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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 136590 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 06, 2009, 11:44:21 am »

6/1/2009 - ANALISI
 
Il partito dei sindaci ribelli
 
Da Napoli all'Abruzzo la periferia disubbidisce a Roma.

Il dilemma del Pd: azzerarli o difenderli?
 
 
FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Un sindaco, quello di Pescara, che ritira le dimissioni ma presenta un certificato medico che attesta la sua impossibilità a lavorare e, quindi, ad amministrare la città; un altro, quello di Napoli, che alle dimissioni non ha invece mai pensato, e dunque presenta alla stampa e alla città la sua «giunta rimpastata», tra l’ira di mezzo Partito democratico e le dimissioni (questa volta effettive) di Luigi Nicolais, ex ministro del governo Prodi, voluto da Walter Veltroni in persona alla guida dei democratici napoletani. La prima decisione, quella di Luciano D’Alfonso, sarebbe stata assunta - sembra - con il sostanziale accordo dei vertici del Pd romano.

Serve ad evitare il commissariamento del Comune e ad andare al voto a giugno con l’attuale giunta ancora in carica; la seconda, quella di Rosa Russo Iervolino, sarebbe invece stata «subita»: e accettata, alla fine, solo in nome dell’autonomia decisionale che si deve a rappresentanti istituzionali eletti, per di più, direttamente dai cittadini. Entrambe le decisioni - vale appena la pena di ricordarlo - sono maturate alla fine di settimane durissime, segnate da inchieste giudiziarie che hanno messo nel mirino prima l’amministrazione di Napoli e poi quella di Pescara.

Si è molto scritto e discusso, nei giorni passati, intorno al «ciclone giudiziario» che ha investito il Pd in alcune importanti realtà (da Genova all’Abruzzo, da Napoli a Firenze) e alle polemiche che ne sono seguite. Sopite, almeno in parte, quelle sviluppatesi nei giorni caldissimi degli arresti e degli avvisi di garanzia, ne sono rimaste sul tappeto fondamentalmente due. La prima riguarda il solo Pd: e investe la sensazione - diffusa prima di tutto all’interno del Partito democratico - che «l’emergenza giudiziaria» (la cosiddetta «questione morale») sia stata affrontata senza una linea, con comportamenti altalenanti e sostanzialmente abbandonando gli inquisiti e le locali strutture di partito al loro destino. Di qui le polemiche di Ottaviano Del Turco e dell’assessore fiorentino Graziano Cioni (per citare due casi) per essersi sentiti «scaricati» prima ancora che si arrivasse almeno ai rinvii a giudizio; contestazioni alle quali hanno fatto da contraltare altre accuse (per esempio di un pezzo importante del Pd campano) per un mancato intervento da Roma capace di imporre l’azzeramento di esperienze amministrative più che logorate.

Una confusione (anzi: una «tarantella», come l’ha definita il sindaco di Napoli) che non ha certo giovato all’immagine del partito, certo non nuovo a confronti intorno all’efficacia della propria leadership. L’altro elemento di discussione - se non di vera e propria polemica - è di ordine più generale e non dovrebbe riguardare il solo Partito democratico: si tratta del rapporto tra i partiti e i loro eletti nelle istituzioni. E’ giusto, naturalmente, che sindaci, governatori, assessori e parlamentari godano di un elevato grado di indipendenza dai partiti che li hanno scelti e candidati: la questione è individuare il punto dove finisce questa indipendenza. Per fare l’esempio della Campania: se il Pd ritiene (come gli stessi Veltroni e D’Alema hanno più volte affermato) che al Comune e alla Regione siano necessari «rinnovamento» e «azzeramento» delle locali esperienze amministrative, possono il sindaco e il governatore far finta di niente e andare avanti per la loro strada in nome dell’autonomia dai partiti (e magari compromettendo in maniera irreparabile l’immagine e le fortune del partito di provenienza)?

Si tratta di un interrogativo dalla risposta non scontata. Ieri, per esempio, a proposito della scelta della Iervolino di restare in sella e di procedere solo a un parziale rinnovamento della sua giunta, all’interno del Pd si sono manifestati due atteggiamenti diversi (un’altra «tarantella»...): quello di Veltroni, che ha accettato - in nome dell’autonomia dovuta ai sindaci - la scelta della Iervolino; e quello del segretario del Pd napoletano, Nicolais, che si è dimesso in polemica con il sindaco ma anche con «i vertici del Pd nazionale», rei di non aver compreso «la drammaticità del momento e la necessità di una svolta coraggiosa». Insomma: un sindaco al quale arrestano o mettono sotto accusa mezza giunta - a parte lo scandalo dell’immondizia e tutto il resto - ha comunque il diritto di restare al suo posto o il partito che lo ha espresso deve poter intervenire per sollecitarne (o addirittura imporne) le dimissioni? Oggi, è vero, l’interrogativo riguarda il Partito democratico: ma domani potrebbe tormentare altri partiti. Naturalmente, è anche questione di etica e di sensibilità politica.

Ci sono e ci sono stati casi, infatti, in cui né l’interessato né il partito di provenienza si sono posti minimamente il problema (si pensi alla vicenda di Salvatore Cuffaro, per esempio, rimasto alla guida della Regione Siciliana non solo da indagato e rinviato a giudizio, ma addirittura da condannato). Fatti salvi questi casi limite, però, è evidente che il problema esiste e tornerà a riproporsi. Non sarebbe male che le forze politiche ci ragionassero, e individuassero - se possibile - comuni codici di comportamento. A meno di non voler continuare con comportamenti altalenanti e schizofrenici. Riccardo Villari, per dirne una, in fondo è stato espulso dal Pd forse per molto meno...

da lastampa.it
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 07, 2009, 12:43:44 pm »

7/1/2009 (9:9) - INTERVISTA

"Basta coi sindaci fai da te, Veltroni si faccia sentire"
 

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Certo, Napoli è una realtà difficile da gestire, ma non è impossibile farlo. Le sindacature di Bassolino furono straordinarie. Poi c’è stata una degenerazione complessiva... Il problema è che fare oggi, perchè i cittadini capiscono che degli errori si possono commettere: quello che non capiscono è perchè non li correggi e non cambi».

E per Luciano Violante, non c’è dubbio, a Napoli si sia cambiato troppo poco. E così, preso atto delle dimissioni di Nicolais e riconosciuto ai sindaci il diritto alla più ampia autonomia, l’ex presidente della Camera chiede uguale libertà per i partiti. Per il Pd, in questo caso.


Che dovrebbe dire a chiare lettere di non esser d’accordo con le ultime mosse del sindaco Iervolino?
«Ci arriviamo. Prima vorrei dire che, al di là delle differenze tra la Sardegna, la città di Pescara e una metropoli come Napoli, il terzo commissariamento di vertici locali del Pd in poche settimane rivela un problema sul quale occorre interrogarsi: intendo il tipo di forma partito che si è dato il Pd».

Qual è l’obiezione?
«L’impressione è che il governo-ombra ci stia privando di un forte strumento di raccordo tra centro e periferia. Il tradizionale responsabile di dipartimento - che si occupasse di lavori pubblici, piuttosto che di appalti o di sanità - era una figura fondamentale in questo senso. Se c’era un problema, dalle città facevano riferimento a lui: e il centro era informato di quel che accadeva e a sua volta dava indicazioni. Oggi, invece, ci sono i ministri-ombra, eccellenti personalità politiche. Ma che fa un ministro ombra? Parlamentarizza l’azione del partito, svolgendo il suo ruolo in rapporto con il governo. Questo, oltre a rischiare di intralciare l’attività dei gruppi, priva il Pd di un essenziale veicolo di informazione su quel che accade in periferia e di conseguente direzione politica».

Un meccanismo inceppato, insomma...
«In più, senza raccordo, crescono forme di separatismo. E la cosa peggiore è quando qualcuno intende questo come parte di uno scambio: io ti dò il consenso e tu mi lasci fare quel che voglio».

E’ per questo che il Pd a Napoli non è riuscito a imporre l’azzeramento della giunta?
«Non è che a un governatore puoi dire “tu fai questo” e a un sindaco “tu fai quell’altro”. Puoi provare politicamente a convincerli, come appunto nel caso in questione, che occorrono soluzioni che abbiano il segno di un profondo cambiamento».

A Napoli non è accaduto.
«Io ritenevo giusto l’azzeramento, il cambio radicale della giunta. Quella mi pareva una via».

Però non è andata così, e Nicolais si è dimesso. Che deve fare in questi casi il Pd? Può solo abbozzare?
«Per niente. Il Pd può dire: “Non sono d’accordo. Il sindaco ha fatto questa scelta, la rispetto ma non sono d’accordo».

E’ quel che ha fatto Nicolais, in verità...
«Sì, ma credo che anche da Roma debba venire un segno di non condivisione. Non parlo dei nuovi assessori, tutti stimabili: parlo di come si innesca davvero un’altra marcia, dandosi tempi e obiettivi certi, ed evitando il semplice galleggiamento».

A che segno pensa?
«Oggi a Roma si riunisce il coordinamento del Pd. Valuteranno loro, ma credo occorrerebbe una posizione che, ferma restando la libertà dei sindaci di agire in autonomia, affermi reciprocamente che anche il Partito è libero di dire come la pensa. Altrimenti finisce che chi non è libero di agire è proprio il Pd».

E come dovrebbe manifestarsi questo disaccordo? Con un voto contrario alla giunta da parte dei consiglieri comunali del Pd?
«Prima c’è bisogno che il Pd faccia capire chiaramente che la scelta non è condivisa. Poi decideranno i consiglieri comunali che fare, confrontandosi localmente con il partito, perchè non è che da Roma si danno ordini. Ma se il vertice del Pd non è d’accordo con la decisione presa, ritiene i cambi insufficienti e crede che vadano indicati metodi e obiettivi totalmente nuovi, deve dirlo con chiarezza. Così il cittadino può pensare “hanno fatto errori, ma li stanno correggendo”. Non è possibile che i sindaci siano autonomi del partito e il partito non lo sia dai sindaci...».

E poi?
«E poi se il Pd napoletano è d’accordo su questo, ne trarranno le conclusioni i consiglieri comunali».

Un’ultima domanda, presidente: anche queste vicende - secondo molti - dimostrerebbero l’attuale debolezza del Pd. Condivide?
«Questo è evidente. Ma ricordo come era messa la Cdl dopo la sconfitta del ‘96... Noi di sconfitte ne abbiamo subite due: alle politiche e poi quella, inattesa, di Roma. La crisi, insomma, ci può stare. Quel che ora serve è uno scatto di reni significativo. I milioni di cittadini che votarono alle primarie per Veltroni hanno diritto ad un Pd che, superate le sconfitte, riprendenda la corsa. Non è il momento di piccoli cabotaggi. E se pensiamo di uscirne con una toppa qua e un commissario là, mi pare difficile riuscire a farcela...».

da lastampa.it
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« Risposta #47 inserito:: Gennaio 16, 2009, 11:35:24 pm »

16/1/2009
 
Due soli partiti?
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Non sono davvero giorni esaltanti per i sostenitori di una più definita «europeizzazione» del sistema politico italiano (due grandi partiti, sistema maggioritario, alternanza al governo del Paese).

Sui quotidiani di ieri, in particolare, era tutto un intrecciarsi di segnali funerei. E la novità è che i cattivi auspici non circondano più soltanto la travagliata navigazione del Pd («Soffre di un male oscuro», ha confermato Enrico Letta ricorrendo a un pietoso eufemismo) ma hanno cominciato a segnare anche il cammino di Forza Italia e An verso il congresso fondativo del Pdl come partito unico. «An non ha alcuna intenzione di essere assorbita da Forza Italia», e soprattutto «non entra in un luogo dove non c’è dialettica interna, né regole e procedure chiare e trasparenti», hanno avvertito due tra i più fedeli luogotenenti di Gianfranco Fini (Ronchi e Bocchino). Cosicché, la sensazione è che a una crisi potrebbe sommarsene un’altra. Fino all’ineludibile interrogativo: ma è davvero così sicuro che la complessità italiana sia riducibile (rappresentabile) in due grandi partiti?

Naturalmente, le crisi dei due «partitoni» hanno caratteristiche e intensità diverse, a cominciare dalla differente forza e dalla non paragonabile «capacità di comando» delle rispettive leadership. Tra tutti gli elementi di diversità, però, questo è senz’altro quello ancora più condizionato dal risultato elettorale del 13 aprile (si pensi a cosa sarebbe stato del «partito del predellino» in caso di sconfitta o ai problemi che avrebbe incontrato Berlusconi a restare saldo in sella), mentre assai più simili - e in qualche modo strutturali - appaiono invece i fattori comuni di difficoltà: dalla compatibilità delle basi elettorali (quelle di An e Forza Italia non sono certo più vicine di quanto lo fossero quelle di Ds e Margherita) alla resistenza dei gruppi dirigenti, fino agli equilibrismi necessari per far convivere riferimenti sociali, culturali e perfino religiosi storicamente diversi. Sono questi, come è noto, i problemi che hanno frenato - fino ad arenarlo - il progetto che era alla base della nascita del Pd; e sono ancora questi quelli che stanno oggi inasprendo il percorso verso il partito unico del centrodestra.

Non è dunque per caso se dalle parti del Pd si sente sussurrare di «riscomposizione», né è per pignoleria se - dall’altra parte dello schieramento - Fini e i suoi colonnelli cominciano a mettere i puntini sulle i. E soprattutto, non è solo una coincidenza se sia a destra che a sinistra si iniziano a frapporre ostacoli a un’ulteriore semplificazione del sistema: si pensi, ad esempio, al trattamento riservato dalla Lega e da molti autorevoli dirigenti del Pd al progetto Berlusconi-Veltroni in materia di legge elettorale europea. Al di là dell’ovvio riflesso di autoconservazione dei gruppi dirigenti dei partiti da fondere, è come se ci fosse qualcosa di più profondo, di non sintetizzabile, a frenare i processi di unificazione avviati. Non tutto quel che si agita nella società e nell’elettorato italiano, evidentemente, è riassumibile in due soli partiti. E qualunque sia la radice di questa ritrosia (e le ragioni sono tante) per averne conferma basta dare un’occhiata ai più recenti sondaggi, che vedono crescere a dismisura i consensi proprio delle forze rimaste fuori dai progetti di fusione: la Lega di Bossi da una parte e l’Italia dei valori di Di Pietro dall’altra.

Naturalmente, non si è ancora di fronte a crisi irreversibili: ma dopo aver assordato la sinistra, i campanelli d’allarme hanno ormai cominciato a suonare anche a destra. C’è chi, in tutta evidenza, considera - se non proprio una camicia di forza - certo una «non necessità» stare tutti assieme nello stesso partito. In più, guardando a quanto accaduto nell’altro campo e riflettendo su certi crescenti nervosismi di Fini e di Bossi, qualcuno - nell’antica Casa delle libertà - comincia a nutrire serie preoccupazioni e si interroga intorno ai costi ed ai ricavi. I leader e i rispettivi schieramenti godono, come già detto, di uno stato di salute assai diverso: ma chi è che non ricorda quanto la nascita del Pd indebolì - anche al di là delle intenzioni - l’esecutivo di Romano Prodi? Ne originò, di fatto, la crisi di governo e la sconfitta elettorale. E, perse le elezioni - così come pareva, in verità, inevitabile -, il «progetto Pd» non ha poi mostrato chissà quale spinta propulsiva. Dopo Ds e Margherita, tocca ora a Forza Italia e An tentare la fusione. Che sia una scelta al passo con la storia o in contrasto con la complessità italiana, lo vedremo. Probabilmente già alle prossime elezioni di giugno.
 
da lastampa.it
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 25, 2009, 11:12:39 am »

25/1/2009

DOPO LA ROTTURA CGIL SUI CONTRATTI
 
L'asse D'Alema-Epifani nuova insidia per Veltroni
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Merita forse qualche riflessione la posizione assai "variegata" assunta dal Partito democratico rispetto all’accordo sul nuovo modello contrattuale siglato a Palazzo Chigi senza la firma della Cgil, sindacato "amico" oltre che il maggiore del Paese. Per Enrico Letta, ministro-ombra del Welfare, Epifani ha sbagliato a tirarsi fuori da un’intesa che ha, potenzialmente, il profilo della svolta; per Massimo D’Alema, invece, il leader Cgil ha sbagliato così poco che è il caso di conoscere l’opinione dei lavoratori chiamandoli a referendum.

Per Walter Veltroni, infine - costretto nuovamente a fronteggiare posizioni assai diverse - Epifani forse ha sbagliato, ma ha sbagliato forse anche il governo a non tener conto delle obiezioni della Cgil. E comunque, per ora non pare affatto intenzionato a schierare il Pd nella "trincea referendaria" invocata da D’Alema.

Non è la prima volta, si dirà, che i democratici si dividono, anche su questioni di una certa rilevanza. E non è un inedito nemmeno l’evidente diversità di posizione tra il leader della Cgil e il segretario del Pd. Tutto vero, se non fosse per un paio di specificità. La prima riguarda l’effettiva "valenza riformista" (o pseudo tale) della questione in discussione: di quelle, insomma, che proprio perché capaci di contribuire a forgiare - in un senso o nell’altro - il profilo del partito in costruzione, meriterebbero una chiara presa di posizione da parte del leader ed una conseguente ed esplicita battaglia politica dentro e fuori il Pd. La seconda specificità attiene invece ai tempi della scelta operata dalla Cgil: proprio nel momento in cui Walter Veltroni prova a portare tutto il Pd sul terreno del dialogo con la maggioranza di governo, Guglielmo Epifani indica alla Cgil la via della massima "radicalità" possibile. E Massimo D’Alema fa subito sapere di esser d’accordo con lui.

Entrambe le specificità hanno diverse spiegazioni possibili. Ci si interroga, per esempio, intorno a certi recenti irrigidimenti del leader della Cgil, tanto nei rapporti con Cisl e Uil quanto in quelli con Veltroni, da sempre a lui vicino e col quale ha condiviso dure battaglie congressuali - al tempo dei Ds - in quello che fu definito "correntone". Volendo lasciare in secondo piano la tesi secondo cui i due leader avrebbero rotto a causa della discussa candidatura di Epifani alle europee, è assai più probabile che la divergenza sia di carattere tutto politico: e che riguardi modi e qualità dell’opposizione da fare al governo Berlusconi e - soprattutto - il tipo di partito che deve diventare il Pd. La "linea dura" su cui Epifani ha attestato la Cgil, insomma, potrebbe anche rappresentare il tentativo di indicare al Partito democratico un modello diverso, una politica di stampo più schiettamente socialdemocratico: o quanto meno di frenare quella che a Epifani deve apparire una deriva moderata e centrista del partito.

Se è così, non è dunque solo per tattica - che pure ovviamente avrà pesato - che la Cgil trova come compagno di strada Massimo D’Alema (anche se può apparire paradossale, considerate alcune sue polemiche, al tempo di Cofferati, intorno al carattere effettivamente riformista dell’organizzazione). L’ex presidente del Consiglio sembra infatti impegnato a dare un asse finalmente più definito alle sue frequenti divergenze con Veltroni: se davvero nel Pd ci si avvicina a una certa resa dei conti, infatti, un bagaglio di obiezioni fatto di "io non avevo un ruolo", "il partito andava curato di più" e "le tessere sono importanti" appare del tutto insufficiente in un possibile braccio di ferro con Veltroni. Nasce da qui, forse, dalla necessità di meglio caratterizzare la critica al segretario prospettando al partito una linea politica robustamente diversa, un certo evidente irrigidimento delle più recenti posizioni dalemiane. Oggi il caso è l’approccio alla questione contratti; ma ieri era stata l’analisi delle responsabilità nel conflitto arabo-israeliano; e domani potrebbero essere le riserve sul confronto avviato in materia di federalismo fiscale oppure di giustizia.

Se queste due specificità rendono dunque diverse rispetto al passato la divisione nel Pd sui nuovi contratti e la divergenza tra Veltroni e il tandem Epifani-D’Alema, tanto più sarebbe necessaria una battaglia politica esplicita che rendesse evidenti le ragioni della divisione. Si è stanchi, certo, di un Pd che avanza in ordine sparso e confuso, litigando quasi su tutto. Ma ci sono divisioni che a volte sembrano arrivare come una benedizione, permettendo crescita e chiarezza. A condizione, naturalmente, di affrontarle di petto: che vuol dire andare al nocciolo della questione, discuterla e poi decidere. Invece di nascondere, come sempre, la polvere sotto il solito tappeto.

da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 07, 2009, 03:44:59 pm »

7/2/2009
 
La caccia ai colpevoli
 
FEDERICO GEREMICCA
 

C’è lo scontro istituzionale, è vero: preoccupante e inedito per la durezza, giunta - stavolta - fino alla sfida aperta tra capo del governo e Presidente della Repubblica. Ma dietro il conflitto che ha opposto - e probabilmente opporrà ancora nei giorni a venire - Napolitano e Berlusconi c’è molto altro.

A cominciare dall’oggetto dello scontro: la vita di una ragazza in stato vegetativo permanente da 17 anni. «Io non voglio la responsabilità della morte di Eluana», avrebbe detto il premier ai suoi ministri per convincerli a dire sì a un decreto legge che impedisse di sospendere alimentazione e idratazione ad Eluana Englaro. Il che, per deduzione, dovrebbe portare alla conclusione che chi a quel decreto si è poi opposto - Costituzione alla mano - si assume, appunto, la «responsabilità» di quella morte. Messa così, come è evidente, la discussione abbandona ogni profilo di civiltà, diventando quasi incommentabile. Proprio l’«oggetto» della disputa - la vita umana - avrebbe preteso che per una volta almeno la discussione mettesse da parte i calcoli politici e gli utili tatticismi, i tentativi di scaricabarile e le piccole astuzie politiche alle quali siamo abituati. Non è accaduto nemmeno stavolta: e al di là della gravità del conflitto istituzionale in atto, è questo che indigna e lascia senza parole.

Ciò nonostante, lo scontro è in corso. E ieri, dopo tre giorni di tensioni sotterranee e tese consultazioni, è esploso in tutta la sua asprezza. Quattro i passaggi chiave. Primo: una lettera «riservata e personale» fatta giungere in mattinata dal Presidente della Repubblica a Berlusconi nella quale si elencavano le ragioni per le quali il Quirinale non poteva accettare il ricorso ad un decreto. Secondo: la decisione del premier di rendere nota la lettera, andare avanti comunque e convocare una conferenza stampa per denunciare una «innovazione» da parte del Colle («Intervenire anticipando la decisione del Consiglio dei ministri circa la sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza») e annunciare che, se il Presidente non avesse firmato, il governo avrebbe presentato una legge da far approvare in due o tre giorni al Parlamento. Terzo: l’annuncio del Quirinale «di non poter procedere alla emanazione del decreto» per ragioni di ordine costituzionale. Quarto: un nuovo Consiglio dei ministri che trasformava il decreto in disegno di legge, con un successivo «accorato appello» di Berlusconi al presidente del Senato per «l’immediata convocazione di una seduta straordinaria».

Prima e durante questi passaggi, in una giornata assai poco edificante, s’è visto e sentito di tutto: il capo del governo evocare il ricorso al popolo di fronte all’impossibilità di utilizzare lo strumento del decreto legge; esponenti importanti delle gerarchie vaticane intervenire per lodare «il coraggio» dell’esecutivo e manifestare «delusione» verso il Capo dello Stato; il presidente della Camera, Fini, scendere in campo a sostegno delle posizioni di Napolitano per poi vedere i ministri di An votare sì al decreto sotto la pressione di Berlusconi. E di fronte a tutto questo, lo sbigottimento e l’amarezza della famiglia Englaro, sul cui dolore si è giocata e si continuerà a giocare una partita politica che ha ben poco a che vedere con l’etica e i principi richiamati qua e là. Infatti, che maggioranza e opposizione abbiano idee diverse sulle vie da percorrere in materie come testamento biologico, accanimento terapeutico ed eutanasia, è noto da tempo. Nessuno poteva però immaginare che tali differenze venissero messe alla prova di un decreto ad personam, di un provvedimento fatto solo per la povera Eluana: quasi una scimitarra per tagliare il mondo a metà, tra chi la vuole viva e chi - dicendo no al decreto - forse ne determina la morte (al di là della Costituzione e del suo rispetto).

Su questo piano, è evidente, nessun confronto - politico o istituzionale che sia - sembra essere più possibile. Ridurre una discussione delicata e complessa a chi è per la vita (vegetativa) di Eluana e a chi invece no, significa devastare il terreno del possibile confronto e gravare di una responsabilità non sopportabile chiunque abbia dubbi costituzionali, etici e legislativi sull’iniziativa del governo. Ieri questa responsabilità l’ha dovuta assumere il Presidente della Repubblica. Ma da oggi tocca ad altri: alla Camera e al Senato, ai loro membri, ai loro presidenti. Devono approvare il decreto trasformato in disegno di legge e, secondo il premier, devono farlo in fretta. In caso contrario saranno loro i «responsabili» della morte di Eluana. Diciamo la verità: nemmeno i più pessimisti avrebbero mai immaginato che si giungesse a un punto così.
 
da lastampa.it
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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 12, 2009, 11:06:24 am »

12/2/2009
 
La piazza non arruoli il Presidente
 
FEDERICO GEREMICCA
 

Sarebbe ingenuo considerare sopite e ormai alle spalle le fortissime tensioni sviluppatesi intorno al destino di Eluana Englaro e tracimate nei giorni scorsi fino all’aspro scontro che ha visto contrapposti il capo del governo e il Presidente della Repubblica.

È un fatto, però, che la giornata di ieri sia stata segnata da chiari segnali distensivi, e che l’appello di Giorgio Napolitano per una «sensibile e consapevole riflessione comune» sembra esser stato accolto tanto dalla maggioranza di governo che dall’opposizione. E così, se Gianfranco Fini aveva già fatto sapere quale fosse il suo pensiero sul conflitto istituzionale apertosi, ieri è stata la volta di Umberto Bossi, che è tornato sulla questione, definendo il Capo dello Stato «una figura di garanzia». Certo, ha annotato il leader leghista, «la lettera su Eluana è stata un errore, ma è giusto che faccia da scudo al potere di decretazione». La tregua è forse forzata, la convinzione che regga è probabilmente fragile e nulla esclude che ci si ritrovi, di qui a qualche giorno, nel fuoco di un nuovo conflitto: eppure, tutto ciò premesso, sarebbe irresponsabile non cercare di consolidare - nelle aule parlamentari, nel rapporto tra istituzioni e perfino nel Paese, nei giorni scorsi spaccatosi a metà - il rasserenamento che pare all’orizzonte.

È proprio tenendo d’occhio questo obiettivo che è forse opportuno segnalare il crescere di un rischio: nuovo per l’appena avviata legislatura, ma non certo inedito nello stile politico di questa sgangherata Seconda Repubblica. Il rischio, per dirla in sintesi, è nella tentazione di «arruolare» il Capo dello Stato in uno degli schieramenti in campo, di farne la punta di diamante di una sorta di nuovo «antiberlusconismo costituzionale» e di «scalfarizzare» (come ha annotato con felice neologismo l’onorevole Rao, dell’Udc) un Presidente della Repubblica dal quale - oggi più che mai - è lecito attendersi che continui a essere quel che fino ad oggi è stato: una «figura di garanzia», come appunto ricordato ieri da Umberto Bossi.

Nella sua pragmatica saggezza, Carlo Azeglio Ciampi amava ricordare che la forza di un Presidente della Repubblica non è tanto nei suoi poteri (assai limitati e, come si è visto, perfino discussi) quanto nella sua popolarità: una popolarità che per tutti i presidenti è spesso andata oltre i confini dello schieramento politico-parlamentare che lo aveva eletto e che ha sempre avuto la sua radice nell’imparzialità che ne ha segnato l’azione e nella funzione di garanzia che gli veniva quindi riconosciuta. Non c’è Presidente che non abbia rinsaldato la propria popolarità muovendosi, appunto, lungo questi due assi (tracciati, per altro, dalla Costituzione). Sono le linee guida che hanno mosso Napolitano dal giorno dell’insediamento a oggi: perfino con qualche attenzione in più da parte del Presidente, visto che i gruppi parlamentari dell’allora Casa delle libertà si opposero alla sua elezione. I risultati del lavoro svolto sono oggi sotto gli occhi di tutti: non c’è sondaggio che non confermi la fiducia crescente dei cittadini verso Napolitano. E con percentuali assai più alte rispetto allo schieramento che lo volle al Quirinale.

L’aver assolto al mandato lungo quelle linee guida (imparzialità e funzione di garanzia per tutti) si rivela oggi scelta non solo felice ma da preservare con ogni sforzo. Il silenzio e gli appelli a un confronto «sensibile, consapevole e comune» con i quali il Presidente ha risposto perfino alle offese di cui è stato fatto oggetto negli ultimi giorni, sono lì a testimoniare quanto la barra del Capo dello Stato sia rimasta ferma e dritta: nessuna concessione a chi vorrebbe farne l’alfiere di un rinnovato scontro politico, nessun cedimento di fronte a questa o a quella lusinga. I quasi tre anni trascorsi dal giorno dell’elezione a oggi permettono di dire che al Quirinale non albergano certo tentazioni partigiane. È importante, naturalmente, ma forse non sufficiente. Quel che va evitato, in un clima ancora arroventato, è il tentativo di farne comunque un soggetto politico o, peggio ancora, un alleato nella «guerra» a Berlusconi. È un rischio cui occorre sfuggire: a cominciare dalla manifestazione voluta per oggi dal Pd in difesa della Costituzione.

Utilizzare il Capo dello Stato contro il capo del governo, se questa fosse la tentazione, non è mai una buona idea. A maggior ragione non lo è oggi, quando di tutto c’è bisogno meno che di un affievolimento - magari prodotto dall’esterno, e anche solo simbolico - del profilo di «figura di garanzia» al quale Napolitano ha ancorato il suo mandato. Sarebbe un calcolo dal respiro corto: che ci metterebbe nulla a rivelarsi politicamente controproducente e, soprattutto, micidiale per il nostro già fragile equilibrio istituzionale.
 
da lastampa.it
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« Risposta #51 inserito:: Febbraio 17, 2009, 05:31:32 pm »

17/2/2009
 
L'ultimo rovescio di Walter
 
 
 
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
Renato Soru non ce l’ha fatta. La sua sfida a Silvio Berlusconi è naufragata in una gelida notte sarda, mentre i dati che affluivano con lentezza ottocentesca dai quattro angoli dell’Isola (appena il 25% delle schede scrutinate a 7 ore dall’apertura delle urne) sancivano il passaggio di mano alla guida della Regione. Il verdetto, come sempre accade quando a elezioni locali si affidano speranze di rivincita più generali, penalizza certo il Pd sardo: ma ha il sapore di un sipario che cala sui propositi veltroniani d’invertire - anche solo psicologicamente - un corso politico il cui bilancio è ora sotto gli occhi. La sconfitta dell’aprile scorso contro Berlusconi; poi lo choc della perdita di Roma, la disfatta abruzzese, un partito in sterile ebollizione e adesso la caduta di Soru in Sardegna. Il quadro non potrebbe essere più fosco: e fallita anche l’ultima sfida lanciata al Cavaliere in tandem col patron di Tiscali, davvero non si vede da dove il Pd possa ripartire per arginare un’emorragia di consensi e credibilità che pare inarrestabile.

A Berlusconi, che ha voluto «mettere la faccia» in una partita elettorale che ancora un mese fa non aveva nulla di scontato, va dato atto del coraggio e dell’intuito mostrati.

Sardo d’adozione», come ama dire in ragione dei weekend che trascorre di tanto in tanto a Villa La Certosa, doveva aver colto il segno di quanto certi rigorismi del governatore (in materia edilizia, ma anche fiscale) stavano aprendo una breccia nel consenso di cui godeva: e con quello che solitamente viene definito l’«istinto del killer», è sceso nell’arena per tentare di assestare il colpo definitivo a Soru e all’intero Pd assieme. Che questo sia stato reso possibile dallo stesso governatore - che si è dimesso anzitempo, alla ricerca di una resa dei conti nel Pd sardo - conta fino a un certo punto: ed attiene, comunque, a scelte non sue e che richiamano, magari, ad un’idea della politica forse eccessivamente autocentrata.

Sia come sia, Berlusconi manda in archivio un altro successo elettorale mentre Veltroni, al contrario, si trova a dover fare i conti con un nuovo rovescio. Proprio per il tipo di campagna elettorale andata in scena, si era molto discettato - prima dell’apertura delle urne - intorno alle possibili ripercussioni nazionali del voto sardo. In particolare, i riflettori erano stati accesi sul prevedibile terremoto che avrebbe potuto scuotere il Partito democratico nell’eventualità di una nuova sconfitta. Qualcuno ha ipotizzato la possibilità di una resa dei conti anticipata, rispetto ai tempi di un Congresso già fissato per l’autunno, dopo le elezioni amministrative ed europee; qualcun altro ha ribattuto facendo appello alle procedure, allo Statuto ed a «tempi tecnici» effettivamente assai stretti. Incertezze comprensibili, considerato il fatto che - di fronte alla vera e propria crisi d’identità in cui sembra versare il Pd - anche un affrettato cambio della leadership potrebbe rivelarsi soluzione inefficace, se non addirittura controproducente.

Ciò non toglie che sia proprio questo il bivio che si para di fronte al partito che ha fuso assieme gli eredi della tradizione comunista e quelli dell’antica sinistra democristiana: andare avanti con un leader sempre più accerchiato e reduce da quattro sconfitte elettorali (ognuna di esse ha una spiegazione, ma tutte assieme costituiscono un macigno) oppure tentare la carta del ricambio. È questa e non altra - o almeno così dovrebbe essere - la scelta che lo stato maggiore del Pd avrà di fronte già stamane, quando riunirà il suo ufficio di Coordinamento. Conteranno, naturalmente, i dati definitivi del voto: cioè le dimensioni della sconfitta di Soru e il risultato finale che avrà ottenuto la lista del Partito democratico. Ma conterà soprattutto una valutazione circa le prossime elezioni - europee ed amministrative - previste fra appena tre mesi e mezzo: andare incontro a un rovescio che oggi pare inevitabile, bere fino in fondo l’amaro calice per poi tentare di ripartire, oppure gettare il cuore oltre l’ostacolo, non rassegnarsi e puntare su energie nuove e magari su uno choc capace di ridare entusiasmo a militanti e quadri dirigenti. È una scelta nient’affatto semplice, com’è evidente: sulla quale, doverosamente, peseranno in maniera determinante proprio le intenzioni di Walter Veltroni, il leader sconfitto.

 
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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 22, 2009, 11:18:11 am »

22/2/2009 (7:3) - RETROSCENA

La nomenklatura vince ma la partita inizia ora
 
E i democratici si scoprono la tradizione cattolica

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Potremmo chiamarlo istinto di conservazione. E in sé non è certo una pulsione negativa. Naturalmente, si tratta poi di vedere cos’è che l’istinto porta a conservare: e qui il discorso può prendere pieghe assai diverse. Ieri, ad esempio, lo stato maggiore del Partito democratico - i capicorrente, la nomenklatura - ha deciso che quel che andava conservato era lo status quo del Pd: ed ha imboccato la via dell’elezione di Dario Franceschini. Può darsi si tratti di una scelta saggia, anche se è lecito dubitarne; e può darsi, soprattutto, fosse l’unica possibile per preservare l’unità del Pd così come lo conosciamo. Si vedrà. Quel che è indubitabile, è che l’elezione di Dario Franceschini rappresenta una limpida vittoria dello stato maggiore rispetto alle insofferenze (vere? presunte?) della periferia del partito e agli auspici di questo o quell’osservatore. Del resto, Massimo D’Alema lo ha chiarito bene: «Gli osservatori esterni osservano, osservano ma poi non capiscono niente». E in effetti non sono poche le cose difficili da capire in questo sabato di Carnevale nel quale - come ironizza Renzo Lusetti - «abbiamo eletto un democristiano alla guida del Pci».

La prima, non semplicissima da spiegare, è in base a quale logica - dopo aver per mesi contestato la linea politica di Veltroni e chiesto cambiamenti visibili - tutti i capicorrente, di fatto nessuno escluso, abbiano acclamato il suo vice: che del segretario in questi mesi ha condiviso ogni scelta, e dal quale non pare voler prendere le distanze. La seconda, è perché i tanti candidati in pectore manifestatisi in questi mesi - da Letta a Finocchiaro, da Bindi a Bersani - si siano ieri accomodati in prima fila, con le deleghe ben alzate in favore di Franceschini, lasciando al solo Arturo Parisi l’onere della battaglia. E la terza - per fermarsi qui - è quale interpretazione lo stato maggiore del Pd pensa verrà data all’esterno dell’elezione di un leader sul quale nessuno di loro (dei capicorrente, intendiamo) ha mai scommesso un euro nei ricorrenti e futuribili «totosegretario». Ma tant’è: non era tempo di battaglia, non era tempo di farsi avanti per dover poi magari rispondere tra cento giorni di un eventuale nuovo rovescio elettorale. E viene francamente da chiedersi che pesci avrebbero pigliato se la generosità di Dario Franceschini - travolto dalla rapidità degli eventi, e comunque messosi disciplinatamente a disposizione - non li avesse temporaneamente tirati fuori dai guai. Ora i guai sono tutti per lui: e mentre il nuovo segretario comincerà a farsene carico con pazienza cristiana, gli altri potranno tirare un fiato e prepararsi al secondo e decisivo tempo della partita, già fissato per ottobre. Nelle premesse dell’investitura, infatti, c’è che il neo-segretario non approfitti del ruolo assegnatogli, per magari prepararsi anch’egli alla sfida di ottobre: «Non sono qui per pragrammare il mio destino personale - ha così confermato ieri dal palco della Fiera di Roma -. Il mio lavoro finisce ad ottobre».

Doveva dirlo, e l’ha detto. Anche se tra il dire e il fare, corre poi il solito mare... «Sarà un segretario vero, altro che reggente - spiegava Fassino dopo l’elezione per dare enfasi all’investitura -. Se avessi parlato io nei termini in cui lo ha fatto lui della collocazione europea del Pd, oggi qui ci sarebbe stata la scissione». E questa, in fondo, può essere l’arma in più di Franceschini, la forza riflessa di cui potrebbe godere per fare chiarezza sulle questioni che da mesi logorano il Pd: da cattolico e non da ex comunista, potrà forse gestire tra minor sospetti faccende delicate come il testamento biologico, per dirne una, o appunto il rapporto in Europa col Pse. «E in ogni caso - annota Nicola Latorre - il partito è in uno stato di tale fragilità che uno strappo avrebbe rischiato di trasformarsi in una frattuta, ed uno scossone in un terremoto». E dunque, dopo la fase veltroniana, nasce il Pd a «trazione cattolica». La novità, nel suo piccolo, è storica. E a parte l’ironia possibile delle forze radicali - che oggi potranno dire che dopo aver «ucciso» la sinistra fuori del Pd, Veltroni ha ammazzato anche quella dentro il Pd - a parte questo, dicevamo, ieri l’amarezza di molti ex diessini per il cambio di mano era visibile. Ora, nessuno può sapere se l’avvicendamento al vertice segna l’avvio di una sorta di alternanza alla guida del Partito democratico tra esponenti di provenienza cattolica e diessina: è certo, però, che molti eredi della Quercia già guardano al congresso di ottobre come all’occasione per una rivincita. Ma nella galassia del Partito democratico, al di là dei rapporti di forza, nulla è più scontato: come hanno per esempio dimostrato le primarie che nella «rossa» Firenze hanno visto prevalere un cattolico nella corsa alla candidatura a sindaco.

E proprio di Firenze parlava ieri al telefono una delegata ex diessina che aveva appena accettato, per stato di necessità, di votare Dario Franceschini: «Ascoltami, abbiamo preso una decisione di buon senso. Perché anche le primarie, se devono andare come a Firenze, non sono sempre una soluzione. Adesso si tratta solo di vedere come il buon senso incrocerà l’umore e le esigenze dei nostri elettori...». Sembra un interrogativo da poco: ma dalla risposta che arriverà, invece, dipenderà probabilmente il futuro del Pd. 
 
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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:24:55 am »

24/2/2009 (7:29) - INTERVISTA AL SINDACO DI BOLOGNA

"Se Dario chiama io sono pronto a tornare in campo"
 
Cofferati: ma preferivo le primarie


FEDERICO GEREMICCA
BOLOGNA

Un soldato. Anzi: un vecchio soldato. Sergio Cofferati si definisce così, e spiega: «Sono rimasto uno di quei militanti che ancora attribuiscono un valore alla disciplina ed al rispetto delle regole». Ragion per cui, pur avendo avversato la via poi imboccata dall’Assemblea costituente (cioè quella dell’elezione subito di un nuovo segretario), l’ex leader della Cgil e ancora per pochi mesi sindaco di Bologna, è pronto a dare una mano a Dario Franceschini: fino a rendersi disponibile ad una permanenza in prima linea.

Spieghiamola meglio, questa sua posizione. Anche perché ho qui davanti agli occhi le dichiarazioni con le quali chiedeva che la scelta del segretario fosse fatta attraverso elezioni primarie.
«E non ho nessuna difficoltà a dirle che non ho cambiato opinione. Nei giorni scorsi ho detto quel che pensavo, e ho anche fatto la mia piccola battaglia: continuo a ritenere - pur avendo chiare le difficoltà politiche e organizzative - che sarebbe stata più utile ed efficace un’investitura popolare del nuovo segretario, appunto attraverso elezioni primarie».

Però?
«Però è stata fatta una scelta diversa. Che rispetto, naturalmente. Non avevo alcuna contrarietà alla candidatura di Dario Franceschini: ho solo posto, esplicitamente, un problema di metodo e di efficacia. Sabato ero a Roma, e non ho votato perché non faccio parte dell’Assemblea costituente: se avessi potuto, avrei votato per lui. Comunque, ora questa pagina è voltata e dobbiamo impegnarci tutti a dare una raddrizzata alla barca».

Lei dice tutti: e se Franceschini ritenesse di aver bisogno di Cofferati ancora in prima linea?
«Disponibile a dare una mano. Vado via da Bologna per ragioni private, non certo per altro. Se il mio partito lo riterrà utile - ma devono decidere loro: non lo decido io - impiegherò le energie che mi rimangono nella posizione che vorranno purché sia compatibile con la scelta da me fatta».

Parlava della necessità di raddrizzare la barca...
«Sì, partendo da una questione che a me pare diventata assolutamente prioritaria. E cioè, come si sta nel Pd: che è uno dei principali problemi che ha il Pd. Parlo delle modalità con le quali si gestisce la dialettica interna. Perché se tu sei il segretario e io non sono d’accordo su una scelta che fai, te lo dico, ti prospetto le mie alternative, ne discuto con franchezza e perfino con determinazione: ma poi quello che si decide - o perché c’è una istanza che si pronuncia o perché c’è una mediazione - diventa anche la mia soluzione. E dovrebbe diventarla per tutti. Allo stesso tempo, non deve essere messo in discussione il ruolo del segretario».

Perchè dice dovrebbe?
«Perchè nel Pd, nel corso di questi mesi, non è mai stato così. E se è vero che su alcune questioni ci sono state oscillazioni e incertezze, è altrettanto vero - ma di questo si tende a non parlare - che troppe volte le decisioni non sono diventate le decisioni dell’intero gruppo dirigente. Le dimissioni di Veltroni - atto politico che io ho condiviso - hanno segnalato con chiarezza l’esistenza di questo problema, che viene un po’ rimosso: si chiama solidarietà dei gruppi dirigenti e gestione delle decisioni».

Lei sabato ha ascoltato l’intervento di Franceschini: ha annunciato una mezza rivoluzione. Rinnovamento, azzeramento del governo ombra, rispetto per le opinioni dei leader storici ma nessuna sudditanza: «Deciderò da solo», ha detto. Ci crede?
«Le cose che ha sostenuto rispetto ai comportamenti nel partito, le condivido: credo che debba fare quel che ha annunciato, assumendosene le responsabilità. E conoscendolo un po’, sono anche convinto che quel che ha detto lo farà davvero. Naturalmente, non potrà portare da solo il Pd fuori dalla situazione in cui si trova: il gruppo dirigente e il partito nel suo insieme dovranno fare per intero la loro parte».

A cominciare?
«A cominciare dal fare tutto quel che serve - e ancora di più - per ottenere il massimo risultato alle elezioni di primavera. Mauscendo una volta per tutte da questo schema mentale della sinistra per cui ogni appuntamento elettorale è un’ordalìa, un giudizio divino per i gruppi dirigenti. Nessuno ha mai il tempo per costruire una linea, una strategia... E considerato che da noi si vota una volta all’anno, se affidi la credibilità dei gruppi dirigenti ai cicli elettorali, non vai da nessuna parte».

Si è parlato di una certa sofferenza degli ex Ds per aver perduto la guida del Pd a vantaggio di un esponente cattolico ed ex democristiano. Le pare la premessa per nuove tensioni?
«Dario è figlio di una storia politica riformista, che conosco bene perchè è quella della Pianura Padana... Questa cultura riformista, che stava in un partito di governo - la Dc - sia pure in posizione minoritaria, non è poi così diversa da quella che c’era, ben radicata ma anche lì in posizione minoritaria, nel Partito comunista. Io ho gli anni che servono per ricordarmi che quando ti volevano appellare con una punta di disprezzo, ti chiamavano riformista. Questo tratto, questa cultura riformista, peserà: in verità, segnala un’identità comune molto forte, che allora era nascosta dal fatto che un partito era al governo ed un altro all’opposizione».

Un’ultima domanda, sindaco: sembrerebbe che dietro l’elezione di Franceschini ci sia un accordo che prevede che lui non si candidi alle primarie d’autunnno. Crede che sia giusto e che poi andrà così?
«Io trovo che questa discussione sul dopo, almeno per come l’ho letta sui giornali, sia abbastanza insensata. Se Franceschini si candiderà al congresso o se non si candiderà, lo deciderà lui sulla base del lavoro e dei risultati di questi mesi, immagino. E fare entrare nella discussione di oggi quello che dovrà decidere lui tra otto mesi, è sbagliato. Inoltre, non dovrebbe sfuggire a nessuno che cominciare a discutere oggi di questo ci fa riprecipitare negli errori che già tanto ci sono costati».

da lastampa.it
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« Risposta #54 inserito:: Marzo 09, 2009, 10:29:23 am »

9/3/2009 (7:23) - PARLA L’EX MINISTRO

"Tre progetti per salvarci dalla crisi"
 
«Franceschini? Niente patti segreti con lui Se vuole a ottobre può correre da leader»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Dritto e schietto, perfino più del solito: «Ma lasci stare... è soltanto propaganda. Che Franceschini sia diventato un signor no, è argomento buono - forse - per i loro comizi. Noi non diciamo solo no: avanziamo proposte alternative, come si è visto negli ultimi giorni». Pierluigi Bersani cita l’ultimo esempio: il piano casa. «Il governo propone una via che può scardinare l’Italia. Bene, noi non diciamo solo no: aggiungiamo che è meglio puntare su una sorta di tridente, di cui magari le dirò...». E infatti, poi parleremo del tridente: prima, però, è ovvio chiedere a Bersani un parere sui passi d’avvio di Franceschini: «Io dico: bene. Dobbiamo riconoscergli dei meriti». E non basta, perchéio dall’unico leader democratico che ha già annunciato la sua candidatura alle primarie d’ottobre, arriva un importante chiarimento intorno al futuro di Franceschini: «Dietro la sua elezione non ci sono patti segreti. Nessuno gli ha detto “ti facciamo segretario, ma alle primarie non devi candidarti”. Deciderà Dario cosa fare: e se vorrà candidarsi, nessuno potrà impedirglielo».

Interessante... ma lei vorrà partire dal tridente, no?
«Con l’aria che tira, magari interessa più del futuro leader del Pd... Se il punto - col piano casa - è attivare il settore costruzioni ed edilizia, faccio una controproposta: attiviamo una sorta di tridente. Primo: i cantieri locali. Sbloccando un po’ di soldi per le grandi opere e mettendo un po’ di libertà al patto di stabilità dei Comuni, apriamo mille cantieri locali per manutenzione di scuole, strade, sovrappassi, rotonde, qualunque cosa ci sia da fare e che possa partire in sei mesi. Secondo: le detrazioni fiscali per le ristrutturazioni. Potenziamole. Il governo le aveva stoppate e le ha comunque complicate, ma sono la prova che si può attivare l’edilizia senza stravolgere le regole. Terzo: fare finalmente il piano casa pubblico. Questo governo ha bloccato soldi che avevano stanziato Prodi e Di Pietro, assieme alle Regioni: sono sempre lì, aspettano di essere investiti».

Si tratta di direttrici molto diverse l’una dall’altra...
«Sì, ma perfettamente in grado di rilanciare l’edilizia senza stravolgere le regole. Non si vede perché dovremmo scardinare l’Italia introducendo - unici in Europa - un meccanismo che non prevede nemmeno l’approvazione dei progetti».

E perché il governo lo propone? Crede davvero che si voglia cementificare il Paese?
«Questa è una sicura conseguenza, al di là delle intenzioni. E comunque il punto è che il governo, inventa diversivi e inscena colpi di teatro: ma non ha il bandolo della crisi. Primo, perchè manca un giudizio equilibrato su quel che sta accadendo: senza far catastrofismi, ci aspetteremmo però che il governo andasse in tv - come stanno facendo tutti i governi del mondo - dicendo “abbiamo un problema, e c’è un pezzo d’Italia che questo problema ce l’ha gravissimo”. Secondo: perché non coglie la particolarità italiana della crisi, legata al fatto che abbiamo un particolare rapporto banche-imprese, visto che solo qui le banche impegnano i due terzi dei loro crediti alle imprese. Insomma, c’è il rischio del cedimento di un sistema produttivo totalmente bancocentrico».

E come si potrebbe fronteggiare questo rischio?
«Una via potrebbe essere un intervento fiscale di detrazione degli investimenti retroattivo al 2008, perché il guaio maggiore oggi lo hanno le imprese che hanno investito e che adesso hanno i macchinari fermi e le banche che chiedono i soldi. Poi, si tratta di vedere con le banche se esiste una quota di questo credito - appunto quello relativo in particolare agli investimenti - che possa essere trasferito dal breve al medio-lungo periodo, anche con una parziale garanzia pubblica: rafforzando, cioè, un fondo che sostenga un’operazione di allungamento del debito almeno per una fascia di imprese che hanno investito».

Il problema è sempre lo stesso: dove prendere i soldi...
«E infatti, la questione è che, da un annuncio all’altro, il governo riciccia sempre gli stessi soldi. E’ come il gioco delle tre tavolette: i soldi sono ora su questa carta, poi su quella, ma quando vai a vedere non li trovi mai. Però, io che giro parecchio il Paese, le dico che c’è tanta gente che l’ha capito e dice “questi ci stanno prendendo in giro”...».

Ma la questione resta, no?
«Resta perché per affrontare la crisi un po’ di soldi veri ci vogliono. E quei soldi veri li procuri accettando per il 2009 uno 0,5% in più di deficit, e recuperando poi con alcune misure - in particolare di rientro dall’evasione - più qualche intervento di controllo della spesa corrente. Il problema, naturalmente, è volerla fare la lotta all’evasione...».

Andando al Pd, si avverte un nuovo clima: polemizzate meno, lavorate come una squadra e sostenete, invece che affondare, le iniziative del segretario. Le chiedo: perché state concedendo a Franceschini quel che non avete concesso a Veltroni?
«Non è giusto dire così... Non è così. In più, diamo anche a Dario dei meriti, no? E’ uno che lavora molto di squadra, ed è una qualità che gli va riconosciuta. Ma vorrei anche dire, per dare a Walter quel che è di Walter, che questa piega più consapevole del momento l’avevamo presa già nelle ultime settimane».

Franceschini ripete che non sarà candidato alla guida del Pd: è vero che questa rinuncia fa parte di un patto stipulato prima della sua elezione? Cioè, “noi ti eleggiamo segretario, ma tu non ti candidi alle primarie”...
«Non c’è nessun patto di nessun genere. Vale quello che è stato detto nell’assemblea che lo ha eletto: è un segretario vero, con pieni poteri. Secondo: questa storia di ridurre le nostre vicende a chi è il leader, non va bene. Occorre convincersi che in un grande partito non può esserci separazione tra leadership, il progetto organizzativo, il profilo culturale e le idee che porti. Se non abbiamo fatto le primarie improvvisate, è perché ci siamo tutti convinti che non può più essere così». Però non ha risposto. «Come no? Le ho appena detto che non ci sono patti di alcun genere».

Glielo chiedo in un altro modo. Lei sarà candidato alle primarie: vincerle senza Franceschini, non sarebbe un po’ strano?
«Come vede, in questi giorni ci stiamo occupando d’altro... Comunque, io dissi: mi candido perché ho qualche idea su come correggere l’andamento della barca. Il resto lo vedremo. Se ci sono altre idee, ci confronteremo». Insisto: e Franceschini potrà, se lo vorrà, candidarsi alle primarie con le sue idee? «Le ho detto che non esistono patti segreti: più di così! Deciderà Dario cosa fare. E mi pare chiaro che se vorrà partecipare alle primarie, nessuno potrà impedirglielo».

Un’ultima domanda: visto che già se ne discute, quale risultato considererebbe positivo per il Pd alle elezioni europee? Il 25%? Il 28? Il 30, come si ipotizzava un paio di mesi fa?
«Considero un buon risultato da dove siamo oggi in sù. Noi dobbiamo andare in su, poi le percentuali le vedremo. Abbiamo il problema di rimotivare chi ci ha votato nell’aprile scorso, e tutto quello che ci aiuta a ripartire va bene. L’importante è cominciare la risalita. E poi ragionare, naturalmente, sul rilancio strategico del nostro progetto politico».

da lastampa.it
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« Risposta #55 inserito:: Marzo 29, 2009, 11:15:36 am »

29/3/2009
 
Il nodo della Lega
 

FEDERICO GEREMICCA
 
Silvio Berlusconi concluderà oggi il congresso fondativo del Pdl e, archiviata con il discorso d’apertura l’epopea di una cavalcata certamente straordinaria, si attende ora di conoscere i propositi e i progetti che il maggior partito italiano ha in serbo per il futuro dell’Italia.

Non si tratta, ovviamente, soltanto di render note le ricette a breve - cosa pur decisiva - per affrontare la drammatica crisi in atto. Elettori e avversari del Pdl, infatti, intendono capire per quale idea di Paese Forza Italia e Alleanza nazionale hanno deciso di sciogliersi nel Popolo della Libertà: quale disegno istituzionale, quale politica estera ed economica, quali doveri e quali diritti (civili, etici, religiosi) in un’epoca di così repentini cambiamenti. Non troppo tempo fa, nei grandi spazi del Lingotto a Torino, Walter Veltroni tratteggiò, doverosamente, l’Italia per la quale nasceva il Pd: quel progetto fu sconfitto alle elezioni dell’aprile scorso, ma la circostanza certo non esime Silvio Berlusconi dalla necessità di render nota stamane la carta d’identità del neonato Pdl.

Concretissime e stringenti questioni
La richiesta potrebbe apparire singolare (o perfino strumentale) considerato che il Popolo della libertà, di fatto, esiste e governa il Paese già da quasi un anno: lo è invece assai poco, in verità, dopo aver ascoltato l’intervento svolto ieri al Congresso da Gianfranco Fini, «leader ombra» del neonato partito. Un discorso denso, quello del presidente della Camera, che oltre ad aver confermato evidenti diversità di accenti su questioni come il giudizio ed il rapporto con l’opposizione, ha decisamente posto il nuovo partito di fronte a concretissime e stringenti questioni programmatiche e di valori: la linea da tenere di fronte al dramma dell’immigrazione, l’approccio a temi «eticamente sensibili» come il cosiddetto fine vita, la posizione da assumere sull’imminente referendum elettorale, e la necessità di rilanciare un disegno di riordino istituzionale che accompagni e aiuti la trasformazione bipolare del Paese avviata dal Pd e consolidata dalla nascita del Pdl.

Su queste e altre questioni, Silvio Berlusconi dirà oggi la sua: e se è possibile azzardare una previsione, il tanto sottolineato dualismo tra «Silvio» e «Gianfranco» ne uscirà probabilmente ridimensionato. La loro sfida (ammesso che di sfida debba necessariamente trattarsi) ha infatti tempi lunghi, e non rende obbligatoria una resa dei conti immediata. E assai più probabile, invece, che se Berlusconi farà sua la filosofia che ha sotteso l’intervento di Fini, sarà un’altra la questione ad aprirsi in tempi che potrebbero essere assai brevi: e cioè, il rapporto con la Lega di Umberto Bossi. Nemica giurata del bipartitismo e dunque avversa al referendum di giugno, portatrice di un’idea nient’affatto coincidente del fenomeno-immigrazione e per di più assai innervosita dalle aperture all’Udc e dalla «vocazione maggioritaria» che anima il Pdl («Vogliamo il 51% dei voti», ha ripetuto il premier), è possibile che la Lega alzi il tasso di conflittualità che già da qualche settimana segna i suoi rapporti col resto della maggioranza. E questo - non sfugge a nessuno - potrebbe essere per Berlusconi un problema assai più delicato da gestire di quanto non lo sia la conflittualità con il suo vero o presunto delfino.

La «vocazione maggioritaria»
Del resto, è forse inevitabile che le cose vadano così. Infatti, proprio come accadde a Veltroni, è assai complicato annunciare una «vocazione maggioritaria», far passi verso il bipartitismo, auspicare il 51% dei consensi e tenere buoni rapporti con i partiti alleati del momento. È passato troppo poco tempo per aver già dimenticato che effetto ebbe sul governo di Romano Prodi la nascita del Pd. Ed è ancora sotto gli occhi di tutti quanto sia complicato, per i democratici, coltivare la politica delle alleanze propugnando un sempre più accentuato bipolarismo. Berlusconi, soprattutto all’avvio, lodò molto l’iniziativa «semplificatrice» messa in campo da Veltroni. Aveva ragione: anche se - in tutta evidenza - all’epoca ne vedeva più i vantaggi che le questioni che sarebbero sorte. Oggi, quei problemi si parano, assai simili, di fronte a lui. Come deciderà di affrontarli, potremo vederlo da subito: se avrà più fortuna di Romano Prodi, invece, lo capiremo solo più in là.

da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Maggio 08, 2009, 04:58:25 pm »

7/5/2009

Troppa fretta
   
FEDERICO GEREMICCA


Quando un disegno di legge catalizza opposizioni che vanno dal Pontificio Consiglio per i migranti fino all’Associazione dei partigiani, coinvolgendo trasversalmente organizzazioni di ogni genere - da quelle dei medici fino ai funzionari di Polizia - delle due l’una: o il provvedimento legislativo è sbagliato oppure il governo che lo propone è sommerso da un tale livello di impopolarità che farebbe bene a lasciare il campo.

Poiché - stando anche agli ultimi sondaggi - non è certo questa la situazione nella quale si trova l’esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, è allora assai probabile che sia il disegno di legge sulla sicurezza - ancora in discussione alle Camere - a contenere innovazioni e norme ritenute assai discutibili, se non addirittura sbagliate.

In casi del genere - nient’affatto nuovi - buon senso reclamerebbe il tradizionale «approfondimento».

Il tentativo, cioè, di apportare aggiustamenti e correzioni attraverso il confronto. Il governo, invece, ha deciso di porre la questione di fiducia, perché - come ha onestamente ammesso il ministro Maroni - «ci sono malumori in una parte della maggioranza». Malumori tanto diffusi, evidentemente, da mettere seriamente a rischio l’approvazione del provvedimento, nonostante il largo margine di cui il centrodestra dispone in Parlamento. E così, mettendo da parte l’entusiasmo col quale al Quirinale è stata accolta la notizia dell’ennesimo voto di fiducia (più volte sconsigliato dal Capo dello Stato soprattutto in materia di diritti delle persone) non si può non annotare come la scelta dell’esecutivo abbia prodotto un immediato inasprimento dei toni della polemica, che ha spinto Dario Franceschini a evocare addirittura il ritorno alle leggi razziali (sortita che ha rischiato e rischia di cambiare del tutto il terreno della discussione).

Il tema, naturalmente, è assai delicato. E lo è doppiamente per maggioranza e opposizione, che oltre ad avere il dovere di garantire la serenità dei cittadini, sanno ormai per esperienza che sulla questione-sicurezza si vincono o si perdono le campagne elettorali: e giusto tra un mese gli italiani torneranno alle urne... Secondo i leader del Partito democratico, naturalmente, sarebbe proprio questa circostanza ad aver spinto il Popolo della libertà (sotto la pressione della Lega) a cercare l’accelerazione sulla legge in questione. Falso o vero che sia, quel che è evidente è che il clima di collaborazione e addirittura di «pacificazione» che si era determinato a cavallo tra l’emergenza terremoto e la celebrazione del 25 Aprile, sta finendo di nuovo alle ortiche: con quali vantaggi, e per chi, è difficile da intuire.

Quanto al testo in questione, non c’è dubbio che esso porti - ben marcati - i sigilli della Lega. Dall’introduzione del reato di immigrazione clandestina, passando per il prolungamento fino a sei mesi del tempo di permanenza nei centri di identificazione, per finire alla istituzionalizzazione delle «ronde», quasi tutti gli obiettivi del partito di Umberto Bossi sono ora nero su bianco, pronti a diventare legge. E se un paio delle proposte leghiste sono state accantonate (quelle cosiddette dei medici-spia e dei presidi-spia) lo si deve, per ironia della dialettica politica, più all’intervento di Gianfranco Fini che dell’opposizione. Il testo, comunque, rappresenta un fin troppo evidente «giro di vite» che, se potrà forse piacere alla maggioranza dei cittadini, non è detto serva davvero a garantire maggiore sicurezza e livelli di minore clandestinità tra gli immigrati. Alcune norme (illustrate in dettaglio nelle pagine interne) sembrano anzi fatte apposta per favorire un ancor più diffuso «inabissamento» degli immigrati non ancora regolari.

È una linea pagante, quella della «durezza» proclamata e talvolta praticata? Ad un anno dall’insediamento del governo, l’interrogativo è legittimo. E se le opinioni possono essere assai diverse, sulle cifre - invece - c’è poco da arzigogolare. Se per esempio si assume come parametro quel che è accaduto in questi dodici mesi a Lampedusa, luogo simbolo del dramma immigrazione, qualche dubbio è lecito. Gli sbarchi sono più che raddoppiati e dall’insediamento dell’attuale governo (e sull’isola di una vicesindaco leghista) Lampedusa è diventata un inferno: fughe dal centro di identificazione, incendi nella struttura, immigrati in corteo assieme ai lampedusani e l’isola trasformata in una sorta di Guantanamo, con centinaia e centinaia di carabinieri e poliziotti a pattugliare ogni angolo di strada.

Fare dunque un punto a dodici mesi dall’avvio della «terza era» berlusconiana, sarebbe quanto mai opportuno. La via imboccata con il ritorno ai voti di fiducia (è già annunciato analogo percorso anche per la legge sulle intercettazioni telefoniche) si sta però confermando la meno adatta ad una analisi oggettiva e ad un sereno bilancio di quanto fatto. È un peccato: anche perché non era poi così difficile prevedere ciò che avrebbe determinato.

da lastampa.it
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« Risposta #57 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:42:58 am »

20/5/2009
 
Prigionieri dei processi del premier
 
 
FEDERICO GEREMICCA
 
E adesso, purtroppo, si può affermare che quel che fino a ieri era solo una deduzione logica (se esiste un corrotto, esisterà pure un corruttore!) da oggi è una circostanza giudiziariamente accertata: l’avvocato David Mills, condannato a 4 anni e 6 mesi per corruzione in atti giudiziari, agì «da falso testimone per consentire a Silvio Berlusconi e al gruppo Fininvest l’impunità dalle accuse o, almeno, il mantenimento degli ingenti profitti realizzati».

È questo, infatti, quel che scrivono i giudici milanesi nelle motivazioni della sentenza di condanna emessa nel febbraio scorso nei confronti dell’avvocato Mills: una sentenza - ora è possibile affermarlo - che avrebbe colpito anche Berlusconi, se la sua posizione non fosse stata stralciata dal processo dopo l’approvazione del cosiddetto lodo Alfano (legge varata nel luglio scorso e che impedisce di portare in giudizio le quattro più alte cariche dello Stato durante il loro mandato).

Dicevamo «purtroppo»: e non soltanto perché le motivazioni della sentenza milanese non sono certo tra quegli avvenimenti capaci di inorgoglire un Paese (e perfino - crediamo - gli elettori di Silvio Berlusconi).

Ma anche perché quel che è andato in scena, dal momento in cui quelle motivazioni sono state rese pubbliche, corrisponde a un copione già assai noto. E, potremmo aggiungere, tristemente noto: da una parte il premier che definisce scandalosa la sentenza, attacca i giudici e avverte che «quando avrò tempo andrò a riferire in Parlamento e vedrete cosa dirò»; dall’altra le opposizioni che, con accenti diversi (si va dall’accusa al premier di piduismo alla più ragionevole richiesta di rinunciare allo «schermo» del lodo Alfano), tornano a cavalcare un già sperimentato «antiberlusconismo giudiziario», provando a modificare il corso delle cose in vista del voto del 6 e 7 giugno. Nulla di particolarmente edificante, insomma. E sarà pure retorico aggiungerlo: ma davvero nulla di edificante, proprio nel momento in cui è di ben altro clima che il Paese avrebbe bisogno. D’altra parte, non c’è nulla di cui ci si possa sorprendere. È da quindici anni esatti, dalla «discesa in campo» di Silvio Berlusconi (1994), che cittadini, commentatori, forze politiche, intellettuali e chi più ne ha più ne metta, si azzuffano intorno ai processi istruiti nei confronti del Cavaliere. Quindici anni di condanne, assoluzioni, appelli e prescrizioni che hanno reso venefica l’aria nel Paese. Le opposizioni ci hanno naturalmente messo del loro, in ragione dei toni apocalittici e degli argomenti (per altro rivelatisi elettoralmente improduttivi) che hanno spesso usato; ma non può esservi alcun dubbio intorno al fatto che la responsabilità maggiore gravi sul presidente del Consiglio, in virtù di una scelta che fu fin dall’inizio definita sciagurata: e la scelta - come spesso sottolineato in passato - è quella di aver deciso di difendersi «dai» processi, piuttosto che «nei» processi.

È tutto questo - intendiamo il comportamento dell’uno e la propaganda degli altri - che in fondo ha reso tutti noi, il Paese insomma, prigionieri dei processi di Berlusconi: prigioniera la politica in senso lato, l’informazione nel suo complesso, prigioniero il Cavaliere - naturalmente - e perfino le opposizioni. Che hanno ormai da anni come cartina di tornasole della propria identità, e come fattore spartiacque per alleanze e rotture, proprio il giudizio e l’intensità della polemica nei confronti di Berlusconi. E tutto ciò, nonostante sia ormai quasi matematicamente dimostrato che inchieste e sentenze rafforzano elettoralmente il premier, capace di compattare e motivare i suoi sostenitori con la tesi «c’è un complotto di giudici e comunisti contro di me».

Per questo, in realtà, la rituale difesa che il centrodestra ha fatto ieri di Berlusconi («Giustizia a orologeria in vista delle elezioni») appare poco sentita, oltre che offensiva nei confronti dei giudici. Piuttosto, è un altro meccanismo a orologeria che si è messo in moto da ieri e che deve - questo sì - preoccupare davvero: ci riferiamo all’intervento che il presidente del Consiglio ha intenzione di svolgere di fronte alle Camere. Ci pensi bene, il premier, prima di andare nelle aule del Parlamento e muovere da lì il suo j’accuse nei confronti di un organo costituzionale; eviti di aprire nuove crisi, come quelle già troppe volte sfiorate col Capo dello Stato; fornisca al Paese la sua versione dei fatti con il necessario senso di responsabilità. Insomma, non dia vita a nuovi scontri. Ne sia certo: il Paese apprezzerebbe assai di più.
 
da lastampa.it
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« Risposta #58 inserito:: Giugno 08, 2009, 11:19:17 am »

8/6/2009
 
La prima frenata per Silvio
 

FEDERICO GEREMICCA
 
Silvio Berlusconi lì, sempre in alto eppure in calo, lontano - più lontano di quanto immaginasse - dallo scavalcare l’asticella posta alla fatidica «quota 40»; i democratici in netto calo rispetto al 33,1 per cento guadagnato con Veltroni poco più di un anno fa,maancora in piedi, vivi, avendo evitato il temuto precipizio; in forte crescita Di Pietro e Bossi, in salita l’Udc di Casini e il resto - le diverse sinistre, Lombardo e la destra, i radicali di Bonino e Pannella - sotto la soglia del quattro per cento. Più o meno è fatta così l’istantanea ancora un po’ sfuocata consegnata agli italiani, intorno alle due di ieri notte, dalle prime proiezioni. E si può dire che, rispetto ai sondaggi della vigilia, il voto per il rinnovo del parlamento europeo, alla fine, ha fatto registrare una sola vera sorpresa: la battuta d’arresto - anzi, l’arretramento - di Silvio Berlusconi rispetto alle elezioni di appena un anno fa. Centrate le previsioni anche sull’aumento dell’astensionismo: ma l’affluenza alle urne degli italiani resta di gran lunga superiore alla media europea, e andrebbero anzi perfino ringraziati per essere andati a votare così numerosi alla fine di una campagna elettorale che resterà indimenticabile per la sua pochezza.

Già il fatto che i commenti finiranno inevitabilmente per concentrarsi sull’interrogativo principe della contesa appena conclusa - e cioè su quanto Noemi abbia pesato sul voto - la dice lunga sul tunnel attraversato (e dal quale, a campagna finita, si spera di poter venir fuori). Di Europa, come al solito, ci si è interessati poco o nulla. Non è che per questo occorra menar scandalo: ma in precedenti campagne elettorali, almeno, il voto europeo era stato utilizzato comereferendum su problemi un po’ più consistenti del giudizio da dare su veline e voli di Stato o su chi sarà il candidatogovernatore di Berlusconi alle prossime elezioni in Veneto.

Sia come sia, il voto riconsegna al Paese due leader diversamente ma contemporaneamente acciaccati. Su Dario Franceschini c’è poco da aggiungere a quanto già noto: solo un miracolo, cioè un risultato elettorale sopra al 30%, poteva forse salvarlo (e non è nemmeno detto). Prese il Pd in un gelido giorno del febbraio scorso - quando i sondaggi accreditavano il partito di uno sconfortante 22% - con un unico mandato: esecutore testamentario del primo anno di vita dei democrats, un anno fatto di sconfitte elettorali, segretari dimissionari e pesanti interrogativi sul futuro. Un traghettatore.Unreggente. Che però ha fermato l’emorragia e messo un po’ d’ordine in giro. Il risultato ottenuto non è male: eppure ieri pare abbia chiesto ai maggiorenti delPd di attendere almeno il secondo turno elettorale, prima di ricominciare le danze.

Anche su Silvio Berlusconi, in fondo, c’è poco da aggiungere. Apiù di un italiano su tre, piace così com’è: con i suoi guai giudiziari, le sue belle donne, l’aria da furbo e una apparente concretezza nel governare. Eppure oggi piace meno di un anno fa. Non solo non sfonda la soglia del 40% da lui stesso indicata come obiettivo possibile, ma cala fin sotto al 35% perdendo tre punti rispetto all’aprile del 2008. Certo, poteva andar peggio, nel pieno di una devastante crisi economica mondiale, con un terremoto sulle spalle, le foto osè nella villa e i giornali di mezzo mondo che ironizzano su di lui. Ma il premier sbaglierebbe a sottovalutare il segnale che arriva dalle urne. Le cicatrici cominciano a essere tante, e il prestigio traballa. In più, Bossi e Di Pietro, da sponde diverse, lo incalzano. Non si resiste a lungo sotto la bufera. Dovrebbe provare a prendere questo voto europeo come una possibile ripartenza. Cambi strada, abbandoni quel tono da perenne sfida e torni a governare. In fondo, al di là di veline e sentenze, è ciò di cui ci sarebbe più bisogno.
 
da lastampa.it
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« Risposta #59 inserito:: Giugno 17, 2009, 03:01:08 pm »

17/6/2009 (7:49) - DEMOCRATICI VERSO LE ASSISE

Massimo e Walter si riprendono il banco
 
I rivali di sempre Massimo D'Alema e Walter Veltroni
 
Ricreazione finita: dietro Bersani e Franceschini, i capi sono i soliti due


FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Bisogna fare ammenda e ammettere onestamente che anche quella previsione si è rivelata sbagliata: intendiamo la certezza che, dopo le sfiancanti dispute su «partito leggero-partito pesante» e «dialogo sì-dialogo no», il top del surrealismo applicato al dibattito politico dei democrats fosse stato raggiunto. Errore: si può sempre fare di meglio. E i leader Pd lo stanno dimostrando. Il genere scelto, stavolta, ricorda un po’ il famoso “si fa ma non si dice”, e ci riferiamo - naturalmente - alla discussione divampata sul futuro segretario democratico. Che, sia chiaro, non è ancora cominciata, perché come ha ricordato ieri D’Alema da Crotone, «ora è inopportuna, va fatta dopo i ballottaggi». Però ovviamente nel Pd non si parla d’altro, e la notizia è che sappiamo che Bersani sarà di certo candidato, che D’Alema e Enrico Letta sono pronti ad appoggiarlo, che Prodi non si schiera, Rutelli sta pensando, che Veltroni, Fassino e i popolari ripuntano su Franceschini, e che i quarantenni sarebbero - invece - per un volto nuovo. Sarebbero, s’intende: con il condizionale.

Poi, naturalmente, c’è l’altra notizia. E’ anch’essa una non-notizia: eppure l’implacabile ciclicità con la quale si ripropone e l’inossidabile efficacia con la quale torna puntualmente a dividere, ne fanno qualcosa di addirittura superiore a una notizia, quasi l’unico elemento di certezza - di rassicurante certezza - tra le file composite del centrosinistra nostrano. Veltroni e D’Alema sono di nuovo in campo, ecco, l’un contro l’altro armati. Non è una novità, va bene; e probabilmente non è nemmeno una notizia. Ma di fronte alla desolante confusione che attraversa maggioranza e opposizione, è confortante sapere che almeno una cosa non cambia: la partita la giocano di nuovo loro due, capitani onorari di due modi così diversi di intendere la politica che viene da chiedersi com’è che da quarant’anni militano gomito a gomito nello stesso partito.

L’ingresso nell’arena è stato spettacolare, in ragione del fatto che nessuno dei due contendenti ha voluto cambiare di una virgola lo stile consueto. Giovedì 11 giugno Veltroni convoca le agenzie di stampa e giura: «Non mi tirate in ballo per cose che riguardano la vita interna del Pd, non ho intenzione di occuparmene. Vi stanno dando polpette avvelenate». Quattro giorni dopo, su Facebook, annuncia: «Se ritengo opportuno tornare a dire quel che penso, è perché avverto che il progetto di Partito democratico è messo in discussione», e comunica di aver chiamato a raccolta i suoi per il 2 luglio, «due anni dopo il Lingotto». E chi è mai che mette in discussione il progetto di Pd? Ma naturalmente Massimo D’Alema che, fiutando l’aria, qualche giorno prima se ne era andato a Red tv a spiegare che per la miseria ci sono voluti quasi due anni a sgombrare il campo dall’ubriacatura del Lingotto, fatta di incubi tipo i partiti di plastica e le vocazioni maggioritarie, e che sarebbe ora di rimboccarsi le maniche e cominciare a far politica sul serio. Lui è pronto, disponibile ad assumersi le proprie responsabilità. Per ora, pare, attraverso Pierluigi Bersani: ma non è detto che di qui all’estate qualcosa non cambi.

Per l’occasione Veltroni ha indossato l’ariosa e colorata armatura di sempre, sicuro di non deludere: «Il popolo delle primarie», Internet, il sogno che si è avverato, «ci vuole più riformismo, non il ritorno ad antiche certezze». D’Alema non si è fatto fregare e sempre più simile all’Andreotti del tempo che fu, ha accompagnato la sua scesa in campo con malefici, doppi sensi e profezie, lasciando che la tribù politica si interrogasse - e si dividesse - su scosse e governissimi, apprezzamenti alla classe dirigente del centrodestra e frustate al suo Pd. Scesi loro in campo - fingendo truce indifferenza l’uno nei confronti dell’altro - parapiglia e confusione sono come spariti. Della Serracchiani non si parla più; del segretario “outsider” nemmeno si bisbiglia; e il leader donna è una simpatica fantasia che è bello ricordare. Ma non ora, appunto: ora si fa sul serio. Come direbbe la Marcegaglia (e D’Alema probabilmente apprezzerebbe) la ricreazione è finita, e ognuno torni al posto di combattimento.

Confortante. Anche perché è evitato il rischio maggiore: il salto nel buio alla disperata ricerca della novità. Del resto, dall’altra parte non fanno così? Fini e Berlusconi non è tre, quattro lustri che stanno sulla scena? E Tremonti, La Russa e Bondi non è quindici anni che compaiono sempre uguali in tv? «Perché la politica è per professionisti, è una cosa seria», direbbe D’Alema. «Che è il motivo preciso per il quale la gente si disaffeziona e non sogna più», replicherebbe l’altro. Per dire che è talmente vero che si torna al canovaccio solito che in fondo si conoscono già strategie, argomenti, attacchi e difese dello scontro che verrà.

Proprio come quando litigano Berlusconi e Fini: già sai come comincia, e anche come finirà. E in effetti, se già ci sono tante cose serie su cui dividersi, che senso ha inventarne di nuove? La conclusione, dunque, è che non c’è da attendersi grandi novità: combatteranno i capitani, e gli altri si sistemeranno come sempre di qua o di là. Solo che, all’ennesima riedizione del solito duello, una cosa la si può dire: e forse è una novità. Basta dare la colpa a loro due. Basta dire che non se ne può più, se non si fa nulla perché non accada più. Non è colpa di D’Alema se ogni volta che apre bocca si scatena un pandemonio e le sue azioni crescono; e non è colpa di Veltroni se è ancora lui a incarnare il desiderio struggente di un partito che non c’è. Si organizzino i giovani o si coalizzino gli altri capicorrente; scendano in campo le donne e si armino i “coraggiosi”. Di più: si trucchino le primarie, perfino. Insomma, chi si lamenta dell’eterna sfida, faccia qualcosa. Altrimenti lasci godere gli altri di un duello così rassicurante. Sì, D’Alema contro Veltroni: perché se va avanti così, forse vuol dire che di meglio non c’è.

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