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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 134996 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:44:30 pm »

L’intervista Andrea Orlando
«Il partito della nazione è superato Ora dobbiamo ricostruire il Pd»
Il ministro: abbiamo tenuto, ma metà degli elettori resta a casa
Sopravvalutate le Europee


Di Aldo Cazzullo

Andrea Orlando è chiamato in causa dal risultato delle elezioni come ministro di Grazia e Giustizia, come elemento di raccordo fra renziani e vecchia guardia del partito, e come ligure, figlio di militanti del Pci spezzino.

Ministro Orlando, non lo neghi: è stata una battuta d’arresto.
«Il Pd tiene e vince. Affronta riforme difficili e adesso governa nella stragrande maggioranza delle Regioni. Forse si era sopravvalutato il voto delle Europee. Ma il segnale d’allarme è il risultato complessivo: nonostante la crescita di forze dichiaratamente antisistema, metà dell’elettorato se ne sta a casa. Se sommiamo i voti dei movimenti anti-euro e l’astensionismo siamo di fronte a un tema enorme. Dobbiamo chiedere un cambiamento profondo delle politiche economiche europee se vogliamo evitare che la crisi sociale si trasformi in crisi democratica».

Renzi per prima cosa dovrà ricucire con la minoranza interna?
«Per prima cosa dobbiamo ricostruire il Pd. La suggestione del partito della nazione mi pare superata da queste elezioni. Oggi l’obiettivo è costruire un grande soggetto riformista del centrosinistra. Qualche anno fa avrei detto una grande forza del socialismo europeo; oggi è un richiamo non più sufficiente. Il multipolarismo anche in Italia è un dato strutturale».

Addio partito della nazione, quindi.
«Io non ci ho mai creduto. L’ho sempre considerata un’idea ambigua, addirittura pericolosa. Una forza politica del centrosinistra europeo deve mantenere solide radici, e conquistare una parte dell’elettorato moderato».

Nell’ora di massimo disorientamento, la destra si dimostra a sorpresa competitiva.
«L’Italia è un Paese dove la destra ha un substrato storico fortissimo. L’idea di sbaragliarla soltanto con una leadership forte e con un posizionamento politico intelligente è una velleità che non ho mai condiviso».

D’accordo. Ma come spiega ad esempio il crollo in Veneto?
«Guardi, l’illusione dello scorso anno - lo sfondamento al centro e la tenuta a sinistra - poteva essere consolidata con il lavoro sul territorio, con la costruzione di un partito che in questi mesi non c’è stata. Per onestà intellettuale, devo riconoscere che non c’è stata neppure negli anni precedenti. È stato un errore pensare di poter trasfondere la luna di miele alle Regionali, senza strumenti organizzativi, senza luoghi di mediazione».

Sta dicendo che avete sbagliato la campagna elettorale?
«Sto dicendo che la campagna elettorale non basta e tantomeno quella fatta dai singoli candidati. Osservo però che per esempio non c’è stata un’iniziativa sui territori per spiegare agli insegnanti e ai genitori cosa c’era di buono nella riforma della scuola, magari anche per raccogliere dissensi e perplessità. E anche i temi su cui eravamo tutti d’accordo, ad esempio gli ecoreati, non sono stati sostenuti dall’attività politica sul territorio. Nella mia provincia il partito non ha poi neppure fatto la conclusione della campagna elettorale. Da quando faccio politica, è la prima volta».

Lei ha 47 anni e fa politica da ragazzo. In Liguria avete sbagliato candidato?
«Il candidato che vince le primarie è il candidato giusto. Ha pesato tantissimo il comportamento sleale di un pezzo del partito. Ma è stato un errore anche aver pensato che le primarie potessero risolvere tutto, dal programma alla coalizione».

Quanto ha influito il caso Bindi, la lista degli impresentabili?
«Non voglio entrare nella vicenda Bindi e impresentabili. Certo è stato un fattore di disorientamento per gli elettori e anche per i militanti sentire dirigenti del Pd dare un giudizio sul governo assai più duro dei più aspri oppositori. É un elemento cui il popolo del centrosinistra non era abituato, e che certo non ha aiutato».

Lei crede alla possibilità di tenere unito il partito democratico?
«Quando ci siamo riusciti, abbiamo fatto cambiare noi idea agli altri. È successo per l’elezione di Mattarella, per la pubblica amministrazione, per l’anticorruzione e anche in materia di giustizia. Un supplemento di ascolto è sempre utile; purché non sia finalizzato a evitare di arrivare al risultato, e purché venga rispettato il principio di maggioranza».

Si può rivedere la riforma del Senato, in modo da renderlo elettivo?
«Sulla composizione del Senato Renzi ha già aperto ben prima delle elezioni. L’importante è che un’apertura non sia esibita come uno scalpo conquistato sul terreno delle Regionali. Sarebbe abbastanza surreale se la sconfitta in Liguria fosse vista da una parte del Pd come un successo interno».

«Repubblica» scrive che lei potrebbe essere il nuovo premier.
«Ho letto e ho controllato la data del giornale: era proprio il 2 giugno. Pensavo fosse il primo aprile».

La leadership di Renzi non è in discussione?
«La sua vittoria alle primarie, e la sconfitta delle altre ipotesi compresa quella che sostenevo io, sono state incontrovertibili. Renzi è andato a Palazzo Chigi per un voto della direzione, sollecitato dalla minoranza. Il governo e il parlamento stanno portando a casa risultati. É un dinamismo che si inizia a percepire anche a livello internazionale e questo dá forza al Paese. Una crisi di governo oggi sarebbe lunare. Pensiamo piuttosto a come sostenere la battaglia più difficile: quella in Europa, per superare l’austerità. Come conferma il voto italiano dopo quello di altre nazioni, è una battaglia non solo per uscire dalla crisi ma per difendere l’impianto democratico dei Paesi europei e l’Europa stessa».

Non crede che la battuta d’arresto del Pd nasca anche da altre questioni?L’immigrazione fuori controllo. Il senso di insicurezza. La giustizia che non garantisce la certezza della pena.
«Le statistiche su quantità e qualità delle sanzioni dicono cose diverse. Siamo tra i Paesi che per una serie di reati hanno le pene più alte. Si può sempre fare meglio e stiamo lavorando sui tempi dell’esecuzione della pena: è stato giusto l’adeguamento salariale per le forze dell’ordine; stiamo lavorando per rendere più rapido il processo penale. Ma la ragione del malessere, al di là del singolo episodio di cronaca, non è un’escalation di reati, che non c’è se si eccettua l’aumento dei furti nella case, su cui stiamo intervenendo; è invece il disagio economico e sociale, è la qualità delle periferie».

Sui rom e sull’immigrazione Salvini ha fatto la campagna elettorale.
«Sono temi su cui la sinistra ha avuto un atteggiamento di sufficienza che va superato. Ma sarebbe un errore inseguire la Lega sul fronte della paura».

Non dirà pure che sarebbe un errore tagliare vitalizi e privilegi per inseguire Grillo? L’astensionismo si spiega anche così. Come crede che si sentano i cittadini, nel leggere che un ex consigliere regionale Pd come Frisullo in Puglia prende 10.383 euro al mese?
«Alla Camera e al Senato la questione è stata affrontata. Le Regioni hanno pessima stampa e pessimi esempi: fenomeni da esecrare, che però non spiegano un astensionismo di queste dimensioni. C’è qualcosa di molto più profondo. Una parte di società non si sente più rappresentata dai processi democratici, non si sente più inclusa nell’occupazione, nel welfare. I privilegi sono benzina sul fuoco, ma il fuoco sono le diseguaglianze sociali. Per spegnerlo occorre ribaltare le politiche economiche a livello europeo e sostenere la ripresa con politiche industriali. Deve essere questo il primo impegno del governo» .

© RIPRODUZIONE RISERVATA
3 giugno 2015 | 07:25

Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/15_giugno_03/partito-nazione-superato-ora-dobbiamo-ricostruire-pd-3c5461ae-09b0-11e5-b7a5-703d42ecd92c.shtml
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« Risposta #196 inserito:: Giugno 25, 2015, 07:25:46 pm »

Crimini e quote
I migranti, paradosso italiano

Di Aldo Cazzullo

Immaginate di essere Cameron, il premier britannico, che ha il referendum sull’Europa a breve. O Rajoy, il suo collega spagnolo, che ha le elezioni a novembre. Oppure Hollande, bocciato nei sondaggi da 8 francesi su 10; o il suo primo ministro Valls, che ogni volta non sa se ritroverà la poltrona. O sua maestà Merkel, che tra tante debolezze rischia il delirio di onnipotenza. Vi è appena arrivata dall’Italia l’ennesima richiesta di aiuto sull’immigrazione: navi da impiegare nel Mediterraneo, quote di africani e siriani da accogliere, denari da spendere. E nello stesso momento vi è arrivata la rassegna stampa con le notizie dalla capitale italiana sulla banda bipartisan — destra e sinistra in società — che dall’immigrazione trae la sua ricchezza.

Le intercettazioni tradotte dal romanesco perdono un po’ di virulenza linguistica, ma il quadro è chiaro: la politica dell’accoglienza in Italia è in mano (anche) ad avanzi di galera, che si fanno pagare due euro al giorno preferibilmente in nero per ogni migrante, che possono scendere a un euro se i migranti sono almeno cento; tanto le cifre variano a piacimento, perché di nessuno viene registrata l’identità; non sono persone, sono numeri su cui speculare. Che figura ci facciamo? Quale Paese è un Paese che finisce sui giornali del mondo con notizie così? Con quale credibilità possiamo chiedere soccorso all’Europa? Come non capire che in questo modo forniamo un alibi perfetto agli egoismi delle altre nazioni?

Intendiamoci: l’Europa non ha la coscienza pulita. Di fatto i Paesi confinanti con l’Italia hanno sospeso gli accordi di Schengen, e gli stranieri sbarcati a Lampedusa e in Puglia vengono bloccati a Ventimiglia e al Brennero; per tacere della nuova emergenza, i profughi in arrivo sulla frontiera orientale. Di fronte a un evento destinato a segnare la nostra epoca, la risposta europea è fiacca e meschina.

Cameron offre navi per salvare i naufraghi — che vanno salvati sempre, s’intende — purché finiscano tutti in Italia. Hollande e Valls ricordano il vecchio Arafat, che all’estero parlava di pace in inglese e a casa rinfocolava le folle in arabo: quando vengono in Italia si profondono in assicurazioni e promesse, subito dimenticate al rientro in patria. Il governo fa bene a protestare e a insistere: sull’immigrazione si gioca popolarità e credibilità. Ma vicende come quelle di «Mafia Capitale» indeboliscono l’intero Paese. Nessuno scandalo potrà far dimenticare l’umanità degli abitanti di Lampedusa, il gran lavoro dei marinai e degli altri uomini in divisa, la generosità dei volontari, la mobilitazione del mondo cattolico. Ma non basta limitarsi a dire che chi ha sbagliato deve finire in galera. È un sistema politico che dev’essere rifondato, all’insegna della legalità e dell’efficienza.

Fino a quando l’Italia sarà la terra della corruzione e dell’impunità del male, sarà sempre l’anello debole dell’Europa. Per contare qualcosa nella comunità internazionale non bastano la fantasia, l’estro, la bellezza, il genio; occorre anche un po’ di onestà. Gli altri europei non sono meno corrotti di noi per natura (come dimostra la penosa vicenda Fifa); sono soltanto più rigorosi con la corruzione. E non mancheranno di rinfacciarcelo.

6 giugno 2015 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_06/i-migranti-paradosso-italiano-1721e4de-0c0c-11e5-81da-8596be76a029.shtml
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« Risposta #197 inserito:: Giugno 27, 2015, 10:38:59 am »

L’intervista - Il capo di stato maggiore della difesa «No al blocco navale in Libia»
Il generale Graziano: senza una risoluzione dell’Onu sarebbe un’azione di guerra

Di Aldo Cazzullo

Il generale Claudio Graziano, 61 anni, piemontese di Villanova d’Asti, si è insediato tre mesi fa come capo di stato maggiore della Difesa, e si ritrova con l’Isis in Libia, gli sbarchi sulle coste, 4 mila uomini nei luoghi più pericolosi della terra - Iraq, Afghanistan, Somalia, Libano - e ovviamente il bilancio da tagliare. Questa è la sua prima intervista.

Generale Graziano, l’Italia è davvero preparata a fare la sua parte nel Mediterraneo? O siamo del tutto alieni all’idea della guerra, o comunque della difesa?
«L’Italia è stata coinvolta in molte missioni, ha avuto molti caduti, ma non ha mai avuto un disertore. Altri Paesi ne hanno avuti. In questi anni, mai un soldato italiano ha abbandonato il suo posto. A nessuno è mai mancato il coraggio di fronte agli attacchi».

Non mi riferisco al valore delle forze armate, ma alla cultura politica del Paese.
«Guardi che la percezione dell’Italia in Europa è cambiata moltissimo in questo tempo. E anche la percezione delle forze armate in Italia: ogni anno 80 mila giovani chiedono di entrare; cercano lavoro, certo, ma sono animati dalla spinta di aiutare gli altri. Tutto cominciò con la missione in Libano guidata dal generale Angioni: fu una sorpresa per tutti. Oggi noi in Libano abbiamo il comando in una regione delicatissima, dove si incrociano i due grandi archi di crisi: quello Sud, che sale dall’Africa, e quello Est, che scende dall’Ucraina».

Oggi nella percezione degli italiani l’emergenza è legata alla Libia, e agli sbarchi incontrollati sulle nostre coste. Il suo predecessore, ammiraglio Binelli Mantelli, in un’intervista a Fabrizio Caccia del «Corriere della Sera» ha detto in sostanza che l’operazione Mare Nostrum consentiva di padroneggiare la situazione meglio di Triton.
«Non mi permetto di commentare parole del mio predecessore. Oggi noi siamo impegnati nell’operazione Mare Sicuro, un’azione aeronavale per la sicurezza e il controllo che impiega quattro navi e aerei senza pilota, e si aggiunge al lavoro di Triton per il controllo delle frontiere. Credo che possiamo dirci soddisfatti».

Ma gli sbarchi continuano. Si invoca un blocco navale. Cosa ne pensa?
«Un blocco navale, in assenza di una risoluzione Onu o della richiesta del Paese interessato, è un’azione di guerra. Si fa contro un nemico. Sarebbe controproducente. Siccome in nessun caso viene meno il dovere di salvare le vite dei naufraghi, i barconi punterebbero contro le navi del blocco».

Ora l’Europa prepara una nuova missione, che dovrebbe avere un mandato Onu. Ma secondo lei è possibile chiudere la rotta di Lampedusa?
«Attendiamo di conoscere i contorni della missione. Credo sia possibile un’operazione di contrasto che punti a inabilitare i barconi e a perseguire i criminali. Si può assumere il controllo della situazione. Certo, quella che vediamo è l’avanguardia di un fenomeno epocale, che riguarda decine di milioni di uomini in fuga da carestia e guerra. Non è più un problema militare ma globale. La Libia è il collo di bottiglia di flussi che partono dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Ciad, dalle Repubbliche centrafricane, dal Kenya. E dalla Siria».

Cominciamo dal collo di bottiglia. Ci sarà un intervento occidentale in Libia?
«In Libia l’Italia ha sempre svolto un ruolo di leadership, per interesse nazionale, per vicinanza culturale, per ruolo storico. Avevamo pure addestrato forze libiche, a Cassino. Anche oggi non abdichiamo alle responsabilità. Ma l’esperienza ci insegna che, per essere credibile e avere consenso, l’attività dev’essere sviluppata dalle forze locali; altrimenti si è all’anticamera dell’insuccesso. Prima ci deve essere un accordo tra le varie fazioni. Noi possiamo aiutare i libici a stabilizzare la Libia, sia con l’azione diplomatica, sia fornendo il supporto necessario».

Gli Stati usciti dalla fine dell’era coloniale non esistono più. L’Isis controlla vasti territori tra Siria e Iraq. Prima o poi bisognerà intervenire.
«Stiamo già intervenendo. L’Italia è in Iraq. Facciamo parte della coalizione internazionale anti Isis. Abbiamo 500 uomini tra il Kuwait, dove c’è l’aviazione, Erbil e Bagdad, dove siamo impegnati in un’azione di advice and assist: contribuiamo ad addestrare le forze irachene. Il problema deve essere risolto a terra dagli iracheni: noi dobbiamo metterli in condizione di poterlo fare. In Afghanistan è accaduto: le forze afghane dieci anni fa erano deboli e disorganizzate; oggi contano su 350 mila uomini tra soldati e poliziotti».

In Siria il nemico dell’Isis è Assad, dobbiamo sostenerlo?
«Noi non siamo in Siria. Le speranze sono affidate alla politica e alla diplomazia. E le regole della diplomazia inducono talora a considerare il nemico amico. Le organizzazioni internazionali devono dare una risposta globale alla crisi del Medio Oriente, perché tutto è intrecciato: collasso degli Stati; flussi migratori; terrorismo».

Gli sbarchi possono portare in Italia militanti dell’Isis?
«Come ha detto il capo della polizia Pansa, non ci sono evidenze che ci siano terroristi sui barconi. Un’organizzazione può infiltrare i suoi uomini in molti modi, anche senza i migranti. Il terrorismo c’è: l’Isis è in Iraq, in Siria, in Libia, in Algeria, nel Sinai. Il fatto che tenda a insediarsi stabilmente piuttosto che colpire ovunque, come faceva Al Qaeda, non deve indurci ad abbassare la guardia. Ma dobbiamo tener conto della loro abilità nell’usare le strategie di comunicazione, senza farcene troppo condizionare».

Maroni propone di mettere i soldati sui treni, «pronti a sparare». Lei che ne pensa?
«Non commento la proposta del presidente Maroni. Mi viene in mente che la linea ferroviaria Torino-Aosta era gestita dai militari... Noi abbiamo già settemila uomini impegnati nell’operazione Strade Sicure: l’ex presidente della comunità ebraica di Roma Pacifici ci ha ringraziato ad esempio per quanto stiamo facendo nell’antico ghetto. Siamo pronti a intervenire in ogni situazione in cui lo richieda il Paese, compatibile con la nostra professionalità. La sicurezza sui treni è però legata alla professionalità della polizia ferroviaria, che ha una preparazione specifica».

Come vivono i militari la vicenda dei due marò?
«La solidità della risposta dei fucilieri di marina Girone e La Torre è un esempio per tutti. Lo è il loro orgoglio, la loro dignità. La soluzione dev’essere politico-diplomatica».

L’esercito manterrà la stessa efficienza malgrado i tagli?
«Sì. Il ministero della Difesa ha promosso il libro bianco, un documento essenziale, che dispone in modo coerente i diversi elementi della questione sicurezza: le possibili minacce, l’evoluzione degli scenari, le risorse disponibili, le lezioni apprese nei vari teatri, le nuove esigenze di personale; da qui vengono individuate le aree di prioritario interesse del Paese. In questo modo si risparmia e si ottiene uno strumento interforze. Il nostro personale è straordinario, ma tenuto conto che c’è stata una professionalizzazione accelerata tende a risultare un pochino più anziano delle medie internazionali».

Dobbiamo ringiovanire l’esercito?
«Sì, tenendo conto dell’esigenza del personale e delle sue aspettative. E dobbiamo aumentare il rapporto con il mondo sociale. Le forze armate devono operare in sinergia con il resto del Paese, di cui rappresentano un ottimo biglietto da visita».

Gli F35 vi sono proprio indispensabili? Tutti e 90?
«Sono già stati ridotti. Sono un’arma molto evoluta, indispensabile in alcuni scenari. Quando ti sparano addosso, un conto è rispondere con un mortaio da 120, un conto con una bomba sganciata da un aereo. Il numero finale sarà il frutto del processo di revisione strategica intrapreso dalla Difesa in base agli indirizzi del libro bianco».

È il centenario della Grande Guerra. Sono stati messi sullo stesso piano disertori e combattenti?
«No. L’Italia non ha messo sullo stesso piano i disertori e gli eroi che sul Piave hanno salvato la patria. È in atto una discussione per restituire dignità a chi l’aveva persa. Nella Grande Guerra abbiamo avuto oltre 600 mila morti, la metà in cento chilometri quadrati: era inevitabile che si creassero situazioni di disperazione. Cent’anni fa nessun esercito le avrebbe perdonate; ora è diverso».

Alla maturità solo il 2,5% degli studenti ha fatto il tema sulla Resistenza, impostato sul testamento del generale Fenulli. È rimasto deluso?
«Il tema storico viene tradizionalmente evitato: alla scuola di guerra l’abbiamo fatto in tre su duecento. Mi ha colpito semmai un altro dato. Accanto ai partigiani, nella Resistenza ci sono i militari. La caduta di prestigio, seguita alla gestione superficiale dell’armistizio, non ha fatto venire alla luce storie e sacrifici di cui oggi, con la nuova considerazione di cui godono le forze armate, possiamo andare orgogliosi».

21 giugno 2015 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_giugno_21/no-blocco-navale-libia-2308f284-17dc-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml
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« Risposta #198 inserito:: Luglio 12, 2015, 04:49:06 pm »

Mafia Capitale e degrado, l’ultima occasione di Marino
La città è assediata dai problemi, la morte di un bambino nella metropolitana è l’ultimo gravissimo episodio che testimonia la crisi. Ora il sindaco deve dare una svolta

Di Alzo Cazzullo

La capitale d’Italia sta diventando un caso internazionale di incuria e degrado. La morte di un bambino in una metropolitana da anni a livelli mediorientali, ulteriormente peggiorati da giornate di sciopero a singhiozzo, ne è soltanto l’ultimo, gravissimo segno. Va avanti a singhiozzo pure l’aeroporto, in piena stagione turistica e alla vigilia del Giubileo. Mentre lo scandalo di Mafia Capitale si va profilando in tutta la sua gravità: emerge un quadro sempre più serio di contaminazione tra malaffare e malapolitica; e cresce l’impressione che non sia affatto finita qui.

Se una città si riduce in tali condizioni, è inevitabile guardare al sindaco. Ignazio Marino non ha responsabilità immediate nei disastri di questi giorni (Fiumicino non è neppure nel suo Comune); ma non può considerarsi soltanto un capro espiatorio. Nessuno dubita della sua integrità personale; ma finora la sua difesa è stata debole.

Non basta addossare le responsabilità al partito. Tutti sanno che il Pd romano è inquinato da clientelismo e corruzione; non a caso è stato commissariato. Troppi segnali però indicano che Marino ha fatto poco, come sostiene nella sua relazione il procuratore Pignatone. Tre dipartimenti su 15 (Politiche sociali, Ambiente, Emergenza abitativa) in mano a Mafia Capitale; la richiesta del prefetto Gabrielli di rimuovere il direttore generale del Comune e di sciogliere il consiglio municipale di Ostia; interferenze in grado di inquinare gli appalti e le scelte delle società controllate, dall’Ama all’Ente Eur: gli elementi raccontati sul Corriere da Giovanni Bianconi confermano che non bastano l’onestà e le buone intenzioni a liberare l’amministrazione dagli interessi criminali.

Marino non può pensare di rispondere al disagio della capitale con formule tipo «resterò fino al 2023», come se avesse la rielezione in tasca. Non può illudersi di continuare come se nulla fosse. Deve dimostrare di essere capace di uno scatto. Deve aprire una nuova stagione. Costruisca un’altra giunta, di altro livello, aperta a tecnici non legati ai partiti, a personalità della cultura e delle professioni, a esponenti di primo piano della società civile. Ce ne sono molti, disposti a fare qualcosa per la loro città. Se Roma è sporca, caotica, corrotta, lo si deve anche a una parte dei suoi cittadini, che forse la amano più a parole che con i comportamenti. Chiunque contrasti un tono medio di accidia e degrado morale rischia l’impopolarità. Marino però è riuscito benissimo a diventare impopolare, senza incidere sui comportamenti viziosi. È arrivato il momento di ribaltare il quadro.

Tra le sue grandi risorse, Roma ha una fortissima identità (i romani da più generazioni sono pochi ma i nuovi arrivati diventano romani rapidamente), segnata da tolleranza, ironia, accortezza, capacità di adattamento. Il confine con il menefreghismo, il cinismo, l’astuzia, l’arte di arrangiarsi è molto labile, e spesso è stato oltrepassato. Ma ora una maggioranza crescente di romani, al di là degli schieramenti ideologici, avverte la necessità di un cambiamento profondo, di una ricostruzione incentrata su regole, legalità, buona amministrazione, valori etici e anche estetici. Se Marino è in grado di prendere la testa di questo movimento, lo faccia, e dimostri in primo luogo di saper cambiare se stesso e la propria amministrazione. Se non è in grado, sarebbe meglio per lui lasciare di propria volontà, senza essere costretto dalla forza delle cose. «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce» è scritto sul profilo del sindaco su WhatsApp. Una colta citazione di Lao Tse. Qualcuno gli ricordi che era anche il motto di Giulio Andreotti.

11 luglio 2015 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_11/mafia-capitale-degrado-l-ultima-occasione-marino-7e97c7c4-2790-11e5-ab65-6757d01b480d.shtml
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« Risposta #199 inserito:: Luglio 19, 2015, 06:06:11 pm »

L’intervista
Crisi Grecia, Monti: «Atene sbaglia ma Berlino stia attenta o scatenerà una rivolta degli spiriti»
«La responsabilità è della Grecia molto più che di Bruxelles e dopo il voto Tsipras ha dilapidato un patrimonio di simpatia»

Di Aldo Cazzullo

Professor Monti, come va a finire?
«Il negoziato continua. È in evoluzione ora per ora. La posizione del governo greco, per quanto disordinata, sta cambiando: Atene è disposta ad accettare più cose di prima. E nell’Eurogruppo c’è una vasta disponibilità a riprendere in esame il dossier».

Ma la Merkel dice che bisogna aspettare il referendum.
«Il più rigido mi pare Schäuble».

Se lei dovesse scommettere, punterebbe sull’uscita della Grecia dall’euro, o contro?
«Il tentativo è offrire a Tsipras qualcosa di più, in modo da indurlo a passare dal no al sì al referendum. È possibile un accordo su basi diverse dal passato: meno privatizzazioni, meno disagio sociale, una lotta più forte all’evasione e alla corruzione. Tutti i sondaggi indicano che il sì è in rimonta. E che la grande maggioranza dei greci, tra il 70 e l’80%, non vuole il ritorno alla dracma. Io, oltre a un grande amore, ho una grande fiducia nel popolo greco».

Ma la Grecia non ha gravi responsabilità?
«Certo. Se la situazione è così complessa, la responsabilità è di Atene molto più che di Bruxelles: dei governi degli ultimi decenni, e anche di Tsipras e Varoufakis, che in pochi mesi con i loro comportamenti egocentrici hanno dilapidato il patrimonio di simpatia conquistato con la vittoria elettorale».

L’Europa però non ha certo dato prova di lungimiranza.
«Qui si fa confusione. La troika non vuol dire l’Europa. E non sono mai stato tanto convinto come ora di aver fatto bene a imporre all’Italia uno sforzo che ci ha evitato la troika».

È sicuro che valesse la pena fare sacrifici, senza veder migliorare le condizioni delle famiglie e delle imprese ?
«La troika significa umiliazione e politica neocoloniale. Noi l’abbiamo evitata. Nel novembre 2011 i tassi erano quasi all’8%. Oggi i tassi sono sotto controllo».

Grazie alla Bce di Draghi.
«Il presidente Draghi non avrebbe potuto fare quel che ha fatto, se l’Italia non avesse avviato le riforme strutturali, a cominciare da quella delle pensioni, e non avesse messo ordine nei conti. Sarebbe stato accusato di favorire il proprio Paese. È stato un lavoro di punta e di tacco: prima la Merkel, al consiglio europeo 2012, si persuade a dire che gli interventi di stabilizzazioni sono giustificati; poi viene il tacco della Bce, che avvia gli interventi».

Ma dove sono oggi i frutti dei sacrifici imposti dal suo governo, che hanno depresso l’economia?
«L’economia italiana cresce la metà rispetto ai Paesi dell’Eurogruppo da 15 anni. Non è stato il mio governo a deprimerla. Anzi, con le riforme che abbiamo avviato, proseguite dai miei successori, abbiamo posto le basi per la ripresa. Quelle cose non le abbiamo fatte perché ce le ha chieste l’Europa. Le abbiamo fatte nell’interesse e per la dignità dell’Italia. Le ricordo che siamo l’unico Paese dell’Europa del Sud, Francia compresa, a essere uscito dalla procedura d’infrazione».

Il partito di Berlusconi dà una versione molto diversa di quella svolta. Parla di una cospirazione internazionale per mettere lei al suo posto.
«Sono andato a riascoltarmi il videomessaggio di Berlusconi del 24 ottobre 2012. Dice testualmente che da questa sindrome rivelatasi paralizzante “siamo infine usciti con la scelta responsabile, fatta giusto un anno fa, con molta sofferenza ma con altrettanta consapevolezza, di affidare la guida provvisoria del Paese in attesa delle elezioni politiche al senatore e tecnico Mario Monti, espressione di un Paese che non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe. Il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori hanno fatto quel che hanno potuto, cioè molto...”».

Oggi c’è Renzi. Sta guidando o sta seguendo?
«Guidando?».

Professore, ci siamo capiti: l’Italia di Renzi ha un ruolo attivo, o va a rimorchio degli altri?
«Preferirei evitare di parlare di Renzi. Non ne ho titolo: non siedo ai tavoli della trattativa».

È il presidente del Consiglio. Avrà un’opinione su di lui.
«Posso dirle questo. Renzi ama ripetere che in Europa occorre meno burocrazia e più politica. È una frase di grande grossolanità. A quale politica si riferisce? Se politica significa andare ai vertici pensando solo agli interessi di casa propria, ai sondaggi, alle elezioni successive, allora di politica ce n’è fin troppa. Se i leader, e parlo in generale, si imprigionano nello schema delle 140 battute di un tweet, allora non sono leader, ma follower. Se pensano ai dibattiti tv, dove prevali se esprimi un concetto in dieci secondi, allora saranno i populisti a prevalere; perché in dieci secondi riesci a esprimere solo tesi populiste. Era anomalo che il consiglio europeo si occupasse soltanto delle crisi finanziarie, e non dei populismi nascenti. Ora la situazione è più pericolosa. Guai a privilegiare gli interessi nazionali. Serve un Kohl, capace di perdere le elezioni pur di salvare il disegno dell’euro, che i tedeschi non volevano».

Ora c’è la Merkel. Sta vincendo la partita? O la sta perdendo?
«La Merkel vince solo se tiene la Grecia dentro l’euro e favorisce l’accordo finale. Se invece si avesse la sensazione che la Merkel e Schäuble non hanno voluto l’accordo, in Europa ci sarebbe una rivolta degli spiriti, un tumulto delle anime: uno scenario drammatico, per l’Europa e per la Germania».

Appunto: se dall’euro la Grecia dovesse uscire, cosa accadrebbe?
«Come ha detto Draghi, sarebbe un’esperienza del tutto nuova per tutti. È difficile prevedere le reazioni dei mercati, se venisse meno la certezza dell’irreversibilità della moneta unica. Qualcuno potrebbe avere la tentazione di scommettere contro altri Paesi».

Contro l’Italia?
«No. Di questo sono certo: non sarebbe l’Italia l’anello debole della catena».

Quale allora?
«Spagna e Portogallo sono messe peggio di noi, che pure abbiamo un rapporto debito pubblico-Pil più alto. Ma pensiamo piuttosto a evitare questo scenario».

Resta il fatto che l’Europa non è stata all’altezza della situazione .
«Ma l’Europa non sta violando la democrazia greca, come non ha violato la democrazia italiana. Quelle che chiamiamo regole europee non sono fatte per il piacere di qualche burocrate, ma per i greci di domani, per gli italiani di domani; per impedire di continuare a fare debiti per stare meglio oggi, e fare poi stare molto peggio i nostri figli e nipoti. Sono certo che i greci lo comprenderanno, e daranno prova di aver compreso. E io conto di poter ripetere quel che dissi nell’estate 2011, e che ora mi viene rinfacciato».

Si riferisce al video, oggetto di ironie in Rete, in cui lei indica nella Grecia il maggior successo dell’euro?
«Lo dissi da Gad Lerner. E sono convinto che presto potrò rivendicarlo: senza il pungolo della moneta unica, la Grecia non si sarebbe mai messa sulla via delle riforme per sconfiggere la corruzione, il clientelismo, l’evasione fiscale, e rendere il proprio sistema economico moderno e competitivo. Lo stesso concetto, ovviamente in una scala e in una situazione diverse, vale per l’Italia. Se vogliamo la ripresa, quella vera, anche gli italiani devono cambiare i loro atteggiamenti».

2 luglio 2015 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_02/mario-monti-atene-sbaglia-ma-berlino-stia-attenta-o-scatenera-rivolta-spiriti-b5dad326-2078-11e5-b510-55e71b40db58.shtml
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« Risposta #200 inserito:: Luglio 30, 2015, 10:09:50 pm »

L’EDITORIALE
Non siamo solo questo
Gli scioperi selvaggi, il degrado delle città e l’immagine del Paese

Di Aldo Cazzullo

Occorre dire con forza che questa non è l’Italia. O, almeno, che non tutta l’Italia è così. Purtroppo il massacro mediatico che da 48 ore il giornale più famoso del mondo sta conducendo ai danni della capitale e del Paese non è fondato solo su pregiudizi; è alimentato dalle immagini che i lettori mandano al New York Times per avvalorare l’idea della sporcizia, dell’inefficienza, del degrado estetico e morale. E il fatto che molti commenti alle foto della vergogna siano nonostante tutto di simpatia per le nostre bellezze e le nostre sventure non ci consola, anzi ci amareggia ancora di più.

Forse i conducenti della metropolitana peggiore d’Europa che si fermano a singhiozzo, i piloti che bloccano gli aerei Alitalia, i custodi che chiudono il Colosseo e Pompei per assemblea non hanno compreso che simili atteggiamenti sono incompatibili con il ruolo dell’Italia nel mondo globale. Per rivendicare diritti e salari si deve cercare la comprensione dei concittadini, non esasperarli. E l’immagine di Roma e dell’Italia all’estero non è solo questione di orgoglio nazionale. È il crinale su cui si gioca il rilancio e il declino del Paese, l’opportunità di far funzionare l’accoglienza, le infrastrutture, l’industria culturale - con i posti di lavoro qualificati che ne derivano - e il rischio di sprofondare il più grande patrimonio artistico del mondo in una Disneyland di serie B, dove non c’è neanche da divertirsi.

Purtroppo questo non l’ha capito neppure Ignazio Marino. Anche l’incapacità di risolvere un’impasse politica che si trascina da mesi è il metro della crisi del Paese. Il sindaco appare in fase confusionale. In realtà ha davanti a sé solo due strade: o costruisce una nuova giunta di alto livello, senza cedere agli interessi dei gruppi di pressione e dei comitati d’affari; oppure si dimette. Ma la partita che si decide in questi mesi va oltre il destino di una giunta e di una città. Sono la funzione e il futuro del Paese a essere in discussione. E non soltanto perché chance come l’Expo e il Giubileo non torneranno.

I tesori italiani non sono stati certo scoperti adesso. Ma oggi più che mai sono preziosi. Perché nel mondo globale non è mai stata tanto forte la domanda di bellezza, di cultura, di arte, di storia, e anche del genio, dei saperi, della creatività con cui la bellezza è stata prodotta. L’Italia che percepisce il turismo come rendita anziché come servizio, che non investe sul recupero e la valorizzazione dei suoi beni, che chiude Fiumicino prima per un banale incendio divenuto devastante rogo e poi per scioperi - a fine luglio -: è un’Italia non all’altezza di se stessa.

Per fortuna c’è un’Italia diversa. Che ha tenuto duro negli anni neri della crisi, investendo sulla qualità e sulla formazione, lavorando ai restauri e alla costruzione di reti museali ed espositive, affinando attraverso la ricerca e la tecnologia l’arte di fare le cose buone e le cose belle, conquistando nuovi mercati. È un’Italia che finisce di rado sulle pagine dei giornali internazionali, ma che va raccontata e rappresentata. Per una volta dovrà pur essere la moneta buona a cacciare quella cattiva. Non possiamo rassegnarci a vedere migliaia di giovani architetti, archeologi, ingegneri, artisti emigrare all’estero, e ad essere - a volte giustamente - sbeffeggiati da stranieri che si fermano per il tempo di scattare qualche umiliante fotografia.

27 luglio 2015 (modifica il 27 luglio 2015 | 07:06)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_27/italia-degrado-scioperi-non-siamo-solo-questo-editoriale-cazzullo-c0f83a20-341c-11e5-b933-63839669b549.shtml
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« Risposta #201 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:40:05 pm »

La Grecia e le illusioni del fronte antieuropeo

Di Aldo Cazzullo

Dunque la vacanza ateniese non è stata gratis. Anzi. Il conto del semestre pueblo unido del duo Tsipras -Varoufakis, e della brigata internazionale portatasi in supporto ad Atene, è durissimo. E a pagarlo saranno i greci. Non gli armatori, le ragazze chic di Kolonaki, i magnati con i conti all’estero; ma i pensionati, gli studenti, i poveri, il variegato fronte che ha sostenuto Syriza e i suoi alleati della destra nazionalista, ha votato No al referendum, e ora subisce un piano molto più punitivo di quello che avevano ottenuto i vecchi, screditati partiti. E il conto dei populismi rischia di essere altrettanto salato in altri Paesi. A cominciare dal nostro.

Intendiamoci: c’è poco da esultare per la vittoria della linea del rigore. Esiste ormai una questione tedesca. La Germania ha raggiunto con la pace l’obiettivo che aveva fallito scatenando due guerre mondiali: conquistare l’egemonia in Europa. Non ne sta facendo un uso generoso, e neppure lungimirante. Tsipras l’hanno creato un po’ anche la Merkel e Schäuble: se fossero stati meno arcigni prima, non si sarebbero ritrovati poi ad Atene un governo rossobruno. Il punto è che la strana alleanza dei populisti - siano di destra, di sinistra o post ideologici - ha trovato terreno fertile anche lontano dall’Egeo. La rivolta contro i partiti tradizionali, le forme consuete di rappresentanza, le istituzioni europee e l’austerity teutonica percorre l’intero continente, e prende forme molto diverse. Legittime, comprensibili; ma non indolori.

In Spagna, dove si vota tra quattro mesi, il movimento degli Indignati ha filiato sia Podemos, una forza di sinistra in aperta polemica con il partito socialista, sia Ciudadanos, centristi che insidiano i popolari di Rajoy. In Francia il populismo ha il volto nazionalista di Marine Le Pen. In Italia il fronte rossobruno di Atene ha un sostegno che va da Fassina a Salvini e alla Meloni, passando per i falchi di Forza Italia e per il Movimento 5 Stelle, ai massimi storici nei sondaggi. In mezzo, postdemocristiani che non toccano palla da anni, Berlusconi che oscilla tra il rancore verso la Merkel e gli interessi aziendali, e Renzi che in Europa fatica molto a farsi ascoltare sia sull’emergenza migranti, sia sulla necessità di nuovi investimenti per lo sviluppo.

È inevitabile che le sirene del populismo antieuropeo e antitedesco traggano consensi da questa situazione. Ma sarebbe illusorio pensare che l’uscita dalla moneta unica, o il rifiuto dell’Europa, siano una liberazione gioiosa.
Contro la dura logica di Berlino e di Bruxelles si sono scontrati tutti i governi italiani. Sia quelli, presto diventati impopolarissimi e condannati alla damnatio memoriae (Amato 1992, Monti 2012), chiamati a porre rimedio ai disastri altrui. Sia quelli eletti dal popolo con promesse destinate all’amara verifica dei rapporti di forza continentali: nella moneta unica siamo entrati ai tempi di Prodi con una tassa, chiamata nobilmente eurotassa anche se servì anche a coprire magagne nostrane, e ci siamo rimasti ai tempi di Berlusconi rinunciando all’illusione elettorale delle due aliquote secche al 23 e 33%. Ora Salvini ne promette una sola al 15, uguale per tutti, con ulteriori detrazioni a garantire la progressività: sarebbe meraviglioso, no?

La verità è che la battaglia contro l’austerity e per la crescita passa attraverso una tela faticosa di alleanze internazionali, di riforme interne, di tagli alla spesa (finora finiti nei libri più che nei bilanci), e infine attraverso un confronto durissimo con una cancelliera che ha vinto tre elezioni, si appresta a vincerne una quarta nel 2017 e dietro ha una grande coalizione e un Paese solido. Insomma: sarà un viaggio lungo e difficile; e, come dimostra il caso Tsipras, le scorciatoie sono tutte bloccate.

16 luglio 2015 (modifica il 16 luglio 2015 | 08:24)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_16/grecia-illusioni-fronte-antieuropeo-02d84f54-2b7e-11e5-a01d-bba7d75a97f7.shtml
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« Risposta #202 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:34:46 am »

Il dibattito
La Resistenza oltre i partigiani
Per una lettura non solo «rossa»
Risposta a Giampaolo Pansa sul libro «Possa il mio sangue servire» (Rizzoli).
«Bisogna superare l’idea che tra gli antifascisti quelli che contavano erano solo i comunisti»

Di Aldo Cazzullo

Attendevo con curiosità, avendo scritto un libro in difesa della Resistenza, la replica di Giampaolo Pansa, arrivata domenica dal suo Bestiario su «Libero». Curiosità dovuta al fatto che le critiche sono sempre più utili degli elogi, a maggior ragione quando provengono da un maestro di giornalismo. Oltretutto Pansa, cavallerescamente, ricorda la sera a Reggio Emilia in cui ci trovammo a fronteggiare gli energumeni venuti a impedire la presentazione del suo libro (Giampaolo tace i nomi dei colleghi che se la diedero a gambe; e anch’io taccio). Sulla Resistenza restiamo però in dissenso.


Il punto non è Piazzale Loreto. Fu un crimine: il corpo del nemico ucciso va sempre rispettato. La tesi su cui Pansa ironizza - il corpo di Mussolini fu esposto anche per comunicare a tutti, in epoca pre-televisiva, che il Duce era morto davvero e il fascismo davvero finito - non è mia, la cita Umberto Eco nel suo ultimo libro. Personalmente la trovo persuasiva. Tentare di capire il motivo di un fatto non significa giustificarlo; tanto meno può essere giustificato lo scempio che del corpo fu fatto.


Il punto è che Pansa, pur avendo intitolato una delle sue numerose autobiografie Il revisionista , pare fermo all’idea della Resistenza come «cosa di sinistra»: una guerra «combattuta tra due esigue minoranze»; e tra gli antifascisti quelli che contavano davvero erano i comunisti. « “La Resistenza è rossa” divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile: in due parole descrivevano una realtà - sostiene Pansa -. Certo, la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre». Forse conosciuta, ma a lungo taciuta, o passata in secondo piano. Invece è tempo di liberarsi dal senso comune della Resistenza sempre e solo rossa.


Intendiamoci: molti partigiani erano comunisti. Liquidarli come fanatici che volevano solo «fare dell’Italia un satellite di Mosca» è un’argomentazione perfetta per la polemica di oggi; ma all’epoca l’urgenza era scegliere da quale parte stare, con o contro i nazisti invasori. Molti comunisti diedero la vita. Molti tacquero sotto le torture. Altri ancora si macchiarono di crimini. In Possa il mio sangue servire ho dedicato un capitolo a Porzûs, dove partigiani comunisti uccidono partigiani «bianchi» delle brigate Osoppo: tra loro c’era Francesco De Gregori, lo zio del cantautore che ne porta il nome; e c’era Guido Pasolini, che prima di essere ammazzato scrive al fratello Pier Paolo per farsi mandare dalla madre un fazzoletto tricolore, perché vuole indossare quello e non «lo straccio rosso» (divenuto pudicamente in altri libri «lo straccio russo»); nel post-scriptum Guido chiede scusa al fratello, che sa essere bravissimo scrittore, perché non ha avuto tempo di rileggere la lettera, in quanto deve «salire in montagna immediatamente».


Non tutti i partigiani delle Garibaldi erano comunisti: molti erano ragazzi senza partito, che volevano sfuggire alla leva di Salò. Poi c’erano i partigiani cattolici, monarchici, socialisti, giellisti. Non era di sinistra Edgardo Sogno, che passò il resto della vita a combattere i comunisti, ma allora si batteva perché gli Alleati rifornissero anche i garibaldini, di cui riconosceva il valore. Non era di sinistra il generale Raffaele Cadorna (nipote del generale che prese Roma, figlio del comandante della Grande guerra), che si fece paracadutare con una gamba lesa nell’Italia occupata. Non era di sinistra Maggiorino Marcellin, il sergente degli alpini che in Val Chisone fronteggiò con mille uomini le SS e la Luftwaffe.

Non era di sinistra il colonnello Montezemolo, che guidò la Resistenza a Roma prima di essere torturato e ucciso alle Ardeatine. Non erano di sinistra i banchieri e gli industriali che per una volta portarono i soldi dalla Svizzera in Italia per sostenere la guerra di liberazione. Non erano di sinistra i tre carabinieri di Fiesole - Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti, Alberto La Rocca - che vanno a farsi ammazzare in una domenica di agosto, un pomeriggio pieno di sole, per salvare dieci ostaggi civili che non hanno mai conosciuto. Non era di sinistra don Ferrante Bagiardi, che quando vede fucilare 74 suoi parrocchiani sceglie di morire con loro dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Non era di sinistra suor Enrichetta Alfieri, che rischiò la vita per salvare i prigionieri dei fascisti a San Vittore: al processo di beatificazione testimoniarono due di loro, due pericolosi rivoluzionari: Indro Montanelli e Mike Bongiorno.


Il punto è che la Resistenza non è esaurita dalla guerra partigiana. Ci furono molti modi di dire no ai nazisti e ai loro collaboratori. Operai che scioperarono per boicottare la produzione bellica tedesca. Imprenditori che salvarono i loro operai dalla deportazione in Germania. Ferrovieri che rallentarono i treni per consentire ai deportati di saltare giù. Medici che firmarono certificati falsi pagando di persona. Francescani che aprirono i loro conventi agli ebrei. Contadini che non amavano i partigiani, ma fecero la scelta più rischiosa, accettando di aiutarli. E gli oltre 600 mila internati in Germania, che preferirono restare nei lager nazisti in condizioni drammatiche piuttosto che andare a Salò a combattere altri italiani. Quasi 90 mila militari morirono dopo l’8 settembre: i fucilati di Cefalonia, i bersaglieri che si batterono al fianco degli Alleati, e appunto le vittime dei lager. Di loro non si parla mai. È il momento di riconoscere che la Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione.

23 giugno 2015 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_23/resistenza-oltre-partigiani-una-lettura-non-solo-rossa-cazzullo-pansa-ab418710-1976-11e5-9779-e399e180b2ac.shtml
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« Risposta #203 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:26:27 pm »

Una lunga estate choc ma l’Europa è meno fragile

Di Aldo Cazzullo

L’estate che rischiava di essere l’ultima per l’Europa disegna alla fine uno scenario meno peggiore del previsto. Una stagione cominciata con l’Unione a pezzi e la moneta unica per la prima volta dichiarata non irreversibile si chiude con una prospettiva di ricostruzione politica e di ripresa economica, per quanto ancora troppo debole. Un’occasione da non lasciar cadere.

Due mesi fa si guardava alla Grecia come al primo tassello di un domino letale destinato a far crollare l’intera impalcatura della costruzione europea. E si guardava alla Germania come a un vampiro avido di sangue altrui. Nel frattempo qualcosa è accaduto. La Merkel, pur con i suoi errori e i suoi limiti, è riuscita a far approvare dal Bundestag il piano di aiuti ad Atene, con un margine di dissenso del tutto fisiologico in una grande coalizione, e in ogni caso non superiore rispetto ad altre votazioni meno cruciali. Ora Tsipras, dopo la primavera spensierata e l’azzardo del referendum, prende atto che il suo governo ha cambiato sia politica sia maggioranza, e coerentemente indice elezioni anticipate cui si presenta non più come capo populista, ma come leader capace di amputare le estreme (rosse o brune che siano) e di proseguire lungo un cammino di risanamento che per quanto difficilissimo si è dimostrato l’unico possibile.

Negli stessi mesi, le grandi potenze mondiali hanno rivelato lacune che sino a poco fa apparivano ben dissimulate. Il crollo della giovane Borsa di Shanghai è il segnale d’allarme che conferma gli squilibri non solo finanziari ma anche politici e sociali della crescita del gigante cinese. In America il potere ormai poco più che simbolico di Obama lascia spazio a una stagione elettorale lunga 14 mesi, dall’esito incertissimo, in cui si confrontano quelli che in termini polemici si potrebbero definire vecchi arnesi — la moglie di Clinton e il secondo figlio di Bush — e outsider improbabili come Joe Biden e Donald Trump. Questo ovviamente non significa che l’Europa esangue e litigiosa di giugno sia divenuta l’anello forte del mondo globale; magari avessimo l’energia delle economie emergenti e la capacità di rinnovamento che la democrazia americana potrebbe mostrare pure stavolta. Significa, più realisticamente, che il mondo globale ha bisogno di un’Europa forte, stabile, capace di coesione e di visione.

Per quanto i segnali della rentrée siano incoraggianti (solo la politica italiana è felicemente in vacanza, essendosi occupata in agosto quasi solo di Rai), sarebbe sbagliato trarre conclusioni premature. La vera partita è ancora da giocare; e non soltanto perché l’ennesimo piano di salvataggio della Grecia rappresenta appena una chance, non certo una garanzia di successo. Il vero modo per battere i populismi antieuropei, usciti suonati dalla battaglia di Atene, è costruire una vera Unione politica, con quote di sovranità elargite non a una sovrastruttura burocratica o a un’emanazione germanica, ma a istituzioni democraticamente rappresentative e responsabili. Se ne discute da anni. La Merkel a parole si dice pronta. Hollande ha fatto una proposta interessante. Il bistrattato Rajoy potrebbe uscire meno malconcio del previsto dalle elezioni spagnole di novembre. Cameron affiderà presto il ruolo britannico nel continente all’ordalia del referendum. Quanto a Renzi, si attende che batta un colpo. Per una volta, il momento è propizio. Ma non è un momento che possa durare in eterno.

21 agosto 2015 (modifica il 21 agosto 2015 | 16:14)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_21/lunga-estate-choc-ma-l-europa-meno-fragile-7b310fe8-47cd-11e5-9031-22dbf5f9fa34.shtml
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« Risposta #204 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:48:14 pm »

Generazioni
Piste di atletica senza italiani specchio di un Paese stanco
Un tempo andavamo di fretta: c’erano i velocisti, da Berruti a Mennea, e i fondisti, da Cova ad Antibo. Dopo la favola del sudtirolese Schwazer finita male, tutto si è fermato.
Non è solo questione tecnica. Sembra che la fatica faccia sempre più paura

Di Aldo Cazzullo

Che tristezza la pista dei Mondiali di atletica senza una maglia azzurra. Lo specchio di un Paese che non corre più; almeno non a piedi.

Ieri si è chiusa, nello splendido stadio che vide gli inquietanti fasti del regime cinese all’Olimpiade 2008, la manifestazione sportiva più importante dell’anno. L’Italia del tutto assente. È stata un’edizione memorabile, con grandi emozioni restituite da Gaia Piccardi ai lettori del Corriere, con la conferma di campioni da Bolt a Farah che saranno ricordati tra i più grandi di sempre. Ma la prestazione degli azzurri è stata mortificante. Anzi, non è stata. Non soltanto non hanno vinto neppure una medaglia; non ci hanno neppure provato. In molte discipline non avevamo un solo atleta ai blocchi di partenza.

Un tempo andavamo di fretta. C’erano i velocisti: Berruti, Mennea. (Ancora ai Mondiali di Helsinki 1987 la staffetta 4 x 100 azzurra era medaglia d’argento; a Pechino 2015 non era neppure in gara). Poi abbiamo avuto grandi fondisti, da Cova ad Antibo, e maratoneti, da Bordin a Baldini. Non era l’età dell’oro, ci furono trasfusioni sospette e il salto troppo lungo di Evangelisti; ma l’atletica italiana esisteva. Ed esisteva la marcia, forse la specialità più consona a un popolo abituato a camminare, e a sacrificarsi, da Dordoni a Pamich, da Damilano a Brugnetti. Poi arrivò Schwazer, la bella favola del sudtirolese con il tricolore finita nella vergogna. Da allora si è spenta la luce.

Non è solo una questione tecnica. O di impianti, che non erano certo migliori di quelli di oggi. È che la fatica ci fa sempre più paura. E avanza l’idea che il sacrificio non serva a nulla, che la partita sia già giocata, e perduta. Ovviamente non è facile esprimere un campione, o un’eccellenza; ma oggi non si intravede neppure un movimento, una cultura, uno sforzo individuale e comune. Neanche l’immigrazione, per il momento, ci sostiene: tra i tanti africani e maghrebini di casa nostra non è ancora emerso un campione vero. Correre è uno dei mestieri che gli italiani non vogliono più fare, e non abbiamo ancora trovato nuovi italiani che ci sostituiscano.

Bisogna sempre stare attenti a maneggiare lo sport come metafora: le migliori stagioni dello sport italiano sono coincise con momenti di rinascita o di ripartenza collettivi, come l’Olimpiade di Roma ‘60 e in parte i Mondiali di calcio dell’82; altre volte i trionfi sono avvenuti nei momenti più neri, come il 1938 del secondo titolo di Pozzo e della vergogna delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler. Però mai come stavolta lo stato comatoso dell’atletica sembra rispecchiare l’umore di un Paese depresso, abulico, arrivato quasi al disprezzo di se stesso. Un Paese in cui lottare per emergere è considerato inutile o disdicevole. Un Paese che arriva a raccogliere decine di migliaia di firme sul web contro la sua atleta più vittoriosa di tutti i tempi, Valentina Vezzali.

Per fortuna anche questa metafora potrebbe presto rivelarsi fallace. La cronaca ci consegna ogni giorno esempi di resistenza e di tenacia, oltre a qualche segnale di ripresa. E se parte di una generazione si è arresa anzitempo — le statistiche dei giovani che non studiano, non lavorano e non si formano sono drammatiche —, un’altra parte si mostra pronta a combattere, va a cercare all’estero il lavoro che non trova in Italia, e affronta lo sport con quel giusto equilibrio di ambizione e rabbia, di talento e di lavoro. Senza arrivare agli eccessi di Mennea — i tecnici americani che videro le sue tabelle di allenamento chiesero: «L’uomo che ha fatto tutto questo è morto, vero?» —, i nostri ragazzi farebbero bene a sapere che non molto tempo fa sono esistiti loro formidabili coetanei, capaci pure di battere i velocisti neri («Steve Williams mi affiancò in curva; avevo le sue ginocchia all’altezza del mio mento» ha raccontato ancora Mennea a Emanuela Audisio). A Rio 2016 manca un anno: vediamo se nel frattempo matura qualcosa, in pista e fuori.

31 agosto 2015 (modifica il 31 agosto 2015 | 08:52)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_agosto_31/piste-atletica-senza-italiani-specchio-un-paese-stanco-36f4db9a-4faa-11e5-8a95-dfd606371653.shtml
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« Risposta #205 inserito:: Settembre 05, 2015, 08:56:30 am »

L’INTERVISTA MASSIMO D’ALEMA

D’Alema: «Renzi danneggia il partito rinnegando la storia comune»
L’ex premier: «Sì, sono stato sprezzante, ma non cattivo. Renzi svilisce la nostra storia.
Io coperto d’insulti, per ordine dall’alto è cominciato un linciaggio di tipo staliniano»


Di Aldo Cazzullo

«Sono appena tornato dall’Arabia Saudita, e sono rimasto colpito dalla percezione terribile dell’Europa: un continente diviso, preda di febbri populiste, incapace di governare un’emergenza in cui abbiamo anche noi le nostre responsabilità. L’Europa ha contribuito a destabilizzare la regione: per quello che ha fatto, con guerre e interventi militari; e per quello che non ha fatto, disinteressandosi delle conseguenze».

Presidente D’Alema, l’Italia tenta di internazionalizzare l’emergenza migranti. A che punto siamo?
«È un tentativo apprezzabile. Si comincia a capire che occorre uno statuto europeo del rifugiato, che le frontiere italiane, greche, ungheresi sono frontiere dell’Unione e spetta all’Europa presidiarle. Ma occorre un salto di qualità. Quando ci fu la crisi in Kosovo, non facemmo nessun vertice: ci parlammo al telefono, distribuimmo i profughi: 30 mila in Italia, 40 mila in Germania, 150 mila in Albania assistiti con i soldi nostri. Non si videro barconi. Nessuno affogò. Ma era un’altra Europa. Con valori comuni».

Tra i valori in crisi ci sono quelli del socialismo europeo. Lei ha sostenuto che i socialisti scompaiono se si allineano ai conservatori, come ad Atene, e reggono se dialogano con i radicali, come a Madrid. Ma la sinistra radicale lei l’ha sempre combattuta. E ora il Pd dovrebbe inseguirla?
«La situazione è ben diversa dal 1996. Allora si trattava di liberare la sinistra dallo statalismo e di arricchirla con aspetti positivi del liberalismo. Oggi siamo dopo la grande crisi della globalizzazione neoliberista. E il riformismo socialista non riesce a ridurre disoccupazione e disuguaglianza. Ecco perché sorge il populismo, e sorge una sinistra di tipo populista, che non va confusa con l’estremismo. Podemos non ha nulla a che vedere con i gruppetti estremisti».

Ma secondo una lettura diffusa Renzi fronteggia gli stessi nemici che fronteggiò lei: le rigidità sindacali, gli antiberlusconiani militanti...
«Raffigurare la storia italiana come se berlusconismo e antiberlusconismo si fossero annullati in una litigiosità inutile, senza produrre nulla, è una raffigurazione falsa. Il centrosinistra produsse importanti cambiamenti. Abbiamo fatto la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, la politica estera nei Balcani e in Libano. Abbiamo portato l’Italia nell’euro».
E avete avuto grandi fallimenti.
«Altre cose non ci sono riuscite. Ma rappresentare questi vent’anni come una lunga rissa in cui a un certo punto appare Renzi è una sciocchezza pubblicitaria. Al contrario, Renzi dovrebbe riconoscere quel che ha avuto in eredità. Tra gli elementi che contribuiscono alla crescita del Pil c’è l’Expo, che Renzi ha ereditato dal governo Prodi, senza avere il buon gusto di dire almeno grazie. Mi ha colpito l’atteggiamento sgradevole nei confronti del suo predecessore. Enrico Letta ha messo in sicurezza il Paese. E Renzi ne parla in modo inutilmente sprezzante».

Anche lei ha avuto modi sprezzanti.
«È vero e infatti ho sbagliato. Lo riconosco. E ho pagato un prezzo per questo. Ma posso essere stato spigoloso; non sono cattivo, né vendicativo. Io ho difeso con spigolosità le mie idee; non ho mai massacrato le persone. Ho avuto con Veltroni e Prodi un confronto politico franco. Ma ho indicato io Veltroni come vicepresidente del Consiglio. E quando Prodi cadde in modo drammatico, e non certo per mia responsabilità, l’ho indicato io come presidente della Commissione europea. Soprattutto, non ho mai svilito la nostra storia comune, come sta facendo Renzi. È vero che in passato il centrosinistra ha conosciuto divisioni. Ma oggi si rischiano lacerazioni ben più drammatiche».

Il Pd è a rischio scissione?
«Sono stato coperto di insulti per aver fornito in un dibattito qualche dato oggettivo: nei sondaggi siamo precipitati dal 41% al 32; e le regionali hanno confermato la tendenza. Per ordine dall’alto è iniziato un linciaggio di tipo staliniano. Il Pd sta abbandonando molti valori della sinistra, ma non i metodi dello stalinismo. Oggi i trotzkisti da fucilare se il piano quinquennale falliva vengono chiamati “gufi”. E siccome Palazzo Chigi ha una certa influenza sui media, vari commentatori sono intervenuti per dirmi che non si possono paragonare le Regionali alle Europee. Sono cose che credo di sapere. Paragoniamo allora le Regionali 2015 alle precedenti. Abbiamo perso 330 mila voti in Emilia, 315 mila in Toscana, 150 mila in Veneto e in Campania. In tutto sono un milione e 300 mila».

È cresciuta l’astensione.
«È vero; ma soprattutto nelle Regioni rosse. Gran parte dell’elettorato rimasto a casa era nostro. In campagna elettorale mi sono preso gli insulti di molte persone cui dicevo di votare il Pd; adesso mi insultano dall’altra parte. Il vicesegretario del mio partito dice che faccio polemiche di basso livello. Ma qui è basso il livello dei voti. Dio acceca coloro che vuole perdere».

Ripeto: il Pd è a rischio scissione?
«Non è a me che deve fare questa domanda. Mi occupo di politica internazionale. Non ho problemi, non cerco cariche...».
La si sospetta invece di acrimonia personale, per non aver avuto la carica di alto rappresentante per la politica estera europea.
«È falso, e glielo dimostro. Io lavoro a Bruxelles, e collaboro lealmente con Federica Mogherini, che apprezzo molto».

Torniamo al rischio scissione.
«L’attuale Pd non ha rotto solo con la tradizione della sinistra, ma anche con una parte importante del cattolicesimo democratico. In questo modo ha lasciato molto spazio ad altre offerte politiche. Ora il Pd è a un bivio. O ricostruisce il centrosinistra. Oppure crea un listone con il ceto politico uscito dal berlusconismo. Ho visto un sondaggio che dice che con questo listone, o come è stato elegantemente definito rassemblement, avremmo meno di voti di quelli che raccoglierebbe da solo il Pd».

Sta dicendo che bisognerebbe cambiare la legge elettorale?
«Sì. La legge è stata costruita per un Pd al 40%; oggi rischia di diventare una trappola mortale. Il ballottaggio sarebbe tra Renzi e Grillo; e dubito che i leghisti voterebbero Renzi. Farsi la legge elettorale su misura porta sfortuna: chi ci ha provato, compreso Berlusconi, ha perso. Sarebbe saggio evitare questa roulette russa, che rischia di consegnare il Paese neanche a una maggioranza, ma a una minoranza populista».

Non vorrei sembrarle insistente, ma se si dà il premio elettorale alla coalizione anziché alla lista, allora nel Pd diventa possibile una scissione da sinistra.
«Questo deve chiederlo a Speranza o a Cuperlo. Io sto dicendo un’altra cosa. Qui è in gioco l’assetto del sistema democratico. Se si sceglie una legge elettorale che sacrifica la rappresentanza alla governabilità, allora bisogna riequilibrare il sistema con garanzie, contrappesi, tutela dei diritti fondamentali dei cittadini: a cominciare dall’elezione diretta dei senatori. Lo stesso vale per la riforma fiscale. Un conto è tagliare le tasse sul lavoro e sulle imprese; un altro è tagliare le tasse sulla casa ai benestanti. Quello fu uno dei terreni di sfida tra Prodi e Berlusconi. Renzi ha scelto la posizione di Berlusconi».

Renzi sostiene che sta facendo le cose che lei aveva intenzione di fare, dalle riforme istituzionali al superamento dell’articolo 18. Avete in comune pure il dialogo con Berlusconi, e lo scontro con gli antiberlusconiani. Come quello che lei sostenne al Palasport di Firenze con Paul Ginsborg, all’apice della stagione dei girotondi.
«Berlusconi nel 2001 venne in elicottero a Gallipoli per cacciarmi dal Parlamento. Nel 2013 mi disse che non avrebbe mai potuto votarmi per il Quirinale perché a destra ero considerato il peggiore avversario. Ricordo bene il confronto pubblico con Ginsborg. Lui aveva scritto nei suoi libri cose diverse da quelle che avevo scritto nei miei. Ma il confronto delle idee richiede che ci siano delle idee».

Renzi le rinfaccia che non può difendere l’Ulivo l’uomo che a Gargonza lo affossò.
«Io non sono mai stato un ulivista nel senso ideologico del termine. A Gargonza contrastai l’ideologia della supremazia della società civile sulla politica: tema di una certa attualità. Ma l’Ulivo io contribuii a costruirlo e portarlo al governo, con oltre il 40%: al di sopra del livello massimo del Pd attuale».

Che effetto le fa vedere quasi tutti i suoi collaboratori di un tempo schierati con Renzi? Rondolino, Velardi...
«Velardi si schierò già con Lettieri e la Polverini».

...Latorre, Orfini.
«Mi fa un certo effetto di tristezza. Colpisce la solerzia con cui alcuni si impegnano nelle polemiche contro di me. Anche questo appartiene al metodo staliniano: fare attaccare i reprobi dai vecchi amici, dai familiari».

Renzi ha torto anche quando dice che l’alternativa a lui non è un Pd più a sinistra, è Salvini?
«Questo è lo scenario che lui preferisce. Ma bisognerà vedere se nel centrosinistra emergerà nel prossimo futuro una personalità in grado di contendere a Renzi la leadership. Non bisogna sottovalutare un fatto. A destra la legge della convenienza funziona. A sinistra no. A sinistra è più forte la legge della convinzione».

Che cosa intende dire?
«Che è avvenuta una cosa più grave di una rottura politica; una rottura sentimentale. Un parte degli elettori di sinistra hanno rotto con il Pd, e difficilmente il Pd li potrà recuperare. Io ho litigato con molte persone che mi hanno detto: “Non vi ho votato e non vi voterò mai più. Non siete più il mio partito”. E non lo dice un gufo; lo dice uno che resta nel Pd, seppur maltrattato. Sarebbe saggio cambiare tono. Perché c’è qualcosa in Renzi che va al di là delle scelte politiche; è proprio questo tono sprezzante e arrogante, verso le persone del nostro stesso mondo, verso la nostra stessa storia. Berlusconi e Bossi si insultarono, si querelarono, ma il giorno dopo per convenienza si misero d’accordo. A sinistra questo non può accadere. Siamo fatti diversamente».

3 settembre 2015 (modifica il 3 settembre 2015 | 09:46)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_03/renzi-danneggia-partito-rinnegando-storia-comune-f54f8b48-51f9-11e5-aea2-071d869373e1.shtml
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« Risposta #206 inserito:: Settembre 06, 2015, 05:37:40 pm »

L’incontro a CERNOBBIO
Renzi: «Vado ovunque, ma se devo scegliere preferisco Bono Vox»
Il premier al Forum Ambrosetti: «Un anno fa non sono venuto perché sarebbe stato un convegno: stavolta ho risultati da rivendicare, non buone intenzioni»

Di Aldo Cazzullo, inviato a Cernobbio

CERNOBBIO «A me piace andare dappertutto: in una rubinetteria come l’anno scorso, a Cernobbio come oggi, al festival dell’Unità e al Gran premio di Formula Uno come sto per fare. Posso vedere i grandi professori, così come ora incontro Bono Vox; che mi interessa di più», dice sorridendo Matteo Renzi.

Un anno fa evitò Cernobbio, andò a inaugurare la rubinetteria dei fratelli Bonomi a Gussago, periferia di Brescia, e disse agli operai: «Io oggi avrei dovuto essere in un albergo a cinque stelle, dove si radunano professoroni che mangiano tartine al salmone e non ne azzeccano una da vent’anni. Invece sono qui, con voi. Perché là si discute, qui si fa. Là si enunciano i problemi, qui si risolvono. Loro hanno fallito, voi date speranza al Paese spaccandovi la schiena...». Ieri Renzi è arrivato nell’albergo a cinque stelle in elicottero, tra banchieri, finanzieri, presidenti di società pubbliche da lui nominati.

«Io mi diverto in ogni caso - racconta al «Corriere» -. Mi sono divertito ad andare dai ciellini a dire che vent’anni di berlusconismo hanno bloccato il Paese. Oggi mi sono divertito a dire all’establishment italiano che i salotti buoni sono chiusi per sempre. Che la logica degli «amici degli amici» è finita. Che la stagione del capitalismo di relazione appartiene al passato. Che il sindacato ha fatto danni, ma i patti di sindacato ne hanno fatti ancora di più. Che la politica deve cambiare e sta cambiando, ma pure l’imprenditoria deve cambiare uomini e logiche, e aprirsi a una nuova generazione. E a dire che secondo la stragrande maggioranza degli economisti gli 80 euro non sarebbero serviti a niente, mentre ora Bankitalia sostiene che hanno fatto ripartire i consumi. Qui non se ne saranno accorti; chi guadagna 1200 euro al mese sì».

Il moderatore Gianni Riotta scherza: «È la prima volta che Renzi viene a Cernobbio, voi potrete dire ai nipoti: io c’ero». Applauso. L’atmosfera è di apertura di credito, con due piccole tifoserie opposte, odiatori e supporter, guidate spiritualmente da Renato Brunetta e dal finanziere anglo renziano Davide Serra: «Io conto gli anni della politica italiana a partire da questo governo. Avanti Renzi e dopo Renzi». Guardi che lo diceva anche Enrico La Loggia a proposito di Berlusconi... «L’Italia ha quattro jolly: tassi al minimo, euro più debole, petrolio basso». E il quarto? «Il quarto jolly è Matteo, no?». Anche Brunetta è ottimista sulle sorti del premier: «Non mangia il panettone. Cade tra poche settimane. È un pugile suonato: ha preso tante di quelle botte che basta uno

schiaffetto per mandarlo al tappeto. E dopo non si va a votare; si fa la grande coalizione. Con un premier di centrodestra. O con Mario Monti, se necessario».

Monti è in sala. Come Enrico Letta, che si infila in ascensore.
Renzi: «Stavolta ho evitato di polemizzare con i predecessori. Non era la sede, non era il momento. Del resto i fatti sono sotto gli occhi di tutti: il Parlamento è lo stesso del 2013. Ma prima non riusciva a eleggere il presidente della Repubblica; ora l’ha eletto. Le riforme erano impantanate; adesso vanno avanti». C’è l’accordo con la minoranza Pd sulle nuove regole per l’elezione dei senatori? «No. Si sta discutendo. A me va bene tutto: il listino collegato alle elezioni regionali, oppure delegare la scelta alle Regioni. L’importante è che non si rivoti un articolo che è già stato votato due volte». Argomento ostico per gli stranieri, quasi tutti grandi ex, da Shimon Peres che spiega la sua idea visionaria di un’Onu delle religioni per fermare le guerre, a Kofi Annan, innamorato del lago di Como: «Lasciata la guida delle Nazioni Unite, mi ritirai qui in incognito. Dopo tre mesi ero in crisi d’astinenza e andai in paese a cercare i giornali. Mia moglie mi disse: “Così ti riconosceranno”. L’edicolante in effetti mi fece: “Ma io la conosco! Lei è Morgan Freeman!”».

Varoufakis abbronzatissimo ammonisce Renzi: «È davanti alle sue colonne d’Ercole. Può sfidare l’ortodossia europea dell’austerity. Vedremo se ne ha la forza». Davide Serra: «Non date retta a quest’uomo, sa come lo chiamiamo noi a Londra? Varoufucker. Matteo non ha bisogno di lezioni da nessuno. È business on: sempre sul pezzo. On the way: sulla strada giusta». Scusi Serra, lei è italiano e sta parlando a un giornale italiano: perché non parla italiano? «Io non leggo i vostri giornali, io leggo solo Ft, Times e Bloomberg».

A dire il vero, il premier dribbla le domande più tecniche: Galateri chiede lumi sul mercato di capitali, Abete sulle garanzie per il credito alle piccole imprese, Granata sugli equity swap; tutti e tre vengono rinviati al ministro Padoan, «l’uomo più prudente del mondo», che parla stamattina. Scusi Serra, ma Renzi sa di economia e finanza? «Io conosco sia Cameron, sia Hollande, sia Merkel; e le posso assicurare che Matteo sa di economia più di Cameron, più di Hollande, più di Merkel. Quelli di Bankitalia hanno alzato il sopracciglio perché non conosceva il primary surplus, l’avanzo primario; ma ci ha messo tre secondi a capirlo». Brunetta: «Di economia non sa niente! Niente! Ha copiato da noi l’idea di abolire la tassa sulla prima casa, ma l’Europa lo impedirà: altrimenti lo vorranno fare tutti, perché tutti hanno le elezioni».

Dice Renzi che «un anno fa non sono venuto a Cernobbio perché sarebbe stato un convegno: mi sarei dovuto limitare a un elenco di buone intenzioni. Stavolta avevo risultati da rivendicare, in particolare davanti agli investitori internazionali; e mi pare che la loro reazione sia stata positiva. Non sto dicendo che va tutto bene, anzi. Se cala il prezzo del petrolio è un bene, se crolla è un male; perché destabilizza ulteriormente le regioni più calde del pianeta, il NordAfrica, il Medio Oriente, la Nigeria. Ma l’Italia c’è, sui migranti l’Europa sta venendo sulle nostre posizioni. L’importante è che tutti, anche le banche e le imprese, trovino il coraggio di cambiare». Brunetta: «Per fortuna ci siamo. L’impostore sta per venire scoperto, l’imbroglione è sul punto di essere smascherato, l’abusivo sta per pagare il suo azzardo morale». Serra: «Brunetta, come D’Alema, Tremonti, Bersani, mi ricorda il circo Togni. Uno spettacolo grottesco che appartiene al passato. Vedremo se gli italiani preferiscono Matteo o il circo Togni».

6 settembre 2015 (modifica il 6 settembre 2015 | 08:51)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_06/premier-vado-ovunque-ma-se-devo-scegliere-preferisco-bono-vox-ccaa1a7a-545e-11e5-b241-eccff60fea73.shtml
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« Risposta #207 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:46:02 am »

Migranti, quella lezione tedesca per la destra di casa nostra

Di Aldo Cazzullo

L’accoglienza dei profughi in Germania non è la scelta di un governo di sinistra. È la scelta del leader del centrodestra europeo, Angela Merkel. E l’organizzazione è gestita - nonostante qualche mugugno - dal governo bavarese, dominato da sempre dalla destra identitaria e dura del «toro» Strauss e di Stoiber. Ma la destra italiana, dov’è? È pronta a fare la propria parte, nelle regioni e nelle città che amministra, o è ferma alla propaganda? È per il modello tedesco, o per quello ungherese? L e immagini storiche dell’arrivo dei siriani a Monaco sono destinate a restare nella memoria per molte ragioni. Evocano un contrappasso della storia: i persecutori del secolo scorso che accolgono i perseguitati del nostro tempo. Sono anche il segno di un risveglio tardivo: per troppo tempo i Paesi più esposti al flusso migratorio - l’Italia, la Grecia, la stessa Turchia, che non fa parte dell’Ue ma ha retto finora il peso maggiore della crisi siriana - hanno chiesto invano agli altri Paesi europei di farsi carico di un’emergenza epocale. Se Berlino e Bruxelles si fossero mosse prima, si sarebbero evitati lutti ed esasperazioni. Ma lo scatto della Germania rappresenta per l’Italia una lezione politica.

La Merkel ha saputo fronteggiare la xenofobia che ha visto montare alla propria destra. Le immagini degli attacchi ai centri di accoglienza sono state decisive per indurla alla svolta di questi giorni tanto quanto le fotografie che hanno percosso la coscienza del mondo. I cristiano sociali della Baviera hanno fatto il resto.

E il conservatore Cameron per la prima volta non si chiama fuori. In Europa si affaccia, sia pure in ritardo, una destra della legalità e della responsabilità; ovviamente non disponibile ad accogliere chiunque, ma determinata a non respingere più chi fugge davvero dalla guerra. In Italia siamo ancora alla rissa, con Renzi che distingue tra esseri umani e bestie, Salvini che si sente chiamato in causa e gli dà del verme. E siamo alle diverse varianti del populismo, consolatorio o allarmista; al solito schema della sinistra buonista e della destra cattivista, dell’«accogliamoli tutti» e del «prendeteveli a casa vostra». Per fortuna, al di là di qualche scena di isteria dovuta più che altro alle carenze organizzative del governo e alle strumentalizzazioni politiche dell’opposizione, gli italiani si sono comportati in questi mesi con umanità, e nelle zone più esposte - a cominciare da Lampedusa - con una generosità di cui possiamo andare fieri. Adesso anche chi ha incarichi di governo deve fare altrettanto.

La solidarietà non può essere disgiunta dalla sicurezza; e sarebbe il caso che Renzi desse ai familiari dell’orribile delitto di Palagonia quella risposta - con i fatti più che con le frasi fatte - che sollecitano invano da giorni. Ma l’evolversi della situazione europea implica che pure la destra italiana, in particolare dove ha responsabilità di governo, esca dalle logiche consuete e batta un colpo. Cosa ne pensano i «moderati» della Lega, gli Zaia e i Maroni, che legittimamente aspirano a un ruolo nazionale? Che ne dicono i sindaci delle grandi città del Veneto, i leghisti Tosi e Bitonci e il veneziano Brugnaro, che in laguna (a parte le polemiche retrograde su omofobia e Gay Pride) sembra portare avanti un interessante esperimento post-ideologico? Il loro punto di riferimento è la Csu bavarese o la xenofobia del governo di Budapest? E Forza Italia discute solo delle proprie polemiche interne?

Con la Germania è giusto polemizzare, ma qualcosa ogni tanto sarebbe bene imparare. Oppure dobbiamo rassegnarci al fatto che la destra della legalità e della responsabilità non può passare le Alpi?

8 settembre 2015 (modifica il 8 settembre 2015 | 08:15)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_08/migranti-quella-lezione-tedesca-la-destra-casa-nostra-c9fd0912-55ef-11e5-b0d4-d84dfde2e290.shtml
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« Risposta #208 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:34:59 pm »

DOPO LA SCOMPARSA A ROMA

Odi e amori di Ingrao, un comunista di ferro
Il dirigente del Pci scomparso all’età di 100 anni in versione privata nel libro «Volevo la luna».
Il rapporto stretto con le figlie, la simpatia per Togliatti, le critiche a Pasolini

Di Aldo Cazzullo

Suo nonno aveva combattuto con Garibaldi, a Varese. Lui aveva conosciuto Mao, e ne era rimasto spaventato. Aveva discusso con Castro e pure con Che Guevara: «Mi portò in spiaggia e mi fece notare con orgoglio che tutto era dello Stato, anche le sdraio. Ma lo Stato non deve mica fare il bagnino». Al liceo aveva studiato con Gioacchino Gesmundo, «il professore» di Roma città aperta, ucciso alle Ardeatine. Quelli che ora ne parlano come di un fascista pentito dicono sciocchezze: Ingrao partecipò ai Littoriali, si iscrisse al sindacato fascista per contattare operai, ma fu ardentemente comunista; il che dovrebbe bastare per darne un giudizio severo, essendo il comunismo una grande tragedia del Novecento. Va detto che l’uomo, per quanto di vanità quasi infantile, aveva una storia di grande interesse da raccontare. Seppe farlo nel libro-intervista con Antonio Galdo, nell’autobiografia “Volevo la luna” (Einaudi), un libro scritto benissimo, e anche in un’intervista che diede al Corriere per i suoi 90 anni.

Non taceva i turbamenti della sua vita infinita, fin da quando uno zio crudele lo sorprese mentre giovinetto si masturbava («di colpo mi scoprì seminudo, col piccolo membro maschile drizzato. Disse qualcosa di volgare che mi fece bruciare di vergogna. Fino a quando mio nonna levò un urlo e lo cacciò: e poi mi fece una lieve carezza senza parole»). Rievocava i toni foschi e plumbei del comunismo: la riunione di dirigenti e giornalisti «in un’antica villa nei boschi maestosi attorno a Bucarest dalle lunghe stanze un po’ buie», dove lui direttore viene contestato pure «per le immagini di donnine seminude a cui l’ Unità - ahimè! - indulgeva»; le notti di vigilia dell’ undicesimo congresso, quando Ingrao era «convinto che nell’angolo della strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta “vigilanza” a controllare chi in quell’ ora veniva da me, come in funzione di poliziotto di Botteghe Oscure». Fu il congresso della sua sconfitta: lui, movimentista, battuto da Amendola, il “socialdemocratico”. Votò per la radiazione del gruppo del Manifesto, che gli era molto vicino, e lo rimpianse per il resto della vita: «Fu davvero un’azione assurda, perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei miei antichi compagni di lotta». Parlava con simpatia del Sessantotto e alla militanza delle figlie: Celestina aggredita dai fascisti, Renata colpita a Valle Giulia dalla polizia («la sera aveva i segni crudeli delle manganellate sul giovane corpo»), Chiara partita a Parigi per il Maggio, il genero Marco che lancia sanpietrini contro i poliziotti: «Non so se mi sentii un po’ disertore». Criticava Pasolini, schierato invece con gli agenti: una «evidente civetteria», prova di «quanto fosse debole ancora, nel mio paese, la percezione del livello della lotta in campo in Europa».

Si trovava meglio con Togliatti che con Berlinguer, che lo volle presidente della Camera per lo stesso motivo per cui Moro volle presidente del Consiglio Andreotti, uomo della destra Dc: tranquillizzare l’opposizione interna ai due partiti, ostile al compromesso storico. Non durò. Sapeva fare autocritica, anche come uomo: «Ero un giovane maschio reazionario e parassitario», che amava «rotolarsi (con la figlia) all’infinito, nel letto, pizzicandola e sbaciucchiandola», ma non aiutare nelle faccende domestiche. E quando la moglie, Laura Lombardo Radice, era in clinica a partorire, lui telefonò dalla stazione e detta imperioso: «È una femminuccia? Si chiamerà Celestina, come mia madre». Però raccontava con tenerezza l’incontro con Laura, staffetta dei gruppi antifascisti: «C’era sempre il timore di essere seguiti dalla polizia. Prendevamo i tram al volo per sottrarci ai pedinamenti, e avevamo concordato una copertura: Laura e io dovevamo fingere di essere fidanzati. Un giorno le feci una carezza, e lei mi fermò: “Che credi di fare? Ricordati che siamo fidanzati solo per finta”. Siamo stati insieme tutta la vita». Era meno disposto all’autocritica parlando del comunismo: «Pentirmi? Assolutamente no. Resta il meglio della mia vita: ciò che ho cercato di dare al mondo degli oppressi e degli sfruttati. Mi sono pentito, se si può dire così, di pesanti errori che ho compiuto nella mia lunga vita di militante comunista. Il più grave fu nell’autunno del ‘ 56, quando sull’ Unità scrissi un pessimo articolo che attaccava gli insorti di Budapest che si ribellavano ai sovietici. Non me lo sono mai perdonato».

28 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 11:10)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_28/odi-amori-ingrao-comunista-ferro-4f8c5240-65bd-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml
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« Risposta #209 inserito:: Ottobre 08, 2015, 11:35:50 am »

L’intervista
Ruini: «Se vanno avanti sulle unioni civili le proteste non mancheranno»
Parla il cardinale: «Le differenze con Francesco? Io vicino a Giovanni Paolo II e Benedetto. Per le parole di monsignor Charamsa provo più pena che sorpresa»


Di Aldo Cazzullo

Cardinal Ruini, quale impressione le ha fatto il «coming out» di monsignor Charamsa?
«Un’impressione di pena, più ancora che di sorpresa, soprattutto per il momento che ha scelto».

L’intervista al «Corriere» ha avuto un’eco molto vasta. Influirà sul Sinodo?
«Non farà certo piacere ai sinodali, ma non avrà alcun influsso sostanziale».

Dice monsignor Charamsa: «La Chiesa capisca che la soluzione proposta ai gay credenti, l’astinenza dalla vita d’amore, è disumana». Lei cosa si sente di rispondergli?
«Gli direi molto semplicemente: come prete ho anch’io l’obbligo di tale astinenza e in più di sessant’anni non mi sono mai sentito disumanizzato, e nemmeno privo di una vita di amore, che è qualcosa di molto più grande dell’esercizio della sessualità».

È parso però che il Papa abbia aperto al dialogo, quando disse «chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca Dio?».
«Questa è forse la parola più equivocata di papa Francesco. Si tratta di un precetto evangelico - non giudicare se non vuoi essere giudicato - che dobbiamo applicare a tutti, omosessuali evidentemente compresi, e che ci chiede di avere rispetto e amore per tutti. Ma papa Francesco si è espresso più volte chiaramente e negativamente sul matrimonio tra persone dello stesso sesso».

Esiste una «lobby gay» ai vertici della Chiesa? Il Papa stesso lo disse, sia pure in un incontro informale.
«Si sentono molte chiacchiere in merito. Se sono vere, è una cosa triste, sulla quale bisogna fare pulizia. Personalmente però non ho elementi per parlare di lobby gay, e non vorrei calunniare persone innocenti».
Dica la verità: al di là del rispetto e anche dell’obbedienza, papa Bergoglio lascia perplessi voi cardinali legati alla stagione di Wojtyla e di Ratzinger.
«Non ho difficoltà a riconoscere che tra papa Francesco e i suoi predecessori più vicini ci sono differenze, anche notevoli. Io ho collaborato per vent’anni con Giovanni Paolo II, poi più brevemente con papa Benedetto: è naturale che condivida la loro sensibilità. Ma vorrei aggiungere alcune cose. Gli elementi di continuità sono molto più grandi e importanti delle differenze. E fin da quando ero uno studente liceale ho imparato a vedere nel Papa prima la missione di successore di Pietro, e solo dopo la singola persona; e ad aderire con il cuore, oltre che con le parole e le azioni, al Papa così inteso. Quando Giovanni XXIII è succeduto a Pio XII, i cambiamenti non sono stati meno grandi; ma già allora il mio atteggiamento fu questo».

In Francesco rivede papa Giovanni?
«Per vari aspetti, sì. Bisogna essere ciechi per non vedere l’enorme bene che papa Francesco sta facendo alla Chiesa e alla diffusione del Vangelo».

Francesco è un Papa «di sinistra»? Le differenze non sono soltanto nello stile, non crede?
«Certo le differenze non sono solo di stile. Ma non toccano la missione di principio e fondamento visibile dell’unità della fede e della comunione di tutta la Chiesa. Quanto all’essere di sinistra, lo stesso papa Francesco vi è tornato sopra più volte, dicendo che la sua è semplicemente fedeltà al Vangelo, non una scelta ideologica. Ultimamente ha pure aggiunto, scherzando, di essere “un po’ sinistrino” ... se ricordo le parole esatte».

C’è il rischio che il Papa sia strumentalizzato sul piano ideologico, come teme il cardinale Scola?
«Che certe prese di posizione del Papa vengano enfatizzate e altre passate quasi sotto silenzio, è più di un rischio; è un fatto. Più che di strumentalizzazioni parlerei di schemi applicati alle personalità pubbliche; schemi ai quali i media si affezionano e difficilmente rinunciano. È successo anche a me: mi collocavano sempre nello schema».

Ad esempio?
«Sul matrimonio gay presi la posizione più aperta che si poteva prendere; ed è stata giudicata la più chiusa».

Lei disse che si potevano riconoscere diritti individuali.
«E ora lo dicono giuristi come Mirabelli. Tutti i diritti individuali si possono riconoscere e molti sono già stati riconosciuti».

Ma l’Italia non ha ancora una legge sulle unioni civili. Le norme di cui si discute in Parlamento richiamano il modello tedesco, non quello francese e spagnolo: niente matrimonio, niente adozioni. Perché un cattolico non potrebbe votarle?
«Proprio il modello tedesco prevede che le copie omosessuali abbiano in pratica tutti i diritti del matrimonio, eccetto il nome. E la proposta di legge su cui si discute in Parlamento apre uno spiraglio pure all’adozione. Si sa benissimo, e alcuni sostenitori della proposta lo dicono chiaramente, che una volta approvata si arriverà presto ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e alle adozioni. Personalmente condivido il commento del cardinale Parolin, dopo il referendum in Irlanda: “Il matrimonio omosessuale è una sconfitta dell’umanità”. Perché ignora la differenza e complementarità tra uomo e donna, fondamentale dal punto di vista non solo fisico ma anche psicologico e antropologico. L’umanità attraverso i millenni ha conosciuto la poligamia e la poliandria, ma non per caso il matrimonio tra persone dello stesso sesso è una novità assoluta: una vera rottura che contrasta con l’esperienza e con la realtà. L’omosessualità c’è sempre stata; ma nessuno ha mai pensato di farne un matrimonio».

Ci sarà anche in Italia un movimento di protesta contro le unioni civili?
«Le avvisaglie ci sono già state con la manifestazione del 20 giugno in piazza San Giovanni. L’organizzazione è stata minima, e il riscontro mi ha colpito molto: si è parlato di 300 mila persone. Se si andasse avanti per una certa strada, difficilmente le proteste mancheranno».

Lei ha detto al «Corriere» che l’ondata libertaria rifluirà, come è rifluita l’ondata marxista. Come fa a esserne così certo?
«Non ho detto che rifluirà, ma che potrebbe rifluire. La possibilità e la speranza, non la certezza, di un cambiamento di direzione è suggerita dal contrasto tra l’ondata libertaria e il bene dell’umanità, che non è una somma di soggetti chiusi in se stessi, ma una grande rete in cui ciascuno ha bisogno degli altri. Mi stupisce che i governanti, che dovrebbero avere a cuore la coesione, non si rendano conto che in questo modo avranno società sbriciolate».

È possibile riammettere alla comunione i divorziati risposati?
«No. I divorziati risposati non si possono riammettere alla comunione non per una loro colpa personale particolarmente grave, ma per lo stato in cui oggettivamente si trovano. Il precedente matrimonio continua infatti a esistere, perché il matrimonio sacramento è indissolubile, come ha detto papa Francesco nel volo di ritorno dall’America. Avere rapporti sessuali con altre persone sarebbe oggettivamente un adulterio».

È possibile pensare a eccezioni caso per caso?
«Non mi piace la parola “eccezioni”. Sembra voler dire che ad alcuni si concede di prescindere dalla norma che li riguarda. Se invece il senso è che ogni singola persona e ogni singola coppia vanno considerate in concreto per vedere se quella norma le riguarda o non le riguarda, questo è un principio generale che va tenuto presente sempre, non solo per il matrimonio ma per tutto il nostro comportamento».

In astratto è possibile quindi che un divorziato risposato riceva la comunione?
«Sì, se il matrimonio è dichiarato nullo».

Le nuove disposizioni al riguardo non rischiano di ammorbidire il vincolo, di introdurre una sorta di divorzio cattolico?
«Il rischio può esistere solo se le nuove disposizioni non vengono applicate con serietà. Bisogna migliorare anzitutto la preparazione dei giudici. Introdurre surrettiziamente una specie di divorzio cattolico sarebbe una pessima ipocrisia, molto dannosa per la Chiesa e per la sua credibilità. Ma la decisione di papa Francesco, che molti di noi - me compreso - auspicavano, non ha niente a che fare con un’ipocrisia del genere».

Se la mancanza di fede di uno degli sposi può portare alla dichiarazione di nullità, non si aprono spazi molto vasti?
«Certo. E per questa ragione papa Benedetto, pur essendo convinto che la fede sia necessaria per il matrimonio sacramentale come per ogni altro sacramento, è stato molto prudente nel trarre da questo principio conseguenze pratiche. Anche papa Francesco si è limitato a indicare la mancanza di fede come una delle circostanze che possono consentire il processo più breve davanti al vescovo, quando questa mancanza di fede generi la simulazione del consenso, o produca un errore decisivo quanto alla volontà di sposarsi. Scherzosamente potrei dire che chi si è spinto più avanti su questa strada sono piuttosto io, nel mio contributo al libro degli undici cardinali che esce in questi giorni...».

Una famiglia di migranti in ogni parrocchia: la convince? O condivide le perplessità dell’arcivescovo di Bologna?
«Il cardinale Caffarra ha messo in luce le condizioni senza le quali l’accoglienza diventa difficile, e può anche essere controproducente. Cercare di realizzarle è un servizio e non un ostacolo all’accoglienza».

Caffarra sostiene che bisogna accogliere i migranti «conosciuti».
«Conosciuti nel senso di identificati. Diciamo la verità: molti anche nella Chiesa non accolgono nessuno; molti accolgono così, alla garibaldina. Bisognerebbe trovare una via di mezzo».

4 ottobre 2015 (modifica il 4 ottobre 2015 | 11:46)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_ottobre_04/ruini-se-vanno-avanti-unioni-civili-proteste-non-mancheranno-c72265ae-6a6f-11e5-b2f1-e50684c95593.shtml
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