, è a una nuova legge elettorale (invocata da tempo dal Presidente Napolitano) giudicata dal premier «il cambiamento più urgente che ci sia» ed evocata come primo impegno per il Parlamento alla ripresa di settembre.

 

Peccato che l’urgenza di tale riforma sia urlata ai quattro venti da anni, e che quattro diversi governi (Prodi, Berlusconi, Monti e ora Letta) e altrettante differenti maggioranze non vi abbiano mai messo mano. Ora, in acque ridiventate tempestose, si torna a invocare la riscrittura di una legge per la quale gli aggettivi negativi non si contano più. Il proposito annunciato dal premier è certamente lodevole e positivo: che esso trovi concreta realizzazione, è un altro discorso. Ma se in mezzo a tanti rinvii e a tante tensioni questa fosse davvero la volta buona, non si potrebbe che esserne estremamente soddisfatti...

 da - http://lastampa.it/2013/08/19/cultura/opinioni/editoriali/strategia-di-sopravvivenza-uaIjUoisxZVjd7h7BFyqwO/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Resistere, l’ultima guerra del Cavaliere
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2013, 11:32:23 pm
Editoriali
21/08/2013

Resistere, l’ultima guerra del Cavaliere

Federico Geremicca


Il verbo scelto da Silvio Berlusconi per rassicurare il popolo del centrodestra intorno al suo futuro e alle sue intenzioni («Io resisto») ha un grande potere evocativo ed è foriero di una evidente suggestione: infatti, rimandando al drammatico «resistere, resistere, resistere» pronunciato da Borrelli nell’inverno di 11 anni fa, l’annuncio del Cavaliere fotografa un evidente capovolgimento delle posizioni (e dei rapporti di forza). 

 

E quasi si propone come la chiusura di un cerchio diabolico.

 

I due orgogliosi annunci di resistenza rappresentano forse i momenti più cupi e aspri di uno scontro - quello tra il centrodestra e parte della magistratura - che condiziona da ormai due decenni la vita politica italiana: una sorta di Guerra dei Vent’anni dentro la quale, però, c’è un pezzo di storia di questo Paese e la parabola di un leader che ora si scopre solitario e senza successori. Non solo. Gli effetti di questa Guerra - ed i vizi seminati - si riverberano oggi sull’«affaire Berlusconi», trasformandolo in qualcosa di diverso da quel che semplicemente è: da caso giudiziario a caso politico, con il conseguente corollario di polemiche, richieste e proposte inevitabilmente confuse e spesso non praticabili.

 

La trasformazione dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi in problemi «politici» - meglio ancora: in problemi della politica - è stata in questi vent’anni una costante dell’agire del centrodestra italiano. Non a caso, il «resistere, resistere, resistere» pronunciato nel gennaio del 2002 dall’allora Procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, era appunto riferito alle annunciate nuove leggi del governo Berlusconi in materia di giustizia: leggi capaci di determinare, secondo Borrelli, il «naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale». Scudi, legittimi impedimenti, prescrizioni e depenalizzazioni sono stati, per anni, la «via politica» (e legislativa) attraverso la quale il Cavaliere ha cercato - spesso con successo - di arginare i propri problemi giudiziari. Oggi, però, la situazione è molto diversa: e lo si capisce bene dallo smarrimento che pare caratterizzare l’azione del Pdl e del suo leader colpito.

 

La novità, come è evidente, sta nel dover fare i conti con una sentenza passata definitivamente in giudicato: e la difficoltà, giunti a questo punto, nasce dal dover prender atto di esser di fronte a una situazione che ha dell’irreversibile. Abituato a «ridurre il danno» di inchieste e processi attraverso le leggi e la politica (il complotto dei magistrati, le norme ad personam...) è di nuovo per questa via che il Cavaliere sta cercando una soluzione che gli permetta di rimanere in campo: ma la politica - e le leggi - stavolta possono aiutarlo in poco o in nulla, e il Pdl si avvita in un rosario di richieste mutevoli e confuse.

 

La grazia, la commutazione della pena, la richiesta che il Senato non voti la decadenza di Berlusconi, l’attacco alla legge-Severino (con possibile ricorso alla Corte Costituzionale), la richiesta di un nuovo intervento del Quirinale, l’arma finale della crisi di governo con la minaccia di puntare alle elezioni... Nessuno, in verità, ha ancora capito quale sia davvero la carta sulla quale il Cavaliere e il Pdl intendono scommettere: una incertezza, un disorientamento che rende ancor più confusa - e dunque meno governabile - la situazione.

 

«Resistere, resistere, resistere», incitò undici anni fa Francesco Saverio Borrelli, da sempre considerato da Berlusconi il «nemico numero uno», il capo indiscusso del «partito dei giudici», il leader carismatico delle «toghe rosse». «Io resisto! Non mollo», contrattacca oggi il Cavaliere. In mezzo, undici anni di guerra senza quartiere, undici anni che hanno prodotto cumuli di macerie politiche e giuridiche. Potrebbe anche bastare, per un Paese esausto e incattivito. Ma la parola fine, invece, pare non dover arrivare mai...

da - http://lastampa.it/2013/08/21/cultura/opinioni/editoriali/resistere-lultima-guerra-del-cavaliere-onpJEPEps7eqGrI6louccK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Resistere, l’ultima guerra del Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2013, 09:26:59 am
Editoriali
21/08/2013

Resistere, l’ultima guerra del Cavaliere

Federico Geremicca


Il verbo scelto da Silvio Berlusconi per rassicurare il popolo del centrodestra intorno al suo futuro e alle sue intenzioni («Io resisto») ha un grande potere evocativo ed è foriero di una evidente suggestione: infatti, rimandando al drammatico «resistere, resistere, resistere» pronunciato da Borrelli nell’inverno di 11 anni fa, l’annuncio del Cavaliere fotografa un evidente capovolgimento delle posizioni (e dei rapporti di forza). 

 

E quasi si propone come la chiusura di un cerchio diabolico.

 

I due orgogliosi annunci di resistenza rappresentano forse i momenti più cupi e aspri di uno scontro - quello tra il centrodestra e parte della magistratura - che condiziona da ormai due decenni la vita politica italiana: una sorta di Guerra dei Vent’anni dentro la quale, però, c’è un pezzo di storia di questo Paese e la parabola di un leader che ora si scopre solitario e senza successori. Non solo. Gli effetti di questa Guerra - ed i vizi seminati - si riverberano oggi sull’«affaire Berlusconi», trasformandolo in qualcosa di diverso da quel che semplicemente è: da caso giudiziario a caso politico, con il conseguente corollario di polemiche, richieste e proposte inevitabilmente confuse e spesso non praticabili.

 

La trasformazione dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi in problemi «politici» - meglio ancora: in problemi della politica - è stata in questi vent’anni una costante dell’agire del centrodestra italiano. Non a caso, il «resistere, resistere, resistere» pronunciato nel gennaio del 2002 dall’allora Procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, era appunto riferito alle annunciate nuove leggi del governo Berlusconi in materia di giustizia: leggi capaci di determinare, secondo Borrelli, il «naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale». Scudi, legittimi impedimenti, prescrizioni e depenalizzazioni sono stati, per anni, la «via politica» (e legislativa) attraverso la quale il Cavaliere ha cercato - spesso con successo - di arginare i propri problemi giudiziari. Oggi, però, la situazione è molto diversa: e lo si capisce bene dallo smarrimento che pare caratterizzare l’azione del Pdl e del suo leader colpito.

 

La novità, come è evidente, sta nel dover fare i conti con una sentenza passata definitivamente in giudicato: e la difficoltà, giunti a questo punto, nasce dal dover prender atto di esser di fronte a una situazione che ha dell’irreversibile. Abituato a «ridurre il danno» di inchieste e processi attraverso le leggi e la politica (il complotto dei magistrati, le norme ad personam...) è di nuovo per questa via che il Cavaliere sta cercando una soluzione che gli permetta di rimanere in campo: ma la politica - e le leggi - stavolta possono aiutarlo in poco o in nulla, e il Pdl si avvita in un rosario di richieste mutevoli e confuse.

 

La grazia, la commutazione della pena, la richiesta che il Senato non voti la decadenza di Berlusconi, l’attacco alla legge-Severino (con possibile ricorso alla Corte Costituzionale), la richiesta di un nuovo intervento del Quirinale, l’arma finale della crisi di governo con la minaccia di puntare alle elezioni... Nessuno, in verità, ha ancora capito quale sia davvero la carta sulla quale il Cavaliere e il Pdl intendono scommettere: una incertezza, un disorientamento che rende ancor più confusa - e dunque meno governabile - la situazione.

 

«Resistere, resistere, resistere», incitò undici anni fa Francesco Saverio Borrelli, da sempre considerato da Berlusconi il «nemico numero uno», il capo indiscusso del «partito dei giudici», il leader carismatico delle «toghe rosse». «Io resisto! Non mollo», contrattacca oggi il Cavaliere. In mezzo, undici anni di guerra senza quartiere, undici anni che hanno prodotto cumuli di macerie politiche e giuridiche. Potrebbe anche bastare, per un Paese esausto e incattivito. Ma la parola fine, invece, pare non dover arrivare mai...

da - http://www.lastampa.it/2013/08/21/cultura/opinioni/editoriali/resistere-lultima-guerra-del-cavaliere-onpJEPEps7eqGrI6louccK/pagina.html


Titolo: GEREMICCA - Epifani: “Credo che alle primarie Letta sarà super partes"
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2013, 09:03:57 am
politica
08/09/2013

“Il Pd? Sono il garante, non mi schiero Su Berlusconi il partito è compatto”

Il segretario Epifani: “Credo che alle primarie Letta sarà super partes”. “Renzi è sicuro che fare il segretario sia il lavoro per lui?
Gli voglio parlare”


Federico Geremicca
iNVIATO A GENOVA


Mercoledì 11 settembre, data e anniversario diversamente noti, faranno quattro mesi. Infatti lo nominarono segretario l’11 maggio: e per convincerlo ad accettare, gli assicurarono che - in fondo - si trattava semplicemente di «traghettare» il partito verso il Congresso. Già, semplicemente: che vuoi che sia? 

 

Da quel giorno, invece, sulla testa di Guglielmo Epifani - uno che pure, per la vita che ha fatto, non si spaventa di niente - è piovuto praticamente di tutto: e non solo non è finita, ma il peggio - forse - deve ancora venire. Lui ovviamente lo sa, eppure in questo afoso pomeriggio genovese spiega che non ha pentimenti, anzi: «Quattro mesi difficili, complessi, ma esaltanti. Una esperienza irripetibile. Mi è stato affidato un partito comprensibilmente scosso e ferito: piano piano mi pare ci stiamo rialzando».

 

Sono le quattro del pomeriggio, e al bar di un elegante hotel non lontano dal mare, Guglielmo Epifani si intrattiene con Lucia Annunziata, chiamata ad intervistarlo in chiusura della Festa nazionale di Genova. Nonostante Renzi, le fibrillazioni nel partito e questa terribile settimana che si apre nel segno della battaglia su Berlusconi, il segretario sembra di buon umore: tanto che nemmeno si inalbera quando gli vien posta una domanda dalle mille implicazioni. Ma lei, alle primarie, alla fine voterà per Cuperlo, per Renzi o per chi?

«Ma che domanda è? La mia storia - dice - è nota, parla da sola, sono uno di sinistra, vengo da lì... Ma il partito mi ha chiamato ad un ruolo di garante, il mio compito finisce solo col congresso e dunque ne parleremo più in là». Si ferma un attimo, poi aggiunge: «Non cerco protagonismi. Del resto, se avessi voluto giocare la partita, avrei accettato di candidarmi quando in tanti me l’hanno chiesto. Il mio problema, invece, è solo portare il Pd a congresso: anzi, al miglior congresso possibile».

 

Ma poiché le cose non sembrano andare precisamente in quella direzione, il segretario-garante-traghettatore, non nasconde qualche preoccupazione. L’impetuosa avanzata di Renzi nel Pd, infatti, ha fatto tornare d’attualità la parola più temuta in qualunque partito: scissione. Gli equilibri interni paiono saltare, il sindaco di Firenze e i suoi sostenitori (troppo semplicemente catalogati come ex dc...) potrebbero ottenere alla primarie percentuali cosiddette bulgare e, a quel punto, la convivenza sarebbe difficile, se non proprio impossibile.

A far saltare gli equilibri, secondo molti osservatori, è stato il passaggio di Dario Franceschini da un fronte all’altro. Pare che Epifani non fosse stato informato; e che Letta - consultato dal suo ministro - avesse addirittura cercato di fermarlo. Fatto sta che molti, nel Pd, hanno interpretato la mossa di Franceschini come la conferma che la partita congressuale sia già finita. Col risultato, tra gli altri, di mettere lo stesso presidente del Consiglio in una situazione delicata. Voterà anche lui per Renzi - ha pronosticato D’alema -. Un premier non può finire in minoranza nel suo partito...».

 

Epifani riflette, non è convinto. «Credo che Enrico si ritaglierà un ruolo super partes - dice -. E credo anche che sia giusto così. Con Matteo, però, ci voglio parlare. Non deve esagerare, penso non convenga nemmeno a lui... Ma anche Cuperlo può correggere un po’ la rotta, allargare l’orizzonte, uscire da quello che viene descritto come il recinto degli ex ds, arricchire la nostra dialettica».

Problemi. Altro che semplicemente traghettare. Problemi sintetizzabili in due nomi e due cognomi: Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Epifani non fa mistero di esser rimasto un po’ sorpreso dall’annuncio di candidatura alla segreteria da parte del sindaco di Firenze. Pensavo fosse un tipo di impegno che non gli interessasse, e forse non sa quello che lo attende. Le casse del partito languono, in periferia si moltiplicano le divisioni, c’è il problema dell’Unità da affrontare... Si tratta di faticare quattordici ore al giorno per ricostruire quel che c’è da ricostruire. E’ sicuro di averne voglia, è sicuro che sia lavoro per lui?».

 

Ma Renzi è un problema in divenire, e c’è ancora tempo davanti per cercare di sistemare quel che si può sistemare. La battaglia su Berlusconi, invece - lo scontro finale di una guerra durata vent’anni - entra nel vivo domani, e in ballo ci sono un mucchio di cose: il rispetto delle leggi e la tenuta del governo, i rapporti col Quirinale e il rischio di finire dritti dritti ad elezioni anticipate. Tutto vero: partita complessa. Ma Epifani è certo che la via imboccata dal Pd sia quella giusta.

Diciamo imboccata dal Pd, ma dovremmo dire imboccata da lui, un segretario - per altro - che non ha davvero nulla del leader «decisionista». «Un’ora dopo l’annuncio della sentenza di Milano - ricorda - ho detto quel che andava detto: che le sentenze prima si rispettano e poi si applicano. Ho tenuto, abbiamo tenuto, la barra dritta: nessuna oscillazione, qualcuno si aspettava divisioni nel Pd ma la linea non è mai cambiata».

 

Merito, largamente, del «traghettatore»: riferimento sorprendentemente sereno e sicuro in un Pd spazzato dalla tempesta. E ora Epifani riflette sulle prossime mosse da fare, a partire da domani, dalla riunione della Giunta. «Siamo un partito garantista - ripete - non abbiamo fretta, non abbiamo preconcetti e il Cavaliere potrà difendersi e spiegare le sue ragioni. Ma come ha detto Bersani e come dico anch’io, concederemo a Berlusconi nulla di meno ma nulla di più di quel che concederemmo a uno dei nostri». «Uno dei nostri» era la ministra Idem, dimissionaria in 48 ore per l’Imu (tremila euro) non pagata. Un precedente non proprio rassicurante per Silvio Berlusconi... 

da - http://lastampa.it/2013/09/08/italia/politica/il-pd-sono-il-garante-non-mi-schiero-su-berlusconi-il-partito-compatto-gURzI9hRX8yJW7iOZ7sv4J/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - “A Silvio non conviene la crisi”
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 11:37:37 pm
Italia
11/09/2013 - Il Pd

“A Silvio non conviene la crisi”

I democratici tirano dritto

Ma il voto rinvierebbe il congresso

E Renzi sfiderebbe Letta solo per la premiership

Federico Geremicca
Roma


Qualcuno usa l’immagine della corda: «Il Pdl sta tirando la corda, ma non la spezzerà» (Cesare Damiano). La maggioranza, però, preferisce quella della pistola: cioè la pistola che Silvio Berlusconi avrebbe puntato contro il governo, pronto a sparare in caso di decadenza. Pistola scarica, dicono i democratici. E se anche - invece - fosse carica e il Cavaliere sparasse, si tratterebbe né più né meno che di un suicidio... 

 
A Largo del Nazareno ieri si è vissuto un altro lunghissimo giorno d’attesa, un occhio alle agenzie per capire se qualcosa andava mutando nella linea del Pdl, l’ennesimo giro di passaparola circa la linea da seguire («Approfondimenti sì, manovre dilatorie no»), contatti ripetuti di Guglielmo Epifani con Enrico Letta (e di Letta con Alfano ed un paio di ministri Pdl) e con qualcuno dei membri della sua segreteria. Nessuna smagliatura, nessuno smarcamento e partito unito su una linea che, dal giorno della sentenza della Corte di Cassazione, non è mai più cambiata.
 

In fondo - e paradossalmente, considerato il fatto che si passeggia sull’orlo del burrone - un’attesa che si potrebbe definire perfino serena, se ci si intende sul termine. Le ragioni di tale imprevedibile serenità sono diventate, negli ultimi tesissimi giorni, via via più chiare. Più chiare non solo agli osservatori di cose politiche, ma anche al Pdl, che infatti ha definitivamente smesso ormai da una settimana di sperare in un cambio di rotta dei democratici.
 
 
Intanto, il fatto di esser di fronte - praticamente - ad una scelta non solo condivisa da tutto il Pd, ma praticamente obbligata: l’idea di «salvare» Berlusconi con un voto in giunta diverso da quello del sì alla decadenza, non è mai stata presa in considerazione, essendo considerata una sorta di suicidio politico-elettorale. Il pressing di Grillo - pronto a sfruttare qualunque sbandamento del Pd - e gli umori di una già insofferente «base democratica» hanno reso del tutto impossibile il solo ragionare su ipotesi diverse dal sì alla decadenza di Silvio Berlusconi.

 
Si è ragionato a lungo, naturalmente, anche sulle conseguenze che una simile scelta avrebbe potuto (potrebbe) determinare: e da tale ragionamenti la giustezza (l’inevitabilità) della linea scelta è uscita confermata. Berlusconi apre la crisi? Epifani continua a non credere che finirà così: per la semplice ragione che una crisi di governo non solo non risolverebbe i problemi giudiziari del cavaliere ma - con ogni probabilità - porterebbe ad assetti di governo ancor meno favorevoli per il Pdl. Se poi la crisi non approdasse - nonostante gli sforzi di Napolitano - ad un qualche nuovo esecutivo ma ad elezioni in tempi brevi, questo - è la convinzione del Pd - non sarebbe la peggiore delle tragedie...

 
Già nelle settimane scorse, infatti, quando il pressing del Popolo della libertà aveva due obiettivi (Imu e «agibilità politica» per Berlusconi) e su entrambi veniva minacciata la crisi, Enrico Letta e i vertici del Pd avevano fatto la loro scelta: se il governo deve cadere, meglio succeda sulla decadenza del cavaliere che sul terreno delle tasse, da sempre campo elettoralmente minato per i democratici. Non solo: una eventuale crisi dell’esecutivo aprirebbe al Pd - in fondo - prospettive non sgradite.

 
Un precipitare della situazione verso elezioni anticipate, infatti, avrebbe come effetto collaterale un rinvio a dopo il voto del Congresso democratico: il che permetterebbe allo stato maggiore Pd di evitare lo sfondamento di Matteo Renzi e la sua conquista del partito. E non basta: questo scenario, infatti, starebbe benissimo anche al giovane sindaco di Firenze, che potrebbe sfidare Enrico Letta (e magari altri) nelle primarie per la scelta del futuro candidato-premier, suo obiettivo più o meno dichiarato. E poi? E poi, appunto, le elezioni: per le quali - al momento - non c’è sondaggio che non veda Renzi largamente vincitore su Silvio Berlusconi e - a maggior ragione - su qualunque altro candidato del Popolo della libertà.

 
È per tutti questi motivi (più o meno inconfessabili) che in Largo del Nazareno si guarda con una qualche forma di paradossale serenità alle ore a venire ed alle possibili mosse del Cavaliere. Vuole spezzare la corda? La spezzi. Non è il Pdl che può riservare sorprese al Pd ed alle sue strategie di battaglia. Non è da lì che si temono intralci e bastoni tra le ruote. Ancora una volta, è al Colle che si guarda. Al Colle ed alla sua strenua difesa della stabilità di fronte al perdurare della crisi. Una linea che il Pd conosce bene. Fin dal novembre del 2011, quando - caduto Berlusconi - invece che il voto, Pier Luigi Bersani trovò in regalo le larghe intese e Mario Monti...

da - http://lastampa.it/2013/09/11/italia/politica/a-silvio-non-conviene-la-crisi-i-democratici-tirano-dritto-pafTTbfQA7ZqJkU9Nssu1O/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Appesi a un filo
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:39:14 pm
Editoriali
28/09/2013

Appesi a un filo

Federico Geremicca

L’immagine è certamente abusata, ed è quella del muro contro muro: ma stavolta davvero non ce ne è altre in grado di fotografare il punto - drammatico - cui è giunta la situazione. A cinque mesi esatti dal suo insediamento (28 aprile) il governo di Enrico Letta appare, infatti, appeso a un filo. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha deciso di sospendere ogni attività in attesa del chiarimento reclamato dal premier dopo le dimissioni annunciate dai gruppi parlamentari del Pdl in caso di decadenza di Silvio Berlusconi: e testimoni raccontano che nella sala del governo lo scontro tra i ministri sarebbe stato durissimo.

 

Dopo settimane di scontri e tensioni, il clima di sfiducia reciproca si è fatto ormai palpabile, e perfino i rapporti personali sembrano irrimediabilmente compromessi. Entro metà settimana il chiarimento arriverà nelle aule parlamentari, e il voto di fiducia che sarà richiesto da Enrico Letta rappresenterà un «momento della verità» oggettivamente non più rinviabile. Il blocco dell’aumento dell’Iva, intanto, è stato congelato in attesa dell’indispensabile verifica tra i due principali partiti della maggioranza. 

Il Pdl annuncia manifestazioni di piazza per il 4 ottobre - giorno in cui tornerà a riunirsi la Giunta per le elezioni del Senato - e il Pd pare aver rotto gli indugi: così non si può continuare, ha confidato Epifani ai suoi, se Berlusconi vuole la crisi lo dica, noi siamo pronti. 

 

Il vero punto di svolta, in una giornata tesa come non si ricordava da tempo, è stato rappresentato, forse, dal cambio di passo dei due presidenti - Napolitano e Letta - che hanno considerato non più tollerabili gli attacchi e i quotidiani aut aut del partito di Berlusconi. Che qualcosa si fosse incrinato nella proverbiale pazienza del Capo dello Stato, del resto, lo si era intuito dal tono col quale aveva denunciato - in mattinata a Milano - il venire meno perfino del «rispetto personale», oltre che istituzionale. Nell’incontro poi avuto a metà pomeriggio con Enrico Letta, il Presidente ha potuto apprezzare come anche per il capo del governo un chiarimento definitivo non fosse più rinviabile.

 

A questo punto, il bivio che si profila è drammaticamente chiaro: se quello del Pdl (con il preannuncio di dimissioni di massa) è solo un bluff per tentare di ottenere in extremis quella che da settimane viene definita l’«agibilità politica» di Silvio Berlusconi, il governo in qualche modo potrà serrare le file e andare avanti; in caso contrario, la crisi diventerà inevitabile e il Paese si ritroverà nuovamente a un passo da possibili elezioni anticipate. Un voto al quale si andrebbe, naturalmente, nelle peggiori condizioni possibili: senza una nuova legge elettorale (e dunque con la quasi certezza del riproporsi di una situazione di difficile governabilità), con il Paese tutt’ora nel piena di una difficilissima congiuntura economica e con la possibilità (il rischio) che l’ondata di discredito e disaffezione nei confronti della politica faccia il resto.

 

Non erano questi, naturalmente, gli orizzonti e gli obiettivi che si immaginavano per il pur sofferto e anomalo governo delle «larghe intese»: ma era precisamente questo, invece, il possibile epilogo che il Colle e il presidente del Consiglio temevano mentre chiedevano al Pdl ed al suo leader di separare le vicende giudiziarie di Berlusconi dall’attività di governo e dalla sua tenuta. Non lo si è voluto fare, oppure è risultato impossibile farlo: il risultato, purtroppo, non cambia. Il Paese si ritrova di nuovo ad un passo dal baratro: e l’alternativa tra nuove elezioni o l’insediamento di un governo ancor meno coeso e credibile di quello attuale, piuttosto che suscitare entusiasmi solleva pesanti e comprensibili preoccupazioni... 

da - http://www.lastampa.it/2013/09/28/cultura/opinioni/editoriali/appesi-a-un-filo-2yRKpAHknm3iftPW4g47JJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: sul carro del vincitore non si sale, si spinge
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:14:22 pm
italia

13/10/2013 - reportage

Sfida di Renzi: “Non faccio il piacione, di sinistra: non si può dire sempre sì”

Renzi: sul carro del vincitore non si sale, si spinge

Il sindaco prende di mira Quirinale e governo. Telefonata di Fanceschini

«Ma che fai?». A Bari bagno di folla

Federico Geremicca
inviato a Bari


Dieci mesi e dieci giorni fa, il 2 dicembre, nella notte dei rimpianti e delle lacrime, era nient’altro che un uomo vinto e deluso. 

E ai volontari che nella Fortezza da Basso lo ascoltavano con gli occhi lucidi dopo la sconfitta contro Bersani chiese - in fondo - un solo impegno: «Abbiamo provato a cambiare la politica, non ce l’abbiamo fatta: adesso sarà meraviglioso dimostrare che la politica non riuscirà a cambiare noi».

Dieci mesi e dieci giorni dopo, quei volontari (alcuni diventati deputati o senatori) sono qui, sul charter che decolla da Bari per riportare Matteo Renzi a Firenze, dopo il passo d’avvio della sua nuova sfida: la conquista del Pd. E possono apprezzare, ascoltandolo, quanto poco il loro leader sia cambiato. Infatti, dalla strana pedana dalla quale ha pronunciato il discorso di candidatura circondato dalla folla, ha appena polemizzato - esplicitamente - con il Capo dello Stato su indulto e amnistia: e non batte ciglio quando gli viene riferita la possibile irritazione di Napolitano. 

«La mia prima preoccupazione - spiega - è far vedere che non sono cambiato, che non mi sono rammollito, che non faccio il piacione di sinistra...». E per farlo intendere, prende di mira - appunto - addirittura il Quirinale. «Le leggi le fa il Parlamento - spiega Renzi -. Il Presidente ha il diritto di intervenire e dire quel che pensa sia più giusto: ma non si può dire sempre sì. Anche noi abbiamo il diritto e dobbiamo avere il coraggio di dire dei no, altrimenti il Paese va a rotoli...».

Ci si può naturalmente interrogare intorno alla circostanza che Renzi abbia deciso di aprire la sua corsa alla segreteria polemizzando col Capo dello Stato (per altro, espressione del suo stesso partito). Ma se interrogarsi è legittimo, sorprendersi - forse - lo è un po’ meno. La mossa del sindaco, infatti, ha almeno un paio di spiegazioni. Intanto, la contrarietà ad indulti e amnistie è - diciamo così - assai diffusa e popolare presso l’opinione pubblica in genere e quella moderata in particolare, alla quale Renzi guarda da sempre con estrema attenzione. E non va dimenticato, inoltre, come il ruolo di «garante della stabilita» esercitato in questi anni da Napolitano, non lo abbia mai convinto molto: «La stabilità non è un valore in sé - ha ripetuto più volte -. Un governo merita di durare se fa le cose, altrimenti meglio mandarlo a casa».

Un colpo al Quirinale - nel giorno in cui avvia dalla Fiera del Levante la sua corsa - e un colpetto al governo: «Eh no, stavolta Letta non può dire niente - si difende Rezi - non gli ho dato un solo appiglio perchè possa dire che l’ho attaccato». Non lo ha nemmeno lodato, naturalmente; e neppure incoraggiato. «Non facciamo un Congresso per decidere quanto dura un governo. Dura se fa, e qui c’è un’intera classe dirigente che ha fallito: e nessuno ha il coraggio di dirlo». Un Congresso si fa, intende Renzi, per decidere che rotta deve assumere un partito. E su questo le idee del sindaco di Firenze sembrano chiare, e riassumibili così: nulla può più essere come prima.

Un Congresso, per altro, che Matteo Renzi non sembra destinato a vincere in carrozza: almeno per quel che riguarda la prima fase, cioè il voto degli iscritti ai circoli. Stefano Bonaccini - segretario emiliano del Pd e coordinatore della campagna di Renzi - spiega: «Puoi citarmi e farmi dire: non sarà semplice». Lino Paganelli, responsabile delle Feste democratiche e renziano convinto, aggiunge: «Fanno circolare sondaggi che danno Matteo all’80% per poi dire, se vince col 65%, che è andata male. Ma non sarà una passeggiata, perché Cuperlo potrebbe avere una buona spinta dal voto degli iscritti». E infine lui - Renzi, appunto - che la mette così: «Nei circoli un filino avanti io o un filino avanti lui...».

Che la partita sia forse più aperta di quel che si pensava non induce però a ripensamenti l’antico «rottamatore» che pare, anzi, voler rivestire proprio quei panni lì. Avvisa: «Ero un appestato e ora dicono che sono un eroe. In realtà mi considerano il male minore... Ma a proposito dei carri e di chi vorrebbe salirci su, io dico: sui carri non si sale, i carri si spingono...». L’aria e lo stile sono tornati quelli guasconi di qualche tempo fa: «Alla Fiera - dice - ho parlato nella grande sala dove parlano i presidenti del Consiglio: simbolico», dice. E sorride.

E però non sarà facile. Soprattutto se rimetterà in scena (come pare voglia fare) il film già visto di «Renzi contro tutti». Appena scende dall’aereo che lo riporta a Firenze, per esempio, riceve una telefonata di Dario Franceschini che vuole capire meglio la polemica innescata nei confronti di Napolitano: Renzi spiega con calma, ma non arretra. Forse è questa la sua forza: non essersi fatto ancora cambiare dalla politica. Ma tornano alla mente le parole declamate la sera del 2 dicembre, dopo la prima, dolorosa sconfitta: «È sempre bellissima la cicatrice che mi ricorderà di esser stato felice». La cicatrice, appunto. Una, però: perchè già due sarebbero un ricordo difficile da cancellare... 

da - http://lastampa.it/2013/10/13/italia/politica/sfida-di-renzi-non-faccio-il-piacione-di-sinistra-non-si-pu-dire-sempre-s-tWiqDJk4CaklZnAEwfBr1H/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: “Non temo i pasdaran e gli avvelenatori di pozzi”
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:31:57 pm
Politica
19/11/2013

Renzi: “Non temo i pasdaran e gli avvelenatori di pozzi”

Colloquio con il sindaco di Firenze: “Chi perde resta come ho fatto io l’anno scorso”

Federico Geremicca
Roma


Ore 20,45, lunedì sera. Dopo una giornata dura e nervosa, Matteo Renzi è finalmente a casa. L’umore è quello di chi crede di aver superato l’ostacolo più difficile, il voto degli iscritti al Pd: «Diciamo le cose come stanno - annota -: hanno perso la partita: adesso è davvero chiusa». Ma descriverlo in questa serata come un leader sereno e guascone, sarebbe un errore. Il sindaco li chiama “i pasdaran”; o anche “gli avvelenatori di pozzi”. Rivela: «I trattativisti ci chiamano e ci dicono: “ok, avete vinto ma ora calma e prudenza, non pompate il risultato”. E noi, mi creda, faremmo precisamente questo: ma i pasdaran...». 

Già, i pasdaran: quelli che ora dicono che la segreteria Renzi potrebbe essere un problema, che molte persone potrebbero non sentirsi rappresentate e andare via, che il sindaco di Firenze - in fondo - non è stato votato da più del 50% degli iscritti al Pd e che la sua legittimazione, dunque, è quel che è. Un tam tam allarmante, e due nomi su tutti: D’Alema e Fassina, perfetti esemplari di pasdaran. «Massimo - dice Renzi - ha scommesso tutto sulla mia sconfitta: mi attacca con qualunque argomento, ha organizzato e continua a organizzare la resistenza. Ma avete visto che toni, però? “Combatteremo palmo a palmo”... La rete lo ha preso in giro: “Ma che fa D’Alema, il vietcong?”. Fassina, invece, è un altro discorso: fa semplicemente ragionamenti stupidi». La polemica del viceministro, insomma, non nasconderebbe secondi fini: mentre D’Alema, avrebbe confidato Renzi ai suoi, «ha il problema di capire se farà di nuovo o no il capolista alle Europee».

Tre settimane di fuoco, da qui all’8 di dicembre: è questo quel che il sindaco di Firenze ora si aspetta in vista dell’atto finale della sua sfida. Tre settimane delicate, «da percorrere da segretario in pectore», dice, sminando il campo dalle insidie maggiori. In testa a tutte, naturalmente, questa storia che Massimo D’Alema ripete ormai da settimane: che alcuni (molti? pochi?) potrebbero andarsene, che il Pd rischia davvero la scissione. Matteo Renzi non ci crede, ma non per questo sottovaluta la minaccia.

«Sì, ora vorrebbero avvelenare i pozzi - dice -, buttarla in caciara. Ma questo è un partito in cui chi perde resta. Io persi con Bersani, ma sono rimasto nel Pd e ho seguito la linea che ci indicava il segretario. Tanti dicono che dopo la sconfitta del 2 dicembre feci il discorso più bello della mia carriera politica. Già, può essere... Ma prima di tutto chiamai il segretario per riconoscere la sconfitta e dirgli “Pierluigi ti sarò leale”: Cuperlo, per ora, a me telefonate non ne ha fatte...». 

Un po’ d’amarezza, che non riesce a cacciar via - però - la soddisfazione per il risultato ottenuto. Ancora un paio di mesi fa, infatti, Matteo Renzi era considerato quasi una sorta di corpo estraneo rispetto al Pd, uno che faceva l’occhiolino al centrodestra, un “berluschino” amico di Flavio Briatore e frequentatore degli show di Maria De Filippi. «E invece ho vinto tra gli iscritti al Pd, evento che pareva impossibile - ammette -.
I sostenitori di Cuperlo hanno passato il primo mese di campagna a dire che nei circoli avrebbero vinto loro. Poi hanno capito. E si sono preoccupati...».

Non è che Renzi, al contrario, la vedesse tutta in discesa. A metà ottobre, a Bari, nel giorno del lancio della sua candidatura, lo stesso sindaco confessava: «Come andrà nei circoli non lo so: o un pochino avanti io o un pochino avanti lui». Ora che è più sereno dice: «Fanno polemiche intorno al mio 46% tra gli iscritti? Facciano. Quando avrò ottenuto il 60% tra gli elettori delle primarie voglio vedere cosa s’inventeranno...».

Anche lui, del resto, si inventerà qualcosa. Anzi, ha già cominciato. Spiega: «L’8 dicembre io non voglio un voto su una persona, voglio un voto su delle idee. E se vinco, voglio un mandato pieno su quelle idee. Leggo che ci sono preoccupazioni circa il fatto che avrei intenzione di far cadere il governo: ripeto, è falso. Per me Letta può andare avanti oltre il 2014, a condizione che il suo governo faccia». Faccia cosa? Renzi la chiama “la lista della spesa”: «Una nuova legge elettorale, la fine del bicameralismo, l’abolizione delle province, un piano per il lavoro ai giovani, la sburocratizzazione della pubblica amministrazione...». Tanto, forse troppo per un governo la cui maggioranza va sciogliendosi in mille rivoli.

«Io non ho fretta - ripete Renzi - ho 38 anni, posso aspettare...». Ma è difficile immaginare la sua come una “segreteria d’attesa”. Si pensi a quel che ancora ripete sul caso-Cancellieri: «Che rimanga al suo posto è una follia. Quel che sta emergendo l’ha delegittimata: restare dove sta sarebbe un danno anche per lei». Dopodiché, la linea è chiara: «Se il segretario si affiderà alle valutazioni del gruppo della Camera, noi saremo molto duri; ma se invece ci indicherà una via, la seguiremo: qualunque essa sia». Un Renzi che diventa obbediente e remissivo? Mah... Piuttosto un Renzi che sta per diventare segretario. E che domani vorrebbe esser seguito e ascoltato come lui oggi segue e ascolta l’attuale segretario...

Da - http://lastampa.it/2013/11/19/italia/politica/renzi-non-temo-i-pasdaran-e-gli-avvelenatori-di-pozzi-NVaWAmJUoyRAc61SPFrNUJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Bindi: no a un nuovo centro
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2013, 11:35:56 am
politica
10/11/2013

Bindi: no a un nuovo centro Non possiamo immolarci sull’altare della stabilità

“Basta liti: abbiamo un mese prima delle primarie per parlare di progetti”


Federico Geremicca
ROMA

In fondo, la vede meno peggio di quel che si poteva immaginare. Nel senso che chiami Rosy Bindi chiedendole di rompere il lungo silenzio che si è imposta dopo l’elezione alla guida dell’Antimafia, ti aspetti che spari zero contro il Grande Pasticcio del tesseramento Pd e invece la ritrovi preoccupata soprattutto per gli stessi motivi che la preoccupano fin dal giorno della nascita del governo Letta. Non è, ovviamente, che sia disinteressata alle vicende del Congresso, anzi, ma i timori maggiori li riserva ad altro: la direzione di marcia dell’esecutivo, il senso (e la durata) delle larghe intese, certi movimenti al centro che potrebbero partire dopo l’addio a Berlusconi da parte delle cosiddette «colombe».

Dice: «Non può sfuggire a nessuno che se dal Pdl si stacca un gruppo filo-governativo, la forza per condurre tale operazione risiederà non nell’ambizione di cambiare il centrodestra quanto l’intero sistema politico. In molti puntano alla destrutturazione del bipolarismo: ed un sistema tripolare, a prescindere dall’exploit di Beppe Grillo, può radicarsi solo per la nascita di una nuova forza centrista. Ecco: io vorrei che il Pd dicesse con chiarezza che non offre sponde politiche ad un simile disegno».

Prima, in verità, il Pd dovrebbe dire ai propri elettori che il Congresso che ha avviato non è né una farsa né un concentrato di irregolarità, non le pare? 

«E infatti non è così: noi non meritiamo di essere raccontati come una caricatura. Stanno votando centinaia di migliaia di iscritti, i casi inquietanti in realtà sono cinque (Cosenza, Asti, Frosinone, Lecce e Rovigo) e un aumento delle iscrizioni - dopo il calo dell’anno scorso - è in parte fisiologico, considerata la stagione congressuale».

Tutto a posto, dunque? 

«Non dico questo, ma nessuno dei casi in questione è riconducibile all’elezione del segretario nazionale. E comunque, bloccare il tesseramento è stato giusto: così si impedisce che, dentro o fuori il Pd, si possa dire che si sta inficiando il Congresso».

Inficiando forse no, ma sporcarlo - così da depotenziare la possibile vittoria di Renzi - forse sì. Lei pensa che qualcuno stia praticando un giochetto simile? 

«Lo escludo totalmente. Le dico, anzi, che i risultati che maturano nei circoli ci fanno pensare a un Congresso vero e competitivo. Ora, però, il problema è far decollare il confronto tra i candidati - sui programmi, sul ruolo del Pd, sulla natura del partito - perchè se c’è una cosa che non possiamo permetterci è un calo di partecipazione alle primarie».

Ma un calo è dato per scontato... 

«Non ci si può rassegnare a questo. Abbiamo un mese per discutere del partito e del Paese che vogliamo. Bisogna che i candidati animino un dibattito serio sul futuro, perchè sono mesi che siamo appiattiti sulle vicende di Berlusconi e sull’instabilità della stabilità del governo. Per quanto mi riguarda, farò la mia parte».

Ma se ha deciso addirittura di non schierarsi con nessuno dei candidati in campo! 

«Però andrò a votare, e il documento che abbiamo proposto al dibattito del partito mi pare meriti attenzione. In quel documento diciamo che il Pd sostiene il governo ma non si identifica in esso; che la stabilità è un valore solo se produce risultati, riforme e azioni utili al Paese; e che non siamo disposti a sacrificare l’assetto bipolare del sistema politico italiano sull’altare della stabilità. Insisto: se non si affrontano i problemi, non è un governo di servizio ma un governo di durata... Insomma, ci sono molte cose da definire. Pensi a questa vicenda del Pse...».

Lei intende le critiche di Fioroni - e non solo - per l’affermazione di Epifani circa il fatto che «il Pd ha le sue radici nel Pse»? 

«L’esperienza del Pd non si identifica con quella del Pse. Noi siamo - certo - nella metà del campo progressista, ma con l’intento di superare le tradizionali famiglie politiche europee. Non dobbiamo ridurre le nostre ambizioni e il nostro progetto. Ci sono tante forze progressiste nel mondo - dagli Stati Uniti al Giappone - che non si identificano nel socialismo. Dunque, ospitiamo pure il Congresso Pse a Roma: ma con la forza di chi sente di poter chiedere a quella famiglia politica di cambiare nome e orizzonte».

Per tornare al Congresso: crede che vincerà Renzi e che dopo - come molti profetizzano - ci saranno elezioni anticipate? 

«Penso che questa ipotesi, in questo momento, non convenga a nessuno. Credo che Renzi abbia bisogno di tempo per stabilire un rapporto più stretto con il suo partito, e che se questo riesce anche lui ne trarrà maggior forza. Quanto alle primarie, sì: immagino vincerà lui. Ma nei congressi locali c’è una situazione quasi di parità con Cuperlo, il che vuol dire che ci sono ampi margini per una discussione vera. Per altro, il voto che stanno esprimendo i circoli ci dice che questo non è “il Pd di Renzi” e che Renzi non lo ha ancora né conquistato né convinto sulla base di un progetto che - per quanto mi riguarda - trovo ancora generico e non condivisibile soprattutto sulle politiche economiche e sociali».

Lei dice «il Pd di Renzi» così come una volta si diceva l’Ulivo di Prodi... Che effetto le ha fatto apprendere che il Professore non voterà alle primarie? 

«Non mi ha meravigliato. E se vuole che gliela dica tutta, credo che dopo la vicenda dei 101 “franchi tiratori” Romano sia autorizzato a fare qualunque scelta. Provo una grande amarezza, naturalmente: ma anche per il fatto che su quell’inaccettabile episodio non vi sia stata un’analisi seria, un’autocritica ed un’assunzione di responsabilità».

Un’ultima cosa: sulla Commissione Antimafia. È sempre ai ferri corti con il Pdl? 

«Mercoledì riuniremo l’ufficio di presidenza. Aspetto ancora la nomina del capogruppo del Popolo della Libertà in commissione e poiché molto tempo è passato, sento di dover rivolgere loro un appello: di fronte alla magistratura ed alle forze dell’ordine che continuano la loro lotta alla mafia, di fronte all’impegno di “Libera” e delle altre associazioni, dei parenti delle vittime e di operatori economici che non si arrendono, la politica non può restare indietro e mostrarsi inadempiente. È una responsabilità che dobbiamo sentire tutti, ed è per questo che attendo fiduciosa». 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/10/italia/speciali/primarie/2013/pd/bindi-no-a-un-nuovo-centro-non-possiamo-immolarci-sullaltare-della-stabilit-304Yjs9Y3pwOmV4wkTUEdK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il paradosso del partito di lotta e di governo
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2013, 04:47:52 pm
politica
25/11/2013 - analisi

Il paradosso del partito di lotta e di governo

Tre modelli a confronto uniti solo dalle critiche all’esecutivo

Federico Geremicca

ROMA

Ognuno dei tre lo ha fatto a modo suo, cioè con maggior o minor nettezza. Ma è certamente un inedito paradosso quello andato in scena ieri a Roma alla Convenzione del Partito democratico. 

Infatti, candidandosi alla guida del Pd, tutti e tre gli aspiranti segretari (Renzi, Cuperlo e Civati) hanno vistosamente strattonato il governo presieduto da Enrico Letta e del quale proprio il Partito democratico è l’azionista di maggioranza. 

Un paradosso inedito, certo, ma non inspiegabile: e ancora frutto - in piena evidenza - dell’onda lunga della delusione provocata dal voto del 24-25 febbraio, arrivata dalla periferia del partito fino al vertice.

Benchè non inattesa, non si tratta di una buona notizia per Enrico Letta, impegnato a far quadrare conti ed equilibri politici sempre più traballanti. E se il premier poteva aspettarsi l’affondo di Matteo Renzi («Il governo sia efficace nelle scelte di politica economica e nelle riforme istituzionali, altrimenti le larghe intese diventano solo il passatempo per superare il semestre europeo») e il giudizio tranchant di Civati («Fatta la legge elettorale l’anno prossimo si può tornare a votare»), forse non si attendeva analoga posizione da parte di Gianni Cuperlo («Il governo non ha più alibi, e deve scuotere l’albero perché i frutti cadano a terra»).

Un paradosso, dunque, che affonda le proprie radici ancora nello choc per la mancata vittoria elettorale di inizio anno e nella delusione per la nascita di un governo più subito che scelto: ma un paradosso che il futuro gruppo dirigente del Pd farebbe bene ad affrontare (finalmente) prima che produca effetti che potrebbero andare anche oltre una già grave e temuta crisi di governo. Le critiche e le riserve avanzate ieri dai tre candidati segretari alle larghe intese e all’esecutivo in carica, sono - infatti - l’inevitabile proiezione degli umori che circolano tra iscritti ed elettori, ai quali Renzi, Cuperlo e Civati stanno chiedendo il voto: e potrebbero, dunque, rientrare o affievolirsi una volta conclusa la competizione. Ma nel partito, intanto, si vanno scavando solchi profondi che - a lungo andare - rischiano di diventare baratri non più colmabili.

Se ne è avuta una prova, ieri, col durissimo scambio di contestazioni andato in scena tra Cuperlo e Renzi. L’aspro faccia a faccia, se vogliamo chiamarlo così, ha riguardato i rispettivi programmi per rimettere l’Italia sui binari della crescita e l’idea stessa di partito che i due candidati coltivano e propongono. Basti citare l’accusa, velenosissima, che Cuperlo e Renzi si sono rimpallati: «Noi non siamo il volto buono della destra, noi siamo la sinistra», ha ammonito il candidato sostenuto da Bersani e D’Alema; «Cuperlo ha ragione - ha replicato il sindaco di Firenze - ma non dobbiamo nemmeno essere il volto peggiore della sinistra». Si fronteggiano, insomma, due idee praticamente opposte di partito, con tutto quel che ne segue (e ne potrà seguire...) in termini di programmi, politica delle alleanze e natura stessa del Pd.

In una fase di caotico riassestamento del sistema politico, con scissioni laceranti che hanno già riguardato due dei tre partiti impegnati nelle larghe intese (Scelta Civica e Pdl) l’idea che anche il Pd possa esser travolto dalle sue divisioni, non solo non appare più un’ipotesi di scuola - come poteva essere ancora qualche mese fa - ma perfino una via percorribile senza troppo «scandalo», considerata la fase. È evidente che la circostanza sarebbe esiziale per un partito nato come alfiere del bipolarismo, sull’onda di una dichiarata «vocazione maggioritaria»: ma al punto cui è giunto il dibattito interno al Pd - e alla luce di quel che va accadendo tutt’intorno - sottovalutare la possibilità di un esito traumatico dello scontro in corso, sarebbe un errore gravissimo.

E così, tra le eredità che riceverà in dono il futuro leader del Pd, c’è anche questa: la necessità di tenere assieme un partito segnato da profonde divisioni politiche, rancori personali e voglia di mandare tutto all’aria. Matteo Renzi - indicato da tutti i sondaggi come favorito nelle primarie dell’8 dicembre - dovrà dunque soppesare con attenzione le sue prime mosse da leader. Già avviare la sua segreteria provocando elezioni anticipate in primavera (ipotesi che il sindaco di Firenze sembra, quantomeno, non temere) potrebbe nascondere insidie imprevedibili; cercarle addirittura con un Pd che si divide e si scinde, rischia di trasformarsi in un errore esiziale: per il Paese, certo, ma anche per il futuro ed il destino dello stesso Partito democratico...

Da - http://lastampa.it/2013/11/25/italia/politica/il-paradosso-del-partito-di-lotta-e-di-governo-dJYswflfu2IZVHFSqVlQsL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - I nemici di sempre non festeggiano “Ora sarà tutto ...
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2013, 11:36:21 am
Politica
28/11/2013 - Gli avversari
I nemici di sempre non festeggiano “Ora sarà tutto più difficile”
Bindi: “Per me quello di ieri non è stato un giorno politicamente felice”

Federico Geremicca
Roma

Ci sono giornate che aspetti per anni, poi quella giornata arriva e tu non sai più bene se è valsa la pena attendere tanto, se hai fatto un affare oppure no.  

Con qualche approssimazione, è più o meno questo l’umore incerto dei «nemici di sempre» nel giorno in cui Silvio Berlusconi - detto anche il Dottore, il banana, il Caimano e, più gentilmente, il Cavaliere - decade dalla sua carica di senatore. Il Pd si interroga sui rischi e i vantaggi di un tale accadimento e non trova una risposta. O meglio, come da un po’ di tempo a questa parte, ne trova due: quella degli amici di Renzi e quella dei nemici di Renzi...

Insomma: è un buon affare, per il governo, una maggioranza senza Berlusconi, anzi con Berlusconi che va all’opposizione affianco a Grillo e si prepara a cannoneggiare Palazzo Chigi un giorno sì e l’altro pure? E sono stati un affare, per il Pd, questi quasi quattro mesi vissuti pericolosamente, con l’obiettivo prioritario di «applicare la legge», di «dare esecuzione a una sentenza», di mettere - insomma - Silvio Berlusconi fuori dal Parlamento? Enrico Letta - e lo ha detto subito - non ha dubbi, ne è valsa la pena: il governo ora è più forte perché la maggioranza è più coesa. Ma tra i Democratici, in verità - e non solo per faccende congressuali - non sono in molti a pensarla come lui, anche in un giorno tanto atteso come questo.

Non la pensa come lui, per esempio, Sergio Cofferati: «Quella di Letta è un’affermazione che non ha elementi razionali a sostegno». E anche Rosy Bindi - icona antiberlusconiana per antonomasia - non è ottimista: «Per il governo comincia una fase più difficile, non più facile». Paolo Gentiloni, renziano dichiarato, aggiunge: «L’idea che maggioranza e governo siano più forti è tutta da dimostrare: ci vorrebbe almeno una “fase due” dell’esecutivo, con una visibile discontinuità». Ma Beppe Fioroni, anti-renziano ugualmente dichiarato, replica: «Il governo è più forte perché a farlo cadere, ora, dovrebbe essere il Pd: e io voglio vedere quale segretario mette la faccia in un’operazione che porta alle dimissioni di Enrico Letta...».

Non è però solo questione di chi fa cadere chi: è anche questione di chi fa cosa e perché. E dunque: cosa può fare Letta con una maggioranza magari più coesa ma certo più ristretta, tanto che - per iniziare - escono dall’agenda quelle riforme costituzionali che pure sono la vera «missione» affidata alle larghe intese dal Capo dello Stato? «Potrà fare poco, immagino - profetizza Rosy Bindi -. Con Berlusconi che lo attacca dall’opposizione, anche Alfano dovrà alzare la sua asticella. Il Cavaliere dirà “troppe tasse”? Alfano dovrà dire lo stesso, e per Enrico saranno problemi... Vedo all’orizzonte una competizione interna al centrodestra della quale noi del Pd rischiamo di pagare il prezzo».  

Non solo: per quanto può contare - e conta molto - c’è anche un problema elettorale e di consenso all’orizzonte: «Per Letta e per il Pd - azzarda Gentiloni - può essere pericolosissimo farsi “testare”, come si dice, alle prossime Europee: sono per antonomasia elezioni con voti “in libera uscita”, si svolgono con metodo proporzionale e Berlusconi e Grillo le giocheranno tutte in chiave anti-euro e anti-Europa, come i movimenti populisti che vanno radicandosi in tutto il Vecchio Continente. In due parole: rischiamo di rimetterci le penne».

Dunque sono un guaio la decadenza di Berlusconi e il passaggio di Forza Italia all’opposizione?  

«Possono diventarlo - annota Rosy Bindi -. Per me quello di ieri non è stato un giorno politicamente felice, e non maramaldeggio sulle vicende di Berlusconi. Tolte le riforme costituzionali, che vedo svanire all’orizzonte, che resta da fare al Pd e al governo? La legge elettorale da riformare, certo: e dobbiamo a tutti costi riuscirci. E poi il semestre europeo, che non è poco, intendiamoci. Ma da anti-renziana come sono, dico che su questo Matteo ha ragione: il governo fino ad ora ha usato la nostra prudenza, ora deve usare le nostre idee e il nostro coraggio...».

E quindi? Come chiudere questa giornata prima tanto attesa e ora così temuta? Forse affidandosi alla vena filosofica di Beppe Fioroni: «Può succedere di tutto, ma Letta deve andare avanti - dice -. Del resto, con la fine della Seconda Repubblica, siamo entrati in una fase di caos primordiale, dove tutto finisce e tutto comincia». Caos primordiale, già. E figurarsi se il caos può spaventare il Pd...

Da - http://lastampa.it/2013/11/28/italia/politica/i-nemici-di-sempre-non-festeggiano-ora-sar-tutto-pi-difficile-0HkaKrA5CWgmV28B0se7GN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Dal Porcellum al gioco dell’oca
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2013, 06:18:21 pm
Editoriali
06/12/2013

Dal Porcellum al gioco dell’oca
Federico Geremicca

La speranza è durata poche ore. E chi immaginava che la temuta sentenza della Corte Costituzionale potesse avere almeno l’effetto di accelerare e responsabilizzare l’estenuante dibattito in corso intorno alla riforma della legge elettorale, ci ha messo pochissimo a capire che non è così. Se possibile, anzi, la situazione è addirittura peggiorata. 

Peggiorata per la buona ragione che va ormai rivelandosi con sempre maggior chiarezza la circostanza che il confronto sulla riforma da varare è ormai ineludibilmente intrecciato al braccio di ferro in corso tra chi vuole il voto anticipato la prossima primavera e chi punta – come da programma – ad arrivare fino al 2015.

E così, non per caso, quella di ieri è stata una giornata di vera e propria guerriglia politica e perfino procedurale. Camera e Senato sono ai ferri corti e si contendono la titolarità di conservare (o acquisire) il diritto a discutere di legge elettorale; i partiti – anche quelli di maggioranza – appaiono ancor più divisi circa il tipo di riforma da varare; e Berlusconi, Grillo e la Lega – andandoci ancor più per le spicce – si sono calati in una trincea assai insidiosa: il Parlamento, il governo e il Presidente della Repubblica – dicono – sono delegittimati dalla sentenza della Corte, e non resta che ristabilire la legalità e indire nuove elezioni. 

Il clima è pesante, Enrico Letta naviga a vista in attesa del dibattito parlamentare di mercoledì prossimo e la spinta verso il voto tra marzo e aprile sembra farsi ogni giorno più forte. Poco importa che occorrerebbe comunque approvare una nuova legge elettorale prima di tornare alle urne, e che all’orizzonte non si scorga alcuna ipotesi di intesa. Gli equilibri in campo, infatti, sembrano cambiare: tanto che, secondo molti, la probabile elezione di Matteo Renzi alla guida del Partito democratico rischia di chiudere definitivamente (e nel peggiore dei modi) l’insidiosissimo cerchio.

Quale sarebbe lo scenario, infatti, una volta che il sindaco di Firenze dovesse conquistare il Pd? Molto semplice: le tre forze politiche maggiori del Paese (Partito democratico, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle) avrebbero alla guida leader che si dichiarano esplicitamente per le elezioni anticipate – Berlusconi e Grillo – o che dicono di non considerarle un male assoluto, a fronte di un governo che non dovesse «fare» (Renzi). È vero che a contrastare questi leader e questa spinta c’è un altrettanto «potente terzetto» (il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e il vicepremier Alfano, leader del Nuovo centrodestra ): ma in politica esiste una forza delle cose che, se non arrestata in tempo, rischia di travolgere tutto e tutti.

 

Quel che continua a sconcertare è l’incapacità a decidere e la paralisi della quale sembrano esser finite preda tutte le forze politiche: si parla di riforma della legge elettorale da anni, eppure il Parlamento non riesce a trovare – oggi – un’intesa nemmeno su quale Camera sia titolata a discuterne e perfino ad approvare un innocuo ordine del giorno di indirizzo. Si sperava, come detto, che il fatto che pendesse sul Porcellum una sentenza della Corte Costituzionale spingesse i partiti a decidere: non solo questo non è accaduto, ma ora – paradossalmente – capita perfino di dover ascoltare tra i corridoi della Camera e quelli del Senato obiezioni e rimproveri a mezza voce al lavoro della Corte: fingendo di ignorare che se i giudici sono intervenuti è solo perché qualcun altro non lo ha fatto...

Non sono, naturalmente, solo ignavia e irresponsabilità a tenere la riforma ferma al palo: è che i partiti – alcuni divisi perfino al loro interno – guardano a modelli assai diversi l’uno dall’altro e, fondamentalmente, a modelli che possano favorirli e garantirne la sopravvivenza. Non è un vizio di oggi: tanto che – è noto – in Italia le leggi elettorali sono state quasi sempre il prodotto o di referendum (il Mattarellum) o di «colpi di mano» (il Porcellum): e ora – quando e se accadrà – di sentenze della Corte Costituzionale.

Eppure si era scritto e sperato in un accordo a tre (Letta-Renzi-Alfano) su una legge elettorale a doppio turno: così che si sarebbero garantite, in un sol colpo, tanto la riforma quanto la sopravvivenza del governo. Niente da fare: da ieri anche questa ipotesi è carta straccia. E dunque si ricomincia dall’inizio, come in un rischioso, insostenibile e intollerabile gioco dell’oca...

Da - http://lastampa.it/2013/12/06/cultura/opinioni/editoriali/dal-porcellum-al-gioco-delloca-PLiH8LEvkbYUS9CeUZnFvK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi un’ora con Napolitano “Diffidenza decrescente”
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2013, 06:19:46 pm
Politica
12/12/2013 - colloquio

Renzi un’ora con Napolitano “Diffidenza decrescente”
“Credo vorrebbe andare al voto dopo il 2015, ma stabilità non è immobilismo”

Federico Geremicca
Roma

L’espressione che usa è singolare, ma rende l’idea - con ricercata delicatezza - dell’attuale stato dei rapporti tra i due: “Diffidenza decrescente”. Ecco quel che corre oggi tra Matteo Renzi e Giorgio Napolitano; e quel che corre oggi, allora, segnala almeno un cambiamento rispetto a quel che c’era ieri: quando la diffidenza - evidentemente - era solida, percepibile e nient’affatto decrescente.

Il neo segretario del Pd è rimasto colpito: «Un’ora faccia a faccia. Incontro serio, buono, importante». E forse anche il Presidente tornerà a riflettere sulla lunga chiacchierata: cinquant’anni di differenza, due mondi sideralmente distanti, in mezzo una guerra, la ricostruzione, l’Italia che si rimette in piedi. Eppure, un punto d’incontro lo si trova: il Paese va salvato di nuovo e, per farlo, servono riforme e stabilità. E’ su questo che, alla fine, i due s’intendono. Anche se il sindaco-segretario - tornato a Firenze - spiega di non rinunciare alle sue convinzioni: «Credo che Napolitano vorrebbe che il governo andasse avanti, molto avanti, altro che 2015... Io non dico di no, però insisto: stabilità non può voler dire l’attuale immobilismo». 

Matteo Renzi è contento - diremmo perfino molto contento - di queste sue prime 72 ore da segretario. E non è solo per come è andato il tanto atteso incontro al Quirinale: «Il Presidente ha apprezzato, credo, il fatto che io non intenda imporre miei modelli in materia di legge elettorale - dice -. Ma contemporaneamente, ha chiaro che il Pd non mollerà sulla necessità di fare una riforma. Quel che mi pare di poter dire, al di là dell’incontro, è che molte cose sono già cambiate in appena tre giorni. Mi sembra si vada affermando - conclude soddisfatto - l’idea che la riforma vada fatta in tempi molto brevi, e credo sia ormai deciso che se ne occuperà la Camera: per cui Giachetti può interrompere il suo digiuno. E questa è quella che si può chiamare una buona notizia».

Bene con Napolitano, dunque. E bene anche sulla via della riforma della legge elettorale, lungo la quale - però - Renzi si muove con «crescente diffidenza». «Temo che Angelino Alfano voglia perder tempo e menare il can per l’aia - dice il sindaco-segretario -. Io con lui parlerò, figurarsi, ma non mi lascerò incantare e nemmeno rallentare: ho una mia exit strategy, un canale aperto anche con Berlusconi e Grillo, che la riforma adesso la vogliono davvero. E se il Nuovo centrodestra divaga, vuol dire che lavoreremo con qualcun altro».

Beppe Grillo, già. Il comico-leader ha fiutato il pericolo e da un po’ di tempo ha fatto di Matteo Renzi il suo nemico numero uno: si può tranquillamente dire che l’avversione è reciproca, e che quel che si profila - per i prossimi mesi - potrebbe somigliare a un vero e proprio duello rusticano. Il segretario del Pd non ha affatto gradito, per esempio, l’ultima uscita del leader Cinque Stelle che lo ha sfidato a rinunciare al finanziamento pubblico, come ha già fatto il suo movimento. Renzi gli ha prima replicato con un tweet: «Caro Grillo ti rispondo nei prossimi giorni con una sorpresina che ti sto preparando». Ma la sorpresina, in realtà, è già pronta...

«Credo proprio che gli risponderò da Milano, all’Assemblea nazionale -dice -. Mi chiede di firmare una lettera di rinuncia al finanziamento pubblico? Troppo semplice. Facciamo le cose per bene: firmi lui una lettera nella quale dice sì ad una legge elettorale maggioritaria, alla riforma del Titolo V, all’abolizione del Senato e del finanziamento pubblico ai partiti. Vediamo se è pronto. Ma quel che è più importante è che deve mettersi in testa anche lui che l’agenda delle cose da fare la detta il Pd, e che non staremo più a rincorrere né lui né altri».

Il piglio di Renzi non sembra cambiato: il nuovo ruolo di segretario non ha smorzato la nettezza delle sue posizioni e il tono - al solito - un po’ guascone. E’ contento della segreteria messa in campo: «Più donne che uomini, come promesso: non era mai successo prima. E poi tutti bravissimi. Sono impressionato dalla concretezza della Serracchiani, dall’impegno della Boschi, dalla lucidità di Federica Mogherini...»”. E con un piccolo strappo alla riservatezza con la quale ha circondato il suo colloquio con Napolitano, dice «il Presidente era molto curioso di saperne di più - racconta -. Alcuni dei giovani messi dentro li conosceva, la Mogherini, la Boschi... di altri ha voluto sapere».

La Segreteria, dunque il Partito, il Pd. Matteo Renzi è ancora in attesa di sapere se Cuperlo ci sta davvero ripensando e alla fine accetterà la carica di Presidente dell’Assemblea nazionale. «So che ci ragiona - dice Renzi -. Sul momento mi aveva detto di no, ma nella sua componente si è aperta una complicata discussione e alla fine - io lo spero - potrebbe ripensarci. Comunque sia, non è che accetterò qualunque nome mi verrà proposto. So che D’Alema è furioso, per esempio, perchè ho annunciato che non lo ricandiderò alle Europee. Ma si volta pagina, e non sono preoccupato: anche in Direzione, su 120 membri una ottantina almeno è in maggioranza con me». 

Tante partite da giocare contemporaneamente: e nessuna particolarmente semplice. Renzi non è spaventato, ma non nasconde - in un momento di sincerità - che il livello si è fatto assai più alto. «Fino a ieri, parliamoci chiaro, giocavo a tennis: cioè, buttavo la palla dall’altra parte del campo. Adesso è una partita a scacchi. Difficile. E se sbagli una mossa...». Già, se sbagli una mossa è un guaio. Chiedere ai predecessori: da Veltroni a Bersani non potranno che confermarlo...

Da - http://lastampa.it/2013/12/12/italia/politica/renzi-unora-con-napolitano-diffidenza-decrescente-CnlOKDyoy81WZ0SRLgM14L/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il destino incerto della coppia Letta-Renzi
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 04:54:18 pm
politica
15/12/2013

Il destino incerto della coppia Letta-Renzi

Federico Geremicca
Roma

Cos’è in corso tra Letta e Renzi? Un abile gioco di squadra o una lotta sorda che non potrà che concludersi con un vincitore e un vinto?

Da qualche giorno è questo l’interrogativo che accompagna le mosse e le contromosse del premier Letta e del leader Pd, Matteo Renzi, che oggi a Milano verrà ufficialmente proclamato segretario. Ottimisti e pessimisti si dividono nella risposta da dare circa la natura e le dinamiche del rapporto di questa nuova «coppia politica» italiana: dopo Fanfani e Moro, De Mita e Forlani, D’Alema e Veltroni, tocca adesso ai due enfant prodige del Partito democratico. Ma se la storia ha un senso e i precedenti possono aiutare ad orientarsi, gli ottimisti (in buona o cattiva fede) rischiano di andar incontro ad una cocente delusione.

Il rischio di errore, in analisi così, è naturalmente alto: ma è davvero difficile cogliere i segni (e le ragioni politiche) di una intesa - anzi: di un patto, come va di moda dire oggi - tra i due giovani leader democratici. E c’è un elemento, in particolare, che va necessariamente assunto come punto di partenza per l’avvio di qualunque previsione che riguardi l’evolvere del rapporto tra premier e segretario: e cioè, che Enrico Letta (perfino suo malgrado) si è ritrovato seduto sulla poltrona che Matteo Renzi insegue - senza farne mistero - fin dall’autunno dell’anno scorso.

Fallito l’assalto alla candidatura a premier perché battuto da Pier Luigi Bersani, il giovane sindaco di Firenze ha deciso di provare a raggiungere lo stesso traguardo attraverso un’altra strada: la conquista della leadership del maggior partito italiano (e di governo). Da quella postazione ha immediatamente avviato un’opera, diciamo così, di «provocazione positiva» nei confronti dell’esecutivo, per dimostrare l’inadeguatezza di un governo composto da forze troppo omogenee per poter utilmente marciare assieme.

Renzi immaginava, forse, una rapida resa del premier-competitor, ma due novità (solo in parte imprevedibili) sono sopraggiunte a complicargli i piani: la sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha privato il Paese di una credibile legge elettorale per tornare alle urne, e la reazione di Enrico Letta, deciso - come ha ripetuto ancora mercoledì di fronte alla Camera riunita - a «combattere come un leone». E a che tipo di combattimento pensasse, e quale nemico avesse in mente, lo si è capito a sufficienza con la spregiudicata mossa fatta in materia di finanziamento pubblico ai partiti.

Sia su questo terreno, sia sulla delicata frontiera della legge elettorale da varare, l’effetto della competizione tra Letta e Renzi ha - paradossalmente - prodotto una accelerazione alla quale tutti guardano, adesso, con non nascosta soddisfazione. Sull’ormai obbligatoria riforma del Porcellum - è vero - si è ancora alle mosse preparatorie (ma il passaggio di mano della materia, tra Senato e Camera, è certo un punto a favore del leader Pd). Sul finanziamento ai partiti, invece, il governo ha effettuato una mossa concreta: il cui effetto, in tre anni, sarà quello di trasformare i partiti politici italiani negli unici - tra i maggiori Paesi europei - a non poter godere di una sola lira di finanziamento pubblico.

Sull’onda di mutande verdi comprate con soldi pubblici, feste in maschera e cosmetici acquistati con i quattrini degli italiani, l’iniziativa del governo è stata salutata dallo scrosciare degli applausi. Secondo un vecchio adagio, però, la fretta è a volte cattiva consigliera, e sarebbe paradossale se l’abolizione totale del sostegno alla politica dovesse in qualche modo esser ripensata di fronte ad una domanda che potrebbe riservare riposte amare: dove e come i partiti troveranno risorse per continuare la loro attività? L’interrogativo non è da poco. E anche Renzi non farebbe male a rifletterci: soprattutto se davvero avesse intenzione di annunciare, oggi da Milano, la disponibilità del Pd a restituire perfino i finanziamenti ricevuti dall’inizio degli Anni 90 ad oggi... 

Da - http://lastampa.it/2013/12/15/cultura/opinioni/editoriali/il-destino-incerto-della-coppia-lettarenzi-CJQD5kAoaySCZdqcF0p0DP/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il lavoro e l’articolo 18 già spaccano il Pd
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:33:14 pm
Politica
21/12/2013

Le due anime del Pd e il mistero dell’articolo 18
Il partito si spacca, ma per il segretario non è una priorità
Il lavoro e l’articolo 18 già spaccano il Pd

 
Federico Geremicca
Roma

«Guardi, abbiamo fatto una riunione di segreteria ancora giovedì, l’altro ieri, proprio su questo: il piano-lavoro, che Renzi vorrebbe pronto entro un mese. E naturalmente di tutto abbiamo discusso meno che dell’abolizione dell’articolo 18. Ancora mi chiedo, anzi, chi ha messo in giro la notizia che noi si starebbe ragionando su questo: probabilmente, qualcuno che vuol mandare tutto a gambe all’aria».

Ora, dunque, la questione sarebbe addirittura il chi: cioè, chi è che nel Pd ha parlato dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? «Non Renzi - spiega Marianna Madia - che probabilmente non sarebbe contrario, ma ha chiaro che non è questo il tempo per una simile discussione, e infatti l’ha ripetuto anche alla presentazione del libro di Vespa». E se non Renzi, chi allora? Gutgeld, forse, solitamente definito consigliere economico del neo-segretario Pd? «Magari ne ha scritto - dice la Madia -. Ma naturalmente una cosa è quello che scrive Gutgeld e altra quello che decidiamo noi».

Ma tant’è: è bastato perché Stefano Fassina - viceministro all’Economia - prendesse il bastone e randellasse: il piano lavoro di Renzi «è inutile, se non dannoso», ed è «deprimente il ritorno dell’ossessione sull’articolo 18 e sulle regole, dopo i conclamati fallimenti della ricetta neoliberista». Che Matteo Renzi lo abbia detto oppure lo abbia soltanto pensato, non è granché importante in questo caso: perché - al di là della polemica a “uso interno” - quel che riemerge in queste ore con disarmante nettezza è uno dei tabù (forse il più solido e attuale) che da anni divide la sinistra italiana.

Non l’unico, naturalmente. Qualcuno, per esempio, ricorda le spaccature orizzontali all’interno del centrosinistra ad ogni voto parlamentare per il rifinanziamento delle missioni militari all’estero? E le polemiche durissime in materia di bioetica o fine vita? Per non dire - anche questa questione ancora parzialmente irrisolta - dei duelli rusticani in materia di unioni civili, adozioni e matrimoni gay. Ogni volta che la cronaca rende necessario affrontare queste e alcune altre questioni, il solo parlarne spacca il centrosinistra - e il Pd - quasi precisamente a metà. Come sta puntualmente accadendo in questi giorni di fine anno in materia di abolizione dell’articolo 18: faccenda che, come detto, nessuno - né Renzi né membri della sua segretaria - ha per ora più o meno ufficialmente posto.

«E sarebbe anche singolare che qualcuno la ponesse - annota da Strasburgo Sergio Cofferati, che della difesa dei diritti in senso lato ha fatto per anni una bandiera -. Parlare di come licenziare mentre le aziende non assumono a causa della crisi, è un esercizio di ottimismo o di cinismo, non saprei dire. Senza contare che, in larga misura, l’articolo 18 già non esiste più: visto che la riforma Fornero in materia di mercato del lavoro lo ha di fatto surrogato, lasciando alle aziende - grandi e piccole - la possibilità di licenziare per ragioni economiche. E infatti reintegri per giusta causa non se ne vedono più...».

Questo naturalmente non vuol dire che la questione non sia più sul tavolo e che di articolo 18 non si tornerà a parlare (e probabilmente anche non troppo in là nel tempo) Ma il problema, per il Pd, è appunto riuscire almeno a parlarne, evitando che attorno a questo totem (è Matteo Renzi ad averlo definito così) si ricreino schieramenti automatici che - piuttosto che guardare alla sostanza del problema - guardino ad altro: all’utilità elettorale, alla convenienza di parte, al “ricavo politico” che se ne potrebbe avere alla luce degli equilibri interni.

«Noi non partiremo certo da lì - ripete Marianna Madia - perché partire da lì vuol dire fermarsi subito». Partire no, va bene. Ma c’è chi spera - e il numero di chi lo spera cresce - che almeno ci si arrivi. A crisi superata, naturalmente. Perché discutere di come licenziare oggi, a molti appare vagamente surreale... 

Da - http://lastampa.it/2013/12/21/italia/politica/le-due-anime-del-pd-e-il-mistero-dellarticolo-9CairWvpdbRkZ74umUbepM/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Gli spazi lasciati vuoti dai partiti
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2013, 11:46:08 pm
Editoriali
28/12/2013
Gli spazi lasciati vuoti dai partiti

Federico Geremicca

Stavolta non ha applaudito nessuno, a differenza di quanto accadde nell’aula di Montecitorio gremita in ogni ordine di posti il 22 aprile scorso. Giorgio Napolitano leggeva il duro discorso da Presidente rieletto e fu quasi costretto a interrompere il suo severo atto d’accusa di fronte ai continui battimani: «Il vostro applauso - disse rivolto a deputati e senatori - non induca ad alcuna autoindulgenza: non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme». 

Torna utile, oggi, ripensare a quell’intervento. E non solo per i mancati applausi - a Parlamento semideserto - che hanno accompagnato la puntigliosa lettera con la quale il Capo dello Stato, ieri, ha richiamato governo, Camere e forze politiche a un maggior rigore in materia di decreti legge: ma anche e soprattutto perché, nel giro di pochi mesi, quel frenetico batter di mani è stato sostituito da un sentimento, un disagio, del quale naturalmente si intende il senso, ma assai meno l’origine, la ragione e - in qualche modo - perfino la legittimità. 

Il disagio di cui diciamo è legato agli atti di un Capo dello Stato che starebbe allargando a dismisura il raggio della sua «supplenza», che interverrebbe troppo di frequente per riempire «vuoti» politici, legislativi (e perfino regolamentari) e che - questa è l’accusa finale - starebbe addirittura trasformando l’attuale forma repubblicana in una «monarchia costituzionale». Delle funzioni, del ruolo e delle prerogative dei Presidenti della Repubblica, sono stati riempiti volumi e volumi, dal dopoguerra a oggi: e quindi figurarsi se il tema non ha un suo interesse e una sua legittimità. Ma non è questo il punto. 

 

Quel che appare poco comprensibile, infatti, è la circostanza che a porre simile questione - più o meno tra i denti - siano precisamente i soggetti che hanno creato e continuano a creare quei vuoti politici (e non solo politici) che il Capo dello Stato è costretto - spesso suo malgrado - a riempire. Per altro, la contestata funzione di supplenza, non di rado si risolve in iniziative di fronte alle quali le forze politiche dovrebbero - per tornare all’immagine iniziale - nuovamente applaudire. E perfino con qualche riconoscenza.

Si pensi, ad esempio, proprio all’ultimo caso in questione: il decreto salva-Roma, che il governo ha dovuto far decadere appunto per iniziativa del Quirinale. Si denuncia, infatti, l’ennesima «ingerenza» del Presidente della Repubblica: e non ci si sofferma su cosa si sarebbe abbattuto - in caso di non intervento e di conversione di quel decreto - sulle forze politiche e sul governo che l’aveva voluto. Una nuova ondata di discredito - per le regalìe, le scelte clientelari e la confusa pioggia di denari fatti cadere qua e là - avrebbe probabilmente investito il sistema: a tutto vantaggio non certo dell’esecutivo, ma di quelle forze «demagogiche, populiste e antieuropee» che pure - così spesso - vengono messe all’indice.

Perché piuttosto che denunciare l’«invadenza» del Capo dello Stato i partiti politici - di maggioranza e di opposizione - non riempiono essi quei vuoti, quegli spazi, sui quali deve poi intervenire il Quirinale? «Imperdonabile - disse in quel 22 aprile Napolitano - resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005». È stata forse varata una nuova norma elettorale? Non risulta. «Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro le quali ho cozzato nel passato - aggiunse il Presidente - non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese». C’è qualcuno che si preoccupa di evitare le possibili (perché preannunciate) dimissioni del Capo dello Stato, piuttosto che denunciarne l’invadenza? Non parrebbe.

È penoso dirlo, ma l’anno che si conclude finisce così come era cominciato: l’incapacità ad eleggere un nuovo presidente della Repubblica, due mesi per varare un governo purchessia, nessun passo avanti in materia di riforme e - anzi - il mortificante intervento della Corte Costituzionale scesa in campo a cancellare quella che c’era. È di questo che ci si dovrebbe occupare, piuttosto che lamentare supplenze (non esaltanti, ma inevitabili e certo non nuove) rispetto alle quali tante volte occorrerebbe semplicemente prender atto e perfino ringraziare...

Da - http://lastampa.it/2013/12/28/cultura/opinioni/editoriali/gli-spazi-lasciati-vuoti-dai-partiti-5EWJuk4nzC1jpSs1xxqVCL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Tra i due leoni una sfida incandescente
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2014, 05:18:58 pm

Editoriali
17/01/2014

Tra i due leoni una sfida incandescente

Federico Geremicca

Quattro ore di discussione pubblica, tesa e senza rete: eppure il senso della Direzione Pd in diretta streaming, è tutto – in fondo – in un duro scambio di battute. Renzi: «In 10 mesi sulle riforme è un elenco di fallimenti. Se pensiamo di andare avanti come se niente fosse, saremo spazzati via». Letta (da Palazzo Chigi): «Sono d’accordo su un nuovo inizio. Ovviamente ho un giudizio diverso sui nostri nove mesi di lavoro».

Eccola qui, dunque, la questione delle questioni, che viene prima della legge elettorale, dello ius soli e di tutto il resto: il destino, il futuro del governo in carica.

Che sia questa la posta in palio – nel Pd ma non solo nel Pd – ieri è finalmente apparso con crudissima chiarezza, perché il neo-segretario dei democratici (sorprendendo perfino i renziani più renziani) non ha annacquato nessuna delle critiche che muove da settimane all’esecutivo e anzi – se possibile – le ha perfino accentuate. «Il governo è al minimo storico di popolarità – ha detto in Direzione – e il nostro problema è invertire la china... oppure rischiamo che al voto europeo il fallimento ricadrà su di noi».

Perfino sprezzante in alcuni passaggi («Ho visto ministri dimettersi per un “chi”, ma non per la condanna di Berlusconi») Matteo Renzi non ha fatto né sconti né concesso attenuanti al lavoro (al «fallimento») dell’esecutivo guidato da Enrico Letta. E se il giudizio del leader democratico sul governo in carica già costituiva un problema da settimane, da ieri si è trasformato nel problema dei problemi: i toni, infatti, si sono ulteriormente appesantiti e le intenzioni del sindaco-segretario, di conseguenza, continuano ad essere circondate da sospetti crescenti. «Se ogni volta che apro bocca – ha lamentato ieri – voi cominciate a dire che voglio le elezioni anticipate, allora non andremo da nessuna parte...».

Eppure il sospetto, a questo punto, è giustificato e reso lecito – in fondo – dalla stessa direzione di marcia del segretario. Renzi, infatti, non perde occasione per definire fallimentare il bilancio del governo eppure non intende occuparsi – e quindi favorire – l’invocato rimpasto che potrebbe rafforzare e rilanciare l’esecutivo; chiede che nella nuova agenda di governo alla quale lavora Letta vengano inseriti provvedimenti indigeribili per il Nuovo Centrodestra di Alfano; ripete di voler incontrare Berlusconi per discutere anche con lui di riforma elettorale e ogni sua uscita – insomma – sembra fatta apposta per appesantire e rendere meno gestibile una situazione già di per sé assai complicata.

E’ possibile, in realtà, che il leader democratico intenda tener aperte – finché possibile – entrambe le strade: scivolare verso le elezioni anticipate, se riuscisse davvero ad arrivare ad una nuova legge elettorale, oppure sostenere «criticamente» l’esecutivo, se la riforma del sistema di voto non dovesse andare in porto. I tempi della scelta, però, si vanno intanto inesorabilmente accorciando: e non è questo il suo unico problema. Colloquio dopo colloquio, infatti, Renzi va convincendosi che – al di là di questo o quel roboante proclama – la voglia di tornare alle urne non è poi così diffusa... Ed è un impedimento non da poco.

Per dirla con più chiarezza: al momento, il segretario Pd è probabilmente l’unico leader a volere davvero un voto che – vedendolo probabilmente facile vincitore, stando ai sondaggi – dividerebbe il mondo politico in sconfitti (gli avversari del centrodestra) e succubi (gli alleati di governo e la parte di Pd che gli si oppone). Chi e perché, insomma, dovrebbe regalare a Matteo Renzi elezioni anticipate in un quadro così? Ed è per questo che i suoi toni si alzano, le critiche al governo si fanno sempre più affilate e lo stile politico (quello di sempre) non raccoglie né inviti alla prudenza né al senso di responsabilità, considerata la crisi ancora galoppante.

La sfida tra i due «giovani leoni» democratici si fa dunque incandescente, come era largamente prevedibile. Ma col mondo politico che sta col fiato sospeso e le cancellerie europee che si interrogano su cosa diavolo stia risuccedendo in Italia, restano davvero pochi giorni a Letta e a Renzi per raggiungere quell’intesa a lungo e invano ricercata. Un’intesa, un patto, nel quale – ad onor del vero – quasi nessuno crede più...

Da - http://lastampa.it/2014/01/17/cultura/opinioni/editoriali/tra-i-due-leoni-una-sfida-incandescente-xGT18xK0KloOapZDUiAJNK/pagina.html



Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: “Letta dovrebbe ringraziarmi, invece dice che è ...
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 05:53:52 pm
politica
19/01/2014

Renzi: “Letta dovrebbe ringraziarmi, invece dice che è merito suo”
Il segretario: ma col nostro lavoro lui non c’entra


Federico Geremicca
Roma

«E adesso voglio vedere se avranno ancora il coraggio di dire che voglio mettere in crisi il governo, che il mio obiettivo sono le elezioni anticipate e che sono solo immagine e niente sostanza». Sono le nove della sera, Matteo Renzi è in treno e sta facendo ritorno a Firenze. Il lungo e contestatissimo incontro con Silvio Berlusconi è andato bene, c’è un’intesa di massima sull’intero percorso riformatore (dalla legge elettorale all’abolizione del Senato, fino alla riforma del Titolo V) e ti aspetteresti, dunque, un Renzi contento e in gran forma. Ma no, niente da fare. Assolutamente no.  

Il leader Pd, stanco e provato da una settimana dura e segnata da non più di quattro o cinque ore di sonno a notte, è un fiume in piena: «Ho dimostrato che quel che dicevo da mesi era vero: ho messo gli interessi del Paese davanti a tutto - spiega - Li ho messi anche davanti ai miei interessi personali, perchè non c’è dubbio che andare al voto subito sarebbe stata un’occasione, per me. Ora la smetteranno, spero. Anche se non so quanto siano contenti, visto che in tre settimane stiamo facendo un lavoro che non erano stati in grado di fare in dieci anni».

Soddisfatto, dunque: ma solo parzialmente e - come si usa dire in questi casi - con molti sassolini da togliersi dalle scarpe. Il primo riguarda Enrico Letta col quale - nonostante gli sforzi reciproci - proprio non riesce a trovare una sintonia : «Se va in porto l’intesa - dice Renzi - il suo governo è salvo. Dovrebbe ringraziarmi, e invece va mettendo in giro la voce che se si troverà un’intesa su una nuova legge elettorale è per merito suo, per la sua mediazione. Ma credo che tutti abbiano capito che lui non c’entra niente col lavoro che stiamo facendo. Per sapere com’era andato l’incontro con Berlusconi e cosa avevamo deciso, ieri ha dovuto chiamare lo zio...».

Il secondo sassolino, invece, riguarda il Pd. «Lunedì - continua Renzi - faremo la Direzione e vedremo che cosa accadrà. Il modello al quale stiamo lavorando mi pare possa funzionare, ma ciò nonostante sono sicuro che in molti voteranno contro. Diranno che il sistema che il Pd preferisce è il doppio turno... Anche a me sarebbe piaciuto il doppio turno, ma non ci sono i numeri per approvarlo, e bisogna farsene una ragione».

Il segretario, insomma, teme un’altra Direzione tesa e nervosa quanto quella di qualche giorno fa. Immagina già bersaniani e dalemiani in campo contro di lui. Del resto, lo scontro per le primarie è stato durissimo, e troppe ferite sanguinano ancora«Fa niente, faremo i conti anche con loro. Intanto, però, ho fatto sapere a Bersani che se ha voglia e se la sente, domani (oggi per chi legge, ndr) vado a Parma a trovarlo in ospedale per raccontargli a che punto della faccenda siamo arrivati e come pensiamo si potrebbe chiudere. Aspetto solo di sapere da Vasco Errari se Pier Luigi ne ha voglia e se la sente...».

Fa il viaggio di ritorno da solo, così come da solo era venuto da Firenze a Roma. E anche quest’immagine consegna, plasticamente, la fotografia di un leader solitario. Patti con nessuno, poche intese - se non quando assolutamente necessario - e uno stile politico che, per delicatezza, ricorda l’avanzare di un bulldozer in un campo di macerie. Faceva così a Firenze e non ha cambiato metodo una volta arrivato a Roma. Un ciclone. Sembra essere nella capitale e sul palcoscenico nazionale da anni, e invece è stato proclamato segretario un mese fa. Solo che ha preso il Pd al guinzaglio e lo sta portando a spasso come un cagnolino. Ora di qua, ora di là, ora su, ora giù... Anche i fedelissimi - amici e compagni della prima ora - fanno sempre più fatica a seguirne le mosse...

È anche per questo, per questo stile di direzione - a volerla dir così - che si va facendo sempre più assordante il silenzio dei Capi. Veltroni, D’Alema, Marini, Bindi, Finocchiaro... un silenzio assordante. Alcuni sono forse ancora realmente indecisi su cosa pensare; altri scommetterebbero volentieri su un suo fallimento, ma non ne vedono i segni. E poi ci sono quelli che non sanno in cosa sperare. Ma è questione di tempo. E uno degli interrogativi è proprio questo: quanto tempo ha ancora davanti Matteo Renzi prima che finisca lo stupore, il torpore che sembra aver avvolto il Pd? Quando saranno dissotterrate le solite e affilatissime asce di guerra?

«Faremo i conti anche con questo - dice Renzi mentre il treno entra in stazione -. Ma intanto dovrebbero essere contenti. Il Pd perchè siamo ripartiti e tornati al centro della scena. E quelli che stanno al governo, per il fatto che possono andare avanti: anche grazie al lavoro che sto facendo io...». Questo dice Renzi: dovrebbero essere tutti contenti. E invece, chissà perchè, di contenti in giro se ne continuano a vedere pochi che più pochi non si può...

Da - http://lastampa.it/2014/01/19/italia/politica/renzi-letta-dovrebbe-ringraziarmi-invece-dice-che-merito-suo-JT5xyAB9mMK8ag3hvbKAxL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il Cavaliere eterno tarlo dei Democratici
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2014, 11:26:19 pm
Editoriali
20/01/2014

Il Cavaliere eterno tarlo dei Democratici
Federico Geremicca

Una visita di cortesia per accertarsi delle migliorate condizioni di salute e anche - perché no? - per raccontare all’ex segretario lo stato della dura trattativa in corso intorno alla riforma della legge elettorale. Sono queste, ufficialmente, le ragioni che ieri hanno spinto Matteo Renzi a Parma, dove Pier Luigi Bersani resta ricoverato ma in un quadro di deciso e continuo miglioramento. Sarebbe ingenuo, però, non vedere nell’iniziativa del leader Pd anche il tentativo di lanciare un segnale distensivo all’opposizione interna (della quale i bersaniani sono larga parte) alla vigilia di una Direzione che si annuncia tesa e incerta nel suo sviluppo.

Difficile sapere se Renzi abbia chiesto a Bersani addirittura di intervenire in qualche modo, suggerendo - magari - un abbassamento generale dei toni. Ma certo non si sarebbe trattato di una richiesta eccentrica, considerato il fatto che la polemica interna al Partito democratico ieri ha raggiunto punte di grande asprezza intorno ad una questione, per altro, che pareva definitivamente superata: e che è stata invece velenosamente rilanciata, facendo fare al Pd un doppio salto mortale all’indietro. Parliamo, naturalmente, dell’antiberlusconismo: croce e delizia della sinistra italiana dalla discesa in campo del Cavaliere in poi. Dopo due decenni di scelte e giudizi un po’ schizofrenici, di alti e bassi nei rapporti col Caimano e di interrogativi mai risolti (in sintesi: l’antiberlusconismo fa più male al Cavaliere o alla sinistra?), la questione sembrava esser stata definitivamente archiviata la primavera scorsa, quando i democratici concordarono e votarono con Berlusconi tanto il nome del nuovo-vecchio Capo dello Stato quanto il premier, la struttura e il programma del governo da sostenere assieme. La Cassazione (chiamata per altro a giudicare solo su eventuali vizi di forma) non si era ancora espressa sul ricorso del leader di Forza Italia: ma tutti sapevano che Berlusconi era già stato condannato in primo e secondo grado per un reato grave come la frode fiscale. Ciò nonostante - fu questa la decisione - con lui si poteva governare, e perfino eleggere un Presidente. 

Anche allora, nell’aprile scorso, ci furono obiezioni e proteste (soprattutto in periferia, tra gli elettori e i militanti Pd), ma il gruppo dirigente democratico - Bersani in testa - non vacillò e impose quella linea. Si trattò di una scelta più o meno discutibile, naturalmente: ma quel che stupisce oggi è sentir affermare da uomini di punta di quel gruppo dirigente (Fassina) di aver provato addirittura «vergogna» per l’incontro di sabato tra Renzi e Berlusconi. Vergogna: cioè proprio la stessa parola che veniva urlata dai manifestanti davanti Montecitorio mentre il Pd si accingeva a votare per Marini Presidente della Repubblica (nome imposto dal Cavaliere per dare il via libera a un ipotetico governo-Bersani) piuttosto che per Stefano Rodotà...

La politica viene definita, molto spesso, l’arte del possibile: ed è un’arte nella quale è dunque normale e possibile cambiare opinione, fare retromarcia, conservare o smarrire la coerenza. Il punto, dunque, non riguarda la legittimità della più velenosa delle critiche mosse in queste ore a Renzi («ha incontrato Berlusconi»): quanto la sua sensatezza oggi, e l’effetto politico che potrebbe innescare. Con un Berlusconi in forzato e dichiarato declino, costretto ad entrare nella sede Pd da un ingresso secondario, bersagliato da uova e sottoposto ad una sorta di mortificante Canossa, pare poco sensato affermare che il semplice incontro con Renzi abbia «rilanciato il Cavaliere». Quel che potrebbe esser davvero rilanciato, piuttosto, è una sorta di antiberlusconismo di ritorno: un’inattualità che rischia - come è sempre avvenuto in passato - di deviare il confronto politico facendo perdere di vista il merito delle questioni.

A volerla dire con semplicità, apparirebbe politicamente incomprensibile se oggi la Direzione del Pd finisse per lacerarsi sulla liceità dell’incontro tra Renzi e Berlusconi piuttosto che dividersi sul modello di legge elettorale al quale sta lavorando il leader Pd. E ci sarebbe perfino qualcosa di grottesco - dopo Bicamerali, governi e Presidenti eletti assieme - ritrovare vent’anni dopo lo stato maggiore di quel partito ancora a litigare sempre e solo su Silvio Berlusconi...

Da - http://lastampa.it/2014/01/20/cultura/opinioni/editoriali/il-cavaliere-eterno-tarlo-dei-democratici-7E9v7ErMpiM5F0Jb4puPNJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: “Hanno perso la testa Squadristi da codice penale”
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2014, 12:03:04 am
Cronache
30/01/2014 - colloquio

Renzi: “Hanno perso la testa Squadristi da codice penale”
Il leader Pd contro Grillo: “L’attacco al Presidente è una vigliaccata”

Federico Geremicca
Roma

Il commento è secco, lapidario, privo di fronzoli e di retorica. Dice Matteo Renzi: «Non servono giri di parole per dire quel che il Movimento Cinque Stelle sta mettendo in scena alla Camera: roba da squadristi, al limite - se non oltre - del codice penale. E quanto all’atto d’accusa contro Napolitano, spero che nessuno si lasci ingannare: non c’entrano niente la voglia di cambiamento, la Costituzione e quelle balle lì. 

Siamo di fronte ad una strategia lucida ma disperata: tutta studiata a tavolino».

Le voci degli altri passeggeri e il rumore di fondo del treno col quale Matteo Renzi sta tornando a Firenze, non ostacolano la comprensione né del ragionamento del leader democratico né il suo umore. È quasi ora di pranzo e il sindaco-segretario non ha difficoltà a spiegare quel che pensa intorno a ciò che sta accadendo. Al centro del suo ragionamento c’è Beppe Grillo. I due, infatti, ormai si considerano reciprocamente il «nemico numero uno»: e non è difficile ipotizzare che è proprio dall’esito del loro duello che dipenderanno tante cose...

«La verità è che gli stiamo tagliando l’erba sotto i piedi - dice Renzi - smontando uno a uno tutti i suoi soliti e triti argomenti. La riforma della legge elettorale, l’abolizione del Senato come Camera elettiva, la cancellazione delle Province, il taglio al finanziamento dei partiti e la revisione del Titolo V... Dalla politica arrivano finalmente risposte, Beppe Grillo non sa come reagire e perde la testa. È per questo che cerca la rissa, la butta in caciara e arriva addirittura a proporre l’impeachment di Napolitano, al quale siamo stati noi a chiedere di restare. Ma vedrete che quest’ultima mossa gli si ritorcerà contro e gli creerà problemi perfino nei suoi gruppi parlamentari».

Renzi contro Grillo, e viceversa. Nel corso del colloquio il leader democratico tornerà spesso sul punto, ma l’avvio non può che essere per Napolitano. «Una cosa senza senso, l’attacco al presidente - dice -. Una vigliaccata. Quando ha ceduto alle richieste di ricandidatura, la scommessa del Capo dello Stato era proprio sulle riforme: è per questo che ha accettato di restare. Parliamo delle stesse riforme che Grillo invoca a gran voce e che ora - invece - vuole fermare. Capisco bene che i primi mesi di questa legislatura siano stati comodi per lui, con la politica bloccata e incapace di dare risposte: ha potuto approfittarne. Ma credo che ora abbia capito che la musica è totalmente cambiata e che andare avanti con la propaganda non può pagare».

L’avvento di Renzi alla segreteria, da solo, non sarebbe bastato; c’è voluto quello che il leader Pd considera un atto di coerenza e di coraggio: l’intesa con Berlusconi per avviare le riforme. È questo che ha sbloccato la situazione; ed è questo che starebbe creando nervosismi e problemi al movimento del comico genovese. «Siamo a un passo da una legge che non è la migliore possibile, che abbiamo provato e proveremo a migliorare - annota Renzi - ma che comunque assicura quel che il Paese chiedeva: governabilità e difesa del bipolarismo. E non è questione solo di legge elettorale: la politica comincia a dare risposte anche sulle altre riforme e se continua così, se ce la facciamo, per Grillo si fa notte...».

L’attacco a Napolitano, dunque, sarebbe più o meno questo: un moltiplicatore di tensioni per sviare l’attenzione da quel che sta accadendo. «Vede, Napolitano va difeso anche per questo: per il fatto che la difesa della sua persona e del suo ruolo, oggi coincide con la difesa delle istituzioni. Impedire a deputati di accedere alle commissioni per votare e lavorare è squadrismo; insultare con volgarità inaccettabili le nostre deputate è una vergogna, e c’è da ricorrere al codice penale. I Cinque Stelle hanno capito che la musica è cambiata e reagiscono così. Del resto, non c’è chi non veda la differenza con un anno fa».

Già, l’anno trascorso. Di questi tempi, dodici mesi fa, si era nel pieno di una campagna elettorale che pareva scontata e che poi, invece, è andata com’è andata... «Lo ricorderete anche voi, no? Un anno fa - spiega Renzi - Beppe Grillo parlava di futuro e di cambiamento, di rinnovamento della Repubblica e di speranze per i giovani: con una campagna aggressiva ma allegra, con toni certo duri ma ancora speranzosi, ha quasi vinto le elezioni... E ascoltatelo ora, invece: solo discorsi rabbiosi, bui, minacciosi, disperati. Semina odio. Ma il Paese non ne può più di tutto questo: vuole voltare pagina e tornare, finalmente, a guardare avanti».

E può farlo - è il ragionamento nemmeno tanto sottinteso - perché qualcosa si è messo in movimento. «A quest’atteggiamento rabbioso fa da contraltare - insiste Renzi - l’idea che con un orizzonte serio e con la calma necessaria, quel che deve esser fatto sarà fatto. È per questo che, al di là dell’indignazione, non siamo preoccupati da quel che dice e dalle assurde iniziative che mette in campo. Noi abbiamo un’altra idea di quel che serve al Paese, dopo anni di paralisi e di risse: e quel che serve, noi lo faremo...».

Ci vorrà calma e tempo, Renzi lo sa. Ma si dice pronto: pronto a lavorare ed a smentire il sospetto che lo circonda, e cioè che voglia solo e semplicemente le elezioni anticipate. «Non so più cosa dire per cancellare questa sciocchezza - si lamenta mentre il treno entra in stazione -. Ma vorrei che almeno si riconoscesse che sto facendo solo e semplicemente quel che avevo sempre detto... Il governo ha i suoi problemi, certo, ma non me ne occupo perché a questo pensa Letta. Ai nostri deputati e ai nostri senatori, invece, vorrei mandare un messaggio chiaro: ci sono molte cose da fare, vanno fatte e le faremo. Occorrerà tempo: ed è per questo che dico che la legislatura può arrivare fino al 2018 e che non c’è nessun motivo perché loro si debbano sentire dei dead man walking...». 

Da - http://lastampa.it/2014/01/30/italia/cronache/renzi-hanno-perso-la-testa-squadristi-da-codice-penale-K8uLROBA8saBNjZQoSYrvL/pagina.html?ult=1


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - “Ora hanno perso la testa Squadristi da codice penale”
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 05:01:49 pm
Politica
30/01/2014 - colloquio

L’attacco di Renzi ai grillini “Ora hanno perso la testa Squadristi da codice penale”
Il leader Pd contro Grillo: “L’attacco al Presidente è una vigliaccata”


Federico Geremicca
Roma

Il commento è secco, lapidario, privo di fronzoli e di retorica. Dice Matteo Renzi: «Non servono giri di parole per dire quel che il Movimento Cinque Stelle sta mettendo in scena alla Camera: roba da squadristi, al limite - se non oltre - del codice penale. E quanto all’atto d’accusa contro Napolitano, spero che nessuno si lasci ingannare: non c’entrano niente la voglia di cambiamento, la Costituzione e quelle balle lì. 

Siamo di fronte ad una strategia lucida ma disperata: tutta studiata a tavolino».

Le voci degli altri passeggeri e il rumore di fondo del treno col quale Matteo Renzi sta tornando a Firenze, non ostacolano la comprensione né del ragionamento del leader democratico né il suo umore. È quasi ora di pranzo e il sindaco-segretario non ha difficoltà a spiegare quel che pensa intorno a ciò che sta accadendo. Al centro del suo ragionamento c’è Beppe Grillo. I due, infatti, ormai si considerano reciprocamente il «nemico numero uno»: e non è difficile ipotizzare che è proprio dall’esito del loro duello che dipenderanno tante cose...

«La verità è che gli stiamo tagliando l’erba sotto i piedi - dice Renzi - smontando uno a uno tutti i suoi soliti e triti argomenti. La riforma della legge elettorale, l’abolizione del Senato come Camera elettiva, la cancellazione delle Province, il taglio al finanziamento dei partiti e la revisione del Titolo V... Dalla politica arrivano finalmente risposte, Beppe Grillo non sa come reagire e perde la testa. È per questo che cerca la rissa, la butta in caciara e arriva addirittura a proporre l’impeachment di Napolitano, al quale siamo stati noi a chiedere di restare. Ma vedrete che quest’ultima mossa gli si ritorcerà contro e gli creerà problemi perfino nei suoi gruppi parlamentari».

Renzi contro Grillo, e viceversa. Nel corso del colloquio il leader democratico tornerà spesso sul punto, ma l’avvio non può che essere per Napolitano. «Una cosa senza senso, l’attacco al presidente - dice -. Una vigliaccata. Quando ha ceduto alle richieste di ricandidatura, la scommessa del Capo dello Stato era proprio sulle riforme: è per questo che ha accettato di restare. Parliamo delle stesse riforme che Grillo invoca a gran voce e che ora - invece - vuole fermare. Capisco bene che i primi mesi di questa legislatura siano stati comodi per lui, con la politica bloccata e incapace di dare risposte: ha potuto approfittarne. Ma credo che ora abbia capito che la musica è totalmente cambiata e che andare avanti con la propaganda non può pagare».

L’avvento di Renzi alla segreteria, da solo, non sarebbe bastato; c’è voluto quello che il leader Pd considera un atto di coerenza e di coraggio: l’intesa con Berlusconi per avviare le riforme. È questo che ha sbloccato la situazione; ed è questo che starebbe creando nervosismi e problemi al movimento del comico genovese. «Siamo a un passo da una legge che non è la migliore possibile, che abbiamo provato e proveremo a migliorare - annota Renzi - ma che comunque assicura quel che il Paese chiedeva: governabilità e difesa del bipolarismo. E non è questione solo di legge elettorale: la politica comincia a dare risposte anche sulle altre riforme e se continua così, se ce la facciamo, per Grillo si fa notte...».

L’attacco a Napolitano, dunque, sarebbe più o meno questo: un moltiplicatore di tensioni per sviare l’attenzione da quel che sta accadendo. «Vede, Napolitano va difeso anche per questo: per il fatto che la difesa della sua persona e del suo ruolo, oggi coincide con la difesa delle istituzioni. Impedire a deputati di accedere alle commissioni per votare e lavorare è squadrismo; insultare con volgarità inaccettabili le nostre deputate è una vergogna, e c’è da ricorrere al codice penale. I Cinque Stelle hanno capito che la musica è cambiata e reagiscono così. Del resto, non c’è chi non veda la differenza con un anno fa».

Già, l’anno trascorso. Di questi tempi, dodici mesi fa, si era nel pieno di una campagna elettorale che pareva scontata e che poi, invece, è andata com’è andata... «Lo ricorderete anche voi, no? Un anno fa - spiega Renzi - Beppe Grillo parlava di futuro e di cambiamento, di rinnovamento della Repubblica e di speranze per i giovani: con una campagna aggressiva ma allegra, con toni certo duri ma ancora speranzosi, ha quasi vinto le elezioni... E ascoltatelo ora, invece: solo discorsi rabbiosi, bui, minacciosi, disperati. Semina odio. Ma il Paese non ne può più di tutto questo: vuole voltare pagina e tornare, finalmente, a guardare avanti».

E può farlo - è il ragionamento nemmeno tanto sottinteso - perché qualcosa si è messo in movimento. «A quest’atteggiamento rabbioso fa da contraltare - insiste Renzi - l’idea che con un orizzonte serio e con la calma necessaria, quel che deve esser fatto sarà fatto. È per questo che, al di là dell’indignazione, non siamo preoccupati da quel che dice e dalle assurde iniziative che mette in campo. Noi abbiamo un’altra idea di quel che serve al Paese, dopo anni di paralisi e di risse: e quel che serve, noi lo faremo...».

Ci vorrà calma e tempo, Renzi lo sa. Ma si dice pronto: pronto a lavorare ed a smentire il sospetto che lo circonda, e cioè che voglia solo e semplicemente le elezioni anticipate. «Non so più cosa dire per cancellare questa sciocchezza - si lamenta mentre il treno entra in stazione -. Ma vorrei che almeno si riconoscesse che sto facendo solo e semplicemente quel che avevo sempre detto... Il governo ha i suoi problemi, certo, ma non me ne occupo perché a questo pensa Letta. Ai nostri deputati e ai nostri senatori, invece, vorrei mandare un messaggio chiaro: ci sono molte cose da fare, vanno fatte e le faremo. Occorrerà tempo: ed è per questo che dico che la legislatura può arrivare fino al 2018 e che non c’è nessun motivo perché loro si debbano sentire dei dead man walking...». 

Da - http://lastampa.it/2014/01/30/italia/politica/renzi-hanno-perso-la-testa-squadristi-da-codice-penale-K8uLROBA8saBNjZQoSYrvL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi tentato dalla possibilità della staffetta ...
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2014, 04:39:54 pm
Politica
06/02/2014 - Il segretario

Renzi tentato dalla possibilità della staffetta
Pronto a dire sì solo se lo chiedesse il Colle

Federico Geremicca
Roma

Il dado è quasi tratto, i giochi potrebbero essere vicini alla conclusione e la notizia – per dir così – non è il pressing su Matteo Renzi affinché accetti di assumere la guida del governo, quanto il fatto che il leader del Pd ha ormai deciso: se si creassero le condizioni e gli venisse chiesto, è pronto ad assumere l’incarico che oggi è di Enrico Letta. La decisione è presa. E non si tratta di una svolta improvvisa. 

Ma del risultato di un paio di settimane di incontri e riflessioni: ragionamenti che, messi in fila, hanno convinto il sindaco-segretario a cambiar linea e ad accettare un’ipotesi - la cosiddetta “staffetta” - fino a ieri decisamente esclusa. 

Più del pressing (spesso interessato) esercitato su di lui ormai da tempo, in questo cambio d’opinione hanno pesato il concatenarsi degli avvenimenti, e alcuni fatti assai concreti. Il primo: il lento ma progressivo svanire della possibilità di elezioni in primavera; il secondo: l’aver scommesso così tanto sul “pacchetto riforme” da non poterlo far finire in malora, pena un pesante contraccolpo (politico e di immagine); il terzo: quella sorta di terra bruciata, soprattutto, che circonda il governo-Letta - ormai un governo figlio di nessuno - che sta producendo un progressivo deterioramento del quadro, a tutto danno - secondo Renzi - proprio del Pd.

Fino ad ancora un mese fa, di fronte al possibile naufragio dell’esecutivo, per il sindaco-segretario l’ipotesi principale restava quella di nuove elezioni: da sempre la via dritta (e coerente col suo passato) per arrivare a Palazzo Chigi. Poi, come detto, alcune cose hanno cominciato a cambiare. In particolare, si è fatta pesante l’insistenza di chi - per una ragione o per l’altra - ha cominciato a premere per la “staffetta”. «Alfano ha bisogno di tempo e non vuole elezioni subito - ha annotato Renzi facendo il punto, qualche giorno fa, con i suoi più stretti collaboratori -. E’ per questo che si dice pronto a sostenere un mio governo».

Ad Alfano si è aggiunto, da un paio di settimane, Pier Ferdinando Casini, bisognoso di spazio e tempo per la ricollocazione politico-elettorale ormai avviata. Ed al pressing centrista si è via via sommata la spinta (inconfessabile) della minoranza pd, che certo non si strapperebbe le vesti di fronte ad uno trasloco del segretario da Largo del Nazareno a Palazzo Chigi. Ieri Gianni Cuperlo ha lungamente incontrato Renzi e alla fine ha spiegato: «Più che di un rimpasto, oggi si dovrebbe parlare della ripartenza e di un nuovo governo». Se a questi movimenti sotterranei si aggiungono le critiche esplicite e sempre più frequenti mosse all’esecutivo da Giorgio Squinzi (che proprio stamane è a Firenze, a convegno assieme a Renzi...) il quadro si fa incontestabilmente chiaro.

Sul cambio di linea del giovane leader democratico hanno pesato, naturalmente, anche ragionamenti fatti sulle alternative rispetto all’ipotesi-”staffetta”. Col governo in queste condizioni, il rischio per il Pd - a partire dal voto della Sardegna - potrebbe esser quello di passare da un rovescio elettorale all’altro (l’Abruzzo, le europee...) entrando nel tunnel nero di un inarrestabile logoramento. In più, se il cambio Letta-Renzi avvenisse in tempi brevi - come molti auspicano - l’ipotesi di guidare il governo durante il semestre europeo di presidenza italiana sarebbe assai allettante per il leader pd, perchè gli permetterebbe di farsi meglio conoscere all’estero e di entrare sul palcoscenico internazionale dalla porta principale.

E’ per tutte queste ragioni che il termine “staffetta” da qualche giorno risuona sempre più di frequente nelle riunioni ristrette dello stato maggiore renziano. La parola d’ordine, naturalmente, è quella solita in passaggi così delicati: prudenza. Prudenza, sì: anche perchè resta decisiva l’opinione di chi è il vero titolare delle decisioni in questa materia... Infatti, Giorgio Napolitano - a quanto è dato sapere - potrebbe confermarsi scettico (se non decisamente contrario) di fronte a ogni ipotesi di sommovimenti, continuando a tener d’occhio le sue due stelle polari: la stabilità di governo e il processo riformatore.

Ieri, dopo un colloquio tra Napolitano e Letta - e certo non a caso - il Quirinale ha fatto sapere che il Capo dello Stato ha ribadito al premier «apprezzamento per la continuità e i nuovi sviluppi dell’azione di governo». E’ a Napolitano, come è chiaro, che spetterebbe l’ultima parola su rimpasti, “staffette” e crisi: ed è per questo che molti sperano che, in presenza di sfilacciamenti e fibrillazioni crescenti, il Presidente della Repubblica maturi la convinzione che sia proprio la presenza in carica di questo esecutivo a mettere a rischio tanto la stabilità quanto il varo delle riforme. E’ una speranza, nient’affatto una certezza. Ma è chiaro che se diventasse tale, per il Letta Uno si potrebbe cominciare a intonare un triste de profundis...

Da - http://lastampa.it/2014/02/06/italia/politica/renzi-tentato-dalla-possibilit-della-staffetta-7BmxIMM318XcmtYRmqH3KJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: se Letta ritiene Governo ok, si va avanti
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2014, 11:32:00 pm
Editoriali
07/02/2014 - analisi

La direzione surreale dell’eterna melina stile Dc
I duellanti si passano la palla, e non decidono
Renzi: se Letta ritiene Governo ok, si va avanti


Federico Geremicca
Roma

A chi è un po’ avanti con gli anni, per qualche momento è sembrato di assistere (in streaming) ad una riunione della Direzione della fu Dc: giri di parole spesso incomprensibili, avvertimenti sottotraccia, minacce (politiche) più o meno velate.

E - soprattutto - una sorta di surreale parlar d’altro. Strano, certo. Ma non stranissimo, visto che a incrociare le lame - come accade ormai da un paio di mesi- erano due giovani ex o post-dc: e cioè Matteo Renzi ed Enrico Letta.

Oggetto del prudente contendere (qualche stoccata è stata tirata giusto nel finale) il rapporto tra il Pd e il governo e - dunque - la sorte di quest’ultimo. Detto così, non significa niente; ma in realtà, si tratta della questione dalla quale dipendono i possibili sviluppi di cui si scrive da settimane: la durata dell’esecutivo, il rischio di elezioni, l’ipotesi di una “staffetta” tra Letta e Renzi, il destino del processo riformatore (a cominciare dalla legge elettorale).

Tanto Renzi quanto Letta hanno deciso di affrontare la questione alla maniera dei loro antichi “maestri politici”: cioè girando intorno al problema, sperando che fosse l’avversario a scoprire le carte. “Dica il Pd se questo governo gli sta bene oppure no”, hanno chiesto molti in Direzione, tentando di far uscire Renzi allo scoperto; “Ci dica Letta se ritiene che il governo possa andare avanti così”, ha replicato Renzi, che ha irrigidito i toni solo nella replica finale: «Io sto allo schema dell’aprile 2013: si diceva 18 mesi, ne mancano otto. Si vuol cambiare schema? Non ho nessun problema... Se vogliamo giocare con un altro schema o confermare l’attuale o dire che il mio schema non va bene e si va a votare, credo sia opportuno inserire nella Direzione del 20 il tema di cosa pensa il Pd del governo...».

Dunque, tutto sospeso per ancora due settimane. E il risultato di questa sospensione non può che essere il perdurare di una situazione di stallo che, a questo punto, rischia di lasciar sviluppare in maniera incontrollata le mille tensioni in campo ed un processo disgregatore che pare inarrestabile. D’altra parte, quando il maggior partito di governo non esercita il ruolo che gli competerebbe - e cioè il far da propellente per l’esecutivo- non è che ci si possa aspettare (soprattutto in una situazione come quella attuale) che ci pensino altri.... Anzi.

Quando la cortina fumogena creata ieri dai due giovani ex o post dc si sarà dissolta, forse gli stessi protagonisti realizzeranno che lo stallo e la paralisi non fanno bene certo al Paese: ma nemmeno al Pd e al governo, e dunque a loro - Letta e Renzi - che ne hanno la guida e la responsabilità. Per ora, questa consapevolezza è apparsa più presente in altri - da Cuperlo a Bettini - che nei due protagonisti. È possibile, naturalmente, che qualcosa cambi: ma per ora non se ne vedono ancora i segni...

In realtà, la surreale Direzione pd di ieri ha avuto il corso che ha avuto anche perchè - per una volta - sulla questione governo Renzi ha deciso di non fare il Renzi (cioè: avanti tutta e chi non è con me è contro di me) sperando che fosse il presidente del Consiglio a proporre il tema di un esecutivo che - certo non solo per sua responsabilità - non pare più all’altezza dei compiti inizialmente affidatigli. Peccato che Letta abbia sapientemente evitato di addentrarsi su questo terreno, limitandosi a ripetere che non intende restare a palazzo Chigi a ogni costo e tantomeno “galleggiare”.

Il risultato di una tale dialettica non poteva che essere un rinvio della resa dei conti e il perdurare di uno stallo che rischia di produrre i suoi (negativi) effetti - per il Pd -nelle non più lontane e già programmate tornate elettorali: tra dieci giorni la Sardegna, poi le europee e il voto in Abruzzo. Letta lo sa, e Renzi anche. Così come sanno che se il loro paralizzante duello dovesse continuare sarebbe difficile - per entrambi - evitare di finire sul banco degli imputati per sconfitte elettorali che ancora un mese fa nessuno poteva prevedere... 

Da - http://lastampa.it/2014/02/07/cultura/opinioni/editoriali/la-direzione-surreale-delleterna-melina-stile-dc-XHadoNyNd92Efdo9oTkV9I/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi va allo scontro
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:22:57 pm
Politica
12/02/2014

Renzi va allo scontro
Ha deciso di tentare il tutto per tutto
Il segretario, calcolati pro e contro, ha ormai rotto gli indugi


Federico Geremicca
Roma

Ora che forse si può, diciamoci la verità: non c’è nulla di più distante da una staffetta - concentrato di collaborazione e sincronia - dal durissimo scontro che starebbe per portare Matteo Renzi nelle stanze nobili di Palazzo Chigi al posto dell’«amico» Letta; del resto, non c’è nulla di più lontano da una sconfitta dal voto col quale il 2 dicembre 2012 il sindaco di Firenze fu battuto da Pier Luigi Bersani nelle primarie per la corsa a premier. La lunga corsa di Matteo Renzi, infatti, comincia da lì: da una vittoria di Pirro e da una sconfitta che sembrava oro.

Nessuno al momento può prevedere con certezza sviluppi ed epilogo di un violentissimo duello ancora tutt’altro che concluso. Ma se il cambio dovesse davvero avvenire, allora molti degli avversari passati e presenti del segretario Pd - a cominciare da Enrico Letta, naturalmente - dovrebbero interrogarsi sugli errori compiuti, a cominciare da quello che può esser considerato il loro «peccato capitale»: aver sottovalutato l’irruenza, la spregiudicatezza e lo stile politico - la «diversità», insomma - del giovane sindaco di Firenze. E non ci voleva molto, in verità, a capire che Renzi era come un alieno piombato giù da un altro pianeta: bastava averne seguito il percorso politico e aver ascoltato il discorso col quale - la sera del 2 dicembre, circondato da volontari e amici in lacrime - celebrò la sua stessa sconfitta.

«Non eravamo in campo per una battaglia di testimonianza: volevamo prendere in mano il governo del Paese e non ce l’abbiamo fatta - disse senza un filo di emozione -. La nostra scommessa non era l’ambizione di un ragazzetto... Siate orgogliosi di quello che avete fatto e non considerate quest’esperienza come la parola fine. Abbiamo dalla nostra tre cose: l’entusiasmo, il tempo e la libertà...». Nell’euforia della vittoria, il quartier generale del Pd immaginò che rottamatore e rottamazione fossero parole pronte per finire in archivio: qualche mese dopo, invece, «il ragazzetto» era di nuovo in campo per sbaragliare gli avversari e diventare segretario del Pd.

Possibile che quei momenti - quelli della sconfitta e poi quelli della vittoria - siano ripassati come fotogrammi di un film davanti agli occhi di Renzi lunedì sera quando, dopo la cena con Giorgio Napolitano, ha riunito pochi fedelissimi per fare il punto della situazione. Situazione difficile, se si guarda all’oggi e alla partita in divenire; ma addirittura terribile, da far tremare le vene ai polsi, se si guarda in avanti: e cioè agli impegni che attendono il governo, alle condizioni nelle quali quegli impegni dovranno essere affrontati e alla folla di nemici - vecchi e nuovi - pronti a render pan per focaccia ed a trasformare in un percorso di guerra il cammino dell’eventuale governo-Renzi.
Sono questioni che il leader Pd ha passato e ripassato in rassegna per giorni e giorni. Potremmo definirla la lista delle controindicazioni, cioè l’elenco di tutti i fattori che sconsiglierebbero un avvento alla guida del governo oggi: la situazione economica che continua a essere pesantissima; una maggioranza parlamentare che è quella che è, eterogenea, dipendente da Alfano e che certo non invita a sognare; l’obiezione, la circostanza - anzi - che il «campione delle primarie» arrivi al governo senza investitura popolare; e poi il rischio della «vendetta berlusconiana», che potrebbe portare in un vicolo cieco l’intero pacchetto di riforme da varare.

Tutto vero. Ma ai fedelissimi che lo stavano ad ascoltare Renzi ha elencato le ragioni che renderebbero inevitabile una sua ascesa a palazzo Chigi. Tutti pensano - ha spiegato il leader Pd - che questo governo ha ormai vita breve: tre, quattro mesi al massimo, dopo i quali sarebbe più difficile un rilancio e rischieremmo di tornare al voto con una legge proporzionale che magari ci costringerebbe di nuovo a larghe intese. Non solo. Da più parti - ha detto Renzi ai suoi - mi dicono di andare e giocare il tutto per tutto: da Alfano, Scelta civica e perfino dalla minoranza Pd mi arriva questa sollecitazione. Del resto, se vado scardino tutto, altro che cacciavite...

Nessuno dei presenti ha avuto il coraggio di chiedergli come era messa la faccenda con Letta. Ma Renzi non ha glissato: se hai fatto un governo di servizio e quelli che ti sostengono ti dicono spostati - ha spiegato loro - ti devi spostare. Non si va avanti a tutti i costi. Lo so che Enrico si sta posizionando nella parte di chi resiste, ma il suo governo ne ha combinata una al giorno... Ha rotto con Confindustria, con la Cgil, con l’opinione pubblica e perfino con i gruppi parlamentari. Napolitano - ha chiarito il leader pd - fa soltanto il suo lavoro da Presidente della Repubblica: ascolta i partiti e poi decide. Dobbiamo esser pronti - ha concluso - perchè tutto potrebbe accadere in poche ore.

Pochi dubbi, insomma, sul fatto che se il Capo dello Stato chiamasse lui non potrebbe che accettare. E quasi nessuna preoccupazione circa l’accusa più velenosa che potrebbero lanciargli contro nemici vecchi e nuovi: ecco l’uomo delle primarie che, come D’Alema, va al governo con la solita manovra di palazzo. «Questo è un altro film», ha spiegato Renzi ai suoi: Prodi fu votato da chi voleva il governo dell’Ulivo, Letta non lo ha votato nessuno. E io, comunque, ho appena vinto delle primarie col voto di due milioni di cittadini ed un programma di cose da fare...

Dunque, avanti tutta. Come sempre, avanti tutta. Del resto, conoscendo «il ragazzetto», nessuno poteva pensare che la sua corsa fosse finita con la conquista della segreteria Pd. Quell’incarico, proprio come la parola rimpasto, forse a Renzi provoca allergie e bolle... Era solo un passaggio, un trampolino verso altro. Qualcuno - D’Alema - l’aveva profetizzato: solo che qualcun altro, purtroppo per lui, non gli aveva creduto... 

Da - http://lastampa.it/2014/02/12/italia/politica/renzi-va-allo-scontro-ha-deciso-di-tentare-il-tutto-per-tutto-OmGiW2FixMyxEl6XRSv0vK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’alieno alla prova del nove “Un dovere il cambio radicale”
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 10:27:35 am
Politica
14/02/2014 - personaggio

L’alieno alla prova del nove “Un dovere il cambio radicale”
Renzi ha rottamato tutto ciò che ha incontrato sulla strada per Palazzo Chigi

Federico Geremicca
Roma

«Demolition man», lo definisce il Financial Times annunciando l’evento ai suoi lettori. «Il premier più giovane della storia repubblicana», battono le agenzie dando a volte per scontato quel che scontato ancora non è. 

Sono ore - insomma - in cui aggettivi, iperboli e metafore si sprecano, e lo si può capire: perchè a Palazzo Chigi - se poi avverrà davvero - sta atterrando un alieno. 

Un alieno nel modo di intendere la politica, nello stile con cui la pratica e nella filosofia che lo guida. Ieri in Direzione ha liquidato un governo con una relazione durata una ventina di minuti: un tempo che un segretario «normale» avrebbe impiegato per la sola introduzione. Ed una frase pronunciata davanti al gotha del suo partito è stata rivelatrice - per chi ancora ne avesse bisogno - del suo modo di affrontare le questioni: «Sapeste le mail che ho ricevuto con la preoccupata raccomandazione: “Matteo stai attento, Matteo rischi di bruciarti”. Ne capisco il senso... Ma se non avessi rischiato, oggi sarei ancora a fare il secondo mandato alla Provincia di Firenze...».

È anche per questo modo di parlare e di intendere la politica e forse la vita - il modo, per dirla semplice, di uno che non ha ancora quarant’anni - che molte delle obiezioni che gli sono state e gli vengono tuttora mosse - circa una certa carenza di bon ton politico, per esempio - Matteo Renzi non è che non le condivida: è che proprio non le capisce. Si pensi alla parola - «rottamazione» - che gli ha spianato una strada che era tutta in salita, facendo da passe-partout per arrivare prima alla segreteria Pd e poi - se accadrà - a Palazzo Chigi: dalla politica «tradizionale» sono piovute critiche circa la scarsa eleganza del termine, la sua rozzezza e perfino la sua violenza. Nessuno - o pochi - che abbia guardato alla sostanza: e nessuno, soprattutto, che se ne sia preoccupato, cogliendo in quel termine la sintonia con lo stato d’animo del Paese (e del Pd) e la sua dirompente attualità.

Oggi forse si può dire che l’irresistibile cavalcata del giovane sindaco di Firenze sarebbe stata meno irresistibile se fosse stata avversata con argomenti diversi da quelli attinti da un armamentario polemico ormai usurato. Che forza ha, per esempio, contestare al leader che meno di tutti ha paura del voto popolare (elezioni o primarie che siano) di arrivare a palazzo Chigi - se ci arriverà - attraverso una «manovra di Palazzo»? E che credibilità può avere un tale argomento polemico, quando la quasi totalità di quelli che hanno detto sì ad un suo possibile governo lo hanno fatto proprio per paura di andare al voto?

Ma tutto questo riguarda il passato, perché oggi il grande (e preoccupante) interrogativo è un altro: che cosa c’è da attendersi da un Presidente del Consiglio - se lo diverrà - che non è mai stato nemmeno ministro, che è fuori dal Parlamento e che non ha alcuna esperienza internazionale? Per ora è possibile una sola risposta, sulla base del percorso compiuto fin qui da Matteo Renzi: c’è da attendersi delle sorprese, questo è certo. Se poi si tratterà di sorprese che faranno bene al Paese, è un altro discorso: e non ci vorrà certo molto a capire che segno avranno.

A cominciare, naturalmente, dalla squadra di governo che sceglierà. L’attesa di un visibile cambiamento, inizia da lì: e sarebbe un primo e grave passo falso tradire le aspettative provando a blindare il suo esecutivo - per esempio - con nomi e scelte che rassicurino più i partiti che le ampie fasce di opinione pubblica che guardano a Renzi con speranza e simpatia. E per quanto si sia abituati a considerare i programmi di governo come impegni che raramente vengono rispettati, anche il percorso programmatico che proporrà avrà un grande peso nel valutare mosse e intenzioni del giovane leader democratico.

È presumibile che Matteo Renzi abbia pensato per tempo ai passi da muovere, e in che direzione. Ed è facile immaginare che quei passi possano essere condizionati dalla presenza al governo di una forza come quella di Angelino Alfano che - schiettezza per schiettezza - ha già fatto sapere, per esempio, che «se propone il matrimonio gay ce ne andiamo a gambe levate». Trovare un equilibrio tra cambiamento e interessi dei partiti che sostengono il possibile esecutivo, non sarà facile: ma è agli atti - e gli sarà ricordato - l’annuncio di ieri in Direzione circa «il dovere di un cambio radicale» ...

Comunque sia, la corsa di Matteo Renzi forse è finita: in un tempo che per i rituali della politica italiana è un niente, un amen, il rottamatore ha rottamato tutto quel che ha incontrato sulla strada che separava Palazzo Vecchio e Palazzo Chigi. I suoi nemici, fuori e dentro il Pd, hanno tentato di fermarlo con gli argomenti e i metodi di una politica tradizionale che già il travolgente successo di Beppe Grillo aveva certificato come inefficaci, usurati, finiti. Alcuni non l’hanno capito, altri hanno fatto finta di non capirlo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. E non è detto che per il Paese sia un risultato da maledire. 

Da - http://lastampa.it/2014/02/14/italia/politica/lalieno-alla-prova-del-nove-un-dovere-il-cambio-radicale-MoabubtmZMQRTjo7OmoaVN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’uomo solo ora è davvero al comando
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 08:14:52 am
Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 22/02/2014.
L’uomo solo ora è davvero al comando

I più delusi dicono che è stato quello - quel tweet scritto in un salone del Quirinale - il canto del cigno del «renzismo», l’avvio della metamorfosi, la pietra tombale sulla Leopolda e sul suo senso, coraggio, sfrontatezza, avanti sempre e senza paura: «Arrivo, arrivo! La volta buona». Quelli che continuano a crederci, invece, elencano le novità e si dicono felici: il governo più snello dal 1947, il premier più giovane della storia repubblicana, la prima volta di una donna al ministero della Difesa, la prima volta di un quarantenne (e donna) al ministero degli Esteri, una trentatreenne a coordinare il delicato lavoro sulle riforme...

Secondo una vecchia regola - e non giureremmo sbagliata, anche se vecchia - quando bisogna elencare e spiegare novità e successi, vuol dire che non sono (sia le novità che i successi) così evidenti e indiscutibili da imporsi da soli. È vero. E diventa a maggior ragione vero, quando alcuni successi non possono esser eccessivamente sbandierati pena la fine di un governo appena nato: ci riferiamo al ridimensionamento del ruolo del leader Ncd, Alfano, che perde la carica di vicepremier. 

Così che sia possibile dire - a differenza del governo Letta-Alfano - che questo è «il governo di Matteo Renzi», punto e basta. 

Naturalmente, questo non sarà sufficiente a mettere al riparo il neo-premier dalla constatazione che, pur avendo pesantemente criticato Alfano per la gestione del caso Shalabayeva, lo ha lasciato al ministero dell’Interno. E tantomeno dall’accusa di averlo confermato al governo dopo aver detto «non voglio assolutamente essere accomunato a lui... io ho ricevuto un mandato popolare, lui è stato portato al governo da Berlusconi quando io non ero ancora nemmeno sindaco di Firenze». Ma sono cose che possono capitare, nella vita: soprattutto quando si vuole assolutamente fare un governo, e per farlo i voti indispensabili li detiene proprio lui, Alfano, appunto... 

Il «renzismo» che si fa governo, insomma, resta una cosa tutta da scoprire: fatte le debite differenze (per alcuni indebite: e già questo è un problema...) il fulmineo avvento di Matteo Renzi somiglia alla strepitosa ascesa di Silvio Berlusconi nel 1994. Anche allora - in fondo come oggi - la «novità» fu imposta dal calo verticale di credibilità e dalla travolgente crisi dei partiti politici e dei soliti noti: una circostanza che rende solitamente possibile (o addirittura necessario) un ricambio radicale, ma non garantisce affatto sulla bontà della «rivoluzione» che va in campo. Certo, il precedente non è incoraggiante: ma le differenze tra il Cavaliere e il rottamatore sono talmente tante che è largamente possibile immaginare un epilogo del tutto differente.

Si era detto - a maggioranza politica invariata, e nelle ore in cui si immaginava una squadra di governo solo parzialmente rimpastata - che tutto sarebbe dipeso da Renzi e basta, dalla sua capacità di trasmettere energia senza perdere la propria. E che questo era troppo poco. Ora, se è vero che il nuovo esecutivo è invece assai diverso - e in ruoli chiave - da quello precedente, resta comunque confermata quell’affermazione. E la domanda, dunque, è: basterà Renzi, basterà l’uomo solo al comando, a cambiare verso all’Italia? La risposta non è semplice: ma come spesso accade quando si parla di futuro, per interpretarlo e prevederlo si può ricorrere al passato...

Il passato - recente, in questo caso - ci dice che un Pd sostanzialmente immutato nella sua linea, nel suo profilo e nella sua organizzazione, è stato letteralmente stravolto dall’arrivo alla segreteria di Matteo Renzi: in un mese ha ottenuto - attraverso un pur discusso accordo con Silvio Berlusconi - l’arrivo in aula di una legge elettorale attesa da anni; e in un altro mese ha liquidato il governo Letta con una disinvoltura e una rapidità che non ha - di fatto - precedenti. Ma quello, si potrebbe dire, era ancora il «Renzi di lotta», mentre gli interrogativi di oggi riguardano il «Renzi di governo». Distruggere - è vero - è assai più facile che costruire o ricostruire. Ma la chance di provarci, il neo premier l’ha conquistata sul campo: e che non sbagli, adesso, non è più speranza che riguardi soltanto lui... 

Federico Geremicca

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/22/cultura/opinioni/editoriali/luomo-solo-ora-davvero-al-comando-yeslqWGTnHi4PIZzlNwYCJ/premium.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Correre, correre, correre.
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 12:02:08 am
Politica

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 23/02/2014.
“La ricreazione è finita” L’ora della verità per Matteo subito al lavoro sull’economia
In attesa di Padoan, Renzi ha messo mano con Delrio ai dossief fiscali
Correre, correre, correre. La cosiddetta «energia renziana» tracima in questo freddo sabato dell’insediamento e contagia chiunque incontri sul suo cammino. 

«Al primo consiglio dei ministri spero di portare il piano casa», dice Maurizio Lupi a giuramento appena compiuto. «Siamo una squadra che ha già cominciato a lavorare», assicura Graziano Delrio. «Deve ribaltare i tavoli, e farà in fretta», aggiunge Oscar Farinetti. La velocità, dunque, si conferma la cifra di un governo che - per il resto - resta tutto da scoprire: se basterà lo vedremo, ma che sia così è fuori discussione. 

Quirinale, foto di rito dopo il giuramento. Renzi si avvicina ad Alfano: «Andiamo, forza, c’è da lavorare». Palazzo Chigi, avvio del primo consiglio dei ministri, Renzi prende la parola: «La ricreazione è finita». E prima del giuramento aveva già twittato «Compito tosto e difficile, ma siamo l’Italia, ce la faremo». I tweet, giusto, che in questa giornata d’esordio aggiungono notizia a notizia, e anche un po’ di confusione. Dopo Renzi, infatti, twitta Letta: «Passaggio di consegne a Palazzo Chigi, l’ultimo di 300 giorni tutti difficili». Poi si aggiunge perfino il Papa, che pare consolare - nella confusione di cui si diceva - il premier uscente: «Non perdiamo mai la speranza. Dio ci ama, anche con i nostri sbagli e peccati...».

La cornice, insomma, è chiara: ed è segnata da quello che si è soliti definire l’ottimismo della volontà. Il profilo è quello: «marinettiano». Velocità, coraggio e fiducia nel futuro. È il verbo che Matteo Renzi ha portato il giro per il Paese per un anno intero, fino a vincere le primarie per la guida del Pd, nel dicembre scorso. Velocità, coraggio e fiducia nel futuro: ottimi per arrivare fin davanti al portone di Palazzo Chigi ma difficili da praticare - e forse di per sé insufficienti - una volta entrati dentro quel palazzo e prese le leve del comando. Ma Renzi non intende cambiare stile, fedele ad un clichè - quello dell’improvvisatore, del leader istintivo - che tanto successo e popolarità gli ha portato.

Dunque, per esempio, inutile stare ad arzigogolare intorno al discorso che starebbe preparando per il voto di fiducia in Parlamento, domani e poi dopodomani. Intanto perchè non lo sta preparando affatto, e successivamente perché se anche lo preparasse non è detto che poi lo leggerà. Indimenticabile, per esempio, resterà lo stupore degli uomini del suo staff nel giorno del discorso col quale a Bari aprì la campagna delle primarie per la guida del Pd (quello, per intenderci, col quale attaccò frontalmente Napolitano per aver suggerito al Parlamento un provvedimento di amnistia): ci avevano lavorato in tre, Renzi apprezzò gli appunti e il testo fornito, poi salì sul palco e parlò a braccio di quel che gli pareva.

Lo stesso vale per i programmi e le cose da fare subito, dove per subito si intende subito e non entro i soliti e famosi cento giorni. Renzi ha chiaro che la prima leva da azionare è quella dell’economia e in attesa di un primo confronto con Pier Carlo Padoan (rientrato a Roma ieri sera) ha già valutato con Graziano Delrio e gli uomini dello staff un intervento immediato sull’Irap ed una qualche forma di sostegno alle fasce più povere. Soldi in cassa ce n’è poco o niente e dunque il problema si confermerà lo stesso che ha frenato i governi di Mario Monti prima ed Enrico Letta poi: reperire da qualche parte le risorse necessarie.

Ma la prima giornata da premier in carica è filata via veloce - frenetica, anzi - anche grazie a qualche momento di quelli che fino a ieri non immaginavi, e quando arrivano ti lasciano un po’ così. Il telegramma di Vladimir Putin, la telefonata di François Hollande (che lo ha subito invitato a Parigi per far fronte comune in Europa) e i complimenti di Barack Obama. È un capitolo - il cosiddetto fronte estero - importante e delicato: da ieri alla Farnesina siede una ministra giovane e nuova di zecca per l’incarico, e tra qualche mese l’Italia avvierà il suo semestre di presidenza europea. L’occasione è grande, ma i rischi di sbagliare non lo sono certo di meno...

Nel tardo pomeriggio la partenza verso casa, a Pontassieve. Con lui la moglie Agnese e i tre figli vestiti di bianco, di rosso e di verde. Loro resteranno su, in Toscana: per ora nessun trasferimento in vista. Chi si trasferirà - invece - è lui, il premier. Addio al solito albergo romano, vivrà negli appartamenti di Palazzo Chigi (usati solo da Prodi e Monti, prima di lui). Una scelta forse inattesa: non è la prima e sicuramente non sarà l’ultima... 
Federico Geremicca

Da - http://lastampa.it/2014/02/23/italia/politica/velocit-coraggio-e-fiducia-il-premier-porta-il-suo-stile-allinterno-del-palazzo-4mF0XnrvrKPyvIDINoE4RM/premium.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Uno stile ibrido e troppo irrituale Al premier è mancata...
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 05:59:32 pm
Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 25/02/2014.
Uno stile ibrido e troppo irrituale Al premier è mancata la forza
Renzi ha dato indicazioni vaghe sul suo programma

Il coraggio è sempre lì, intatto, come nei giorni d’avvio della sua lunga cavalcata: perché ci vuole coraggio, questo è certo, per andare in Senato a dire di sperare che sia l’ultima volta che Palazzo Madama vota una fiducia; e altrettanto, o forse di più, ne serve per citare Gigliola Cinquetti dimenticando, però, un qualunque riferimento (e forse è la prima volta che accade nella storia repubblicana) al presidente della Repubblica citato solo nella replica. Ma Matteo Renzi - ormai si sa - è così: irrituale, sorprendente e mai uguale.

E sorprendente, in effetti, il neo-premier lo è stato anche ieri, con un discorso perennemente in bilico tra il classico vorrei ma non posso e un inedito vorrei ma non so: una sorta di vorrei dirvi che se sono qui è per il discredito nel quale avete precipitato Paese e istituzioni, ma non posso; alternato ad un vorrei spiegarvi come penso di portarvi fuori dal pantano ma è successo tutto così in fretta che, in fondo, ancora non lo so. 

Un Matteo Renzi, insomma, non più (non pienamente) di «lotta», ma non ancora nemmeno di «governo». Il risultato non poteva che essere un ibrido: e cioè un discorso privo della originaria forza suggestiva del «renzismo» così come lo abbiamo conosciuto, ma anche parzialmente monco delle indicazioni programmatiche che il Parlamento attendeva. E un discorso, dunque, non a caso commentato in maniera varia e perfino irrituale: un comizio elettorale, un discorso da bar, un intervento da sindaco, mentre sindaco non lo è più.

Le difficoltà, naturalmente, erano tante: di natura politica ma perfino di contesto ambientale. Matteo Renzi, infatti, non aveva mai messo piede nell’aula del Senato, non potrebbe esservi nemmeno eletto per ragioni di età e aveva di fronte quei parlamentari e quei partiti - nessuno escluso - che attacca (rottama) incessantemente da un anno e mezzo o più: come giocare fuori casa con tutti contro, e fuori casa - si sa - è sempre tutto più difficile...

Né minori erano i problemi d’ordine politico intorno ai quali avrebbe dovuto zigzagare: le rassicurazioni a Forza Italia che la legge elettorale si farà; le garanzie al Nuovo Centrodestra che si farà ma non si voterà; e infine il rapporto col Pd, un partito letteralmente stravolto dall’avvento di Renzi, un giovane leader che ha fatto dimettere Fassina con un «chi?», Cuperlo con un inciso ed Enrico Letta con una relazione in Direzione durata - ringraziamenti compresi - ventitrè minuti. Prima dell’avvento - giusto per la cronaca - sotto i suoi colpi avevano arretrato leader del peso di Massimo D’Alema, Walter Veltroni e Rosy Bindi, per citare i più noti.

Ciò nonostante, proprio per il passato (recente) di Matteo Renzi - intendiamo per la sua carica, la sua forza comunicativa e il bagaglio delle promesse accumulate - o, al contrario, per il suo presente da presidente del Consiglio, era lecito attendersi qualcosa di più. Soprattutto, era ragionevole attendersi una scelta: o rottamatore o presidente, perché le due parti assieme è impossibile recitarle una volta giunti dove Renzi è giunto. La via di mezzo è forse stata la meno felice. E le genericità in materia di programma e un certo glissare sui nodi più intricati, hanno ricordato la sua prima sfida a Bersani, quella per la candidatura a premier nelle elezioni del febbraio 2013: al segretario e a quanti lamentavano l’assenza di un puntuale programma di governo, Renzi rispondeva semplicemente con una cosa che somigliava molto a «il programma sono io, il cambiamento lo garantisco io».

Giunti a Palazzo Chigi, tutto questo non pare più sufficiente. Il profilo di Matteo Renzi resta senz’altro quel che era: una sicurezza per chi crede che il Paese debba essere «rivoltato come un calzino». Solo che ora gli si chiede in che senso intende rivoltarlo, partendo da cosa, con quali soldi, quali alleanze e quale idea del nostro futuro. Il sindaco-segretario-presidente ha tempo per lavorarci, naturalmente. Ma occorre, appunto, che ci lavori. Perché, come ha avvisato lui stesso nel primo consiglio dei ministri, «la ricreazione è finita». Ma se è finita, è finita per tutti.

Federico Geremicca

Da - http://lastampa.it/2014/02/25/italia/politica/uno-stile-ibrido-e-troppo-irrituale-mancata-la-forza-Lf4o8t1vFK85MX5Gvap27O/premium.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: “Critiche ridicole anche da chi mi sosteneva. ...
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 12:23:10 pm
Politica
07/03/2014 - colloquio

Renzi: “Critiche ridicole anche da chi mi sosteneva. Ma la gente sta con me”
Lo sfogo: “La fiducia cresce eppure continuano ad attaccarmi
Ho smontato le accuse di Grillo: io non sto chiuso nei palazzi”

Federico Geremicca
Roma

Cosa dice, scusi, Presidente? «Che la Merkel m’aveva avvisato... E oggi che l’ho rivista, gliel’ho detto: cara Cancelliera, aveva ragione lei». 

La voce di Matteo Renzi gracchia al telefono mentre è in viaggio tra Bruxelles e Roma. Prima del vertice con i capi di Stato e di governo europei, s’era intrattenuto per qualche minuto con Angela Merkel: e ora rivela - appunto - di averle dato ragione. «Sì, me l’aveva detto la prima volta che ci incontrammo: “Guardi che Mario Gomez è un fuoriclasse ma fragilino, si infortuna spesso”. Aveva ragione: del resto, la Cancelliera di calcio se ne intende...».

E rieccolo, allora, Matteo Renzi: irriverente e ironico come fosse ancora quello di prima, cioè nel fuoco di una qualche elezione primaria e non nel bel mezzo di un mucchio di impegni e di guai. La legge elettorale patteggiata con Silvio Berlusconi, infatti, annaspa alla Camera; i provvedimenti-choc per il rilancio dell’economia fluttuano da un Consiglio dei ministri all’altro; e un certo scetticismo cresce, anche se lui fa mostra di non dare alcun peso a tutto ciò.

«Tra la gente va bene - annota Renzi -. La fiducia in me e nel governo cresce, e io credo che conti questo, per adesso. Dopodiché, se vuol saperlo, certe cose non finiranno di sorprendermi mai...». In verità, non è l’unico ad esser sorpreso da alcune cose accadute dopo il suo avvento a Palazzo Chigi. Sorpresissimi, per esempio, sono stati gli apparati delegati alla sua sicurezza, visto che hanno dovuto ingaggiare un vero e proprio braccio di ferro col neo-premier intorno al tema «io la mattina, fossero anche alle 6, ma devo correre per tenermi in allenamento». Non se ne può nemmeno parlare, naturalmente: ma non è stato semplice convincerlo. La mediazione raggiunta ipotizza la ricerca di una palestra nei dintorni di Palazzo Chigi: ma dire che questa alternativa abbia fatto fare salti di gioia al premier, sarebbe dire una bugia.

Comunque sia, dicevamo, Matteo Renzi si dichiara sorpreso. E quando gli si chiede da cosa o da chi, ecco che toglie il freno a mano e torna a parlare a modo suo: «Avevo dei nemici che mi attaccavano, ma lo sapevo e lo tenevo nel conto - si lamenta -. Ma ora mi attaccano anche quelli che prima mi sostenevano: e onestamente non capisco sulla base di che, visto che non abbiamo ancora nemmeno cominciato. La squadra di governo tiene e mi pare buona. La Boschi regge in una postazione delicata e anche la Mogherini, attaccata da più parti, sta guadagnando la stima dei suoi colleghi europei. Quindi, di che parliamo? Per cosa mi criticano? Se è per la storia dei sottosegretari o per i cori dei ragazzi di Siracusa o addirittura per il fatto che abbiamo denunciato che la situazione economica trovata non è quella che diceva Letta, allora davvero non capisco e mi arrabbio».

E come promesso si arrabbia: e di conseguenza si sfoga. «Sui conti c’è poco da dire: è stato addirittura Saccomanni ad avvisarci che le cose stavano in un certo modo... Dunque non capisco né gli attacchi né le ironie. Sui sottosegretari, poi, sono disposto a discutere con chiunque. Dovrei buttare fuori dal governo De Filippo per delle spese in francobolli? Qui si pone davvero un problema di civiltà... Mi pare surreale. E più surreale ancora, mi permetta di dirlo, è che al coro si sia aggiunto Pippo Civati, che ha fatto le primarie contro di me precisamente nella condizione di indagato in cui sono De Filippo e alcuni altri».

Se c’è da combattere, Matteo Renzi - come al solito - non si tira indietro: e come al solito, non fa sconti a nessuno. Si pigli la vicenda di Siracusa, e le ironie e le polemiche per la canzoncina dedicatagli dagli alunni della scuola «Raiti». Il premier è furioso sul serio: «C’è qualcuno che pensa che abbia chiesto io ai dirigenti della scuola di far cantare quelle strofe? Oppure che avessi dovuto fermarli e rimproverarli? È una polemica letteralmente ridicola, idiota. E dovrebbe far riflettere, piuttosto, la reazione stizzita di Beppe Grillo. Io che vado nelle scuole - e non a Roma o a Milano, ma a Treviso e Siracusa - smonto il paradigma accusatorio che ha fatto le fortune del leader 5 Stelle: e cioè, la casta che se ne sta rinchiusa nel Palazzo mentre lui sta in mezzo alla gente. Ma invece di riflettere su questo, si montano polveroni e polemiche inutili contro di me».

Non gli si può dire «caro presidente, chi la fa l’aspetti» perché la linea telefonica è tanto disturbata da render quasi impossibile dialogare. Ma è proprio così: arrivato al governo avendo attaccato tutto e tutti, e dopo aver spianato qualunque ostacolo incontrato sulla strada tra Palazzo Vecchio e Palazzo Chigi, Matteo Renzi non può certo attendersi che vi sia qualcuno disposto a porgere l’altra guancia. Fa mostra, però, di sorpresa e non di preoccupazione: «Le cose vanno bene - dice -. Nessun imprevisto in queste due prime settimane; sta andando né meglio né peggio di come m’aspettavo. Va come prevedevo, insomma, e col Consiglio dei ministri di mercoledì comincerete a vedere i risultati».

Sarà, naturalmente, come dice lui: per ora, intanto, quel che si vede non è che sia proprio un gran film. Si pensi al percorso di guerra in cui è entrata la riforma della legge elettorale. Ma Renzi - cocciuto - dice che le cose non stanno così: «Alla Camera abbiamo avuto molti voti su questioni difficili, come le soglie: e sono andati bene perché la maggioranza ha tenuto. Poi, certo, ci sono stati un po’ di franchi tiratori, ma non devo esser io a spiegare che il Parlamento funziona così... Vedo che c’è molta discussione, e lo capisco, sul fatto che la legge elettorale varrà solo per la Camera e non per il Senato: ma stamane (ieri per chi legge, ndr) ho riunito la segreteria del Pd e mi hanno ricordato che già in una riunione con i gruppi parlamentari, a dicembre, avvertii che si sarebbe potuta creare una situazione così... Insomma, non sono preoccupato: avevo promesso una nuova legge elettorale in tempi veloci e così sarà».

Tutto bene, insomma, dalle parti di Matteo Renzi: se si esclude un certo, crescente fastidio per le critiche che gli piovono addosso. Ma piuttosto che preoccuparsi di quelle, il più giovane premier della storia repubblicana - che andrebbe forse accompagnato da maggior speranza e un po’ più d’ottimismo - farebbe bene a temere l’epitaffio che molti già vorrebbero scrivere per lui e per il suo governo: un fallimento di grande successo. Che, in fondo, potrebbe essere una sintesi niente male...

Da - http://lastampa.it/2014/03/07/italia/politica/renzi-critiche-ridicole-anche-da-chi-mi-sosteneva-ma-la-gente-sta-con-me-wRM6eV2ea2lATCy38jXbgJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il ritorno della doppia sinistra
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2014, 05:47:33 pm
Editoriali
13/04/2014

Il ritorno della doppia sinistra
Federico Geremicca

A Torino, Renzi, ad aprire la campagna elettorale europea con le sue cinque capolista; a Roma, gli ultimi due segretari, Bersani ed Epifani (più D’Alema e altri dirigenti di prima fila) che riaprono le ostilità nei confronti del premier-segretario. Facile parlare dell’esistenza di «due Pd»: e non c’è nulla di scandaloso, in democrazia, che una maggioranza debba fare i conti con una minoranza che si oppone. Più sorprendenti, invece - e per certi versi preoccupanti - tempi e contenuti del riesplodere della polemica. 

Il nuovo scontro, che naturalmente ha motivazioni «ufficiose» assai concrete - e che riguardano il potere che Matteo Renzi sta via via accumulando fuori e dentro il Pd - ieri si è ufficialmente giocato sulla dicotomia destra/sinistra, categorie politiche che vanno perdendo - e ce ne si può perfino rammaricare - senso e importanza per un numero crescente di cittadini. «Le norme sbagliate della destra non diventano giuste se a proporle siamo noi», ha accusato da Roma Cuperlo; «La sinistra che non cambia, diventa destra», ha replicato Renzi da Torino.

E a metterla così, è chiaro che si tratta di una discussione che difficilmente farà fare un solo passo avanti tanto al Pd quanto al Paese: che di rimettersi in moto, invece, ha un disperato bisogno. 

Ma tale discussione, per quanto ammantata da richiami ideologici, in realtà conferma il perdurare (e anzi il crescere) di un vero e proprio rigetto del fenomeno-Renzi da parte dei settori più tradizionali - appunto - della sinistra italiana. Infatti, non sono stati solo i suoi amici di partito, ieri, a mettere nel mirino il presidente del Consiglio, sul cui capo è caduto di tutto: dalle ironie di Susanna Camusso («Ci sono giovani che rappresentano abbastanza poco, anche se sono in posti chiave») alla definitiva scomunica comminata da Stefano Rodotà: «Il nostro sistema politico è segnato da tre populismi diversi tra loro: quello di Berlusconi, quello di Grillo e il nuovo populismo di Renzi».

Il segretario-premier, insomma, sembra esser considerato sempre più un «corpo estraneo» rispetto alle tradizioni (recenti) del Pd, e più ancora a quelle dei partiti che lo hanno incubato: il suo modo di fare, una evidente insofferenza al confronto ed una sorta di indifferenza rispetto a quanto è stato fino ad oggi solitamente considerato «di sinistra» (e, al contrario, «di destra») non vanno giù, e questo è comprensibile. Ciò che appare meno condivisibile, però, è la contestazione di concreti elementi di verità, la cui sottovalutazione si fatica a intendere, se non alla luce - appunto - della forte polemica politica in corso.

 In questo senso si può citare l’intervento svolto ieri da Massimo D’Alema - solitamente freddo nell’analisi - tornato a parlare di cose italiane all’assemblea della minoranza democratica. «Il Pd - ha spiegato - vive un processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica. Questo partito non lo possiamo lasciar morire, lo dobbiamo far funzionare noi, dobbiamo aprire i circoli e fare il tesseramento...». Si tratta di una fotografia catastrofica dello stato di salute del Pd, accompagnata da un richiamo all’antico, alla tradizione. Ma è una fotografia che non corrisponde alla realtà delle cose, se è vero che ogni sondaggio - in vista delle europee - attribuisce al Partito di D’Alema percentuali superiori a ogni più recente tornata elettorale, e vicine ai consensi-record raccolti da Veltroni nelle elezioni politiche del 2008.

Il punto, dunque, sarebbe forse interrogarsi sul come e sul perché è stato ed è possibile che un «giovane populista» (per mettere assieme le accuse di Epifani e Rodotà) abbia nel giro di due mesi - dicembre 2013, febbraio 2014 - conquistato il più importante partito italiano, prima, e addirittura la guida del governo, poi. C’è qualcuno che ha sbagliato qualcosa? C’è qualcun altro che non ha inteso l’altissimo livello di insofferenza diffuso tra i cittadini-elettori del Paese?

La riflessione della minoranza Pd dovrebbe dunque partire da qui, piuttosto che adagiarsi su schemi di comodo. E dovrebbe esser avviata - per il Bene Superiore del Partito, che pure viene così invocato - forse non giusto a ridosso di una importante (forse decisiva) sfida elettorale come quella di maggio. A meno che, naturalmente, non si intenda con tali polemiche segnalare a iscritti e simpatizzanti che nulla è cambiato, e che il Pd è pronto - appena ne avrà l’occasione - a divorare il suo quinto segretario in sei anni. Faccenda con la quale, lo si riconoscerà, la dicotomia destra/sinistra non c’entra un bel niente...

Da - http://lastampa.it/2014/04/13/cultura/opinioni/editoriali/il-ritorno-della-doppia-sinistra-OfRvHM4UB2mYAi99T1OBYI/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La sfida di Renzi è agganciare un po’ di ripresa
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:22:01 pm
Politica
20/04/2014
La sfida di Renzi è agganciare un po’ di ripresa
“I conti in autunno, ma se saranno in rosso...”

Federico Geremicca
Roma

Una palla di neve che rotola e diventa valanga. Un’auto spinta in discesa e il motore che finalmente si sblocca e parte. E’ in un effetto così, adesso, che spera Matteo Renzi, il premier che «ha mantenuto la promessa» ma che sa che l’impegno assunto con gli italiani - e alla fine rispettato - potrebbe non bastare. Il giorno dopo il bagno d’orgoglio e d’ottimismo, insomma, il quadro si fa più chiaro per tutti, e il giovane segretario-premier non nasconde nemmeno a se stesso il persistere di zone d’ombra e di preoccupazioni. 

Quella che riserva agli uomini a lui più vicini, infatti, è un’analisi che per una volta - forse la prima volta - mischia assieme serenità e timore: la serenità di chi ritiene di aver fatto quanto possibile, insomma, ed il timore che anche questo - alla fine - possa non bastare. Sono tante, infatti, le cose che si possono rimproverare a Renzi: ma non l’essere un ingenuo, e neppure il cavalcare l’ottimismo a ogni costo.

«Credo che si sia fatto il massimo di quel che si poteva fare - ha spiegato, così, ai suoi collaboratori -. L’obiettivo, si sa, era doppio: iniettare fiducia e ottimismo nelle vene di un Paese deluso e provato, e metterci nelle condizioni di agganciare quel po’ di ripresa che si profila all’orizzonte. La speranza è che entrambi gli obiettivi vengano centrati - ha annotato - che i consumi ripartano, che la gente torni a spendere e gli imprenditori ad investire. Se la ricetta è giusta, lo si vedrà solo tra qualche mese. I conti li faremo in autunno, e se saranno in rosso...».

Matteo Renzi sa che se saranno in rosso sarà difficile sfuggire all’epilogo profetizzato da Silvio Berlusconi nel giorno del suo ritorno in tv: si voterà tra un anno e mezzo. In caso di fallimento della ricetta proposta, infatti, l’effetto-valanga potrebbe prendere una direzione precisamente opposta a quella sperata, e resistere diventerebbe impossibile per chiunque. Da qui ad allora, però, tempo per fare ed agire ce n’è: ed il premier è già pronto a ripartire con la fase due, della quale ha chiari tempi, tappe e obiettivi.

Il punto di ripartenza sono le riforme, quella elettorale e quella del bicameralismo cosiddetto perfetto. La tappa intermedia sono le elezioni europee di maggio, che secondo ogni sondaggio potrebbero riservare al Pd ed al suo segretario un risultato così buono da esser letteralmente impensabile ancora un paio di mesi fa. La volata finale verso la «sentenza d’autunno», invece, è il semestre italiano di presidenza Ue, occasione unica per raggiungere notorietà e consacrazione internazionale, e per tentare di correggere per quanto possibile meccanismi decisionali e rotta europea.

E’ un percorso dall’esito non scontato, ma Renzi conta molto sul successo dei primi passi: le misure varate per rilanciare consumi ed economia, passi avanti per l’Italicum e per la trasformazione del Senato, e infine un risultato elettorale - a maggio - che lo metta al riparo prima di tutto dalle evidenti voglie di rivincita che animano più e più anime del suo Partito democratico. Nel Pd, infatti, coltelli e polemiche sembrano temporaneamente accantonate e riposti: ma il premier non si illude che la quiete (assai recente, del resto) possa durare all’infinito.

D’altra parte, i nemici - come da tradizione per qualunque Presidente del Consiglio - aumentano, e Matteo Renzi non fa fatica a snocciolarne l’elenco: le grandi banche colpite dalla manovra; i magistrati ed i manager pubblici cui è toccata uguale sorte; i sindacati troppo spesso snobbati; i dipendenti pubblici, forse, e certamente pezzi importanti del cosiddetto mondo politico, sempre più insofferenti di fronte agli affondo del «rottamatore». Molti nemici molto onore, si sarebbe detto un tempo. Ma quel tempo è cambiato: e di questa piccola folla che attende e affila i coltelli, diciamo la verità, Renzi farebbe onestamente a meno... 

Da - http://lastampa.it/2014/04/20/italia/politica/la-sfida-di-renzi-agganciare-un-po-di-ripresa-xEAbuC2Q51hPBdFs1HNrxL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Matteo e la politica di ascolto
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:34:23 pm
EDITORIALI
19/04/2014

Matteo e la politica di ascolto
FEDERICO GEREMICCA

Per valutare gli effetti che la manovra annunciata ieri da Matteo Renzi avrà sul rilancio dell’economia del Paese, occorrerà – naturalmente – aspettare mesi, forse molti mesi; per conoscerne, invece, l’impatto politico – e persino psicologico – basterà attendere i sondaggi elettorali della prossima settimana e poi, soprattutto, il voto europeo del 25 maggio. Che il più giovane premier della storia repubblicana abbia guardato più al secondo (le elezioni) che ai primi (gli effetti economici), è l’obiezione fondamentale che le opposizioni stanno muovendo alla sua manovra in queste ore. È possibile che abbiano ragione: ma è assai riduttivo – e perfino fuorviante – chiudere la faccenda così.
 
Gli avversari del premier-segretario (e non solo loro, in verità) sono soliti definire Renzi un «prodotto politico» a mezza via tra Berlusconi e Grillo, per sottolineare i tratti un po’ populisti e un po’ demagogici che – a loro giudizio – ne contraddistinguono il modo di far politica. A parte l’ovvia considerazione – che pure dovrebbe far riflettere – che il paragone guarda a due dei tre leader più votati nel Paese (il terzo è appunto Renzi), quel che convince
sempre meno – in una società profondamente in crisi – è quella sorta di snobismo, quando non addirittura di sprezzo, che sembra esser riservata a chi pone orecchio alle richieste, al malessere e a ciò che si muove nel ventre molle di quella che viene solitamente definita, appunto, società civile. 
Naturalmente c’è modo e modo di interpretare quel malessere e quelle richieste: ed è appunto questa la prova alla quale è atteso, nei prossimi mesi, Matteo Renzi. Eppure, non cogliere il fatto che proprio la distanza da quelle aspettative e da quella rabbia sia uno degli elementi che ha prima determinato il distacco di milioni di cittadini dalla politica e poi offerto propellente per il boom di Beppe Grillo e del suo movimento, è prova di superficialità: quando non, addirittura, di irresponsabilità.
 
Molte delle misure annunciate dal premier nelle settimane passate (e confermate ieri) vanno precisamente in quella direzione. Si tratta di scelte che sono – nella maggior parte dei casi – economicamente poco incidenti, ma che possono avere un salutare effetto psicologico (e non solo) presso quanti – e si tratta di fasce assai ampie della società – avevano del tutto perso la speranza, la fiducia circa il fatto che una classe politica chiusa nella sua cittadella fosse in grado (e avesse voglia) di prestare ascolto alle loro richieste.
 
Lasciamo perdere gli 80 euro in busta paga, iniziativa che non ha bisogno di grandi commenti e che era la vera – perché più difficile e costosa – scommessa del premier. Parliamo del resto. La vendita delle auto blu (diventate negli anni il simbolo della casta): «Solo cinque per ministero – ha spiegato Renzi – e i sottosegretari andranno a piedi». Il tetto agli stipendi dei manager pubblici (i detestati «papaveri di Stato»). La riduzione dei compensi alle sfere più alte della magistratura. Il colpo alle banche, e in qualche misura ai giornali. Le spese di tutti i ministeri consultabili on line. La revisione del programma per gli F35. La riduzione da 8 mila a mille delle aziende pubbliche locali. E, prima ancora, un Senato non elettivo e non costoso; l’avvio dell’abolizione delle Province e la cancellazione del Cnel.
A guardare tali decisioni da un certo punto di vista - un punto di vista che non è solo delle opposizioni politiche - le si potrebbero definire senza ombra di dubbio demagogiche e populiste; ad osservarle da un altro, invece, le si possono considerare non solo una mannaia su sprechi e privilegi non più sostenibili, ma il risultato – il prodotto – di una «politica di ascolto»: di ascolto – appunto – di un distacco e di un malessere capaci, a lungo andare, di minare le basi, la sostanza e la credibilità di qualunque democrazia.
 
Tutto ciò, naturalmente, potrebbe portare nuovi consensi a Matteo Renzi, al suo governo ed al partito che dirige – il Pd – in vista delle ormai vicine elezioni di maggio. Che ciò accada è possibile. Ma la domanda è: la politica non è anche questo? Non è forse aspetto fondamentale del lavoro di un qualunque amministratore – a qualunque livello – esaminare i problemi, ascoltare le richieste che salgono dalla società e poi scegliere e decidere? Se le scelte sono sbagliate, quell’amministratore sarà punito; se si riveleranno giuste, ne riceverà popolarità e consenso. È quel che Renzi spera, naturalmente, guardando alle europee di maggio. Tra un mese o poco più saprà – e sapremo – cos’è rimasto di quella speranza... 

Da - http://www.lastampa.it/2014/04/19/cultura/opinioni/editoriali/matteo-e-la-politica-di-ascolto-WRjaCMGXhOe53avVsUaViJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Napolitano a Renzi: sulle riforme si dialoghi
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 06:15:31 pm
Politica
27/04/2014

Napolitano a Renzi: sulle riforme si dialoghi
Il premier disposto ad ascoltare chi si oppone, ma ai suoi fissa: “Confronto parlamentare importante, ma il patto va preservato”

Federico Geremicca
ROMA

La parola d’ordine - come sempre nei momenti delicati, quando è meglio tacere che parlare - la parola d’ordine dei due palazzi, dicevamo, è: «normale dialettica istituzionale». Dal Quirinale e da Palazzo Chigi filtra, insomma, poco o niente su un incontro (quello di ieri tra Napolitano e Renzi) che di «normale» non ha avuto nulla: a partire dalle modalità di definizione dell’appuntamento, fissato dai due presidenti praticamente per strada (davanti l’altare della Patria, venerdì mattina) e «rubato» dai microfoni indiscreti di SkyTg24. «Normale dialettica istituzionale» in un momento che di normale ha davvero poco, considerato quel che si agita sul fronte delle riforme da fare: gli stop and go di Silvio Berlusconi, le perduranti divisioni nel Pd, i giochini di Beppe Grillo, e poi «i professoroni», gli allarmi democratici e chi più ne ha più ne metta. È per questo che l’altra mattina - appunto davanti all’altare della Patria - Giorgio Napolitano ha chiesto a Matteo Renzi se non fosse forse il caso di fare un punto: ricevendo in risposta un veloce «attendo una convocazione, domani a qualsiasi ora, Presidente».

Ed è per questo - per la tensione che sale e la discussione che diventa una Babele - che il Capo dello Stato ha voluto ascoltare il premier, conoscerne le intenzioni e dispensare i suoi consigli. Consigli non nuovi, purtroppo, mai effettivamente seguiti e riassumibili in una indicazione, un metodo: le riforme vanno perseguite senza aut aut (il famoso «prendere o lasciare», così caro a Renzi), cercando il consenso più ampio ed evitando di minacciare ad ogni intoppo ritorsioni, apocalissi e perfino elezioni anticipate (che solo il Capo dello Stato, per altro, può determinare...).

Di fronte al pressante invito a ricercare il dialogo ed a mostrarsi disponibile al confronto ed anche a possibili modifiche dei testi presentati al Parlamento, Matteo Renzi ha voluto rassicurare Napolitano su più fronti. Primo: nessuno pensa a show down elettorali ravvicinati, perchè col semestre europeo alle porte e con tutto quel che c’è da fare, sarebbe follia il solo immaginarlo e l’orizzonte resta quello del 2018. Secondo: questo però non vuol dire che il governo sia disposto ad accettare diktat e dilazioni, visto che il premier ha esplicitamente legato la sua permanenza a Palazzo Chigi al varo della riforma del Senato. Terzo: il capo del governo è pronto al confronto di merito - e la settimana che comincia sarà ricca di appuntamenti - considera temporaneo ed elettoralistico l’avanti e indietro di Berlusconi e conferma - assieme - il sì al dialogo e il no allo stravolgimento del progetto di riforma del Senato. 

Sia come sia, il faccia a faccia di ieri ha di fatto confermato come il terreno delle riforme - e la via per vararle - sia comunque assai scivoloso, anche per il rapporto tra i due presidenti. Infatti, diversi per età ma soprattutto per «stile politico» non hanno - per formazione - lo stesso modo di affrontare le difficoltà. Napolitano ha fatto del dialogo la sua bussola politica per oltre cinquant’anni, Matteo Renzi è della scuola secondo la quale i nodi vanno tagliati anziché sciolti. Tradotto in pratica: il Capo dello Stato considera accettabili i famosi «quattro paletti» fissati dal premier in materia di riforma del Senato ma largamente discutibili funzioni, composizione e ruolo di quell’assemblea così come previsti dal testo del governo; Renzi, dal canto suo, ritiene intoccabili i punti fermi già fissati e il resto rivedibile ma solo in piccola parte: «Il confronto parlamentare - ha spiegato il premier ai suoi - è importante, ma il patto del Nazareno va preservato...». Non si tratta, come è evidente, di posizioni del tutto coincidenti. E si conferma, insomma, che se entrambi i presidenti - per ragioni diverse - hanno legato il loro futuro proprio alla realizzazione delle riforme, la via per centrare l’obiettivo potrebbe alla fine divergere. In sintesi: confronto e dialogo contro forza dei numeri e minaccia di show down elettorale. L’equilibrio è incerto, instabile. E le prossime mosse tutt’altro che scontate. In un clima così, è evidente, l’intenzione di approvare entro maggio - almeno in prima lettura - la riforma del Senato, va trasformandosi da speranza in irraggiungibile chimera...

Da - http://lastampa.it/2014/04/27/italia/politica/napolitano-a-renzi-sulle-riforme-si-dialoghi-gL4uSV03WeDE3WoeYsIYBK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Quell’esasperazione indice della sete di cambiamento
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2014, 05:48:34 pm
Elezioni 2014
21/05/2014

Quell’esasperazione indice della sete di cambiamento
L’unico tema a unire i contendenti è l’ostilità alla Germania

Federico Geremicca
ROMA

Se ci avessero detto che a una manciata di ore dalla fine della campagna elettorale Renzi sarebbe sembrato un leader moderato e i toni di Marine Le Pen (e perfino quelli della Lega) un argomentare appena sopra le righe, naturalmente non ci avremmo creduto. 

Infatti, pur avendo chiaro fin dall’inizio che la sfida Renzi-Grillo-Berlusconi avrebbe partorito iperboli ed esagerazioni, nessuno poteva umanamente immaginare che si sarebbe conclusa addirittura a colpi di «assassino» e di «lupara» (anche se, per fortuna, «bianca»...). 

Invece è andata così. E paradossalmente, proprio i toni esasperati hanno aiutato - o dovrebbero aver aiutato - a capire alcune cose. La prima (e forse la più importante, perché destinata a riproporsi nel tempo) è che il Paese - per la crisi che attraversa e per i gruppi dirigenti che si ritrova - resta disperatamente assetato di cambiamento.

Un desiderio di novità così esasperato che perfino il primo dei rinnovatori - e cioè Renzi il «rottamatore» - è apparso in difficoltà a fronteggiarlo: nemmeno le slides di inizio campagna, infatti, l’andare a piedi tra la gente e il tono rimasto informale anche una volta indossato l’abito da premier, sono apparsi sufficienti - evidentemente - a convincere la gente circa lo spessore del cambiamento avviato. 

La seconda cosa che si è plasticamente intesa, è che la parabola di Silvio Berlusconi pare ormai definitivamente compiuta. La ripetitività delle promesse - proposte in ogni campagna elettorale e poi quasi sempre disattese - è parte di quel declino. Il grosso della difficoltà, però - e l’aspetto è sorprendente - sta nella circostanza che quello che fino a ieri veniva considerato il «re dei comunicatori» fa fatica a tenere il passo dei due suoi competitor ed è ridotto, di fatto, al ruolo di comprimario: perfino battute e barzellette sembrano antiche. E se non sono antiche, è l’opinione pubblica che - considerata tutta l’acqua passata sotto i ponti - non pare più disposta ad apprezzarle ed a riderci su. La terza cosa - e non era scontata - è che non è vero che Renzi-Grillo-Berlusconi non sono d’accordo su niente. C’è un tema che, seppur con sfumature di toni - li accomuna: l’attacco frontale - c’è chi ha evocato i lager e che si è lasciato andare a poco eleganti apprezzamenti personali - alla Germania ed ad Angela Merkel. Le ambasciate europee a Roma inviano quotidianamente report nei rispettivi Paesi per informare sui toni, gli argomenti e le previsioni di questa campagna elettorale: non è antipatriottico dire che ci stiamo facendo la figura dei poveracci, un Paese che non sapendo con chi prendersela e non conoscendo la pratica (e nemmeno la teoria) dell’autocritica, dirotta all’estero cause e origini delle sue difficoltà. L’ultimo aspetto emerso con crescente chiarezza col passar dei giorni è il fatto che, in realtà, si sono svolte tre campagne elettorali contemporanee ma del tutto diverse. Renzi, costretto a smettere i panni del «rottamatore» (impossibile tenere il livello di Grillo...) ha scelto un profilo «responsabile», giocando ogni sua carta sulle cose fatte o avviate dal governo: la sua è una campagna che parla di cose, di progetti e di speranze. Silvio Berlusconi, invece, è partito con toni durissimi ma poi - richiamato dai magistrati che lo sorvegliano - ha scelto un filone che potremmo definire della nostalgia. 

Quel che poteva essere e non è stato. Piatto forte di questa linea sono, naturalmente, i complotti (i colpi di Stato): quello dei giudici - denunciato sottovoce, però - quello dell’Europa e degli Stati Uniti che vollero la sua testa nel novembre di tre anni fa, quello ordito da Fini prima e Alfano poi, e via dicendo. Infine Grillo, che meriterebbe un capitolo a parte: infatti sta facendo la sua solita campagna elettorale, l’unica che conosca. Che si voti per il Parlamento italiano o per quello europeo (e perfino per le regionali in Sicilia) è assolutamente indifferente: tutti a casa, o noi o loro, via i ladri ma prima di cacciarli ci restituiscano i nostri soldi. Musica per le orecchie di un Paese provato, e spesso disgustato. E poiché il coraggio aiuta gli audaci... nel giro di dieci giorni tre retate (il caso-Scajola, il caso Expo e l’arresto di Paolo Romano) hanno fornito propellente fresco per la sua campagna. Gli ultimi sondaggi lo davano oltre il 25% ottenuto un anno fa. Al Sud, si dice, dovrebbe dilagare. Ma siamo alla fine, fortunatamente. Il 26 maggio si saprà chi ha vinto e si conteranno i danni procurati. Infatti, dopo una campagna dichiaratamente antieuropea e costellata di annunci di referendum per uscire dall’Euro, toccherà proprio all’Italia andare a presiedere il semestre europeo. Sembra una barzelletta. Purtroppo non lo è...

Da - http://lastampa.it/2014/05/21/italia/speciali/elezioni/2014/quellesasperazione-indice-della-sete-di-cambiamento-l2J9GqdybBzia1nvUb8KBP/premium.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La corsa per non essere tagliati fuori
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2014, 06:00:08 pm
Editoriali
20/06/2014

La corsa per non essere tagliati fuori
Federico Geremicca

Un po’ meno sindaci e un po’ più di consiglieri regionali; un po’ meno membri nominati dal Quirinale e un po’ più competenze da esercitare. Per il «nuovo Senato», dunque, l’accordo sarebbe cosa fatta, o giù di lì. E anche l’Italia degli scettici - quella del non si può fare, non ci riusciranno mai - sembra rassegnata alla sconfitta.

Del resto, si era inteso già da qualche giorno che il dado era ormai tratto: lo si era inteso, per la precisione, da quando perfino la Lega e il movimento di Beppe Grillo avevano deciso di saltare sul carro delle riforme. Che poi, in tutta evidenza, è il tradizionale carro del vincitore: che anche in questa circostanza - come per le primarie, per gli 80 euro e per le elezioni europee - porta il nome di Matteo Renzi. Dopo mesi di confronto e discussione, insomma, la strada delle riforme sembra finalmente in discesa. Ed è una svolta rispetto alla quale il voto del 25 maggio ha avuto un effetto assolutamente determinante.

C’è voluto del tempo perché i partiti metabolizzassero le tante sorprese riservate dalla consultazione europea.

I risultati prodotti dall’iperbolico 40,8% incassato dal Pd a trazione Renzi hanno faticato a manifestarsi, ma ora - e non è affatto detto che sia finita - sono sotto gli occhi di tutti: il Pd più «pacificato» di quanto lo fosse anche alla vigilia del voto; Forza Italia che si lecca le ferite e resta aggrappata a un tavolo (quello appunto delle riforme) che è rimasto uno dei pochi ai quali può ancora sedere; la Lega di Salvini pronta ad accomodarsi; la Sel di Nichi Vendola che si scioglie come un gelato al sole; e infine - novità delle novità - Beppe Grillo che chiede di esser presente alla partita e assicura che intende parteciparvi «in modo rapido e responsabile». Si assiste, insomma, ad una sorta di corsa a non restar tagliati fuori. 

La svolta, in fondo, è comprensibile: con l’aria che tira - aria manifestatasi inequivocabilmente appunto col voto europeo - il mestiere dei «gufi» e dei «rosiconi» (per dirla alla Renzi) cioè dei «frenatori», si è fatto difficile e soprattutto rischioso. Mettersi in scia del premier, insomma, potrebbe essere - per i suoi avversari e per il Paese stesso - un buon affare o comunque il male minore: ed è questo - con l’eccezione della giovane formazione della coppia Meloni-Crosetto - quello che i più hanno deciso di fare. Per Matteo Renzi l’occasione è unica. E il fatto che tutto ciò avvenga alla vigilia del suo semestre di presidenza europea, accentua ulteriormente la sua forza ed il suo potere contrattuale. 

 Si tratterà, naturalmente, di non sbagliare alcuna mossa, né sul piano dell’attività di governo (dove molte delle riforme annunciate attendono ancora una traduzione legislativa) né su quello dei rapporti politici. E da questo punto di vista la partita più delicata è senz’altro quella che lo attende proprio di fronte alla più inattesa delle sorprese: la svolta annunciata da Beppe Grillo. Inutile nascondere che l’incontro fissato per mercoledì si candida ad essere forse ininfluente nel merito dei problemi che affronterà (le riforme) vista la grande distanza tra le rispettive posizioni, ma certamente assai rilevante sul piano politico. È evidente, infatti, che qualunque sia la ragione per la quale Grillo ha ritenuto fosse giunto il momento di «aprire» a Renzi (tatticismo politico, tentativo di rallentarne il cammino, ripensamento autentico) la risposta che il premier ed il Pd riterranno di dover dare, non potrà non pesare sui rapporti futuri tra «grillini» e democratici. Ma è una partita che comporta dei rischi anche per Beppe Grillo. Infatti, l’idea che il Movimento abbia subito uno stop alle ultime elezioni in ragione del suo tenersi del tutto fuori dalle diverse partite politiche e parlamentari in corso, non ha controprova ed è molto - per dir così - politologica.

Al contrario, è assai concreta la possibilità che il suo elettorato - o gran parte di esso - possa non apprezzare affatto il «mischiarsi» del Movimento con i partiti politici «tradizionali», i suoi riti, le sue riunioni e i suoi necessari compromessi. Il «popolo di arrabbiati» che ha votato Grillo in segno di protesta proprio contro il sistema dei partiti, potrebbe insomma restar deluso e sconcertato dalla mossa: ecco, anche loro sono come gli altri. È un rischio: ma forse, al punto cui era giunto, un rischio che Grillo non poteva non correre...

Da - http://lastampa.it/2014/06/20/cultura/opinioni/editoriali/la-corsa-per-non-essere-tagliati-fuori-GHPEYiTZeh9XHWkv9kchxO/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il prezzo politico di un successo
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2014, 05:37:29 pm
Il prezzo politico di un successo

09/08/2014
Federico Geremicca

C’è un commento che, forse più di altri, dà il senso ed offre una spiegazione alla lunga e durissima battaglia campale combattutasi per mesi dentro e fuori l’aula di Palazzo Madama. E’ quello di Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, co-protagonista della riforma approvata, e certo non entusiasta, mesi fa, del testo che le venne trasmesso dal governo: «E’ la prima volta nella storia costituzionale mondiale - ha annotato - che una Camera abolisce se stessa». 

Cominciamo da qui non per fingere di ignorare per quali e quante tensioni la fine del bicameralismo paritario abbia fatto da calamita: ma per sottolineare la portata comunque epocale della riforma (e sarebbe il caso di dire autoriforma) approvata ieri a Palazzo Madama. Funzioni più circoscritte e comunque largamente diverse rispetto alla Camera dei Deputati; membri scelti con elezioni di secondo grado (dunque non direttamente dai cittadini); nessuna indennità di funzioni e via elencando.

L’estenuante ping-pong di leggi che rimbalzano per mesi tra le due Camere è dunque finalmente destinato a finire. 

Si può senz’altro dire (demagogicamente) che con l’archiviazione del bicameralismo paritario gli italiani non mangeranno di più e meglio: ma andrebbe aggiunto che almeno non dovranno più imprecare contro le lungaggini e i tempi esasperanti che tanto discredito hanno arrecato al sistema dei partiti. Il senso vero della riforma è qui, più che nella riduzione (irrisoria) dei costi della politica e del numero di «politici di professione». Un passo importante è dunque stato compiuto: alla Camera se ne potranno muovere altri per migliorare quel che è da migliorare.

E’ quasi superfluo dire che il voto di ieri rappresenta un successo per Matteo Renzi, che aveva bisogno come l’aria di incassare un risultato che bilanciasse - almeno sul piano dei commenti e dell’immagine - la piccola slavina di cattive notizie arrivate dal fronte dell’economia: la questione sta nel capire quanto gli sia costato questo successo, e che prezzi politici abbia dovuto e dovrà pagare.

Infatti, i rapporti con la minoranza Pd - sempre più in campo ed agguerrita - sono ai minimi storici; le relazioni con quel che resta del partito di Vendola e con il Movimento Cinque Stelle sono ulteriormente peggiorati; e il Nuovo centrodestra di Alfano è sempre più sospettoso e incerto sul da fare, considerata l’anomala alleanza di cui è parte. Un quadro che non rappresenta certo un buon viatico, insomma, per le riforme economiche alle quali - necessariamente - il governo dovrà metter mano alla ripresa di settembre.

 

Resta l‘asse con Silvio Berlusconi, certo: ma è onestamente impensabile immaginare un’automatica trasposizione del «patto del Nazareno» dal piano delle riforme costituzionali a quello delle ricette per rilanciare l’economia. Matteo Renzi, insomma, potrebbe ritrovarsi in autunno politicamente più debole e addirittura - in rapporto ai provvedimenti che porterà al voto - senza maggioranza a Palazzo Madama. Una situazione che, se non cambiasse, lascia ipotizzare una sorta di bis del calvario percorso da Romano Prodi col suo ultimo governo (2006-2008). 

Il premier, naturalmente, ha ancora molte ed efficaci carte da giocare. La sua perdurante popolarità è la prima; la sua tenacia è la seconda; la minaccia di portare «gufi» e dissidenti al voto in primavera è la terza. La discussione che a partire da settembre si aprirà sulle modifiche e sullo stesso destino dell’Italicum sarà una buona cartina di tornasole per verificare progetti e intenzioni di Renzi e di un rinfrancato Berlusconi. Non sarà una partita facile per il più giovane premier della storia repubblicana, e molti scenari restano aperti. Uno solo, però, lo si può escludere fin da ora: un Renzi che vivacchi e scenda a compromessi. L’ex sindaco di Firenze sa che fermarsi equivarrebbe a perdersi. E la linea dunque sarà, come sempre, avanti tutta: verso nuove riforme oppure verso le elezioni.

Da - http://www.lastampa.it/2014/08/09/cultura/opinioni/editoriali/il-prezzo-politico-di-un-successo-FYeAbmHrKebGekCoSGvdpJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Secondo no del premier a Cernobbio.
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 05:04:48 pm
Le due strategie degli anticasta. Renzi snobba, Casaleggio si “mischia”
Secondo no del premier a Cernobbio. Il guru insieme ai “banchieri massoni”
Parte oggi la 40esima edizione del Workshop Ambrosetti.
Casaleggio era stato a Cernobbio anche nel 2013

05/09/2014
Federico Geremicca
ROMA

Che un giovane Presidente del Consiglio partito lancia in resta contro i «salotti buoni» decida di disertare il tradizionale appuntamento di Cernobbio - vero e proprio attico con terrazza della finanza italiana - può far storcere il naso ma, come si dice, ci sta. Ci sta forse meno il fatto che - per il secondo anno consecutivo - ormeggi sulle sponde del lago di Como Gianroberto Casaleggio, mente informatica di un movimento il cui leader non fa mistero di considerare i banchieri dei volgari truffatori (epiche le sue battaglie contro i vertici di Mps) e il mondo dell’economia e della finanza, più in generale, un’accozzaglia di massoni, con tanto di cappuccio e grembiulino. 

Ma in fondo, se lo si assume come ennesimo cortocircuito di certi populismi nostrani, può starci anche questo.

E’ vero che Matteo Renzi non è più lo scapestrato sindaco di Firenze e che polverose regole di galateo politico avrebbero consigliato una sua presenza a Cernobbio: ma almeno due circostanze rendono invece coerente la sua discussa scelta. 

La prima - forse meno rilevante - la potremmo definire di carattere storico-personale: Renzi sul lago non c’è mai andato, non ha mai frequentato i cosiddetti «salotti buoni» e quei salotti non lo hanno mai apprezzato, in ragione del suo modo spiccio di far politica . «Ci considerano dei barbari», ha confessato al tempo della scalata avviata col suo piccolo esercito di «rottamatori».

Certo ha qualche simpatia e qualche amicizia personale in quel mondo, ma si tratta - naturalmente - di rapporti «scandalosi» e criticati: le cene con Davide Serra, i pranzi con Flavio Briatore, allo stadio con quell’altro panzer di Diego Della Valle. Poca roba, però: e insufficiente a ridurre le distanze da un universo che non ama e dal quale non è stato mai amato. Questa prima circostanza, è un’ottima premessa - diciamo così - per introdurre la seconda spiegazione ad un’assenza altrimenti incomprensibile.

 I «salotti buoni» e le «élite» economiche-culturali del Paese (da certi industriali ai «professoroni», per capirci) sono diventati, da un po’ di tempo, il nuovo nemico di Matteo Renzi, un leader che fin dai tempi dell’assalto alla Provincia di Firenze ha sempre nutrito la sua politica e il suo «populismo democratico» con l’assalto ad un nemico: in origine i Ds «arroganti», poi i vertici («bolliti») del Pd, quindi la «casta» da rottamare e, rottamata quella, ecco i gufi, i rosiconi e gli animatori dei «salotti buoni».

Un nemico sempre e comunque, insomma: per dare un credo alle truppe, sostanziare una causa e magari parlar d’altro, in una finora efficacissima opera di distrazione di massa. E i nemici, naturalmente, sono sempre populisticamente impopolari: quanti cittadini elettori, infatti, possono considerare le élite economico-finanziarie del Paese incolpevoli per la situazione in cui versiamo?

Detto questo, sarebbe però un errore non vedere un altro aspetto del modo di far politica di Renzi, che l’assenza da Cernobbio conferma in maniera evidente: una certa allergia ad esser «sponsorizzato» e la riproposizione di quel che un tempo (con qualche approssimazione) veniva definito il «primato della politica». L’unica chiamata estiva alla quale il premier ha risposto è stata quella dei boy scout a San Rossorre: niente Cernobbio oggi, e niente Meeting di Cl, ieri. «Non mi lascio né intimidire né condizionare», ama ripetere Renzi: a maggior ragione da quelli che uno stesso dirigente Pd (non renziano) definisce «luoghi della politica morta»...

Più difficile dire, invece, che idea abbia del Forum Ambrosetti Gianroberto Casaleggio, detto il guru, che l’anno passato intrattenne la platea con una contrastata lezione sulle sorti magnifiche e progressive di Internet. Ci torna per la seconda volta: e non per lanciare pietre, come suggeriva l’anno scorso qualche militante grillino in rete. Partecipa nelle vesti di presidente della «Casaleggio Associati» o di numero due del Movimento? Poiché scindere le due parti in commedia è difficile, anche la risposta è complicata.

Comunque, nella gara ingaggiata con Renzi a chi è più antisistema, stavolta i Cinque Stelle perdono per distacco. Eppure per il Movimento - e per lo stesso sistema politico - potrebbe non essere un male. Infatti, se la tanto invocata «costituzionalizzazione» dei Cinquestelle avesse come passaggio obbligato la presenza del guru a Cernobbio (tra massoni e truffatori...) anche i più scettici applaudirebbero convinti. Ma è poi così? Nel pendolo responsabili-irresponsabili di un Movimento disposto a dialogare con Farage, i jiadisti e ora i «banchieri massoni», ma non col governo italiano, il dubbio è lecito: tocca a loro, a Grillo e Casaleggio, dimostrare che la lezione del voto europeo non è arrivata invano.

Da - http://lastampa.it/2014/09/05/italia/politica/le-due-strategie-degli-anticasta-renzi-snobba-casaleggio-si-mischia-fFQHfGB6YJZW8wJ9y0AWPN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il duello delle due sinistre
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:45:24 pm
Il duello delle due sinistre

26/10/2014
Federico Geremicca

Non aveva sbagliato, Matteo Renzi, quando si era detto certo del fatto che «la manifestazione della Cgil è contro di me». Ma forse nemmeno il premier avrebbe potuto immaginare quanto - e con che intensità - la giornata di protesta voluta da Susanna Camusso avrebbe appunto assunto questo profilo - questo carattere, diciamo - così personale. Ai leader della minoranza Pd che ieri hanno sfilato in corteo a Roma, è infatti toccato ascoltare slogan di una durezza forse inaspettata: «Un sogno nel cuore, Renzi a San Vittore». 

Immaginabile l’imbarazzo, considerato che il premier è pur sempre il segretario del partito in cui continuano a militare... 

La giornata di lotta contro le politiche del lavoro messe in campo dall’esecutivo è stata un successo (e non era scontato): un milione di persone - giunte per di più da ogni angolo d’Italia - non si muovono da casa per obiettivi sbagliati o poco sentiti. Ma il quinto raduno della Leopolda - per le presenze, i temi trattati e la vivacità del confronto - non è stato da meno. E questo, in tutta evidenza, costituisce un problema.

Il doppio successo, infatti, non facilita lo scioglimento del grumo polemico che ormai avvelena il Partito democratico: né i renziani né gli antirenziani - lo diciamo così per semplificare - appaiono in crisi di credibilità o a corto di argomenti. Il che, a prima vista, potrebbe sembrare un paradosso, ma invece non lo è: in maniera sempre più evidente, infatti, i primi ed i secondi parlano ormai a pezzi di società, a «pubblici», si potrebbe dire, del tutto diversi. Anzi: così diversi che è sempre più difficile immaginarne la coesistenza (e la rappresentanza) sotto una stessa insegna.

Questa diversità, questa distanza, ha avuto ieri - come sempre accade quando ci sono manifestazioni pubbliche - una rappresentazione addirittura plastica: in corteo a Roma con la Cgil, Cuperlo, Epifani, Bindi, Fassina, Cofferati e molti parlamentari Pd; alla tribuna o ai «tavoli tematici» della Leopolda, invece, imprenditori come Cucinelli, Bertelli e Farinetti, finanzieri come Davide Serra, e sei ministri del governo in carica. E per dirla ancor più chiaramente: mentre da piazza San Giovanni si preannunciava un possibile sciopero generale, dal «garage italiano» della Leopolda, si chiedeva la limitazione del diritto a scioperare (almeno nel settore pubblico...).

In che modo - e sulla base di quali compromessi - questa distanza, questa diversità, possano trovare un punto di sintesi è sempre più difficile da immaginare. Che una mediazione possa esser raggiunta affrontando il cosiddetto «merito delle questioni», sembra esser smentito - o quanto meno reso assai arduo - dalla cronaca recente, che ha visto «i due Pd» scontrarsi vivacemente proprio sul terreno delle cose da fare (dalla riforma del Senato fino al più recente Jobs Act, lo scontro è stato continuo).

Né pare più semplice siglare una tregua alla vecchia (e spesso oscura) maniera: qualche poltrona in cambio della fine delle ostilità...

E’ per questo che l’ipotesi di una separazione rimane in campo, e sarebbe sbagliato metterla frettolosamente da un canto come una pura «fantasia». C’è chi sostiene, anzi, che l’eventualità acquisterebbe rapidamente maggior concretezza se il campo degli oppositori di Renzi avesse (trovasse) un leader capace di unire il fronte e competere (anche sul piano mediatico: paradosso dei paradossi...) con la forza d’impatto del premier-segretario. In presenza della perdurante indisponibilità di Maurizio Landini a cambiare mestiere, il problema - però - resta irrisolto: con il carico di confusione e incertezza che ciò comporta.

Confusione, incertezza e un muro contro muro di fronte al quale anche i comportamenti personali - in questo o in quell’altro fronte - si fanno oscillanti, difficili. Tra la piazza e la Leopolda, qualcuno (D’Alema e Veltroni, per dire) ha preferito restare a casa e qualcun altro (come i governatori Chiamparino e Rossi) ha deciso di rifugiarsi in questo o quel convegno. Scelte in fondo comprensibili considerato che da domani, voltata pagina, tutto tornerà come prima. Le manifestazioni e i convegni, è vero, non creano lavoro: e spesso, purtroppo, non risolvono nemmeno i problemi... 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/26/cultura/opinioni/editoriali/il-duello-delle-due-sinistre-v201GvJK0HmomEbg00mKnO/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - A rischio la sintonia con il Paese
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 03:40:37 pm
A rischio la sintonia con il Paese

07/01/2015
Federico Geremicca

Sono stati giorni non facili, gli ultimi, per il premier Matteo Renzi. A volerla dire tutta, anzi, le due settimane appena trascorse sarebbero letteralmente da buttar via. Una inebriante miscela fatta di eccesso di sicurezza, superficialità e senso di onnipotenza, ha infatti prodotto errori, scivoloni e forzature delle quali non si sentiva affatto la mancanza: soprattutto in un momento delicato come questo.

Se è a un tale modo di governare che il premier si riferiva con il suo ormai noto «meglio arrogante che disertore», ebbene quel modo - in tutta evidenza - non va: e all’ex sindaco di Firenze andrebbe ricordato che tra il disertare e il maramaldeggiare vi sono infinite - e spesso utilissime - vie di mezzo. Non percorrerle, a volte può rivelarsi errore fatale.

Quel che più colpisce nelle ultime gravi disavventure di Renzi (citiamo per tutte il caso del volo di Stato per Courmayeur e la cosiddetta norma fiscale «salva-Berlusconi») è che sembrano segnalare l’improvviso smarrimento della caratteristica che in quest’ultimo anno ha fatto del segretario-premier un leader popolarissimo e a suo modo diverso: la sintonia con il «comune sentire» della maggioranza dei cittadini italiani.

Infatti, avventurarsi con tanta disinvoltura nei campi minati rappresentati dai «privilegi della casta» e dall’evasione fiscale (soprattutto se riferibile anche a Silvio Berlusconi) è idea che, ancora qualche mese fa, non avrebbe mai nemmeno sfiorato il presidente del Consiglio. Il fatto che questo accada oggi, invece, testimonia - a parte tutto il resto - l’aprirsi di un solco insidioso e di una grande distanza dal «sentimento pubblico» che rischiano di fare di Renzi un premier non poi così diverso dai suoi predecessori. 

Segnalati però i pericoli che incombono sulla tenuta e la credibilità del capo del governo (preoccupanti, alla vigilia di quella sorta di percorso di guerra che lo attende in questo gennaio) e restando il Paese in attesa di chiarimenti su entrambe le questioni citate, non si può - contemporaneamente - non annotare un aspetto delle polemiche divampate che colpisce e, in qualche modo, perfino sorprende: un aspetto che si potrebbe definire di nostalgia della «resistenza» al berlusconismo.

Questa «resistenza» - spesso a uso strumentale e in larga misura ormai inattuale - ha segnato soprattutto le reazioni (ed i sospetti) intorno al giallo del decreto fiscale. Una «manina» per aiutare l’ex Cavaliere; un «inciucione» per ridare a Berlusconi agibilità politica in cambio dei suoi voti per il Quirinale; l’ennesimo frutto avvelenato del patto del Nazareno (che più che un patto pare esser un trattato, considerata la quantità di cose che prevedrebbe...). Solo dopo questo tipo di reazione - quasi un riflesso condizionato - si è allargata la riflessione al decreto fiscale in sé: se fosse cosa buona o sbagliata, utile o dannosa, a prescindere dall’impatto sulle vicende che riguardano Berlusconi.

 

Per 48 ore, insomma, tutto è parso tornare indietro nel tempo, a quando la bussola del fare o non fare del centrosinistra era orientata, appunto, sull’antiberlusconismo (salvo il non varare, dalla postazione di governo, quelle riforme - dal conflitto di interessi in giù - che avrebbero potuto limitare un certo strapotere dell’ex Cavaliere). Quell’abitudine, alimentata da incerte ricostruzioni, si rivela non morta: tanto che anche di fronte all’annuncio del premier che il nuovo decreto vedrà la luce il 20 febbraio, il sospetto avanzato è che quella data così distante serva a contrattare da posizione di forza i voti berlusconiani per il Quirinale.

Si tratta di una lettura degli avvenimenti politici che prescinde largamente da quanto accaduto nell’ultimo anno. Da quando è entrato nel tunnel del patto del Nazareno, Berlusconi ha visto il proprio declino accelerare. Oggi è un leader apertamente contestato all’interno del suo partito, ha perso tutte le elezioni svoltesi, secondo alcuni sondaggi è a capo addirittura della quarta forza politica del Paese (superato perfino dalla Lega) ed è opinione diffusa che pagherebbe di tasca propria per non restar tagliato fuori dall’elezione del nuovo presidente. Se fosse perfino ricandidabile alle prossime elezioni, l’en plein per Renzi sarebbe completo: considerato che giudica il Cavaliere - e forse non a torto - come il miglior avversario possibile in un duello elettorale.

Comunque stiano le cose, molte risposte non tarderanno ad arrivare, visto che il premier va incontro ad un gennaio cruciale. Lo comincia nel modo peggiore: col «vento in faccia», direbbe lui. Il guaio è che all’inevitabile vento della crisi, il governo ci sta aggiungendo del suo: segno di superficialità e confusione. Viatico pessimo per l’imminente battaglia del Quirinale...

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/07/cultura/opinioni/editoriali/a-rischio-la-sintonia-con-il-paese-hC86Ci33EGwyHfHD6inEOJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La vittoria rischiosa di Matteo
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2015, 05:25:14 pm
La vittoria rischiosa di Matteo
22/01/2015

Federico Geremicca

Non si tratta, al solito, di seminare pessimismo e preoccupazione, ma nel giorno in cui la nuova legge elettorale supera al Senato l’ostacolo più difficile e fa rotta verso la definitiva approvazione, l’interrogativo non può essere che questo: quanto tempo ancora potranno reggere equilibri politici che paiono, ormai, definitivamente frantumati?

L’interrogativo sarebbe non da poco in qualunque momento della vita politica del Paese. 

Ma è del tutto evidente che assume peso e valore particolarissimi ad una settimana esatta dall’avvio delle votazioni per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, infatti, escono personalmente vincitori – se vogliamo dir così – dalla durissima giornata di ieri: ma i loro partiti appaiono ormai incontrollabili, divisi in fazioni, organizzati in correnti e percorsi da sospetti al limite della denuncia penale. 

Renzi vince la sua partita sulla legge elettorale perché media con la sua minoranza interna finché possibile: ma poi, di fronte a 47 mila emendamenti, prende atto che il dissenso non è semplicemente di merito, che il vero obiettivo è dare un colpo mortale a lui ed al suo «patto del Nazareno» e dunque accelera, tira dritto e incassa il risultato. Al netto delle ironie e della propaganda di nuovo dilagante, occorre ammettere che la cosiddetta «politica degli annunci» comincia a produrre risultati, qualunque sia il giudizio di merito sui provvedimenti: dal Job Acts alla riforma della Pubblica Amministrazione, fino alle Grandi Riforme (Senato e legge elettorale) qualche risultato si comincia a vedere.

Anche Silvio Berlusconi, se si vuole, vince il suo match: ma è tutt’altro tipo di partita, rispetto a quella del premier. L’ex Cavaliere combatte per la sopravvivenza politica e – non avrebbe senso negarlo – per il futuro delle sue aziende. E’ forse davvero alla sua ultima grande battaglia: Matteo Renzi ce l’ha chiaro e sta cercando di ricavare il massimo dell’utile possibile dal cosiddetto «patto del Nazareno. Da quando lo ha stipulato, il declino elettorale di Berlusconi s’è fatto inarrestabile, come hanno confermato tutte le ultime tornate elettorali: Forza Italia è ormai il terzo, se non il quarto, partito italiano. Una situazione impensabile ancora un anno fa, quando gli uomini dell’ex Cavaliere erano al governo con Enrico Letta...

Ciò nonostante, a Renzi viene contestata dalla minoranza interna una sorta di «intelligenza col nemico». L’accusa ufficiale, insomma, è quella di aver stipulato un patto con l’avversario che conterrebbe clausole inconfessabili e segrete. Vedremo. Per ora la fronda interna a Forza Italia contesta a Berlusconi precisamente il contrario: e cioè di aver svenduto il partito, di averlo trasformato in «una piccola lista civica renziana» (Fitto) e di averne addirittura deciso il suicidio, accettando – cosa realmente incomprensibile – che l’Italicum assegni il suo premio di maggioranza non alla coalizione (come inizialmente concordato) ma al partito che ottiene più voti.

 

In realtà, è ben altra – e da tempo – l’accusa alla quale, secondo la minoranza, Renzi deve rispondere: aver snaturato il Pd, averlo trasformato in un «partito personale» e spostato «a destra» fin quasi a cambiarne i confini etici (ed è la ragione, per dire, dell’addio di Sergio Cofferati). Quello in atto, insomma, è un vero e proprio «rigetto» di parte del Pd verso il suo segretario. E l’accusa che gli è mossa è di quelle assai pesanti: una sorta di «indifferenza etica» inaccettabile in un leader pd. E’ per questo che in casa democratica volano gli stracci e ci si confronta a base di insulti e provocazioni: parassiti, inciucisti e perfino disonesti...

In tutto ciò, il merito delle questioni resta sullo sfondo. L’Italicum non è certamente la migliore delle leggi elettorali possibili, ma diventerà comunque legge e cancellerà il pessimo Porcellum. Si poteva fare meglio, naturalmente: soprattutto, diciamola tutta, avrebbero potuto fare meglio, in passato, quelli che per anni non hanno messo mano ad alcuna riforma perché il «Parlamento dei nominati», in fondo, stava bene quasi a tutti. Vedremo, comunque, se – come accusa oggi la minoranza pd – il voto di ieri al Senato sancisce davvero la nascita di una nuova maggioranza (politica, intendiamo: perché in materia di riforme costituzionali ed elettorali, maggioranze precostituite non dovrebbero essercene).

Se così fosse, la via dritta – naturalmente – non potrebbero che essere la crisi di governo e, con ogni probabilità, nuove elezioni anticipate. Certo, ci vorrà un Presidente della Repubblica in carica per sciogliere le Camere e permettere il voto. Ma questo è un altro film, le cui scene-chiave si gireranno la prossima settimana. Un altro film. E se anche le premesse non incoraggiano, si spera assai diverso da quello girato in Parlamento giusto due anni fa... 

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/22/cultura/opinioni/editoriali/la-vittoria-rischiosa-di-matteo-3H8G4j1uKAsOIMlniPTW3L/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il Nazareno è finito ma solo un po’
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:31:55 pm
Il Nazareno è finito ma solo un po’
11/02/2015

Federico Geremicca

Poiché, come si dice, anche l’occhio vuole la sua parte, la nuova vita di Forza Italia come partito di «opposizione integrale» è cominciata ieri in Parlamento in maniera un po’ così... Alla Camera, in particolare, sul testo di riforma del Senato, qualche voto contro la legge, qualche altro a favore, qualcun altro chissà. 

Del resto, perfino in politica - a volte - non è cosa proprio agevole dirsi improvvisamente contrari a cose sulle quali fino al giorno prima si eran stretti patti e fatti accordi. 

Comunque sia, con le dimissioni del co-relatore della riforma (Sisto) e l’intervento del capogruppo Brunetta, il cosiddetto Patto del Nazareno può dirsi pubblicamente, ufficialmente e parlamentarmente rotto. Il partito di Berlusconi annuncia ora un’opposizione «selettiva» (si capirà col tempo cosa significhi) e rivendica la libertà «di non esser scontento». Si vedrà in fretta quali effetti sortirà sul quadro politico la fine della discussa intesa tra Pd e Forza Italia: è certo, però, che in passato la rottura di «patti» politici importanti ha prodotto effetti tutt’altro che irrilevanti...

Patti, per altro, mai interamente rispettati e sempre traditi da qualcuno dei contraenti. Il «patto della staffetta», che prevedeva che Bettino Craxi cedesse a Ciriaco De Mita la guida del governo nella seconda fase della legislatura, fu rotto dal leader socialista nel febbraio del 1987 addirittura con una intervista tv a Gianni Minoli: dopo arrivarono le elezioni anticipate. E il relativamente più recente «patto della crostata» (giugno 1997) siglato in materia di Grandi Riforme a casa di Gianni Letta tra le coppie D’Alema-Marini e Berlusconi-Fini, fu infranto d’un colpo da Berlusconi, quando ritenne di averne tratto il massimo utile.

Anche in quel caso - proprio come per il Patto del Nazareno - si sussurrò di accordi inconfessabili tra D’Alema e Berlusconi: il sostegno del Cavaliere alle riforme istituzionali in cambio dello stop a leggi in materia di tv (che avrebbero danneggiato Mediaset) e ad un colpo di freni circa la regolamentazione del conflitto di interessi. D’Alema pagò un prezzo pesante - nacque allora il Dalemoni... - all’intesa con Berlusconi: la rottura di quel patto portò prima alla fine della Bicamerale (e del processo di riforme) e qualche tempo dopo alla crisi del governo di Romano Prodi...

Patti infranti e terremoti politici, insomma. Ma il presidente del Consiglio si dice convinto che stavolta non sarà così. La previsione del premier-segretario si fonda su due elementi di fatto difficilmente contestabili: il primo, i rapporti di forza concretamente in campo; il secondo, l’invincibile istinto di sopravvivenza di un Parlamento che, a torto o a ragione, vede farsi più concreta la prospettiva di una legislatura che arrivi fino alla sua scadenza naturale (2018). Vedremo se la previsione si rivelerà esatta. Certo, alcuni elementi sembrano avvalorarla.

Il più evidente è quello del possibile o presunto ingresso in gioco dei cosiddetti «responsabili» o «stabilizzatori» parlamentari (soprattutto senatori) pronti, si dice, a correre in soccorso della maggioranza. Il fenomeno - una sorta di movimento lento - è già perfettamente visibile. Ai fini pratici (sostegno al governo che perde i voti di Forza Italia sulle Grandi Riforme) l’effetto non cambia: ma la sensazione è che più che ad una «campagna acquisiti» del Pd, quel movimento sia il frutto del solito e italianissimo «salto sul carro del vincitore». A testimonianza di tradizioni, chiamiamole così, durissime a morire...

Se le cose stanno così, allora non è difficile capire le ragioni dell’ottimismo - un ottimismo quasi irridente - di Matteo Renzi: «Berlusconi oggi segue Brunetta e la Rossi, non più Letta e Verdini... Tornerà? Non credo. Ma l’importante è che torni la crescita, non che torni lui» ... 

Da - http://www.lastampa.it/2015/02/11/cultura/opinioni/editoriali/il-nazareno-finito-ma-solo-un-po-vCFBDEZMXCkmglKoHAIxZL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’economia ha fiducia, il partito meno
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2015, 03:59:12 pm
L’economia ha fiducia, il partito meno

28/02/2015
Federico Geremicca

C’è qualcosa di effettivamente paradossale, a questo punto, nell’asprezza della discussione che continua a contrapporre - in maniera sempre più dura - il presidente del Consiglio e la minoranza del suo partito. La giornata di ieri, da questo punto di vista, può esser considerata esemplare: infatti, segna una sorta di punto di non ritorno nello scontro interno al Pd, proprio nel giorno che può esser considerato di svolta – o di avvio di svolta – per l’affaticata economia italiana. 

Due dati, dal forte valore simbolico, sembrano infatti far finalmente intravedere un po’ di luce in fondo al tunnel: lo spread sceso addirittura sotto i 100 punti (era oltre i 550 ancora tre anni e mezzo fa) e la ripresa, seppur lievissima, della crescita del prodotto interno lordo (che l’Istat stima a +0,1 nel primo trimestre di quest’anno, dopo oltre quattordici trimestri di calo o di assoluta stagnazione).

A questi dati ne andrebbero aggiunti un altro paio che interessano – più limitatamente – proprio Renzi e il Partito democratico. 

Il primo: la fiducia degli italiani nei confronti del presidente del Consiglio torna a salire e sfiora quota 50%; il secondo: l’ultimo sondaggio della Swg fotografa un Pd in buona salute e di nuovo oltre il 40% dei consensi (40,2, con una crescita di quasi un punto percentuale). Per apprezzare tale risultato basta annotare che gli immediati inseguitori del Partito democratico – Forza Italia e M5S – risultano più che doppiati e fermi ad un modesto 16,1%.

Naturalmente, sia i dati economici citati, sia lo stato di salute del governo e del Pd, possono essere variamente interpretati. Possono perfino esser considerati – senza ironia alcuna – ancora allarmanti e insufficienti: ma non sembrano giustificare, a dir il vero, quella sorta di Aventino riservato ieri dalla minoranza democratica al suo segretario, con la non partecipazione all’annunciata riunione dei gruppi parlamentari pd di dirigenti del peso di Bersani, Cuperlo, Bindi, Civati, Fassina e via elencando.

Dai leader che si oppongono a Matteo Renzi, sono arrivate critiche di ogni genere per motivare la scelta di disertare l’appuntamento voluto dal segretario-presidente. E non è che da altri mondi della sinistra politica e sindacale siano invece giunte carezze all’indirizzo del premier. Dopo il grande scontro sul Jobs Act, Susanna Camusso ieri lo ha accusato di «far confusione» sulla scuola; e Barbara Spinelli, europarlamentare, gli ha imputato addirittura di aver adottato il Piano di Rinascita di Gelli e della P2...

Che l’opposizione a Renzi da parte della minoranza Pd sia solo parzialmente (molto parzialmente) motivata da obiezioni di merito, lo si era inteso già da un po’: del resto, non c’è atto qualificante di questo governo – dalle riforme del Senato e della legge elettorale, fino al Jobs Act e agli interventi in materia di banche o di giustizia – rispetto al quale la minoranza Pd non abbia fatto le barricate e, a volte, perfino non votato i provvedimenti in esame. Possibile, allora, che un governo guidato dal segretario del Pd proceda sempre e solo con scelte sgradite prima di tutto a un pezzo proprio del Partito democratico?

Non è possibile, ovviamente. E la sensazione è che Matteo Renzi debba rispondere – agli occhi del vecchio gruppo dirigente Pd, battuto alle ultime primarie – di due peccati capitali. Il primo consiste nell’esser entrato nella stanza dei bottoni senza bussare e senza chieder permesso a nessuno: scegliendo la via della sfida aperta, cioè, senza attendere una qualche cooptazione da parte dei vecchi leader. Il secondo è forse ancor più grave: aver «aperto» a Berlusconi, averlo considerato (in materia di riforme) un interlocutore obbligato, aver seppellito – insomma – quell’«antiberlusconismo istintivo» che è stato per quasi vent’anni il maggior collante del centrosinistra italiano, se non addirittura l’unico.

Se le cose stanno così, è difficile immaginare che i «separati in casa» – Renzi e la minoranza interna – possano continuare in tal modo per molto tempo ancora. E’ vero che Bersani e i leader che si oppongono al presidente-segretario continuano a giurare di non volere una scissione, ed è giusto dar credito a questa assicurazione. Ma c’è una domanda alla quale, a questo punto, non si può sfuggire. Prima c’era la già sensazionale opposizione in Parlamento ai provvedimenti del governo, ora si è arrivati a questa sorta di Aventino «casalingo»: ecco, dopo la diserzione delle riunioni convocate dal segretario, quale può esser il passo successivo? 

DA - http://www.lastampa.it/2015/02/28/cultura/opinioni/editoriali/leconomia-ha-fiducia-il-partito-meno-34nRVrR3by4KMyTqJF0sxN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Azzollini, un errore che mette a rischio l’identità del Pd
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2015, 10:23:50 pm
Azzollini, un errore che mette a rischio l’identità del Pd
Il voto del Senato che sconfessa la posizione della Giunta è una scelta incomprensibile

29/07/2015
Federico Geremicca
Roma

Un’altra scelta poco comprensibile, un altro capitombolo: e stavolta sul terreno più delicato, quello che un tempo si sarebbe definito della «questione morale». Il voto con il quale il Senato ha detto no alla richiesta d’arresto per il senatore Azzollini ha scatenato una sorta di rivolta nella base Pd - e tra i leader della minoranza interna - che contesta ai vertici del partito di aver cambiato la posizione sostenuta in Giunta per le autorizzazioni (sì all’arresto) in una pilatesca «libertà di coscienza», i cui effetti ora sono sotto gli occhi di tutti.

Qualunque siano le ragioni della correzione di rotta - salvare la maggioranza di governo o sottovalutazione del clima che attraversa il Paese - essa si è rivelata sbagliata e poco comprensibile, per un partito che - in altre occasioni - ha chiesto e ottenuto dimissioni di ministri addirittura nemmeno indagati. Il vicesegretario Serracchiani ha commentato l’accaduto parlando di «occasione persa». Il punto è che occasione dietro occasione (dal caso-Crocetta alla vicenda di Mafia Capitale) quel che rischia di andar perduta è l’identità del Pd. Con tanti ringraziamenti da parte di Lega e M5S. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/07/29/italia/politica/azzollini-un-errore-che-mette-a-rischio-lidentit-del-pd-f6MjKK37RrkwyCtHFML0jI/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Se la politica volta le spalle al Paese
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 18, 2016, 11:52:16 am
Se la politica volta le spalle al Paese

17/02/2016
Federico Geremicca

Tutto da rifare o quasi. E non è una buona notizia, né per chi aspetta da anni una legge sulle unioni civili, né per i partiti politici e i movimenti che ieri, nell’austera aula del Senato, sono finiti travolti e poi sepolti dai loro stessi bizantinismi. Se ne riparlerà di nuovo stamane, ma dopo le mosse e le contromosse di ieri, non sono più in molti a scommettere che la tanto attesa legge vedrà davvero la luce, tra gli stucchi e i velluti di Palazzo Madama.

Cos’è successo, dunque, ieri? Semplicemente che il Movimento Cinque Stelle, pur di impedire un successo di Renzi, ha completato il suo dietro-front (avviato con la decisione di lasciare libertà di voto sulla stepchild adoption) annunciando il suo no al cosiddetto «emendamento canguro», col quale il Pd intendeva sgombrare il campo dalle migliaia di emendamenti presentati alla legge; ma è anche successo che lo stesso Pd, alle prese con non pochi problemi interni, non è stato in grado - né attraverso mediazioni, né attraverso la ricerca di nuovi accordi - di venir fuori dalla ragnatela di cavilli delle ultime settimane e di parare il colpo a tradimento del Movimento di Beppe Grillo.

Per Matteo Renzi, che decollava dall’Argentina per far ritorno a Roma proprio mentre il Senato s’impantanava, una pessima notizia. Una pessima notizia proprio a pochi giorni dal suo «secondo compleanno» a Palazzo Chigi. A parzialissima consolazione, il premier-segretario può incassare solo un marginale risultato d’immagine: e cioè, che proprio il Pd - alla fine - si sia dimostrato l’unica forza politica a voler davvero una legge che tuteli i diritti delle coppie omosessuali.

Non sappiamo, naturalmente, quanto il premier sia soddisfatto di tutto ciò. Al contrario, si può affermare in assoluta sicurezza che lo spettacolo andato in scena per settimane intorno alla legge sulle unioni diritti civili, sia stato tra i peggiori degli ultimi tempi. Una questione che è nervi e sangue per migliaia di coppie omosessuali è stata infatti trasformata in una Torre di Babele fatta di «canguri», inglesismi e «affidi rafforzati» capace di sgomentare qualunque normale cittadino. E se a questo si aggiungono i trucchi e gli sgambetti ideati per lucrare un qualche consenso elettorale, il quadro è completo.

Certo, a colpire di più è forse la scelta compiuta dal Movimento Cinque Stelle che, pur di evitare che il governo mettesse a segno un punto, ha progressivamente sbiadito - fino ad annullare - il suo sostegno alla legge, di fatto tradendo l’esito della consultazione tenuta tra i suoi aderenti. Gli uomini di Grillo potranno argomentare questa scelta in mille modi: ma non si sfugge alla sensazione che questioni di tattica politica ed elettorale abbiano finito per prevalere sugli interessi impellenti e concretissimi di migliaia e migliaia di cittadini. Un risultato davvero non eccelso per un Movimento nato per sconfiggere la vecchia politica.

Sia come sia, dopo mesi di estenuanti polemiche politiche, di manifestazioni di piazza contrapposte e di interventi a gamba tesa di questo o quell’esponente delle gerarchie vaticane, quel che resta è un desolante fallimento. Questo è il risultato di cui si discuterà domani in Europa (che continua da anni a chiedere all’Italia di dotarsi finalmente di una legge sulle unioni civili); ed è questo - ancora - ciò di cui dovranno prender atto i singoli, le coppie e le associazioni omosessuali che speravano in una norma che desse loro diritti da sempre negati.

E’ presto per dire quale sarà, ora, il destino della cosiddetta legge-Cirinnà. Stamane, infatti, il Senato tornerà a riunirsi, sperando che le trattative condotte nella notte abbiano sortito un qualche risultato. Vedremo. Ma se è vero, come si sostiene, che la speranza è l’ultima a morire, bisogna pur dire che ieri pareva tristemente agonizzante. 

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/17/cultura/opinioni/editoriali/se-la-politica-volta-le-spalle-al-paese-yuTL0vqz8beUhDnhjmaXUI/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’Italia dopo il voto: una nuova geografia politica
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2016, 11:30:05 am
L’Italia dopo il voto: una nuova geografia politica

06/06/2016
Federico Geremicca

Per le sorprese, se poi davvero arriveranno, bisognerà aspettare i ballottaggi: e dunque due settimane che già si annunciano di fuoco. Infatti, il primo turno di questa tornata amministrativa andata in scena ieri, è parso una sorta di sintesi delle previsioni e dei sondaggi intorno ai quali si è discusso e litigato fino a qualche giorno fa.

Anche se non c’è stato il crollo paventato di fronte a elezioni che non hanno entusiasmato e che sono state anzi a lungo surclassate dal futuribile e lontano referendum costituzionale; in nessuna grande città - comprese quelle dove era in pista anche il sindaco uscente - c’è un vincitore da incoronare al primo turno; l’avanzata dei Cinque Stelle c’è stata, ma porta al ballottaggio esponenti grillini in due sole grandi città: Roma e Torino; il centrodestra regge sostanzialmente soltanto a Milano e il Pd - infine - resta in campo praticamente ovunque, e giocherà la partita della vita in ballottaggi che si annunciano, però, tutt’altro che semplici.

Nel cuore della notte, a scrutinio ancora in corso e in mezzo a grandinate di proiezioni ed exit poll spesso contraddittori tra loro, qualche elemento di riflessione cominciava a farsi possibile. Intanto la conferma di un dato che appare, però, in costante evoluzione: il recente bipolarismo italiano (centrodestra contro centrosinistra) ha ormai definitivamente ceduto il passo ad un tripolarismo (centrodestra-centrosinistra-M5S) che pare però incubare, a sua volta, un bipolarismo nuovo e inatteso (centrosinistra-M5S). La migliore cartina di tornasole del processo in atto è Roma, dove un centrodestra diviso tra Giorgia Meloni e Alfio Marchini, nella notte rischiava l’esclusione dal ballottaggio a vantaggio, appunto, di M5S e Pd.

La Capitale, in particolare, è la culla della vera e propria esplosione della candidata grillina - Virginia Raggi - che sfiora il 40% (stando alle proiezioni) e mette una pesantissima ipoteca sulla vittoria finale. Roma nelle mani di una trentasettenne sconosciuta fino a ieri, è fenomeno che ha richiamato in città nugoli di troupe e giornalisti di tutto il mondo: considerato il risultato, è facile scommettere che si fermeranno per raccontare la definitiva capitolazione della città...

Matteo Renzi - che come premier ha depotenziato il valore di questa tornata elettorale, ma come segretario del Pd si è speso invece senza risparmio - può esser soddisfatto solo a metà di questi primi risultati: tra 15 giorni, infatti, il Partito democratico potrebbe aver riconfermato la guida di città importanti come Torino, Milano e Bologna, uscendo però sconfitto a Roma e non riconquistando Napoli (già perduta nelle elezioni precedenti). Il bicchiere è mezzo vuoto, insomma: anche in considerazione del risultato non brillante fatto registrare dai sindaci uscenti a Torino e a Bologna.
Lo sguardo, a partire da stamane, è già rivolto alla sfida dei ballottaggi: che sono, notoriamente, una partita del tutto diversa rispetto al primo turno. Non sarà inutile, però, guardare con attenzione al voto delle piccole e medie città per cogliere gli spostamenti di fondo nella geografia politica del Paese. Molto sembra essersi mosso: come e verso dove lo si comincerà a capire da stamane.
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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/06/cultura/opinioni/editoriali/litalia-dopo-il-voto-una-nuova-geografia-politica-ZUZbBEHUcgnqR1VqiTpeQN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Intervista a Renzi: “Non torno al Pd delle correnti. ...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 12:25:04 pm
Intervista a Renzi: “Non torno al Pd delle correnti. Se vogliono cacciarmi, ci provino”
Il premier: “Il sì al referendum è la scelta più anti-establishment possibile. Il Jobs Act crea posti, è di sinistra. I gufi? Ormai ho rinunciato alle battute”
Premier e segretario: Matteo Renzi, 41 anni, è presidente del Consiglio dal 22 febbraio del 2014 e leader del Pd eletto alle primarie del dicembre 2013


24/06/2016
Federico Geremicca
Roma

Il suo ufficio: «Eccolo, spesso mi tocca passarci le giornate». La stanza dove dorme, metà studio-salotto e metà camera da letto: «Non sbirciate, c’è disordine...». La mitica Sala Verde, quella dei mega-incontri (ormai storia passata...) con sindacati e parti sociali: «Bella, no?». E poi la stanza nella quale c’è il telefono bianco sul quale è solito chiamarlo Barack Obama. 

È ora di pranzo e Matteo Renzi passeggia sotto i soffitti a volta del terzo piano di Palazzo Chigi accompagnando in una sorta di «visita guidata» Maurizio Molinari, direttore de «La Stampa». Appare in buona forma, nonostante tutto. Fa sport e nuota ogni mattina. E anche l’umore non è male, nonostante tutto. 

«Mi viene da sorridere - conferma - a guardare la piccola folla che pensa di scendere dal carro del presunto sconfitto, con la stessa rapidità con la quale ci era salita», dice con la solita ironia. Ma sarebbe sbagliato immaginarlo superficialmente indifferente al voto (traumatico) dei ballottaggi di domenica scorsa. Il Pd, che riunisce oggi la Direzione, sembra una pentola in ebollizione: e attorno al segretario-premier - fuori e dentro il suo partito - sono in molti a intonare il de profundis, immaginandone l’imminente caduta. «È normale - dice -. Non mi sorprendo e non mi spavento. Ma al mio partito, domani (oggi per chi legge, ndr) farò un discorso chiaro: un discorso che somiglierà ad una sfida».

Il senso sarà: se hanno proposte le avanzino. Ma se qualcuno pensa alle sue dimissioni o ad un ritorno alla stagione dei «caminetti» tra capicorrente, resterà deluso: «Se vogliono quello - dice - hanno una via dritta: trovarsi un nuovo segretario. Il Congresso non è lontano, possono provarci». Né intende accettare la lettura del voto che va per la maggiore: e cioè che il Pd arretra e perde in ragione di una politica di governo troppo poco di sinistra. È un’idea che Matteo Renzi rifiuta. Così come non crede che siano state certe alleanze con Verdini a penalizzare il Pd oppure l’impostazione (personalistica, dicono) data al referendum costituzionale, del quale - per altro - offre una lettura nuova.
«Votare sì - spiega il premier - è la scelta più anti-establishment possibile, oggi: infatti, significa ridurre le poltrone alla politica e tagliarne notevolmente i costi. Magari i senatori Cinque Stelle voteranno no per conservare il posto: ma non vedo perché gli elettori di Grillo non dovrebbero dire sì. E in ogni caso - conclude - finita la nostra discussione interna io riprendo il giro d’Italia per far campagna sul referendum, che era e resta la madre di tutte le battaglie e di tutte le riforme».

Dunque è inutile attendersi correzioni di linea e di toni dopo la sconfitta ai ballottaggi? 

«Intanto a me pare impossibile un giudizio uniforme e omogeneo sui due turni a livello nazionale. Se ci limitiamo ai ballottaggi, naturalmente, la lettura è chiara: una vittoria dei Cinque Stelle evidente, innegabile e netta. Ma il voto non è stato solo questo».

E cos’altro è stato? 

«Si è votato in 1.500 comuni e in 20 hanno vinto i Cinque Stelle. In 7-800 comuni abbiamo vinto noi e negli altri, non pochi, l’ha spuntata il centrodestra, che dunque c’è. Il dato politico è che ha perso la Lega, mentre noi l’abbiamo spuntata in quella che era definita la battaglia-simbolo: Milano. Non è che solo perché lì abbiamo vinto allora quel voto diventa irrilevante... Ma capisco che la sorpresa negativa di Torino abbia cambiato il racconto possibile: che ora è totalmente impostato su un’altra linea, e cioè la crisi del Pd».

Per il quale lei invece non vede difficoltà? 

«Di questo discuteremo appunto in Direzione, dove io porrò un problema che è anche di metodo. Nell’ultimo anno, infatti, il Pd è finito sui giornali soprattutto per questioni interne: ora, se qualcuno pensa che si possano conquistare voti con una costante presa di distanze dal segretario o dall’attività di governo, pensa una cosa stramba davvero».

Non può certo pretendere che tacciano e obbediscano. Per altro, dal punto di vista della minoranza interna al suo partito, il reato di cui è accusato è grave: aver spostato a destra l’asse del Pd e del governo. E questo è quel che avreste pagato nel voto di domenica. 

«Il Jobs Act è la cosa più di sinistra fatta negli ultimi anni, perché permette ai giovani di avere un lavoro a tempo indeterminato, che significa un mutuo, uscire di casa, affrancarsi. Ci sono 455 mila posti di lavoro in più da quando io sono presidente del Consiglio, è troppo poco, ma il numero è enorme. Aggiungo: per me è di sinistra la politica europea che abbiamo fatto, una linea apprezzata sull’immigrazione e lo stop a chi immaginava avventure militari in Libia... Noi abbiamo fatto la legge sui diritti civili, sul terzo settore, sull’autismo, sulla corruzione... Se alla fine mi si spiega che tutto questo non è di sinistra, io non so più che cosa dire».

Però è questo quel che le contestano, no? 

«Sì. Ma il punto vero è che, comprensibilmente o meno, dentro l’anima profonda del gruppo dirigente che oggi sta nella minoranza c’è sempre il sentimento di una sorta di usurpazione: come se io mi fossi autoproclamato segretario o capo del governo, ignorando che ho vinto le primarie e che è stato il mio partito a chiedermi di fare il presidente del Consiglio».

Nemmeno la criticatissima alleanza con Verdini può esser oggetto di correzioni? Non è anche questa una virata a destra? 

«E secondo lei la Valente si allea a Napoli con Ala e la conseguenza è che Fassino - sindaco bravissimo - perde il ballottaggio a Torino? Sono argomentazioni che non stanno in piedi. Servono a montare polemiche non solo inutili ma perfino dannose. Se noi stessi trasmettiamo agli elettori un’idea di inaffidabilità del Pd, mi pare complesso poi riuscire a vincere delle elezioni».

Magari queste polemiche sono giustificate dall’altra accusa che le viene mossa: aver abbandonato il Partito democratico al suo destino, non curando l’organizzazione sui territori. 

«È dieci anni che il Pd discute di se stesso, della forma partito, con chi lo vuole solido e chi lo vuole liquido. Io non ho toccato nulla di quel che ho trovato, ho fatto campagna elettorale ovunque, sono tutte le domeniche alla scuola di partito... Il punto è: qual è l’alternativa al modello organizzativo attuale? Io porrò il problema in Direzione in modo molto franco. Abbiamo una rete sul territorio eccezionale: ma questa rete va usata, e non sempre avviene. Non solo: questo partito, in passato, aveva smesso di funzionare ed era diventato ostaggio delle correnti nazionali, per cui il luogo della sintesi erano i “caminetti”. Dunque: finché io faccio il segretario del Pd, “caminetti” non se ne fanno. Volete il partito delle correnti? Allora cacciate me».

D’Alema, in verità, denuncia anche un altro rischio: che siano gli elettori ad andarsene. Infatti sostiene che lei stia rottamando anche loro... 
«D’Alema è stato appena rieletto, anche con il nostro aiuto, presidente della Federazione che unisce tutte le fondazioni del socialismo europeo. Ecco, io spero che a Bruxelles i nostri amici socialisti europei non si siano accorti del fatto che, in piena campagna elettorale, tra il primo e il secondo turno faceva telefonate invitando intellettuali e uomini di cultura a dare una mano alla candidata che a Roma si opponeva al candidato del suo partito. Una candidata, per altro, immortalata dietro i banchetti no euro. Lasciamo stare... Ma se questo è il modello di Pd che hanno in testa, un partito che logora il suo segretario, facciano pure: io intanto parlo al Paese».

Romano Prodi le pone invece un’altra questione: quella delle crescenti disuguaglianze. È un tema che crede di aver sottovalutato come capo del governo e, più ancora, come segretario del Partito democratico? In fondo, è una delle cose che le vengono rimproverate «da sinistra», no? 

«Quello della lotta alle diseguaglianze è un tema enorme, e certo non solo italiano. Pensi alla campagna elettorale americana, per esempio. Trump affronta la questione in maniera demagogica, Sanders l’ha fatto con proposte più classiche. E il Pd come intende affrontarla per provare a risolverla? Io penso con il Jobs Act e i nuovi diritti e strumenti che stiamo introducendo: non con il reddito di cittadinanza e uno stipendio assicurato a tutti. Si potrà non esser d’accordo, ma io credo alla società delle opportunità e non a quella della rendita. Ma certo se ogni volta che interveniamo e facciamo qualcosa veniamo tacciati come amici delle lobby, oggi i petrolieri e domani le banche, per dire, si torna al solito punto».

La sua sembra una linea di chiusura totale. Non cambierà nulla, dunque, nel Pd? Impossibile, per esempio, pensare a una gestione unitaria o a un vicesegretario unico? 

«La gestione è giù unitaria, la segreteria è già unitaria. Vogliamo cambiare? Io non ho preclusioni. Ma è importante l’analisi di partenza: non siamo nella situazione di tracollo del Pd che viene descritta sui giornali o in Transatlantico. Certo, abbiamo perso comuni importantissimi, come Roma e Torino, abbiamo preso un colpo e brucia, fa male. Ma succede di perdere delle amministrative, non si può sempre vincere dappertutto. E dalle sconfitte si può imparare, comunque, se si vuole».

E a chi chiede un segretario che si occupi a tempo pieno del Pd cosa risponde? 

«Che lo Statuto non lo prevede. Vogliono cambiare lo Statuto? Qualcuno si alzi, lo dica e spieghi qual è il modello alternativo che propone».

Insomma, lei non sembra preoccupato dall’esito del voto. Non lo considera un campanello d’allarme, anche in vista del referendum costituzionale? 

«Il referendum non c’entra niente con le amministrative: ma approvare quella riforma è la condizione per la quale l’Italia può giocare la partita del futuro. Non sono in ballo io, ma davvero il domani del Paese. Anche se, naturalmente, confermo tutto quel che ho detto accadrà in caso di sconfitta».

Ma è vero che intende farlo slittare un po’ per permettere al fronte del sì di spiegare meglio le sue ragioni? 

«E perché? Tempo ce ne è. Il referendum avrà la tempistica prevista dalla Cassazione. Punto e basta. Di che parliamo?».

Quindi, avanti tutta come prima? Come se niente fosse successo? Nessun aggiustamento né sul piano dell’azione di governo né sulla linea del partito? C’è perfino chi le chiede di cambiare atteggiamento, meno arroganza, battute, presunzione... 

«Le ho appena detto che dalle sconfitte si può imparare molto. Io non dico facciamo finta di niente: dico discutiamo sul serio però, senza analisi strumentali e superficiali. Io accetto la sfida della riflessione, ma che sia in profondità. Non darò qualcosina a qualcuno, un dipartimento, un nuovo incarico di responsabilità, così che dicano “ha capito la lezione”. Io in Direzione dirò al Pd: discutiamo, ma poi tutti al lavoro sul territorio, nelle città, dietro ai banchetti. È una sfida».

E per quanto riguarda i suoi atteggiamenti un po’ guasconi? All’inizio forse piacevano, ora sembrano addirittura danneggiarla... 

«Io una riflessione su di me e su come sono percepito la devo fare. Il fatto non mi sconvolge né mi preoccupa, perché penso sia fisiologico - dopo due anni - che uno che governa si prenda gli insulti. Una volta Obama mi ha detto una cosa divertente: fino a che sei al governo ti giudicano sulla base delle loro aspettative, ma quando ci sono le elezioni ti valutano sul piano delle alternative... Sì, vedo un rischio di personalizzazione: ma da parte delle opposizioni contro di me. In alcune persone vedo non solo personalizzazione, ma addirittura odio. Sei considerato il responsabile di ogni male, insomma. Devo cambiare qualcosa? Certamente ho qualcosa da cambiare anch’io. Magari nei toni, nello stile, vedremo...».

Magari smetterla con i gufi e i professionisti delle tartine potrebbe comunque aiutare, no? 
«Ma io ho cambiato su questo. Ho smesso di insistere su questi aspetti, e non so è stato un bene o un male... Però ormai rinuncio alle battute. Detto questo, ammetto che se guardassi alcune tv e leggessi alcuni giornali, nemmeno io voterei per me, tante sono le critiche... Questo è un Paese dove, del tutto legittimamente, uno che si è messo a governare per cambiare le cose viene attaccato in continuazione. Ci sta. Certo, farei volentieri a meno di certo fuoco amico».
Torniamo alla polemica interna? 

«Solo perché l’accusa di non aver fatto e di non fare politiche di sinistra non la digerisco. Ne voglio discutere, voglio sentire le loro proposte. Ma ripeto: seriamente. Il senso di quest’intervista potrebbe essere: il Pd viene sfidato in positivo dal suo segretario. E li avviso: se vogliono passare le giornate a continuare ad attaccarmi, facciano pure. Ma io, da dopo Brexit ed il Consiglio europeo, me ne andrò in giro per il Paese a fare iniziative per il referendum costituzionale. Quella riforma è la madre di tutte le battaglie. Peserà sul futuro dell’Italia. Potrà assicurare stabilità. E glielo dico oggi, proprio nel giorno in cui nell’Italia dei 63 governi dal dopoguerra ad oggi, il mio diventa il quinto per longevità. Il quinto, dopo appena 28 mesi. Ed è evidente che qualcosa non va».

 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/24/italia/politica/intervista-a-renzi-non-torno-al-pd-delle-correnti-se-vogliono-cacciarmi-ci-provino-fDbkGrSdVpSnrgL8mNTloK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’ultima caccia agli indecisi
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2016, 11:54:23 am
L’ultima caccia agli indecisi

Pubblicato il 18/11/2016
Ultima modifica il 18/11/2016 alle ore 07:22
Federico Geremicca

L’ultima fotografia legalmente possibile degli umori del Paese alla vigilia del referendum immortala un elettorato ormai sfinito che marcia verso il voto del 4 dicembre con le idee, però, non ancora del tutto chiare. Secondo la rilevazione dell’Istituto Piepoli (14 novembre) l’esercito degli indecisi rappresenterebbe tutt’oggi un quarto del totale: ed è proprio questo 25% o giù di lì di cittadini incerti ad esser ormai diventato l’ultimo territorio di caccia grossa per i sostenitori del Sì, costretti ad un finale di campagna che forse non immaginavano. 

Certo, dopo la débâcle americana - che ha rinverdito altri fiaschi clamorosi: a partire dal voto europeo del 2014 - sondaggi e sondaggisti sono stati investiti da commenti ironici o apertamente sarcastici. Eppure un filo comune lega la miriade di rilevazioni effettuate dall’avvio della campagna ad oggi: partito in vantaggio (56 a 44, per Piepoli) il Sì ora si trova a dover inseguire (46 a 54). E se gli indecisi sono via via diminuiti, restano in numero ancora così alto da non far dormire sonni tranquilli ai sostenitori del No.

È per questo che la bussola di Matteo Renzi è ormai decisamente orientata in quella direzione. Ed è per questo - per la conquista del voto degli indecisi - che si sentono e si continueranno a sentire tesi, argomenti e lettura dei fatti talvolta realmente sorprendenti.

L’ultimo in ordine di tempo, è la sorta di appello rivolto in queste ore dal premier-segretario alla cosiddetta «maggioranza silenziosa». Uno scandalo, secondo alcuni; mentre altri considerano quel richiamo poco più che un approdo inevitabile, considerati i tempi e l’aria che tira in giro per il mondo. 

Alla «maggioranza silenziosa», fece appello per primo Richard Nixon, facendo di quella entità - dunque - una «cosa di destra» nel senso comune. Sepolta nel corso degli anni, è stata ora rispolverata da Trump nella sua trionfale campagna: The silent majority is back and we’re going to take our country back (la maggioranza silenziosa è tornata e stiamo per riprenderci il Paese). Renzi l’ha evocata in questi giorni per la prima volta: ed il suo riferimento non stona con una linea che, fin da prima del referendum, è stata sempre attentissima - anche attraverso semplificazioni talvolta discutibili - a cogliere umori e consensi dell’elettorato di centrodestra.

Un mix di liberalismo in economia e di populismo in politica che Eugenio Scalfari - al suo manifestarsi - definì «populismo democratico»: e oggi si coglie appieno la fondatezza di quella definizione. Il punto che resta da definire è se questo «populismo democratico» sia davvero il male minore di fronte al dilagare di populismi assai meno democratici o se il rilancio di una politica di sinistra-sinistra sia un antidoto migliore: se si guarda al voto americano e alla condizione nella quale versano - dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Spagna alla Grecia - i laburismi e i socialismi europei, qualche dubbio è lecito.

Anche per questo, in fondo, il referendum del 4 dicembre e l’incertezza che lo circonda può esser considerato da Renzi una sorta di prova generale delle elezioni politiche che verranno. Nello scontro col fronte del No, infatti, il premier sta come sperimentando un ampliamento dello spettro delle risposte possibili ai problemi sul tappeto. E cosi, alle soluzioni classiche patrimonio della sinistra (e di scarso successo, in giro per l’Europa), sta accompagnando suggestioni e temi cari all’elettorato moderato: e cioè, all’imperscrutabile «maggioranza silenziosa». Fra tre settimane il verdetto: che riguarderà certo il referendum, ma potrà riverberare effetti anche molto più in là.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/18/cultura/opinioni/editoriali/lultima-caccia-agli-indecisi-BLfJ8XrFZExMUE4BM6goNJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Un premier 3.0 per rovesciare il pronostico
Inserito da: Arlecchino - Novembre 26, 2016, 09:16:16 pm

Un premier 3.0 per rovesciare il pronostico

Pubblicato il 26/11/2016
Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 07:57
Federico Geremicca

Ci sono le battute, come inevitabile: «Nella mia veste di scrofa ferita e aspirante serial killer...». Qualche faticosa autocritica: «La mia sorte non è importante, non farò l’errore di personalizzare». Un avvertimento a Berlusconi (e non solo) di cosa potrebbe riservare l’alba del 5 dicembre, se vincesse il No: «Lui dice “il giorno dopo ci sediamo al tavolo con Renzi” ... No, a quel tavolo ci troverà Grillo e Massimo D’Alema». Ma nella lunga intervista concessa ieri dal premier a Massimo Gramellini, c’è soprattutto - in controluce - l’asse portante della possibile strategia futura: certo buona in caso di vittoria del Sì, ma ugualmente utile anche in vista di una campagna elettorale che molti ormai vedono vicina.

Una sorta di Renzi 3.0, che ha bisogno di una premessa nella quale il segretario-premier, naturalmente, crede ancora: la vittoria del Sì al referendum. Una vittoria che - a giudizio di Renzi - farebbe dell’Italia e del suo governo (premier in testa) il soggetto più forte in Europa, considerate le fatiche e le insidie elettorali che attendono Angela Merkel e François Hollande. E una forza che, acquisita in Italia, Renzi intenderebbe spendere - ed è una novità - soprattutto in Europa: «Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia deve avere una sua forte strategia».

Una strategia, una linea, che il presidente del Consiglio ha sintetizzato con una battuta: «Tra populismo e globalizzazione». Tradotto in politica - e col volto dei due leader che oggi meglio paiono incarnare quei due filoni - fra Trump e Merkel: una specie di terza via tra populismo nazionalista e certo rigore tecnocratico europeo. Che comunque obbligherebbe Renzi a trovare un equilibrio tra la fase uno del suo governo (convintamente europeista) e l’attuale fase due, segnata da polemiche quotidiane, veti annunciati e rivendicazione di sovranità. 

 Per il premier si tratterebbe, in fondo, di dare spessore e sistematicità a quel che in qualche modo è già stata la sua discussa pratica di governo in questi mille e passa giorni: accompagnare a classici provvedimenti «di sinistra» iniziative (leggi) che parlino anche all’elettorato più moderato, di centrodestra. Un tentativo, insomma, di tener conto del vento che tira e provare ad evitare al Pd la sorte che si è abbattuta sui socialisti spagnoli, francesi e greci, e sugli ancora provati laburisti inglesi.

 

Si tratta, come è evidente, di un tentativo non facile e già oggetto di contestazione - nell’ultimo anno almeno - per l’implicito «snaturamento» di approcci e valori classici e cari alla sinistra italiana. Ma soprattutto, questa ipotetica terza via sarebbe più difficilmente percorribile senza la forza - una sorta di investitura - che una vittoria del Sì attribuirebbe a Renzi ed al governo, tanto sul piano interno quanto sullo scenario europeo. Ma che possibilità ha il Sì di prevalere nelle urne del 4 dicembre?

Difficile dirlo. Ma da qualche giorno, paradossalmente, la campagna referendaria - dopo tentativi di spersonalizzazione e discussione nel merito - sembra esser tornata precisamente al punto di partenza: il referendum sul premier. Con una novità non da poco, dettata - forse - dall’avvicinarsi della sentenza. Infatti, al cacciamo (o salviamo) Matteo Renzi, si è andata aggiungendo una domanda: va bene, lo cacciamo, ma dopo che succede? Anche per questo è difficile immaginare che il rush finale di questa campagna venga lasciato ai costituzionalisti e a dotti confronti sul bicameralismo: lo scontro sarà tutto politico, e l’arma più forte in mano al Sì - checché se ne pensi - oggi sembra proprio essere quella certa e atavica paura italiana del «salto nel buio». Come forse, mesi e mesi fa, Matteo Renzi aveva immaginato. O forse soltanto sperato.
 
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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Perché anche dopo la decisione della Corte le urne non ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 26, 2017, 12:34:22 pm
Perché anche dopo la decisione della Corte le urne non sono scontate

Pubblicato il 26/01/2017
Federico Geremicca

Un coro. Apparentemente generale. Che sarà arrivato magari attutito nelle austere sale del Quirinale, ma non fino al punto da non esser comprensibile. Il coro dice «al voto, al voto». E preannuncia, dunque, altre giornate non facili per Sergio Mattarella.

È la reazione - largamente diffusa e largamente prevedibile - con la quale gran parte delle forze politiche ha accolto le decisioni della Corte Costituzionale sul cosiddetto Italicum. Da Grillo a Renzi, da Salvini alla Meloni, molti chiedono di stringere i tempi e tornare in fretta alle urne. Qualcuno lo vorrebbe davvero, sentendo il vento teso nelle vele; qualcun altro lo dice per far sapere, semplicemente, di non averne paura. Ma sottotraccia già si intravedono - al di là degli orientamenti del Quirinale, che vorrebbe una normale conclusione della legislatura - ostacoli oggettivi e volontà politiche capaci di rendere la strada verso le elezioni una difficile corsa a ostacoli.

Il perché è presto detto. Il giudizio della Corte Costituzionale, in realtà, consegna al Parlamento una legge solo teoricamente «di immediata applicazione». L’Italicum, infatti, non è stato «raso al suolo»: la Consulta ha sì cancellato il ballottaggio tra i due maggiori partiti (in caso nessuna forza politica raggiungesse il 40% al primo turno) ma ha dichiarato legittimo il premio di maggioranza.

Ciò rende la nuova legge del tutto disomogenea rispetto a quella del Senato (interamente proporzionale) imponendo al Parlamento la necessità di intervenire. Ed è appunto attorno a questa necessità che già si sente un sinistro tintinnar di sciabole.

A non volere elezioni entro la primavera sono Forza Italia, i gruppi centristi e mezzo Pd (la cosiddetta minoranza). Vorrebbero invece un voto in tempi brevi tutte le forze definite anti sistema (da Grillo a Salvini) e la parte di Pd fedele a Matteo Renzi: ma i fautori di un ritorno immediato alle urne sono divisi e in disaccordo tra loro circa la legge con la quale riandare al voto. La maggioranza del Pd intende infatti difendere quel che sopravvive dell’impianto maggioritario dell’Italicum e spinge per un ritorno al Mattarellum, mentre Grillo, Salvini e Meloni si dicono pronti a tornare alle urne anche con una legge del tutto proporzionale.

La partita, insomma, comincia ora: ed ha sbocchi imprevedibili. Si svolgerà in un clima tra i peggiori degli ultimi anni, nel quale le difficoltà e gli impegni che sono di fronte al Paese (dalla ricostruzione ai problemi economici, fino al G7 di fine maggio) sembrano contare poco o nulla rispetto alle fortune di questo o quel partito. Eppure, al di là dei tempi del voto, il bivio che è di fronte al Parlamento è di quelli storici: proseguire sulla via del maggioritario o tornare indietro (molto indietro...) rispolverando un sistema proporzionale?

La scelta da compiere non è semplice, ed è difficile fare previsioni. Una sola cosa può esser considerata certa: e cioè che non sarà facile per il Presidente della Repubblica portare a scadenza naturale una legislatura che già era boccheggiante e che ora, dopo la sentenza della Consulta, pare in piena e irreversibile agonia.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: “Ho scoperto il bluff, non li seguirà nessuno”
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2017, 12:18:38 am
Renzi: “Ho scoperto il bluff, non li seguirà nessuno”
Il leader vuole primarie già ad aprile-maggio e prevede tempi lunghi sulla legge elettorale

Pubblicato il 20/02/2017
Federico Geremicca
Roma

Apra le virgolette, dice Matteo Renzi mentre l’auto fila veloce in direzione Firenze. Ecco, aperte. «Bene. È stata prima di tutto una bellissima discussione. Ottimi Veltroni e Fassino, bravissima la Bellanova. Ma tutti veramente apprezzabili: siamo l’unico partito a discutere ancora cosi». Sei e mezza della sera, Renzi la prende alla larga ma fa fatica a nascondere un sentimento assai vicino all’euforia. Del resto, il tintinnar di sciabole e la puzza della battaglia - il “rumore dei nemici”, avrebbe detto un altro tipetto come Mourinho - lo fanno sentire a casa: e figurarsi quanto, se - per di più - la battaglia ritiene d’averla vinta.

Adunata al Lingotto dal 9 al 12 marzo. Gazebo e primarie il 9 aprile o - per lui alla peggio - il 7 di maggio. L’11 giugno, infine, le amministrative. Un timing serrato e già scritto: che Renzi offre ai suoi oppositori interni alla stregua di un bicchiere di cicuta. Scherza e recita: «La scissione ha le sue ragioni, che la ragione non conosce...». Che restino o che vadano («Ma resteranno, vedrà») è come se il Congresso lo avesse già vinto. E stavolta è difficile non esser d’accordo.

Già a ora di pranzo, del resto, i suoi messaggini sprizzavano ottimismo. «Piaciuta la scaletta?». «E ditelo che siamo stati bravini, stavolta». Una vita, anche politica, che non concepisce che sfide, azzardi e super velocità. «Stavolta, però, non serviva fare niente - corregge Renzi -. È bastato stare fermi e vedere il bluff». Racconta un aneddoto che gli piace molto: «A fine Assemblea mi ha fatto i complimenti Minniti: Uno come me - mi ha detto - uno che viene dalla mia storia, avrebbe riunito i big, fatto un caminetto e trattato una tregua: tu hai tenuto il punto ed hai visto il bluff. Che dire: sei stato bravo...».

Bluff. Renzi ripete la parola più volte, quasi a convincersi che quello dei “tre più due” (Speranza-Rossi-Emiliano, bracci armati del tandem Bersani-D’Alema) sia stato solo un bluff, al quale non seguiranno né scissioni né ammutinamenti: lo ripete, sì, ma non giureremmo che ne sia convinto. Sembra piuttosto un esorcismo. «Sul territorio non li seguirebbe nessuno». Altro esorcismo. «E comunque possono candidarsi tutti, faremmo un bellissimo Congresso». Esorcismo finale (con trappola incorporata).

In realtà, Matteo Renzi sa perfettamente che i prossimi mesi somiglieranno ad una sorta di traversata in solitario in mezzo a un mare in tempesta. Il Pd diviso, il Paese sotto il tiro incrociato di “sovranisti” e Cinque Stelle, elezioni amministrative insidiose quanto mai e in autunno una manovra economica - un salasso - che potrebbe spingere il Partito democratico al voto politico del 2018 nelle peggiori condizioni possibili. È per questo che di notte a Renzi appare di frequente il fantasma del governo-Monti: una scelta utile e responsabile, che Pier Luigi Bersani ha pagato caramente. Anzi: che forse paga ancora.

Ciò nonostante, il leader pd sembra non accarezzare più l’idea coltivata dopo la sconfitta al referendum: andare a elezioni politiche a giugno. «Con Gentiloni va tutto bene. Sta lavorando e ci dirà lui fin quando andare avanti». Si potrebbe sospettare, naturalmente, che il “con Gentiloni va tutto bene” possa finire per somigliare all’ormai storico “Enrico stai sereno”. Ma c’è un dettaglio non da poco: senza una legge elettorale, il sacrificio del terzo governo Pd in questa legislatura non servirebbe a niente.

E una nuova legge elettorale all’orizzonte non si vede. «Il Parlamento sta lavorando meno - dice Renzi - e le idee sul che fare sono notevolmente confuse. Non prevedo tempi brevi, e comunque vedremo...». Ma non è questione di stasera, perché oltre al subbuglio pd, c’è Milan-Fiorentina. E in più, nonostante la scissione possa essere tutt’altro che un bluff, Matteo Renzi vuol mettere agli atti un elemento di soddisfazione: «Sono riuscito a dimettermi anche da segretario, dopo aver lasciato la poltrona di premier. Sono l’unico che lo ha fatto. E in treno la gente mi avvicina e mi dice: lei, almeno, ha mantenuto quel che aveva promesso».

Intanto, duecento chilometri più a sud, gli scissionisti prendono carta e penna e rilanciano: è Renzi che ha deciso di costringerci alla scissione. Segretario, che ne dice? «Non li sta seguendo e non li seguirà nessuno». Ma il dubbio che non fosse solo un bluff, s’insinua. La battaglia, insomma, potrebbe non essere già vinta. Per la precisione, anzi: potrebbe essere solo cominciata.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Matteo Renzi: “Basta autocritiche. Contro di me un ...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 10, 2017, 12:25:11 pm
Matteo Renzi: “Basta autocritiche. Contro di me un intreccio di poteri”
L’ex premier: “Noi del Giglio magico lontani dalla Roma politico-burocratica. Sereno su mio padre. Prodi? Aspettiamo a dire con chi sta”
Pubblicato il 10/03/2017

Federico Geremicca
Roma

L’auto che lo sta già portando a Torino infila una serie di gallerie e la chiacchierata si fa ancor più complicata. Sono le sei del pomeriggio e comunque sia, superando fruscii e interruzioni, la voce di Matteo Renzi finalmente arriva chiara e porta la buona (o cattiva) novella: «Smettiamola con questa idea metafisica di un “nuovo Renzi” ... Ho fatto autocritica e sono tre mesi che giro col capo cosparso di cenere. Ora basta, è tempo di ripartire». 

Dunque: ammesso che sia mai davvero cominciata, la Quaresima di Matteo Renzi finisce oggi tra i mattoni e l’acciaio del Lingotto. Non sapremmo dire se si è proprio e davvero alla vigilia di una resurrezione: ma il leader ferito che al calar del sole avvierà la sua campagna per le primarie, è un uomo stufo di porgere l’altra guancia. «E se qualcuno pensasse che a fronte del momentaneo indebolimento io abbia perso energia e grinta, commetterebbe un gravissimo errore». 

Chiamiamolo un bonario avvertimento: e non sarà l’unico durante questa chiacchierata che avrebbe l’obiettivo di anticipare un po’ dei temi in discussione da oggi a Torino. Ogni tanto - e non potrebbe essere diversamente - fa sentire il suo peso l’inchiesta Consip e i guai giudiziari in cui è avviluppato «babbo» Tiziano: «La mia forza e la mia debolezza - dice - sono state lo star fuori da certi ambienti della Roma politico-burocratica: vogliono farmela pagare per i padrini che non ho e non ho mai avuto».

Presidente, anche lei a caccia di complotti e complottardi? 
«Per niente. Però mi viene da ridere - e poi da arrabbiarmi - quando mi accusano di aver messo su un sistema di potere. Ridicolo».

Beh, ridicolo... Il Giglio magico lo ha creato lei non lo abbiamo inventato noi. 
«Quattro o cinque toscani quarantenni o giù di lì: questo sarebbe il mio sistema di potere? Non male come accusa: soprattutto in un Paese che ha vissuto per vent’anni il clamoroso conflitto d’interessi di Berlusconi e galleggia tutt’oggi su intrecci tra banche ed editoria, credito e politica capaci di fare il bello e il cattivo tempo».

Che altri abbiano fatto peggio di lei, non è una gran difesa. 
«Ma guardi che io non devo difendermi da nulla. Vuole che le rifaccia l’elenco dell’altra sera in tv? Eni, Enel, Ferrovie, Poste, Rai, Finmeccanica... Al vertice non c’è nessun fiorentino: e i vertici li ha nominati un governo da me presieduto. Sono sereno: le bugie hanno le gambe corte».

Sereno anche sull’inchiesta e sul ruolo di suo padre? 
«Sereno. Sul suo ruolo e su quello del generale Del Sette e del ministro Lotti. Vede, voglio usare una sua espressione: noi del Giglio magico siamo fuori dai consolidati blocchi di potere. Capisco che possa non piacere, ma dovranno farci l’abitudine».

E sereno anche sull’esito delle primarie che l’attendono? Stavolta potrebbe non essere una passeggiata di salute, no? 
«Puntiamo a superare il 50 per cento ovviamente. I sondaggi dicono che dovremmo farcela, anche se non sarà facile. In queste primarie vedremo due film: il voto nei circoli, dove mi dicono che Andrea Orlando sia forte, e quello ai gazebo, dove potrebbe andar bene Michele Emiliano. Vedrete che saranno primarie belle e piene di passione, nonostante la quantità di odio che sento in giro: ma il nostro “assalto al cielo” piace ed emoziona tanti».

E se non superasse il 50 per cento? 
«Non cambierebbe niente».

In che senso? 
«Non è che se io raggiungo il 48% e gli altri competitor si dividono il restante ci saranno terremoti: chi arriva primo fa il segretario. Vede, non vivo queste primarie come una volata con due avversari sleali, che mi vogliono fregare: tipo gomitate in vista del traguardo. Vogliamo tutti bene al Pd, no?».

Dicevano così anche gli scissionisti... Non teme che si presentino ai gazebo per sostenere Orlando? 
«Quel che dovevo dire l’ho detto quando hanno deciso di lasciare il Pd. Non ho nulla da aggiungere: possono fare quel che credono. L’importante è che le regole delle nostre primarie siano rispettate. Insomma, io non vedo complotti, non ci credo: né a quelli dei magistrati né a quelli dei miei avversari politici».

 Prodi e Letta, che sembrano intenzionati a sostenere la candidatura di Orlando, sono diventati avversari politici? 

«Ma nient’affatto. E però mi ascolti: non tiriamo la giacchetta al Professore. Aspettiamo e poi commenteremo». 

E visto che non è all’orizzonte nessun «nuovo Renzi», cosa risponde a Chiamparino e Sala che le hanno invece chiesto un cambio di passo? 
«Chiamparino ha ragione: noi dobbiamo fare squadra, molto più di prima. Dobbiamo allargare il gruppo dirigente e io credo che il ticket con Martina sia già un segnale in questo senso. Poi dobbiamo definire la nostra posizione rispetto al governo: cioè le priorità che crediamo debbano essere perseguite. E tornare a occuparci del partito, dei circoli, delle feste, della comunicazione, dell’organizzazione. Ma prima di tutto, ovviamente, della missione e del profilo del Pd che vogliamo».

È di questo che parlerà al Lingotto? 
«Sì, vorrei partire da quel che succede nel mondo - da Trump, per dire - per arrivare alla Le Pen ed al nostro Paese. L’interrogativo resta lo stesso: il ruolo e la politica di una grande forza di centrosinistra di fronte ai populismi dilaganti. Non esistono risposte semplici: nei tre anni di governo, però, qualcuna abbiamo provato a darla».

Di nuovo il suo governo... 
«Sì, perché vorrei fosse chiara una cosa: noi abbiamo peccato di poco riformismo, non di troppo riformismo. Dagli 80 euro in poi, abbiamo fatto tante cose delle quali andare orgogliosi. Poi è arrivata la botta del referendum, della quale mi prendo tutta la responsabilità. Però le dico una cosa: gli effetti negativi del No li misureremo nel corso di anni. Vediamo divisioni, nuovi partitini, ritorni al proporzionale... E potrebbe essere soltanto l’inizio».

Sulla missione del Pd crede che vi siano molte differenze tra lei, Orlando ed Emiliano? 
«Il lungo confronto avviato servirà appunto a capire questo. Ma una cosa voglio dirla subito: non sono d’accordo con la separazione dei ruoli tra segretario e premier. Una simile scelta toglierebbe molta forza proprio al premier. Quando ho combattuto in Europa per ottenere maggiori margini di flessibilità per il nostro Paese, ho vinto non perché ero il presidente del Consiglio italiano, o almeno non solo per quello: ce l’abbiamo fatta perché ero il leader del maggior partito nella famiglia socialista, col 40% ottenuto alle europee».

Sa bene che su questo punto il disaccordo è grande. 
«Vedremo, ma l’esperienza della Merkel e di Rajoy racconta questo. E non vorrei che questa discussione si fondasse su un presupposto sbagliato: che il mio temporaneo indebolimento mi abbia tolto grinta ed energia. Vede, io posso accettare critiche e obiezioni al lavoro svolto da premier: ma non una destrutturazione di quel che abbiamo fatto ed un tratto di matita su me ed il mio nome. Si poteva fare meglio, certo. Lo penso anch’io, ma ora è il momento di ripartire: e io sono pronto».

Prima deve vincere le primarie: sono le più difficili tra quelle che ha fatto fino ad ora? 
«Le primarie più difficili sono sempre quelle che verranno. So di che parlo, avendo una certa esperienza. Mia figlia mi prende in giro e in questi giorni mi chiede: chi sfidiamo stavolta alle primarie? Pistelli, Ventura, Bersani, Cuperlo, ora Orlando ed Emiliano... Le primarie sono tutte difficili: ma evviva il Pd che ha il coraggio di farle, mentre altri decidono tutto con un clic o nel salotto di Arcore».

A renderle più difficili delle altre è forse la condizione di debolezza nella quale lei si trova, tra referendum perso e vicenda Consip, non crede? 
«Ho preso una botta, e non sono contento. Ma sono di quelli che preferisce ferirsi mentre combatte, piuttosto che starsene al sicuro lontano dal campo di battaglia. Ora si ricomincia, con umiltà. Ma sa che le dico? Che un uomo si giudica anche dal modo in cui porta le sue cicatrici».

E Matteo Renzi, se non si fosse capito, è convinto di portare le sue con orgoglio e dignità. Vedremo il 30 aprile se gli elettori Pd la pensano davvero come il loro ex segretario. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/10/italia/politica/matteo-renzi-basta-autocritiche-contro-di-me-un-intreccio-di-poteri-dTDyLYsP9o3tez16c2KUmO/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Non c’è più un uomo solo al comando
Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 05:01:05 pm
Non c’è più un uomo solo al comando
Pubblicato il 13/03/2017 - Ultima modifica il 13/03/2017 alle ore 06:55

FEDERICO GEREMICCA

«L’uomo che sogna a occhi aperti» (definizione di un applauditissimo Marco Minniti) esce dalla tre giorni del Lingotto più forte di come ci era entrato: e già questo è un risultato non scontato, se si ripensa a certi fuorionda e a certe tensioni serpeggiate nelle settimane scorse nello stesso campo renziano. Nessuno dei problemi che il Pd si ritrova di fronte, naturalmente, può esser considerato risolto: ma gli interventi con i quali l’ex segretario ha aperto e chiuso l’happening torinese per il lancio della sua ricandidatura, possono rappresentare - se non traditi dai fatti - un incoraggiante punto di partenza.
 
Matteo Renzi, infatti, ha tratteggiato il profilo di un partito che non intende mettere nelle vele il vento del populismo e della paura (ma su questo, sull’immigrazione in particolare, è già sfidato da Andrea Orlando); che non rinuncia a difendere il «sogno europeo»; che si promette più inclusivo, anche rispetto ad un recente passato; e che, infine, annuncia di voler sostituire una leadership assai personale - il famoso «io» - con una direzione più collegiale (lo sconosciuto «noi»).
 
Certo: più che un vero e proprio programma - per il quale bisognerà attendere la mozione congressuale – si tratta di una sorta di dichiarazione d’intenti; intenti che però appaiono, nell’enunciazione, in larga misura condivisibili.
 
Una convention, dunque, non inutile: né per gli osservatori di processi politici e nemmeno per Matteo Renzi (pur solitamente refrattario a riti e liturgie). Anzi. Al Lingotto, infatti, è andata in scena una notevolissima prova di forza dell’ex premier nei confronti non solo di chi ha deciso di sfidarlo alle primarie (Orlando ed Emiliano) ma della sua stessa area di riferimento. Con Paolo Gentiloni in prima fila ad ascoltarlo, mezzo governo alla tribuna e una copertura mediatica ancora da segretario-premier, l’happening torinese è servito - se non altro - a mettere in chiaro ad amici e avversari quanto potere rimanga intatto nelle mani dell’ex rottamatore.
 
E veniamo appunto a lui, Renzi, «l’uomo che sogna ad occhi aperti» o anche il Maradona del Pd (citazione dal solitamente sobrio Delrio). Vinse le sue prime importanti primarie - a Firenze - nel febbraio di 8 anni fa e poi - nel dicembre 2013 - quelle che lo hanno portato alla guida del Pd. È stato per quasi tre anni, contemporaneamente, presidente del Consiglio e segretario dei democratici: il dominus assoluto, insomma. Ricordiamo queste date solo per annotare come la semplice idea - ammesso che esista - di riproporre in queste primarie o alle prossime elezioni politiche stile, toni e argomenti dell’era della “rottamazione” non potrebbe che rivelarsi perdente (oltre che difficilmente comprensibile).
 
La sensazione è che Matteo Renzi lo sappia perfettamente, ma fatichi a trovare un’altra cifra, un’altra via. È una difficoltà comprensibile, e da affrontare - per di più - in uno scenario del tutto trasformato dalla sconfitta nel referendum del 4 dicembre: cambiate le regole del gioco (dal maggioritario al proporzionale); cambiati e aumentati i giocatori in campo (dall’Mpd a un M5S ingigantito rispetto a cinque anni fa); cambiato, inevitabilmente, il suo stesso appeal.
 
Di fronte all’ex rottamatore, insomma, ci sono due sfide (primarie e poi elezioni) che non potrà affrontare con le innovazioni, le battute e le promesse con le quali è arrivato fino a palazzo Chigi. Nella storia repubblicana, solo due uomini – Berlusconi e Craxi – hanno governato più a lungo di lui. A volerla dire tutta, si tratta di una circostanza che sarebbe meglio valorizzare, piuttosto che tentare di occultare dietro toni che, a volte, ancora lambiscono il populismo. Un Renzi “di governo”, un Renzi “in doppiopetto” potrebbe, forse, non funzionare. Ma la tre giorni del Lingotto, però, dice che in fondo ci si può almeno provare… 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/13/cultura/opinioni/editoriali/il-nuovo-pd-che-nasce-al-lingotto-6b2FuSVkvU2QRizaYRjjxK/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Matteo combattivo e ottimista. La scommessa è convincere...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 05:40:08 pm
Matteo combattivo e ottimista. La scommessa è convincere il Pd
Il ritorno dopo la sconfitta. Parole d’ordine: Europa diversa e sinistra unita. L’attacco ai fuoriusciti: “Vogliamo un partito di eredi, non di reduci”

Pubblicato il 11/03/2017 - Ultima modifica il 11/03/2017 alle ore 08:30

FEDERICO GEREMICCA
TORINO

Ripartire dal Lingotto, nell’anno di grazia 2017, è come decidere di scrivere un libro con la mitica «Lettera 22»: una Olivetti di mezzo secolo fa, e anche più. E farlo in una sala che di rosso ha solo il foulard di qualche signora e con un discorso che resterà alle cronache per la riscoperta (a sinistra!) della parola «patriottismo», rappresenta qualcosa che somiglia più a un azzardo che a una pericolosissima scommessa. Ma Matteo Renzi ha deciso di lanciare la sua corsa alla segreteria del Pd precisamente così: in perfetta adesione ad uno stile (disastrosamente sperimentato col referendum) che non conosce pause e - tanto meno - dietrofront. 
 
E gli aspetti scenografici e letterali sono il meno: perché l’ancor più difficile è nei compiti - e nei fronti di battaglia - che Renzi affida al partito di cui vuol tornare segretario: la lotta alla paura, che è la miglior benzina dei nuovi leader (da Trump alla Le Pen, fino a Grillo e Salvini); quella all’euroburocrazia, per difendere la migliore idea politica del secolo passato (l’Unione, appunto).
 
E l’impegno a rilanciare le eccellenze italiane: dal patrimonio culturale alle bellezze del Paese, fino a un’assistenza sanitaria che non ha uguali (meglio: non avrebbe uguali) nel resto del pianeta.
 
Se mettiamo in fila gli obiettivi che Renzi assegna al «suo» Pd, non può esserci dubbio: è il programma, praticamente, di un visionario. O di un leader fermo a dieci anni fa: Lingotto 2007, appunto, il tempo e il tempio della grande innovazione veltroniana. Ma sono passati due lustri, il mondo, la politica e l’Italia sono cambiati e ripartire semplicemente dal Lingotto - e con gli obiettivi che dicevamo - è come provare a fare il giro del mondo controvento in barca a vela: avventura che solo a pochissimi è riuscita.
 
Il giudizio su Matteo del popolo del Lingotto: “La sconfitta ha fatto bene”

 
A fronte delle ricette classicamente socialdemocratiche di Andrea Orlando e del «grillismo temperato» di Michele Emiliano, il Lingotto 2.0 di Renzi sembra - a prima vista - il ritorno ad un passato spazzato via dagli eventi di questi anni. Una operazione politica fuori tempo. Un decennio fa si veleggiava sulla spinta del maggioritario: oggi, al contrario, il ritorno al proporzionale sembra un Vangelo. Nel 2007 si fondevano partiti (a destra e a sinistra): dal dopo-referendum, invece, il panorama è fatto di scissioni e partitini che si moltiplicano. Ai tempi del Lingotto prima maniera, Beppe Grillo era un comico, le migrazioni un fenomeno che commuoveva e la paura (il senso di insicurezza) un sentimento ancora arginabile con la ragione.
 
Tutto incontestabilmente vero. Ma la domanda è: ci si può rassegnare al ritorno della Prima Repubblica (con i suoi storici guai, che si finge di non ricordare)? Si può dire a cuor leggero addio all’Europa, buttando alle ortiche decenni di progressi e di speranze? E infine: è giusto accettare che un sentimento di paura (irresponsabilmente alimentato) travolga modi di vivere e politica, rapporti personali e scelte di governo?
 
La risposta che Matteo Renzi propone al suo Pd è no: resta da vedere - ed è questa la partita delle primarie - se le ricette che l’ex premier propone siano quelle giuste. E se è ancora lui il leader adatto a realizzarle. Sapendo, naturalmente, che il «rottamatore» non è cambiato: nonostante la batosta subita al referendum. Dice «ci vuole più collegialità nel partito», ma è lecito dubitare che ci creda davvero; promette impegno per rilanciare e meglio strutturare il Pd, ma chissà se lo farà sul serio; e comunque - motivandola - non recede da una idea assai invisa a Orlando ed Emiliano: che il segretario sia anche premier in caso di vittoria alle elezioni, sommando ruoli, responsabilità, forza e potere.
 
E questo, insomma, è il Renzi che parte alla riconquista del Pd e del governo: energia da vendere, di nuovo in piedi, voglia di combattere e ottimismo alla vecchia maniera. I «numi tutelari», però, non sono con lui: Veltroni non c’è, e lo raccontano indeciso su quale candidato sostenere; Romano Prodi pare stia decidendo di schierarsi con Orlando; e D’Alema e Bersani sono già da un’altra parte, con i loro «reduci». «Ma noi vogliamo un partito di eredi, non di reduci», chiarisce Renzi: eredi di quel che di meglio ha prodotto il Pd. Con buona pace di chi ha dubbi, di chi è contrario e di chi già è andato via.
 
Si vedrà quanto convincente risulterà questo Renzi vecchio e nuovo assieme. E convincente non solo per il «popolo delle primarie» - che i sondaggi danno in maggioranza con lui - ma per gli italiani tutti, quando saranno chiamati finalmente a scegliere a chi affidare le sorti di questo Paese.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/11/italia/politica/matteo-combattivo-e-ottimista-la-scommessa-convincere-il-pd-nIgLAqkdMgAIqEcrqNHYiL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il duello tv si rivela una sfida vera
Inserito da: Arlecchino - Aprile 28, 2017, 12:21:37 pm
Il duello TV si rivela una sfida vera

Pubblicato il 27/04/2017 - Ultima modifica il 27/04/2017 alle ore 01:31

FEDERICO GEREMICCA
Non noioso, sebbene privo di sostanziali novità. Non cattivo, anzi assai meno cattivo di quanto solitamente si è abituati a veder accadere nel Partito democratico. E probabilmente non risolutivo, perché - a meno di eventi clamorosi - è molto difficile che un’ora di confronto modifichi giudizi e orientamenti di voto maturati nel corso di mesi di confronto. Ciò nonostante, non inutile: perché similitudini e differenze - a questo punto difficili da annullare - sono state confermate con irreversibile chiarezza. 
 
È una delle sintesi possibili del confronto tv fra Renzi, Orlando ed Emiliano, arrivati al rush finale della loro corsa alla guida del Pd. Un confronto che - prendendo come riferimento il passato recente - ha visto di fronte un «non pentito» (Renzi), un «mezzo pentito» (Orlando) ed uno (Emiliano) che non avendo nulla di cui pentirsi - per quanto riguarda il governo nazionale - ha avuto gioco facile nell’attaccare gli altri due competitors su tutto e tutti.
 
Su due punti - tutt’altro che irrilevanti - la differenza di posizioni tra Renzi e i suoi sfidanti è stata netta. Il primo. Orlando ed Emiliano hanno detto con chiarezza che, dopo le prossime elezioni, non farebbero mai un governo con Berlusconi: Renzi, invece, non ha escluso questa ipotesi. Il secondo: Orlando ed Emiliano - da capi del governo - varerebbero una patrimoniale, cioè una tassa sulle grandi ricchezze: Renzi, al contrario, no. Gli altri distinguo - su Europa, lavoro fatto dal governo Renzi e profilo del Pd - sono stati confermati, con toni meno accesi - in verità - di quanto ci si poteva attendere.
 
Pochi i momenti di forte attrito, essendo evidentemente prevalsa la preoccupazione per le sorti - direbbe Bersani - della ditta. Ma comunque evidenti le differenze: Renzi immaginifico come sempre e aperto a ogni futura alleanza politica; Orlando ortodosso e concreto nel prefigurare il lavoro di ricostruzione del centrosinistra, Emiliano cocciuto nell’attaccare sia il primo sia il secondo ma con poche proposte realmente innovative. Insomma: non è che tutto sia rimasto come prima, ma certo è difficile che il confronto abbia convinto molti a cambiare intenzione di voto.
 
Detto questo, non si può fare a meno di annotare come l’irresistibile tentazione autolesionista del Partito democratico continui a manifestarsi anche nei momenti meno opportuni. Si prendano, appunto, queste primarie. Si è cominciato con una poco comprensibile polemica preventiva sull’affluenza alle urne: se votano in meno di due milioni - si è detto - vanno considerate un flop. Il senso della polemica, naturalmente, è chiaro: indebolire - se non delegittimare - il vincitore. Se non fosse che così si è offerto un ottimo argomento di propaganda agli avversari politici, fingendo di dimenticare quanto i tempi siano cambiati rispetto a alle ultime primarie (4 anni fa) e rimuovendo del tutto la scissione della parte più militante e meglio organizzata del partito.
 
E non è tutto, perché il peggio è arrivato dopo il voto francese. Infatti, in rapida successione, prima Enrico Letta (ex presidente del Consiglio) e poi Walter Veltroni (primo segretario del Pd) hanno definito le primarie «morte» o «da ripensare». Certo, non un grande incoraggiamento per Renzi, Orlando ed Emiliano, che intanto battevano a tappeto il Paese chiedendo a militanti ed elettori di recarsi alle urne. «Fuoco amico», si potrebbe dire. E vedremo domenica, tra primarie sì o primarie no, l’effetto che avranno avuto certe polemiche e certi inattesi ripensamenti.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/27/cultura/opinioni/editoriali/il-duello-tv-si-rivela-una-sfida-vera-SnU6HXWYRwRcON6ndNRb2N/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il duello tv si rivela una sfida vera
Inserito da: Arlecchino - Aprile 29, 2017, 12:57:28 pm
Il duello tv si rivela una sfida vera

Pubblicato il 27/04/2017 - Ultima modifica il 27/04/2017 alle ore 01:31

FEDERICO GEREMICCA
Non noioso, sebbene privo di sostanziali novità. Non cattivo, anzi assai meno cattivo di quanto solitamente si è abituati a veder accadere nel Partito democratico. E probabilmente non risolutivo, perché - a meno di eventi clamorosi - è molto difficile che un’ora di confronto modifichi giudizi e orientamenti di voto maturati nel corso di mesi di confronto. Ciò nonostante, non inutile: perché similitudini e differenze - a questo punto difficili da annullare - sono state confermate con irreversibile chiarezza. 

È una delle sintesi possibili del confronto tv fra Renzi, Orlando ed Emiliano, arrivati al rush finale della loro corsa alla guida del Pd. Un confronto che - prendendo come riferimento il passato recente - ha visto di fronte un «non pentito» (Renzi), un «mezzo pentito» (Orlando) ed uno (Emiliano) che non avendo nulla di cui pentirsi - per quanto riguarda il governo nazionale - ha avuto gioco facile nell’attaccare gli altri due competitors su tutto e tutti.
 
Su due punti - tutt’altro che irrilevanti - la differenza di posizioni tra Renzi e i suoi sfidanti è stata netta. Il primo. Orlando ed Emiliano hanno detto con chiarezza che, dopo le prossime elezioni, non farebbero mai un governo con Berlusconi: Renzi, invece, non ha escluso questa ipotesi. Il secondo: Orlando ed Emiliano - da capi del governo - varerebbero una patrimoniale, cioè una tassa sulle grandi ricchezze: Renzi, al contrario, no. Gli altri distinguo - su Europa, lavoro fatto dal governo Renzi e profilo del Pd - sono stati confermati, con toni meno accesi - in verità - di quanto ci si poteva attendere.
 
Pochi i momenti di forte attrito, essendo evidentemente prevalsa la preoccupazione per le sorti - direbbe Bersani - della ditta. Ma comunque evidenti le differenze: Renzi immaginifico come sempre e aperto a ogni futura alleanza politica; Orlando ortodosso e concreto nel prefigurare il lavoro di ricostruzione del centrosinistra, Emiliano cocciuto nell’attaccare sia il primo sia il secondo ma con poche proposte realmente innovative. Insomma: non è che tutto sia rimasto come prima, ma certo è difficile che il confronto abbia convinto molti a cambiare intenzione di voto.
 
Detto questo, non si può fare a meno di annotare come l’irresistibile tentazione autolesionista del Partito democratico continui a manifestarsi anche nei momenti meno opportuni. Si prendano, appunto, queste primarie. Si è cominciato con una poco comprensibile polemica preventiva sull’affluenza alle urne: se votano in meno di due milioni - si è detto - vanno considerate un flop. Il senso della polemica, naturalmente, è chiaro: indebolire - se non delegittimare - il vincitore. Se non fosse che così si è offerto un ottimo argomento di propaganda agli avversari politici, fingendo di dimenticare quanto i tempi siano cambiati rispetto a alle ultime primarie (4 anni fa) e rimuovendo del tutto la scissione della parte più militante e meglio organizzata del partito.
 
E non è tutto, perché il peggio è arrivato dopo il voto francese. Infatti, in rapida successione, prima Enrico Letta (ex presidente del Consiglio) e poi Walter Veltroni (primo segretario del Pd) hanno definito le primarie «morte» o «da ripensare». Certo, non un grande incoraggiamento per Renzi, Orlando ed Emiliano, che intanto battevano a tappeto il Paese chiedendo a militanti ed elettori di recarsi alle urne. «Fuoco amico», si potrebbe dire. E vedremo domenica, tra primarie sì o primarie no, l’effetto che avranno avuto certe polemiche e certi inattesi ripensamenti.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Una sorpresa che impone un nuovo inizio
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2017, 11:29:12 am
Una sorpresa che impone un nuovo inizio

Pubblicato il 01/05/2017 - Ultima modifica il 01/05/2017 alle ore 07:17

FEDERICO GEREMICCA

Di fronte ai 2 milioni di cittadini che hanno animato ieri (nel cuore di un lungo ponte) le primarie che hanno confermato con un semiplebiscito Renzi alla guida del Pd, non sappiamo se sia più corretto - come sta avvenendo in queste ore - parlare di «affluenza straordinaria» o, nonostante tutto, di un «imbarazzante flop». Siamo certi, al contrario, che la parola «miracolo» - considerate le scissioni, le inchieste giudiziarie e il vento che spazza il Paese - possa render bene il senso di quanto accaduto in questa ultima domenica di aprile.

Certo, il segnale è importante e, allo stesso tempo, incoraggiante: testimonia - infatti - la perdurante vitalità della democrazia italiana ed un suo «stato di salute» forse addirittura migliore di quel che si poteva temere. Il Pd, insomma, ha buoni motivi per manifestare soddisfazione: ma farebbe bene a ricordare che i miracoli non si ripetono all’infinito.
E che, per dirne una, se il secondo mandato da segretario di Renzi dovesse riproporre le dinamiche del primo - con una quotidiana e paralizzante guerriglia interna, conclusasi con un scissione - giornate buone come quella di ieri potrebbero diventare difficili, se non del tutto impossibili. 
 
Matteo Renzi ha vinto con percentuali che, sia nei circoli che ai gazebo, non ammettono repliche. A valutare il risultato a giochi fatti, si potrebbe cadere nell’errore di considerarlo - ora - prevedibile e scontato: invece, la difficilissima fase attraversata da Renzi (dalla perdita del referendum a quella di Palazzo Chigi, passando per i guai dell’inchiesta Consip) e le insidiose candidature di Andrea Orlando e Michele Emiliano facevano di queste primarie un ostacolo non facile nemmeno per un leader abituato, come lui, a questo tipo di sfide. Ciò nonostante, non è errato - né contraddittorio - sostenere che per il segretario reinsediato le difficoltà maggiori comincino proprio ora.
 
Infatti, sulla base di una analisi che parte dall’impossibilità che Renzi cambi se stesso ed il suo modo di far politica, al leader del Pd vengono decisamente attribuite le seguenti tre intenzioni: varare una legge elettorale proporzionale che «freghi» i Cinque Stelle, augurare «serenità» a Paolo Gentiloni - dopo averla già augurata a Enrico Letta - e correre verso elezioni anticipate prima che il varo della difficile manovra d’autunno (con un governo a guida Pd a Palazzo Chigi) trasformi in un miraggio la sua speranza di tornare alla guida dell’esecutivo.
Bene: dar ragione a chi giura sul fatto che questi sono i suoi programmi, rappresenterebbe - per Renzi - un errore forse irrecuperabile. Un simile percorso, infatti, dimostrerebbe - allo stesso tempo - due semplici cose: che nulla si è imparato dalle lezioni subite e che ha ragione chi, appunto, sostiene che «Renzi non cambierà mai» (con buona pace del passaggio dall’«io» al «noi», della maggior collegialità, del ticket con Martina e via elencando).
 
Al contrario, il neo segretario del Pd dovrebbe forse imboccare vie radicalmente opposte a quelle ipotizzate. Dunque, lavorare ad un sistema elettorale che non archivi il principio maggioritario e assicuri la nascita di governi coerenti con le indicazioni dell’elettorato; sostenere lo sforzo del premier Gentiloni in una fase così difficile da non ammettere «smarcamenti»; contribuire al varo di una manovra che, al netto delle tensioni con Bruxelles, tenga l’Italia agganciata al treno di una possibile ripresa. Solo scelte di questo tipo - insieme alla pratica di una maggiore collegialità alla guida del partito - possono dare il via a ciò di cui Renzi, così massicciamente votato, ha davvero bisogno: quel nuovo inizio promesso ma non ancora avviato.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Alfano e la legge sulla legittima difesa: «Questo testo è..
Inserito da: Arlecchino - Maggio 08, 2017, 08:37:52 pm
L’INTERVISTA ANGELINO ALFANO
Alfano e la legge sulla legittima difesa: «Questo testo è un successo
Irresponsabile insabbiarlo La sicurezza è una priorità»
Il ministro Angelino Alfano: se c’è uno stop bisogna risponderne al Paese

  Di Francesco Verderami

ROMA «È un voto che ci consegna un doppio risultato», dice Angelino Alfano commentando l’approvazione alla Camera della legge sulla legittima difesa: «Questo voto rappresenta per Alternativa popolare un successo politico e fornisce una risposta alla domanda di sicurezza che viene dall’opinione pubblica. Al Senato ci impegniamo fin d’ora a migliorare il testo, per tenere anche fede all’alleanza di scopo con Idv che su questo tema sensibile ha raccolto le firme di due milioni di cittadini». Il ministro degli Esteri racconta l’impegno del suo partito davanti alle «ritrosie del Pd» e come «siamo infine riusciti a far virare la maggioranza»: «Non abbiamo accettato la logica di una legge pur che sia e abbiamo fatto prevalere il buon senso per non lasciare il Paese al vociare inconcludente degli estremisti».

Si riferisce a Salvini?
«La sua sceneggiata alla Camera è stato il tentativo di cancellare le tracce del passato. Perché il testo che oggi noi abbiamo cambiato è il testo voluto e votato dalla Lega nel 2006. Nei resoconti parlamentari si possono leggere i loro toni trionfalistici, il modo in cui sbandierarono il provvedimento in vista della campagna elettorale. Ecco: quel provvedimento che oggi considerano inadeguato è farina del loro sacco. Eppoi, se Salvini strepita vuol dire che è prevalsa una linea moderata».

Anche Forza Italia è un partito moderato.
«Ma ha scelto di accodarsi alla Lega. Sull’emendamento contestato, peraltro, avevano votato a favore, segno che la strumentalità della politica ha prevalso sui contenuti. È la dimostrazione paradigmatica delle contraddizioni tra quanti in Forza Italia sono disposti ad andare dietro Salvini ad ogni costo e quanti si rendono conto che non si può andare ad ogni costo dietro Salvini».

Berlusconi ha spiegato che la legge non risponde alle esigenze dei cittadini.
«È che non si voleva dividere il fronte delle opposizioni, questo è il punto. Ma è un errore strategico, perché si consegna la ribalta all’estremista: la luce viene infatti accesa su un giocherellone come Salvini a cui non si può affidare il Paese. E mentre questo accade Forza Italia resta nell’ombra. Perciò vanno riunite le forze moderate che non accettano di assoggettarsi ad un’alleanza innaturale».


È naturale la vostra alleanza con il Pd?
«Ap è un partito legato al Ppe e governa con un partito iscritto al Pse, come accade in molti altri Paesi europei. E proprio come accade negli altri Paesi europei alle elezioni saremo autonomi e indipendenti. Intanto sui temi della sicurezza, del mercato del lavoro, delle tasse e della famiglia è sempre evidente il nostro imprinting. Quando il Pd ci segue su questi argomenti ha solo da guadagnarci. E più del Pd ci guadagna il Paese».

Ma al Senato ci saranno i numeri per approvare la legge sulla legittima difesa?
«A meno che non si spacchi il Pd perché non dovremmo avere i voti?».

Perché si sentono strani scricchiolii.
«Vorrei essere chiaro: al punto in cui siamo sarebbe irresponsabile se qualcuno insabbiasse o facesse cadere il provvedimento. Dovrebbe risponderne a noi e soprattutto al Paese. Per Ap si tratta di una legge sulla quale ha assunto un impegno con i cittadini».

Ma la legge incontra forti critiche. L’avvocato Bongiorno la definisce una «riforma trappola», e la sua tesi sembra coincidere con il commento della democratica Ferranti, che ricorda come «spetterà sempre al giudice stabilire se la reazione è stata proporzionata all’offesa».
«E come si dovrebbe procedere: con il televoto? Non mi pare facile espiantare la presenza del giudice dall’ordinamento giuridico. A parte la battuta, oggi la nuova legge introduce un’inversione dell’onere della prova. Spetterà al magistrato dimostrare che non si è trattato di legittima difesa. Sarà un modo per evitare processi e ulteriori sofferenze alle persone oneste».

C’è poi la polemica legata al fatto che la legittima difesa scatterebbe solo di notte.
«Basterebbe leggere la norma per capire che non è così: la norma vale a mezzanotte come a mezzogiorno. Il resto sono strumentalizzazioni. La sicurezza è una priorità».

A proposito di sicurezza, sul caso del procuratore di Catania Zuccaro, che lei ha difeso, è intervenuto il vicepresidente del Csm, Legnini, secondo il quale «c’è la necessità di accertare le scelte comunicative» fatte dal magistrato sul ruolo delle Ong nel trasporto dei migranti.
«Intanto emerge la volontà di appoggiare l’inchiesta, ed è una buona novità rispetto ai giorni scorsi. E per la stima che ho per il vicepresidente del Csm sono convinto che l’approccio usato in questo caso sulle scelte comunicative del magistrato, varrà per tutti i procuratori che dichiarano sulle proprie inchieste».


Ministro, è certo che la legittima difesa sarà legge entro la fine della legislatura? E quando finirà la legislatura?
«Per noi è importantissimo che divenga legge entro la fine della legislatura. E siccome una legislatura finisce quando si dimette il presidente del Consiglio o quando le Camere gli tolgono la fiducia, non vedo il problema».

4 maggio 2017 (modifica il 4 maggio 2017 | 23:28)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_maggio_04/alfano-legge-legittima-difesa-questo-testo-successo-8c7ae4dc-310e-11e7-a448-9b138eb1814c.shtml?intcmp=exit_page


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La corsa a ostacoli della maggioranza
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 09:16:53 pm

La corsa a ostacoli della maggioranza

Pubblicato il 29/05/2017
Ultima modifica il 29/05/2017 alle ore 06:57

Federico Geremicca

Al di là delle dichiarazioni di maniera (anche queste assai rare, in verità) non è dato sapere con quale spirito Paolo Gentiloni abbia davvero accolto l’accelerazione impressa da Matteo Renzi per il varo di una nuova legge elettorale: passaggio definito ieri dal ministro Franceschini «l’ultimo atto della legislatura». È possibile che il premier condivida l’iniziativa del suo segretario.

O che - al contrario - si senta tradito: certo non è sorpreso - da renziano della prima ora - dal piglio col quale Renzi si è rimesso al centro della scena per ottenere quelle elezioni anticipate che avrebbe voluto già all’inizio di quest’anno.

Nel giro di un paio di giorni sarà chiaro se il pressing del segretario Pd avrà raggiunto l’obbiettivo, e cioè trasformare la larga ma ancora indefinita intesa sul modello elettorale tedesco in un accordo capace di reggere nelle aule del Parlamento. Il «sì» arrivato ieri da Grillo, dopo la consultazione on-line degli iscritti, sembra mettere la strada in discesa, aggiungendosi alla disponibilità già annunciata da Renzi e Berlusconi. Ma in vicende così delicate, il veleno – a volte – è nei dettagli: e tra soglie di sbarramento contestate, discussioni sulle preferenze e su possibili «premi di governabilità», molti aspetti vanno ancora limati.

È certo, però, che un’intesa non è mai stata cosi vicina. Ed è ugualmente certo che se venisse definita e ufficializzata, l’ipotesi di elezioni anticipate tra settembre e ottobre si farebbe più che concreta, infrangendo una sorta di regola non scritta che vuole l’Italia alle urne sempre e soltanto in primavera (anche in caso di voto anticipato).

 Infatti, dalle prime elezioni libere e democratiche dopo il ventennio fascista (18 aprile 1948) il Parlamento è stato rinnovato altre 16 volte e - escluse le ultime elezioni del febbraio 2013 - sempre in primavera: in 6 occasioni ad aprile, in 5 a giugno, in 4 a maggio ed una volta (nel 1992) a marzo, con la discesa in campo e la vittoria di Silvio Berlusconi. Anche in fasi terribili per il Paese, insomma – dal terrorismo brigatista degli Anni 70-80 allo stragismo mafioso, fino alle fasi di acutissima emergenza economica – questa regola non scritta ha sempre retto. Stavolta, invece, le cose potrebbero andare diversamente: e non solo per volontà di Matteo Renzi, ma per la coincidenza di elementi diversi.

Il primo e più importante è certamente il sempre più evidente scollamento della fragile maggioranza che sostiene Gentiloni. Le minacce incrociate di Alfano e di Articolo Uno (il primo, appunto, sulla legge elettorale; i secondi sulla reintroduzione dei voucher) sono lì a dimostrarlo. Per non dire delle fibrillazioni che tornano a scuotere il Pd, dove la nuova minoranza di Andrea Orlando sembra riproporre modalità e tecniche già sperimentate (con epilogo noto) dal tandem scissionista Bersani-Speranza. 

Inoltre, non è inutile riproporre una domanda: al di là degli interessi di parte (di partito), è pensabile che una maggioranza così litigiosa e stiracchiata riesca a varare in autunno – dunque a pochi mesi dalle elezioni previste nell’inverno del 2018 – la dura manovra economica che Bruxelles richiede? Rispondere sì – in verità – equivale a un atto di fede, più che a un’onesta analisi della situazione concreta. Ed è per questo, forse, che un ritorno alle urne potrebbe non essere il peggiore dei mali: oppure, più modestamente, un male al quale non resta che arrendersi.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/29/cultura/opinioni/editoriali/la-corsa-a-ostacoli-della-maggioranza-9HTjAZXMSYm4z6OO39jMhP/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Renzi: “Non è la legge che avrei voluto ma a questo punto..
Inserito da: Arlecchino - Giugno 05, 2017, 11:38:32 am

Renzi: “Non è la legge che avrei voluto ma a questo punto tutto il resto rischiava di essere peggiore”
Lo sfogo: il maggioritario è finito il 4 dicembre, non oggi.
Il segretario del primo partito è il candidato a guidare il governo

Pubblicato il 31/05/2017

Federico Geremicca
Roma

«Un ritorno al passato. Ma sì, lo conosco il ritornello: col proporzionale si torna all’antico. È una stupidaggine, perché il ritorno al passato è accaduto il 4 dicembre non oggi, con l’adozione di un sistema elettorale che, date le condizioni, è il migliore possibile. Non è la legge che avrei voluto, certo: ma il resto rischiava di esser peggio». Sono le 9 della sera e, prima ancora di replicare in Direzione, Matteo Renzi ha un po’ di cose da chiarire.

La prima riguarda, appunto, il tramonto dell’era del maggioritario, e perfino di quella vocazione maggioritaria che fu l’acqua con la quale venne battezzata - giusto dieci anni fa - la nascita del Pd. Quella scelta politico-strategica produsse (è storia) la crisi del governo Prodi: precisamente come oggi la scelta inversa - quella del proporzionale alla tedesca - sta segnando la fine dell’esecutivo Gentiloni.

«Bellissima la vocazione maggioritaria: condivisi quell’intuizione con entusiasmo - annota Renzi -. Ma poi bisogna fare i conti con la realtà: quando abbiamo potuto praticarla? Prodi per governare ha avuto bisogno di Mastella. E Letta, io e Gentiloni abbiamo dovuto chiedere aiuto a Berlusconi prima e ad Alfano e a Verdini poi. Questa è la verità, altro che le ricostruzioni di comodo che sento in giro».

Né avrebbe prodotto risultati tener duro, andare al braccio di ferro, difendere fino all’ultimo la scelta maggioritaria. «Avremmo finito per votare col sistema consegnatoci dalla Corte Costituzionale - assicura il leader pd -. E tradito l’appello di Mattarella, che ha chiesto una nuova legge e omogeneità tra Camera e Senato. Ripeto: il sistema tedesco non è ciò a cui puntava il Pd: ma alla fine i conti si fanno con quel che c’è, con quel che è possibile. E quel che c’è permetterà ai democratici - giura il segretario - di fare una buona campagna elettorale».

Lo schema, secondo Renzi, è chiaro: «Sarà una partita a quattro: volete Renzi, Di Maio, Berlusconi o Salvini? E in Parlamento ci saranno quattro o al massimo cinque gruppi. Si vota, si contano i consensi e poi ci si allea per fare un governo». Detta così, sembra tutto perfetto: ma il rischio di fare una campagna elettorale sotto il tiro incrociato di Grillo e dei “sovranisti” - che già ora gridano all’inciucio Pd-Forza Italia - non è troppo alto per il Pd?

«Quello è un ritornello che avrebbero intonato comunque. Andiamo alla sostanza, invece: quasi l’80 per cento del Parlamento voterà la nuova legge - dice Renzi -. È un risultato che era impensabile. Da questo punto di vista si può esser soddisfatti. E spero lo sia anche il presidente Mattarella. Chi mi dipingeva come uno che non sa unire, ora farà fatica. Noi, intanto, ci prepariamo ad una grande campagna elettorale. Con la soglia al 5% punteremo sul voto utile e ovunque sarà possibile sul territorio faremo liste civiche con personalità indipendenti, uomini e donne della società civile».

Dunque: il sistema tedesco non è il preferito, ma Renzi già ragiona su una sorta di “istruzioni per l’uso” della legge in gestazione. Strano, piuttosto, che sottovaluti un aspetto che - pure - dovrebbe stargli a cuore: la scelta del capo del governo. E sì che amici e compagni di partito hanno già lanciato l’allarme: «Attento Matteo, che per fare maggioranza con noi c’è chi chiederà che non sia tu a guidare l’esecutivo». Nella Prima Repubblica funzionava così.

Un pericolo davvero? Renzi non sembra pensarlo. Oppure non ha voglia di parlarne. Ma ad insistere si capisce quale sarà la linea sulla quale si attesterà: «Il sistema tedesco - dice - significa sistema tedesco: e quindi il segretario del primo partito è il candidato a guidare il governo».
Inutile insistere, invece, su elezioni anticipate e data del voto. Renzi si cuce la bocca: ma che si debbano aprire le urne il prima possibile, per lui è nient’altro che un sottinteso.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/31/italia/politica/non-la-legge-che-avrei-voluto-ma-a-questo-punto-tutto-il-resto-rischiava-di-essere-peggiore-NApMrqqzI0x2Vx4RZrX3RN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’assedio al fortino di Matteo
Inserito da: Arlecchino - Giugno 28, 2017, 12:16:45 pm
L’assedio al fortino di Matteo
Pubblicato il 28/06/2017 - Ultima modifica il 28/06/2017 alle ore 07:06

FEDERICO GEREMICCA

Il risultato elettorale usato come una clava: per regolare conti interni, ammonire i possibili alleati, richiamare alla disciplina e all’unità. Forse era prevedibile, forse no.

Fatto sta che nei tre poli che stanno ridisegnando la geografia politica del Paese, il voto di domenica ha immediatamente innescato una polemica inaspettatamente aspra.
 
Invece che festeggiare, litigano i vincitori del centrodestra, con Berlusconi, Salvini e Meloni duramente contrapposti sulla leadership futura e sul profilo della possibile coalizione: moderata o radical-populista? Detta il suo richiamo all’obbedienza Beppe Grillo, innervosito dall’insuccesso elettorale: o ci muoviamo come squadra oppure - se continuano distinguo e mugugni - saremo spazzati via. E il clima si fa incandescente soprattutto nel campo del centrosinistra, dove l’analisi del voto fatta da Matteo Renzi ha lasciato insoddisfatto Walter Veltroni e profondamente offeso Romano Prodi.
 
È stata una giornata, quella di ieri, che il leader del Partito democratico farebbe bene a segnare con un cerchietto rosso, perché incassare contemporaneamente le critiche del primo segretario del Pd e il gelido addio del fondatore dell’Ulivo («Sposterò un po’ più lontano la mia tenda: intanto l’ho messa nello zaino...») è cosa che pare avviare un cambio di fase nient’affatto semplice per l’ex premier.
 
Il fatto è che Veltroni e Prodi danno voce, autorevolezza e legittimità a dissensi e malumori che scuotono da tempo il Pd e che ieri hanno visto polemicamente in campo contro Renzi anche il potente ministro Franceschini: «Il Pd è nato per unire il campo del centrosinistra non per dividerlo». Motivo contingente del contendere, la ricostruzione del campo del centrosinistra e della coalizione con la quale affrontare le prossime elezioni politiche. Ieri Renzi ha archiviato il tema quasi con fastidio: tutte queste polemiche su alleanze e coalizioni fanno vincere i nostri avversari. E si tratta di un’affermazione che, all’indomani di risultati elettorali più che deludenti, ha spinto anche leader prudenti e solitamente distanti dal fuoco della polemica ad esprimere contrarietà e dissenso.
 
Da ieri - e dopo una scissione che ancora sanguina - l’interrogativo che pare porsi è dunque il seguente: per quanto tempo Renzi potrà reggere l’opposizione contemporanea di Prodi, Veltroni, Orlando e Franceschini? E come riuscirà, mentre a Roma gli oppositori si moltiplicano, a riassorbire il dissenso e la delusione che cresce in periferia? 
Il capo d’accusa dal quale il segretario dovrà difendersi, è riassumibile più o meno così: hai distrutto il centrosinistra e ora - stando ai risultati elettorali, alle scissioni e al pessimo clima interno - stai distruggendo anche il Pd. L’invito - che pare accompagnato da una sorta di conto alla rovescia - è a cambiar rotta: ma è un invito che Renzi ha già respinto più volte.
 
E dunque? E dunque si preparano giorni difficili. Difficili, in particolare, per Matteo Renzi. È presumibile che, secondo tradizione, il segretario non cambierà di una virgola la propria posizione: ma la partita che s’avvia a giocare, mentre intorno a lui sembra farsi il vuoto, stavolta è assai insidiosa. Certamente la più insidiosa da quando, nel dicembre di quattro anni fa, conquistò la segreteria del Pd.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/06/28/cultura/opinioni/editoriali/lassedio-al-fortino-di-matteo-L2YsahmsuPp5Tbj5LCBWkN/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - “Non farò la stessa fine di Veltroni”.
Inserito da: Arlecchino - Agosto 12, 2017, 05:12:12 pm
“Non farò la stessa fine di Veltroni”. Renzi ridimensiona Minniti
Il segretario Pd teme un attacco alla leadership dopo il voto in Sicilia
Renzi ha sentito al telefono il ministro Minniti ieri sera: «Il clima è tornato sereno», assicura

Pubblicato il 09/08/2017
FEDERICO GEREMICCA
ROMA

La tesi è spericolata: e proprio per questo, dunque, assai suggestiva. La espongono - e qui la sintetizziamo - i soliti «ambienti ben informati». In due parole: a spingere Graziano Delrio contro Marco Minniti sarebbe stato Renzi, preoccupato dalla crescita (e dalle possibili ambizioni) dell’attivissimo ministro degli Interni. Renzi contro Minniti? Renzi contro il ministro che meglio di ogni altro sta interpretando la nuova «linea dura» in materia di immigrazione?

La tesi, dicevamo, è ardita. Ma il silenzio rispettato nelle ultime 48 ore dal segretario di fronte alla polemica che ha contrapposto due ministri Pd, qualche interrogativo effettivamente lo pone. L’ex premier è ufficialmente in vacanza da un paio di giorni ma, raggiunto mentre cerca faticosamente di organizzare la partenza con moglie e prole, non nega uno dei suoi articolati commenti: «Cazzate». O meglio: «Minniti sta lavorando bene: ed io, del resto, non sono estraneo alla sua scelta come ministro. Quanto al mio silenzio - aggiunge - molte volte è meglio fare che parlare: e io ho lavorato perché i dissidi rientrassero. Quindi, come le dicevo, cazzate».
 
Sarà. Ma gli «ambienti ben informati» talvolta lo sono davvero. E aggiungono che Renzi attribuirebbe a Marco Minniti (e non solo a lui, naturalmente) un piano ben preciso: attendere la possibile sconfitta del Pd e del centrosinistra alle regionali siciliane per passare all’attacco del segretario. Copione, onestamente, non nuovo. Credibile, certo, ma non nuovo: visto che fu quel che accadde a Walter Veltroni, primo segretario del Partito democratico e costretto alle dimissioni - gli successe Franceschini... - dopo la sconfitta alle elezioni regionali sarde (febbraio 2009).
 
Possibile? «Intanto vediamo come va il voto in Sicilia, che certo non è un test nazionale - annota Renzi -. Per il resto, so bene che alcuni considerano le regionali siciliane come uno spartiacque, ma mi pare tutto molto fantasioso. Quando Walter si dimise mancavano quattro anni alle elezioni politiche del 2013; dopo il voto in Sicilia, invece, un paio di mesi e si scioglieranno le Camere. A cosa pensano, a una crisi di governo o a un cambio di segretario a un passo dalle urne? Senza ripetere che la segreteria non è attaccabile, visti i due milioni di votanti alle primarie...».
 
Matteo Renzi, dunque, inizia le sue vacanze dicendosi tranquillo: per l’oggi e per il domani. Tranquillo ma non fino al punto da rivelare da quale parte stia nella disputa Minniti-Delrio. «Sto con Gentiloni», dice. Ma mentre spiega che nell’inattesa querelle ognuno avrebbe un pezzo di ragione, non riesce a non far trasparire un qualche fastidio per alcuni atteggiamenti del ministro degli Interni. Non si tratta di obiezioni di merito, visto che «Marco è bravissimo e Pd e governo stanno con lui». Però...
 
Però. «Però è come se Marco cercasse costantemente la rissa con tutti: non serve, perché sta lottando come un matto, sta facendo un buon lavoro e questo gli è riconosciuto». Però. «Però non può disertare un Consiglio dei ministri restandosene offeso e in disparte nella stanza affianco». Però. «Però non può incupirsi se non gli viene detto ogni giorno che è bravo: è bravo, il codice varato per le Ong è buono e stiamo ottenendo il risultato che cerchiamo, ridurre gli arrivi sulle nostre coste».
 
Ma è l’ultimo però a meritare qualche attenzione, perché somiglia a un consiglio, se non proprio a un avvertimento. «Però quando si raggiungono vette alte, come sta succedendo a Marco, non bisogna farsi prendere dalle vertigini». Vertigini da successo, insomma: che possono portare a passi falsi, a puntare a mete irraggiungibili, a commettere - diciamo così - errori frutto di un eccesso di euforia...
 
Dovessimo operare una sintesi, diremmo: Renzi non ce l’ha con Minniti per il lavoro fin qui svolto quanto - piuttosto - per certi protagonismi che lo accompagnano. E ce l’ha, forse, per il clima di dissensi e trappole che vede consolidarsi intorno alla sua leadership (un sospetto, diciamolo subito, che non riguarda certo - o soprattutto - solo il ministro degli Interni).
 
Ma a sera ormai fatta - e alla fine di una evidente prova di forza - Matteo Renzi racconta di una giornata tesa ma finita bene: «Ho sentito Marco e tutti gli altri, uno per uno. Va meglio, anzi mi pare sia tornato il sereno. Si continua a lavorare tutti assieme e con profitto. E poi dicono che sono un accentratore individualista incapace di mediare...». Ride. Ma magari è solo perché le vacanze possono finalmente cominciare.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/09/italia/politica/non-far-la-stessa-fine-di-veltroni-renzi-ridimensiona-minniti-f8C3KIywj6LNhE0zA2AYBM/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’Italia guarda oltre Lampedusa
Inserito da: Arlecchino - Settembre 01, 2017, 05:55:37 pm
L’Italia guarda oltre Lampedusa

Pubblicato il 30/08/2017

FEDERICO GEREMICCA

Uscita dai radar. Espulsa dalle cronache. Cancellata dall’informazione internazionale. Lampedusa non c’è più: e la sua eclissi potrebbe non essere temporanea. Da soggetto drammaticamente pulsante in ogni emergenza, si è trasformata in poche settimane in recettore passivo di sbarchi sempre più rari e contestati. È la crisi irreversibile di un modello. Ma è proprio da queste ceneri - anche da queste ceneri - che è nato e si va sperimentando un nuovo modo di intendere contrasto e accoglienza sul fronte dell’immigrazione.

Parliamo di una sorta di «terza via» - che potremmo definire modello-Minniti - che due giorni fa ha riscosso apprezzamento anche nel vertice di Parigi: dove l’Italia, per una volta (e sarebbe ipocrita non annotarlo) ha ricevuto applausi per il suo attivo protagonismo e non più soltanto per la sua tradizionale umanità... Un punto di vista terzo, tra due opposte astrusità: respingimenti massicci e accoglienza generalizzata.
 
Non è stato facile per il Partito democratico - e quindi per il governo - rassegnarsi all’ineluttabilità della crisi di un modello. Nell’immaginario collettivo di quel mondo fatto di associazionismo e volontariato, Ong, cattolici di base e sinistra diffusa, Lampedusa ha infatti rappresentato per almeno un decennio il simbolo più luccicante e propagandato di un’idea di solidarietà tanto condivisibile quanto difficilmente praticabile. Correggere la rotta, dunque, non è stato né indolore né semplice: ma a un certo punto è diventato chiaro che non si poteva andare avanti a dispetto dei santi.
 
Se c’è una goccia che anche psicologicamente ha fatto traboccare il vaso delle incertezze di Matteo Renzi, possiamo probabilmente individuarla nella sconfitta di Giusy Nicolini nelle elezioni tenutesi a Lampedusa nel giugno scorso. Fresca del premio per la Pace assegnatole dall’Unesco e freschissima della cena con Renzi e Obama alla Casa Bianca, la Nicolini - da sindaco uscente - è arrivata addirittura terza nella corsa alla poltrona di primo cittadino. Una sconfitta raggelante anche per Renzi, che aveva appena voluto Giusy Nicolini nella segreteria nazionale del Pd.
 
Un segnale inequivocabile, insomma. Aggravato da due altri allarmi. Il primo: la svolta «rigorista» del Movimento Cinque Stelle e l’accentuarsi di tensioni sociali - alle quali ha fatto riferimento ieri il ministro Minniti - sempre meno governabili. Il secondo: il quasi ammutinamento di molti sindaci Pd del Nord che - oltre a richiedere un deciso cambio di linea - andavano intanto assumendo posizioni autonome e sempre più vicine a quelle di alcuni colleghi leghisti.
 
È anche dalle ceneri del modello-Lampedusa, insomma, che nasce il famoso: «Aiutiamoli a casa loro» col quale Matteo Renzi ha infuocato l’estate e avviato la svolta. Molti osservatori hanno frettolosamente archiviato quella battuta come «slogan elettorale», non immaginando che - al contrario - facesse da vigilia ed apripista a un cambio di linea del governo fortemente voluto anche da Minniti (prima sulle Ong e poi nel contrasto agli scafisti in acque libiche). 
 
L’eclissi di Lampedusa e la crisi del modello che aveva rappresentato, cominciano così. Non è un processo indolore, viste le polemiche che li accompagnano: ma la via è aperta. Molto dipenderà dall’impegno dell’intera Europa, che non può fermarsi anche stavolta alla solita pacca sulle spalle. Macron e Merkel assicurano che l’Unione è pronta a fare la sua parte. Vedremo.
 
Intanto si fanno fioche le luci dei riflettori su Lampedusa, terra promessa per volontari di tutto il mondo e prima meta del peregrinare di Papa Francesco. Già, Papa Francesco: tra tutti i potenti del mondo, il meno convinto - forse - di questa nuova «terza via» italiana.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/30/cultura/opinioni/editoriali/litalia-guarda-oltre-lampedusa-IoYEQVU1rZnDoEr8SeSTBJ/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Adesso Renzi insegue la terza via
Inserito da: Arlecchino - Settembre 24, 2017, 12:05:45 pm
Adesso Renzi insegue la terza via

Pubblicato il 21/09/2017

FEDERICO GEREMICCA

Se tre indizi fanno una prova, quattro o cinque iniziative politiche eccentriche rispetto al solito possono esser definite una svolta? È questo, più o meno, l’interrogativo che aleggia su Matteo Renzi e sulla sua perdurante «fase zen». Un interrogativo che al leader Pd non dispiace, anzi: il fatto stesso che venga posto, in fondo, testimonia che la lenta e dolorosa correzione di rotta in corso è stata colta. E fa discutere.
 
Elenchiamo alcuni dei fatti maturati nelle ultime 72 ore: fatti in parte ufficiosi e in parte pubblici e ufficiali. Partiamo da questi ultimi. Il primo: il via libera al «rosatellum bis», un sistema elettorale che incentiva la formazione di coalizioni prima del voto, punto di principio caro a molti nel Pd (e nel centrosinistra) rispetto ad un modello interamente proporzionale. Il secondo: l’invito al Nazareno spedito a Susanna Camusso - ospite in un seminario sull’economia europea - carissima nemica e avversaria irriducibile nei tre anni di governo del «rottamatore».
 
Ci sono poi i fatti ufficiosi e ancora in divenire. Il primo è il veto che Renzi avrebbe fatto cadere a proposito della riconferma di Ignazio Visco alla guida della Banca d’Italia: una novità non da poco, soprattutto alla luce delle pesanti critiche al Governatore messe nero su bianco dal segretario Pd nel suo recente libro. Il secondo è l’ok a Pier Ferdinando Casini come presidente della Commissione d’inchiesta sulle banche: e anche qui la sorpresa è grande, visto che quella poltrona sembrava destinata, fino a ieri, ad un fedelissimo del segretario.
 
Se a questi fatti si aggiungono i toni insolitamente pacati scelti da Matteo Renzi per commentare gli ultimi sviluppi del caso Consip, il quadro può considerarsi completo: e tratteggia, appunto, una possibile svolta - nei toni, nei modi e negli obiettivi - nell’azione dell’ex presidente del Consiglio. Si tratta di una svolta che è per metà frutto delle esperienze passate, certo: ma per l’altra metà guarda al futuro, e serve ad affrontare al meglio una fase politica che si preannuncia gonfia di insidie ed incertezze.
 
Gli uomini più vicini al segretario parlano a denti stretti di «effetto referendum» e della fine del sogno dell’autosufficienza. Si tratterebbe del famoso passaggio dall’«io al noi», più inclusività, più collegialità, maggior dialogo fuori e dentro il partito: e sistemate le cose nel Pd col Congresso e con la nascita di una nuova squadra, Renzi sta ora aprendo canali di confronto in diverse direzioni. Alla luce di una novità di non poco conto: considerati i rapporti di forza ed i sistemi elettorali di cui si discute, il leader Pd avrebbe cominciato a convincersi davvero dell’improbabilità di un suo ritorno a Palazzo Chigi.
 
È da qui che nascono «il Pd squadra» e l’«attacco a tre punte» (Gentiloni, Del Rio, Minniti: in rigoroso ordine di preferenza). Ma è da qui che nasce anche il tentativo di avviare dialoghi e tessere nuove alleanze che rendano il dopo voto meno ostico, sgombrando il campo - per quanto possibile - da rancori, veti preventivi e pregiudiziali che oggi rendono difficilmente immaginabile una sua nuova esperienza alla guida del governo.
 
Dunque, la si potrebbe mettere così: Renzi è pronto a ricedere il passo a Gentiloni ma non rinuncia a provarci, con un nuovo stile (da segnalare perfino il sì all’invito in tv di Bianca Berlinguer, non certo un’amica...) e ripartendo comunque dal Pd. Anche nel partito, infatti, il suo attivismo è inedito. È tutto pronto - per esempio - per un faccia a faccia con Dario Franceschini, potente ministro, costruttore (e distruttore) di maggioranze. Senza il suo sostegno non si va granché lontano. Ora Renzi vuol capire cos’ha in testa, e regolarsi. Vedremo. Così come sarà interessante osservare la profondità e l’ampiezza della svolta: perché da «rottamatore» a costruttore il passo non è né facile né indolore.
 
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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Dritti contro il muro
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2017, 05:57:33 pm
Dritti contro il muro

Pubblicato il 27/10/2017

FEDERICO GEREMICCA

Se si fosse trattato di una sfida a scacchi - e se fosse possibile una semplificazione - la si potrebbe perfino mettere così: la giornata di ieri - tesa e nervosa quanto mai - si è conclusa con una vittoria per parte. Prima partita - quella su una legge elettorale approvata a colpi di voti di fiducia - a Matteo Renzi; la seconda - sulla conferma di Ignazio Visco, apertamente osteggiata dal leader Pd - a Paolo Gentiloni.
 
Ma non si è trattato, appunto, di una partita a scacchi: e il braccio di ferro tra il segretario e il premier ha lasciato sul terreno i cocci di regole non scritte e galatei istituzionali antichi e classici della nostra democrazia. In quest’epoca incerta, fatta di furbizie e scorciatoie, altri due muri - insomma - sono fragorosamente caduti. Il primo: la prassi che vuole che le leggi elettorali - le cosiddette regole del gioco - non diventino materia di governo, venendo per di più varate a colpi di voti di fiducia. Il secondo: l’autonomia di Bankitalia, i cui assetti - a partire dalla nomina del Governatore - non possono esser decisi (o osteggiati) da questo o da quel segretario di partito. Non proprio dettagli. E se a tutto questo aggiungiamo il fragoroso addio al Pd annunciato dal presidente Grasso, il livello raggiunto dalle tensioni politiche in atto diventa ancor più chiaro.
 
Che il crollo dei muri di cui dicevamo sia cosa giusta e utile per il Paese, è tutto da dimostrare: e vedremo se il tempo lo dimostrerà. Per ora si può annotare che molte delle tensioni vissute nelle ultime settimane erano senz’altro evitabili: e che sulla legge elettorale in particolare - al di là del ricorso alla fiducia - nessuna delle forze in campo è scevra da responsabilità, compreso il Movimento di Beppe Grillo, sospettato di aver mandato per aria (nel giugno scorso) un buon accordo su una legge elettorale che ricalcava il modello tedesco.
 
Molti, mettendo tra parentesi il varo non ancora avvenuto di una manovra economica dalla quale dipende parte del futuro del Paese, valutano l’attuale legislatura conclusa - di fatto - con l’approvazione del cosiddetto Rosatellum. Da un punto di vista fattuale non è così, anche se è vero che da stamane l’attenzione dei partiti sarà inevitabilmente ancor più rivolta all’ormai vicino scontro elettorale. Ma prendendo per buona quella valutazione, una considerazione allora appare inevitabile: cominciata male - con la mancata elezione di un nuovo Presidente della Repubblica e il succedersi di tre diversi governi - questa legislatura si va concludendo ancor peggio. 
 
Le ultime settimane, per stare solo alla cronaca recente, sono - in fondo - un po’ la cartina di tornasole di questa evidente parabola. E del resto, era difficilmente ipotizzabile che due passaggi così delicati - intendiamo le regole con le quali andare al voto e la nomina del Governatore di Bankitalia (dopo tanti scandali bancari) - potessero esser compiuti in maniera lineare e trasparente nel fuoco di una rissa politica che non si è mai interrotta dal giorno dell’insediamento del Parlamento a oggi.
 
Nulla, insomma, che non fosse prevedibile: mentre un po’ sorprendente - questo sì - è stato il cambio di passo di Matteo Renzi nei confronti del governo di Paolo Gentiloni. Vedremo nelle prossime settimane l’evoluzione di un rapporto nato, inevitabilmente, con luci e ombre. Ma già oggi, invece, è legittimo porsi degli interrogativi circa i sempre più frequenti smarcamenti del segretario pd da un Presidente del Consiglio non solo amico, ma da lui stesso indicato.
 
La pressione affinché fosse posta la fiducia sulla legge elettorale, l’attacco a Visco per cercare di bloccarne la conferma, la richiesta che l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita sia rinviato a dopo il voto e l’idea che anche lo Ius soli possa esser approvato grazie a voti di fiducia (scontando la rottura con l’Ncd di Alfano) sono chiari segnali di un cambio di rotta.
 
L’interrogativo è dunque scontato: qual è la nuova direzione? Alla luce delle ultime mosse di Matteo Renzi - e se fosse accettabile un’azzardata semplificazione - verrebbe quasi da dire che il leader Pd si stia preparando ad una campagna elettorale contro il governo da lui stesso sostenuto: qualcosa che più che il trito slogan del «partito di lotta e di governo», ricorda le famose «mani libere» spesso invocate (da Bettino Craxi in particolare) al tempo della Prima Repubblica.
 
Naturalmente, non può essere così. Ma tra lo stare appiattiti sui risultati del governo oppure l’attaccarlo frontalmente («Con Gentiloni abbiamo idee diametralmente opposte su Bankitalia»...) molte altre posizioni sono possibili. Per esempio quella - e se non concordata almeno annunciata - di una reciproca autonomia. Con i tempi che corrono e con il modo che ha di intendere la battaglia politica, è difficile immaginare Renzi in campagna elettorale sdraiato sui risultati ottenuti dai governi pd in questa legislatura. È forse così? Ritorna il vecchio «marciare divisi per colpire uniti?». Lo si vedrà. Quel che importa, al momento, è che il cambio di passo e la nuova possibile strategia non aggiungano altre macerie ai cocci lasciati da una partita a scacchi ancora tutta da decifrare.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - La sinistra si allontana dal governo
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 06, 2017, 09:04:16 pm
La sinistra si allontana dal governo
ANSA
Pubblicato il 04/12/2017

FEDERICO GEREMICCA

Una nascita e il primo anniversario di un mesto funerale. La nascita, come narrano le cronache, è quella di «Liberi e uguali», contestato tentativo di rimettere insieme i cocci di parte della sinistra italiana; il funerale - di cui oggi si ricorda il primo anno - è quello di un progetto politico e di governo sepolto da 19 milioni di no giusto il 4 dicembre 2016, dodici mesi fa. E non è solo la quasi coincidenza di date delle due ricorrenze a suggerirne una lettura comune, visto che tra i due eventi c’e un evidente e non negato rapporto di causa ed effetto. 
 
Infatti, immaginato per ridisegnare la geografia istituzionale del Paese, il referendum costituzionale che tanto fortemente volle Matteo Renzi ha finito per trasformare - al contrario - la «mappa politica» del Paese, con un’onda d’urto che non si è limitata a terremotare il campo della sinistra. Quel voto, infatti, rianimò un Berlusconi che era da mesi ai margini del campo di gioco permettendogli di tornare a vincere.
 
Fornì al Movimento Cinque Stelle il propellente ancora mancante per entrare in orbita e poi - certo - costituì la scintilla dalla quale divampò la scissione del Partito democratico. Tanto che Roberto Speranza, uno dei giovani co-fondatori della nuova lista, ieri ha voluto orgogliosamente ricordare che «noi siamo quelli del 4 dicembre». Ed è vero che le radici di «Liberi e uguali» son piantate lì, nel terreno dello scontro più aspro combattuto contro Matteo Renzi da quella che allora era la minoranza interna al Pd. Non per caso, i temi e soprattutto i volti di quella battaglia di opposizione, ieri affollavano le prime file dell’assemblea costitutiva: da Bersani a D’Alema, da Speranza a Gotor, fino all’uomo scelto come leader, quel Pietro Grasso che - da presidente del Senato - non nascose la sua contrarietà al progetto referendario.
 
Se queste sono le origini e le premesse politiche, è fin troppo facile prevedere - al di là delle obbligatorie dichiarazioni di maniera - che le rotte di Pd e di «Liberi e uguali» non potranno che essere rotte di collisione: un’altra battaglia, insomma, della Grande Guerra per la liberazione da Matteo Renzi. Se così sarà - e visti i meccanismi previsti dalla nuova legge elettorale - il centrosinistra può già considerare persa la partita per il governo del Paese. Certo, poi resta la tradizionale e fratricida «sfida a sinistra» per capire se la nuova lista otterrà un risultato a due cifre oppure no, o se il Pd sarà sopra o sotto i risultati delle elezioni «non vinte» da Bersani nel 2013: ma se questa è la posta in palio - quasi un regolamento di conti tra «nuovi» ed ex - pare difficile che possa conquistare l’attenzione di una fascia molto ampia di italiani.
 
Del resto, nel suo primo discorso da leader incoronato, Pietro Grasso non ha fatto granché per cancellare questa impressione. Eletto presidente del Senato grazie ai voti determinanti del Pd - ed avendo deciso di mantenere comunque la sua carica - è proprio al Partito democratico che ha rivolto le contestazioni più dure. Un modo, forse, per confermare la rotta tracciata da Bersani e D’Alema, spazzando via dal campo ogni ipotesi di non belligeranza: ma si tratta comunque di una scelta non irrilevante ai fini della qualità dei rapporti tra la «sua» lista ed il Pd e dello stesso risultato elettorale.
 
Una nascita, quella dei «Liberi e uguali», determinata dunque da un funerale. Anche sulle esequie del progetto di riforma costituzionale si potrebbe forse annotare qualcosa: gli errori di Renzi successivi alla sconfitta, certo, ma anche il fatto che le «terre promesse» in caso di vittoria dei no sono rimaste miraggi assai lontani. Non c’è una legge elettorale migliore della precedente, non c’è un governo più forte e «legittimato» di quello che fu costretto alle dimissioni ed il bicameralismo è sempre lì, a produrre bizantinismi e tempi doppi, dei quali stanno facendo le spese - in questi giorni - provvedimenti come lo Ius soli e il fine vita.
Ma le orazioni funebri sono state già recitate a centinaia. E discorsi su quel che poteva essere e non è stato sarebbero fuori luogo nel giorno in cui si festeggiano una nascita ed un battesimo: i «Liberi e uguali» sono infatti in campo. Ora se ne attendono i primi passi: ma che si applauda più a destra che nel centrosinistra, sembra un viatico nient’affatto beneaugurante.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Governo Gentiloni, le pagelle al premier e ai suoi ministri
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2017, 10:19:07 pm
Un anno di governo Gentiloni, le pagelle al premier e ai suoi ministri

Pubblicato il 27/12/2017

PALAZZO CHIGI - Un anno senza incidenti rilancia l’ipotesi del “bis” 

Di Federico Geremicca 

 Quando il 12 dicembre di un anno fa - un lunedì freddissimo e un po’ mesto - Paolo Gentiloni lasciò il Quirinale per cominciare la sua inattesa avventura da premier, le previsioni erano concordi: con un miracolo riuscirà forse a superare Pasqua, ma di sicuro all’estate non ci arriva. Oggi, dopo il secondo Natale da premier, la profezia è opposta: sì, a marzo si vota, ma vedrete che a Pasqua a Palazzo Chigi ci sarà ancora lui. Cos’è accaduto in 12 mesi? Che Gentiloni ha fatto la sua parte senza infamie e incidenti, mentre intorno a lui - tra rinascite imprevedibili, cadute disastrose e leggi elettorali suicide - la politica si è incartata, preannunciando un dopo-voto all’insegna dell’incertezza e dell’ingovernabilità. E quanto più quell’incertezza sembra consolidarsi, tanto più risulta rassicurante sapere che - alla peggio - a Palazzo Chigi ci resterebbe ancora un po’ proprio lui. Il bilancio col quale Gentiloni chiude il suo anno di governo non è malvagio: ha detto i no che doveva dire e ha centellinato i sì. Non è considerato un usurpatore, nessuno scandalo lo ha sfiorato e se dopo il voto ci sarà da tener la barra dritta mentre i partiti decidono cosa fare, l’uomo giusto sembra essere lui. Gentiloni dopo Gentiloni, insomma. Con buona pace delle «riserve della Repubblica», dei «garanti» e dei «tecnici» in attesa di prenderne il posto almeno per un po’.

INTERNO - Migrazioni e dossier Libia, successi nelle sfide chiave 
Di Stefano Stefanini 

Gentiloni ha messo Marco Minniti al timone nella navigazione fra Scilla dell’immigrazione e Cariddi della Libia. Il ministro dell’Interno non si è fatto incantare dalle sirene della rassegnazione nazionale o delle recriminazioni europee. Oggi l’Italia è fuori zona naufragio. Minniti non poteva cambiare né la geografia del Mediterraneo né la demografia africana. Libia e immigrazione saranno sul tavolo di più di un ministro dell’Interno. Minniti ha però dimostrato che si possono gestire. Lascia una situazione migliore di quella che aveva trovato. Non succedeva dagli Anni 90. Il Minniti strategico ha affrontato il fenomeno migratorio alla fonte, coinvolgendo gli Stati subsahariani. Ha prospettato corridoi umanitari che trasformerebbero l’attuale traffico di esseri umani in una selezione disciplinata e legale. Questo nel medio-lungo periodo. Occorrevano soluzioni immediate: il Minniti pragmatico ha individuato filtri funzionanti da subito, ha appoggiato la stabilizzazione libica, ha facilitato il dialogo Tripoli-Tobruk e puntato sulle tribù libiche che controllano il territorio. A casa nostra, la legge Orlando-Minniti è un passo avanti nel distinguere fra richiedenti asilo e migranti economici e nell’organizzazione dei centri di accoglienza. Il ministro dell’Interno può vantare la tenuta dell’ordine pubblico e dei servizi nel contrasto al terrorismo. 

ECONOMIA - I mercati sono rassicurati ma il cammino resta stretto 
Di Stefano Lepri 
Difficilmente l’Italia avrebbe potuto ottenere di più: in ogni anno della legislatura, manovre di bilancio espansive senza preoccupare i mercati finanziari e senza incorrere in sanzioni europee. Grazie anche al prestigio internazionale conquistato negli anni all’Ocse, Pier Carlo Padoan è riuscito a muoversi su un «sentiero stretto» (espressione da lui spesso ripetuta) tra le opposte esigenze di sostenere l’economia e di frenare il debito pubblico, ovvero di conciliare le intemperanze della politica italiana con la disciplina dell’area euro. Il rovescio della medaglia è un respiro corto delle misure di entrata e spesa, con troppe voci non permanenti, che si percepirà al momento di impostare la manovra 2019. Sul fisco si sono fatti progressi senza suscitare proteste di parte. Contro l’evasione, si è impostato il passaggio dagli «studi di settore» ai più raffinati «indici sintetici di affidabilità», e alla fatturazione elettronica tra privati nel 2019. Pesa tuttavia il passo falso finale del rinvio di un anno dell’«Iri». Questa opzione per tassare ad aliquota fissa le imprese personali avrebbe svuotato la proposta di «flat tax» agitata (con vari gradi di convinzione) dal centro-destra.

CULTURA - Più visitatori nei musei ma serve una riforma vera 
Di Massimiliano Panarari 
Ce lo ripetiamo sempre: l’Italia è una superpotenza culturale. Poi, però, c’è chi dice che con la cultura non si mangia, e chi la vede come un vessillo ideologico da brandire contro gli «impuri» fautori del profitto. Il governo Gentiloni e il Mibact di Dario Franceschini si sono così dovuti muovere tra Scilla e Cariddi. Apprezzabile l’attivismo che ha portato a centrare risultati significativi, tra maggiori investimenti pubblici e un’incentivazione del mecenatismo (con la stabilizzazione dell’Art bonus). Fra le misure di successo la nuova legge sul cinema, i «caschi blu della cultura» con l’Unesco e il rilancio di Pompei; e di rilievo è stato l’incremento dei visitatori di musei e siti. Bene il bonus per i 18enni, rimane molto da fare per potenziare il turismo culturale internazionale. Non ha ottenuto gli esiti auspicabili, con alcuni incidenti di percorso, la riforma organizzativa che ha istituito i musei autonomi e si poneva il fine di superare l’antitesi tra tutela e valorizzazione. E continua a difettare la logica di sistema per sposare il sostegno ai consumi culturali con la cultura come bene immateriale di coesione civile. 

SALUTE - Troppi tagli nella Sanità, sul fine vita l’unica svolta 
Di Linda Laura Sabbadini 
La spesa sanitaria si è ridotta di più del totale di quella pubblica primaria. Anche sul fronte del personale, scarsi gli investimenti. La legge sul fine vita è un grande avanzamento. Si supera l’approccio del medico padrone del corpo del paziente, si dà valore alla volontà del malato anche nel rifiuto informato delle cure. Un passo in avanti a metà sui livelli essenziali di assistenza, fermi dal 2001, con l’aggiornamento delle prestazioni a cui i cittadini hanno diritto, e le condizioni per fruirne, l’estensione delle malattie rare, di quelle croniche, delle protesi. Peccato che il tutto si sia fermato nella definizione dei nuovi tariffari presso il ministero dell’Economia. Importante anche la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari a salvaguardia della dignità e del diritto per le persone prosciolte a un percorso diagnostico-terapeutico. Negativo il precedente che si è creato nel 2015 e 2016 per il trattamento dell’epatite C con farmaci costosissimi da cui venivano esclusi pazienti bisognosi sulla base di un «algoritmo» definito dall’Aifa, superato nel 2017. Un flop anche la campagna di sensibilizzazione sul Fertility day. 

ISTRUZIONE - Il flop della Buona Scuola: ancora precari e scontenti 
Di Andrea Gavosto 
Un’occasione perduta e un autogol politico: così si riassume il bilancio della legislatura per la scuola, che ha ruotato tutto intorno alla riforma della Buona Scuola di Renzi. Di una politica per l’università, invece, si sono perse le tracce. Ambiziosa e di ampio respiro a parole, la Buona scuola si è rivelata sin dall’origine inefficace e miope. Perché ha giocato come unica carta l’assunzione di decine di migliaia di docenti, per risolvere la patologia dei precari e i ritardi nella qualità degli apprendimenti degli studenti. Non capendo (o non volendo capire) che questi ultimi non si superano mettendo insegnanti in cattedra in modo indiscriminato, ma migliorandone il profilo professionale e rispondendo agli effettivi bisogni delle scuole. Alla fine tutti scontenti. Le famiglie, che non vedono rinnovare la didattica. I presidi, che oggi hanno più oneri, ma non più poteri. Paradossalmente, anche i docenti, il cui ruolo non è stato riqualificato. Per cui, a fronte di tre miliardi annui di maggior spesa, il governo ha perso molto consenso nel mondo della scuola. Il Termidoro di Gentiloni è servito a riportare la situazione della scuola alla precaria normalità di sempre: anche se i problemi sono rinviati alla prossima legislatura.

LAVORO - Sui nuovi contratti un’occasione persa 
Di Alberto Mingardi 

Con il rinnovo del contratto degli statali, il governo Gentiloni ha concesso loro un aumento dopo dieci anni. In cambio, non ha ottenuto praticamente nulla. È un po’ quel che è accaduto con la Buona scuola. A fronte di una grande operazione di stabilizzazione di supplenti, era prevista la permanenza per almeno tre anni nella sede in cui si era vinto il concorso. La sicurezza del «posto» doveva andare di pari passo con un bisogno effettivo. La cosa è passata in cavalleria. Quando la spesa pubblica pesa metà del Pil, le politiche del pubblico impiego sono le politiche del lavoro per antonomasia. Per l’altra metà del Pil, sembra che l’obiettivo sia stato scoraggiare le forme contrattuali che hanno successo. Pensiamo ai voucher: per evitare un referendum sul Jobs Act, ne è stato limitato il campo d’applicazione. Si è parlato di ridurre la durata massima dei contratti a tempo determinato da tre a due anni. Il guaio è che impedire i contratti di lavoro che non ci piacciono non basta a produrne del genere che invece ci aggradano. Limitare gli accordi possibili fra lavoratore e impresa difficilmente crea opportunità per chi un impiego lo cerca. Dal pragmatico ministro Poletti ci si aspettava qualche discorso più chiaro, anche ai partiti della sua coalizione.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Matteo e l’opzione Gentiloni
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 12, 2018, 12:37:11 pm
Matteo e l’opzione Gentiloni

Pubblicato il 10/01/2018

FEDERICO GEREMICCA

Ora che le tessere del puzzle elettorale sono tutte sul tavolo (intendiamo liste, simboli, coalizioni e perfino candidati premier) sono forse possibili un paio di annotazioni che - intimamente connesse tra loro - tratteggiano bene il bivio di fronte al quale si trova Matteo Renzi nella sua veste di segretario del Partito democratico.

Il primo punto fa da premessa, e coglie l’ennesimo aspetto paradossale del sistema politico italiano: dopo aver approvato appena un paio di mesi fa una legge elettorale di segno proporzionale - che dunque non prevede premi di governabilità e indicazione del futuro presidente del Consiglio - anche gli stessi partiti che l’hanno votata hanno ora spensieratamente avviato la loro campagna elettorale nel segno dei candidati-premier. Lo fa la Lega, lo fanno i Cinque Stelle, lo fa il movimento di Pietro Grasso, e lo fa - ingannevolmente - perfino Forza Italia, indicando come presidente Berlusconi, che non può (per sentenza passata in giudicato) nemmeno esser candidato.

Ma così va. E se va così, la seconda annotazione è inevitabile: può il Pd partecipare alla contesa senza dire agli italiani quale sarà l’uomo che guiderà il governo in caso di vittoria della coalizione di centrosinistra?

La risposta parrebbe scontata, ma invece non lo è: Matteo Renzi, infatti, si limita a ripetere che il Pd offre agli italiani «una squadra» e che la scelta sarà fatta dopo. Si tratta di una posizione di grande debolezza, che rischia di frenare ulteriormente il Partito democratico e alla quale - per altro - non tutti credono, convinti che la genericità dell’indicazione nasconda la volontà di Renzi di tentare il ritorno a Palazzo Chigi, cosa oggi difficilissima. 

Il tipo di campagna elettorale avviata dagli altri e la linea fin qui scelta dal Pd, dunque, pongono Matteo Renzi di fronte a un bivio. Mantenere l’attuale posizione, mettendo a rischio lo stesso risultato del suo partito e della coalizione, oppure abbandonare la sottile ipocrisia della «squadra» per gettare nella mischia il nome del candidato-premier del Pd. Una faccia da contrapporre a quelle di Berlusconi e Di Maio, insomma; un profilo solido e rassicurante che dia appunto il volto a quella «forza tranquilla di governo» che è lo slogan col quale il Partito democratico intende proporsi agli elettori.

Quella faccia - quel profilo - esiste ed ha il nome di Paolo Gentiloni, il premier che sta accompagnando il Paese al voto e che in questo anno e passa a Palazzo Chigi ha centrato non pochi obiettivi grazie proprio - e non sembri paradossale - al lavoro e alle riforme incubate negli anni di governo di Matteo Renzi. Può il Pd fare una scelta diversa, rinunciando alla sua candidatura a premier e annegandola, genericamente, in una «squadra»? Solo Renzi può deciderlo, rompendo gli indugi, dando una scossa alla campagna del Pd e aprendo nuove prospettive per l’intera coalizione.

Ma Renzi non lo farà mai, si sente ripetere in giro. Può essere, e sarebbe un errore. Piuttosto che un inspiegabile punto interrogativo, la faccia tranquilla di Paolo Gentiloni affianco a quelle di Berlusconi, Salvini e Di Maio, potrebbe riaprire d’improvviso la partita, favorendo esiti meno scontati. Per un motivo o per l’altro, il premier in carica per l’ordinaria amministrazione ha ammaliato un buon pezzo di Paese: non tenerne conto sarebbe un incomprensibile segno di rassegnazione, difficile da spiegare sia in campagna elettorale che nelle discussioni che seguiranno il voto.

È anche per questo che non è detto che - giunto di fronte al suo bivio - Matteo Renzi finisca per scegliere la via più gettonata. Al di là del carattere spigoloso e delle frequenti guasconerie - che tanto hanno contribuito a consolidare il clima non favorevole che oggi lo accompagna - il leader del Pd ha dimostrato di saper vestire gli abiti del politico lungimirante e tessitore, quando è necessario (e quando non è lui personalmente in questione): l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale è lì a ricordarlo.

Accade spesso, in politica, che una rinuncia oggi si trasformi in un successo domani: e quando si ha il futuro davanti - come lo ha Renzi, alla vigilia dei suoi 43 anni - il tempo per scommettere e attendere certo non manca. Annunciare che è Paolo Gentiloni il candidato-premier del Pd, insomma, non sarebbe semplicemente uno stucchevole «gesto di generosità», bensì un investimento sul Pd e sul futuro: anche sul suo personalissimo futuro.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - L’ultima sfida per creare il nuovo partito
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2018, 02:08:16 pm
L’ultima sfida per creare il nuovo partito

Pubblicato il 29/01/2018 - Ultima modifica il 29/01/2018 alle ore 07:02

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Sono anni - in pratica dal suo avvento alla segreteria del Pd (dicembre 2013) - che Matteo Renzi è inseguito da un velenosissimo sospetto: quello di voler trasformare il Partito democratico in qualcosa di profondamente diverso, addirittura in un «movimento personale», al quale è stato dato - per comodità - il nome di PdR (Partito di Renzi). Il sospetto, diciamolo subito, in questi anni è apparso più un utile strumento di polemica e propaganda che il prodotto di una oggettiva analisi politica. Questo - però - fino a ieri: giorno in cui il Pd ha ufficializzato le proprie liste elettorali.

Qui non è in questione, naturalmente, né la qualità dei nomi presentati e nemmeno il diritto di un segretario di partito a plasmare i gruppi parlamentari, diciamo così, in modo da garantirne la tenuta sulla linea politica (e di governo) scelta. Quel che può essere oggetto di discussione, invece, è il profilo che avrà il Pd dopo il voto: e dopo un metodo di selezione dei nomi in lista che ha prodotto nuove e profonde ferite sul corpo del Partito democratico.

Una annotazione appare, a questo punto, evidente: nel giro di un anno - e cioè dalla scissione subita l’inverno scorso fino alla composizione di queste liste elettorali - è come se il Pd fosse stato sottoposto ad una sorta di profonda mutazione genetica. «Non è più un partito di sinistra», ha accusato ieri Pietro Grasso, tirando acqua al mulino di Liberi e Uguali. La sentenza è forse azzardata: ma tornare a parlare oggi di PdR, piuttosto che di Pd, non può più esser considerato solo un artificio polemico.

Non è soltanto questione di assenze: il fatto, cioè, che i due ultimi segretari del partito (Bersani ed Epifani) militino altrove, che molti altri co-fondatori li abbiano seguiti o che perfino i due padri nobili del Pd (Prodi e Veltroni) siano in posizione defilata o addirittura critica. È soprattutto il modo in cui si è supplito a queste defezioni a meritare una riflessione: un gruppetto di fedelissimi (nel partito e nelle liste) imposti con la forza dei numeri e senza - di fatto - alcun confronto. Qualcuno ne ha potuto avere purtroppo conferma nelle pesanti notti del Nazareno trascorse a sistemare nomi e cognomi in collegi e listini, durante le quali solo Lotti, Boschi e Bonifazi hanno avuto accesso alle stanze del segretario.

Nemmeno di fronte ad un appuntamento delicato e decisivo come le elezioni, insomma, Matteo Renzi ha cambiato il suo stile di direzione: avanti tutta, costi quel che costi. Era accaduto dopo il referendum del 4 dicembre e dopo le tante sconfitte elettorali subite (dalla Liguria alla Sicilia, fino a Roma e Torino). I fatti e il tempo, dunque, non hanno portato consiglio: il «noi al posto dell’io», l’esaltazione della «squadra a più punte del Pd» e la promessa collegialità, sono rapidamente tornate in soffitta per lasciar spazio al solito stile accentratore.

Ma Renzi può esser, a modo suo, comunque soddisfatto: infatti, controllerà senza problemi il futuro gruppo parlamentare: proprio come era per Bersani all’inizio della tormentata legislatura appena conclusa... Quel che è certo, è che se le elezioni dovessero andar male, lo scontro nel Pd sarà durissimo. E proprio da quella resa dei conti potrebbe nascere - perfino ufficialmente - quel PdR fino a ieri solo sospettato e che oggi - invece - appare in piena e inevitabile gestazione.

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Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il sentiero stretto di Matteo
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 12, 2018, 06:45:54 pm
Il sentiero stretto di Matteo

Pubblicato il 12/02/2018

FEDERICO GEREMICCA

Matteo Renzi non è contento. Giunti ormai a tre sole settimane dal voto, infatti, la campagna elettorale non cambia verso, ogni nuovo avvenimento (si pensi ai fatti di Macerata) pare moltiplicare le difficoltà del Pd e soprattutto - lamenta il segretario - «tutto è usato contro di me». Annotazione, quest’ultima, senz’altro vera: e che pare il contrappasso di quel che accadeva appena tre anni e mezzo fa, quando il 40% ottenuto alle elezioni europee certificò un consenso ed un pubblico sentire secondo il quale qualunque cosa Renzi dicesse o facesse era quella più innovativa, sensata e giusta da fare.

Quanta acqua sia passata sotto i ponti da quel maggio 2014 a oggi, è cosa nota. Meno pubbliche e conosciute, forse, sono invece le ultimissime preoccupazioni del leader dei democratici, che arrivano soprattutto dal continuo monitoraggio di sondaggi e orientamenti dell’opinione pubblica. Le rilevazioni commissionate dal Pd confermano - e in alcuni casi amplificano - le forti difficoltà segnalate da tutti gli istituti di ricerca: con un paio di soglie di sicurezza già infrante o vicine all’esser abbattute. 

La prima è quella che riguarda il possibile risultato proprio dei democratici, oggi stimati al di sotto di quanto ottenuto dal Pd di Bersani nel 2013; la seconda è quell’uno per cento che le liste alleate devono assolutamente superare affinché i voti ottenuti non finiscano letteralmente al macero, non determinando l’elezione di alcun parlamentare: e quell’uno per cento, al momento, verrebbe superato solo da «+Europa» di Emma Bonino.

Un quadro tutt’altro che rassicurante, dunque. E una tendenza, per di più, che pare difficilissima da invertire anche in ragione di quel «tutto è usato contro di me». A colpire Matteo Renzi, in particolare, è stata l’evoluzione dei fatti di Macerata, cominciati con colpi di pistola contro dei giovani di colore e contro la sede del Partito democratico e finiti con un corteo organizzato da movimenti di sinistra e trasformatosi in una dura manifestazione contro il governo ed il Pd: «Sparano contro le nostre sedi e contro gli immigrati - ha annotato Renzi - e invece di prendersela con Salvini accusano me».

Il fatto è che, nonostante il tentativo del segretario Pd di abbassare i toni e denunciare speculazioni politiche, l’ex rottamatore si è ritrovato nuovamente stretto (ma stavolta alla vigilia del voto) nella solita e micidiale tenaglia che minaccia, da sempre, la sinistra di governo: da una parte i settori più moderati e spaventati del Paese che chiedono «regole dure» contro l’immigrazione clandestina; dall’altra il variegatissimo mondo della sinistra che contesta, appunto, le «regole dure» varate quest’estate dal ministro Minniti (che oggi, con evidenti rischi di contestazione, sarà a Firenze per un’iniziativa elettorale proprio con Matteo Renzi).

La tendenza, insomma, è quella che è: e al di là dell’annotazione che dall’avvio della Seconda Repubblica a oggi mai una maggioranza di governo è stata poi riconfermata alle elezioni, invertirne il segno appare quanto mai complicato. Non a caso, sono settimane che Matteo Renzi riflette e pensa alle possibili mosse in un dopo-voto che dovesse vedere il Pd seccamente battuto. Le liste elettorali - che tante tensioni hanno determinato nel Pd - sono state per esempio costruite guardando appunto al 5 marzo e alla necessità di avere gruppi parlamentari di «fedelissimi». E non è l’unica mossa che pare esser stata compiuta guardando ad un futuro che si annuncia burrascoso.

Non si è forse ragionato a sufficienza, per esempio, su una scelta assai sorprendente effettuata da Matteo Renzi: quella di candidarsi al Senato, dopo una lunghissima campagna referendaria impegnata a dimostrare - tra l’altro - quanto quella Camera fosse inutile, costosa e perfino dannosa per il buon funzionamento del sistema democratico. Cambiare idea non è, ovviamente, un delitto: ma in questo caso la conversione del segretario Pd è stata tanto convinta e fulminante da spingerlo a candidare al Senato quasi tutti i suoi cosiddetti «fedelissimi» (Boschi e Lotti esclusi, crediamo, solo per motivi di età). Singolare.

E a qualcuno, infatti - soprattutto nel Pd - questa scelta è apparsa né neutra né casuale. Così, i sospetti si sprecano. Il gruppo di «fedelissimi» voluto al Senato - si ipotizza - potrebbe trasformarsi nel «nucleo fondativo» di un nuovo soggetto politico, nel caso Renzi dovesse perdere la sua battaglia nel partito, se sconfitto alle elezioni. E qualcun altro aggiunge: quel drappello di senatori è destinato a costituire una sorta di «opposizione di blocco» capace di condizionare nascita e morte di qualunque governo.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/12/cultura/opinioni/editoriali/il-sentiero-stretto-di-matteo-vROvDUG5yjFkCqCPyjxBUL/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Che cosa vogliono davvero Di Maio e i Cinque Stelle?
Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2018, 12:08:46 am
LUIGI DI MAIO 

La voglia di governo del nuovo M5S e il pericolo delle accuse di inciucio 

(Di Federico Geremicca) 

Che cosa vogliono davvero Di Maio e i Cinque Stelle? O meglio: quale ipotesi politica - e di governo - è realmente percorribile da un Movimento che non ha mai fatto alleanze e ha appena abbandonato la linea, diciamo così, del «Vaffa»? Bisognerebbe rispondere a queste domande per capire qual è - in questo voto - la posta in palio per gli uomini di Grillo e per il loro «capo politico». E le risposte non sono univoche: perché gli ultimi dieci giorni di campagna del M5S si prestano ad almeno una doppia lettura.

La prima, insiste sul fatto che la «nuova stagione» del Movimento sia davvero avviata e che molte cose - dalla inedita moderazione al varo anzitempo di un team di ministri - siano lì a dimostrare la voglia di governo. La seconda, più scettica, dà una interpretazione diversa della sceneggiatura proposta agli elettori in questa campagna elettorale: e cioè, che tutto quanto fatto - dall’abbandono del «Vaffa» alle tante rassicurazioni - servirebbe solo a dare più argomenti (e dunque forza) a una possibile scelta di ritiro da ogni trattativa nel dopo-voto: noi volevamo davvero provare a cambiare il Paese, ma con questi partiti non c’è niente da fare.

Esiste una terza ipotesi, in realtà, che tiene assieme parte delle due letture precedenti: e cioè che i Cinque Stelle - pur puntando davvero al governo - non riescano ad abbattere il «muro» del cambio di linea sulle odiate alleanze, pena spaccature interne e la frammentazione dei gruppi parlamentari. Come si vede, dunque, la posta in palio per Di Maio e il Movimento potrebbe essere - diciamo così - variabile, in rapporto ai veri obiettivi degli uomini di Beppe Grillo: provare ad andare al governo costi quel che costi, oppure autoconfinarsi all’opposizione scommettendo su un patto Renzi-Berlusconi, una legislatura breve ed elezioni ravvicinate nelle quali puntare davvero al fatidico 40 per cento?

In entrambi i casi i rischi sono evidenti. Andare al governo con partiti definiti fino a ieri inaffidabili e impresentabili, potrebbe rappresentare un vero choc per la base grillina; ma anche riporre di nuovo in freezer milioni di voti non pare un buon affare per il Movimento. Scegliere, insomma, non sarà né facile né indolore. Soprattutto per Luigi Di Maio, che rischia di rimanere stritolato nella morsa tra ortodossi e governisti.

Per lui le accuse sono già pronte: non esser riuscito a guidare la metamorfosi del Movimento o - al contrario - aver accettato di far «inciuci» con gli odiati partiti. Paradossale. Ma come dice il vecchio proverbio, chi semina vento raccoglie tempesta.




Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Il segretario teme la nascita del “partito” di Mattarella..
Inserito da: Arlecchino - Marzo 06, 2018, 02:07:19 pm
Il segretario teme la nascita del “partito” di Mattarella per fare l’accordo con il M5S
Gentiloni e Franceschini primi sospettati
La fronda.
Gentiloni e Franceschini sono stati i primi a valutare legittime le preoccupazioni e le intenzioni del Capo dello Stato.
A loro si sono aggiunti Delrio e altri esponenti dell’ala cattolica

Pubblicato il 06/03/2018 - Ultima modifica il 06/03/2018 alle ore 09:04

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Il 4 del mese, ora è evidente, non è un giorno fortunato per Matteo Renzi, visto che le sconfitte più dure (il referendum costituzionale del dicembre 2016 e la disfatta dell’altro ieri) le ha incassate in due domeniche con la data - appunto - del 4 del mese. Ma il 5, evidentemente, fa parte di un’altra storia: e se non è certo il giorno di una rinascita o di un rilancio, è senz’altro la data-simbolo scelta per l’avvio di una nuova e durissima battaglia. 

Matteo Renzi, infatti, non si dimette. Forse lo farà più in là, ma a crederci - nello stesso Pd - sono davvero in pochi. E non si dimette perché nella notte del fatidico 4 marzo, mentre la slavina dell’insuccesso si abbatteva su Largo del Nazareno, gli si è manifestato un fantasma, un nuovo nemico da combattere o - forse più realisticamente - un semplice sospetto che però può servire a dare un senso e a giustificare il suo voler restare in campo.

Dentro il Partito democratico - questa è la certezza di Matteo Renzi - è nato un nuovo partito: il partito di Sergio Mattarella. È nato alle prime luci dell’alba del 5 marzo ed ha registrato subito due iscritti d’eccellenza: Paolo Gentiloni e Dario Franceschini. Primo punto del programma di questo partito, sarebbe lavorare al varo di un governo che veda assieme Movimento Cinque Stelle e Pd. Il secondo punto dl programma è solo la logica conseguenza del primo: isolare e dare scacco matto al segretario in difficoltà. Un partito-fantasma, dunque. Ma con obiettivi assai concreti.

Erano giorni, ormai, che Renzi sentiva scendere dal Colle del Quirinale una brezza che non lo convinceva affatto. E dalla notte di domenica, quella brezza si è trasformata in vento teso: il capo dello Stato, alla luce dei risultati, non esclude la possibilità di un governo del Movimento Cinque Stelle. Ma come elemento di garanzia (verso i mercati, Bruxelles e i grandi investitori) vorrebbe che di quell’esecutivo facessero parte anche ministri del Pd.

Un rospo difficile da ingoiare per un segretario che aveva chiuso la sua campagna elettorale con due slogan fatti più o meno così: mai al governo con estremisti e populisti; se il Pd non sarà il primo gruppo parlamentare, resterà all’opposizione. Concetti che, se non fossero stati sufficientemente chiari, Renzi ripetuto nella breve conferenza stampa di ieri: che doveva segnare il passo d’addio per il segretario battuto e che si è invece trasformata nel punto di partenza di un percorso lungo e assai accidentato. 
Questa, almeno, è la convinzione dei sempre più numerosi (e spavaldi) nemici del segretario. Non è tanto questione che riguardi la già dichiarata minoranza interna di Andrea Orlando, che insiste - con scarse possibilità di successo - soprattutto per una gestione collegiale della fase che dovrà portare alla nascita di un nuovo governo. A registrare le maggiori preoccupazioni sono uomini fino a ieri alleati di Renzi e che oggi vedono nella posizione ribadita dal segretario (mai al governo con i Cinque Stelle) soltanto l’occasione per riaprire uno scontro che potrebbe produrre nuovi strappi e lacerazioni.

 Paolo Gentiloni e Dario Franceschini sono stati i primi a valutare legittime le preoccupazioni e le intenzioni del Capo dello Stato. Ma a loro si sono rapidamente accodate altre personalità di primo piano. Per esempio Del Rio e altri esponenti dell’ala cattolica del Pd che - al di là dell’opportunità di stare in un governo a trazione Cinque Stelle - non hanno apprezzato affatto toni e contenuti delle comunicazioni svolte ieri dal segretario.

Gestione non collegiale della crisi, una delegazione per il Quirinale che sarà caratterizzata da due nuovi capigruppo di provata fedeltà renziana e un percorso verso Congresso e primarie lungo e indefinito sono - per questo neonato partito-fantasma - condizioni difficili da accettare. Si aspettavano un’uscita di scena di Renzi fatta di autocritica e discrezione: si sono trovati davanti un segretario che mentre annunciava l’addio elencava ragioni, strumenti e obiettivi per un immediato ritorno.

La preoccupazione vera, a questo punto, riguarda la tenuta del Pd e - soprattutto - le reali intenzioni di Matteo Renzi. Perché questa nuova prova di forza? Il segretario mette nel conto nuove uscite dal partito o - addirittura - potrebbe lasciare lui il Pd, motivando l’abbandono con l’accusa di subalternità a «estremisti e populisti»? Difficile dirlo. Ma certo, nei ragionamenti di molti esponenti del Pd comincia a prendere forma un sospetto: perché Renzi e i suoi fedelissimi si sono tutti candidati al Senato?

Se le cose in casa democratica si mettessero per il peggio, quel folto drappello - in fondo - è lì pronto per due diversi utilizzi. Il primo: costituire una «opposizione di blocco» capace di ostacolare la nascita di qualunque governo. Il secondo: rappresentare il nucleo fondante di una nuova formazione politica. Non più, viste le sconfitte, il tanto temuto Partito della nazione: ma un soggetto che possa comunque permettere a Renzi di continuare la sua battaglia. Sotto altre insegne, certo: ed è un peccato. Ma tutto, proprio tutto, solo e soltanto per colpa di quel maledetto 4, infausto giorno d’inizio mese.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/06/italia/speciali/elezioni/2018/politiche/il-segretario-teme-la-nascita-del-partito-di-mattarella-per-fare-laccordo-con-il-ms-m5VOABF71rCxWPik94ukBI/pagina.html


Titolo: FEDERICO GEREMICCA - Per Mattarella un puzzle che sembra incomponibile
Inserito da: Arlecchino - Aprile 24, 2018, 04:56:12 pm
Per Mattarella un puzzle che sembra incomponibile
Le ipotesi restano due: governo dei “vincitori” o del Presidente
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 18 aprile ha affidato a Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato, un mandato esplorativo per verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare tra Centrodestra e Movimento 5 Stelle per formare un Governo.
Due giorni dopo Casellati ha comunicato al capo dello Stato che il risultato è stato negativo

Pubblicato il 23/04/2018 - Ultima modifica il 23/04/2018 alle ore 07:18

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Le tessere del puzzle sono ancora tutte lì, incomponibili, sul tavolo di Sergio Mattarella. M5S non combacia con FI. Lega non si unisce con Pd. Le facce di Di Maio e Renzi restano inavvicinabili. E anche la tessera-jolly - governo del Presidente - non trova volti o sigle che, unendosi tra loro, la rendano per ora spendibile. È passato oltre un mese e mezzo dal voto del 4 marzo, e poco o nulla sembra esser cambiato. Il Capo dello Stato alterna pause, riflessioni e accelerazioni. È la sua crisi più difficile: e dentro questa crisi, quella che si apre è la settimana più dura da decriptare.

Sergio Mattarella non è un Presidente «tecnico», se si intende l’espressione: a differenza di Carlo Azeglio Ciampi, per dire, viene dalla politica, conosce i riti di Montecitorio e ci ha messo dunque un attimo - appreso il responso elettorale - a capire che la quadratura del cerchio stavolta non sarebbe stata facile. Le tessere sul suo tavolo raccontavano, infatti, di maggioranze numeriche difficili da trasformare in maggioranze politiche (centrodestra più Cinque Stelle o centrodestra più Pd) e di possibili intese politiche (per esempio Pd-Forza Italia) senza numeri capaci di dar vita a un governo.

Come se non bastasse, l’estrema chiarezza del responso elettorale imponeva necessariamente di partire dai «vincitori», definizione forse troppo frettolosa. 

Cioè da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, certamente - tra i leader in campo - i più distanti da lui, per linguaggio, cultura politica e (se si vuole) modo di intendere la responsabilità di fronte alle istituzioni. Questa distanza, infatti, qualche equivoco lo ha creato: soprattutto con la Lega, che la settimana scorsa ha addirittura interpretato come un tentativo di «fregatura» l’idea che un preincarico potesse venir assegnato a uno tra Salvini e Giorgetti. Il solo fatto che lo si sia pensato, è stato naturalmente ritenuto oltremodo offensivo lassù al Colle.

Nulla di facile, dunque, fino a ora. E probabilmente niente di facile anche da adesso in poi. Stamane dovrebbe esser annunciata un’esplorazione di Roberto Fico, con un mandato stringente e chiaro: verificare la possibilità di un’intesa di governo tra Cinque Stelle e Pd. Sergio Mattarella non si fa soverchie illusioni perché sa che è assai probabile che la missione produca lo stesso risultato partorito dall’esplorazione della presidente Casellati. Eppure, né il primo tentativo né l’altro - a ben vedere - possono essere considerati delle perdite di tempo.
Alla fine del doppio giro, infatti, i due presidenti avranno sgombrato il campo da ipotesi fantasiose e impercorribili, da finte piste e da alibi utili solo a prender tempo, mettendo tutti i volti e le sigle del puzzle di fronte a quelle che - ad oggi - appaiono le uniche due vie percorribili. Un governo dei «vincitori», cioè sostenuto dai soli Di Maio e Salvini, oppure un esecutivo del Presidente. Questa seconda ipotesi rappresenta, tradizionalmente, l’ultima carta nelle mani del Quirinale: ma stavolta nemmeno questa sembra essere una mossa vincente, considerata la ripetuta indisponibilità dei «diarchi» a partecipare a «governissimi» o governi tecnici «telecomandati da Bruxelles».

Due sole ipotesi in campo, dunque. La prima richiede ancora un po’ di tempo, perché Salvini - ammesso che alla fine decida di farlo - ha bisogno di far maturare la rottura con Berlusconi e il nuovo patto con i grillini così che non appaia (come forse è) una scelta maturata fin dalla sera del 4 marzo. La seconda - la più gradita al Colle - richiede invece dei radicali ripensamenti: ma perché mai Di Maio e Salvini dovrebbero annacquarsi in un «governissimo», se hanno dalla loro la forza dei numeri (ancora crescenti) e la spinta di un vento che non pare arrestarsi?

È dunque in un quadro così che si apre stamane l’ottava settimana di questo confuso post-voto, ed è inutile tornare a sottolineare la preoccupazione che assedia le stanze del Quirinale. Per altro, l’ipotesi di un governo «populista» suscita timori e perplessità crescenti, a maggior ragione dopo le posizioni assunte dalla Lega all’indomani dei bombardamenti su Damasco. 

Le uniche due tessere del puzzle che sembrano combaciare, insomma, sono anche i tasselli di una possibile ricollocazione dell’Italia sullo scenario internazionale? È una domanda dalla risposta non scontata. E una domanda, in verità, della quale Sergio Mattarella non vorrebbe nemmeno arrivare ad ascoltare la risposta. La speranza che maturi una soluzione diversa, infatti, non è stata abbandonata. Ma forse è solo perché un vecchio detto consolatorio ricorda a tutti che la speranza è l’ultima a morire.

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DA - http://www.lastampa.it/2018/04/23/italia/per-mattarella-un-puzzle-che-sembra-incomponibile-xV2VeAnH96hxS5dTFyCiYJ/pagina.html