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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144698 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Marzo 19, 2012, 04:32:10 pm »

Viaggio nel centro scaligero

I mille volti di Verona : dalla destra alla Lega

La città veneta resta comunque una delle più amate all'estero


Verona è considerata la città più di destra d'Italia: lo scenario dei delitti di Ludwig. La città più nichilista: la culla di Pietro Maso, che uccide i genitori per l'eredità e poi va in discoteca. La città più razzista: i tifosi dell'Hellas multati di continuo per i cori su neri e meridionali (cui i napoletani risposero con uno striscione contro l'incolpevole Giulietta). Ora è considerata la città più leghista, grazie al sindaco Tosi, quello che arrivò al consiglio comunale con una tigre al guinzaglio, e disse che non avrebbe mai messo il ritratto di Napolitano in ufficio.

In realtà, Verona non è nulla di tutto questo. È semplicemente una città un po' complessata. Certo, l'estrema destra esiste, ma non è più rumorosa che altrove. Certo, Tosi con ogni probabilità sarà rieletto sindaco, ma non in quanto leghista, anzi per il motivo opposto: è diventato il sindaco di gran parte dei veronesi, non a caso ha sfiorato la rottura con Bossi. Il complesso di Verona è non essere considerata per quel che vale, non contare per quel che pesa.

A molti veronesi non importa più di tanto. «Non c'è mondo per me al di là delle mura di Verona, c'è solo purgatorio, tortura, l'inferno stesso»: non è solo un verso di Shakespeare, scritto sui portoni di piazza Bra e tatuato sui corpi di molti tifosi dell'Hellas; è una mentalità diffusa. Però alla città un po' pesa essere rappresentata in modo così negativo nel resto del Paese. Tanto più che all'estero Verona è una delle città più famose d'Italia, all'altezza di Roma, Venezia, Firenze; infatti è la quarta per numero di turisti, tre milioni l'anno. Ricca anche in tempi di crisi, da sempre porta d'Italia per il mondo tedesco, Verona si sente sottorappresentata, avverte di non avere quel peso politico e culturale che la sua forza le consentirebbe. Questo vale un po' per tutto il Nord-Est, ma a maggior ragione per Verona, che del Nord-Est è la città più popolosa (264 mila abitanti il Comune, quasi un milione la Provincia). Gente che si sente a volte presa in giro dal potere romano. Se c'è un veneto in un film, per dire, è un mona, una macchietta. E al governo non c'è un veronese da vent'anni, dai tempi di Gianni Fontana ministro dell'Agricoltura e delle Foreste. Ci sarebbe anche Aldo Brancher, nominato ministro nell'estate 2010; ma dopo tre giorni il Quirinale lo rimandò indietro.

Nella tana degli ultrà
«A Pescara ci hanno gettato addosso topi e pesci morti!». «A Napoli ci hanno tirato conigli vivi, e poi molotov e bombe carta!». «A Salerno ci hanno pisciato addosso!». E in che modo, scusate? «Ingegnoso: bottiglie aperte e fatte scivolare sopra la rete che copriva il nostro settore. A Foggia invece hanno unto di grasso la ringhiera su cui dovevamo appoggiarci. Sempre a Pescara l'hanno cosparsa di colla: si sono impiastricciati anche i bambini. L'avessimo fatto noi a Verona, titoli in prima pagina. L'hanno fatto al Sud, e neanche una riga».
Incontrare alcuni tra i capi della tifoseria dell'Hellas è complicato. Detestano i giornalisti, dicono che li denigrano da sempre, che ingigantiscono i torti fatti e nascondono quelli subìti dagli ultrà. Anzi, loro rifiutano di farsi chiamare così: sono i «Butei», i Ragazzi. Ci ricevono nello scantinato di un'osteria fuori porta, trasformato in museo del tifo, con cimeli e maglie dal 1903 in poi: Zigoni, Dirceu, Elkjaer con lo scudetto dell'85, l'unico anno in cui ci fu il sorteggio integrale degli arbitri, prontamente abolito. Il leader storico è Alberto Lomastro, un muro di tatuaggi, capelli lunghi ormai brizzolati: se il sindaco Tosi continua ad andare in curva, lui adesso va in tribuna. Fu anche arrestato e poi scagionato, quando allo stadio impiccarono un manichino raffigurante un nero, tipo Alabama dopo la guerra civile. «Non siamo dei santi. Ci mettono in croce per qualche ululato, che si sente in tutte le curve. Ma i cattivi siamo sempre e soltanto noi». L'ululato è razzismo. «Non siamo razzisti, ma goliardi. Quando i napoletani vennero qui con lo striscione "Giulietta è 'na zoccola", non ci siamo offesi: le battute si danno e si prendono. Noi a Napoli non potevamo neppure andare». Fino a quando, nell'88, si misero in viaggio verso Sud in settanta, su un pullman e due furgoni. «Quella volta ci accolsero bene, riconobbero il nostro coraggio». È durata poco. «A Napoli vendono le sciarpe con la scritta "Io odio Verona". E nessuno fiata. Lo facessimo noi...».
Tosi minimizza: «L'Hellas ha più di diecimila abbonati. Se qualcuno si comporta male, non è giusto criminalizzare tutti. Del Chievo non importa a nessuno, almeno non a me. Chievo è un quartiere. L'Hellas è la città». Resta il fatto che la società quest'anno ha già pagato multe per oltre 146 mila euro. In settimana ne è arrivata un'altra da 40 mila, per i cori contro Oduamadi e Ogbonna, calciatori del Torino peraltro battuto 4 a 1. Già tre volte l'Hellas ha dovuto giocare a porte chiuse, a causa dei cori razzisti contro Coly del Perugia, Asamoah del Modena, Koné della Pro Sesto. «Ma a noi ci multano appena respiriamo! - lamenta Lomastro -. Siamo stati puniti pure per gli insulti contro Remondina, il nostro allenatore, caso unico nella storia del calcio. Poi al suo posto è arrivato Mandorlini. Una volta, per svelenire l'atmosfera, ha cantato "Ti amo terrone", una canzone degli Skiantos. Hanno multato pure lui. Ma con quella canzone gli Skiantos hanno vinto il premio Tenco, una cosa di sinistra!». Alla parola «sinistra» pare che l'antro dei Butei debba crollare da un momento all'altro. «Ma no. Tra noi c'è di tutto, da Forza Nuova a Rifondazione. Le Brigate gialloblù nei primi Anni 70 erano di sinistra. Abbiamo fatto alleanze con curve "rosse" come quella della Samp. Siamo persino amici con i tifosi del Lecce...».

Dal sindaco Tosi
Non soltanto nell'ufficio è bene esposto il ritratto di Napolitano, tra il tricolore e il berrettino dell'Hellas. Flavio Tosi ha pure invitato il presidente a celebrare i 150 anni, nel giugno 2011, e l'avrebbe voluto di nuovo sabato scorso, per il 17 marzo. Mostra la lettera con la risposta: «Caro sindaco, la ringrazio, ma ho già un impegno al Quirinale». Cos'è successo, Tosi? Ha cambiato idea? «Sono cambiato io. Fare il sindaco ti fa maturare. Capita a tutti, in gioventù, di dire sciocchezze. La storia del ritratto era una sciocchezza».
In questi anni Tosi ha compiuto due operazioni politiche. Ha traghettato la destra nell'orbita della Lega: non a caso ora il Pdl si divide, una parte con lui, l'altra con l'ex presidente della Fiera Luigi Castelletti (preceduto nei sondaggi anche dall'uomo della sinistra, l'ambientalista Michele Bertucco). E ha trasformato la Lega stessa: sempre meno partito ideologico legato al mito della secessione, al carisma di Bossi e al baricentro varesotto, sempre più sindacato del territorio, capace di incarnare le varie anime del Veneto. Per questo la polemica sulla lista civica trascende i destini di Tosi e della Lega; riguarda la città. Tosi non è un progressista illuminato, è un familista che ha fatto nominare la sorella Barbara capogruppo in consiglio comunale e promuovere la moglie in Regione (lei l'ha ripagato dicendo che voterà Pdl, lui assicura che la fronda familiare è rientrata). Non rinuncia alle bizzarrie, come il tuffo di Capodanno nel lago di Garda, tipo Mao nello Yangtze. Però è uno che vive in mezzo alla gente, lo incontri in pizzeria sino a tardi come il Bossi degli anni ruggenti, e per gli interessi dei veronesi rompe le scatole a tutti, comprese le multinazionali come Ikea: volete aprire uno stabilimento in periferia? Bene, però dovete assumere i licenziati della Compometal. All'Arena ha mandato come sovrintendente un perito agrario, che però ha risanato i conti. E quando un ragazzo, Nicola Tommasoli, fu massacrato da cinque estremisti neri per una sigaretta, Tosi espresse l'indignazione dell'intera comunità. Verona ha trovato un politico che non sarà estraneo ai complessi della città, ma proprio per questo la rappresenta. Per Tosi rinunciare alla propria lista avrebbe significato mettere la Lega davanti alla città; e la città non gliel'avrebbe perdonato.

Bossi aveva minacciato più volte di metterlo fuori per questo. Non erano parole al vento. Bossi ha sempre governato il partito così, per espulsioni. A maggior ragione in Veneto, terra per lui straniera. I capi della Liga sono sempre stati cacciati, da Rocchetta a Comencini. Il sindaco per ora l'ha scampata. Alla fine l'accordo è stato trovato, con un escamotage: non una, ma tante liste Tosi. Quella dei pensionati, dei cattolici, dei fuoriusciti pdl, magari pure dei Butei. Per ora Bossi ha deciso di non rompere con Maroni, che Tosi definisce «meraviglioso». Ma, se a giugno Tosi vincerà il congresso veneto contro il segretario Giampaolo Gobbo e i veronesi del cerchio magico, Federico Bricolo e Francesca Martini, il Senatur potrebbe ancora scegliere la guerra, per lasciare in eredità almeno un pezzo di Lega al figlio Renzo. In tal caso, può succedere di tutto, altro che la tigre in Comune. Che poi sarà stata un cucciolo narcotizzato. «Manco per sogno! D'accordo, fu un'altra sciocchezza. Era per fare pubblicità al circo padano. Una bella bestia, però, di nove mesi. Quando ho fatto per accarezzarla a momenti mi stacca il braccio!».

Dal «Cuccia di Verona»
Sul portone c'è il cartello turistico: «Casa di Romeo». Tutti sanno che Giulietta e Romeo non sono mai esistiti, eppure a milioni vanno a visitare la casa, la tomba e il balcone di Giulietta, che è in realtà un falso dichiarato, un sarcofago medievale attaccato al muro. Spiega il grande Paolo Poli, in questi giorni in scena al teatro Nuovo, che al mito di Giulietta e Romeo tutti sentono il bisogno di credere, non solo i venditori di grembiuli e altre carabattole per turisti appostati nei punti strategici. Nel cortile della casa di Giulietta non c'è più spazio per un solo cuoricino, una sola scritta. Quando il portone geme sotto il peso dei lucchetti, vengono tagliati e riposti in apposite ceste, presto sostituiti da altri segni di amori più recenti.

Nella «casa di Romeo» abita invece l'uomo più potente della città. Paolo Biasi, presidente della Fondazione Cariverona, tra i primi azionisti di Unicredit, dispensatore di fondi per chiese, mostre, associazioni. Detto il Cuccia di Verona per la sua riservatezza: mai un'intervista; né lo è quella di oggi. Semmai, una conversazione informale. Dice Biasi che lui non avverte alcun complesso, e non cambierebbe Verona con nessun posto al mondo. La città del resto ha un'antica tradizione autarchica e castrense. Ai tempi dei Cesari aveva seimila abitanti e un'Arena da 40 mila posti, costruita per gli eserciti di passaggio: «Verona era l'autogrill degli antichi romani» sorride Paolo Poli. Gli austriaci ne fecero fortezza e caserma. Da sempre Verona basta a se stessa. Ora però le cose sono cambiate. Non c'è più la banca-bottega, ma una banca che travalica le mura, mette radici a Milano, si espande all'estero e quindi può essere più utile all'impresa locale. Biasi ha buone parole anche per i rivali del Banco popolare e per gli industriali. Certo, l'aeroporto perde milioni l'anno a causa dell'alleanza sbagliata con Montichiari, ma ora si cerca un nuovo partner. La crisi picchia duro sulla manifattura, ma risparmia l'agroalimentare. L'export è inferiore a quello delle altre province venete (pesa il fatto che le auto Volkswagen importate in Italia passano da qui), ma è più legato alla terra, alle vigne, agli allevamenti. Se l'industria della carta è ridimensionata, la Index è leader europeo delle membrane impermeabilizzanti; se i francesi della Hoover licenziano, i turchi del gruppo Ziylan vorrebbero comprare la Lumberjack. Calzedonia e Intimissimi sono di qui. Le seconde generazioni non si riposano ma diversificano: Andrea Bolla con la Vivigas, Andrea Riello con le macchine utensili; Michele Bauli compra una fabbrica di brioches in India, Gianluca Rana produce sughi a Chicago. I Rana rappresentano il capovolgimento di un'abitudine italiana: il padre, Giovanni, ormai attore degli spot di famiglia, si diverte; Gianluca, il figlio, lavora.

Questo non significa che Verona sia così soddisfatta. E non solo perché un veronese su 20 è disoccupato e uno su 10 è povero. Ora che si affaccia sul mondo, la città fatica a definirsi, a capire chi è. I vicentini la considerano poco veneta, i mantovani non la sentono lombarda. L'antica dominatrice Venezia è poco amata, Milano è distante. Verona non si è mai governata da sola, e porta memorie di eserciti soverchiatori, in particolare con le donne: Carlotta Aschieri uccisa a 25 anni, incinta, dalle baionette degli austriaci in ritirata; Isolina Canuti, costretta da un ufficiale sabaudo ad abortire sul tavolaccio di un'osteria, decapitata per farla tacere, gettata nell'Adige, che qui non è un fiume placido come i tanti che attraversano le città italiane, è impetuoso e gelido come un torrente. È stato uno scrittore veronese, Stefano Lorenzetto, a raccontare lo spaesamento e la frustrazione nel pamphlet Cuor di veneto. Anatomia di un popolo che fu nazione . Chi collega Arnoldo Mondadori, Walter Chiari, Emilio Salgari, Cesare Lombroso a Verona? Eppure sono nati qui, per poi andarsene. L'erede di Lombroso oggi è Vittorino Andreoli, che qui considerano il «medico dei mati», mentre l'artista del fumetto Milo Manara è visto come un tipo curioso che disegna strane storie. Più che con la testa, questa è una città che si capisce col cuore: da qui sono partiti san Giovanni Calabria e San Daniele Comboni fondatore dei comboniani; la rete di associazioni benefiche è tra le più fitte d'Italia, ogni sera la Ronda della Carità distribuisce pasti caldi, il gruppo del Samaritano ha 250 letti per i clochard; l'oste del Calmiere, l'osteria del bollito e delle tagliatelle coi fegatini davanti a San Zeno, ha fondato un'associazione per combattere le malattie infantili del sangue, financo i Butei dell'Hellas finanziano la ricerca sulla sindrome di Louis-Bar, male crudele che uccide nella seconda decade di vita.

La città dei teatri si riempie d'estate, per il festival shakespeariano. Lo Stabile diretto da Paolo Valerio organizza versioni itineranti di Romeo e Giulietta nelle piazze, ora ha prodotto un «Sogno di una notte di mezza estate» con gli attori di Zelig, regia di Gioele Dix. Dice Paolo Poli che questa forse è l'ultima volta che recita a Verona; ma dev'essere una sua forma di scaramanzia. E in ogni caso aggiunge di essere sicuro, dopo sessant'anni di palcoscenico, che da qualche parte a Verona - forse non distante dall'ansa dell'Adige, dal Ponte Pietra, dai cipressi del teatro romano - Giulietta e Romeo esistono davvero, hanno superato gli odi e le rivalità, i pregiudizi e i complessi; e sono finalmente liberi di amarsi, senza che nessuno li veda.

Aldo Cazzullo

19 marzo 2012 | 8:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_19/verona-citta-amata-all-estero-ha-da-sempre-il-complesso-di-non-contare-abbastanza-aldo-cazzullo_4e8e80aa-718f-11e1-b597-5e4ce0cb380b.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Aprile 02, 2012, 05:02:56 pm »

Viaggio nel capoluogo abruzzese

L'Aquila, una città sospesa tra dramma e speranza

Il ruolo (chiave) di giovani e artisti


Il 6 aprile 2009 il sole sorse alle 6 e 45. Nelle tre ore e un quarto di buio assoluto che seguirono il terremoto - i superstiti intravidero solo una colonna di fumo rossastro salire dalla città vecchia -, ognuno si comportò alla sua maniera. Chi si mise freneticamente a scavare. Chi rimase come imbambolato, incapace di reazioni. Chi radunò i figli e partì subito per il mare. Chi non voleva saperne di muoversi da casa. Chi ancora oggi non è tornato (almeno un migliaio), tra cui qualcuno che non risponde neppure più al telefono se vede sul display 0862, il prefisso dell'Aquila. Chi vorrebbe che la sua casa fosse ricostruita dov'era e com'era, anche sulla faglia di Paganica, che i geologi - uno di loro l'ha riconosciuto la scorsa settimana al processo - neppure sapevano esistesse. Quelli (314) che sono ancora in albergo. Quelli che hanno preso il contributo per l'affitto e vivono nella cantina del fratello. Chi ha appeso le chiavi del vecchio appartamento alla transenna sul corso, come i palestinesi all'ingresso dei campi profughi (una scena che ha impressionato David Grossman, lo scrittore israeliano). E chi si è costruito la casa con materiale fai-da-te.

Qualcuno si è lasciato morire. Tra gli anziani l'aumento dei decessi è un dato statistico, fa notare Pierluigi Biondi, sindaco di Villa Sant'Angelo, il secondo comune più colpito. Qualcuno ha cercato una soluzione al di fuori di sé. Tra i giovani, racconta Biondi, è cresciuto il consumo di droghe, alcol, psicofarmaci. Altri hanno semplicemente ricominciato a fumare. Chi ha paura a entrare in un luogo chiuso, chi non prende più l'ascensore. Sono cresciuti anche gli incidenti stradali: prima metà degli aquilani giravano solo a piedi, in un centro storico tra i più vasti d'Italia; ora girano solo in macchina.

Immaginate una città rimasta senza Cattedrale e senza Comune, senza liceo, università, biblioteca, Poste, teatro, senza ristoranti, bar, caffè, pub, pizzerie. E immaginate che tutto questo sia stato duplicato, in forme ovviamente meno belle e più scomode, sul «frontestrada» come si usa dire, in un dedalo di rotonde che da queste parti non si erano ancora viste.
Sono state duplicate anche le case. In 19 mila vivono nelle «new town»: confortevoli, neanche brutte, ma circondate dal nulla, senza una panetteria, una farmacia, una scuola (tranne l'asilo costruito dalla Fiat). Bazzano, Sant'Elia 1, Paganica 1, Paganica 2, Paganica 3: le hanno chiamate come le frazioni, eredi degli antichi castelli che fondarono la città, 99 secondo una tradizione forse inventata (99 è il numero magico dell'Aquila: 99 castelli che in città crearono 99 chiese, 99 piazze, 99 fontane...). L'unico punto di aggregazione è una tenda, con il calciobalilla, il televisore, il distributore di bibite a fare da bar, un tavolo da riunioni che la domenica diventa altare per la messa. Le vie si chiamano Fabrizio de André, Vittorio Gassman, Lucio Battisti.

Sostiene il sindaco Massimo Cialente che il momento peggiore fu all'inizio del 2010. Passata quella notte terribile, gli aquilani seppellirono i loro 309 morti, e non ebbero tempo di rendersi conto d'altro. Vennero qui un po' tutti. Berlusconi, più volte. I cantanti. La Nazionale di calcio. I leader del G8, ognuno con una promessa: la Merkel si impegnò a ricostruire Onna, Sarkozy la chiesa delle Anime Sante, Putin il palazzo Ardinghelli, Obama a sostenere borse di studio per i ragazzi dell'università. I volontari della Protezione civile cucinavano tre volte al giorno, «passavamo il tempo a mangiare» dice Cialente, che è medico e assicura che pure colesterolo e trigliceridi in media sono aumentati. Per costruire le new-town si lavorò giorno e notte, su tre turni. Poi, il 29 gennaio, la Protezione civile si congedò con una festa. «Alla fine del party hanno spento le luci e se ne sono andati - racconta il sindaco -. Il resto del Paese ha creduto che fosse tutto a posto. E noi ci siamo ritrovati soli. Con una città da ricostruire». E i leader del G8? «La Merkel ha fatto quel che aveva promesso. I canadesi e i giapponesi pure. Sarkozy, Putin, Obama? Qui non si è visto nulla. In compenso è arrivato un milione e mezzo dal Kazakhstan».

Ma la colpa non è solo degli altri. Il dissidio subito esploso tra il sindaco di centrosinistra e il commissario di centrodestra - il presidente della Regione Giovanni Chiodi - non ha certo aiutato. Tra 60 ordinanze governative, 80 decreti commissariali, centinaia di circolari, non si è capito più nulla. In tanti hanno presentato il piano di recupero del loro appartamento, ma in pochi hanno badato alle parti comuni. Tutti riconoscono all'abruzzese Gianni Letta di essersi dato da fare; ma i dissidi interni al governo hanno limitato le risorse. Risultato: due anni gettati via. Persino le case lontane dal centro storico, più facili da recuperare, sono ancora lì, con le crepe che ricordano gli affreschi medievali del Cattivo Governo. Ora, finalmente, qualcosa si muove. Il Comune ha approvato il piano per la ricostruzione. In cassa ci sono due miliardi. E c'è un ministro incaricato della questione, Fabrizio Barca. Qualche cantiere è partito, anche nel centro storico.

Il 6 maggio si vota per il nuovo sindaco, e anche questo sarà un elemento di chiarezza. Cialente ha vinto le primarie del centrosinistra. Alcuni tra i comitati spontanei sosteranno Ettore Di Cesare, imprenditore delle nuove tecnologie. Il Pdl è diviso: Alfano è venuto a benedire la candidatura dell'urbanista Pierluigi Properzi, ma in molti appoggiano Giorgio De Matteis, vicepresidente del consiglio regionale. I candidati sono nove, e la frammentazione potrebbe favorire Cialente.
Ma la soluzione non verrà solo dalla politica. I veri segni di speranza sono altri. È la sensazione che, passato il trauma improvviso e la lunga abulia, gli aquilani abbiano rialzato la testa. E stiano lavorando a una ricostruzione non meno importante, quella della comunità, dei rapporti umani, delle relazioni sociali, decisive anche sul piano economico in una città mai stata industriale, a maggior ragione da quando il polo elettronico è andato in crisi. Il Comune ha rilevato l'ex Italtel per farne un'incubatrice di imprese, al momento mezza vuota. Ma per un capoluogo che viveva di università (e di case da affittare agli studenti), di amministrazione, di teatro, di musica, di cultura, è fondamentale ricominciare a studiare, a recitare, a suonare, a parlarsi.

Fuori dal teatro comunale la locandina annuncia ancora lo spettacolo di domenica 5 aprile 2009: «Le invisibili» con Maddalena Crippa, storia di donne pachistane sfigurate con l'acido ma che nonostante tutto riprendono a vivere. Tre giorni dopo sarebbe dovuto arrivare Toni Servillo con «La villeggiatura» di Goldoni. Arrivò davvero, recitò nell'auditorium della Guardia di finanza. Il teatro Comunale è lesionato, la volta del foyer è a pezzi, ma qui gli attori non si sono mai fermati. L'Associazione artisti aquilani ha portato commedie e tragedie sotto i tendoni. Antonella Cocciante - la cugina di Riccardo - ha fondato un'associazione, Animammersa, per recuperare lo spirito nascosto della città, ha raccolto i racconti dei concittadini affidati a Facebook e ne ha tratto un'opera teatrale, recitata nelle new-town; ora per Pasqua si è inventata il festival «Mettiamoci una pezza», e ha ricevuto da tutto il mondo mille pezze colorate che per un giorno rivestiranno le rovine del centro storico. Per l'anniversario del terremoto, che quest'anno coincide con il venerdì santo, ci saranno la processione del Cristo morto e una fiaccolata: i nomi delle vittime saranno letti uno a uno. Quest'estate lo Stabile - diretto da Alessandro Preziosi, l'attore, e animato da Giorgio Iraggi - organizzerà spettacoli sulle piazze di fronte ai teatri distrutti o inagibili, Sant'Agostino e San Filippo. Mentre al Comunale i lavori sono partiti, e dovrebbero finire tra due anni.

Difficile calcolare i tempi per recuperare l'intero centro storico. Il sindaco dice dieci anni, al massimo quindici. Altri fanno notare che in Umbria, dove il sisma è stato meno grave, quindici anni sono già quasi passati, e il recupero degli edifici più lesionati non è neppure a metà. Intanto, all'imbocco del centro dell'Aquila, piazza Regina Margherita è stata riaperta, il giovedì e il sabato sera gli studenti sono tornati. (L'università nel 2009 aveva 27 mila iscritti. Grazie anche alla sospensione delle tasse, ne ha ancora 24 mila, per quanto tutti pendolari). Micael Passayan, madre aquilana e padre di origine armena, aveva un ristorante spagnolo, «Andalucia». L'ha ricostruito in un vecchio capannone dismesso, più colorato e allegro di prima. Fabio Climastone aveva una pizzeria, «La Quintana». Il 5 aprile fece notte con un cameriere, poi tirarono giù le serrande e rientrarono: al cameriere crollò casa davanti agli occhi, tirare tardi l'aveva salvato. Neppure la pizzeria c'era più. Climastone fondò con altri venti piccoli imprenditori un consorzio per la tutela dei prodotti locali, e ora gestisce uno dei ristoranti «Oro Rosso»: una catena che prende il nome dallo zafferano, ha aperto a Rimini e a Riccione, tra poco aprirà a Torino. Davide Stratta aveva un'enoteca in via Garibaldi. L'ha spostata in collina, dove ospita gli amici di «Scherza col cuoco», l'associazione che organizza corsi di cucina abruzzese in primavera e autunno, le «stagioni morte», in cui - lontano dal Natale e dalle ferie - c'è più bisogno di stare insieme. Mentre alla «Cantina del boss», nel parco del castello dov'è in costruzione l'auditorium donato dalla Provincia di Trento e da Renzo Piano, riunisce i suoi soci Matteo Gizzi, un ragazzo di 23 anni che sta creando la Banca di credito cooperativo dell'Aquila, per investire sul territorio una parte dei due miliardi che dormono nei conti correnti.

Certo, le immagini di vitalità svaniscono all'ingresso della zona rossa, vigilata da militari gentilissimi, ma vissuti come un peso dagli aquilani che non possono ancora entrare senza autorizzazione nel proprio quartiere, nelle vie dove sono nati e cresciuti. Il silenzio è assoluto, surreale. Due operai cingalesi dormono su una tavola di legno. Più in là, un gruppo di muratori mangia un panino attorno ad Anna Oxa che canta nel registratore, messo al volume più alto per infondere, se non buonumore, coraggio. Le sole altre anime vive sono i cani randagi, tra cui Pluto, celebre perché non perde una recita né una commemorazione.

I cantieri più avanzati sono quelli delle chiese. Per la ricostruzione il Vaticano ha mandato qui come vescovo ausiliare don Giovanni D'Ercole, uomo del cardinale Bertone: paracadutista, ha pilotato aerei civili, scalato il K2 con Alemanno, corso due volte la maratona di New York. All'Aquila si è beccato una richiesta di rinvio a giudizio per rivelazione di notizie apprese in un interrogatorio, durante l'indagine sui fondi Giovanardi, peraltro mai arrivati. Il 17 aprile il gup deciderà. Nel frattempo sono state restituite al culto San Mario alla Torretta, San Francesco a Pettino, Santa Rita, San Pio X al Torrione, santa Maria di Farfa, oltre alla meravigliosa basilica di Collemaggio, dove una cupola di plastica custodisce le spoglie di Celestino V. Recuperata la splendida facciata quattrocentesca di san Bernardino da Siena, che venne qui a morire, si sta lavorando a quella di San Silvestro, dove le giovani coppie venivano a sposarsi. A luglio sarà riconsacrata San Biagio, grazie alla Fondazione Banca di Roma, mentre il milione e mezzo del Kazakhstan servirà a recuperare San Giuseppino, sede dei Solisti Aquilani, che nell'attesa hanno ripreso a cantare nelle new town.
Appena fuori la zona rossa, il primo rumore che si sente è un misto di musiche, classiche e rap. Viene dalla palestra aperta da due fratelli di 24 e 22 anni, Jacopo e Alessio Scotti, con l'amico di origini iraniane Daryoush Shojaee, 24 anni. Prima del terremoto era un centro benessere. Ora è un punto di aggregazione dove si insegnano danza classica e breakdance.

Un'altra palestra la sta costruendo a Sant'Elia 2 Roberto Nardecchia: arbitro internazionale di basket, costretto a lasciare dopo un arresto cardiaco, nel terremoto ha perso tre allievi della sua scuola di minibasket, e ora ha chiamato il vecchio amico Meneghin per restituire ai superstiti un campo di pallacanestro.
Sono vicende come queste a ricordarci che il dramma e la speranza dell'Aquila ci riguardano, che la storia parla di noi. Perché l'intero Paese, per come l'abbiamo visto e raccontato in questi tre mesi, assomiglia un po' a questa città. Anche l'Italia, come l'Aquila, ha subìto un colpo duro, e talora si è lasciata andare. Anche l'Italia ha davanti a sé un tempo lungo per ricostruirsi, ma ha risorse - a cominciare dai suoi giovani - per farcela. Anche nel momento più duro, sarà bene ricordarsi che c'è anche un Paese che tiene, c'è anche un'Italia che - proprio come l'Aquila - resiste.


Aldo Cazzullo

http://blog.aldocazzullo.it

2 aprile 2012 | 9:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/cronache/12_aprile_02/cazzullo-laquila-giovani-artisti_16e15332-7c8c-11e1-b9fa-a64885bf1529.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Aprile 06, 2012, 03:16:29 pm »

Ostentava una finta laurea in Medicina.

Interpreto' le ansie di una parte del Paese

Il prepotente di genio «Chi sbaglia deve pagare»

Intuì il malessere del Nord, tenne testa alla Dc e a Craxi. Ma con riti celtici e Padania ha lacerato il Paese.

Due volte con Berlusconi, più di tutti l'ha insultato e difeso


Ora il colore si sprecherà: e di colore Umberto Bossi ne ha sempre fornito molto, sin da quando si faceva chiamare Donato e imitava la voce di Celentano, oppure - finto medico - usciva di casa con lo stetoscopio nella borsa dicendo che andava in ospedale e invece si infilava al bar; ogni tanto poi organizzava una serata per festeggiare una laurea in medicina mai presa, e quand'era già un leader politico pretendeva ancora di aver fatto parte in gioventù di un'équipe che lavorava a un certo laser dai poteri taumaturgici.

Si sprecheranno anche le invettive, di cui l'Italia è generosa con gli sconfitti; e di invettive Bossi ne ha meritate davvero. Ha offeso prima gli italiani del Sud, poi gli extracomunitari; ha portato in politica il linguaggio delle peggiori osterie; ha detto di voler «raddrizzare la schiena» a un magistrato sulla sedia a rotelle; ha espulso dal suo partito chiunque gli facesse ombra, fosse pure la sorella; ha minacciato di morte ogni suo avversario, da ultimo Monti. Soprattutto, Bossi ha soffiato sul fuoco delle divisioni del Paese, rinfocolando antichi rancori, straparlando di una secessione impossibile, tentando di approfondire il solco tra gli italiani del Settentrione e quelli del Mezzogiorno.

Eppure, se Bossi fosse stato solo un mitomane e un prepotente, non avrebbe contribuito a far crollare un sistema politico collaudato da mezzo secolo, non avrebbe trascinato dietro di sé milioni di elettori, non si sarebbe procurato un posto nella storia italiana. E invece, nella nostra storia meschina e grandiosa, Bossi entra di diritto. Con il suo armamentario orribile e ridicolo di grida gutturali, di elmi cornuti, di insulti maschilisti e omofobi, di famigliona impresentabile, di figli dai nomi immaginifici (Eridanio, Roberto Libertà), di seguiti famelici. Ma anche con il coraggio pazzesco di andare contro la Democrazia cristiana - un partitone dal 40 per cento (dalle sue parti, nelle valli bianche dell'Alta Lombardia, anche di più) sostenuto dall'America e dal Vaticano -, di attaccare comunisti e preti, Craxi e per qualche tempo pure Berlusconi, di far crollare la Prima Repubblica e tentare di costruirne una Seconda basata sul federalismo.

Bossi è entrato nella nostra storia perché, con il suo intuito da ignorante - in questo davvero imitatore di Celentano -, con il suo fiuto da uomo di bar, ha sentito per primo la richiesta di autonomia che cresceva dal Nord, un Nord stanco di una burocrazia asfissiante, di un fisco opprimente, di uno Stato sentito come distante e nemico, del centralismo romano e dell'egemonia culturale mediterranea. Un Nord animato da sentimenti forse non nobili, forse rancorosi e piccolo borghesi, eppure diffusi: l'allergia crescente per una Rai romanesca, un cinema e in genere un'industria culturale estranea fin dal gergo e dall'accento; l'insofferenza magari sbagliata per piccole cose - tipo essere fermati e un po' maltrattati da carabinieri dall'accento invariabilmente meridionale -, magari legittima di fronte a miti editoriali e personaggi di cui se fossero nati a Verbania o a Thiene non si sarebbe accorto nessuno. Un Nord, liberato dal pericolo rosso ma non dall'eccesso di statalismo, che alla fine degli Anni 80 chiedeva di contare di più, di essere meglio rappresentato, e di poter spendere sul territorio una parte maggiore delle sue imposte.

A questa domanda di dignità e di identità, di diritti e di interessi, Bossi ha dato una risposta disastrosa. La sua Lega fin dal principio è stato il più «sudista» dei partiti: familista e clientelare, costruito attorno al più mediterraneo dei criteri, non il merito e le regole ma i legami personali (meglio se di sangue) e la fedeltà al capo. Adesso si leggeranno amarcord sugli inizi, sulla fase epica in cui Bossi portava Maroni sotto i cavalcavia per tracciare le scritte sull'autostrada, si faceva 200 mila chilometri l'anno - divenuti nelle agiografie anche 300, 400, 500 mila -, e Cossiga, come gli confiderà più tardi un po' scherzando un po' no, meditava di fargli nascondere la droga in macchina per screditarlo. Ma fin dagli esordi goliardi o gloriosi la Lega e il suo capo si portavano dentro il vizio che li avrebbe perduti: la pretesa di sostituire il centralismo di «Roma ladrona» (slogan che non nascondeva l'odio per la capitale quanto per lo Stato) con quello di Cassano Magnago, l'illusione di reggere un partito salito anche oltre il 10% nazionale sempre con lo stesso gruppo di amici varesotti; il Piemonte affidato a chansonnier o a leaderini usa e getta, il Veneto governato con le espulsioni, prima Rocchetta poi Comencini, e se ne avesse avuta ancora la forza Bossi avrebbe espulso volentieri pure Tosi.

L'altro limite è stato la follia di sostituire una nazione che culturalmente esiste da secoli come quella italiana con una nazione totalmente inventata, la Padania. La Lega ha dato il meglio di sé con sindaci popolari e capaci, ma non ha compreso sino in fondo che il localismo italiano è fondato sulla città, sul Comune, sul campanile; non su una presunta patria nordica che non è mai esistita. Il partito di Bossi è cresciuto a dismisura non grazie ma nonostante i matrimoni celtici, i riti druidici, le ampolle di acqua del Po, il lancio della pietra e del tronco, il giro ciclistico della Padania, Miss Padania, il campionato del mondo delle nazioni non riconosciute (che la Padania vinceva sempre a mani basse). Del sole delle Alpi e delle rune al Nord moderato che ha creduto di riconoscersi nella Lega non importava ovviamente nulla. Eppure Bossi se n'è servito per creare un mito di gruppo, per forgiare quel «cerchio magico» partito da Merlino e Obelix per finire ai maneggi tanzaniani dell'infido tesoriere Belsito, attraverso i successi di Credieuronord, la pseudobanca del Carroccio.

Eppure, si aveva un bel sorridere dei leghisti. Per tre decenni, Bossi li ha guidati con un fiuto pazzesco, da rabdomante. Un po' tutti, a sinistra e a destra, ne annunciavano la fine, e lui rispuntava dove meno te l'aspettavi. Spregiudicatissimo, capace di andare al governo con i missini (dopo avere urlato «mai coi fascisti!») e di sfilare il giorno dopo al corteo milanese del 25 aprile, ora di attaccare la Chiesa - i «vescovoni» - ora di presentarsi come difensore della famiglia tradizionale dai matrimoni gay e baluardo dell'Occidente contro le moschee e l'Islam, di aggredire i comunisti talora anche fisicamente e di fare incetta del loro elettorato (del resto negli Anni 70 proprio al Pci si era iscritto il giovane Bossi).

Il massimo di spregiudicatezza, il Senatur l'ha avuto nel rapporto con Berlusconi. A inizio '94 intuì che l'alleanza era un percorso stretto ma inevitabile. Finse un accordo con Segni, in modo da screditarlo, poi andò ad Arcore. In canottiera, però; e quel segno plebeo fu letto come una sana dissacrazione, una rivendicazione di diversità rispetto al miliardario col mausoleo in giardino. Poi arrivò la rottura, a ben vedere per lo stesso motivo che ha portato anche stavolta alla fine del governo di centrodestra: il no di Bossi all'abolizione delle pensioni di anzianità. Vennero gli anni dell'antiberlusconismo leghista, degli insulti anche grevi, di «Berluskaz» e del «mafioso di Arcore». Fino a quando il patto non venne riscritto, per le Regionali 2000 e le Politiche del 2001, quando la Lega perse voti ma andò al potere, grazie anche al rapporto di ferro tra il capo e Tremonti. L'«asse del Nord» venne infranto dall'ictus e dalla malattia. Fu nell'anno di sofferenza e silenzio seguito all'11 marzo 2004, quando la famiglia Bossi si trovò in gravi difficoltà anche materiali, che si strinse definitivamente il rapporto di lealtà ai limiti della sudditanza con Berlusconi, e la volontà indebolita del fondatore fu condizionata da quegli interessi privati che ora (a meno di ripensamenti) gli impongono le dimissioni.

Un anno dopo l'ictus, Bossi diede la sua prima intervista, che segnò il ritorno alla politica. Dopo giorni di appuntamenti rinviati e attese tipo tenda di Gheddafi, aprì la porta della villetta di Gemonio non ancora ristrutturata all'inviato del Corriere . Raccontò di serate in famiglia passate a suonare la chitarra e a cantare Battisti. Espresse desideri poi realizzati, sia pure con alterne fortune: sentire una canzone in dialetto lombardo al Festival di Sanremo; vedere un film sulla battaglia di Legnano. E annunciò la fondazione della dinastia: «Dopo di me verrà mio figlio Renzo». Infastiditi, i colonnelli presero a chiamarlo «il delfino». Allora il padre, nel giorno della cerimonia dell'ampolla alle sorgenti del Po, inventò quel soprannome - «Trota» - che al rampollo è rimasto impresso come un marchio di inadeguatezza.
Oggi, in un sussulto tardivo di dignità, Bossi si rende conto di aver fatto male i conti, e dice: «Chiunque abbia sbagliato, qualunque cognome abbia, pagherà».

Nell'ultima stagione di governo, il suo proverbiale fiuto si era esaurito. La spinta dei «barbari» si era infranta contro l'immobilismo berlusconiano e si era fatta parodia con la pantomima dei ministeri finti nel parco di Monza. Alla difesa del Cavaliere, Bossi ha pagato prezzi altissimi. Anche perché - e qui sta il suo vero fallimento - alla fine non ha portato a casa, cioè al Nord, quasi nulla: la «devolution» annullata dal referendum del 2006, il federalismo fiscale interrotto dalla crisi finanziaria; di altre bandiere storiche, dai dazi sulle merci cinesi alle ronde, meglio non parlare. Così come è meglio ricordare il Bossi purosangue delle origini anziché quello imbolsito del tramonto, che a ogni domanda sgradita risponde con il dito medio. Oggi i tre quarti d'Italia che non lo sopportava fa legittimamente festa. Altrettanto legittimo è rendere al vinto l'onore delle armi. Ora vedremo se Maroni riuscirà a rendere la Lega un partito plurale e legato agli interessi del territorio, o se farà la fine di Martelli. Di sicuro, la causa di un Nord che chiede più rappresentanza e più libertà non finisce con Bossi.

Aldo Cazzullo

6 aprile 2012 | 7:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_06/cazzullo-bossi-prepotente-di-genio_6d1ed24a-7fa9-11e1-8090-7ef417050996.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Aprile 14, 2012, 12:15:32 pm »

BILANCIO DI UN VIAGGIO NELLE CITTA'

Segni di fiducia malgrado tutto


In quasi tutte le città, l'azienda con più dipendenti è il Comune. Quasi tutte sono candidate l'una contro l'altra a capitale della cultura europea per il 2019, o a patrimonio mondiale dell'Unesco (quando non lo sono già). Le procure che indagano su politica e affari hanno una gran mole di lavoro, nel Sud clientelare come nel Nord leghista. I gruppi industriali quasi ovunque cercano di alleggerirsi anziché crescere. Eppure è possibile uscire da un lungo viaggio in Italia convinti che il Paese in qualche modo tenga, resista, e per alcuni versi sia più unito di prima, pronto a ripartire.

Certo, i segni della crisi sono evidenti. A cominciare dalla proliferazione delle insegne «compro oro» (una sorta di simbolo dell'Italia di oggi) e «tutto a un euro», delle slot machine, delle pizzerie al taglio dove talora anche nei quartieri borghesi si compra la cena per tutta la famiglia. E il segno più doloroso dell'impoverimento è il degrado dei rapporti umani, il diradarsi di quelle relazioni che rendevano bello e allegro vivere nei centri storici, oggi splendidamente recuperati ma meno abitati di un tempo: molti ristoranti sono pieni di televisori accesi, molti centri commerciali tengono la musica a tutto volume, come a disincentivare la comunicazione tra le persone. L'Italia appare un Paese di cattivo umore. Impaurito dal futuro, spaventato all'idea di spendere e investire, come conferma il dossier Eurisko.

Eppure il tessuto sociale tiene. C'è un'Italia che resiste. Il patrimonio di ricchezza privata resta imponente, e andrebbe (almeno in parte) messo a frutto. Il potenziale turistico rimane talvolta inespresso; anche perché, grazie agli investimenti pubblici e privati di questi anni, le nostre città non sono mai state così belle. Forse le prospettive future dipendono anche dal modo in cui pensiamo l'Italia. Tendiamo ad esempio a concentrare l'attenzione sulla dorsale tirrenica, dove ci sono le grandi città tra cui quelle impoverite dal declino dell'industria statale, come Genova e Napoli; e dimentichiamo la dorsale adriatica, da Trieste tornata centro geografico d'Europa ai cantieri di Venezia, dal miracolo rinnovato dei romagnoli che riescono a vendere - ieri ai tedeschi oggi ai russi - un mare non bellissimo al fervore dei marchigiani, sino alla vitalità della Puglia (che non è solo vizio e corruzione) e alla resistenza dell'Abruzzo.

È vero che il Paese rischia di diventare meno multicentrico di un tempo: le banche locali sono finite quasi tutte a Milano, l'impasse del federalismo riporta i centri decisionali a Roma. Ma nessuna nazione al mondo ha così tante città forti di una propria storia, una propria identità, una propria specificità (non a caso i sindaci, pur con i loro problemi, non sono stati travolti dal discredito generale dei partiti). È sempre stato così; ma in un mondo globale, che diventa sempre più uniforme, questa è una ricchezza ancora non del tutto valorizzata. L'importante è essere consapevoli di chi siamo; e ricordarcelo anche nell'ora più difficile.

Aldo Cazzullo

14 aprile 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_14/cazzullo-segni-di-fiducia-malgrado-tutto_194f8fbc-85f1-11e1-a210-601cc21801c2.shtml
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« Risposta #124 inserito:: Aprile 15, 2012, 10:43:09 pm »

L'intervista - «Decideremo al congresso se allearci con il Pdl»

«Dopo Bossi mai più un leader carismatico Il nuovo segretario? Potrei non essere io»

L'ex ministro Maroni: «L'indipendenza della Padania resta il nostro progetto. E il momento è propizio»


Onorevole Maroni, è davvero convinto che Bossi non sapesse nulla dell'uso privato di denaro pubblico al vertice della Lega?
«Conosco Umberto Bossi da oltre trent'anni: non è mai stato legato ai soldi, ha sempre anteposto la Lega alla famiglia, come quando nel '90 ruppe con la sorella. Mi pare impossibile che fosse consapevole di quanto accadeva. È il tributo che gli devo».

Ci sono le firme di Bossi sui documenti.
«Se verrà accertato il contrario, me ne dispiacerò. Se è per questo, come segretario federale ha firmato anche i bilanci. Continuo a ritenere che il Bossi che conosco io sia diverso. Non voglio credere sia cambiato. In ogni caso, stiamo facendo le nostre verifiche interne per stabilire se, quanto e chi ha sbagliato».

Chi conduce l'inchiesta interna?
«Sono in tre: Stefano Stefani, il nuovo amministratore; Silvana Comaroli, l'amministratrice del gruppo parlamentare; e Roberto Simonetti, il presidente della provincia di Biella, con l'aiuto di una società esterna, la Price WaterHouse. Passeranno al setaccio tutto: i conti correnti, gli assegni, la contabilità, le proprietà immobiliari, con l'impegno di concludere entro il 30 giugno, data del congresso federale. Anche perché ogni giorno ne spunta una nuova, adesso i lingotti d'oro, i diamanti... roba da film dell'orrore più che da partito politico».

E lei, cofondatore, non sapeva proprio nulla?
«Degli investimenti in Tanzania ho letto sul Secolo XIX . Dell'amministrazione si è sempre occupato l'amministratore. Quando nel 2006 divenni capogruppo alla Camera, mi rifiutai di versare il contributo a quello di allora, Balocchi, perché non si capiva come sarebbe stato speso».

Ma come ministro dell'Interno non sapeva che dirigenti della Lega a lei ostili erano intercettati?
«Ho sentito anche questa, che sarei il regista dell'operazione. Be', se fossi riuscito a coordinare la Procura di Milano, quella di Napoli e quella di Reggio Calabria, sarei l'uomo più potente d'Italia...».

Regista, no. Informato, magari sì.
«Non è così, e per fortuna che non è così. Quando divenni ministro, andai dal capo della polizia e da altri a chiarire che non intendevo essere informato su indagini in corso».

Ha mai incontrato Bonet?
«Mai. Fu lui, attraverso una parlamentare della Lega, a chiedere di vedermi, dopo che era uscita la storia della Tanzania. Rifiutai».

Sulla posizione di Calderoli che idea si è fatto?
«Nessuna. Non inseguo le intercettazioni. Sarà l'inchiesta interna a stabilire come sono stati spesi i soldi del partito. Mi rimetto a questo accertamento. Nel frattempo, faccio notare che Bossi è stato l'unico segretario a dimettersi; Bersani e Rutelli non l'hanno fatto. Renzo Bossi ha lasciato il consiglio regionale; Penati no».

Per la successione si parla di lei, ma anche di un terzo uomo tra lei e Bossi. Come stanno le cose?
«A Bergamo ho lanciato il programma. Primo, fare pulizia, senza caccia alle streghe: io non sono Torquemada. Secondo, nuove regole: soldi alle sezioni, non in Africa. Terzo: meritocrazia. Quarto: largo ai giovani. Non mi considero anziano, ma certo faccio parte della prima stagione, nata con Bossi. La Lega del futuro, la Lega 2.0, ha bisogno di giovani. Per fortuna ne abbiamo: Zaia, Tosi, Cota, Giorgetti. Hanno la stoffa del leader? Non lo so. Valuteremo».

E se si ricandidasse Bossi?
«Ho già detto che lo voterei. In ogni caso, dopo di lui non verrà un nuovo Bossi. Un leader carismatico è per sua natura insostituibile. Verrà un nuovo assetto. E una nuova squadra. Gli equilibri tra i territori sono importanti, non a caso lo statuto prevede che il presidente e il segretario non siano della stessa regione. Se il congresso eleggesse un segretario veneto, sarei l'uomo più felice del mondo».

Sta dicendo che il segretario potrebbe anche non essere lei?
«Certo. Di sicuro sarà un segretario davvero federale. Collegiale. Un primus inter pares. Che tenga insieme il partito. Se no frana tutto».

Preoccupato dalle amministrative?
«Il timore c'è. Nei sondaggi paghiamo, ma non così tanto. Ci sarà un rimbalzo. E in prospettiva non siamo messi così male; anzi. La questione settentrionale è lì, intatta. Dobbiamo attrezzarci per essere ancora noi a rappresentarla. In questi dieci anni siamo rimasti un po' indietro. Dobbiamo ridefinire le nostre proposte su ambiente, energia, banche, piccole e medie imprese».

Tornerete ad allearvi con il Pdl?
«Al congresso ci sarà da prendere una decisione. O puntare sull'identità e andare da soli; o costruire un accordo per far ripartire il federalismo».

Lei è per la seconda linea?
«L'istinto prevalente è per la prima. Io mi limito a ricordare che andando da soli abbiamo colto grandi vittorie elettorali, come nel '96, quando arrivammo al massimo storico, senza però essere determinanti. Costruendo alleanze abbiamo colto grandi vittorie politiche. Se il Pdl proseguirà con il rinnovamento e riconoscerà l'errore di aver sostenuto Monti, il dialogo potrà riprendere».

I suoi rapporti con Tremonti come sono?
«Freddi. Lui è insofferente a ogni critica. Ricordo le riunioni notturne con Pezzotta, Angeletti e D'Amato quand'ero ministro del Welfare: Tremonti s'alzava sbattendo la porta per un commento critico del Sole 24 Ore . Io però lo stimo molto. Ha spunti geniali. Nella fase di progettazione che ci attende, il suo contributo sarebbe prezioso».

Il regno di Formigoni non è durato troppo a lungo? Gli scandali della Regione Lombardia non la imbarazzano? «Sì, ma noi siamo gente seria e manteniamo gli impegni. Non faremo cadere Formigoni. Se poi nel 2013 lui deciderà di andare a Roma, noi ci candideremo a governare la Lombardia».

Come sarà la Lega del futuro? Parlerà ancora di secessione e indipendenza della Padania? O punterà su autonomia e federalismo?
«L'indipendenza della Padania resterà sempre il nostro progetto. Ci si può arrivare con la rivoluzione o con l'accordo, come hanno fatto Repubblica Ceca e Slovacchia; ma la prospettiva non è affatto tramontata, anzi, il momento è propizio. Gli Stati-nazione non contano più nulla. Non governano né i confini, né la moneta, né la politica estera; ora, con il fiscal compact, non governeranno neppure più le finanze. E anche la burocrazia di Bruxelles è in crisi. Noi non siamo antieuropeisti, ma neoeuropeisti: dall'Europa a 27 Stati si deve passare all'Europa delle macroregioni. Una sarà la Padania».

E l'Italia? Scomparirà?
«L'Italia è già scomparsa. Ha perso la sua sovranità. Lasci stare Monti, che si fa dettare l'agenda da Merkel e Sarkozy. Noi stessi siamo stati costretti a fare una guerra in Libia che non volevamo».

Ma lei, che è stato ministro dell'Interno, non si sente italiano?
«Io mi sento europeo. E sono profondamente legato alle mie origini, alla cittadina dove sono nato. Quando nel '94 da sconosciuto divenni ministro, i giornali scrissero che ero di Lozza, "quartiere di Varese". Mi ritrovai mezzo paese sotto casa. Pensavo volessero festeggiarmi. Erano lì per protestare: "Devi dire che siamo un Comune!". I Comuni sono la base del federalismo italiano».

Perché allora l'ampolla, il dio Po, i riti celtici?
«Quella è l'identità. La pancia. Enfatizzata dai giornali. Potrei risponderle citando i nostri 300 sindaci; compreso il "famigerato" Gentilini, eletto dai trevigiani che tutto sono tranne che baluba. O il Bossi che nel '91 dice: "Noi non siamo per un federalismo etnico e linguistico, ma sociale ed economico". Un imprenditore cuneese e uno triestino non parlano la stessa lingua e non hanno le stesse origini. Ma hanno gli stessi problemi».

Aldo Cazzullo

15 aprile 2012 | 9:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_15/cazzullo-intervista-maroni_4d80b27c-86c6-11e1-9381-31bd76a34bd1.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Aprile 22, 2012, 04:33:35 pm »

Première dame Dopo quattro anni, questi potrebbero essere gli ultimi giorni all'Eliseo per la donna che ha cambiato i gusti del presidente

Per strada con Carla Bruni, tra chihuahua e scongiuri

Vigilia di shopping dell'ex modella-cantante Ma ormai anche per lei è il tempo dei bilanci


PARIGI - Undici del mattino. Weekend elettorale. Il boulevard Haussman, ottavo arrondissement, dieci minuti a piedi dall'Eliseo, è deserto. Una donna alta dai capelli lunghi sciolti incede sul marciapiede, seguita da un uomo biondo, due passi indietro. Per passare inosservata non ha bisogno della parrucca, che ama indossare per mischiarsi alla folla. Senza trucco, pantaloni chiari della tuta infilati negli stivali bassi di camoscio, un cappotto nero a celare i segni della gravidanza recente. Borsa non firmata, occhiali scuri. Attraversa il boulevard e si ferma all'angolo con rue Roy, davanti a un «salon de toilettage», salone di moda e di bellezza canina. In vetrina c'è una nidiata di cuccioli. Lei si curva, felice come una bambina: «Qu'ils sont mignons!».

Signora Bruni, come sta? La première dame è di buon umore ed è contenta di parlare italiano. Quando poi le nomini Torino, si scioglie. A condizione di non farle domande di politica. Previsioni per il primo turno delle presidenziali? Carlà sorride e incrocia le dita lunghissime, prive di anelli: «Crepi il lupo!». Si parli semmai di cani. Lei e Sarkozy ne hanno due, un chihuahua e un labrador. Anche quelli in vetrina sono chihuahua, ma della variante «minicup»: non arrivano a un chilo, sono più piccoli ancora di quello di Carlà. Il negozio, dove lei capita di tanto in tanto, si chiama Calina: «calin» è l'aggettivo che indica la tenerezza che si prova verso un animale o una persona cara, cui ci lega un legame affettivo più che una passione sensuale. A casa, oltre al marito presidente, la aspetta Giulia, prima figlia femmina di Sarkozy dopo tre maschi.

Se i sondaggi non sbagliano clamorosamente, questi sono gli ultimi giorni all'Eliseo per la coppia italofrancese. E al declino di Nicolas Sarkozy corrisponde l'ingresso di Carla Bruni nella maturità. Le sue vite precedenti sono lontane. La donna che il sabato mattina passeggia in una Parigi deserta non ha più nulla della ragazza in passarella degli anni Novanta, fidanzata con il rocker Eric Clapton, e ha poco dell'artista alternativa che sussurra canzoni alla chitarra, si innamora del filosofo Enthoven e poi lo lascia per il figlio. Non sono soltanto il tempo e il chirurgo estetico - entrambi impietosi - ad aver cambiato Carlà. L'avventura in cui si è gettata come per gioco - la notte in cui incontrò Sarkozy già presidente e ancora libero a casa di un comune amico, il pubblicitario Séguela, quello della «force tranquille» di Mitterrand - l'ha inghiottita al di là di qualsiasi previsione. Lui cercava la vendetta su Cécilia e il riscatto sociale. Lei era innanzitutto curiosa. Tutto è successo molto in fretta. Un altro figlio, dopo quello avuto con Enthoven junior. Una sanzione ufficiale, una consacrazione planetaria.
Carlà ha sposato non solo Sarkozy, ma un ruolo, una funzione, un mestiere. Per la prima volta in vita sua, è stata moglie. Ora si è calata nella campagna elettorale. Ha seguito il comizio d'esordio, a Marsiglia, e quello di chiusura, l'altro ieri a Nizza. Domenica scorsa era in Place de la Concorde, sotto il palco, ad applaudire. Perfetta sia per assecondare la rottura incarnata dal marito - poco francese, figlio di un aristocratico ungherese, marito di una donna corsa, di una spagnola, ora di un'italiana - sia per frenare i suoi eccessi e affinare i suoi gusti (Sarkozy è passato da Sylvester Stallone a Luchino Visconti e dalla pepsi light al barolo). Lei è rimasta sempre in disparte, talora si è fatta viva su Twitter, magari con qualche gaffe, come quando ha scritto: «Noi siamo gente semplice». Ma tutto questo ora sta già passando. Oggi sarà il giorno della sorpresa, o della fine. Il rischio concreto è dover cedere l'Eliseo a un burocrate e la parte a una giornalista. Ma il problema è più del marito che suo. Un ex presidente, a maggior ragione se giovane e agitato come Sarkozy, è un personaggio in cerca d'autore. Carlà resta se stessa; e chissà cos'ha in animo di diventare, la prossima vita.

Aldo Cazzullo

22 aprile 2012 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2012/francia-elezioni-presidenziali/notizie/per-strada-con-carla-bruni-cazzullo_0632374c-8c48-11e1-a888-e468d0e8abab.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Aprile 24, 2012, 05:23:30 pm »

La Renault su cui arriva dai militanti è la stessa della notte vittoriosa del 2007

Sarkozy non perde la sicurezza: «Francesi, adesso unitevi a me» «La sinistra è lontana dall'avere una larga adesione».

Ma per la prima volta un presidente uscente arriva secondo

Dal nostro inviato  ALDO CAZZULLO


PARIGI - «Prima erano nove contro uno. Adesso siamo rimasti io e lui. Finora mi ha evitato. Ma adesso ci dovremo ben incontrare: stesso giorno, stessa ora». Non solo la Renault nera su cui arriva è la stessa della notte vittoriosa del 2007. Anche lui, Nicolas Sarkozy, è rimasto uguale, a giudicare dalla prima reazione che filtra dal suo entourage. Ai militanti lo dice subito: «Tre dibattiti. Voglio tre dibattiti con l'altro candidato». Che sarebbe Hollande, socialista di solito sorridente, ma da ieri un po' meno sicuro di vincere.



Anche Sarkozy avrebbe di che preoccuparsi. È la prima volta, nella storia della Quinta Repubblica, che un presidente in carica non arriva in testa al primo turno. Eppure lui non ha perso un'oncia di aggressività. Entra nell'arena con passo caracollante da cowboy. Spalanca le braccia tipo cantante confidenziale davanti ai fan. Gigioneggia. Paradossalmente, l'aspetto e l'umore sono migliori di quelli con cui si presentò cinque anni fa, la notte della vittoria. Il Sarkozy appena eletto non era euforico e sereno, ma teso e nervoso: più per la fuga dell'ondivaga moglie Cécilia, irreperibile tutto il giorno, che per la responsabilità che lo attendeva. Il Sarkozy superato al primo turno da «ça», «questa roba», come ha chiamato Hollande in campagna elettorale, è carico, arrembante. Grida sino quasi a perdere la voce: «Avete resistito a tutto! Siete stati formidabili, ammirevoli, coraggiosi! Grazie per quello che avete fatto per la Francia!». E si capisce benissimo che non sta parlando dei militanti, ma di sé.


Le prime parole sono per gli elettori di Marine Le Pen: frontiere, immigrazione, lavoro, sicurezza. «I francesi vogliono preservare il proprio modo di vivere. E io voglio proteggerli. Invito tutti i francesi che mettono l'amore di patria prima degli interessi privati a unirsi a me». In realtà, sarà dura. E non solo perché i sondaggi, che come al solito avevano sottostimato Marine Le Pen, ora dicono che meno della metà dei suoi elettori sosterrà Sarkozy al ballottaggio, mentre quasi il 20% sceglierà Hollande. I due milioni e mezzo di voti mancanti rispetto al 2007 rafforzano la schiera di coloro che non riconoscono a Sarkozy il fisico del ruolo presidenziale, che non gli perdonano né la frenesia del brevilineo - un Rastignac da un metro e 65 alla conquista di Parigi - né le origini straniere (era francese solo sua nonna materna, che sposò un ebreo greco; il padre era un ungherese sfuggito all'Armata Rossa e rimasto apolide sino a tarda età). L'ossessione per l'America, la passione per il denaro, il gusto per i sigari avana più che per il bordeaux, per le caramelle più che per i formaggi, erano apparsi segni di rottura, alla fine della lunga e spossata stagione di Chirac. Oggi rischiano di ritorcersi contro di lui, nell'ora in cui la Francia si sente impotente, e teme di non eleggere più il presidente della République, ma il governatore di una provincia d'Europa. Anche così si spiegano il record di Marine Le Pen, e i primi sondaggi che danno Sarkozy sconfitto il 6 maggio.


Eppure lui sente di poter ripetere il colpaccio. L'atteso spostamento a sinistra non c'è stato. Tra le due linee - l'attenzione alla destra e il dialogo con il centro - è destinata a prevalere la prima, incarnata dal segretario del partito, Jean-François Copé, l'uomo del 2017: non a caso i militanti lo accolgono con un'ovazione, mentre per il cauto premier Fillon hanno solo un applauso di circostanza. «Hollande en Corrèze, Sarkozy all'Elysée», gridano, invitando il socialista a restare nella sua remota e piovosa regione.


Tra i candidati Sarkozy ha votato per ultimo, e per ultimo parla. Alle 18 ha riunito lo staff all'Eliseo, alle 19 si è consultato con Copé e con l'ex premier Juppé. Poi, con uno dei suoi rari gesti di umiltà, ha lasciato la residenza presidenziale per raggiungere i militanti alla Mutualité, oltretutto storica sede di convegni sinistrorsi. Non ha abbassato il vetro fumé per rispondere alle domande dei reporter che lo seguivano in moto. Però ha ordinato all'autista di fermarsi al rosso.


Cinque anni fa, sulla Renault nera Sarkozy era solo. Cécilia - che non l'aveva neppure votato - si fece vedere solo alla festa, sciaguratamente organizzata da Fouquet's, ristorante da sceicchi, con tanto di lista degli invitati. Venti di loro in questi cinque anni hanno ricevuto la Legion d'Onore, qualcuno appalti da 3 miliardi di euro, come Martin Bouygues che sta costruendo il nuovo ministero della Difesa, il «Pentagono francese». Sarkozy fece trapelare che si sarebbe ritirato in convento, per prepararsi. Due giorni dopo fu fotografato nel mare di Malta su uno yacht da 60 metri, proprietà di Vincent Bolloré, finanziere tra i più ricchi d'Europa. L'inizio di una serie di errori e cadute di stile. I francesi gli avrebbero anche perdonato tutto, se le cose fossero andate bene. Sono invece andate malissimo.


Ma oggi paradossalmente la crisi può dargli una mano. Sarkozy giocherà la carta della paura e della protezione. Finora ha cercato soprattutto di impietosire i francesi: «Capitemi», «aiutatemi». Ora tenterà di spaventarli - la caduta dei mercati, il timore della sinistra - e di rassicurarli. Giocandosi il duello tv (Hollande gliene concederà uno solo, probabilmente il 2 maggio) sulla linea della «scelta di personalità»: sicurezza contro mitezza, forza contro sorriso. Oggi Sarkozy ricomincia da Tours, la città di Philippe Briand, il potente tesoriere, e di Guillaume Peltier, il capo dei giovani. «Non avremo mai più un leader così», commentava all'uscita dalla Mutualité uno di loro, e probabilmente ha ragione. Tra due settimane sapremo se per la destra e per la Francia è una condanna, o un sollievo.

23 aprile 2012 | 15:32

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2012/francia-elezioni-presidenziali/notizie/cazzullo-nicolas-non-perde-la-sicurezza_a6070484-8d04-11e1-a0b5-72b55d759241.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Aprile 25, 2012, 04:20:31 pm »

La Renault su cui arriva dai militanti è la stessa della notte vittoriosa del 2007

Sarkozy non perde la sicurezza: «Francesi, adesso unitevi a me»

«La sinistra è lontana dall'avere una larga adesione». Ma per la prima volta un presidente uscente arriva secondo

Dal nostro inviato  ALDO CAZZULLO


PARIGI - «Prima erano nove contro uno. Adesso siamo rimasti io e lui. Finora mi ha evitato. Ma adesso ci dovremo ben incontrare: stesso giorno, stessa ora». Non solo la Renault nera su cui arriva è la stessa della notte vittoriosa del 2007. Anche lui, Nicolas Sarkozy, è rimasto uguale, a giudicare dalla prima reazione che filtra dal suo entourage. Ai militanti lo dice subito: «Tre dibattiti. Voglio tre dibattiti con l'altro candidato». Che sarebbe Hollande, socialista di solito sorridente, ma da ieri un po' meno sicuro di vincere.



Anche Sarkozy avrebbe di che preoccuparsi. È la prima volta, nella storia della Quinta Repubblica, che un presidente in carica non arriva in testa al primo turno. Eppure lui non ha perso un'oncia di aggressività. Entra nell'arena con passo caracollante da cowboy. Spalanca le braccia tipo cantante confidenziale davanti ai fan. Gigioneggia. Paradossalmente, l'aspetto e l'umore sono migliori di quelli con cui si presentò cinque anni fa, la notte della vittoria. Il Sarkozy appena eletto non era euforico e sereno, ma teso e nervoso: più per la fuga dell'ondivaga moglie Cécilia, irreperibile tutto il giorno, che per la responsabilità che lo attendeva. Il Sarkozy superato al primo turno da «ça», «questa roba», come ha chiamato Hollande in campagna elettorale, è carico, arrembante. Grida sino quasi a perdere la voce: «Avete resistito a tutto! Siete stati formidabili, ammirevoli, coraggiosi! Grazie per quello che avete fatto per la Francia!». E si capisce benissimo che non sta parlando dei militanti, ma di sé.


Le prime parole sono per gli elettori di Marine Le Pen: frontiere, immigrazione, lavoro, sicurezza. «I francesi vogliono preservare il proprio modo di vivere. E io voglio proteggerli. Invito tutti i francesi che mettono l'amore di patria prima degli interessi privati a unirsi a me». In realtà, sarà dura. E non solo perché i sondaggi, che come al solito avevano sottostimato Marine Le Pen, ora dicono che meno della metà dei suoi elettori sosterrà Sarkozy al ballottaggio, mentre quasi il 20% sceglierà Hollande. I due milioni e mezzo di voti mancanti rispetto al 2007 rafforzano la schiera di coloro che non riconoscono a Sarkozy il fisico del ruolo presidenziale, che non gli perdonano né la frenesia del brevilineo - un Rastignac da un metro e 65 alla conquista di Parigi - né le origini straniere (era francese solo sua nonna materna, che sposò un ebreo greco; il padre era un ungherese sfuggito all'Armata Rossa e rimasto apolide sino a tarda età). L'ossessione per l'America, la passione per il denaro, il gusto per i sigari avana più che per il bordeaux, per le caramelle più che per i formaggi, erano apparsi segni di rottura, alla fine della lunga e spossata stagione di Chirac. Oggi rischiano di ritorcersi contro di lui, nell'ora in cui la Francia si sente impotente, e teme di non eleggere più il presidente della République, ma il governatore di una provincia d'Europa. Anche così si spiegano il record di Marine Le Pen, e i primi sondaggi che danno Sarkozy sconfitto il 6 maggio.


Eppure lui sente di poter ripetere il colpaccio. L'atteso spostamento a sinistra non c'è stato. Tra le due linee - l'attenzione alla destra e il dialogo con il centro - è destinata a prevalere la prima, incarnata dal segretario del partito, Jean-François Copé, l'uomo del 2017: non a caso i militanti lo accolgono con un'ovazione, mentre per il cauto premier Fillon hanno solo un applauso di circostanza. «Hollande en Corrèze, Sarkozy all'Elysée», gridano, invitando il socialista a restare nella sua remota e piovosa regione.


Tra i candidati Sarkozy ha votato per ultimo, e per ultimo parla. Alle 18 ha riunito lo staff all'Eliseo, alle 19 si è consultato con Copé e con l'ex premier Juppé. Poi, con uno dei suoi rari gesti di umiltà, ha lasciato la residenza presidenziale per raggiungere i militanti alla Mutualité, oltretutto storica sede di convegni sinistrorsi. Non ha abbassato il vetro fumé per rispondere alle domande dei reporter che lo seguivano in moto. Però ha ordinato all'autista di fermarsi al rosso.


Cinque anni fa, sulla Renault nera Sarkozy era solo. Cécilia - che non l'aveva neppure votato - si fece vedere solo alla festa, sciaguratamente organizzata da Fouquet's, ristorante da sceicchi, con tanto di lista degli invitati. Venti di loro in questi cinque anni hanno ricevuto la Legion d'Onore, qualcuno appalti da 3 miliardi di euro, come Martin Bouygues che sta costruendo il nuovo ministero della Difesa, il «Pentagono francese». Sarkozy fece trapelare che si sarebbe ritirato in convento, per prepararsi. Due giorni dopo fu fotografato nel mare di Malta su uno yacht da 60 metri, proprietà di Vincent Bolloré, finanziere tra i più ricchi d'Europa. L'inizio di una serie di errori e cadute di stile. I francesi gli avrebbero anche perdonato tutto, se le cose fossero andate bene. Sono invece andate malissimo.


Ma oggi paradossalmente la crisi può dargli una mano. Sarkozy giocherà la carta della paura e della protezione. Finora ha cercato soprattutto di impietosire i francesi: «Capitemi», «aiutatemi». Ora tenterà di spaventarli - la caduta dei mercati, il timore della sinistra - e di rassicurarli. Giocandosi il duello tv (Hollande gliene concederà uno solo, probabilmente il 2 maggio) sulla linea della «scelta di personalità»: sicurezza contro mitezza, forza contro sorriso. Oggi Sarkozy ricomincia da Tours, la città di Philippe Briand, il potente tesoriere, e di Guillaume Peltier, il capo dei giovani. «Non avremo mai più un leader così», commentava all'uscita dalla Mutualité uno di loro, e probabilmente ha ragione. Tra due settimane sapremo se per la destra e per la Francia è una condanna, o un sollievo.

23 aprile 2012 | 15:32

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2012/francia-elezioni-presidenziali/notizie/cazzullo-nicolas-non-perde-la-sicurezza_a6070484-8d04-11e1-a0b5-72b55d759241.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:43:13 am »

IL PAESE E L’EMERGENZA CRIMINALE

Una memoria che costruisce


La condanna dell’eterno ritorno, che condiziona la vita pubblica italiana, sembra trovare una conferma nel ventennale della morte di Falcone e Borsellino. Il Paese appare sospeso tra un passato destinato a ripetersi e un futuro che non arriva. E in effetti qualche punto in comune con il biennio ’92-’93 c’è: una crisi economico- finanziaria, un governo tecnico sostenuto da partiti in grave difficoltà, un passaggio di stagione politica, e fiammate di violenza che il procuratore nazionale antimafia Grasso definisce non senza ragione «terrorismo puro».

In realtà, non siamo tornati al punto di partenza. Come dice il presidente Napolitano, «siamo molto più forti di allora». Qualcosa in questi vent’anni è accaduto. Non soltanto i capimafia che parevano inafferrabili sono stati catturati e condannati, i loro patrimoni sequestrati, le loro terre affidate a giovani volontari. La società italiana, compresa quella del Sud, ha sviluppato anticorpi che combattono la patologia mafiosa. Le imprese siciliane hanno espresso un uomo come Ivan Lo Bello, che ha fatto della battaglia contro il racket e per la legalità il primo punto della sua agenda. Il movimento per la liberazione dal pizzo avanza sui passi coraggiosi di piccoli commercianti, artigiani, sacerdoti. Nei feudi della mafia, della camorra, della ’ndrangheta è cresciuta una generazione non più disposta ad accettare le angherie, le complicità, i silenzi. È la generazione colpita a Brindisi, qualunque sia la matrice dell’attentato. Adesso è importante che i Lo Bello, i commercianti antipizzo, i giovani come le amiche strette attorno alla bara bianca di Melissa Bassi non siano lasciati soli, come furono lasciati soli Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un dovere che ci riguarda e ci impegna; tanto quanto il dovere — ribadito ieri dal premier Monti — di fare luce definitiva sulle stragi del ’92.

In questi vent’anni si è affermata un’idea-chiave: le mafie non sono un problema esclusivo del Sud. Sono una questione italiana, e non soltanto perché investono e corrompono pure al Nord. Anche nell’ora in cui i sentimenti più diffusi appaiono il malumore, la rabbia, lo sconforto, sta crescendo un’Italia che resiste e che riparte. «L’Italia che ce la fa», come l’ha definita il Corriere tre anni or sono. Un Paese perbene, impegnato a uscire dalla crisi ma che non esaurisce le sue energie nel lavoro in azienda e in famiglia, animato da uno spirito civico emerso nella straordinaria reazione popolare alla barbarie di Brindisi, e anche nelle ultime Amministrative, in cui — accanto a un preoccupante astensionismo e a esempi inaccettabili di violenza verbale — si sono viste nuove forme di partecipazione. Un Paese consapevole che la lotta alla mafia e la resistenza alla crisi sono un’azione comune, a prescindere dalle appartenenze geografiche e politiche. Per questo la testimonianza di Falcone e Borsellino chiama in causa tutti: la politica, che non può rinviare ancora le riforme necessarie, a cominciare dalla legge anticorruzione; noi stessi, che vent’anni fa accogliemmo la notizia della strage di Capaci con incredulità e sgomento; i nostri figli e nipoti, che non c’erano o non avevano l’età per ricordare. La memoria del sacrificio dei due magistrati simbolo della lotta alla mafia oggi è radicata, in un Paese cui la memoria talora ha fatto difetto. Non è un dato acquisito per sempre, è una base per conquistare la coscienza che il passato non si ripresenta mai allo stesso modo, e che il futuro sta arrivando. In quali forme, dipende innanzitutto da noi.

Aldo Cazzullo

24 maggio 2012 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_24/cazzullo-una-memoria-che-costruisce_9f982f5c-a55e-11e1-8ebb-5d15128b15be.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Giugno 12, 2012, 10:52:47 am »

Satira - «Tutto tutto niente niente» è la radiografia del tracollo della classe politica

Cetto Laqualunque, il ritorno (a Montecitorio)

E un comico genovese diventa premier

Albanese racconta il nuovo film. Paolo Villaggio fa il presidente del Consiglio


Nel film che Antonio Albanese sta girando a Roma, il presidente del Consiglio è un comico genovese. Ma non Beppe Grillo; Paolo Villaggio. «Tutto tutto niente niente» è un film sul tracollo della politica; non a caso Cetto Laqualunque, la maschera del politicante al soldo della mafia che in «Qualunquemente» diventava sindaco, ora entra in Parlamento, passando per la galera. In carcere, Cetto incontra altri due personaggi, impersonati sempre da Albanese: Rodolfo Villaretto, avventuriero lombardo-veneto; e Franco Stoppato detto «Frengo», spacciatore fatto arrestare dalla madre. Si ritroveranno tutti e tre a Montecitorio, da deputati.

«La realtà supera la fantasia. Un anno e mezzo fa, quando con Piero Guerrera abbiamo scritto la sceneggiatura, non avrei mai detto che di un comico a Palazzo Chigi si sarebbe parlato seriamente. Del resto, l'ultimo Oscar in Italia l'ha vinto un comico, l'ultimo Nobel pure...». Ma lei, Albanese, voterebbe Grillo? «No. Né l'ho seguito molto: non vado su Internet, non sono in Rete; non ne ho bisogno e non ne ho il tempo, preferisco passeggiare in montagna o visitare un museo. Grillo mi pare una reazione, niente più. Come era una reazione la Lega. Però Grillo ha anche dei meriti: ad esempio ha dato voce a una rabbia che avrebbe potuto prendere derive estremiste e razziste, tipo i neonazisti in Grecia. Il suo linguaggio è un modo un po' troppo facile per denunciare, richiamare l'attenzione, aprire le coscienze. Ma il suo movimento può anche essere un'occasione. Vediamo intanto cosa succede a Parma».

Il film (che uscirà a Natale) non è girato a Montecitorio ma all'Eur. Il Palazzo della politica è ricostruito in forme metafisiche, quasi surreali, «a mostrare la vacuità del potere»; con Fabrizio Bentivoglio nel ruolo di un sottosegretario dal look inquietante, «tra Karl Lagerfeld e un personaggio di Batman» sorride Andrea Salerno di Fandango, la casa di produzione. «Qualunquemente» fu girato in una villa e tra arredi sequestrati alla mafia: un set espressionista. «Allo stesso modo, la politica è andata oltre l'immaginazione - dice Albanese -. Pensi di girare un fumetto, e ti accorgi che hai fatto del neorealismo: una radiografia dell'Italia. L'immagine della Finocchiaro al supermarket che si fa spingere il carrello dalla scorta è devastante, pare uno spot dell'antipolitica. Ma non soltanto il Pd, tutti i partiti avrebbero bisogno di vivere in modo più umile, di riavvicinarsi alla gente. E un politico sconfitto deve cambiare mestiere. È incredibile vedere personaggi che hanno devastato il Paese economicamente e moralmente, e adesso pretendono ancora di dirci cosa fare e cosa non fare». Mario Monti come le sembra? «Monti è un medico che ci sta medicando le ferite. E medicare le ferite fa un male terribile. Un governo di salvezza nazionale non può essere simpatico. Però ci sta facendo riacquistare credibilità: non credo che Obama avrebbe fatto aprire il G8 a casa sua, a Chicago, al predecessore di Monti. Anche il modo di affrontare il terremoto ha marcato una differenza di stile. Ora però il presidente del Consiglio deve trovare pure un modo diverso, ed efficace, di sistemare i terremotati».

Per Cetto Laqualunque sarà l'ultimo giro: «Conto di farlo morire presto. L'Italia merita di meglio». «Frengo» è un personaggio che risorge dopo quindici anni: il tifoso del Foggia di Zeman. «Nel film diventa uno spacciatore esiliato in Sud America, che la madre fa incarcerare in Italia per averlo vicino a sé e beatificarlo da vivo». Finirà anche lui a Montecitorio, accanto a un personaggio nuovo, Rodolfo Villaretto, deputato del Brenta, che saluta dicendo «un morsegon!» (risposta: «'na morsegada!»), vive nel paese immaginario di Brachetto e sogna una bretella Brachetto-Padova-Vienna, perché «noi siamo austriaci». Racconta Albanese che per mettere a fuoco la maschera di «Olfo» Villaretto è tornato a girare il Lombardo-Veneto, come aveva fatto nel '97, quando preparava lo spettacolo teatrale «Giù al Nord», titolo poi ripreso da un film di successo («Non mi hanno neppure avvisato, ma va bene così»). «Il Lombardo-Veneto è la mia terra. Mio padre, siciliano, venne a Olginate, vicino a Lecco, a fare il muratore. È morto qualche mese fa. Al funerale c'era tutto il paese. Era un uomo orgoglioso del suo lavoro, mi indicava un muro e diceva: "Vedi quello? L'ho fatto io". Mi ha insegnato la nobiltà dell'artigianato, del lavoro fatto con le mani. Il Nord è molto cambiato in questi 15 anni. Aziende enormi sono ridotte a fantasmi. Ne ho vista una in cui era rimasto l'industriale con un solo tornio e un solo operaio, il più anziano, ormai un parente che non aveva il coraggio di licenziare».

Eppure Albanese è convinto che l'Italia «abbia un grande avvenire. Siamo un Paese straordinario: la capitale della creatività, dell'estro, dell'arte, della cultura. Purtroppo i teatri sono tutti in crisi. Sono stato all'accademia di Brera, uno dei posti più belli del mondo, e ho trovato un profondo disagio. Questo è un grosso guaio pure per l'industria e per il lavoro, perché il boom economico nasceva anche dalla grande cultura teatrale e artistica degli Anni 60, dalla fantasia, dal talento, dalla capacità di improvvisare, di vedere le cose da un'altra parte». E lei, dopo la morte di Cetto, cosa farà? «Ogni comico ha un'autonomia di 20, 25 anni, finché lo assiste il "duende", il folletto dell'ispirazione. È successo anche ai più grandi, come Totò e Sordi. Poi si cambia mestiere. Come ha fatto Benigni, che è sempre eccezionale. O come ha fatto Grillo».

Aldo Cazzullo

10 giugno 2012 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #130 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:34:01 am »

ITALIA-GERMANIA

L' Italia e la partita europea, ora sfidiamo Merkel. Consapevoli del nostro valore

Da tempo non si vedevano gli azzurri dominare così


Dal nostro inviato ALDO CAZZULLO

La Merkel felice dopo il successo tedesco sulla GreciaLa Merkel felice dopo il successo tedesco sulla Grecia
Fuori Cameron, ora tocca alla Merkel.

Se la Nazionale assomiglia al Paese che rappresenta, l'Italia nella battaglia d'Europa è messa benissimo.
Del resto, era da tempo che non si vedevano gli azzurri dominare una partita importante come ieri sera. Riconosciamolo: come nel 2006 in Germania, anche stavolta - all'inizio - non ce l'aspettavamo. E dire che l'avventura era cominciata malissimo.

Forse perché eravamo partiti nel peggiore dei modi possibili. La polizia nel ritiro della nazionale. Il terzino sinistro a casa (con uno dei difensori centrali, ieri sera ineccepibile, indagato ma graziato dalla burocrazia giudiziaria, che gli ha evitato l'avviso di garanzia). Il capitano incappato in una sgradevole storia di scommesse milionarie. Alle loro spalle, un Paese impaurito, di malumore, scettico sull'avvenire. Ma poiché, come d'abitudine, gli italiani danno il meglio di sé nei momenti peggiori, i nostri atleti hanno riscattato se stessi, e in qualche misura anche noi.

Alla vigilia, anche la nazionale - come l'Italia - appariva bloccata, non all'altezza delle sue grandi potenzialità. Per questo, la notte di Kiev ci parla anche del nostro futuro. Ce ne parlano i due giocatori-chiave, caricati di aspettative e di valenza simbolica: Mario Balotelli, avanguardia dei nuovi italiani, ex stranieri a volte pieni di complessi ma che possono dare un grande contributo allo sport e all'economia; e Antonio Cassano, il figlio di un Sud dal meraviglioso talento, che resta sempre in fondo alle classifiche europee ma pare sempre sul punto di decollare.

Balotelli e Cassano, l'immigrato e il meridionale, che ci avevano portato nei quarti battendo con i loro gol l'Irlanda, anche stavolta sono stati all'altezza. In particolare Mario, rimasto in campo 120 minuti, da stasera è davvero il centravanti della nazionale. E Buffon ha confermato con la sua parata decisiva di essere davvero (al di là dei legittimi dubbi sui suoi comportamenti privati) il leader di una squadra che ha dominato dal primo all'ultimo minuto un'Inghilterra molto mediterranea, prudente e attendista, diversissima da quella che il 14 novembre 1934 aggredì a Highbury gli azzurri campioni del mondo facendo tre gol in 12 minuti (ma subendone due nel secondo tempo).

Anche allora l'Italia schierava difensori con qualche problema giudiziario, come Allemandi, squalificato a vita e poi perdonato per aver venduto il derby di Torino per 25 mila lire (ne aveva pattuite 50 ma ne ebbe solo la metà; il resto gli fu negato perché anziché truccare la partita era stato il migliore in campo). E anche allora avevamo gli oriundi, come Thiago Motta: a Luisito Monti gli inglesi ruppero un piede, e Mumo Orsi, ala sinistra dall'animo sensibile alla musica, si mise un po' in disparte, proprio come qualche azzurro ieri notte, e Brera lo inchiodò così: «Latita, come sempre quando fa caldo, il violinista Orsi». «È l'Italia del Duce» titolò la Gazzetta dello Sport .

Più sobriamente, le buone notizie da Kiev consentono a Monti di rifarsi del brutto tiro che gli ha rifilato il premier britannico Cameron, spifferando alla stampa la sua proposta per abbassare lo spread facendo comprare titoli italiani al fondo salva-Stati. E ora sarebbe proprio il caso di mantenere le buone abitudini e infliggere la solita sconfitta ai tedeschi, e nella fattispecie alla Merkel. Nell'attesa, godiamoci anche la vittoria della Ferrari. E quanto di buono ha fatto questa nazionale.

Non era modesta la squadra, come sostenevano i critici. Non è modesto il Paese che questa squadra rappresenta. Andiamo contro i tedeschi senza rivalse nazionaliste, per una partita di calcio (ad Argentina '78 finì 0-0 con i panzer che si abbracciavano per lo scampato pericolo: l'Italia aveva dominato). Consapevoli però del nostra valore. Sicuri di noi stessi. E consci che nella battaglia d'Europa l'Italia può prevalere anche fuori dal campo.

25 giugno 2012 | 7:27

da - http://www.corriere.it/sport/euro-2012/notizie/25-giugno-ora-tocca-alla-merkel-cazzullo_cb0cefe4-be84-11e1-8494-460da67b523f.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Agosto 03, 2012, 07:08:49 am »


Il governatore del Prc

Vendola: Casini è benvenuto. I Dico possono attendere
   

ROMA – «In questi giorni mi sento come alla scomparsa di una persona preziosa: solo quando viene a mancare ti accorgi di quante virtù avesse...». La persona preziosa, per fortuna vivente o almeno risorgente, è Romano Prodi. Lui è Nichi Vendola, presidente della Puglia, unico amministratore importante espresso dalla sinistra radicale. Che paradossalmente esce indebolita da una crisi innescata da richieste e proteste scaturite dal proprio alveo: i 12 punti su cui Prodi chiede oggi la fiducia segnano una torsione verso il centro; dei Dico non si parla più; e se nell'immediato si stringe a sostegno del governo, Bertinotti fa capire che in futuro ne potrebbe uscire. Una prospettiva che Vendola dice di condividere «in via metodologica e astratta, ma che non è certo all'ordine del giorno. Anzi».

«La questione del governo non riguarda solo la sinistra riformista, che rischia di farne una finalità ossessiva; riguarda anche noi, che rischiamo di amplificare le domande senza cercare le risposte. Ma il governo non deve diventare un feticcio, un idolo da adorare o da abbattere. Questo è per noi un passaggio particolarmente delicato: siamo condannati a governare, senza divenire subalterni a un governismo senza profilo. Come si fa? La ricetta non è il potere di interdizione, non sono i veti dei piccoli partiti, come si usava nella prima Repubblica e si usa nella seconda. Non credo alla prospettiva di governare guardando solo le dinamiche di Palazzo; ma con i dati oggettivi del Palazzo si devono fare i conti. L'estrema risicatezza dei numeri al Senato rende necessaria un'iniziativa politica che aiuti il governo». Per questo l'arrivo di Follini gli pare un'ottima notizia, anzi, «si è sbagliato a non tentare subito di coinvolgerlo. Una personalità di raffinata cultura democratica come la sua non poteva restare a lungo nel centrodestra». Ma, se Diliberto distingue tra l'arrivo di Follini e quello di un intero partito — l'Udc — che gli pare una iattura, Vendola fa un ragionamento diverso.

«Dobbiamo essere consapevoli che nel centrodestra si è aperta una frattura. La leadership berlusconiana è in crisi; e l'Udc è stata la prima forza a denunciare questa crisi. La nostra coalizione resta alternativa al centrodestra, ma dobbiamo coglierne i punti di frattura. Dialogare. Interloquire, per costruire anticorpi civili e culturali e forme più avanzate di convivenza. C'è bisogno di offrire governabilità al Paese. E lo si può fare innalzando il livello della discussione pubblica. Siamo d'accordo o no che la politica estera di Prodi e D'Alema è in sintonia con quanto di nuovo accade nel mondo, il Congresso che si ribella a Bush, Blair che ritira le truppe dall'Iraq? Vogliamo superare la rappresentazione della guerra civile simulata? La vogliamo cambiare o no la legge elettorale?». Vendola vorrebbe la stessa legge di Casini: il sistema tedesco. Che porterebbe a un superamento del bipolarismo e alla nascita di diversi blocchi: la destra, il centro cattolico, il partito democratico, la sinistra radicale. A chiedergli se il centrosinistra attuale potrà aprirsi all'Udc, Vendola risponde che «per il momento è l'Udc a chiamarsi fuori. Ma credo che presto possa determinarsi un'implosione di quello che oggi chiamiamo centrodestra. E con i settori del centrodestra che sono espressione di cultura democratica non possiamo perdere le comunicazioni. Ha ragione Follini, la mediazione non si fa per tenere insieme una coalizione da De Gregorio a Turigliatto; si fa sulle questioni reali, sui corpi e sui luoghi dell'Italia di oggi. Trovare un punto di equilibrio tra culture diverse non è un'attività ignobile; è la politica».

I 12 punti di Prodi non gli sembrano la paventata svolta centrista. «Sono una sintesi di priorità. Non sono né una smentita né un ribaltamento del programma dell'Unione. Consentono di uscire fuori da una navigazione a vista e di riprendere in mano la bussola e il timone». Mancano i Dico, ma Vendola non se ne scandalizza, anzi considera un errore averli affidati a un disegno di legge governativo: «Sulle questioni eticamente sensibili meglio scegliere il canale parlamentare, piuttosto che quello del governo. Così si è iperpoliticizzata la questione dei Dico, e la si è ricondotta allo scontro tra maggioranza e opposizione, rendendo più difficile entrare nel merito». Né la sinistra deve aver paura della Chiesa: «Se ci sono tentazioni neoclericali, bisogna evitare di replicare con tentazioni iperlaiciste, come se si fosse tutti chiamati a raccolta attorno al simulacro della breccia di Porta Pia». Vendola non vede una frattura con i movimenti pacifisti e no global.

«Il rapporto tra politica e società deve valere per tutti: per il governo, perché è nella ragione sociale di un governo di centrosinistra non perdere i contatti con i movimenti; e per i partiti, che non possono usare il prodigarsi della cittadinanza attiva come un supplemento di potere di veto, di interdizione». Sarebbe sbagliato e abusivo usare la piazza per fare pressione sul governo, «per aumentare il nostro potere contrattuale dentro il Palazzo; ma so che non è questa l'idea del mio amico di giovinezza Franco Giordano». Lei però sarebbe andato a Vicenza? «Trovo le ragioni della manifestazione molto fondate; ma non sovrappongo la mia parzialità politica al senso di quella manifestazione, non la piego a ragioni di bottega. Il governo fa bene a tenerne conto: nel discorso di D'Alema al Senato c'era un'apertura significativa. E' importante che il Palazzo sia permeabile alla società, ma è importante che la politica mantenga l'obbligo di individuare una sintesi, di scegliere. Tutti siamo chiamati, anche noi, a ridefinire la sinistra. La logica del tanto peggio tanto meglio sarebbe una catastrofe». E se i duri e puri si preparassero a scindere Rifondazione? «La vera scissione che temo è con la società, con i sentimenti della nostra gente, che ci chiede di reggere la prova del governo».

Aldo Cazzullo
05 marzo 2007

da - http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2007/02_Febbraio/27/vendola_casini.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Novembre 07, 2012, 11:03:18 pm »

Flash per la Casa Bianca


Perché Obama ha vinto

Aldo CAZZULLO


BOSTON - - Avrà altri quattro anni difficili, non ha riconquistato il Congresso, rispetto al 2008 ha perso Indiana e North Carolina. Gli resta però la cosa più importante: la Casa Bianca. Per Obama il risultato è migliore delle previsioni. Il presidente ha visto confermati, accanto ai suoi limiti - bella storia e scarsa esperienza, più "narrazione" che sostanza -, anche il suo fascino, e una certa tenuta. Ma, più che a una vittoria dei democratici, siamo di fronte alla sconfitta dei repubblicani. Avevano il Paese in pugno, e l'hanno perduto. Ora daranno la colpa a Romney, considerato troppo moderato. E' vero il contrario. Il partito repubblicano (anche se non il suo candidato) è troppo estremista. Nell'ideologia, nel programma, nel linguaggio, nello stile. L'America non è certo diventata di sinistra, anzi chiede una politica più liberale: meno tasse, meno spese, meno governo. Ma i repubblicani perdono perché non parlano alla parte più avanzata nel Paese: a New York eleggono il sindaco (che però ha appoggiato Obama), in California riuscirono a eleggere governatore Terminator Schwarzenegger; ma alle presidenziali nelle grandi città aperte al mondo non toccano palla. Nella debacle si segnalano i media di Murdoch: il Wall Street Journal, che era il miglior quotidiano d'America, è diventato troppo di parte; Fox News è caricaturale nel suo odio per Obama. Presentare l'America del 2012 come un Paese socialista può far salire l'audience; ma fa perdere le elezioni.
Perchè Romney sta (forse) perdendo

Le urne sono ormai chiuse, arrivano i primi risultati favorevoli - sia pure di misura - al presidente, e ancora continuano a passare gli spot del profugo ungherese. E' un anziano benestante che racconta: «Sono cresciuto in un Paese socialista. So cosa vuol dire. Adesso vedo che pure l'America sta diventando socialista. Per questo voto repubblicano». Ora, paragonare l'America di Obama all'Est comunista significa non avere il senso del ridicolo (oltre al rispetto per le vittime del comunismo, quello vero). Per questo i repubblicani rischiano di perdere ancora una volta la Casa Bianca, dopo averla avuta a portata di mano, visto che l'economia è ferma e la crisi va avanti. Non è un trionfo di Obama. Da tempo non accadeva che un presidente fosse rieletto con un margine inferiore alla prima elezione: di solito o li cacciano (Carter, Bush padre) o li riconfermano largamente (Reagan, Clinton, Bush figlio). Più che una vittoria dei democratici, si profila una sconfitta dei repubblicani: condizionati da un'ideologia estremista, da un linguaggio troppo aggressivo, da una composizione etnica wasp (bianchi, anglosassoni, protestanti) che non rispecchia più le complessità dell'America.
Ehi, c'è Mr. President al telefono

La scena simbolo della vigilia resterà Obama che si siede tra i volontari, sorridente e all’apparenza rilassato, prende il telefono e chiama gli elettori incerti, ancora più sconcertati nel sentire la sua voce: «I’m Barack Obama. You know? The president of the United States». Una scena che aiuta a capire perché nonostante la delusione, il deficit, la crisi infinita, il presidente potrebbe essere rieletto. Visti i numeri del voto del 2010 per il Congresso, sarebbe un miracolo. E non è detto che vada davvero così. L’America rispetto a quattro anni fa è disillusa. Ma la favola del figlio del pastore kenyota che entra alla Casa Bianca ha ancora il suo fascino, e non solo sugli europei. L’ha riconosciuto lo stesso Romney, quando ha detto agli elettori indipendenti: «Non sentitevi in colpa se nel 2008 avete ceduto alla fascinazione di Obama e stavolta invece gli toglierete la fiducia». Bastava vedere Michelle sul palco del comizio finale, a Des Moines, Iowa, chiamare al suo fianco «the love of my life», l’amore della mia vita, e abbracciarlo stretto, per rendersi conto che comunque vada a finire quella di Obama resta una storia irripetibile. Con tutti i suoi limiti, a cominciare da quello originario: aver affidato la più grande potenza militare e culturale del mondo (più che economica ormai) a un uomo che non aveva mai gestito neppure un McDonald.
Il ritorno di Bill Clinton

ROANOKE (Virginia) - Lui vinse due volte, primo tra i democratici nel dopoguerra, nel 1992 e nel 1996. Nel 2000 Al Gore non lo volle tra i piedi; e perse. Nel 2004 John Kerry gli chiese aiuto, ma lui era appena stato operato di cuore, e si limitò a una comparsata. Anche Kerry fu sconfitto. Quattro anni fa si guadagnò un posto per Hillary al dipartimento di Stato con una serie di vigorosi comizi. Praticamente Bill Clinton non ha mai perso un'elezione. Stavolta sta battendo gli Stati contesi palmo a palmo. Tenendo decine di discorsi pubblici, tra cui la scorsa notte quello di Roanoke, qui in Virginia. Una mano in tasca, l'altra a disegnare cerchi nell'aria, dimagritissimo, invecchiato ma senza perdere fascino, Clinton piace ancora molto agli americani, e soprattutto alle americane. Nei comizi ricorda volentieri che i suoi otto anni coincisero con una grande crescita economica. Non fu certo merito suo, ma lui non fece grossi errori; e da queste parti non hanno dimenticato le guerre disastrose di Bush. Sostiene di essere più convinto ora rispetto al 2008 delle qualità di Obama. Ne loda a lungo la politica estera, che in realtà ha fatto sua moglie Hillary. Se il presidente e Romney recitano sempre lo stesso copione, lui gioca con la folla, la conquista con il talento naturale dell'attore, si interrompe, scherza, fa domande, riprende a parlare, gigioneggia. Dice che "Romney a forza di contorsioni potrebbe essere assunto al Cirque du Soleil". Nella Virginia profonda in molti non sanno cosa sia. Ma le militanti democratiche lo amano lo stesso, si fanno sotto per baciarlo o almeno toccarlo, poi si ritraggono sorridendo emozionate. Lui si allontana velocemente, per non cadere in tentazione, come ai vecchi tempi.
Ma chi vince?

WASHINGTON - La situazione è aperta. A chiedere agli americani chi vincerà, la grande maggioranza risponde: Obama. Ma a chiedere per chi voteranno, l'equilibrio è assoluto. Il Paese non è solo diviso; è fortemente polarizzato. Non soltanto i due candidati sono alla pari nei sondaggi (anche se il presidente conserva un minimo margine di vantaggio negli Stati decisivi). Entrambi sono l'espressione di due mondi inconciliabili, di due visioni alternative della società, dell'economia, dell'America; più ancora che in passato. Lo dimostra un sondaggio del Boston Globe, che mette a confronto nel tempo le convinzioni dei due schieramenti. Nel 1987, il 62% dei repubblicani pensava che il governo dovesse prendersi cura di chi non ce la fa; ora è soltanto il 40%. Oltre metà dell'elettorato democratico pensava che introdurre regole danneggiasse l'economia; ora la percentuale è scesa al 42%. Insomma, ai tempi di Reagan, nell'era della guerra fredda e della rivoluzione ideologica del liberismo, programmi e idee dei due campi erano meno distanti di oggi. Destra e sinistra sono parole quasi assenti dal lessico politico americano (soprattutto la seconda); però mai come adesso è chiaro che la distinzione tra destra e sinistra ha ancora un senso.

Michelle studia da Hillary

Michelle Obama sta facendo un'intensissima campagna elettorale per il marito, e non solo per lui. Marcia al ritmo di tre comizi al giorno. Perderà qualche punto di popolarità (ora è al 66 per cento), ma si sta creando un pubblico, e un elettorato. A Miami l'hanno accolta come una regina. Lei ha stretto i pugni, ha baciato sulla guancia (una volta sola, per fare prima) un numero impressionante di attivisti, quasi tutte donne, ha agitato le celebri braccia (ma vista da vicino colpiscono di più le mani, lunghissime). E ha fatto un discorso semplice e intenso, in cui molti possono riconoscersi, al di là delle appartenenze politiche: il padre malato, le figlie ormai adolescenti, il marito troppo impegnato. Dopo le elezioni Hillary farà un passo indietro e lascerà il dipartimento di Stato, sognando una difficile rivincita per la Casa Bianca. Ma la moglie di Clinton ha ormai 64 anni. Quella di Obama, appena 48.
La variabile Marchionne

MIAMI - Il suo volto e il suo maglioncino blu spuntano in tutti i tg americani. Sergio Marchionne irrompe nelle elezioni americane, indipendentemente dalla sua volontà. Obama sta picchiando duro sulla gaffe di Romney, che l'ha accusato di aver venduto la Chrysler agli italiani i quali avrebbero prontamente delocalizzato la produzione delle jeep in Cina. Marchionne è intervenuto per ribadire che le jeep in Cina non sono andate e non andranno. Ovviamente il Ceo (come si dice qui) di Chrysler non prende posizione in campagna elettorale; rassicura i suoi operai. Ma Obama non si lascia sfuggire l'occasione. Da qui l'ondata di spot e di e-mail inviate a giornalisti ed elettori. Tutto pur di conquistare l'Ohio, Stato industriale e più che mai - accanto alla Florida - decisivo.
Come vota Halloween

MIAMI - La notte di Halloween, che tradizionalmente precede di qualche giorno il voto, è uno degli indicatori da cui si può intuire dove soffia il vento. Non tanto dalla conta delle maschere di un candidato o dell'altro (è chiaro che il presidente in carica, amato od odiato che sia, è sempre in vantaggio), quanto dall'atmosfera, dai discorsi della gente, dai cori dei ragazzi. Segnali che a volte possono essere fuorvianti: nel 2004 Miami era percorsa da gruppi di adolescenti che annunciavano la fine di Bush; dovettero sorbirselo per altri quattro anni. Stavolta il clima è di disillusione. L'America ha reagito alla crisi ma ne ha ancora paura, e la delusione per Obama, i suoi azzardi, le sue incertezze, è palese. Nello stesso tempo Romney non entusiasma, in molti lo voteranno perché lo considerano un business man capace di risolvere anche i problemi altrui, ma non c'è traccia del movimento popolare del 2008. Non a caso le maschere di Obama e quelle di Romney sono pochissime, battute non solo da scheletri e vampiri ma anche da Batman e persino Zorro. In compenso i camerieri di Versailles, il ristorante degli esuli cubani, si sono messi per una notte in mimetica e occhiali scuri; e hanno brindato, più che all'avvento di Romney, alla dipartita di Castro.
Romney suda in Florida

MIAMI - Il comizio di Mitt Romney a Miami inizia con una preghiera - tutti a capo chino a recitare i Salmi - e finisce con un'esegesi parola per parola dell'inno. In mezzo, una lezione di economia, ascoltata in silenzio da un pubblico che vorrebbe essere incendiato. Lui invece è freddino, legnoso, pragmatico, razionale. E spiega il suo piano in cinque punti - energia, scuola privata, meno deficit, meno tasse, aiuti alle piccole imprese - a una folla di esuli che vorrebbero sentirsi annunciare l'invasione di Cuba. La folla si scalda solo quando l'orchestrina intona "Vamos a votar por Romney" sulle note di Guantanamera, e quando appare il cartello con la scritta "Obama comunista" ("Basta dollari a Castro! Basta ya!"). Molto auspicata la morte del dittatore. Alla fine Romney è quasi soffocato dagli abbracci. Suda, ha molto caldo, del resto è uomo del Nord e stasera ha un altro comizio, così al suo posto lascia volentieri in balia della folla Jeb Bush. Il fratello di George W. qui è stato governatore, ha moglie messicana, parla spagnolo e distrae volentieri gli anticastristi mentre Romney si mette in salvo. I sondaggi danno assoluta parità con Obama. Domani qui in Florida arriva Michelle.
Sandy aiuta Obama

A chi giova la bufera? Per tre giorni Obama e Romney hanno sospeso la campagna elettorale. Ma mentre il presidente si calava nella parte di comandante in capo, entrando nel bunker delle crisi, lo stesso delle ore della morte di Bin Laden, lo sfidante era costretto a farsi riprendere mentre caricava casse di acqua minerale destinate agli alluvionati. E se il sindaco di New York, Michael Bloomberg ha detto a Obama di non farsi vedere, il governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, molto sovrappeso e molto popolare, l'ha portato in giro sulle coste devastate, in favore di telecamera. La catastrofe di solito stabilizza. Rafforza il potere. Induce a stringersi attorno a chi lo detiene. L'uragano Sandy potrebbe non cambiare l'esito delle elezioni, oppure rafforzare una tendenza che vede Obama in vantaggio, sia pure di pochissimo. Romney prova a invertirla partendo dalla Florida, dove i sondaggi lo danno praticamente alla pari con il presidente. Sono in mezzo ai sostenitori repubblicani che lo stanno aspettando all'università di Miami. Tra poco vi racconto.

http://www.corriere.it/esteri/speciali/2012/elezioni-usa/flash-per-la-casa-bianca/
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« Risposta #133 inserito:: Novembre 24, 2012, 05:45:50 pm »

LE CAMERE TRA NOVITÀ E RINUNCE

Un ricambio di qualità


Tra tre mesi, se il voto confermerà i sondaggi, avremo in Parlamento un centinaio di deputati e una cinquantina di senatori del Movimento 5 Stelle, di cui non si sa nulla: chi saranno, come saranno scelti. Non potranno essere peggiori di certi inquisiti e pregiudicati visti all’opera sinora. Con certezza però si sa solo che il loro leader, Beppe Grillo, in Parlamento non ci sarà. Comanderà da fuori. Attraverso il blog e le lettere dei suoi avvocati.

Non è una scelta isolata. Luca di Montezemolo scende in campo, ma non si candida alle elezioni. Walter Veltroni annuncia che continuerà a fare politica, ma lascia il seggio alla Camera. Pochi giorni dopo lo segue Massimo D’Alema. Un’intera generazione di dirigenti si prepara a fare altrettanto, senza che se ne conoscano i sostituti. Monti è senatore a vita, quindi in Parlamento ci sarà. Ma ancora non si sa quali tra i ministri tecnici — pur attivissimi in politica — siano disponibili a candidarsi.

Nobili rinunce? Forse sì. O forse la verità è un’altra. Il Parlamento è talmente screditato che conviene restarne fuori. Con la sua inazione e i suoi privilegi, è divenuto agli occhi dei cittadini la roccaforte della casta. Ma qual è l’alternativa? Un Parlamento di sconosciuti eterodiretti. Un affannarsi di peones preoccupati di perdere status e privilegi. Siccome non si è — colpevolmente —ridotto il numero dei parlamentari, e non si è ancora fatta la legge elettorale, continueremo ad avere Camere inutilmente affollate e nominate dai capi partito.

Intendiamoci: il ricambio è doveroso e salutare. Ma non è lasciando fuori i leader e gli uomini d’esperienza, magari per sostituirli con giovani scelti in base alla fedeltà e al look, che si riavvicinano i cittadini alle istituzioni. La fuga dal Parlamento non è un bello spettacolo e storicamente non porta mai bene. La migliore risposta che la classe politica può dare, di fronte alla sfiducia dei cittadini e al proprio stesso discredito, è assumersi una responsabilità. E fare una legge elettorale che consenta davvero ai rappresentati di scegliere i rappresentanti.

Ora la riforma è ferma, in attesa delle primarie del Pd. Se vincerà Bersani, sarà ancora più tentato dal tenersi l’attuale sistema. Che è pessimo. Ma siccome tutto si può peggiorare, i partiti si sono messi al lavoro. Segno dei tempi, la mediazione è affidata proprio a Calderoli, cui si deve sia la legge in vigore sia la definizione di «porcata». La trattativa verte su come modulare il premio di maggioranza o di governabilità al primo partito: il che può avere un senso, visto che al momento con il 33-34% attribuito dai sondaggi a Bersani e Vendola— la soglia cui arrivarono Veltroni nel 2008, Occhetto nel ’94, Berlinguer nel ’76: vale a dire la dimensione storica della sinistra italiana — si otterrebbe la maggioranza assoluta dei seggi. Ma la questione centrale è restituire ai cittadini il diritto di essere rappresentati, e quindi di scegliere. L’ideale sarebbe il ritorno ai collegi uninominali. Siccome l’obiettivo è lontano, un buon compromesso potrebbero essere collegi proporzionali piccoli, che esprimono pochi parlamentari e quindi stabiliscono un rapporto immediato tra elettori ed eletti. Altrimenti anche il prossimo Parlamento sarà un’assemblea pletorica, costosa e inutile. Incapace di prendere iniziative politiche e avviare quella riforma dello Stato di cui discute dai tempi della commissione Bozzi. E chiamata a vidimare le scelte del Parlamento- ombra composto dai leader non eletti.

Aldo Cazzullo

24 novembre 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_24/cazzullo-un-ricambio-di-qualita_e5ac786a-35fd-11e2-bfd1-d22e58b0f7cd.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Dicembre 22, 2012, 06:32:13 pm »

La storia

La tenacia del barista Roberto per risvegliare la moglie Stefania dal coma

Lui lavora alla Casa del Cinema di Roma, lei è ricoverata a Imola: nel giorno libero le fa ascoltare i messaggi delle bimbe


Il bar dove lavora Roberto, alla Casa del Cinema, è frequentato da attrici e gente famosa. Dietro le vetrate c'è uno dei panorami più belli al mondo: Villa Borghese, la Casina di Raffaello, il parco dei daini, e una chiesetta dove lui passa una volta al giorno, a pregare e a confidarsi con il sacerdote, don Aleardo. Perché Roberto si porta dentro una pena terribile: Stefania, la madre delle sue tre figlie, da cinque mesi è in stato vegetativo. È entrata in coma dando alla luce la più piccola, Rita. Negli ospedali della capitale non c'era posto: adesso è in una casa dei risvegli vicino a Imola. Ogni giorno Roberto porta le due bambine più grandi all'asilo, affida Rita alla madre di Stefania, si fa un'ora e mezza di auto, treno e bus per arrivare da Sacrofano al centro di Roma, serve i caffè al bar della Casa del Cinema, e torna a casa per preparare la cena alle bambine. Una volta ogni due settimane prende un giorno di ferie e parte per Imola, per far sentire a Stefania le canzoni che ascoltavano insieme, mostrarle i video delle bambine girati con il telefonino e i loro disegni, darle gli stimoli per richiamarla alla vita. La vita di Roberto è diventata durissima, anche perché non ha altri redditi al di fuori dello stipendio. La sorte sembra essersi accanita contro di lui. Ma la sua storia non è unica. Anzi, è una storia esemplare di un Paese colpito duro ma che alla sorte non si arrende. È una storia dell'Italia che resiste; e quindi ci riguarda tutti.

«Mi chiamo Roberto Bedetti. Ho 37 anni e tre fratelli. Il più piccolo, Antonio, 33 anni, è sulla sedia a rotelle dalla nascita: durante il parto gli è mancato il sangue al cervello, proprio com'è successo a Stefania. Mamma faceva la parrucchiera a Prati, ha dovuto rinunciare al lavoro per occuparsi di Antonio. Gli altri miei fratelli sono Maurizio, 44 anni, che allena una piccola squadra di calcio, e Alessandro, 40, che fa il barista a Ciampino. Anch'io ho lavorato sempre nei bar, tranne un periodo in cui ho fatto il portinaio. Ho cominciato a 16 anni in periferia, a Tor de' Schiavi, e nel 2009 sono arrivato qui, a Villa Borghese. Ero felice di essere responsabile di un bar così bello. Ero felice di amare Stefania e le nostre bambine».
«Ci siamo incontrati nel 2004, alla discoteca Magic Fly, sulla Cassia. L'ho invitata a ballare, abbiamo bevuto un gin fizz, ci siamo raccontati le nostre vite: dopo dieci giorni stavamo insieme. Siamo andati ad abitare a San Giovanni, poi nel suo paese, Sacrofano, dove le case costano meno. Il 7-7-2007 è nata Vittoria, l'11-11-2008 Beatrice: sotto il segno dello scorpione, come la mamma. Stefania faceva la cameriera al ristorante Grappolo d'Oro, a Ponte Milvio. Io ero già stato sposato, non riuscivo ad avere il divorzio e non abbiamo potuto sposarci: questo ci faceva soffrire perché siamo credenti e praticanti, in particolare siamo devoti a santa Rita da Cascia. Così, quando è arrivata la terza bambina, abbiamo deciso di chiamarla Rita. Il 31 luglio 2012 doveva essere il giorno più bello della nostra vita: ero nella corsia di un ospedale, Villa San Pietro, con le mie due figlie per mano, ad aspettare la loro sorellina. Invece è uscita un'infermiera a dirmi di portarle subito via, perché era successo qualcosa a Stefania».

«Ricordo un viavai di gente, sacche di sangue, il pianto delle bambine, la paura che la mia donna morisse. Le hanno fatto il cesareo, il suo ginecologo non si era accorto che la placenta era attaccata all'utero, non sono riusciti a intubarla, le hanno fatto la tracheotomia, a lungo il cervello è rimasto senza sangue e quindi senza ossigeno. Ho fatto le mie denunce, aspetto le decisioni della magistratura. Dopo quattro giorni l'hanno portata al San Filippo Neri, in terapia intensiva. Continua il calvario, Stefania ha una serie di infezioni, non si trova posto per lei nei luoghi di riabilitazione a Roma, finalmente dopo tre mesi la prendono a Montecatone, vicino a Imola, in una struttura per cerebrolesi gravi. La risonanza mostra lesioni frontali e parietali e una lesione al cervelletto. I medici temono che sia diventata cieca».
«La settimana scorsa le ho fatto ascoltare le nostre canzoni, e ha pianto. "Cercami" di Renato Zero, che ho conosciuto ed è una persona straordinaria. "Giorgia" di Vasco Rossi. "L'amore è una cosa semplice" di Tiziano Ferro. Le leggo le letterine di Vittoria, che non fa ancora le elementari ma ha già imparato a leggere e scrivere, era stata Stefania a insegnarle a scrivere "mamma". Le stringo le mani, ma non è facile, perché sono contratte, come il suo volto. Cerco di trasmetterle il mio amore, e questo è facilissimo, perché non l'ho mai amata come adesso. Le ho fatto ascoltare anche il videomessaggio registrato da Totti, che è mio amico fin dalla giovinezza, perché lavoravo in un bar a San Giovanni dove lui passava tutti i giorni. Francesco è stato generoso come sempre, le ha detto: "A Stefà, se sei della Roma devi tener duro!"».

«La mia vita ora è molto infelice, perché andare a Imola in macchina costa, c'è un albergo convenzionato che comunque si paga 35 euro a notte, e pure la famiglia di mia moglie è povera. Suo fratello, che mi accompagna, fa il fabbro ma lo pagano in nero. Sua sorella fa la commessa in un negozio di abbigliamento in corso Francia. Suo padre è morto. Sua madre, che si occupa di Rita, ha un tumore al seno. Io ho dovuto lasciare il posto di responsabile del bar, continuo a lavorare sei giorni su sette ma prendo due ore di permesso per "allattamento", si dice proprio così. Mi hanno spiegato che c'è una legge, la 104, che concede un anno di permesso per accudire parenti disabili; ho chiesto all'Inps di piazzale Flaminio, mi hanno detto che siccome non sono sposato con Stefania non ne ho diritto».
«Alle bambine ho detto la verità: la mamma dorme, e noi aspettiamo che si risvegli. C'è un assistente del Comune che il pomeriggio le va a prendere all'asilo, c'è l'associazione "L'albero del Pane" di Sacrofano che mi aiuta, ma non è facile. Ho perso venti chili. Però non mi arrendo. Passerà questa crisi. Forse ritroverò Stefania, forse no. La notte della vigilia pregherò per lei insieme con le nostre figlie. A Natale vado a Imola a portarle la catenina con la Madonna del Divino Amore. A Santo Stefano sono qui a lavorare».

Aldo Cazzullo

22 dicembre 2012 | 10:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_dicembre_22/la-storia-del-barista-roberto-bedetti-con-una-moglie-in-coma_89cee13e-4c11-11e2-a778-2824390bcabe.shtml
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