Arlecchino
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« Risposta #225 inserito:: Marzo 12, 2016, 09:39:56 am » |
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D’Alema: «Il partito della Nazione già c’è ma perderà. Il malessere può creare una nuova forza» L’ex premier: Renzi distrugge le radici del Pd. Fondatori ignorati, devo andare in ginocchio da Guerini? Di Aldo Cazzullo Massimo D’Alema, allora ci siamo? Bray candidato a Roma, Bassolino a Napoli, tutti contro Renzi, con lei regista? «Sono sbarcato all’alba a Fiumicino dall’Iran, dove Vodafone non prende. Non avevo né telefono né Internet. Non so nulla di quello che è successo in questi giorni. So solo che il Pd versa in una condizione gravissima, e la classe dirigente reagisce insultando e calunniando con metodi staliniani». Lei a Roma sostiene Bray, sì o no? «Massimo Bray è un mio carissimo amico, ma è un uomo libero e indipendente. È anche una delle persone più testarde che ho conosciuto in vita mia. Non sente nessuno; decide, e va rispettato nella sua decisione. E non è neppure iscritto al Pd. Basta consultare la Rete per vedere quanti cittadini e associazioni si stanno rivolgendo a lui; anche se io non figuro, non faccio parte di questa comunità». Quindi lei vota Giachetti? «Non so ancora chi siano i candidati. Li valuterò liberamente da cittadino romano. Non so cosa farà Bray. Certo non ho il minimo dubbio che la sua candidatura sarebbe quella di maggior prestigio per la Capitale; mentre qui pare tutto un giochino interno al Pd. Sono molto attaccato a questa città, che dopo le vicende drammatiche che ha vissuto merita un sindaco di alto livello, a prescindere dall’appartenenza di partito». Giachetti non lo è? «Giachetti si è fotografato su Internet mentre traina un risciò su cui è seduto Renzi. Ma questa non può essere l’immagine del sindaco di Roma, neanche per scherzo. Il quadro è estremamente preoccupante. C’è una crisi della democrazia. Una caduta di partecipazione e tensione politica, di fronte alla quale i partiti, compreso il Pd, non riescono a schierare personalità all’altezza». Siamo alla scissione che lei paventò un anno fa sul «Corriere»? «Sta crescendo un enorme malessere alla sinistra del Pd che si traduce in astensionismo, disaffezione, nuove liste, nuovi gruppi. Si tratta di un problema politico e non di un complotto di D’Alema, che è impegnato in altre attività di carattere culturale e internazionale». Lei è uno dei fondatori del Pd. Ci sarà o no la scissione? «Anche Prodi lo è, e anche lui mi pare sempre più distaccato. Il Pd è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali. Dei fondatori non sanno che farsene. Ai capi del Pd non è passato per l’anticamera del cervello di consultarci una volta, in un momento così difficile. Io cosa dovrei fare? Cospargermi il capo di cenere e presentarmi al Nazareno in ginocchio a chiedere udienza a Guerini?». A Napoli bisogna annullare le primarie? «I dati sono impressionanti. Nelle aree di voto d’opinione, Bassolino è nettamente avanti. In altre zone è sotto di tremila voti: a proposito di capibastone e di truppe cammellate, come le chiamano i nostri cosiddetti leader. Bassolino denuncia un mercimonio. Produce video che lo provano. E il presidente del partito, con il vicesegretario, rispondono che il ricorso è respinto perché in ritardo? Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità». Il presidente del partito, Matteo Orfini, è una sua creatura. «Nella vita si può evolvere in tanti sensi. Del resto, loro dicono che sono bollito; anch’io avrò avuto una mia evoluzione. Ma come non capire che una risposta così sconcertante getta discredito sul partito, sulla politica?». Basta primarie allora? «Non ho detto questo. Ma così hanno perso ogni credibilità. Sono manipolate da gruppetti di potere. Sono diventate un gioco per falsificare e gonfiare dati. Bisogna scrivere nuove regole. E intanto rispettare quelle che già ci sono». A Milano la sinistra Pd aveva pensato a Gherardo Colombo. «Nessuno potrebbe sospettarmi di essere l’ispiratore di Gherardo Colombo: l’ultima volta che ci siamo incrociati, scrisse che con la Bicamerale volevo realizzare il programma della P2. Il punto vero è che il Pd non ce la fa più a tenere insieme il campo di forze del centrosinistra. E dubito che riuscirà a compensare le masse di voti perse a sinistra alleandosi con il mondo berlusconiano: non solo Alfano, Verdini, Bondi, ma anche Mediaset e uomini di Cl. A destra viene riconosciuto a Renzi il merito di aver distrutto quel che restava della cultura comunista e del cattolicesimo democratico. Ma così ha reciso una parte fondamentale delle radici del Pd. Ha soffocato lo spirito dell’Ulivo: del resto Renzi non ha mai nascosto il suo disprezzo per l’esperienza di governo del centrosinistra, che anzi è bersaglio costante della sua polemica». Il premier replica che mai lei e Bersani avete avuto una parola in sostegno del governo. «Non è vero. Potrei elencare una serie di mie dichiarazioni a favore del governo, a cominciare dagli 80 euro». Allora Renzi non governa così male. «L’Italia cresce dello 0,7%. Questo dato modesto viene presentato come frutto di grandi riforme. In realtà, la ripresa sia pur faticosa investe tutta l’Europa; e la ripresa italiana è metà di quella europea, forse un po’ meno. La Germania cresce dell’1,7, con la disoccupazione al 6. Altro che “siamo più forti dei tedeschi, l’Italia ha ripreso a correre, non ce n’è più per nessuno”. Sarebbe carino evitare la propaganda e dire la verità al Paese. Il nostro gap viene da lontano, non è certo colpa di Renzi. Ma lo si affronta con un vero progetto riformista di innovazione. Non vedo questo né nel Jobs act né nella cancellazione dell’Imu». Sta dicendo che Renzi somiglia più a Berlusconi che all’Ulivo? «Oggettivamente è così. La cultura di questo nuovo Pd è totalmente estranea a quella originaria. Anche la sua riforma elettorale si ispira a quella di Berlusconi, non alla riforma uninominale maggioritaria voluta dalle forze dell’Ulivo. È una legge plebiscitaria: non si elegge il Parlamento; si vota il capo». Nascerà un partito alla sinistra del Pd? «Molti elettori ci stanno abbandonando. Compresi quelli che ci avevano votato alle Europee, nella speranza che Renzi avrebbe rinnovato la vecchia politica: ora vedono un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra. Non so quanto resteranno in stato di abbandono. Nessuno può escludere che, alla fine, qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un nuovo partito». Perché invece non combattere una battaglia interna al partito? «L’attuale gruppo dirigente considera il partito un peso. Gli iscritti sono poco più di 300 mila; il Pds ne aveva 670 mila. Si tende a trasformare il Pd nel partito del capo. Tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori. Guardo con simpatia alla battaglia della minoranza, ma non mi pare che, purtroppo, riesca a incidere sulle decisioni fondamentali». Renzi obietta che è stato il segretario a convocare più direzioni. «La direzione è una cassa di risonanza. È un luogo dove lui fa dei discorsi e viene applaudito. Poi si vota a maggioranza cose che dovrebbero vincolare tutti. Ma la politica è ascolto, scambio, mediazione». Separare l’incarico di segretario da quello di premier aiuterebbe a tenere tutti insieme? «Ma loro non vogliono tenere insieme il centrosinistra. Vogliono sbarazzarsene. Mi fanno ridere quelli che lanciano l’allarme sul partito della Nazione; il partito della Nazione è già fatto, è già accaduto. Lo schema mi pare evidente: approfittare della crisi di Berlusconi per prenderne il posto. Ma è un’illusione. Il problema non è Verdini, che è uomo intelligente e molto meno estremista di alcuni suoi partner del Pd. Verdini ha capito che se Renzi rompe con la sinistra va dritto verso la sconfitta, magari in un ballottaggio con i Cinque Stelle. Per questo, capendo di politica, è preoccupato». Sta dicendo che Renzi sarà sconfitto? «Secondo me, una volta lacerato il centrosinistra, non viene il partito della Nazione; viene il populista Grillo. O viene la destra. Perché il ceto politico berlusconiano che oggi si riunisce attorno a Renzi non gli porterà i voti di Berlusconi. La destra è confusa, ma esiste, e una volta riorganizzata voterà per i suoi candidati. Renzi sposterà voti marginali, non paragonabili a quelli che perde. Di questo bisogna discutere, anziché insultare la gente. La vera sfida è come si ricostruisce il centrosinistra. Ed è, oggi, una battaglia che non si conduce più, oramai, soltanto all’interno del Pd». Lei come voterà al referendum di ottobre? «Al momento opportuno presenterò in modo motivato le mie opinioni. Non mi sento vincolato se non dalla mia coscienza: si vota sulla Costituzione della Repubblica. La rivista Italianieuropei sta preparando un numero sui 70 anni della Costituzione. Ho appena ricevuto il contributo di Giorgio Napolitano. Si intitola: “Elogio di una classe dirigente”. Ma si riferisce a quella del 1946; non a questa». 10 marzo 2016 (modifica il 11 marzo 2016 | 14:13) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/16_marzo_11/d-alema-il-partito-nazione-gia-c-ma-perdera-malessere-puo-creare-nuova-forza-2805f89a-e6fd-11e5-877d-6f0788106330.shtml
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« Risposta #226 inserito:: Marzo 28, 2016, 07:23:26 pm » |
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«Sei un cristiano, tu vattene in chiesa». L’imam: segnalate i violenti Tra gli islamici alla moschea di piazza Mercato in preghiera guidati da Abdullah (che in realtà si chiama Cozzolino ed è un ex frate francescano) Di Aldo Cazzullo, inviato a Napoli L’accoglienza è calorosa, all’insegna della fratellanza tra i popoli: «Che noia! Il venerdì dopo ogni attentato ci ritroviamo i giornalisti in moschea!». Si avvicina un altro barbuto: «Sei cristiano? Sì? E allora vai in chiesa». Ma nelle chiese italiane i musulmani possono entrare. «Se non sai l’arabo, qui non puoi pregare». Si avvicinano altri fautori del dialogo interreligioso: «Giornalisti vaffanculo! Italiani vaffanculo!». Segue una sfilza di parole in arabo, certo formule augurali di prosperità e buona salute. Un marocchino alto dice con aria complice: «Io la penso come Massimo Fini». Lo conosce? «Io ascolto sempre la Zanzara su Radio24: mi fa ridere e mi fa capire l’Italia. Massimo Fini ha detto che in Iraq gli americani hanno fatto 700 mila morti, tra cui 200 mila bambini. E i nostri bambini non sono meno bambini dei vostri. Questo Massimo Fini deve essere un uomo molto saggio. Io voglio andare alla Feltrinelli a comprare tutti i libri di Massimo Fini». Comprerà pure quelli di Oriana Fallaci? Il marocchino mi guarda come si guarda una mosca su un cuscino di broccato bianco. Qui non siamo nella grande moschea di Roma, l’architettura di Portoghesi ai Parioli, che non ha un quartiere islamico attorno. Non siamo neppure in un’enclave musulmana come Molenbeek: è difficile creare un’isola di illegalità tra i bassi di Napoli, dove la legalità è sospesa da secoli. Siamo davanti alla moschea di piazza Mercato, il ventre della città. Qui hanno girato un film — Napolislam, storie di italiani convertiti — che sarebbe dovuto uscire nelle sale all’indomani delle stragi di Parigi. Non c’è scontro di civiltà ma burbera convivenza, si compra e si vende di tutto trattando sul prezzo, gli immigrati parlano dialetto, «Salam aleikum Rashid, tenite ‘e sigarette?». Statua di padre Pio. Altare con l’effigie della Madonna e le foto dei morti di camorra. L’immagine della Pietra nera della Mecca segnala l’ingresso della moschea, un antico convento di suore. «Non è delazione; è difesa della comunità» L’imam si chiama Abdullah, Servo di Dio. Assicura che questo è un luogo di integrazione: «Ogni venerdì vengono a pregare 600 persone da decine di Paesi diversi. Certo, non posso garantire per tutti. Non posso conoscere i sentimenti di ognuno». Fino al 2004 questa era la «moschea degli algerini», coinvolta in tutte le indagini sul terrorismo internazionale. Poi sono arrivati l’imam Yasin e appunto l’imam Abdullah. «Abbiamo lavorato molto. Abbiamo invitato qui sacerdoti, rabbini, poliziotti, scolaresche. Abbiamo detto a tutti i fratelli che quando incontrano un radicale, o anche solo uno che fa strani discorsi, devono segnalarlo. Non è delazione; è difesa della comunità. A Napoli e dintorni vivono 15 mila musulmani, e l’Isis purtroppo è un elemento di richiamo, inutile negarlo. Una tentazione. Ci sono giovani che non sanno chi sono e non sanno cosa fare, la pressione psicologica di Internet è fortissima, il fondamentalismo promette loro un’identità». Cauta condanna e profondo fastidio Cominciano ad arrivare i fedeli per la preghiera del venerdì. Il tono medio non è certo di approvazione dei terroristi. È di cauta condanna e profondo fastidio, per gli assassini e per chi vuole portare il discorso sugli assassini. Molti spiegano che già la vita non è facile, che già la polizia li prende di mira, e gli attentati rendono tutto più complicato. Ma tra i giovani esiste anche l’atteggiamento che il 14 novembre prevaleva tra i musulmani delle banlieue di Parigi: né con lo Stato Islamico, né con lo Stato francese, in questo caso italiano; che pure a noi spesso appare distante se non nemico, figuriamoci a loro. Le donne non si vedono La moschea ora è piena all’inverosimile. Le donne non si vedono, sono chiuse nella loro stanza. C’è anche l’artista siriano che ha intagliato il mihrab, verso cui tutti si inginocchiano, e il minbar, da dove l’imam Abdullah tiene la predica, in italiano inframmezzato da parole arabe: «Fratelli noi dobbiamo condannare senza alcun dubbio, senza alcun se, senza alcun ma, gli attentati compiuti non lontano dal nostro Paese. E la condanna non basta. Ricordatevi che Allah ci guarda. Allah ci osserva in ogni momento della nostra vita, quando siamo in moschea e quando siamo a casa. Allah sa tutto quello che accade nella terra, nei cieli e nel segreto dei nostri cuori». Un ragazzo ghanese in jeans, felpa Adidas e capelli rasta, legge un’antica copia del Corano; un vecchio algerino con la barba lunga, la kefiah e la veste bianca sino ai piedi segue le preghiere sull’i-Pad. Prosegue l’imam: «Allah sa quando il nostro sguardo tradisce qualcosa, Allah sa quando abbiamo qualcosa da nascondere. Noi saremo giudicati anche per le nostre intenzioni, ma non dobbiamo avere paura perché Allah è misericordioso, ci aiuta a vincere la tentazione del male. Però se qualcuno di noi pensa di discostarsi dal sentiero segnato da Allah, allora sappia che gli angeli saranno testimoni e scriveranno quello che non si palesa, annoteranno il male nascosto». Ci sono pachistani, senegalesi, bosniaci, uzbechi, albanesi, ceceni, tagichi, bengalesi, ivoriani, somali. «Rivolgiamo i nostri cuori a tutte le vittime del terrorismo, in qualunque Paese: facciamo in modo che questo male, che colpisce soprattutto noi musulmani, si muti in azione positiva. Noi musulmani dobbiamo avere un ruolo in questo». Poi tutti si inginocchiano, in quella selva di schiene piegate al ritmo di «Allahu akbar» che all’unico infedele presente fa sempre una certa impressione. I notabili della comunità All’uscita molti si fermano ad abbracciare e baciare l’imam, e a stringere la mano all’ospite. Sono i notabili della comunità, quelli che hanno studiato: Ibrahim è un ingegnere etiope, un altro Ibrahim è un economista fuggito dalla guerra civile in Yemen; ci sono due commercianti kirghizi, ci sono i tre figli di Khaled, siriano: Mustafà fa economia a Salerno, Suraya architettura a Napoli, Sarah lingue all’Orientale. Assicurano che fino a quando Assad non sarà cacciato gli attacchi dei terroristi continueranno. Qui sorgerà la Casa di Abramo All’uscita qualcuno va a spedire i soldi a casa, qualcuno va a scommettere nel negozio tra la vecchia sede del Pdl con le bandiere a mezz’asta e i fuochi d’artificio «Polvere di stelle». Piazza Mercato in realtà è uno dei centri della civiltà europea, 200 metri a destra ci sono le Sette opere di misericordia di Caravaggio, 200 metri a sinistra c’è San Gennaro esce vivo dalla fornace di Ribera, due tra le opere più belle mai dipinte da un uomo; dice l’imam che qui sorgerà la Casa di Abramo, un centro per le tre religioni monoteiste, «nello spirito del pensiero meridiano di Franco Cassano, della Napoli multicolore di Pino Daniele». L’imam Abdullah si chiama Massimo Cozzolino Queste cose le conosce perché l’imam Abdullah si chiama in realtà Massimo Cozzolino. Ex Federazione giovanile comunista, ex frate francescano, due lauree in filosofia e scienze politiche, master in peacekeeping; convertito a 36 anni, nel 1997, ha studiato l’arabo e il Corano a Londra. L’imam Yasin si chiama in realtà Agostino Gentile. Sono mille i napoletani convertiti come loro all’Islam. Chiedono una grande moschea e nell’attesa almeno un cimitero: oggi i musulmani che muoiono qui vengono sepolti a Roma o rimpatriati nei Paesi d’origine; tra i compiti dell’imam c’è lavare i corpi dei maghrebini e degli africani ammazzati dalla camorra; questa anche da morti resta per loro una terra straniera. 25 marzo 2016 (modifica il 26 marzo 2016 | 13:55) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/16_marzo_26/napoli-islam-imam-segnalate-violenti-270ed55a-f2cf-11e5-a7eb-750094ab5a08.shtml
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« Risposta #227 inserito:: Aprile 08, 2016, 08:51:26 pm » |
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Lo scandalo panama papers Il tradimento (fiscale) delle élites Una lista non è una sentenza ma fin da ora i Panama Papers si annunciano come lo scandalo più grave dell’era della rivoluzione digitale Di Aldo Cazzullo Dittatori e primi ministri di Paesi europei, il regista simbolo della sinistra libertaria spagnola e il patriarca dell’estrema destra francese, il calciatore più famoso del mondo e il pilota di Pescara, il presidente appena eletto per ripulire la Fifa e il padre del premier britannico che ha convocato un vertice contro l’elusione fiscale. È il tradimento delle élites transnazionali; compresi coloro che, come il clan Le Pen, millantano di stare dalla parte del popolo e di combatterle, le vecchie élites. Intendiamoci: una lista non è una sentenza; e aprire un conto off-shore non è di per sé un reato (anche se spesso serve a commetterlo, e per un politico rappresenta comunque un vulnus alla fiducia del suo Paese e dei suoi elettori). Ma fin da ora i Panama Papers si annunciano come lo scandalo più grave dell’era della rivoluzione digitale, in cui è divenuto molto più difficile occultare gli arcana imperii, i segreti del potere; e per una volta la rete e i giornali hanno marciato di pari passo, i guastatori elettronici e i reporter d’inchiesta si sono completati a vicenda. Il quadro — da verificare — che si intravede è devastante. Nel momento più nero della crisi, le punte di diamante dell’establishment globale mettevano al sicuro i loro cospicui risparmi; a volte con complesse soluzioni a prova di indagine, a volte con trucchetti da letteratura minore tipo i lingotti d’oro intestati al maggiordomo. Fino al caso più clamoroso: le grandi banche tedesche, salvate con il denaro dei contribuenti, offrivano ai clienti di riguardo la via d’uscita dei paradisi caraibici, abbandonando il ceto medio a pressioni fiscali oltre il 40%, che nessuna economia può sostenere, tanto più in periodi di magra come questo. Ed è una modesta consolazione che i primi ministri democraticamente eletti debbano dimettersi, mentre i dittatori — che restano tali anche quando confermati da un plebiscito — possono permettersi di dare la colpa alla Cia. Non dobbiamo nasconderci che nella lista ci sono anche italiani. C’è da augurarsi sinceramente che le smentite di queste ore siano confermate dai fatti, che davvero — come annunciano giornali economici — almeno la metà degli 800 nomi avessero già chiesto di riportare i capitali in Italia; il che appiana l’aspetto giudiziario ma non cancella il giudizio morale. Resta un dato: il sistema mediatico viene spesso rappresentato come legato alla politica; e qualche conferma la tv pubblica continua a darla. Ma in realtà non c’è nulla di più facile che attaccare un politico; subito scattano gli applausi, nei talk-show e in rete. È più difficile avere un rapporto critico con il potere economico e finanziario. Non è immediato trovare una linea opportunamente mediana tra il «troncare e sopire» e la rappresentazione demagogica per cui ognuno è corrotto o corruttibile; tra le due semplificazioni per cui o sono tutti innocenti, o sono tutti colpevoli (vale a dire, anche qui, che nessuno è davvero colpevole). Distinguere, verificare, scavare è sempre più faticoso; ma è l’unica strada che abbiamo davanti. Proprio per il rispetto dovuto a quei ceti medi alle prese con la crisi, a quegli imprenditori che si giocano la partita ogni giorno in azienda accanto ai loro operai e impiegati, a quell’opinione pubblica che dalle notizie panamensi si sente danneggiata e beffata. 6 aprile 2016 (modifica il 6 aprile 2016 | 21:29) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_aprile_07/panama-papers-beffa-ceto-medio-ecc83d18-fc07-11e5-a926-0cdda7cf8be3.shtml
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« Risposta #228 inserito:: Luglio 10, 2016, 11:34:33 am » |
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De Benedetti: «Le élite hanno fallito L’Italicum cambi o voterò No» L’ingegnere: Renzi con questa legge elettorale rischia di diventare il Fassino d’Italia “Se ne freghi delle regole Ue: nazionalizzi le banche in difficoltà e investa sul sapere»Di Aldo Cazzullo «Siamo a un tornante storico. La globalizzazione di cui abbiamo cantato le lodi genera un sentimento di rigetto verso le classi dirigenti politiche ed economiche; e nel mio piccolo mi ci metto anch’io. Abbiamo consentito alla globalizzazione di espandere i suoi benefici per tutti noi: abbattere l’inflazione, rivoluzionare insieme con la tecnologia la vita quotidiana. Ma sono aumentate drammaticamente le differenze tra chi ha e chi non ha». Chi ha cosa, ingegner De Benedetti? «Soldi e cambiamento di prospettive di vita della propria famiglia. In America, ma non solo, si è avuta la distruzione della classe media, di quelli che oggi votano Trump». Trump vincerà? «Mi rifiuto di pensare che l’America possa eleggere uno come lui». Un miliardario. «Uno che racconta di essere miliardario, ma confonde i suoi debiti con il suo patrimonio: ha sei miliardi di debiti, al netto avrà un patrimonio attorno ai 200 milioni di dollari. Non posso pensare che i valori basici su cui è stata costruita la società americana, e che la tengono insieme nonostante esplosioni di rabbia tipo quella di Dallas, scelga Trump, che promette il totale isolazionismo. Anche se capisco la rabbia dell’operaio della General Motors che vuole votarlo». Trump può vincere in Stati democratici e industriali come il Michigan e la Pennsylvania. «L’operaio della General Motors 15 anni fa era classe media. Aveva una casa, il mutuo. Era uno dei propulsori dell’ascensore sociale, perché poteva mandare suo figlio all’università. Oggi il combinato disposto della tecnologia e della globalizzazione l’hanno espulso dal posto di lavoro, ridotto a cameriere da Starbucks o a fattorino per Amazon. Non è più classe media, non può più mandare i figli a un’università che costa 50 mila dollari l’anno per 5 anni. Per questo l’antica divisione tra democratici e repubblicani è del tutto scomparsa». Lei scrive sull’Espresso che la medesima cosa è accaduta al referendum su Brexit: sono saltate le categorie conservatori-laburisti. «Guardi, è la quarta volta in vita mia che scrivo un articolo su un giornale del gruppo. Il primo lo scrissi sulla riunificazione tedesca: previdi che la Germania l’avrebbe fatta pagare agli altri europei, con l’austerity. Il secondo alla vigilia della guerra in Iraq, presagendo il disastro. Il terzo dopo la vittoria apparente degli americani, che in realtà apriva la strada al collasso del Medio Oriente e al terrorismo». E ora cosa prevede? «Una nuova, drammatica crisi economica globale. Tenete d’occhio il cambio dollaro-yuan: la Cina comincia a svalutare, spia di una visione assolutamente negativa. Non so se sarà tra un mese o tra un anno; so che questa bolla finanziaria è troppo pericolosa. La Fed, la Bce, la Bank of Japan hanno riversato sul mondo tonnellate di moneta, ma non hanno contrastato la deflazione. Oggi ci sono 11 trilioni di dollari di titoli di Stato, emessi da vari Paesi, che hanno rendimento negativo. Questi soldi, stampati per entrare nell’economia, sono rimasti in una nuvola che aleggia sopra di noi e che spostandosi determina scossoni finanziari e minacce di tuoni e fulmini, senza penetrare nell’economia reale. È come se ci fosse un immenso prato che ha disperata sete di acqua, ma è coperto da un telo di plastica; la pioggia non dà ristoro, si trasforma in torrenti che sconvolgono il territorio». Brexit c’entra? «Brexit è una conseguenza, non una causa. La globalizzazione è diventata insostenibile perché crea troppe diseguaglianze. Nel 2002 lo 0,01% degli americani più ricchi guadagnavano a testa 700 mila dollari; oggi guadagnano 21 milioni». La nostra Brexit è il referendum costituzionale. Lei come voterà? «Non sono tra chi considera la Costituzione intoccabile. Io il 1946 me lo ricordo. Ero rientrato nell’agosto del ’45 da due anni di campo profughi in Svizzera. La prima preoccupazione era che non potesse tornare il fascismo. La nostra Costituzione, con due Camere che fanno lo stesso lavoro come in nessun altro Paese, è anche figlia della paura dell’errore. Oggi le condizioni sono del tutto mutate. Anche la Costituzione Usa è cambiata più volte; ma non ribaltando le garanzie dei pesi e contrappesi che costituiscono la democrazia americana chiunque sia al potere; e soprattutto non in accoppiata con la legge elettorale. Il combinato disposto della proposta di modifica costituzionale, e di una legge elettorale pensata per un sistema bipolare in un sistema tripolare, consente a una minoranza anche modesta di prendersi tutto, dalla Camera al Quirinale. È un pericolo che l’Italia non può correre». Quindi voterà no? «Spero di non essere costretto a votare no. La riforma ha molti aspetti positivi. Ma se l’Italicum non cambia, esprimerò la mia contrarietà. Per questo mi auguro che intervenga la Consulta. O che lo cambi prima Renzi». Renzi lo esclude. «Altri all’interno del Pd la pensano diversamente. Ci possono essere diverse leggi elettorali. Il Mattarellum è compatibile con le riforme costituzionali e non comporta i rischi dell’Italicum. Uno non può fare una legge elettorale in base alla situazione esistente; ma non può non tenerne conto. Altrimenti Renzi rischia di diventare il Fassino d’Italia». Cioè di essere battuto dai 5 Stelle? «Al ballottaggio i secondi e i terzi arrivati si alleano contro il primo. Non è politica; è aritmetica». I 5 Stelle sono un pericolo? «I 5 stelle sono la concretizzazione democratica della ribellione alle élite. Contestano quello che c’è ma non si sa esattamente cosa vogliano. Ora si preparano a diventare classe di governo: Grillo dice che non è contro l’Europa ma contro “questa Europa”: cosa significa, come la vorrebbe cambiare? La Raggi annuncia che vuole Roma pulita; bene, lo voglio anch’io; ma come? Di Maio vuole il reddito di cittadinanza; bene, ma chi lo paga?». Sei mesi di governo Di Maio e arriva la trojka? «Non lo so. Certo uno che non ha esperienza, mi propone il reddito di cittadinanza e non mi dice come lo finanzia, a me suscita una certa diffidenza». Nel giro di pochi mesi ci attendono voti decisivi in Italia, in America, in Austria, in Francia. «È come se lampadine di colore differente si accendessero tutte insieme in varie parti dell’Occidente, a segnalare il rischio del populismo. In Italia Grillo, in Austria e in Ungheria il paranazismo. In Inghilterra il populismo si è chiamato Brexit, negli Usa si chiama Trump, in Francia Marine Le Pen. Sono movimenti diversissimi tra loro, ma indice di uno stesso disagio». Il populismo può ancora essere sconfitto? «Sì, se si prende atto del fallimento delle élite. Faccio un esempio italiano. Capisco la buona fede con cui Renzi ha fatto i famosi 80 euro, nella convinzione di rimettere in moto i consumi e dare una spinta all’economia. Quella misura ci è costata 10 miliardi. Io penso che li avremmo dovuti spendere per borse di studio in facoltà scientifiche — ingegneria, fisica, biologia, medicina —, con criteri di selezione durissima, ma che evitassero la più odiosa delle ingiustizie: l’educational divide, la diseguaglianza del sapere. Io non lo vedrò, ma i miei nipoti vivranno in un mondo in cui non si sarà discriminati per i soldi o il colore della pelle, ma per l’accesso al sapere». Lei in un’intervista al «Corriere» del novembre 2011 espresse un giudizio negativo su Renzi. Tre anni dopo ammise di aver cambiato idea. Oggi cosa pensa di lui? «Il mio giudizio resta positivo. Renzi ha rappresentato un elemento di cambiamento cinicamente violento ma assolutamente utile al Paese. Ha aperto a una classe politica più giovane — e glielo dice uno vecchio —, meno legata alla storia, alle lobby, alla tradizione, più libera e spregiudicata nel modo di pensare. Renzi ha rotto la corda del trascinamento del passato. Ma è un formidabile storyteller di cose che vanno bene. Oggi l’economia, il lavoro, le banche non vanno bene. Non è certo colpa di Renzi; ma Renzi, come me, fa parte delle élite. E la gente se la prende con lui, dopo due anni di governo e tenuto conto dell’enorme potere che si è conquistato in modo totalmente democratico». A dire il vero non è mai stato eletto. «Queste sono sciocchezze. È stato eletto presidente della Provincia, sindaco di Firenze, segretario del Pd. Non è andato al governo con i carri armati ma all’interno del sistema costituzionale, come i suoi predecessori, pur essendo diversissimo da loro. E per fortuna». Anche da Prodi? «Prodi a mio avviso ha sbagliato sull’allargamento dell’Unione europea. La globalizzazione non è solo la Cina: pensi a quanti posti di lavoro ci sono costate le delocalizzazioni in Romania e Bulgaria». Renzi perderà il referendum? «Lo perde se non spiega bene la sua riforma. Il consenso è calato, ma non è certo colpa del Corriere, come qualcuno pensa; è colpa del fatto che hanno ridotto molto il contatto con la gente. Eppure è un calo, non un crollo come quello di Hollande. Renzi è ancora in tempo a salvarsi. A una condizione». Quale? Cosa deve fare? «Ribellarsi alle regole europee su due punti. Primo: nazionalizzare le banche che non ce la fanno da sole». Non può, l’Europa non lo consente. «Non sono d’accordo. Lo dice anche l’Economist, che non è un pericoloso sovversivo come me. Lei crede che la Germania non salverà la Landesbank di Brema? Cambiamo nome al Monte dei Paschi, chiamiamolo Landesbank Siena. E aiutiamolo. Lei crede che l’Europa sanzionerà Spagna e Portogallo per il deficit eccessivo? Non lo farà. Bisogna ribellarsi all’Europa delle regole, altrimenti rovesceremo il principio democratico. È la politica che fissa le regole, non le regole che fissano la politica». E il secondo punto su cui Renzi dovrebbe disobbedire all’Europa? «Sul vincolo del 3% per investire sul sapere. Collegare alla banda larga tutte le scuole sarebbe il vero modo di cambiare verso. Ridare la leva del sapere a chi la merita è più importante che rispettare un numerino. Se l’Europa vuole battere un colpo, cominci dalle generazioni future. Un’Europa che parla solo del passato rischia di morire, di dissolversi e — uso una parola grossa — di tornare alla stagione delle guerre». 8 luglio 2016 (modifica il 9 luglio 2016 | 07:18) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/politica/16_luglio_08/de-benedetti-le-elite-hanno-fallito-l-italicum-cambi-o-votero-no-e711131e-4544-11e6-888b-7573a5147368.shtml
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« Risposta #229 inserito:: Novembre 21, 2016, 11:35:54 am » |
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LO CHEF Bottura: «Io, salvato da mio figlio Referendum, se vince il No avrei voglia di andarmene» Lo chef: «È un ragazzo colpito da una rara sindrome genetica, mi insegna i veri valori. La dote degli italiani è saper maneggiare l’irrazionalità»Di Aldo Cazzullo, inviato a Modena «A volte non riconosco più il mio Paese. Persone che si azzuffano per un parcheggio. Risse al bar per il cappuccino. Una tensione pronta a esplodere in ogni momento. Giovani che non hanno fiducia in se stessi e nel futuro», dice lo chef Massimo Bottura. «Poi incontro gli allevatori, i contadini, i pescatori: gli eroi del nostro tempo. Mi rendo conto di essere seduto su secoli di tradizione, su un territorio unico al mondo; e posso fare come Ai Wei-Wei, che manda in pezzi un vaso di duemila anni, per poi ricostruirlo. Mi considerano un avanguardista; in realtà faccio la cucina più tradizionale che ci sia». Qualche dato oggettivo: quest’anno Massimo Bottura è stato designato il più grande cuoco del mondo. La rivista del New York Times, sotto il titolo «The Greats», annuncia le interviste a Michelle Obama, Lady Gaga, e a lui. In copertina c’è lui. Gli inizi «Mio padre commerciava petrolio. Una vita d’inferno. Ore a discutere per guadagnare una lira su un carico di cherosene. Sono l’ultimo di cinque figli: ingegneri, commercialisti. Io dovevo fare l’avvocato. Con papà fu una rottura insanabile. Mia madre capì che dovevo seguire le mie passioni: la musica, l’arte. La cucina. La prima trattoria l’ho comprata da un ex elettrauto, in campagna; mamma veniva a preparare le tagliatelle e le torte. Poi mi sono preso una pausa e sono andato a New York». «Un giorno entro a Soho al “Caffè di nonna”, un locale aperto da un italoamericano, Roy Costantini, un ex parrucchiere. Vedo che manca personale e mi offro: “Si comincia domani” è la risposta. Il giorno dopo, l’8 aprile 1993, al bancone trovo un’altra neoassunta, un’attrice dai capelli rossi che deve arrotondare i magri introiti del teatro: Lara. Ora è mia moglie. Abbiamo due figli, Alexa, che studia a Washington, e Charlie, che mi ha salvato». «È Charlie che mi aiuta a stare con i piedi per terra. Nostro figlio ha una sindrome genetica rarissima. Non sappiamo cosa sia. Disformismi, difficoltà di apprendimento. Passo dopo passo sta crescendo, sta imparando tante cose. Anche a fare i tortellini a mano, in un’associazione di Modena che si chiama appunto il Tortellante, dove le nonne insegnano ai ragazzini. Per anni ho sognato che al telefono mi dicesse: “Ciao papà, come stai?”. Ha fatto molto di più. Quando mi hanno proclamato il migliore al mondo, al telefono mi ha detto: “Papà, sarai anche il numero uno, ma per me sei sempre un gran babi”, il mio fessacchiotto. È Charlie che mi insegna ogni giorno i veri valori della vita». La politica e l’Expo «Il referendum è una questione culturale prima che politica. Se vince il No, mi viene voglia di mollare tutto e andare all’estero: ringrazio il mio Paese che mi ha dato moltissimo, chiudo e riapro a New York. Il punto non è Renzi, o Grillo. È la logica per cui “in Italia non si può fare”. Se passa questa logica, è finita. Purtroppo molti giovani si arrendono prima di combattere. Abbiamo detto no alle Olimpiadi, rinunciando a due miliardi di dollari del Cio. Se è per questo, volevamo dire no pure all’Expo». «Io all’Expo sono andato, a recuperare gli scarti e cucinarli. Un’esperienza bellissima. Ho voluto ripeterla a Rio, durante i Giochi. Sono venuti sia Alexa sia Charlie, che la sera girava a offrire hamburger ai bambini di strada. Abbiamo aperto un gigantesco ristorante per i poveri di Lapa, un quartiere dove i ragazzi girano con la pistola alla cintola. Volevamo fare cultura, non carità. Non regalare gli avanzi, ma insegnare ai giovani volontari brasiliani a recuperarli. Ho dovuto trovare la forza di violentarmi e mettermi a loro disposizione, non il contrario. Il giorno dell’inaugurazione non avevamo né acqua né luce né gas. Sono scappato e sono andato a farmi un tatuaggio sulla spalla destra. Eccolo qui: “No more excuses”; basta scuse. Al mio ritorno abbiamo trovato l’acqua tastando il muro con lo stetoscopio, è arrivato un camion con il generatore di corrente, abbiamo acceso i fornelli con le bombole a gas». Il metodo «Dovevo fare una carbonara per duemila persone, ma avevo bacon per due porzioni. L’ho tagliato a fettine sottilissime e le ho stese sulla teglia. Poi ho preso delle bucce di banana. Le ho sbollentate, grigliate, tostate in forno. Alla fine erano affumicate, croccanti. Le ho fatte a cubetti, ricoperte di un altro strato di bacon e rimesse in forno: il bacon si è sciolto; le bucce di banana parevano guanciale». Diranno che lei rifila ai poveri le bucce. «Applico la stessa idea qui nel mio ristorante: uno strato sottilissimo di porcini, e poi tuberi, radici, zucca, castagne: il ceviche d’autunno. E le lenticchie possono avere lo stesso sapore del caviale, anzi migliore, se cotte nel brodo d’anguilla». Il metodo Bottura è sintetizzato dall’opera di Joseph Beuys all’ingresso del ristorante: un limone, una spina, una lampadina. «Natura, tecnologia, poesia. La materia prima, la tecnica, la creatività. Come diceva Beuys: la rivoluzione siamo noi. Musica, arte, letteratura, filtrate da un cervello contemporaneo. I quadri possono diventare piatti, anche le combustioni di Burri, che traduco in cucina bruciando l’acqua di mare disidratata». La ricetta che la rappresenta meglio? «Forse le cinque consistenze di parmigiano. Un paesaggio masticabile. All’inizio le consistenze erano solo tre. Le ho inventate per Umberto Panini, il re delle figurine che aveva aperto una fattoria biologica, ora in mano ai figli. Mi disse: “Il piatto è ottimo, ma stai pensando a te stesso, non al parmigiano”. Così l’ho rifatto. Aveva ragione: la tecnica deve essere al servizio della materia prima, non del cuoco. Ora le consistenze sono cinque. Il parmigiano di 24 mesi diventa un demi-soufflé, quello di 30 una spuma, quello di 36 una salsa, quello di 40 una galletta croccante, quello di 50 una nebbia. È un piatto che restituisce il lento scorrere del tempo in Emilia. Come l’aceto balsamico, che abbiamo messo da parte nel 1981, e ora ha vinto la medaglia d’oro». I cuochi in tv «Il dolce che preferisco si chiama “Ops! Mi è caduta la crostata al limone”. Una crostata rotta è diventata un’icona della cucina internazionale. La ricostruzione perfetta dell’imperfezione. Come il nostro Sud: che è l’imperfezione assoluta, eppure è il posto più bello del mondo; perché un posto bello come la Valle dei Templi o come Capri non esiste in nessun altro Paese. Anche se tendiamo a dimenticarcelo». MasterChef? Hell’s Kitchen? «Non mi piacciono i talent. La cucina è un atto d’amore, è un lavoro intellettuale; non è una gara. In tv non vado volentieri. Troppo superficiale. Al limite la tv viene da me. Così Cracco ha portato i suoi concorrenti all’Ambrosiana di Milano, dove abbiamo un altro progetto sociale. Sono molto amico di Carlo». Anche se ha fatto la pubblicità alle patatine nei pacchetti? «Ha capito di aver sbagliato. Del resto, così ha salvato il ristorante. Non è facile per noi far quadrare i conti. Qui alla Francescana ho 45 dipendenti per 28 coperti. Ma non è un’azienda. È un laboratorio di idee, che genera conoscenza, quindi coscienza, quindi senso di responsabilità». Bottura, lo sa cosa dicono di lei, vero? «Certo. Dicono che sono pazzo». E lei cosa risponde? «Che saper maneggiare l’irrazionalità è la più grande dote di noi italiani». 19 novembre 2016 (modifica il 20 novembre 2016 | 14:42) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/16_novembre_19/io-salvato-mio-figlio-bottura-bbfe5722-ae94-11e6-a019-c9633cc39a91.shtml
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« Risposta #230 inserito:: Dicembre 10, 2016, 11:34:31 pm » |
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Il racconto Renzi, la solitudine del segretario E Franceschini si muove da padrone È caduto il più longevo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica. Nel Pd nessuno vuole ora le urne. E per molti eletti c’è in ballo il vitalizio Di Aldo Cazzullo «So’ quattro giorni che se dimette…». Dalle ultime file la voce dal marcato accento centromeridionale toglie ogni solennità all’addio di Renzi. Il Pd lo abbandona: le elezioni anticipate non le vuole nessuno. Cade il più longevo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, ma i deputati e senatori qui convenuti hanno una sola preoccupazione: salvare la legislatura, quindi le poltrone, e il vitalizio. Il 62% sono di prima nomina; deve passare almeno l’estate; prima viene la legge elettorale, poi il congresso, quindi le primarie; resistere resistere resistere. Una senatrice della corrente dei «turchi», quella del ministro Orlando, dà la linea: «Matteuccio nostro ci ha fatto perdere prima le amministrative, poi il referendum; stavolta a sbattere ci va da solo». I «turchi» schierati Ormai parlano di lui con sufficienza. «Mo’ vediamo che cce dice» si fa largo tra la folla il mitico Stumpo, l’aria del latifondista che si riprende le terre. «Calmi, calmi…è un assedio!» grida delicatamente il biondo Cuperlo. C’è qualche militante venuto a sostenere Renzi; non ci sono le proteste annunciate contro i sostenitori del No. D’Alema è a Bruxelles, Bersani passa dal retro e si apparta con Speranza; tutti i fischi se li prende il povero Boccia in De Girolamo, lettiano; Franceschini si siede al suo fianco per confortarlo. Ormai si sente il padrone del partito, e un po’ lo è. Il rapporto con Mattarella è antico. Rosato e Zanda, i due capigruppo che saliranno al Quirinale con Guerini e Orfini (Renzi torna a casa a festeggiare gli 86 anni della nonna più giovane e giocare alla playstation con i figli) sono uomini suoi. Quando scoppia la ressa — 400 persone per 100 sedie in un caldo africano —, è Franceschini a far defluire: «Quand’ero segretario abbiamo fatto i lavori di ristrutturazione, ma più di tanti non ci stanno; qualcuno esca se no crolla tutto». A Renzi ha assicurato che lavora per lui: non ha ambizioni personali, ma la legislatura è meglio portarla avanti; Matteo ha tempo per preparare la rivincita; nel frattempo a Palazzo Chigi potrebbe andare un altro uomo del Pd, magari un ferrarese con la barba autore di romanzi tra cui gli immortali Nelle vene quell’acqua d’argento e L’improvvisa follia di Ignazio Rando. I «turchi» sono già d’accordo con Franceschini. L’ultimo a cedere è stato Orfini, che ora chiama l’applauso all’arrivo di Renzi. «Coraggio di don Abbondio» Il segretario simula serenità — «non si fa politica con il broncio, passerò la campanella al mio successore con il sorriso più largo e più grato» —, ma ai sostenitori del No caverebbe volentieri gli occhi tipo imperatore bizantino della decadenza per poi succhiarli con un po’ di limone come ostriche: «Alcuni tra noi hanno festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo la mia caduta; ma lo stile è come il coraggio di don Abbondio», chi non ce l’ha non se lo può dare; «non giudico e non biasimo, alzo anch’io il calice alla fortuna del Paese più bello del mondo». Stumpo, nella cui casa si sono svolti i festeggiamenti, sorride come Franti. Renzi dice in sostanza che il «governo di responsabilità nazionale» si può fare solo se ci stanno tutti, o almeno Berlusconi; altrimenti si va a votare. E siccome nessun partito avrà la maggioranza in entrambe le Camere, comincerà una nuova stagione di larghe intese contro Grillo; e non è affatto detto che «l’animale ferito» Renzi, come lo definisce un bersaniano, sia l’uomo adatto per guidarle. «Massima discontinuità» Matteo Richetti e Simona Bonafé, renziani antemarcia che nei giorni difficili sono tornati al suo fianco, gli hanno consigliato di dar retta a «San Mattarella», come lo chiamano senza ironia: votare subito converrebbe; ma non si può. Fassino ha tentato di placarlo suggerendogli un Renzi bis, almeno sino al 24 gennaio: se la sentenza della Consulta sarà autoapplicativa, si potrà andare subito alle urne; altrimenti ci si prende un altro mese per fare la legge elettorale. In tal caso i ministri potrebbero restare, tranne quelli che si sono più esposti: la Boschi sul referendum, la Madia sulla riforma bocciata dalla Corte, la Giannini non molto amata dagli insegnanti. Ma il segretario vorrebbe segnare la massima discontinuità: fuori tutti, tranne Padoan. «Si parla, si vota, si decide qui dentro, in direzione» quasi grida Renzi, che sa di non poter più contare sui gruppi parlamentari. Il dibattito è rinviato ma Walter Tocci del No vuole parlare lo stesso, Paola Concia gli urla di smettere: «Anche io volevo intervenire, sono venuta apposta da Francoforte, ma Matteo ha detto che non è il momento!». Il parlamentare europeo Daniele Viotti, anche lui gay dichiarato, si schiera in difesa di Tocci, la senatrice ex civatiana Lucrezia Ricchiuti la appoggia, la Concia renzianissima si avventa; per tenerla ferma deve muoversi la Boschi, aiutata dal galante Pino Catizone, per vent’anni sindaco di Nichelino. Renzi è già al Quirinale: dimissioni, ma congelate. Quinto giorno. 7 dicembre 2016 (modifica il 8 dicembre 2016 | 14:58) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/la-crisi-di-governo/notizie/crisi-governo-solitudine-segretario-franceschini-si-muove-padrone-aadf4942-bcc7-11e6-9c31-8744dbc4ec0a.shtml
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« Risposta #231 inserito:: Marzo 14, 2017, 06:15:58 pm » |
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MARTEDÌ 14 MARZO 2017 Salvini, De Magistris e la Lega Sud che verrà Risponde Aldo Cazzullo Caro Aldo, quello che è successo a Napoli poteva essere evitato, se il sindaco non avesse sostenuto i gruppi che volevano impedire a Salvini di parlare ai napoletani desiderosi di ascoltarlo. Abbiamo il nuovo Masaniello? Io condivido la decisione del ministro dell’Interno di far svolgere il comizio al leghista. Altrimenti sarebbe una resa e la fine della nostra libertà. Annibale Antonelli annibaleantonelli@virgilio.it-------------------- Caro Annibale, La prima volta che un leader leghista si affacciò a Napoli era il 2001. Bossi partecipò al congresso di An, con cui si era alleato. Il giorno prima lo intervistai al telefono; lui assicurò di amare Napoli e di sapere anche tutte le canzoni napoletane a memoria. Un grande inviato teorizzò che in fondo Bossi era un mediterraneo nell’animo e quindi la capitale del Sud l’avrebbe accolto come uno dei suoi. «Scurnacchiate!», «tornatene in Padania!» gli urlarono nei vicoli i contestatori, che lo misero in fuga. Ma si trattava di una protesta spontanea, non organizzata come quella contro Salvini. De Magistris ha fatto come la Raggi con i tassisti: prima ha dichiarato di essere al fianco dei centri sociali; poi, dopo le violenze, ne ha preso le distanze. Troppo tardi. La verità è che prima o poi nascerà una Lega Sud. Troppo grande è il risentimento verso il Nord, troppo grave il disagio vissuto in molte aree (non tutte) del Mezzogiorno. Ma la Lega Sud non può essere il sottoprodotto di un partito del Nord. Non può essere Salvini a fondarla, e neanche un uomo di Berlusconi (in passato ci provò Micciché). Non può che essere un populista napoletano. De Magistris ci proverà. Magari in coppia con Emiliano. (Ovviamente si tratta di una previsione, non di un auspicio). Resta il fatto che Salvini ha cambiato strategia. Bossi voleva staccare il Nord dal resto d’Italia per restare nell’euro. Salvini vuole ricompattare lo Stato nazionale portandolo fuori dall’euro. E se necessario è disposto a fare un tratto di strada con i grillini, dopo il voto. Salvini, Berlusconi e Meloni faranno un’alleanza elettorale per ottenere il massimo numero possibile di seggi; poi se la giocheranno ognuno per sé. E i sovranisti potranno avere in Parlamento più forza dell’alleanza annunciata tra Berlusconi e Renzi. Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/14-03-2017/index.shtml
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« Risposta #232 inserito:: Aprile 05, 2017, 04:50:01 pm » |
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MERCOLEDÌ 5 APRILE 2017 Perché il made in Italy parla straniero Risponde Aldo Cazzullo Caro Aldo, tutta la stampa ci parla dei dazi che colpiranno anche il «made in Italy». Ma la Piaggio non è più italiana, la Vespa è nelle mani degli arabi, la San Pellegrino ha capitale svizzero e questo per tacere dell’Alitalia che qualcuno voleva solo italiana. Non le pare che i politici si sarebbero dovuti svegliare prima? Oppure tutto ciò fa parte di una strategia? Marcello Sassoli, Esperia (Fr) Caro Marcello, La Piaggio è controllata da una holding italiana quotata alla Borsa di Milano. Le lettere sono tutte gradite, anche quando tradiscono una vena di pessimismo cosmico; ma talora vengono elaborate analisi complesse sulla base di dati che non corrispondono alla realtà. L’altro giorno un lettore negava che la denatalità fosse un problema, perché «i francesi sono meno della metà di noi»; invece i francesi sono più di noi, perché fanno più figli. Lei però, caro Marcello, centra un punto importante. L’Italia è considerata nel mondo globale la terra delle cose buone e delle cose belle; ma, impegnati come siamo a lamentarci, non cogliamo questa enorme opportunità. Il risultato è che la domanda di Italia è soddisfatta nel peggiore dei casi da prodotti che suonano italiani ma non lo sono, nel migliore da stranieri che comprano marchi italiani e li valorizzano. La San Pellegrino si trova in tutti i bar e ristoranti del mondo; ma proprio in quanto è della Nestlé. Questo accade perché non sappiamo fare sistema. Per una serie di motivi. Le aziende devono avere dietro una burocrazia efficiente, un fisco non punitivo, istituzioni finanziarie non asfittiche, una giustizia rapida, una rete diplomatica al servizio del made in Italy. E del sistema-Paese fa parte anche la cultura che un Paese esprime. Il tessuto produttivo italiano è ancora basato sulle famiglie; ma le famiglie a ogni passaggio di generazione tendono a dividersi e a litigare, spesso a profitto dello straniero. Cosa sarà dell’Esselunga e dell’eredità Caprotti? Luxottica resterà davvero un’azienda italiana? Per restare al paragone con la Francia, che pure si considera la grande malata d’Europa, Oltralpe esistono due grandi gruppi del lusso — fanno capo a Pinault e Arnault — che fanno incetta di storici brand italiani, e nessuno pensa di criminalizzarli, anzi. In Italia il successo è guardato con sospetto e ostacolato in ogni modo. Siamo più comprensivi con chi evade che con chi crea lavoro. Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/05-04-2017/index.shtml
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« Risposta #233 inserito:: Maggio 09, 2017, 05:53:57 pm » |
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POPULISMI E IDENTITÀ Non possiamo perdere l’Olanda Di Aldo Cazzullo Cosa succede se l’Europa perde l’Olanda? La patria di Erasmo e di Spinoza, la terra della tolleranza e della libertà? Nel Rinascimento e nell’età barocca, gli ebrei e i perseguitati trovavano nelle Province unite, nella borghesia mercantile e nella casa degli Oranje un porto sicuro. Chi non poteva stampare i suoi libri o manifestare le sue idee in casa, metteva vela verso Rotterdam o partiva per Amsterdam. Ancora oggi il Giorno del Re, che da quando è salito al trono Guglielmo cade il 27 aprile, è una straordinaria prova d’integrazione: vecchi e nuovi immigrati, indonesiani e comunitari, i discendenti dell’antico impero coloniale e gli espulsi dalla crisi del Sud Europa si mescolano uniformati dalla maglietta arancione (quest’anno si annuncia una festa speciale: il sovrano compie cinquant’anni). Amsterdam, del resto, è con Londra la metropoli più internazionale d’Europa (Parigi è una città francese e maghrebina con forti comunità da altre parti del mondo più o meno integrate, Madrid è soprattutto una capitale spagnola e latinoamericana). Eppure l’Olanda è stata anche il primo Paese europeo a conoscere l’intolleranza della modernità. A vivere le tragedie e i pericoli che il mondo globale porta con sé, insieme con le occasioni. Il 2 novembre 2004, alle 8 del mattino, Theo van Gogh — nome caro a chiunque ami le arti e la libertà: discendente del fratello del pittore e di un altro Theo van Gogh caduto nella Resistenza al nazismo —, il regista di Sottomissione, un film critico verso l’Islam, veniva assassinato con otto colpi di pistola da un integralista dalla doppia cittadinanza, marocchina e olandese, che gli ha poi tagliato la gola. Le sue ultime parole furono: «Ma non ne possiamo parlare?». Theo van Gogh era stato amico di Pim Fortuyn, il fondatore dell’estrema destra olandese, come i media la definiscono per comodità. Ma Fortuyn non era un parruccone reazionario. Era un gay orgoglioso sino all’esibizione, oltre che un dandy celebre per la sua eccentricità. Insegnava Sociologia all’università di Groeningen. Era molto duro verso l’immigrazione islamica perché, diceva, «in quanto omosessuale non sopporto essere considerato un cane rognoso». Il 6 maggio 2002, nove giorni prima delle elezioni, venne assassinato da un estremista, non islamico ma «verde» (Fortuyn adorava le pellicce e aveva promesso di abolire la legge che vieta di allevare ermellini e visoni). Il suo corpo fu esposto in frac e papillon nella cattedrale cattolica di una Rotterdam annichilita dallo sgomento. «Verbijstering» titolarono i giornali: stupore. Il Feyenoord vinse la Coppa Uefa e la dedicò alla sua memoria, il suo partito prese un milione e 600 mila voti e 26 deputati (su 150). Pim Fortuyn è sepolto in un Paese che amava: l’Italia, a Provesano, in Friuli, dove aveva casa. Sulla sua tomba è scritto: «Loquendi libertatem custodiamus», difendiamo la libertà di parola. Questo forse aiuta a capire perché nei sondaggi il partito antisistema di Geert Wilders — che non è Fortuyn — è in testa o tallona i liberali del premier Mark Rutte (si vota mercoledì). Le sue idee sono discutibili. I suoi tweet spesso odiosi. La sua proposta di mettere al bando il Corano e chiudere le moschee contraddice l’essenza dell’anima olandese. Gli altri partiti sono divisi su tutto, tranne che su un punto: mai un’alleanza con lui. Eppure non va sottovalutata l’ascesa della destra antieuropea e antislamica appunto nel Paese più tollerante d’Europa. Non lo si capirebbe se non si considerasse che nel suo successo, accanto alla componente xenofoba, c’è anche un aspetto identitario che, essendo in Olanda, assume pure un carattere libertario, sia pure espresso con parole distorte: il diritto degli omosessuali di vivere la loro vita alla luce del sole; il diritto delle donne di uscire con chi vogliono e vestite come vogliono. Il fatto stesso che Wilders preferisca i social ai comizi, anche per salvaguardare la propria sicurezza, indica che c’è un problema reale; e ovviamente lui è pronto a sfruttarlo. Non era stato detto che ci si deve battere per consentire agli avversari di esprimere le proprie idee in pubblico, a maggior ragione se non le si condivide? Wilders è isolato e non riuscirà a fare un governo. Questa è una buona notizia. Il 2017 che si annunciava come l’anno dei populismi, dopo le grandi vittorie di Brexit e di Trump, potrebbe rivelarsi l’anno della loro sconfitta, dall’Olanda alla Francia dove Macron si rafforza ogni giorno. E se dovessero essere confermati i sondaggi che danno in crescita i socialdemocratici di Schulz — ma è un esito tutto da dimostrare —, potrebbe uscire ridimensionata anche l’austerity della Merkel, che ha avuto nel governo dell’Aia l’alleato più intransigente. Eppure sarebbe sbagliato negare la rilevanza di un Gert Wilders. Se persino gli olandesi perdono lo spirito d’apertura e di convivenza, il resto d’Europa deve tenere gli occhi vigili e la mente sgombra dai pregiudizi ideologici, aperta alla libera discussione delle idee; anche a quelle che non ci piacciono. 11 marzo 2017 (modifica il 11 marzo 2017 | 20:52) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_marzo_12/non-possiamo-perdere-l-olanda-77828ada-0693-11e7-8fe9-ed973c8b5d6a.shtml?intcmp=exit_page
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« Risposta #234 inserito:: Giugno 05, 2017, 12:12:36 pm » |
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L’INTERVISTA «Il proporzionale ritorno agli anni 80 Mi piaceva il Renzi dell’alternanza» Walter Veltroni, ex segretario dem, critica il suo successore: ««La prospettiva di un governo Pd-FI è un errore gravissimo, rischia di alimentare la protesta» Di Aldo Cazzullo Walter Veltroni, si torna alla Prima Repubblica. «È un momento molto importante nella storia del nostro Paese. Ne parlo con spirito di amicizia e collaborazione, non per criticare. Io, diversamente da altri, spero tutto il bene possibile per il Pd e la sua leadership. Una delle ragioni per cui la prima fase di Renzi mi aveva interessato è perché vedevo una sintonia su un tema di fondo: la costruzione di una democrazia dell’alternanza; i governi decisi dai cittadini; la sfida riformista». Ora il Pd di Renzi si prepara a votare il proporzionale. «Quando sono andato all’assemblea del Pd, cosa che non facevo da anni, ho detto: se si torna al proporzionale e ai governi fatti dai partiti, e magari si rifanno Ds e Margherita, non chiamatelo futuro; chiamatelo passato. Sono rimasto di questa idea. E sono molto preoccupato dal fatto che il mio Paese torni agli anni 80. È una svolta radicale, che rischia di accentuare drammaticamente l’impossibilità per l’Italia di conoscere il riformismo». Si sente tradito da Renzi? «Tradito no, non è un sentimento che coltivo. Sono stupito. L’ispirazione su cui il Pd è nato in questi anni è costruire un sistema politico civile e moderno. Qui si passa dalla demonizzazione dell’avversario all’accordo di governo con lui». Anche lei trattò con Berlusconi la riforma elettorale. «È vero. Le regole del gioco si fanno insieme; ma per la democrazia dell’alternanza, contro gli accordi fatti dopo il voto anziché prima del voto. Noi invece stiamo precipitando lì. Questo sistema senza nessun premio di governabilità rappresenta un paradosso; mi pare una conclusione tragicomica per una legislatura che ha avuto tre governi diversi. Ricordo quando Renzi diceva che la sera delle elezioni si deve sapere chi governerà. Ora faccio fatica a immaginare un Paese guidato da una delle due coalizioni che si possono formare». Quali? «Lega e 5 Stelle: se Grillo avrà più voti del Pd, il primo incarico di governo spetterebbe a lui. Oppure Pd e Forza Italia: un’alleanza di governo innaturale». Un’alleanza nata già dopo il voto del 2013. «Appunto: un’anomalia. Il segno di una fibrillazione iniziata con il declino di Berlusconi. Ma poi Renzi ha governato con una maggioranza in cui si vedeva molto forte la linea e il ruolo del Pd. Il proporzionale aggrava l’instabilità e i rischi di un attacco della speculazione finanziaria, che solo un governo stabile e riformista ci può consentire di evitare». Non sarebbe la prima volta neppure per un patto Renzi-Berlusconi: c’è già stato il Nazareno. «Io ho sempre difeso l’approccio con cui Renzi si era mosso anche incontrando Berlusconi: si dialoga sulle regole del gioco; ma poi quella sana distinzione tra innovazione e conservazione che fa la differenza tra sinistra e destra moderne si deve stagliare. Invece la prospettiva cui ci siamo avvicinando è un governo Pd-Forza Italia. Un errore gravissimo: perché non riesco a immaginare un riformismo possibile; e perché rischia di alimentare gli elettorati di protesta, offuscando quell’immagine di innovazione che il Pd ha sempre avuto». C’è stato il referendum. Renzi riconosce che il suo sogno è morto il 4 dicembre. «Ma così il Pd si alleerebbe con la forza che con maggiore determinazione ha condotto la campagna per il No. Io ho votato Sì, convinto che il Paese avesse bisogno di velocizzare e mettere in trasparenza i processi decisionali. Penso che la vittoria del No sia stata un errore, perché ha bloccato un processo di innovazione istituzionale di cui l’Italia ha grande bisogno. Sono da tempo angosciato per la crisi della democrazia. Il ritorno al proporzionale, con i governi di coalizione larga in cui ogni componente può chiedere potere in cambio del voto di fiducia, la aggraverebbe». È pur sempre il sistema tedesco. «Non è il sistema tedesco. Non c’è la sfiducia costruttiva. Ci sono 5 anni di fibrillazione e lacerazioni interne ai partiti, che con il proporzionale si sentiranno liberi di fare tutto quel che vogliono. C’è il trionfo del trasformismo. Già in questa legislatura ci sono stati 491 cambi di casacca; si figuri nella prossima. Stavolta lo dico io: voglio un Paese in cui la sera delle elezioni si sappia chi ha vinto. E lo dicono anche Romano Prodi e Arturo Parisi. Per il Pd la costruzione di due schieramenti tra loro alternativi è la condizione della sua esistenza». Teme che il proporzionale causi la definitiva implosione del Partito democratico? «Il proporzionalismo di per sé aumenta la frammentazione, al di là della soglia di sbarramento (e voglio vedere alla fine dove la metteranno), e induce a fare campagna contro le forze che sono più vicine. Lo sbarramento agevolerà la costruzione di un soggetto politico alla nostra sinistra, e l’accordo con Berlusconi le regalerà una formidabile arma di campagna elettorale: gli scissionisti la faranno tutta contro il “connubio”, presentandosi come l’unica voce della sinistra. Sarà lo stesso argomento di Grillo e Salvini. Un bel paradosso: rischiamo di finire in un governo con Berlusconi per non aver voluto una legge con premio di coalizione, che ci avrebbe fatto trovare un equilibrio con forze che fino a pochi mesi erano nel Pd. O con Pisapia». Ma è difficile fare una legge che produca il bipolarismo, se i poli sono tre. «A me non sarebbe dispiaciuta una coalizione di centrosinistra con un ticket Renzi-Pisapia. Giuliano ha votato Sì al referendum. Si potevano fare primarie di coalizione. Un’alleanza corta tra il Pd e Pisapia potrebbe avvicinare il 38-40%, una soglia a cui sarebbe ragionevole fissare un premio di maggioranza». Renzi le risponderebbe che non ci sono i voti in Parlamento. Se non per il proporzionale. «Mi viene in mente una scena di Ecce Bombo: all’esame il professore chiede quanto fa 2 alla terza, e il ragazzo comincia a sparare una cifra dopo l’altra, sino a 7 milioni e 400 mila. Siamo passati dalla posizione più maggioritaria — l’Italicum — al proporzionale, attraverso il Mattarellum, il Provincellum, il Rosatellum. Ma non è la stessa cosa. Quali sono le urgenze? Stabilità, velocizzazione, e — per me — riformismo. Il proporzionale le esclude tutte e tre. E poi siamo sicuri che Pd e Forza Italia avrebbero la maggioranza? Rischiamo una instabilità totale, come ai tempi dei governi balneari. E una certa politica si nutre di instabilità, la adora; perché è una grande leva di contrattazione del potere. Se questa leva la togli ai partiti e la metti in mano ai cittadini ogni cinque anni, le cose cambiano». Anche in Germania c’è una coalizione larga. «Ma Berlusconi non è Angela Merkel. Forza Italia e il Pd non sono la Cdu e l’Spd, hanno altre tradizioni, altre storie. Io ho cercato di svincolare la sinistra dall’idea di un’alleanza contro qualcuno; e ora ci alleiamo con Berlusconi contro Grillo? Anche solo adombrare una simile ipotesi significa aiutarlo. Il Pd ha rotto con Berlusconi sull’elezione del presidente della Repubblica, quando su Mattarella era possibile costruire un consenso ampio come riuscii a fare attorno a Ciampi; e ora pensa di andare con Berlusconi al governo? Con quale linea sull’immigrazione? E sulle riforme istituzionali? La storia italiana ci insegna che quando si va in confusione si creano pasticci che non finiscono mai bene». Mattarella chiede un consenso più largo possibile sulla legge elettorale. «E ha ragione. Ma la cosa è nata da un’intervista di Berlusconi, che ha proposto uno scambio: proporzionale, che interessa a lui; e voto subito, che interessa a Renzi». Sbaglia? «Da persona che sta fuori dalla politica ma la guarda con passione, non voglio fare polemica con il segretario che ho votato alle primarie. Voglio dargli un consiglio, anche se Renzi non ama i consigli e non ama le persone che ragionano con la loro testa. Non si faccia prendere dalla febbre di giocare una partita di rivincita a breve. Chiuda la prospettiva del governissimo. Altrimenti i nostri avversari la useranno contro di noi, in nome proprio dell’innovazione. Ci strapperanno la nostra bandiera. E rischiamo un insuccesso elettorale che va assolutamente evitato. Perché sarebbe un disastro non tanto per noi quanto per il Paese». Enrico Letta ha detto al Corriere che potrebbe non votare Pd. Lei? «No, io lo voterò comunque». E la Rai? «La Rai rischia di perdere a favore di Mediaset i talenti che ha costruito in decenni, per una norma approvata in Parlamento in una delle ventate di demagogia. La Rai non può tornare a essere pallina da ping-pong nel tornado della politica. Invece è ancora la politica a decidere se l’amministratore delegato deve andarsene; e il criterio è il modo in cui ha gestito l’informazione. Ancora non si capisce che i grandi orientamenti di massa non sono determinati dai tg o dai talk-show, ma dal flusso culturale. Il successo di Berlusconi fu figlio di Dallas e di Dinasty, non di Emilio Fede. La Rai è un’azienda; senza autonomia, è morta». La Rai non è mai stata autonoma dai partiti. «Ma il partito di Agnes e Zavoli era la Rai. Oggi sento esponenti del Pd dare giudizi sprezzanti sullo speciale per Falcone: il meglio del servizio pubblico». © RIPRODUZIONE RISERVATA 1 giugno 2017 (modifica il 1 giugno 2017 | 23:09) Da - http://www.corriere.it/politica/17_giugno_02/proporzionale-ritorno-anni-80-5a403326-46ff-11e7-b9f8-52348dc803b5.shtml
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« Risposta #235 inserito:: Giugno 13, 2017, 05:29:53 pm » |
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Renzi: “Era giusto provarci, ma i Cinque Stelle sono inaffidabili” L’intervista al segretario del PD di Aldo Cazzullo – Corriere della Sera Pubblicato il 10 giugno 2017 in News, Primo piano Renzi, adesso cosa succede? «Era doveroso provarci; ma adesso la partita è chiusa. Abbiamo un orizzonte di quasi un anno prima del voto. Lavoriamo per l’Italia. Prepariamoci con l’approccio del maratoneta, non del centometrista». La legge elettorale non si farà più? «Mi pare difficile, se la legge che ha in teoria il consenso dell’80% dei parlamentari va sotto al primo passaggio a scrutinio segreto. Dopo l’appello del Capo dello Stato, il Pd ha provato seriamente a scrivere insieme le regole del gioco. È evidente chi è stato a far fallire tutto». I 5 Stelle negano: sono sempre stati a favore dell’emendamento. «Non prendiamoci in giro. In commissione avevano votato contro. O l’accordo vale per intero, o salta». Ci sono stati anche franchi tiratori del Pd. «Sei o sette su 300.I grillini si sono mostrati attendibili sulla legge elettorale come lo sono sui vaccini o sulle scie chimiche. E pensare che una parte della classe dirigente li considera interlocutori affidabili…». A chi si riferisce? «Una parte dell’establishment di questo Paese liscia il pelo ai populisti; mentre nel resto d’Europa si fa argine contro di loro. In Inghilterra l’Ukip sparisce, in Francia Macron prende il 23% al primo turno e il 66% al secondo perché è un baluardo contro il populismo. In Italia il Pd è la diga contro i populisti: chi piccona la diga, mette a rischio il Paese». Forza Italia sostiene che non si può fermare tutto per un dettaglio. «Non è un dettaglio: riguarda i diritti delle minoranze linguistiche, i trattati internazionali. Ora noi dobbiamo evitare un fallo di reazione. Questo regalo a Grillo non glielo facciamo. Il fatto che Grillo abbia fatto cadere l’accordo, su un emendamento presentato da una deputata di Forza Italia, non significa che ora si possa fare una legge contro Grillo, o contro Berlusconi». Quindi la legge elettorale non si farà. «Se si fa, deve avere il consenso dei 5 Stelle e di Forza Italia. E poi una legge c’è: quella uscita dalla sentenza della Consulta. Tutti sanno che il modello tedesco non era il nostro; ma sarebbe stato positivo per il Paese avere regole condivise. È andata così». Pare quasi sollevato. «No. Però almeno ora possiamo parlare di Jobs Act, di superare l’accordo di Dublino sui migranti, di come buttare ancora giù le tasse, di come portare a Milano l’Agenzia europea dei farmaci. Andare sui contenuti». Quando si vota? «Nel 2018, alla scadenza della legislatura. Come ho sempre detto. Questo governo è il nostro governo. Noi lo difendiamo. Non ero io a chiedere a tutti i costi di votare». Come no? «Almeno due dei contraenti del patto, Grillo e Salvini, volevano le elezioni. E in effetti, approvata la legge, il tema si sarebbe posto. Ma ora che la telenovela si è chiusa, la scommessa è fare una buona legge di bilancio per consolidare la ripresa. Abbiamo poco meno di un anno di tempo: dobbiamo impiegarlo senza perdere neanche un minuto, per stare fuori dal chiacchiericcio della politica politicante e dentro ai problemi reali. La questione demografica in Italia è più importante della legge elettorale, l’occupazione dello sbarramento. Siamo a 854 mila posti di lavoro creati dal 22 febbraio 2014; possiamo arrivare al milione». Guardi che siamo il Paese che cresce meno in Europa. «Non è così, come dimostrano gli ultimi dati Istat. E nel 2017 le cose miglioreranno grazie alle misure che abbiamo preso durante i mille giorni, da Industria 4.o agli investimenti. Certo, abbiamo margini di crescita decisamente superiori». I fondatori del Pd, Prodi e Veltroni, sono molto critici con lei. L’accordo con Berlusconi, dicono, sarebbe un disastro. «Ho visto Veltroni, ho sentito Prodi. Ho molto rispetto per le loro considerazioni. Non c’è dubbio che il Pd nasca a vocazione maggioritaria. Di per sé il maggioritario non garantisce la governabilità, come vediamo ora in Inghilterra; l’unica formula è il ballottaggio, contro cui erano in prima fila molti dei commentatori che si sono scagliati contro le larghe intese del tedesco. Ma aver equiparato un patto istituzionale a un patto di governo è stato un salto logico». Ma se tutti dicono che lei e Berlusconi siete già d’accordo. «Berlusconi si è speso moltissimo contro di me e contro il referendum, dopo aver contribuito a scrivere la riforma e averla votata nelle prime letture. Il governo con Berlusconi l’ha fatto Enrico Letta, non io». Comunque si voterà con il proporzionale. E lei avrà bisogno di alleati. Pisapia? «Alla Camera il premio al 4o% consente di tentare l`operazione maggioritaria, anche se non è facile. Con le forze alla sinistra del Pd siamo alleati in molti Comuni dove ora si vota. Pisapia ha fatto per cinque anni il sindaco di Milano con il contributo fondamentale del Pd. Noi ci siamo; vediamo che farà lui». ‘ Anche se c’è D’Alema? «D’Alema è uscito dal Pd contro di me; non credo adesso voglia fare coalizione. Comunque non dipende dalle persone ma dai contenuti: tagli all’Irpef, periferie, lotta alla povertà, Jobs Act. Non ho niente contro i fuoriusciti. Credo però che alcuni faranno fatica anche a tornare alle feste dell’Unità; perché la nostra gente ha vissuto come una ferita il fatto che se ne siano andati non sulla base di un’idea, come nella tradizione anche nobile della sinistra, ma sulla base di un atavico odio ad personam. Da ultimo mi sono sentito fare la morale perché non sostengo Gentiloni da gente che nel 2013 non l’avrebbe neanche candidato, e ora non gli vota la fiducia». Sarà un altro Parlamento composto da nominati. «Non è vero, i capilista bloccati sono cento su 63o. Dobbiamo scovare, valorizzare e candidare non soltanto i soliti noti, ma espressioni solide della società italiana. Quando si tratta di prendere voti con le preferenze, con le primarie, con i collegi, il Pd la sua parte la fa. Altri nei Comuni hanno preso da 9 a 47 preferenze: vada a vedere i risultati di Toninelli a Crema, di Di Maio a Pomigliano. E questi hanno immaginato di essere i grandi strateghi degli accordi elettorali?». Ci sarà il suo nome sul simbolo? «No, come non c’era alle Europee. Magari porta bene». Nel 2018 sarà lei il candidato premier? «A decidere il candidato sono i voti, non i veti. Al momento opportuno gli italiani decideranno. Noi intanto dobbiamo occupare lo spazio politico del buon senso, della ragionevolezza, contro gli urli e i populisti. È uno spazio che forse non vale il 51%; ma esiste. Una forza tranquilla». La tranquillità non pare la sua dote migliore. «A volte leggo di me sui giornali e non mi riconosco. Io non sono come mi raffigurate. Non sono accecato dall`ansia della rivincita. Vivo questa stagione con uno straordinario senso di gratitudine al Paese che mi ha permesso di fare il premier per mille giorni, nonché per gli italiani che mi hanno chiesto di guidare uno dei più grandi partiti europei». Aveva detto che avrebbe lasciato la politica. «Mi sono dimesso da Palazzo Chigi e dalla segreteria del Pd. Ma ho capito da tanti amici che non potevo dimettermi da cittadino. Nessuno è ripartito da zero come ho fatto io. Ma se sono qui è perché mi hanno votato centinaia di migliaia di persone». Perché ha mandato via Campo Dall’Orto dalla Rai? «Ma dai, io non c`entro nulla. Il cda ha bocciato il suo piano per l’informazione, con l’unico voto contrario del mio amico Guelfo Guelfi. Ad Antonio ho chiesto una cosa sola: togliere la pubblicità alla tv dei ragazzi, non decidere il conduttore di Ballarò». Allora perché i suoi uomini della comunicazione attaccavano la Rai ogni giorno? «Se si è dimesso, ci sarà stato qualcosa che non funzionava. Sono orgoglioso degli uomini che ho scelto per aiutarmi a guidare l’Italia: Descalzi, Del Fante, Starace, Cantone, Piacentini, Costamagna, Guerra, Mazzoncini. E adesso mi lasci dire buon lavoro a Orfeo». E suo padre? «Questa storia ha due aspetti. Il primo è umano: dopo aver letto sui giornali di suoi incontri segreti, ho dubitato di mio padre; e questo mi ha fatto male. Non me lo perdono. Perché la notizia era falsa». Ma suo padre non farebbe meglio a occuparsi dei nipoti? «E quello che vorrebbero anche i nipoti. Ma in uno Stato di diritto un cittadino non può leggere quello che abbiamo letto: “Datemi un pezzo di carta perché così arresto Tiziano Renzi”. Uno, perché gli arresti li fanno i giudici, non qualche ufficiale di polizia giudiziaria. Due, perché le prove vanno trovate, non fabbricate. Qui c’è l’aspetto politico: ho letto preoccupati commenti di esponenti delle istituzioni sul fatto che i quattro principali partiti si accordavano sul proporzionale; ma non ho sentito una voce per denunciare questi fatti di gravità inaudita. Non ho sentito nessuno darmi una risposta per sapere se è vero o no che un ufficiale giudiziario ha scientemente mentito, accusandomi di aver usato i Servizi segreti per fermare un`inchiesta. Io ho grande rispetto per i carabinieri e la magistratura; ma voglio sapere se qualcuno ha fabbricato prove false per arrestare il padre dell`allora presidente del Consiglio. Su questo andrò fino in fondo, senza arretrare di un centimetro. Extra costituzionale non era il patto sulla legge elettorale: fuori dalla Costituzione c’è questa roba qua. E io da cittadino voglio la verità». Da - http://www.partitodemocratico.it/primo-piano/renzi-giusto-provarci-cinque-stelle-inaffidabili/
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« Risposta #236 inserito:: Ottobre 12, 2017, 06:08:04 pm » |
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GIOVEDÌ 12 OTTOBRE 2017 Il duro mestiere del re di Spagna Risponde Aldo Cazzullo Caro Aldo, ma che fa il nuovo re di Spagna? Perché è lì? Ci resterà? Vale il padre Juan Carlos? Marco Serri, Milano Caro Marco, Molti spagnoli erano più juancarlisti che monarchici. Il ritorno del re fu una soluzione studiata da Franco per mantenere la Spagna in un alveo autoritario. Il Caudillo sapeva che il franchismo moriva con lui, ma non credeva affatto alla democrazia liberale. Anzi, detestava il liberalismo quanto il comunismo, perché in entrambi vedeva i germi di un pensiero blasfemo che considerava contrario al carattere eterno della Spagna. Certo, la sua visione era reazionaria più che fascista, dirigista più che totalitaria. Mise la sordina agli elementi ideologici, diffidava della retorica proletaria di un Mussolini, non amava la mobilitazione del popolo in armi; l’esercito per lui era una cosa seria, e infatti si guardò dal gettarlo nella fornace della seconda guerra mondiale; in Russia andarono solo i volontari della Divisione Azul. Franco non governò con la Falange ma con i tecnocrati dell’Opus Dei; e dopo la fame degli Anni 40 anche la Spagna visse, sia pure meno dell’Italia, il suo sviluppo economico, mentre i ribelli continuavano a finire in carcere o alla garrota. Con la morte di Franco la situazione evolse in modo imprevisto sia da lui, sia dai suoi oppositori. La Spagna è diventata una democrazia liberale, con un re come garante. Ma pure gli antifranchisti hanno dovuto cambiare idee e linguaggio. Javier Solana quand’era in clandestinità faceva campagna contro la Nato; divenne ministro degli Esteri, poi segretario generale della Nato. I repubblicani si fecero piacere Juan Carlos. E lui si fece apprezzare quando tenne duro contro il tentativo di restaurare l’autoritarismo. Anche Juan Carlos ha vissuto il suo declino. Nel momento più nero della crisi economica andò a caccia di elefanti in Africa, per poi fare ammenda con il «discorso del re» più breve della storia: «Lo siento mucho. Me he equivocado. No volverá a ocurrir»; mi spiace molto, ho sbagliato, non succederà più. Lo scandalo dell’Infanta e del genero condannato alla galera ha fatto il resto. Juan Carlos ha abdicato finché Rajoy era saldo al potere. Ora tocca al figlio, «el niño rubio», il bambino biondo. Felipe VI è stato duro con la sorella, rimuovendola dalla linea di successione. Ha sposato una borghese, una giornalista. Sta modernizzando lo stile della monarchia. I critici dicono che il nuovo sovrano è solo bello. Altri che è solo alto (quasi due metri). I separatisti lo accusano di essere «il re del partito popolare». Ora sta a lui dimostrare che non è così. Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/12-10-2017/index.shtml
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« Risposta #237 inserito:: Ottobre 28, 2017, 05:21:30 pm » |
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MERCOLEDÌ 25 OTTOBRE 2017 Venezia come Barcellona? Serve riforma federalista Risponde Aldo Cazzullo Caro Aldo, D’accordo per l’autonomia del Veneto, ma non dimentichiamo che è stato lo Stato a intervenire per il salvataggio delle nostre banche... Federico Sensini, Venezia In Veneto può finire come in Catalogna? Franco Marchi, Torino Cari lettori, In effetti anche in Catalogna cominciò con l’autonomia, e si è arrivati alla secessione. In Veneto gli indipendentisti esistono, ma la maggioranza — tra cui Zaia — per ora chiede un Veneto autonomo dentro un’Italia unita. Ma cosa accadrebbe se lo Stato rispondesse no alle loro richieste? Il processo separatista in Catalogna è cominciato quando la Corte costituzionale, controllata dal Partito popolare, ha bocciato lo Statuto catalano. In Italia la situazione è diversa, paradossalmente grazie alla Lega: mentre il partito catalanista che fu di Pujol e Mas — il quale resta il leader ombra — e ora è di Puidgemont esiste solo a Barcellona e dintorni, la Lega di Salvini è ormai un partito nazionale, se non nazionalista, in chiave anti-europea e antiglobalizzazione; e sostiene di volere l’autonomia anche per le altre Regioni. Il problema, come spesso nella vita, sono i soldi. Il vicesegretario pd Martina e il presidente pugliese Emiliano sostengono che veneti e lombardi hanno tutte le ragioni, però la Costituzione vieta loro di trattenere più tasse sul territorio. Ma lo scopo dell’autonomia è esattamente questo (con la contraddizione colta anche da Federico Sensini: privatizzare gli utili e socializzare le perdite è vizio antico). È evidente che tutto dovrebbe passare da una riforma costituzionale in senso federalista; esattamente il contrario dell’ultima riforma, che invece riportava alcune competenze allo Stato. Non va poi dimenticato che il vero localismo italiano non è definito dalle regioni, bensì dai comuni. Un lombardo di Sondrio parla, mangia, pensa diversamente da un lombardo di Mantova. L’Oltrepò pavese è un altro mondo rispetto alla Val Camonica. La Lombardia è più ampia dei suoi confini geografici: guardano a Milano Alessandria, Novara, Novi Ligure, Lugano, Piacenza, Verona. Questo fa della Lombardia una delle regioni più attrattive d’Europa, e nel frattempo ne dilata e frammenta l’identità, arricchita da generazioni di italiani arrivati dal Sud. Il Veneto ha un’identità più definita e arroccata; non a caso è l’area del Nord dove si parla più il dialetto. La Lombardia si sente centrale, il Veneto si sente trascurato; e anche questo ha la sua importanza. Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/25-10-2017/index.shtml?intcmp=exit_page
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« Risposta #238 inserito:: Ottobre 28, 2017, 05:22:21 pm » |
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GIOVEDÌ 26 OTTOBRE 2017 Il coraggio di parlare di fine vita Risponde Aldo Cazzullo Caro Aldo, il 12 ottobre ho avuto modo di seguire il programma Piazzapulita e in particolare un dibattito poco pluralista sul tema dell’eutanasia. Si è preso spunto da alcuni casi di suicidio assistito in Svizzera per sollecitare l’approvazione della legge sul testamento biologico che secondo alcuni esponenti radicali, presenti in trasmissione, dovrebbe essere il primo passo verso una legalizzazione vera e propria dell’eutanasia. L’onorevole Lupi, esponente contrario all’eutanasia, ha ribadito, da laico, la sua contrarietà alla pretesa che lo Stato si faccia esecutore delle volontà omicide dei suoi cittadini. In certi momenti si aveva l’impressione di assistere ad una commedia dove i principali attori erano i soliti integralisti radicali supportati dalle lacrime dei loro sostenitori. Non poteva mancare il solito sondaggio che confermava l’approvazione dell’eutanasia dalla maggioranza degli italiani. Simone Hegart Caro Simone, Io invece trovo che Corrado Formigli, il conduttore di Piazzapulita, abbia fatto bene ad affrontare un argomento di solito rimosso, e a dare voce a pensieri diversi. L’eutanasia non è all’ordine del giorno in Italia. In Parlamento però giace (e probabilmente non sarà approvata) una legge che dovrebbe rendere più semplice porre fine non a qualsiasi vita, ma a vite mutili e dolorose, senza costringere i parenti a ricorrere alla magistratura (o appunto ad andare in Svizzera). Quando posi la questione a Umberto Veronesi, mi rispose che nessun malato terminale gli aveva mai chiesto di morire; tutti gli avevano sempre chiesto di guarire. Ma cosa accade quando una persona non è più responsabile di se stessa? Quando la scienza non è in grado di guarire, però consente di tenere in vita, senza limiti di tempo ma anche senza speranza? Certo, il tema del fine vita è divisivo. Ma questa non è una buona ragione per non parlarne e non decidere. Al contrario, è il momento di affrontare una grande discussione, aperta, libera, rispettosa delle opinioni altrui, e soprattutto non inconcludente. Si sente obiettare che in Parlamento non c’è una maggioranza solida, né ci sarà dopo le prossime elezioni. Ma una questione così complessa deve essere disciplinata da un accordo vasto, che possa reggere alle alternanze, anziché essere disfatto o capovolto al primo cambio politico. Possiamo pure decidere di non parlarne; ma è una questione cui purtroppo non possiamo sottrarci. Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/26-10-2017/index.shtml
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Arlecchino
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« Risposta #239 inserito:: Dicembre 23, 2017, 08:48:08 pm » |
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SABATO 23 DICEMBRE 2017
La sinistra perde perché non la vota più il popolo
Risponde Aldo Cazzullo
Caro Aldo, c’è forse un virus che colpisce preferibilmente la sinistra? Vediamo i recenti risultati del Cile, della Germania e della Francia. In Spagna i socialisti puntellano un governo di destra pur di poter dire ci sono anch’io, e la situazione di Londra è sotto gli occhi di tutti. In Italia i componenti della sinistra, quale sinistra? studia come far vincere più comodamente la destra alle prossime elezioni. Quale male endemico ha colpito le sinistre? Forse non sono capaci di evolversi rimanendo ancorati ai vecchi schemi di una società di metà ’900? Giuliano Sassa, Milano
Caro Giuliano, In effetti la sinistra da qualche anno perde tutte le elezioni possibili. Anche in Catalogna i due partiti più votati sono gli indipendentisti e gli unionisti di centrodestra. Il Pd si attesta tra il 20 e il 25%, vale a dire la modesta quota raggiunta dalle forze riformiste in Europa, dalla Spd in Germania al Psoe in Spagna. Le ragioni sono molte, ma la più importante è che la sinistra non raccoglie più i voti e le energie della classe popolari. Ha impiegato decenni — in alcuni Paesi meno, in altri più — a separarsi dal marxismo per abbracciare un confuso liberalismo progressista, in cui tutti avrebbero dovuto avere le stesse opportunità grazie a una scuola e a una sanità efficienti e a una leva fiscale che avrebbe diminuito le disuguaglianze; ma non si è accorta che il mondo globale rendeva inutili le politiche nazionali, consegnava il potere alla finanza senza frontiere, esportava il lavoro all’estero o lo affidava a immigrati disposti ad accettare meno salario e meno diritti. I partiti socialisti e democratici sono diventati partiti di ceto medio intellettuale, funzionari pubblici, insegnanti (tranne quelli italiani, inferociti con Renzi). Operai, precari, disoccupati, a volte piccoli produttori votano per movimenti antisistema, che possono avere un volto di destra come Marine Le Pen e Salvini, di sinistra populista come Podemos, o trasversale come i grillini. I rimedi? A Londra, Corbyn ha spostato il Labour a sinistra, ottenendo percentuali significative — anche grazie al sistema bipolare —, ma restando all’opposizione. A Parigi, l’ex ministro socialista Macron ha svuotato dal centro sia il Ps sia la destra repubblicana, con un fortunato capolavoro il cui passo si misurerà col tempo. A Roma, la sinistra è entrata nell’area di governo nel novembre 2011. Sei anni, al tempo drammatico della crisi e frenetico di Internet, sono molti. Passare all’opposizione non sarebbe una tragedia, e forse la aiuterebbe a ripensare se stessa e la sua idea di Paese.
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