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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 157801 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:42:57 pm »

23/8/2008 (7:38) - IL REPORTAGE

La prima festa del partito che non c'è
 
Al via la kermesse del Pd: i momenti solo al passato


FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A FIRENZE


A farla semplice, si potrebbero prendere le ultime parole scolpite da Massimo Cacciari e chiuderla lì: «Il Partito democratico al Nord non c’è, non esiste. E da quanto ho avuto modo di capire, non esiste nemmeno al Sud». E dunque che c’è da festeggiare, qui a Firenze, dove ieri sera ancora martellavano chiodi e pennellavano vernice per la prima kermesse nazionale del Pd che s’apre oggi? Avete visto mai, infatti, una festa per una cosa che non c’è?

Noi mai. E dunque magari è il caso di controllare. E volendo controllare, la prima persona che incontri tra i lavori in corso nella Fortezza da Basso è un omaccione che fino al 5 maggio faceva l’architetto, poi ha chiuso lo studio ed ha cominciato a progettare la festa del Partito che non c’è. Si chiama Osvaldo Miraglia, è un diessino non tanto ex e dice «allora che sono, fantasmi, i 5mila volontari che staranno due settimane qua a vendere birre e libri dalla mattina alla sera?».

Li vediamo montare pannelli e rodare cucine a gas fino all’ultimo minuto utile, come nelle migliori tradizioni di ogni Festa de l’Unità. No, non sono fantasmi. E ancor meno evanescente, nonostante tutto, è quel che non si vede: per esempio, i quattro milioni di euro di volume d’affari che muoverà la kermesse. Non male, onestamente, per una cosa che non c’è.

Per intanto, però, è indubitalmente vero che la prima Festa del Pd sarà ricordata più per quel che non c’è che per quel che ci sarà. Non c’è il presidente del Consiglio in carica, ad esempio: e va bene che ormai è considerato non più avversario ma nemico, e dunque il mancato invito ci può pure stare. Ma non c’è nemmeno l’ex presidente del Consiglio, cioè Romano Prodi: che pure non è un nemico, e si spera non si sia trasformato già in avverasario.

Così come non ci sarà la tradizionale Grande Adunata per il comizio finale del Segretario. Veltroni, modernamente, non ha voluto: e i compagni (ex) in fondo gliene sono grati, perchè era diventata una faticaccia transumare le centinaia di migliaia di militanti senza le quali l’ultimo atto di qualunque kermesse è considerato miseramente un flop. Infine - e piange il cuore - ancora ieri sera non si vedeva uno straccio di logo de l’Unità: eppure, checchè raccontino, questa non è nient’altro che un’altra Festa nazionale de l’Unità.

Se infatti chiedi in giro qual è la differenza tra la prima Festa nazionale del Partito che non c’è e quelle del partito che c’era, ti spiegano - correttamente - che l’enorme sala dibattiti dove sfileranno i big (e primi tra tutti Tremonti e Bossi, al suo esordio alla Festa) è intitolata a Giorgio La Pira che, effettivamente, comunista o diessino non lo è stato mai. E se obietti che, insomma, forse è un po’ poco, provano ad indicarti - con qualche fatica - uno stand gestito interamente da ex della Margherita.

«Che vuole, siamo a Firenze... - ammette il solito Miraglia -. Qui il rapporto tra noi e loro era di tre a uno». Cogliere le differenze, insomma, non sarà facile. La grande fiera, infatti, è quella di sempre: dal braccialetto al trattore. Ed anche i ristoranti sono quelli, leggendari, capaci di sfornare ribollite e pappardelle a ritmi industriali. Ecco, se una novità è visibile, riguarda più l’evoluzione sociale che quella politica: il moltiplicarsi di luoghi e ristoranti di musica e cucina araba e africana. Giusto per tenersi al passo con i flussi migratori...

Difficile insomma dire se la prima Festa democratica di Firenze aiuterà il Partito che non c’è a mostrare un primo tratto del suo profilo. Improbabile, ma del resto non è compito di cui può caricarsi una semplice kermesse: è altrove, ovviamente, che vanno trovate risposte e cure per un partito dall’identità ancora incerta e preda - perfino - di liti in tribunale (imparasse dal centrodestra, che a notai e carte da bollo ricorre magari prima e non dopo le fondazioni...).

Però, certo, da qualche parte bisogna cominciare. Veltroni con Mentana, D’alema con Floris e Rutelli con Di Bella, proveranno a indicare l’orizzonte cui pensano per il Pd: e non è detto che sia precisamente lo stesso. I ministri ombra si confronteranno con i ministri in carica per proporre ricette alternative alla crisi del Paese. E a Rosy Bindi, faccia a faccia con Tonino Di Pietro, toccherà il compito (non proprio grato) di convincere i militanti che è possibile opporsi a Berlusconi senza chiamarlo un giorno magnaccia e l’altro delinquente.

Ma onestamente non appare un lavoro facile: e certo - qui a Firenze - al di là dell’onore di tenere a battesimo la prima Festa dopo la fusione, avrebbero preferito una kermesse appena appena più in discesa. Lo avrebbero preferito tutti. E prima di tutti - dicono - il neo segretario regionale del Pd, pure specialista in cose che non ci sono o che non ci sono più. Laureato alla Sorbona, Andrea Manciulli diede la tesi su "La cucina delle corti cardinalizie". Chissà se s’aspettava di finire a servire pappardelle e ribollite...


da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Agosto 30, 2008, 09:16:50 am »

30/8/2008
 
I collaborazionisti
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
L’accusa è lì, sulla punta della lingua di molti, ancora inespressa perché esprimerla significherebbe (significherà) porre il problema dei problemi, fino ad aprire nel Pd una battaglia politica dagli esiti del tutto incerti.

Ma le scelte di Giuliano Amato prima, e Roberto Colaninno poi, hanno riproposto la questione in maniera ineludibile. E la questione, e la conseguente accusa, potremmo sintetizzarla così, se c’intendiamo sul termine: collaborazionismo. Insomma: si può, e fino a che punto si può, collaborare - dando quindi una mano - con Berlusconi e la sua maggioranza? Roberto Colaninno, appellandosi a quella che potremmo definire «etica imprenditoriale», ha ritenuto che si possa. E Giuliano Amato, richiamando il «mandato istituzionale» ricevuto, ha confermato di voler presiedere la commissione sul futuro di Roma, città strappata da Gianni Alemanno al governo della sinistra.

Si è nei limiti di un’accettabile pratica bipartisan o siamo già nel campo del collaborazionismo? Francesco Rutelli - sconfitto da Alemanno nella battaglia di Roma - non ha dubbi (e non è il solo) e proprio in una intervista a La Stampa ha chiesto ad Amato di farsi da parte per evitare «equivoci» e permettere «una critica dura a chi ha vinto le elezioni su strumentalizzazioni orribili». Né meno profonde sono le riserve che circondano la scelta di Roberto Colaninno - imprenditore considerato vicino al Pd e padre di Matteo, ministro ombra di Veltroni - di capitanare la cordata che proverà a salvare Alitalia, tirando fuori Berlusconi da un bel mucchio di guai. Qualcuno ha agito - ha accusato Bersani - «con la pistola puntata alla tempia». Ma questo non cambia, per altri, il senso della vicenda: collaborazionismo, intelligenza col nemico. Roba da corte marziale, se fossimo in tempo di guerra...

E accusa più o meno simile - con termini, ovviamente, più consoni a un’era di pace - è stata rivolta a Franco Bassanini che, dopo esser entrato nella Commissione Attali voluta da Sarkozy, si è detto disponibile a bissare l’esperienza a Roma, assieme a Giuliano Amato. Analogo anatema è toccato a qualche sindaco democratico apparso troppo disponibile (quando non entusiasta) al confronto proposto dal ministro Calderoli sulla sua mutevole e inafferrabile «bozza federalista». E di tutto, veramente di tutto, è stato detto anche contro Antonio Bassolino, governatore campano che ha rifiutato di firmare la mozione del Pd che è alla base della manifestazione di ottobre contro il governo Berlusconi: «Collaboriamo sul piano istituzionale - spiegò -, non mi pare corretto che io firmi».

Collaborare. Oppure non collaborare affatto: qualunque sia il tema e qualunque cosa accada. Non siamo ancora al «tanto peggio tanto meglio» ma certo quest’ultima scelta prefigurerebbe un modo di fare opposizione assai distante da quello che era ipotizzabile alla luce della campagna elettorale svolta e perfino nelle fasi di avvio della legislatura. E infatti, non a caso, molte delle questioni che oggi dividono il Partito democratico - rallentando la definizione di un suo profilo netto - sono appunto legate al carattere dell’opposizione da svolgere. Provare a dialogare e collaborare tutte le volte che l’argomento lo richiede - e il confronto ne dimostri la possibilità - o non collaborare (dialogare) mai e su niente? L’interrogativo ha già rumorosamente diviso Di Pietro da Veltroni. E il piccolo terremoto è niente di fronte a quel che potrebbe accadere all’interno del Pd.

La ripresa d’autunno, infatti, sembra fatta apposta per acuire le tensioni tra «collaborazionisti» e «intransigenti», perché le tre questioni che saranno sul tappeto sono di quelle classicamente definibili da «impegno bipartisan»: riforma della giustizia, federalismo fiscale e modifica delle leggi elettorali (quella europea, certo, ma anche quella nazionale, visto che è già pendente un referendum). Al di là delle dichiarazioni di maniera del tipo «collaboreremo se sarà possibile», con che spirito si avvicinerà il Pd all’inevitabile confronto? Già oggi crepe e incrinature sono ben visibili, con dalemiani ed ex popolari più propensi al confronto e leader come Veltroni, Bersani e Rutelli - per esempio - che non fanno mistero, invece, di considerare null’altro che una «trappola» le proposte di dialogo che arrivano dalla maggioranza di governo.

La scelta non sarà facile. E non sarà nemmeno indolore. Infatti, al di là dell’influenza che potrà avere sul processo di consolidamento del Pd, essa lascerà più o meno spazio (e renderà più o meno possibile una riconciliazione) all’opposizione galoppante e intransigente di Antonio Di Pietro. Il leader dell’Italia dei Valori si prepara a un autunno caldissimo, e si frega già le mani di fronte alle incertezze del Pd. Per la sua politica tutta giustizialismo e populismo, infatti, certo «collaborazionismo» potrebbe essere manna dal cielo. Per i democratici, insomma, il bivio è tra i più insidiosi: duri per non lasciare spazio a populisti e sinistra radicale o dialoganti ogni volta che è possibile per confermarsi forza di governo affidabile e responsabile? Al di là dei singoli casi e al di là dei singoli collaborazionisti, forse è proprio questo l’interrogativo dalla cui risposta dipenderanno il futuro e la natura del Pd...

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 04, 2008, 12:09:40 pm »

4/9/2008
 
L'eterno alibi
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Noi non sappiamo quali elementi abbiano spinto il dottor Antonio Manganelli, Capo della Polizia - dirigente equilibrato e, per altro, profondo conoscitore della realtà napoletana - a ipotizzare che dietro l’infernale domenica di Roma-Napoli «ci sia l’influenza della criminalità organizzata».

Sappiamo, però, che nel giro di qualche ora, col procedere delle indagini, prima il suo vice e poi il capo della Direzione distrettuale antimafia hanno di molto depotenziato - fin quasi a smentirla - quell’affermazione. E però, al di là della polemica innescata dalle dichiarazioni del dottor Manganelli (il ministro La Russa le ha definite «un alibi», dando la possibilità a Veltroni di accusare: «Il governo è contro la Polizia»), al di là di questo, dicevamo, la vicenda è illuminante di quanto forti siano alcuni riflessi condizionati. E di quanto essi non sempre servano a cogliere la realtà delle cose e talvolta - anzi - aiutino chi non vuol vederla.

Si prenda, appunto, la questione del rapporto tra calcio e violenza. Nonostante psicologi e sociologi abbiano spiegato da tempo quanto i comportamenti e la logica «del branco» possano trasformare in «delinquenti occasionali» anche giovani miti o di buona famiglia, si rifiuta questa verità (e rifiutandola, naturalmente, non la si avversa) preferendo rifugiarsi in schemi di comodo, e in fondo perfino autoassolutori. In ragione di questo, per esempio, la violenza negli stadi del Nord è inevitabilmente attribuita all’azione di naziskin, «teste rasate» e fascisti d’ogni risma (che pure, intendiamoci, esistono e operano); e al Sud, naturalmente, di mafia e camorra. Si tratta di chiavi di lettura assai spesso fuorvianti: e che, naturalmente, servono a coprire (a non vedere) il profondissimo malessere sociale che purtroppo talvolta trova negli stadi (o negli «sballi» del sabato sera, per dirne un’altra) una occasionale valvola di sfogo.

Da questo punto di vista, proprio la vicenda di Napoli può essere considerata emblematica. La camorra esiste da almeno un paio di centinaia di anni, vessando, taglieggiando e uccidendo, e non è che sia cresciuta e si sia allenata intorno allo stadio San Paolo; il suo periodo di maggior potenza e organizzazione risale forse agli anni 80, con Cutolo e compari: ma proprio in quegli anni - al seguito di Maradona e Ciro Ferrara - i tifosi del Napoli invadevano di allegria e bonari sfottò le piazze e gli stadi di tutt’Italia. Perché, dunque, uomini della camorra non dirottavano treni allora e avrebbero preso a farlo oggi? Mistero. Risolto, per fortuna, dall’avanzare delle indagini della polizia, che hanno appunto portato a escludere una regia della delinquenza negli inaccettabili atti vandalici di domenica scorsa. Certo: esclusa la camorra, resta ora il problema di capire il come, il chi e il perché. Che è impresa, naturalmente, magari perfino più difficile.

E oltre che autoassolutori, infine, certi riflessi condizionati rischiano anche di essere assai disarmanti. Infatti, se ci fosse davvero la camorra a far da regista agli incidenti dentro e fuori gli stadi, questo significherebbe in fondo sancire - alla luce di quanto la storia recente insegna - una sorta di ineliminabilità del fenomeno. Si combatte - ma certo non si è sconfitta - la presenza della delinquenza organizzata in ogni sorta di attività, dal contrabbando all’edilizia, dalla finanza al taglieggiamento più minuto. Con qualche sorpresa per i più, nei mesi drammatici dell’emergenza rifiuti, si è appreso della gestione camorristica anche del ciclo di smaltimento della monnezza (che non è detto non continui...). Attribuirle anche l’occupazione e il dirottamento di treni a cura di migliaia di persone, è scoraggiante. E significa, in fondo, farle perfino un regalo. Intendiamoci: magari nemmeno gradito. Infatti che ci si guadagna - se non un mucchio di guai - a trasformare una domenica pomeriggio in un inferno?
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 13, 2008, 12:30:41 am »

12/9/2008 (7:49)

Che fine ha fatto la casta?
 
Contro gli sprechi della politica prima s'inveiva oggi molto meno

Da Fini alla Gelmini, viaggio in un filone che non tira più.

E una ricerca rivela: solo il 32% dei cittadini è ancora adirato

FEDERICO GEREMICCA


ROMA
Che sarebbe accaduto, un anno fa, se ad esser sorpreso a utilizzare un motoscafo dei vigili del fuoco per fare immersioni in un’area marina super-protetta fosse stato Fausto Bertinotti? I più zelanti, probabilmente, avrebbero calcolato perfino il costo del gasolio consumato e “pagato, naturalmente, da noi contribuenti!”. E se fosse stato il governo passato a riallargare i cordoni della borsa ed a riaprire i voli di Stato a tutti i ministri e perfino ai sottosegretari? Beppe Grillo ci avrebbe forse costruito attorno un altro Vday. Per non chiedersi, ovviamente, che tipo di gogna pubblica sarebbe stata organizzata - appena pochi mesi fa - se si fosse scoperto che un lombardissimo ministro dell’Istruzione che chiede rigore e serietà per la scuola (soprattutto quella al Sud) se ne era andato in Calabria a sostenere - e naturalmente superare - l’esame di abilitazione alla professione di avvocato. «Basta con la Casta!», avremmo strillato.

Adesso non si strilla più. O si strilla assai di meno. E onestamente, tolto qualche aumento di prezzi alla buvette di Montecitorio e la nomina di qualche membro di governo in meno (iniziative, soprattutto la seconda, incidenti e notevoli) non è che i costi della politica siano stati dimezzati o gli episodi di “malcostume da privilegio” spariti. E allora? «Allora - taglia corto don Gianni Baget Bozzo - quel che è accaduto mi pare chiaro: il tema della lotta alla Casta fu sollevato dalla sinistra contro i privilegi, l’enorme potere e le inefficienze della stessa classe politica di sinistra. Il vento dell’antipolitica nacque, infatti, precisamente dalla rottura tra vertice e base, a sinistra: e se vuole sapere la mia opinione, credo che la vittoria di Berlusconi sia stata vissuta come una liberazione - una liberazione dalla Casta, appunto - anche da chi non ha votato per lui».

Giudizio discutibile, naturalmente: ma ci si muove quasi più sul campo della sociologia dei comportamenti di massa che della politica, è molto - dunque - è opinabile, interpretabile. E infatti non è coincidente l’opinione di Ilvo Diamanti, sociologo e politologo di riconosciuta fama: «Guardi, prendersela con la Casta quando al governo c’è Berlusconi, è come prendersela col rumore quando ci sono i fuochi d’artificio». Compagno di banco al liceo di Gian Antonio Stella (autore con Rizzo, appunto, de “La Casta”), aggiunge: «Sono tanti gli elementi che hanno contribuito prima al sorgere del fenomeno e poi all’attuale eclissi. Innanzitutto, io credo, le molte aspettative di cambiamento - non avvenuto - evocate nel quinquennio berlusconiano e poi pagate dal governo Prodi. Il libro di Stella e Rizzo è stata la scintilla: ma perché certi fenomeni esplodano è necessario ci siano condizioni permissive. E queste erano, da una parte, la sfiducia verso l’inefficienza della politica e, dall’altra, il fatto che una Casta di sinistra è considerata davvero non accettabile».

Ma, appunto, la Casta è di sinistra? O comunque: è più di sinistra che di destra? «Non mi sentirei di sostenerlo - dice Eugenio Scalfari -. Però è un fatto che la bufera dell’antipolitica si è scatenata quando al governo c’era il centrosinistra; e un altro fatto è che il governo di allora, facendosi carico di fronteggiare l’indignazione dei cittadini, ha finito quasi inevitabilmente per trasformarsi in oggetto della contestazione. Si è ritrovato ad esser Casta, insomma, chi era al governo in quel momento: nonostante al governo ci fossero persone come Padoa Schioppa, Bersani, Visco e altri che francamente faticherei a definire Casta». Fatto sta che, dopo di allora, il vento s’è posato, l’indignazione è scemata, i giornali hanno smesso di parlarne. «Non è così - replica Scalfari -. I giornali hanno continuato a raccontare. Certo, qualcuno ha tambureggiato di più, qualcun altro di meno. E se nessuno ha più fatto campagna è perché i giornali prima di altri hanno capito che il tema tirava assai di meno».

E si torna, però, al punto di partenza. Perché l’indignazione per le spese della politica, i privilegi e il resto si è attenuata? Una ricerca delle Acli appena resa nota, rivela che oggi “solo” il 32% degli elettori nutre «rabbia» verso la Casta: una percentuale, potremmo dire, quasi fisiologica o comunque assai più bassa di quella che si registrava ancora pochi mesi fa. Perché? Nando Pagnoncelli, della Ipsos, offre una spiegazione molto pragmatica: «I cittadini hanno sempre considerato un male inevitabile i privilegi dei politici: l’esplodere della rabbia è semplicemente il sintomo di un malessere nella relazione, appunto, tra politica e cittadini. Le faccio un esempio: se porto mio figlio da un medico ed egli è scortese, sbrigativo ma guarisce il bambino, io non faccio caso alla sua maleducazione; ma se non lo guarisce, quella maleducazione diventa insopportabile.

Così è per la politica: il cittadino sa da sempre che costa molto ed è luogo di privilegio, ma se funziona e gli risolve i problemi, passa sopra a tutto il resto. Se invece costa molto ed è anche inefficiente, ecco esplodere il malessere. E’ questo - conclude Pagnoncelli - che forse spiega la differenza di clima dopo il passaggio da un governo a un altro: quello di Prodi era diventato sinonimo di liti e immobilismo; l’arrivo di Berlusconi ha portato fino ad ora il segno del “fare”, della concretezza e della novità che, finalmente, c’è qualcuno che decide». E’ davvero così? Giuseppe De Rita, sociologo e tra i fondatori del Censis, ci crede fino a un certo punto. «Le fiammate dell’opinione pubblica - dice - creano un evento, ma mentre lo creano gli scavano la fossa... E’ sempre stato così. Il fenomeno è rientrato, anche se non è detto che non riesploda da qui a qualche tempo. La Casta resta un problema serio, ma la fase è del tutto cambiata: oggi la gente s’appassiona al gossip. Delle foto di Fini in barca nel parco naturale non frega niente a nessuno. Delle foto di Fini che, sempre in barca, si fa carezzare dalla compagna, si è parlato per settimane. Oggi, come sa, si discute della fidanzata di Frattini. In Italia, del resto, è sempre andata così...».

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Settembre 26, 2008, 10:32:40 am »

26/9/2008
 
Rivince Berlusconi
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Il primo (Veltroni) dice: «Non mi assumo nessun merito, ma ho cercato di dare una mano in una vicenda gestita malissimo». L’altro (Berlusconi) manda a dire attraverso Cicchitto: «Veltroni non può cambiare le carte in tavola.

Prima ha puntato a far fallire l’operazione Cai, poi ha fatto marcia indietro quando ha capito che l’opinione pubblica era contro di lui». E così, il duello avviato la primavera scorsa, continua: su chi ha vinto e su chi ha perso, su chi è responsabile e su chi non lo è, su chi esiste e su chi è «inesistente», come il premier ebbe a dire proprio di Veltroni (salvo rettifica) qualche giorno fa. Certo, la conclusione è inequivoca: Alitalia agli italiani, disse Berlusconi in campagna elettorale, e Alitalia agli italiani è. Ma i leader di Cgil e Pd - in una partita che ha avuto più protagonisti e più poste in palio - hanno messo in campo un potere d’interdizione del quale il governo sbaglierebbe, per il futuro, a non tenere quantomeno conto.

La conclusione, dicevamo, sembra avvalorare la tesi sostenuta da Berlusconi sin dal primo irrigidimento della Cgil al tavolo della trattativa: pur di dare un colpo al governo - sostenne in sintesi il premier - il Pd è pronto a mandare in rovina l’Alitalia; pur di evitare il successo della cordata italiana da me evocata in campagna elettorale - aggiunse Berlusconi - Veltroni usa la Cgil per far saltare la trattativa. È una lettura plausibile di quanto accaduto? È certamente plausibile, e soprattutto è molto verosimile: ed è del tutto possibile che lo stato maggiore del Pd masticasse assai amaro, nei giorni scorsi, di fronte all’ipotesi che - dopo la soluzione del problema immondizia a Napoli - Silvio Berlusconi realizzasse anche la seconda (e più impegnativa) promessa fatta in campagna elettorale. Ciò detto, però, occorre mettersi d’accordo: perché o Veltroni è il «leader inconsistente» contro il quale il premier punta l’indice, e allora non si capisce da dove tragga il potere di far prima deragliare la trattativa per poi risistemarla sui giusti binari, mettendo faccia a faccia a pranzo Epifani e Colaninno; oppure non è poi così «inconsistente», e il presidente del Consiglio farebbe bene - allora - a rifare i suoi conti.

Infatti, all’ombra della vicenda Alitalia e dell’indubbio successo di immagine centrato dal premier, si sono giocate partite le cui dinamiche non lasciano presagire nulla di buono. È per esempio sembrato evidente il tentativo dell’esecutivo - attraverso ultimatum a ripetizione e annunci che «andremo avanti anche senza la Cgil» - di assestare un colpo al maggior sindacato italiano e perfino all’unità delle tre Confederazioni: occorre ricordare che una cosa simile accadde già nella legislatura 2001-06 (lì oggetto della rottura sindacale fu il cosiddetto «patto per l’Italia») e non si può dire che portò particolarmente bene. Ma altrettanto evidente è apparso l’obiettivo forse principale con il quale Epifani si è seduto al tavolo della trattativa: esercitare una sorta di diritto di veto per dimostrare che - al di là delle ragioni in campo - «senza la Cgil accordi non se ne fanno».

Non si tratta di dinamiche positive, come è evidente. Mettere - o tentare di mettere - la Cgil in un angolo mentre si avvia, per esempio, il confronto sulla riforma della contrattazione, non è certo il modo per aiutare una trattativa considerata da più parti decisiva; a maggior ragione, naturalmente, di fronte alle necessità di ammodernamento e razionalizzazione di cui il Paese ha bisogno, sarebbe dannoso e inspiegabile un arroccamento della Cgil teso a ribadire un potere di veto e interdizione del quale non si sente affatto il bisogno.

Ma più in generale, se è lecito esprimere un auspicio, sarebbe ora di dare un colpo di freno al clima da campagna elettorale continua che rischia di impadronirsi anche di questa legislatura. Piuttosto che a ripicche e rivincite personali, sarebbe meglio se maggioranza e opposizione - e i rispettivi leader innanzitutto - assolvessero al ruolo loro assegnato dagli elettori. Piuttosto che tentare di rendere irrealizzabili le promesse elettorali del premier, insomma, sarebbe certo più utile che Veltroni s’impegnasse alla costruzione di quell’opposizione propositiva e visibile che viene invocata dall’interno del suo stesso partito (tuttora penalizzato da qualunque sondaggio). E il presidente del Consiglio - sparito nel pieno della trattativa Alitalia per una cura rilassante in un castello umbro - farebbe cosa assai più produttiva impegnandosi per arginare la crisi economica in cui versa il Paese, precipitato ormai nel baratro della crescita zero. Si tratta, probabilmente, di auspici banali: ma certe volte, si sa, può servire perfino ripartire proprio dalle cose più banali.
 
da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 10, 2008, 09:41:38 am »

10/10/2008
 
"Ma la mia non è una ritirata"
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Immaginiamo che a quest’ora la luce stia come sempre prendendo d’infilata l’ufficio, facendo brillare gli spessi vetri delle due scrivanie, una delle quali interamente ingombra dei piccoli regali accumulati in questi anni, stendardi, oggettini, libri e gadget: Ferrari, innanzitutto.

Quando nacque Edoardo - il bambino per il quale il sindaco ha deciso di rinunciare a rifare il sindaco - Luca Cordero di Montezemolo inviò delle piccolissime scarpine «rosso Maranello», con tanto di simbolo e di auguri. Immaginiamo siano ancora lì, in bella vista... Ora però che il dado è stato appena tratto, ora che il peso è sceso via giù per lo stomaco, la voce di Sergio Cofferati tradisce infine un’emozione. Racconta: «L’altra sera, come tento di fare tutti i mercoledì, sono scappato da Bologna a Genova per stare con lui e Raffaella almeno qualche ora. L’ho visto, finalmente, muovere il primo passo. Solo uno: poi ha sculettato ed è caduto... Non è giusto che cresca senza padre. E non è giusto che la madre, a 35 anni, sacrifichi il suo lavoro per me che ne ho sessanta...».

E dunque sì, ci si può credere: quella di Sergio Cofferati è una scelta «di carattere strettamente personale», un bimbo e una donna che prevalgono sulla politica, uno stile forse più scandinavo che italiano, Paese dove storie così - a torto o a ragione - sono più che rare, e dove certo qualcuno starà commentando «Cofferati dev’essersi rincoglionito». Il «cinese» - il leader freddo e duro, il Garibaldi dei tre milioni al Circo Massimo - rinuncia a ricandidarsi, invece, esattamente e davvero per le ragioni che dice: ma immaginare che sulla sua scelta «personale» la politica non abbia influito, sarebbe ingenuo. Prima ancora che sbagliato. Per reciproca ammissione, infatti, il sindaco non-bolognese e la città non hanno mai legato. Ed è proprio in questo clima di gelida diffidenza - diffidenza politica, progettuale, per certi versi perfino identitaria - che Sergio Cofferati ha purtroppo dovuto tentare di risolvere i suoi problemi «di carattere personale». Senza riuscirci, naturalmente.

Racconta: «Cominciarono a dire e a scrivere che lasciavo mia moglie perché avevo messo incinta una ragazza: aspettava due gemelli. Sì, certi salotti si divertirono... I gemelli, naturalmente, non nacquero: e allora dissero che la ragazza aveva abortito. Poi si scoprì che la ragazza non era tanto ragazza, che era una professionista con un buon lavoro a Genova e allora cominciarono a dire - e a scrivere - che stavo maneggiando per farla trasferire a Bologna, visto che aspettavamo - e quella volta era vero - anche un bambino. Fui costretto a querelare il “Corriere”, non servì a nulla. Le cattiverie continuarono, con il risultato di rendere impossibile un ricongiungimento con Raffaella e nostro figlio Edoardo. Per altro, ne arrivassero di nuovi professionisti come lei a dare una mano a quelli che già lavorano per i teatri bolognesi...».

A sentirlo così, mentre ragiona con qualche pudore intorno a certi privatissimi fatti suoi, la tentazione è di raccontare questa storia come l’epilogo dello scontro tra due amori: quello sbocciato tra Cofferati, la sua compagna e loro figlio, e quello mai nato tra un bel pezzo della città e il suo «sindaco straniero». Il cinese, naturalmente, ci ha messo come sempre del suo a complicare le cose. Un rapporto difficile con l’«universo Prodi» - che a Bologna conta eccome - generato dal fatto che il Professore si legò al dito la circostanza di esser stato informato della candidatura di Cofferati a cose fatte. Un rapporto pessimo con il mondo della sinistra cosiddetta radicale, uscita dalla giunta comunale sull’onda della coraggiosa (e allora inedita) affermazione del cinese che «la sicurezza non è un valore di destra». Più di un problema con i potentati economici della città, abituati da decenni a parlare col sindaco in dialetto, e in naturale sintonia sul che fare, a chi farlo fare e quanto pagare. E perfino difficoltà con lo stesso Pd, preoccupato dalla «vocazione maggioritaria» invocata da Cofferati per le prossime elezioni comunali: «Al voto ci andiamo da soli, governare con gli ex alleati non è possibile».

Questo amore mai nato ha contato nella rinuncia del sindaco: e lo si capisce, naturalmente, dalle soddisfazioni esplicite e dalle felicità nascoste che hanno fatto seguito all’annuncio del cinese. Ora, certo, il Pd è nei guai. «Ma mai nessuno - sussurra Cofferati - che si sia alzato per dire che su di me si scrivevano e si dicevano della maialate». Eppure, tutto questo sembra essere una pagina davvero già voltata. «Non potevo chiedere a Raffaella di sacrificare il suo lavoro - riprende - né potevo pretendere - per lei, apprezzata a Genova - che venisse comunque qui, magari per farsi dire in strada “ecco la fidanzata del sindaco, ecco la raccomandata”. Ci ho provato a fare il pendolare, in auto avanti e indietro, a volte con Edoardo, che però non può crescere su un’autostrada. Niente da fare, non reggeva. Dovevo scegliere, l’ho fatto: e non si tratta di una ritirata...».

Sarà. Per il sindaco quasi ex, si parla di una candidatura alle europee. Si vedrà, ma al momento è ben altro quel che incombe. «A Bologna si può vincere lo stesso - dice - a condizione che non comincino interminabili balletti e il gruppo dirigente individui subito il suo nome per le primarie». Inutile chiedergli se abbia informato Romano Prodi della decisione di lasciare. «È tanto che non lo sento...», dice. Tanto quanto? «Lo chiamai quando decisi di dare la mia disponibilità a concorrere per un secondo mandato. “Bene - mi disse -. Io me ne sto andando in Africa...”». Ora la grande famiglia del Professore è in fermento, come - del resto - tutto il Pd. Loro, si dice, avrebbero almeno un paio di candidati da mettere in pista. Si vedrà. Certo, sono in tanti a sembrar contenti. Per il sindaco pendolare, in fondo, forse una motivo per imboccare l’autostrada verso Genova con qualche senso di colpa in meno e un po’ di sollievo in più...
 
da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 23, 2008, 04:48:39 pm »

23/10/2008
 
Di piazza in piazza
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Si possono avere le più diverse opinioni critiche, naturalmente, sulla manifestazione nazionale che il Partito democratico ha messo in cantiere per sabato a Roma. Intanto, andrebbe annotato come il suo profilo sia cambiato nelle ultime settimane, e come sia diventata soprattutto la protesta della scuola - che agita le piazze, già collegandole idealmente ai cortei di sabato - la spina dorsale di una iniziativa che era stata lanciata su temi assai diversi.

Si può giudicarla comunque inopportuna, considerati i venti di crisi che soffiano sul Paese; o immaginare che serva più al Pd, impegnato a serrare le file, piuttosto che all’Italia; o ipotizzare, addirittura, che rischi di diventare un pericoloso boomerang per Walter Veltroni, che tanto ci ha investito. Su una cosa, al contrario, si dovrebbe esser tutti d’accordo: che la manifestazione di sabato sia pacifica e che possa svolgersi con tranquillità e senza incidenti. Ma se questo è l’auspicio che dovrebbe accomunare maggioranza e «opposizione responsabile», allora non si può non rilevare come le dichiarazioni rilasciate ieri dal presidente del Consiglio - intorno all’intenzione di far intervenire la polizia nelle università e nelle scuole occupate - non rappresentino certo una iniezione di pacatezza e di serenità.

Infatti, che sia stato o no voluto, il risultato prodotto dall’annuncio di Berlusconi è stato quello di saldare idealmente in un unico fronte i vari movimenti di protesta - a partire da quello studentesco - che inevitabilmente cominciano ad agitare un Paese sull’orlo della recessione. E non a caso, da più parti si è così levata la richiesta che i cortei annunciati per sabato a Roma vengano ora aperti «a tutte le forze antiberlusconiane della società civile» (Flores d’Arcais, direttore di MicroMega): con il risultato, se questo avvenisse, di mutare il senso dell’iniziativa del Pd, trasformandola in una riedizione di qualcosa che questo Paese ha già conosciuto (l’antiberlusconismo pregiudiziale e viscerale), che il centrosinistra ha già pagato e per la quale Silvio Berlusconi incassa da anni lauti dividendi politici.

Non sappiamo, appunto, se è con questa intenzione (schiacciare l’opposizione del Pd su posizioni radicali) che il presidente del Consiglio ha voluto alzare la tensione e i toni della polemica, prima di partire alla volta della Cina. È un fatto, però, che la via tracciata non pare certo fatta per convincere studenti, insegnanti e genitori che la riforma voluta dal ministro Gelmini e approvata ieri per decreto (il ventitreesimo in cinque mesi) e con voto di fiducia (il settimo dall’insediamento del governo) sia la ricetta giusta per risistemare almeno un po’ la scuola italiana. Del resto, da almeno trent’anni non c’è esecutivo - compresi i precedenti governi del Cavaliere - che non si sia puntualmente ritrovato, ad ogni autunno, a dover fare i conti con i disagi e le proteste del mondo universitario e studentesco: ma non si ricorda, a memoria, che la risposta a cortei e occupazioni sia stata l’irruzione di poliziotti in assetto antisommossa in scuole e atenei.

Può darsi che in passato si sia esagerato col lassismo. Ed è fuor di dubbio che vada garantito a studenti e insegnanti il diritto a frequentare scuole e università, checché ne dicano assemblee autogestite e comitati di base. Ma passare da un eccesso all’altro non è mai una buona ricetta. Anche perché si creano precedenti potenzialmente pericolosi. «Che accadrà se e quando a protestare saranno gli operai delle fabbriche in crisi? - ha chiesto ieri Veltroni -. Si manderà la polizia anche lì?». Un ripensamento - e l’approdo ad una linea di maggior equilibrio - è dunque auspicabile, perché anche il decisionismo e il polso fermo hanno un confine che è rischioso oltrepassare. Va bene l’euforia e il senso di sicurezza che arrivano dai sondaggi; ed è certo comprensibile l’ebbrezza da «decisione rapida» prodotta dal legiferare per decreto e con voti di fiducia (efficienza e decisioni veloci continuano ad esser assai apprezzate dai cittadini). Ma una cosa è mandare più poliziotti a Caserta e l’esercito davanti alle discariche napoletane, e altra è «militarizzare» scuole e università. Si convinca, il premier, che quella via - oltre ad esser sbagliata - non gli porterà il consenso non solo degli studenti, ma probabilmente nemmeno quello di docenti e genitori. Senza contare il rischio, naturalmente, di trasformare la manifestazione di sabato in un evento ad alta tensione ed esposto ad ogni provocazione.
 
da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 26, 2008, 08:49:07 am »

26/10/2008
 
Ripartenza d'autunno
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
In preda ad una sorta di sindrome da overdose - come nella settimana che precede un’importante partita di calcio, durante la quale se ne dicono e se ne sentono di tutti i colori - commentatori, osservatori e quella che potremmo definire «società politica», in senso lato, aspettavano questo 25 ottobre a caccia di risposte che non sempre una piazza può offrire. È davvero moderno e riformista, questo Pd, che se ne va in corteo contro il governo in un momento così difficile per il Paese? In rapporto alla forza che mostrerà, la manifestazione cambierà il corso delle cose nel confronto tra maggioranza e opposizione o resterà tutto come prima? E soprattutto: esiste il Pd ed ha un futuro, e quanto è rimasto dell’opposizione in un Paese che regala al governo in carica gradimenti da Bengodi o da sistema autoritario? La folla di ieri al Circo Massimo non poteva dare risposte a tutto, eppure qualcosa l’ha detta. Per esempio che, seppur frastornato dalla sconfitta elettorale, reduce da mesi difficili ed alle prese con divisioni vecchie e nuove, il Pd - benché ondeggiante - è ancora in piedi.

Verrebbe da dire, appunto: esiste. Ed è dimostrazione di non poco conto, se si considera l’affermazione di «inesistenza» indirizzata di recente dal premier al capo dell’opposizione; o se si ricorda che addirittura la sua Festa nazionale - un paio di mesi fa - fu raccontata come la Festa del «partito che non c’è». Il Pd, invece, ieri ha dimostrato di esserci: e per quanto se ne possa ricavare da una manifestazione (ed a volte se ne può ricavare tanto) non sembra neppure quella forza facinorosa e irresponsabile che il premier gradirebbe come opposizione. Ha un mucchio di problemi - ne parleremo -, sembra passare il tempo a guardarsi l’ombelico, fatica a strutturarsi ma insomma - a giudicare dai cori e dagli striscioni con i quali ha sfilato ieri - è imputabile forse di scarsa grinta, non di un eccesso di aggressività.

Dunque, l’esistenza in vita del Pd - ammesso che questo fosse un argomento serio - è problema risolto: e non sarebbe male se anche il presidente del Consiglio ne tenesse conto (considerato che alcune sue recenti affermazioni potrebbero davvero aver perfino aiutato - lo ammettono gli stessi organizzatori - la riuscita dei cortei di ieri). Il problema, naturalmente, è che cosa farsene di questa esistenza in vita: e cioè se e come rimodulare pratica e strategia di un’opposizione che continua a non convincere la parte largamente maggioritaria del Paese. Dai cori e dagli striscioni dipanati ieri non poteva certo giungere l’indicazione di una via. A questo doveva pensarci - e del resto era quel che gli avevano chiesto altri leader, da D’Alema a Rutelli - il discorso del segretario: che non ha però introdotto novità significative rispetto alla linea fin qui seguita. Nella sostanza: dopo settimane di polemiche sempre più aspre (e da alcuni spiegate addirittura con la necessità di tener alta la tensione proprio in vista della manifestazione) ieri da Veltroni ci si attendeva un segnale chiaro soprattutto in questa direzione.

L’attesa più giustificata, onestamente, non era tanto intorno alla presunta «proposta alternativa» che sarebbe uscita dal Circo Massimo, quanto - piuttosto - quella di un messaggio chiaro alla «società politica» e al Paese: da oggi tentiamo una ripresa del confronto con Berlusconi, considerata l’emergenza e tutto il resto; oppure un altrettanto netto no al dialogo, in nome e alla luce dei primi mesi del governo del Cavaliere. Se non ci siamo persi passaggi cruciali del discorso di Veltroni, né l’uno né l’altro. Tutto più o meno come prima. E però prima non è che fosse un granché per il Pd, con problemi di alleanze (Di Pietro), con orizzonti che preoccupano (l’Abruzzo, poi le amministrative e le Europee), con problemi perfino circa il carattere dell’opposizione da condurre e la propria natura identitaria.

Passato il 25 ottobre, insomma, da questo punto di vista poco o nulla sembra cambiato. E le domande restano quelle di prima. Ricucire con Di Pietro oppure no? Meglio lui, l’Udc o addirittura il ritornare tutti assieme? E con Berlusconi che si fa, si prova a discutere ora che si profila un possibile disastro o si sceglie l’Aventino? Alcuni di questi interrogativi hanno interesse, diciamo la verità, soprattutto per il Pd e i propri militanti; altri riguardano - invece - il clima, l’equilibrio e il futuro prossimo del Paese. Le risposte, dunque, sono importanti. Insomma: ieri il Pd ha dimostrato di esser vivo; da oggi spieghi meglio al Paese che cosa vuol fare, per andare dove e assieme a chi.

 
da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 30, 2008, 11:15:33 am »

30/10/2008
 
Eccessi muscolari
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Che il confronto politico stesse scivolando lungo un insidioso piano inclinato, era sensazione diffusa ormai da settimane. La giornata di ieri - con l’ennesimo braccio di ferro al Senato sul decreto Gelmini e gli scontri tra studenti in piazza Navona - ha però rivelato come la situazione stia precipitando con una rapidità che non può non preoccupare. È possibile - naturalmente - che non sia già troppo tardi per trovare una via che riapra uno straccio di confronto tra governo e opposizione, e tiri fuori il Paese dal suo ultimo paradosso: il massimo della divisione sociale e politica (con punte di astio personale che rinviano direttamente alla passata, e non rimpianta, legislatura) proprio nel momento in cui vi sarebbe bisogno del massimo della coesione.

Il governo perde consensi ed è rapidamente sceso sotto la soglia del 50%; l’opposizione non ne guadagna, e anzi ne raccoglie sempre meno; il Paese appare preoccupato e diviso a metà: e in questo quadro, fatto di sfiducia crescente e confusione, i cittadini attendono gli effetti di una crisi economica che renderà nervoso e stentato il Natale di molte famiglie italiane.

Verrebbe da chiedersi com’è stato possibile e cosa sia successo: se non fosse che quello che accade (non sono trascorsi ancora sei mesi dall’insediamento del governo di Silvio Berlusconi) è quotidianamente sotto gli occhi di tutti. Non vorremmo sbagliare: ma la sensazione è che l’esecutivo prima di tutto - e poi il Paese nel suo complesso - inizino a pagare il conto di una politica di governo «muscolare» che in Italia, del resto, non ha portato mai bene a nessuno. Quello che è stato vissuto come un «attacco» generalizzato a intere categorie - dagli impiegati fannulloni ai giudici da far passare attraverso i tornelli, dai docenti universitari trasformati tutti in «baroni» a studenti e genitori definiti ora facinorosi ora vittime di strumentalizzazioni - ha seminato ansia e preoccupazione in un momento in cui era ben altro ciò di cui si sentiva il bisogno. La fase del «decisionismo produttivo» (quello della rimozione dell’immondizia a Napoli e dell’invio di militari nelle zone ad alta densità camorrista) sembra insomma alle spalle, sostituito da una durezza apparsa a molti degna di miglior causa. Non a caso, tanto sull’operato del ministro Gelmini quanto su quello del professor Brunetta - che rischia di surclassare in popolarità l’indimenticato Visco - cominciano ad addensarsi perplessità all’interno della stessa maggioranza.

E se questo è lo stato d’animo che pare crescere nel Paese, la situazione è ancor peggio a livello di rapporti tra esecutivo e opposizione. Ventitré decreti in poco più di cinque mesi (ne era annunciato addirittura uno per punire chi sporca le città) e sette voti di fiducia, non hanno certo favorito quella che si è soliti chiamare «dialettica parlamentare». Né si può dire che vada meglio per quel che riguarda i rapporti tra il presidente del Consiglio e il Capo dello Stato, destinatario di una brusca risposta per aver chiesto, un paio di giorni fa, che la nuova legge elettorale europea venisse approvata con ampio consenso e garantisse rappresentanza anche alle forze minori. Ieri, il premier - di fronte a obiezioni e resistenze provenienti dalle file della sua stessa maggioranza - ha per la prima volta deposto le armi: senza un’ampia maggioranza, si voterà con la legge che c’è. È una decisione positiva: perché è sempre meglio non dare battaglia piuttosto che darne di sbagliate o di perdenti.

Che la decisione di Berlusconi preluda a una sorta di correzione di rotta, dopo l’ebbrezza da decisionismo e consensi in cresciuta, potranno però dirlo solo le prossime mosse del premier. Infatti, al di là dello spirito ondivago e spesso pregiudiziale dell’opposizione, è sulle spalle di chi governa che grava il dovere dell’ascolto e della mediazione. Berlusconi più di altri dovrebbe sapere che guida un Paese che, per esempio, invoca e ama le decisioni forti solo quando riguardano gli altri: oggi la reazione del mondo della scuola, e ieri la rivolta di molte categorie di fronte alle liberalizzazioni di Bersani, dovrebbero cancellare ogni dubbio in proposito. Lui stesso, del resto - nel 1994, agli esordi come uomo di governo - pagò con un’inattesa defenestrazione un eccesso di disinvoltura e di decisioni solitarie. Ragione in più per non rifare lo stesso errore, provare a tornare al clima d’inizio legislatura e preparare il Paese a fronteggiare una crisi economica certo pesante e dagli effetti ancora oggi non del tutto prevedibili.
 
da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Novembre 20, 2008, 11:24:59 am »

20/11/2008
 
Buona politica?
 
FEDERICO GEREMICCA

 
In qualcuno ha suscitato perfino sentimenti di tenerezza l’entusiasmo sincero col quale Sergio Zavoli - grande giornalista mai calatosi appieno nei panni del politico - ha commentato la possibilità che proprio il suo nome possa finalmente mettere la parola fine allo spettacolo deprimente andato in scena per mesi intorno all’elezione del presidente della Commissione di Vigilanza Rai: «Sono soddisfatto per la politica - ha fatto sapere Zavoli -. È essa stessa, stavolta, a risolvere un problema... È un epilogo che non alimenta il discredito, che non permette un altro tiro al bersaglio contro il Parlamento». Ci sarebbe da esser tutti soddisfatti, se le cose stessero così. Ma purtroppo, in tutta evidenza, non sembrano affatto stare così.

Intanto perché l’epilogo ancora non c’è, Riccardo Villari - presidente eletto - resiste al suo posto di presidente della Vigilanza e l’interrogativo «si dimette, non si dimette» è tutt’altro che risolto. E poi perché la politica centra un buon risultato - se lo centra - quasi per stato di necessità, per sfinimento e dopo avervi resistito per settimane e settimane. Si fosse puntato su Sergio Zavoli volontariamente e dall’inizio, molte cose ci sarebbero state risparmiate.

Ci sarebbero stati risparmiati insulti e «pizzini», minacce e decine di votazioni andate a vuoto. Fu fatta, invece, una scelta discutibile e diversa: e quella scelta si è rivelata, soprattutto per Walter Veltroni, moltiplicatrice di tanti guai.

Infatti, non può esser stato che un malinteso senso della lealtà a spingere il leader del Pd a sostenere fino all’ultimo - e con molti dissensi all’interno del suo stesso partito - la candidatura di Leoluca Orlando alla guida della Commissione di vigilanza. Altre ragioni, onestamente, non se ne vedono: né la competenza specifica, né un profilo «di garanzia», né lo stile stesso del candidato, persona certo onesta ma arrivata - nel pieno della polemica intorno alla sua elezione - a paragonare il premier a un dittatore argentino. A dirla tutta, in molte occasioni si è avuta addirittura la sensazione che Antonio Di Pietro tenesse in pista Orlando più per farne una «vittima» da utilizzare propagandisticamente contro Berlusconi (e chissà: domani contro Veltroni) che nella speranza che venisse davvero eletto. Per altro, l’escalation polemica degli ultimi giorni - con il premier fatto oggetto di ogni sorta di attacco - sembra esser lì a dimostrarlo.

Del resto, anche l’insistenza veltroniana a tener duro sul nome dell’ex sindaco di Palermo è apparsa in certi momenti difficilmente comprensibile. Ben presto, infatti, la candidatura di Orlando è apparsa a tutti figlia di un’altra stagione politica, eredità di un «patto» (quello tra Pd e Italia dei Valori) mandato in frantumi dallo stesso Di Pietro, prima con il venir meno all’impegno della formazione di gruppi parlamentari comuni e poi addirittura con polemiche sgradevoli all’indirizzo dello stesso Pd. Nel volgere di qualche settimana, insomma, il «partito del giudice» si è trasformato - per il Pd - da alleato al più insidioso dei competitori. E in fondo, se c’è una morale politica da trarre dall’ormai noto episodio del bigliettino passato da Nicola Latorre a Italo Bocchino durante una puntata di Omnibus (La7) è proprio questa: dovendo scegliere nel pieno di una polemica chi aiutare tra un esponente dell’Italia dei Valori (Donati) e un rappresentante della maggioranza di governo (Bocchino), il senatore Latorre non ha avuto dubbi. E ha dato una mano al deputato del Pdl.

È per tutto questo che l’entusiasmo di Sergio Zavoli («Ha vinto la politica») ha suscitato qualche tenerezza. Ha vinto (ammesso che finisca così) il male minore, ha vinto l’uscita d’emergenza da una situazione fattasi - per il Pd - di difficilissima gestione. Difficile, al contrario, sostenere che abbia vinto la politica, scrivendo finalmente una bella pagina. E ancor più difficile è affermarlo a bocce non ancora ferme: la partita infatti non è chiusa, visto che Riccardo Villari tiene stretta la sua presidenza contro ogni logica politica e in virtù del richiamo - onestamente poco credibile - a presunte «responsabilità istituzionali». Ecco, se la buona politica ha ancora spazi di agibilità, intervenga su questo, sull’epilogo, convincendo Villari che era stato tutto uno scherzo. Certo non potrà dire - come auspica Zavoli - di aver vinto: ma di aver contribuito a una qualche accettabile conclusione, questo almeno sì.
 
da lastampa.it
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 24, 2008, 02:18:52 pm »

24/11/2008
 
Pd, la guerra dei trent'anni
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Il moltiplicarsi dell’insofferenza ha ormai quasi l’intensità del rigetto. E l’esasperazione comincia a tracimare in invettive sanamente prepolitiche: «La mia decisione è figlia di una delusione profonda».

Lo ha scritto l’altro giorno Irene Tinagli, 34 anni e una cattedra a Pittsburgh, annunciando le sue dimissioni dalla Direzione del Pd: «Non sarebbe male se Veltroni e D’Alema si dimettessero: mi pare che abbiano fatto più danni della grandine». Esagerata. Ma Piero Fassino (e proprio in un’intervista a La Stampa) pur non arrivando a tanto, ha fatto sapere che anche lui non ne può più. «Il continuo duello tra Orazi e Curiazi serve solo a sfibrare il partito e la nostra gente...». Già, il Partito. Che quei due, per altro, non possono considerare roba loro: «Ai sostenitori di Veltroni e D’Alema che se le danno di santa ragione appena possono - ha avvertito Europa, un tempo quotidiano della Margherita - qualcuno dovrebbe spiegare che i mobili di casa non li hanno portati solo loro. Dunque sfasciarli non è loro diritto...».

E’ come se d’improvviso, quasi a cercare una risposta alla grandinata di guai che ha ripreso a venir giù, il cerchio avesse quadrato: è la Guerra dei Trent’anni tra Veltroni e D’Alema che sta uccidendo il futuro del Pd. D’incanto, tutto sembra chiaro a tutti. O forse, d’incanto, hanno semplicemente trovato il coraggio di dirlo. Perfino Enrico Letta se n’è convinto. E l’ha comunicato: naturalmente con la prudenza dovuta a un potenziale successore. «Se tutto il partito dovesse dividersi tra dalemiani e veltroniani - ha spiegato al Corriere - questo rischierebbe di far passare il Pd per la mera continuazione dei Ds: e l’intero progetto fallirebbe». Fallirebbe l’operazione Partito Democratico, insomma. Con le immaginabili conseguenze: compreso il percorso a ritroso di cattolici e moderati, che probabilmente tornerebbero nei luoghi da dove erano partiti, lasciando a Walter, a Massimo e ai loro seguaci il piacere di concludere con calma la carneficina.

Non sta scritto da nessuna parte, naturalmente, che le cose stiano davvero così: e cioè che i travagli del giovane Pd nascano realmente da lì. In fondo, però, non è importante: perché il guaio - per Walter e Massimo - è che il partito va convincendosi che sia proprio così. Rosy Bindi - è noto - è una che non ha peli sulla lingua: e la sua analisi è oggettivamente spietata. «Il nostro problema non è che c’è questa faida: il nostro problema è che c’è soltanto questa. Il Pd non vive scontri autoctoni, legati al partito che siamo e ai problemi che abbiamo da quando siamo nati. Si litiga con la testa voltata all’indietro, D’Alema contro Veltroni, appunto, rivincite e vendette che vengono dal passato. Ma le pare, dico per dire, che noi dovremmo fare un congresso perché lo chiedono i dalemiani contro i veltroniani? Ed è vero che Veltroni non dà spazi, non coinvolge, ci fa apprendere le cose dai giornali: ma le sembra che si possa reagire facendosi la propria televisione, la propria associazione, il proprio giornale, i propri candidati alle segreterie di questo o di quell’altro? Sono dinamiche da “Cosa 4”, da evoluzione post-diessina. Ma guardi che se stiamo parlando di questo, loro devono sapere che molti se ne andranno».

Stiamo parlando di questo? E’ dunque davvero la Guerra dei Trent’anni che, dopo aver insanguinato i territori del Pds prima e dei Ds fino a un anno fa, sta ora fiaccando anche il Pd? «Vediamo il Pd preda di una coazione a ripetere, sempre gli stessi gesti da parte degli stessi attori calati nelle medesime parti - accusa Europa -. Ma noi non siamo arrivati a fare il Pd per assistere all’infinito replay dello stesso film...». Basta, dunque, con Walter e Massimo. Basta con una faida della quale non si ricorda più nemmeno l’origine. Basta con quei due. L’insofferenza cresce, e rischia davvero di trasformarsi in rigetto. Perfino Claudio Velardi - stratega del dalemismo vincente - riconosce che è così: «Al di là degli opportunismi e delle tatticucce del gruppo dirigente - dice - è il partito che non ne può più. Ieri un importante dirigente periferico di una importante regione, mi ha fatto una battuta che voleva essere ironica, ed è invece drammatica: “Quei due, Walter e Massimo, finiranno col tirarsi le dentiere”...».

C’è naturalmente chi sostiene che la loro sia una guerra finta. O meglio: pronta a diventare armistizio in nome dell’opportunità. «Si sono affrontati in campo aperto - ricordava l’altro giorno Andrea Romano su Il Riformista - in un’unica occasione, nell’ormai lontanissimo 1994. Poi hanno scelto il metodo della reciproca e alternata investitura, come regime di convivenza e convenienza». E’ così? La storia dei partiti nei quali hanno militato, dice che è certamente così. Il che non è affatto rassicurante per il futuro del Pd, considerato che sia il Pci, che il Pds e infine i Ds si sono estinti senza riuscire a vedere la fine dell’estenuante duello. Anche oggi, in verità, non si vede via d’uscita, non si scorge in giro chi abbia voglia e qualità per impugnare la spada e liberare il Pd dall’incantesimo.

Dunque, il basta con Walter e Massimo rischia di rimanere quel che è: un sussurro a labbra semichiuse. E dunque, non è soltanto colpa loro se la faccenda resta al punto in cui è. «E’ colpa anche dei cosiddetti giovani dirigenti, dei leoncini in ascesa che prima di lanciarsi nell’agone cercano la protezione di un qualche dirigente grande - annota Velardi -. Ci vuole che venga fuori qualcuno con un progetto e con tanto coraggio: perché è chiaro che appena li sfiderà, Veltroni e D’Alema cercheranno di liquidarlo. Ci vorrebbe uno come Umberto Bossi, l’ultimo leader, uno che vent’anni fa cominciò a battere le sue valli radicando il partito intorno a un progetto. Ecco, io credo che o va così, oppure niente. Perché dei giovani leader cresciuti come polli in batteria, Walter e Massimo ne fanno polpette». Come ieri. O come anche l’altroieri...
 
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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 01, 2008, 03:18:26 pm »

1/12/2008
 
Veltroni e la questione morale
 
FRANCESCO GEREMICCA

 
Mentre la polemica intorno all’aumento dell’Iva per le pay-tv spacca il mondo politico, alle prese con l’ennesimo caso di conflitto d’interessi del premier, in arrivo dalla periferia nuvoloni scurissimi s’addensano sul maggior partito d’opposizione.
La drammatica vicenda dell’assessore napoletano Nugnes, offrendo l’occasione di rielencare i più recenti casi di malapolitica e corruzione nella gestione del potere locale, conferma un dato non contestabile.

La predisposizione a ruberie e malaffare attraversa ormai orizzontalmente entrambi gli schieramenti, così da aver tolto alla sinistra (e alla destra del tempo che fu) il rivendicato e presunto monopolio in materia di «questione morale». Non è una gran scoperta - si osserverà - ed è probabile sia così. Il problema è, però, che c’è chi ancora fatica a trarne tutte le conseguenze.

L’inchiesta di Napoli (e un’altra, ancor più pesante, che sarebbe sul punto di esser chiusa nel capoluogo campano) per il Pd rappresenta solo l’ultima pietra di un «rosario» di scandali giudiziari che sta flagellando amministrazioni e partito, da Nord a Sud. Genova con l’indagine sulle mense, l’Abruzzo con l’arresto di Del Turco, Firenze con due assessori nel mirino (uno dei quali, Graziano Cioni, in corsa per il dopo Domenici), Crotone con le indagini su politica e ‘ndrangheta sono i casi più noti di questa catena di guai. Ma in Comuni più piccoli, quelli che di rado conquistano le prime pagine dei giornali, non è che le cose vadano diversamente. E così, se ce ne fosse bisogno, le vicende degli ultimi mesi testimoniano che davvero la «questione morale» non ha più paladini immacolati. Dovrebbe discenderne che sulla «questione morale» è impossibile per chiunque costruire una politica, e tentare di raccogliere consensi.

Non è un bene, naturalmente. Però è un fatto. Che fa a pugni, talvolta, con certe presunzioni di «diversità» che ancora affollano, per esempio, il cosiddetto «immaginario veltroniano». Non è qui tanto in causa il frequente richiamo a certo berlinguerismo di maniera, oppure l’evocare il tema come aspirazione e meta cui tendere (l’onestà dovrebbe pur essere un prerequisito nella selezione delle classi dirigenti!): è in discussione, più concretamente, il riproporre oggi - facendone discendere opzioni politiche - un’attuale, presunta diversità. Qualcuno forse ricorderà quale fu lo slogan che segnò (un mese fa) la grande manifestazione del Circo Massimo, a cui centinaia di migliaia di militanti accorsero alla ricerca di indicazioni politiche che dessero certezze dopo le polemiche dell’estate: «esiste un’altra Italia» (sottinteso: quella onesta e pulita del Pd). E secondo molti è ancora in questa fascinazione da «questione morale», da partito «diverso», che va cercata la chiave della discussa e disastrosa alleanza (col senno di prima e anche con quello di poi...) con l’Italia dei Valori di Tonino Di Pietro.

In verità, la «via etica» alla conquista del governo del Paese avrebbe dovuto essere definitivamente accantonata già prima della deprimente sequela di scandali e indagini di questi mesi: essendo stata proprio la presunta «superiorità morale» nei confronti dell’avversario politico il cemento di quell’antiberlusconismo così criticato da Walter Veltroni. A maggior ragione dovrebbe esserlo dunque adesso, nonostante le ripetute tentazioni offerte da quel che a volte accade nello schieramento avverso. Inoltre, è noto che la micidiale logica cosiddetta «giustizialista» può comportare prezzi alti e, soprattutto, non ammette cedimenti e deviazioni. Per esser chiari: nessuno può oggi contestare al leader del Pd i comportamenti (a volte risalenti al passato) di questo o quell’amministratore locale, ma certo gli si può chiedere di esser conseguente.

In questo senso, anche se passata quasi sotto silenzio, la decisione del leader democratico di permettere a Graziano Cioni - nonostante tutto - di partecipare alle primarie per la scelta del candidato sindaco a Firenze è incomprensibile. Il garantismo, qui, c’entra poco. La scelta, infatti, è discutibile e contraddittoria non solo sul piano etico (che pure dovrebbe avere un rilievo), ma anche su quello politico. Che segnale manda ai cittadini e che forza avrebbe - in caso di vittoria alle primarie - la candidatura di Cioni, indagato per corruzione, a sindaco di Firenze? Insomma, di fronte alla catena di scandali che va in scena in provincia, nessuno può chiedere a Veltroni di rispondere di scelte passate: ma di esser coerente con le affermazioni di oggi, questo almeno sì.

da lastampa.it
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 09, 2008, 03:16:11 pm »

9/12/2008
 
Pd, la sfida è adesso
 
FEDERICO GEREMICCA

 
Da una parte l’incudine di una questione morale salita agli onori della cronaca, dall’altra il martello berlusconiano di una riforma della giustizia brandita come una spada.

In mezzo c’è il Pd che cerca di mettere ordine nell’agenda delle sue emergenze politiche e fatica a trovare il bandolo della matassa. Tale difficoltà non è del resto incomprensibile, se solo si pensa che la settimana scorsa si era aperta con l’ennesima polemica tra veltroniani e dalemiani e si era poi invece chiusa con le immagini del sindaco di Firenze incatenato a un palo per protesta. E prima c’erano stati la querelle sulla collocazione europea del partito, l’interminabile confronto su congresso sì-congresso no, la lacerante discussione intorno alla necessità (o all’inopportunità) di un «Pd del Nord», e chi più ne ha più ne metta. Un avvitamento polemico che stenderebbe un partito forte e in salute come un toro: e dunque figuriamoci una formazione politica che ha avuto il suo battesimo elettorale appena otto mesi fa ed è ancora alla ricerca di una più netta identità... Il fatto, però, è che nulla - in verità - lascia presagire che la settimana appena aperta sarà meno avara di dispiaceri per Walter Veltroni e il suo partito.

Il Pd è alla vigilia di una sconfitta elettorale (quella abruzzese) che, per quanto largamente scontata e attesa, rischia di acuire ulteriormente lo stato di tensione tra i democratici. È prevedibile che anche dal voto di domenica in Abruzzo qualcuno trarrà motivi di polemica (per la scarsa difesa di Del Turco, magari, o per aver deciso di far correre il Pd dietro le insegne di un candidato-presidente dipietrista...), aggiungendo così confusione a confusione. Ma soprattutto dalla partita che si va aprendo sulla riforma della giustizia rischiano di arrivare i guai maggiori. Accettare di affrontare oggi un confronto sul più antico e tradizionale terreno di scontro col Cavaliere - la giustizia, appunto - espone infatti il Pd a due rischi. Il primo è che l’apertura al dialogo possa essere interpretata come una sorta di «vendetta» nei confronti della magistratura, che mette sotto inchiesta i suoi amministratori dalla Calabria fino alla Liguria; il secondo è di lasciare ad Antonio Di Pietro l’esclusiva dell’«antiberlusconismo giustizialista»: una miscela che con il riemergere di vere o presunte questioni morali potrebbe tornare a esercitare un qualche fascino su settori non proprio marginali dell’elettorato.

Si tratta di rischi che però, giunti al punto cui sono arrivate le tensioni anche all’interno della magistratura, il Pd ha l’obbligo di correre. Per troppi anni il vecchio Pci ha pagato - in termini di evoluzione riformista - il dogma secondo il quale la propria linea politica non doveva mai lasciar spazi occupabili alla propria sinistra: sarebbe davvero paradossale se il Pd - che è naturalmente tutt’altra cosa dal Pci - si ponesse oggi un problema simile, e per di più nei confronti del partito personale di Antonio Di Pietro. Del resto, la richiesta di una riforma del funzionamento della giustizia in Italia arriva ormai da settori sempre più ampi della stessa magistratura; per non parlare, naturalmente, di quanto la necessità di un intervento sia reclamata - e non da oggi - da chiunque abbia la sventura di metter piede in un’aula di tribunale.

Dunque, tra le tante cose che potranno aiutare il Pd di Walter Veltroni a uscire dal guado, forse c’è anche questo: il superamento della barriera che ha fin qui reso impossibile un confronto sulla giustizia, ogni volta che a proporlo è stato Silvio Berlusconi. Ma intendiamo un confronto, certo: non un diktat, un decreto da votare, come è accaduto per la manovra prima e per il pacchetto anti-crisi poi. In questo caso, rifiuti e ritirate sarebbero inevitabili, oltre che comprensibili. E la possibilità di un dialogo vero non potrebbe che sciogliersi di nuovo come neve al sole.
 
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 15, 2008, 05:47:12 pm »

15/12/2008 (7:39) - REPORTAGE

Pd alla prova nell’isola felice
 
Il "modello Bologna" cerca il dopo-Cofferati restando fuori dalle bufere giudiziarie


FEDERICO GEREMICCA


A metà mattinata Sergio Cofferati passeggia con la compagna e i suoceri sotto i portici del centro, ed eccola lì la ragione del gran ritiro, l’oggetto della «scelta di vita».

La causa scatenante senza la quale molte cose, anche in questo gelido mattino, sarebbero assai diverse: Edoardo Cofferati dorme tranquillo nel passeggino, isolato dal resto del mondo da un cupolino di cellophane che lo difende dal freddo. Il papà-sindaco spinge e spinge: e intanto nei quartieri della città migliaia di bolognesi vanno alle urne allestite dal Pd per scegliere chi dovrà provare a raccoglierne il testimone. Il «Cinese» lascia, come è noto: e allora primarie e avanti un altro. Una grana in più - l’abbandono, non le primarie - per un Pd che a Roma è ha già mille gatte da pelare.

E però vieni a Bologna per occuparti dell’inizio della lunga successione e osservi che, per quanti problemi possano avere, per i democrats emiliani sono in fondo settimane, purtroppo, quasi di rivincita. Se non di soddisfazione. Infatti, a rimaner fuori dalla bufera che sta scuotendo il partito da Napoli a Firenze, dall’Abruzzo fin su a Genova, alla fine sono proprio loro, quelli del «modello emiliano»: ferrea organizzazione di governo locale da sempre sospettata, eppur snobbata. E non è per niente facile rispondere alla domanda su come mai proprio qui - nel cuore del cuore dell’antico e solidissimo «sistema di potere» della sinistra italiana (e di certo cattolicesimo colto e impegnato) - proprio qui, dicevamo, il marcio non abbia mai attecchito.

Oppure, se lo ha fatto, non si è mai rivelato attraverso episodi che abbiano dato luogo ad una qualche, ipotetica «questione morale». Una soddisfazione. Purtroppo. Soprattutto per le migliaia di militanti e amministratori che provengono dal Pci e dalle sue evoluzioni: fino a non troppi anni fa trattati da Roma più o meno come quelli «che portano i voti e poiché governano mettono i soldi», tanto al resto, alla politica, ci pensiamo noi. E dunque, mentre altrove scattano le manette e si vive nell’incubo di nuovi avvisi di garanzia, questa faccenda magari occorrerebbe rivederla un po’. Il «Cinese» spinge e dice: «Sì, è vero, qui la sinistra governa da sempre e l’alternanza è scarsa: ma è la passione politica che ha fatto da antidoto. Il discutere, il non delegare: ma soprattutto il decidere, il fare. Partecipare, in fondo, vuol dire esserci.

Ed esserci significa controllare...». Una tesi non diversa da quella che espone Salvatore Caronna, giovane segretario in ascesa del Pd emiliano: «Qui la politica è forte, non screditata e anzi rispettata: perché fa le cose ed è efficiente, che è quello che chiede la gente. Una politica forte, naturalmente, significa una politica autonoma: capace di dire i suoi sì e i suoi no, e non costretta - per sostenersi - a far patti col potente di turno, che sia un costruttore o un imprenditore di quelli che vivono di commesse pubbliche. Dove i partiti collassano, al contrario - conclude Caronna - aggrapparsi a questo o quello diventa quasi una necessità: con tutto quel che ne consegue. Ma qui il malaffare è praticamente impossibile: la gente partecipa, controlla e basta uno starnuto che si fa un’assemblea...».

La gente partecipa. Quella del Pd, per intanto, fa la fila ai seggi delle primarie e sceglie il suo candidato. Romano Prodi - riferimento di una élite cattolica capace in città di brandire l’etica come una spada - fa la fila e vota, sperando - si immagina - che prevalga Flavio Delbono, uno dei suoi, quasi un suo allievo al Dipartimento di economia. E’ possibile - se Delbono vince le primarie e poi magari le elezioni - che il Professore, per la prima volta, «si prenda Bologna», come borbotta un ex diessino. Anche se le cose, in fondo, non starebbero così. Molti prodiani bolognesi hanno infatti sostenuto la corsa di Gianfranco Pasquino, politologo irrequieto, che alla fine ha deciso di ritirarsi e ora pensa a liste civiche e non vota alle primarie «perché non posso assumere l’impegno di scegliere il Pd alle elezioni del 2009». «Sì, lo so che si dice in giro che il “sistema emiliano” è così soffocante da aver assorbito anche la magistratura: e da qui, niente indagati e niente inchieste - ammette Augusto Barbera, costituzionalista del giro del “Mulino” - però non è così. Qui non c’è certo una magistratura compiacente, eppure la corruzione non esiste.

La mia spiegazione è semplice: le strutture del vecchio Pci sono ancora tutte in piedi, nella politica, nell’economia, nella cooperazione. E questo, naturalmente, è un bene e un male assieme. Un bene perché fino ad ora ha garantito quello che un tempo si chiamava buongoverno, cioè efficienza e onestà; un male perché, a causa di questo radicamento, il nuovo partito, il Pd, fatica a decollare. Ma del resto anche noi, qui, ci poniamo di tanto in tanto l’interrogativo se l’Emilia sia così com’è per aver avuto un Pci tanto forte o se il Pci sia stato così forte per il grande senso civico emiliano...». In fondo, che sia l’una o che sia l’altra, è stata per entrambi una gran fortuna. A differenza del «modello Roma», delle «primavere» siciliane e del «Rinascimento napoletano», infatti, qui il sistema non si è sgretolato. «E come poteva, dai... Siam tutti amici, siam sempre gli stessi - ironizza Pierferdinando Casini sull’Eurostar che lo riporta a Roma -. Ieri sera sono stato alla solita cena per gli auguri di Natale a casa di un amico, un importante imprenditore bolognese. C’eravamo tutti, come tutti gli anni. C’era pure Romano, naturalmente... I soggetti sono sempre uguali, la sinistra che governa, noi all’opposizione, l’Unipol, le coop, qualche industriale... Conflittualità quasi mai: siamo al livello massimo del vecchio consociativismo. Ma quello buono, neh!».

E Prodi come ci si trova? «Romano? Sarà anche amareggiato per cose sue, ma l’ho visto bene. Tornava da Pechino. “Un incontro lunghissimo col premier cinese, che è uno degli uomini più potenti al mondo; poi m’hanno dato anche un premio e sui telegiornali nemmeno un secondo”, si lamentava». E lei, presidente, l’ha consolato? «Consolarlo? E con chi te la vuoi prendere - gli ho detto - che Riotta al TgUno ce l’hai messo tu!». Ecco, basta un treno verso Roma ed il consociativismo emiliano non esiste più...

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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 16, 2008, 11:19:17 am »

16/12/2008
 
La spina nel fianco
 

FEDERICO GEREMICCA

 
In definitiva, punto percentuale in più, punto percentuale in meno, è andata come doveva andare. Ed è andata come doveva andare sotto ogni punto di vista. Il voto abruzzese, infatti, non ha riservato sorprese: nemmeno sul fronte, certamente assai allarmante, dell’astensionismo (che sarebbe ora di cominciare a chiamare «voto d’astensione», per la chiara indicazione politica che ormai contiene). Nella regione ha di fatto votato un cittadino su due: e, francamente, ogni sorpresa in proposito è da considerare ipocrita, se non menzognera.

Nel giro di un solo autunno, infatti, gli elettori abruzzesi hanno visto finire in manette la giunta che li governava, hanno assistito alla deprimente rottura tra il governatore Del Turco e il partito che lo aveva espresso (il Pd), per arrivare all’arresto, appena chiuse le urne, del sindaco di Pescara.

Fino a giungere allo spettacolo non edificante del candidato presidente del centrodestra che sollecita curriculum e promette lavoro in cambio di un voto a suo favore. Che in tale scenario - e nonostante la neve e le intemperie - un abruzzese su due si sia scomodato per andare a votare, è quasi un miracolo: altro che «sorpresa per l’alto livello di astensione».

A grandi linee, e a spoglio delle schede non ancora ultimato, quel che è accaduto può esser sintetizzato più o meno così: Gianni Chiodi, candidato del centrodestra, è il nuovo presidente della Regione, ma il vero vincitore si chiama Antonio Di Pietro, che ha raddoppiato i propri voti rispetto alle politiche di otto mesi fa, moltiplicandoli addirittura per cinque o per sei in confronto alle elezioni regionali di tre anni fa. Il partito democratico perde un terzo dei voti che aveva (sia rispetto alle politiche di aprile che alla consultazione del 2005), il Popolo delle libertà non aumenta i propri consensi e anzi flette rispetto alle elezioni di questa primavera, mentre il resto (civiche, autonomisti e quant’altro) è magra soddisfazione o lieve depressione sul filo del decimale o giù di lì.

Le primissime reazioni, naturalmente, si sono concentrate sui dati più vistosi del voto: l’astensionismo e la crescita del partito di Antonio Di Pietro (facce, in fondo, dell’identica medaglia). Lasciando perdere, per il momento, gli scontatissimi commenti sulla scarsa partecipazione al voto («allarmante», «inquietante», «fenomeno crescente»...) conviene forse soffermarsi sulle analisi avviate in casa del Pd intorno al risultato dell’Italia dei Valori e dello stesso Partito democratico. L’una sale, di molto; l’altro scende, di molto. La circostanza ha naturalmente indotto a uscire allo scoperto con la massima nettezza quanti - nel Pd - giudicano da tempo l’alleanza con Di Pietro una scelta sbagliata. E se Nicola Latorre, dirigente vicino a D’Alema, annota come l’ex pm «stia erodendo elettorato più a noi che ai nostri avversari», Europa - giornale un tempo vicino alla Margherita - è ancor più esplicito: «Via da Di Pietro, di corsa: è il momento di rompere questa alleanza fasulla e suicida».

Non è tema di poco conto, nella misura in cui riguarda la strategia futura del Pd e la politica delle alleanze del partito guidato da Veltroni. Per mesi nel quartier generale dei democratici si è fatto finta di non vedere (o non se ne sono tratte tutte le conseguenze) quanto l’iniziativa di Di Pietro costituisse una spina nel fianco proprio per il Pd, prima ancora che per Silvio Berlusconi: ora se ne ha una prova, una dimostrazione perfino matematica. E l’interrogativo cui deve rispondere oggi il gruppo dirigente del Pd è banale, nella sua semplicità: è ancora possibile essere alleati di una forza politica che non perde occasione (dalla questione morale alla riforma della giustizia) per attaccare e polemizzare col Pd? E ancora: conviene far fronte comune con un leader (Di Pietro, appunto) che Silvio Berlusconi utilizza per delegittimare l’intera opposizione e motivare il suo «no» al dialogo, qualunque sia il tema in discussione? Le risposte sembrerebbero ovvie: ma evidentemente non lo sono, se le cose sono ancora al punto in cui sono. Sull’altare dell’alleanza con Di Pietro, il Pd ha già pagato un prezzo alto nella vicenda che ha riguardato e riguarda la Commissione di vigilanza Rai, per dirne solo una. Oggi paga un altro conto assai salato in Abruzzo. E davvero non si capisce, allora, come mai la «vocazione maggioritaria» proclamata nelle elezioni dell’aprile scorso sia servita al Pd per rompere con tutti (dai Verdi fino a Rifondazione) ma non - nonostante tutto - col «partito personale» dell’ex leader di Mani Pulite.
 
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