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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144621 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Febbraio 20, 2015, 04:49:44 pm »

1925-2015
La fabbrica, la Nutella, i successi
Morto Michele Ferrero, il magnate che parlava in dialetto
Faceva notte ad assaggiare cioccolato e a provare decine di possibili varianti

Di Aldo Cazzullo

Ha costruito la più grande multinazionale dolciaria al mondo dopo la Nestlé parlando piemontese, è diventato l’uomo più ricco d’Italia senza mai dare un’intervista a un giornale. Sue fotografie quasi non esistono: per una vita i quotidiani hanno continuato a pubblicare una sua immagine giovanile, quando lui ormai aveva settant’anni.

Diffidava dei manager, che cambiava spesso. Ossessionato dal prodotto, sceglieva di persona i dipendenti delle uniche categorie che lo interessavano: chimici e venditori. Non guardava neppure il curriculum. Nascosto dietro un vetro opaco, gli bastava uno sguardo per dare un giudizio, ovviamente in dialetto. Per indicare una persona di buon comando ma poco creativa, diceva: «Chiel lì è mac bun a fé le comisiun», quello è capace solo di fare le commissioni, di eseguire il compito che gli è stato affidato. Quando trovava una persona estrosa ma non del tutto affidabile, lo definiva «’n artista»; «chiel lì bat i querc», quello lì batte i coperchi, indicava invece che la sregolatezza prevaleva sul genio.

Ragioniere, rifiutava le lauree honoris causa, rispondendo che «basta il buon senso». In privato era anche più severo: «Mi raccomando, pochi laureati»; «pì a studiu, pì ven stupid», più studiano più diventano stupidi. Leggendaria la sua capacità di lavoro: il giorno preferito per le riunioni è sempre stato la domenica. Un’altra frase ricorrente era «vag ’n chimica», vado nei laboratori, dove faceva notte in camice bianco con i collaboratori più stretti ad assaggiare cioccolato e a provare decine di varianti. Seguiva di persona ogni cambiamento nella formula della Nutella, più riservata del Sacro Graal, e la ricerca dei nuovi prodotti, dai Rocher al Grand Soleil. «Ricordatevi: ca piasa a madama Valeria», che piaccia alla signora Valeria, simbolo della casalinga media. Alla fine affidava ai suoi uomini un pacchettino con le diverse varianti: «Ca lu fasa tasté a sua fumna», lo faccia assaggiare a sua moglie; il verdetto della signora sarebbe stato decisivo.

Lui aveva sposato la sua segretaria, Maria Franca. Da quando era stato colpito da un male agli occhi, che negli ultimi anni l’aveva reso quasi cieco, appariva in pubblico sempre sottobraccio alla moglie. Molto amato dai dipendenti e in genere dagli albesi, amava distribuire le gratifiche di persona, talora infilate nel taschino. Di politica non parlava mai. Una volta lo sentirono dire: «Sono socialista, ma il mio socialismo lo faccio io». Costruì un welfare aziendale che si occupava di tutto, dalla sanità al dopolavoro: l’inno delle gite aziendali dei pensionati - «nui suma ansian, ansian d’la Ferero» -, da cantare sulla musica di «Marina», a un certo punto dice: «Dima grasie a monsu Michele», ringraziamo il signor Michele. Quello che per i sindacati era paternalismo, per lui era il modo di evitare i conflitti. Se le fabbriche delle grandi città assumevano agricoltori cattolici e ne facevano operai comunisti, lui mandava a prendere i contadini dell’Alta Langa con i pullman che li portavano in fabbrica e li riportavano al podere la sera; il lavoro nei campi d’estate e nella fabbrica di cioccolato d’inverno ha evitato lo spopolamento delle colline, e ha reso ricca la terra della Malora fenogliana. Spaventato dal fisco e dai sequestri di persona, portò la famiglia prima a Bruxelles, dove fu processato e alla fine assolto per esportazione di capitali, poi a Montecarlo. Negli ultimi tempi si divideva tra la casa di Cap Ferrat, in Costa Azzurra, e quella di Altavilla, la collina che sovrasta Alba.

I fondatori dell’azienda erano Pietro, suo padre, che si occupava della pasticceria, e Giovanni, suo zio, che seguiva i mercati. Lui ha chiamato i figli Pietro, affidandogli la produzione, e Giovanni, affidandogli le vendite. Li amava teneramente, al punto da battezzare la barca di famiglia «Papos», come il nomignolo con cui lo chiamavano da bambini; ma li sottoponeva a prove iniziatiche. La domenica portava il primogenito Pietro nella fabbrica in riva al Tanaro, gli faceva chiudere gli occhi, e spariva: il piccolo doveva ritrovare l’uscita da solo, fidando sul senso di orientamento e sull’olfatto (il quartiere e talora l’intera città, a seconda del vento, profuma di cioccolato). Quando nel ’94 il Tanaro allagò la fabbrica, tutta la famiglia mise gli stivaloni e cominciò a spalare, sotto lo sguardo di Berlusconi atterrato in elicottero. Del Cavaliere fu generoso inserzionista e amico; lo seguì nella battaglia per la Sme; non nella discesa in campo. Evitò sempre la Borsa come la peste. Investì in Mediobanca. Religiosissimo, in ognuno dei venti stabilimenti sparsi nel mondo ha fatto mettere all’ingresso una colonna con la Madonna di Lourdes, dove organizzava pellegrinaggi.

L’ultima volta che l’hanno visto in pubblico è stato nella Cattedrale di Alba, per il funerale di Pietro, morto d’infarto in Sudafrica nell’aprile 2011 mentre andava in bicicletta. Ai vecchi collaboratori continuava a ripetere: «Che disgrassia», che disgrazia. Nelle cerimonie il suo discorso consisteva in due parole: «Tanti auguri». Ma nel Natale 2013 sorprese tutti e raccontò a braccio la storia dei suoi esordi: «La prima volta che entrai in una panetteria-pasticceria per vendere la crema alle nocciole che faceva mio padre, il negoziante mi chiese brusco: “Cosa vuole?”. Non ebbi il coraggio di offrirgli il prodotto. Comprai due biove di pane e uscii. Andò così in altri due negozi. Nel quarto lasciai la merce in conto vendita. Tornai il giorno dopo: l’avevano venduta tutta». Poi chiuse con una sorta di testamento: «Possiamo essere orgogliosi della nostra storia. Abbiamo un debito con questa terra. La fabbrica resterà qui».

15 febbraio 2015 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_febbraio_15/fabbrica-nutella-successi-morto-michele-ferrero-magnate-che-parlava-dialetto-7736dfd0-b4e3-11e4-b826-6676214d98fd.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Marzo 03, 2015, 05:15:14 pm »

Gli obiettivi, le parole
Il turpiloquio come arma politica

Di Aldo Cazzullo

Pare un imitatore di Grillo: per il turpiloquio, ancora più fastidioso, e i continui vaffa; per il collaudato schema «noi» contro «loro», basso contro alto, piccoli contro grandi, artigiani contro banchieri; per la commistione destra-sinistra, CasaPound-don Milani. E per lo splendido isolamento, «non abbiamo bisogno di alleati, i nostri alleati sono sessanta milioni di italiani»; ma allora come conta Salvini di vincere le elezioni e realizzare il Paese meraviglioso in cui tutti pagano il 15% di tasse e sono gli svizzeri a portare i soldi?

Il turpiloquio è ancora più fastidioso proprio perché Salvini non è Grillo, cioè un comico. Il suo tono, anche quando vorrebbe essere ironico, è greve, bieco, vagamente minaccioso. Il linguaggio è a volte tecnicamente neofascista, come quando parla di «zecche» e «infami», a volte tecnicamente neogrillino: «Questo sfortunato Paese...», «ci stanno rubando il futuro...». Sugli immigrati i due leader la pensano quasi allo stesso modo, di suo il leghista aggiunge una facile invettiva contro i rom, invitati sotto la minaccia delle ruspe ad «andare a fare i rom da un’altra parte», suscitando il frenetico entusiasmo delle camicie nere romane nella piazza che fu di Giorgio Almirante (il quale per i rom aveva simpatia: Zingari si intitolava un film romantico diretto dal padre Mario Almirante, protagonista la cugina Italia Almirante).

Il mondo di Salvini è diviso nelle due parti già individuate da Grillo a San Giovanni. Di là, l’Europa e il suo servo sciocco Renzi, le grandi banche, Il Sole 24 Ore , Marchionne, i grandi giornali, la Rai, Equitalia, i falsi invalidi, la grande finanza, l’Agenzia delle Entrate, «quelli che hanno la villa a Cortina, mandano i figli alla scuola privata, hanno il portafoglio pieno a sinistra», e «quelli che hanno letto un sacco di libri ma non li hanno capiti»; di qua, «quelli che lavorano sedici ore al giorno», «quelli che si alzano alle quattro del mattino», «quelli che tirano su la saracinesca all’alba e la tirano giù la sera» - categorie che esistono ma a cui non appartiene Salvini -, «i derubati dallo Stato», i veri invalidi, le banche popolari «che Renzi si vuole fottere», quelli che sparano ai rapinatori «perché se entri in casa mia in piedi devi sapere che puoi uscirne steso», e «noi che di libri ne abbiamo letti solo due, ma li abbiamo capiti». Le categorie amiche avranno protezione sociale; agli altri, «calci in culo», «un mazzo così» e analoghi simpatici destini.

La confusione ideologica è massima. «Chi non salta è comunista», «i professori di sinistra hanno insegnato tutto dei fenici e nulla delle foibe»; però al pantheon leghista sono annessi don Milani, Mauro Corona, Marco Paolini (Salvini chiama Mauro pure lui) e Oriana Fallaci, «non solo la Fallaci de La rabbia e l’orgoglio ma pure quella del libro più bello che abbia mai letto, Un uomo , sulla storia di Alekos Panagulis»; poco importa che Panagulis fosse un oppositore di sinistra (sia pure non comunista) ai colonnelli greci graditi a CasaPound, e che la Fallaci definisse Bossi «il becero con la camicia verde e la cravatta verde che non sa nemmeno quali siano i colori della bandiera italiana». Salvini invece ha il polsino tricolore e indossa una felpa per chiedere la liberazione dei marò, ma si rifiuta di dire «Italia», meglio «le Italie»: veneti e sardi, lombardi e salentini devono avere «libera determinazione», insomma possono andarsene in qualsiasi momento, non si sa bene dove. Invece del «Va’ pensiero», musica da kolossal hollywoodiano; il posto d’onore a fianco del capo non è per Bossi, salito sul palco verso la fine a fare pateticamente le corna a Maroni nelle foto, ma per Buonanno, ex missino come Borghezio.

Intendiamoci: in piazza del Popolo sono rappresentate paure e inquietudini autentiche. E in qualche passaggio è difficile dissentire da Salvini, ad esempio quando ricorda che la natalità è crollata alla quota del 1861, e «un popolo che non fa figli muore». Ma subito il livello di demagogia risale oltre il sopportabile, quando sono messi in mezzo prima i fanti della Grande Guerra caduti per proteggere i confini oggi indifesi, poi il Papa: «Cosa gliene frega al Vaticano se le prostitute esercitano per strada o in casa?». Chiusa in linea con il nuovo corso nazionale e antieuropeo: «grazie Roma», «smonteremo Bruxelles».

Di strategia politica si è parlato poco; e non solo perché la priorità era scaldare la piazza. A Salvini interessa presidiare la destra, non tessere alleanze; far saltare il sistema, non governarlo. Ieri ha confermato che la Lega è in salute; ma non ha dissipato l’impressione che, se l’opposizione è questa, l’odiato Renzi resterà «sulla sua comoda poltrona» ancora a lungo.

1 marzo 2015 | 09:54
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_01/salvini-turpiloquio-arma-politica-imita-grillo-f4845532-bfef-11e4-9f09-63afc7c38977.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Marzo 05, 2015, 03:57:05 pm »

Galassia Cinquestelle
Un timido segnale di disgelo

Di Aldo Cazzullo

La svolta di Grillo, se sarà confermata dai fatti, rappresenta una novità importante per la vita pubblica italiana. Perché la scoperta che la politica non è solo distruzione dell’antico regime e ricerca del consenso, ma anche dialogo, lavoro parlamentare, compromessi, accordi, può giovare non solo ai 5 Stelle, ma soprattutto al Paese.

In questi anni Grillo è riuscito in un’impresa mai vista in una democrazia: costruire, con la complicità di partiti e leader screditati, un movimento antisistema in grado di raccogliere un quarto dei voti. Ha usato un linguaggio inaccettabile, ma ha intercettato l’indignazione e le speranze di ceti, categorie, generazioni non rassegnate a una corruzione e a un degrado morale che sembrano non toccare mai il fondo. Finora però Grillo ha sprecato questo grande capitale politico, questo investimento emotivo che una larga parte dell’elettorato aveva fatto su di lui e che non può essere ridotto a un lessico pur condannabile (e subito imitato da Salvini, senza il gusto del paradosso e la levità sarcastica dell’originale).

Grillo si era illuso, procedendo sulla linea del dileggio universale, dell’espulsione dei dissidenti, del rifiuto di qualsiasi confronto e collaborazione con altre forze, di accrescere ancora il proprio consenso. La battuta d’arresto alle Europee, l’emorragia di parlamentari, la prova di irrilevanza offerta nell’elezione del nuovo capo dello Stato devono averlo convinto a cambiare rotta. Intendiamoci: è presto per trarre conclusioni definitive. Grillo è capace di ricambiare idea domani mattina, o forse l’ha già fatto; ieri sera era ricominciato il solito battibecco con il Pd. Ma sarebbe sbagliato sottovalutare il suo nuovo atteggiamento verso il Quirinale e la sua intervista di ieri al nostro Emanuele Buzzi, con passaggi inconsueti tipo «può essere che forse abbia sbagliato io». Grillo ha un bel dire che queste cose le ha sempre ripetute; finora non vi aveva mai dato seguito. Stavolta molto dipenderà dalla risposta del Partito democratico, che sbaglierebbe a fare cadere l’apertura dei 5 Stelle.

Non si tratta di costruire l’ennesima maggioranza variabile, ma di allargare il consenso su provvedimenti e questioni che riguardano tutti, come la riforma della tv pubblica e la lotta alla povertà. Sottrarre la Rai al controllo della politica, obiettivo mille volte annunciato e mai davvero perseguito, corrisponde alle aspettative dei cittadini che pagano il canone. E il reddito di cittadinanza, concepito non come sussidio assistenziale ai rassegnati che non studiano e non lavorano, ma come sostegno a coloro che sono colpiti dal cambiamento ineludibile del sistema economico, potrebbe rispondere a un’esigenza complementare al nuovo mercato del lavoro. Anche se difficilmente compatibile con i problemi di bilancio.

Grillo e Renzi non si amano. Ma sono due frutti diversi di una stessa radice: la rivolta contro l’establishment dei vecchi partiti, l’esigenza di una politica nuova, al prezzo di una certa ruvidezza di parole e di metodi. Non potranno certo governare insieme. È prematuro credere che possano davvero trovare accordi su temi concreti. Ma farebbero bene a provarci «con onestà intellettuale», come chiede Grillo. Se i rappresentanti di un elettorato che i sondaggi valutano ancora attorno al 20% cominciano a giocare, allora il gioco si fa un po’ meno duro, ma molto più interessante.

5 marzo 2015 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_05/m5s-timido-segnale-disgelo-43c52ace-c2ff-11e4-9a3c-d1424c2aada1.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Marzo 07, 2015, 04:27:54 pm »

SABATO La manifestazione leghista
Le paure che sfilano nella capitale


Di Aldo Cazzullo

La Lega che sfila a Roma come la Cgil è una novità non banale. Domani andrà in scena la rappresentazione della svolta di Salvini. Finora la Capitale era l’altrove, il nemico. Ma ora il nemico non è più lo Stato nazionale, divenuto semmai un rifugio; è l’Europa, la Germania, la moneta unica, la finanza internazionale. La Lega non vuole più abbattere Roma, la vorrebbe amministrare, insieme con la Meloni, scalzando Marino; e intanto la sceglie come fondale del corteo che apre la nuova stagione, con il corollario di artisti indignati e neofascisti scalpitanti.

Lo sbarco di Salvini nel Centro-Sud è molto difficile. La Lega del Mezzogiorno prima o poi nascerà, ma non come sottomarca di un partito - si pensi al fallimento di Miccichè - o come agenzia in franchising della Lega Nord. In attesa di un Bossi romano o napoletano, la nuova strategia del Carroccio, che ieri è arrivato a un passo dalla rottura con Forza Italia, va seguita con attenzione. Troppo facile liquidarla come «deriva lepenista». Il successo di Salvini è tutto dentro un tempo segnato sia dalla rivolta contro l’establishment non solo politico, sia dalla domanda di protezione che arriva dalla provincia impaurita da fenomeni globali - la distruzione del lavoro, l’impoverimento del ceto medio, le ondate migratorie, la guerra sull’altra sponda del Mediterraneo - che l’Europa non tenta neppure di governare. Il Nord che si affaccia a Roma è un territorio uscito sfibrato da due decenni di bassa crescita e da cinque anni di recessione. La Lega non può certo rivendicarne la rappresentanza esclusiva. Ma la sua buona salute è lo specchio capovolto di un disagio sociale che il governo farebbe bene a prendere molto sul serio.

Appena tre anni fa, la Lega padana di Bossi affondava nel discredito di una penosa storia familista sin troppo italiana. Se adesso la Lega nazionalista di Salvini supera Berlusconi nei sondaggi e conquista città che finora le avevano tenacemente resistito, come Padova, questo non si deve solo alla dialettica dell’«altro Matteo» - che anzi a volte lo porta a straparlare, ad esempio su Lampedusa - o all’attivismo di un Tosi alla disperata ricerca di un ruolo oltre le mura di Verona. La Lega tiene la scena perché la «questione settentrionale» è lì, intatta, e se possibile aggravata.

La richiesta che sale dalle regioni più dinamiche del Paese - uno Stato più leggero, una Pubblica amministrazione più efficiente, un Fisco più equo - è rimasta inascoltata. Lo Stato continua a considerare i produttori, anziché benemeriti da proteggere, pecore da tosare; ognuno di loro ha l’impressione di procedere trascinando il peso di lavori improduttivi, di burocrazie che si autoalimentano, di privilegi castali che le recenti liberalizzazioni non hanno neppure scalfito. La questione non è solo economica, ma culturale. Il Nord si sente sottorappresentato nella vita pubblica, segnata da una sorta di «egemonia mediterranea», da una Tv di Stato la cui lingua ufficiale è il romanesco, da un’industria cinematografica che se mette in scena un piemontese o un veneto ne fa un gretto sfruttatore o un mona. Al di là del folklore - c’è da augurare ai leghisti che nessuno si presenti sotto il Colosseo con elmi cornuti; le telecamere non aspettano altro -, le paure e le rivendicazioni che saranno espresse domani a Roma meritano una risposta più seria delle solite battute.

27 febbraio 2015 | 07:41
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_febbraio_27/paure-che-sfilano-capitale-a74ce542-be49-11e4-abd1-822f1e0f1ed7.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Aprile 04, 2015, 11:32:03 am »

L’alternativa difficile

L’opposizione confortevole della piazzetta (rossa) di Landini
Il leader della Fiom: «Abbiamo più consenso del governo»

Di Aldo Cazzullo

Se questo è il popolo di Maurizio Landini, appare un po’ disunito, e non così invincibile. Intendiamoci: a Roma è accaduto un fatto politico di rilievo. La piazza - o meglio la «piazzetta» - rossa di ieri ha tenuto a battesimo un movimento che forse non diventerà un partito in senso tecnico, ma che si presenterà alle prossime elezioni politiche contro il Pd. Però l’opposizione di Landini da una parte e di Salvini dall’altra, per quanto virulenta a parole, nei fatti più che a una tenaglia pronta a stritolare il premier somiglia a due confortevoli guanciali tra cui riposare. La piazza della Fiom non era neppure lontana parente di quella di Cofferati, anzi non era neppure particolarmente tonica. Nessuno si aspettava la replica del Circo Massimo; ma colpisce constatare che il superamento ormai compiuto dell’articolo 18 non abbia provocato a sinistra la mobilitazione vista quando Berlusconi l’aveva solo proposto.

Nel frattempo è accaduto di tutto, la produzione industriale è crollata, il Paese si è impoverito, la vecchia classe dirigente della sinistra è stata messa ai margini. Renzi non è stato accettato da tutti, anzi molti nel Pd continuano a considerarlo un usurpatore che sta portando il partito verso una mutazione genetica; ma dietro le bandiere rosse non c’è per ora un vero movimento sociale di opposizione. Ci sono militanti vecchi e nuovi (l’età media era altina, più che nella piazza di Salvini del mese scorso) cui il nuovo corso non aggrada. Renzi non è certo un democristiano per toni e per modi, ma è un centrista: nel suo schema c’è spazio per una forza alla sua sinistra; se poi anche la destra a trazione leghista si radicalizza, tanto meglio, almeno per lui. In realtà all’Italia servirebbe un’opposizione credibile, che rappresentasse un’alternativa di governo; ma questo non è nelle possibilità e neanche nelle intenzioni di Landini (e forse neppure di Salvini).

Landini ha un progetto diverso: fare leva sul disagio sociale per rifondare la sinistra e restituire alla Fiom e ai movimenti una centralità da giocare su più tavoli; la conquista della Cgil, la competizione con Renzi - e con Marchionne -, l’apertura di una fase di elevata conflittualità. Ma non è di questo che il Paese ha bisogno. E non è questo che il Paese chiede in una fase in cui finalmente si rivede un po’ di sviluppo.

Lo schieramento di Landini può valere percentuali vicine a quelle della Rifondazione comunista di Bertinotti; ma non apre una stagione, non fa cadere un governo, non condiziona il futuro. I primi segnali di ripresa, le aziende anche grandi che tornano ad assumere, il timido riaffacciarsi della fiducia sono segnali che, se confermati, richiudono la «piazzetta rossa» nel perimetro della testimonianza.

29 marzo 2015 | 10:08
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_29/opposizione-confortevole-piazzetta-rossa-landini-0e4b4dae-d5e9-11e4-b0f7-93d578ddf348.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Aprile 16, 2015, 11:39:20 am »

Pisapia: «Milano è la vera capitale.
Se Renzi fallisce, fallisce anche il centrosinistra»
«Stimo molto Letta ma con l’attuale premier c’è un cambio di passo anche se non condivido l’abolizione dell’articolo 18 e i tagli agli enti locali»

Di Aldo Cazzullo

Giuliano Pisapia è a Palazzo Marino, sul tavolo il suo libro «Milano città aperta» che Rizzoli sta per pubblicare, sotto le finestre il brusio della folla del Salone del Mobile.
Sindaco, Milano è piena di cantieri e di stranieri, sta per cominciare l’Expo. Perché non si ricandida? E perché lo dice proprio adesso?
«È una decisione maturata da tempo. Ho sempre parlato di un impegno per cinque anni. E il 20 maggio ne faccio 66. In questo tempo è cresciuta una classe dirigente di giovani che ormai è pronta».
Chi vorrebbe come successore?
«Nomi non ne faccio, ma ne ho in mente diversi: in giunta, nel consiglio comunale, nei consigli di zona, in città. Dovranno essere le primarie a decidere».
Non è che il suo successore sarà Salvini?
«Lo escludo. Con un leghista alla Regione, Berlusconi non può accettare un candidato leghista pure in Comune. Salvini è abile a sfruttare le criticità. Ma la maggioranza dei milanesi condivide i valori di accoglienza che abbiamo praticato in questi anni».
Lei stesso riconosce il disagio sociale che l’immigrazione ha causato nelle periferie. Guardi che pure in centro è difficile fare due passi la sera senza essere fermati da decine di questuanti di ogni tipo.
«Prima era peggio. Certo, con la crisi la povertà è aumentata. Ma molti immigrati si integrano. Guardi il sito di Expo: la maggior parte dei lavoratori sono extracomunitari. Senza di loro l’Expo non si farebbe».
E l’ipotesi Berlusconi sindaco?
«Con il partito a pezzi e le aziende da salvare, escludo che si assuma per cinque anni un impegno gratificante ma durissimo come questo. In ogni caso, ho battuto Berlusconi due volte; potrei sempre farlo una terza».
Perché due volte?
«Nel 2011 era il capolista di Forza Italia. E poi, su un piano diverso, l’ho battuto in tribunale: ero parte civile al processo Mondadori; Previti condannato, lui prescritto ma obbligato al risarcimento».

Le primarie
Lei ha detto che i vertici romani del Pd vogliono distruggere il modello Milano, l’alleanza con Sel. Si riferiva a Renzi?
«È stata estrapolata una frase da un contesto in cui dicevo una cosa molto diversa: quasi tutti gli elettori del Pd vogliono una coalizione di centrosinistra, non l’alleanza con l’Ncd. Capisco che i numeri in Parlamento per ora la impongano. Non so cosa abbia in mente Renzi per il futuro».
Qualche frizione con il premier lei l’ha avuta.
«Gli riconosco coraggio e determinazione. Stimo profondamente Enrico Letta, ma va riconosciuto che Renzi ha avuto un cambio di passo. Mi è anche simpatico. Se fallisce, fallisce il centrosinistra, e rischia di non ripartire il Paese. Però non condivido l’abolizione dell’articolo 18. E considero sbagliati i tagli a oltranza agli enti locali, che con le piccole opere possono creare posti di lavoro».
Nel libro critica pure lo stile del premier, il modo in cui si è rivolto ai sindacati e ai magistrati.
«Siamo profondamente diversi. Frasi come “Ce ne faremo una ragione” o “brr che paura” io non le avrei mai dette. A volte la sua determinazione sconfina nell’irrisione. È un errore cercare divisioni anche quando non è necessario. Se Renzi unisse di più, avrebbe più forza».
Dal suo libro non esce benissimo Stefano Boeri...
«Ha fatto tutto lui. Dopo la vittoria mi chiese di fare il vicesindaco; ma spettava a una donna. Allora voleva fare il prosindaco; ma il prosindaco non esiste. Allora l’assessore all’Urbanistica; ma come poteva un architetto che aveva lavorato con la Moratti e per società che stavano costruendo mezza Milano fare l’assessore all’urbanistica? Così è andato alla Cultura».
E avete rotto.
«Aveva grandi idee ma ne trascurava la realizzazione. C’era un problema di sicurezza per un concerto all’ex Ansaldo, ma lui non se ne occupò; gli altri assessori dovettero stare lì tutta la notte a vigilare con la polizia locale».
Cosa si aspetta dall’Expo?
«Si può davvero arrivare a venti milioni di visitatori. Mi interessano le infrastrutture che rimarranno. E i temi: fame nel mondo, sprechi alimentari, sana alimentazione; alla cascina Triulza ce ne occuperemo con le varie associazioni anche dopo l’Expo. Con Slow Food noi della giunta e altri volontari ospiteremo nelle nostre case oltre mille pescatori e campesinos, altri saranno accolti dalla Curia».
Teme contestazioni?
«Massima apertura a chi non è d’accordo; ma non si possono permettere disordini e violenze» .
Lo sa che fioriscono allarmi terrorismo e anche leggende metropolitane?
«È arrivata pure a me la mail con la storia dell’arabo che perde il portafoglio e come ricompensa avverte la donna che glielo riporta: “Non prenda la linea rossa della metro il primo maggio...”. Non ci ho dormito la notte».
E poi?
«Ho ricostruito la catena: una mia amica mi ha detto di averlo saputo da una persona di cui si fida, la quale a sua volta... Alla fine ho scoperto che veniva da un gruppo di ragazzi che hanno fatto uno scherzo. E che la stessa leggenda è stata diffusa alla vigilia delle Olimpiadi di Londra e di altri grandi eventi. Questo ovviamente non significa che si possa abbassare la guardia. Ma almeno quell’allarme, che in un primo tempo mi sembrava verosimile, è stato chiarito».
Lei scrive che Milano è la vera capitale d’Italia. E Roma?
«Non è una mia opinione: lo dicono tutte le statistiche. Milano è prima per car e byke sharing, per co-working, per start-up. Per i diritti: registro delle unioni civili, testamento biologico, fecondazione eterologa. Per la raccolta differenziata è la prima in Europa. La ripresa parte da qui. Lo ripeto: Milano oggi è la vera capitale d’Italia. E sta tornando a essere la capitale morale» .
E i ladri dell’Expo?
«L’amministrazione non è stata toccata. Gli intercettati parlano di me come di un rompiballe» .
Una capitale in vendita. Gli sceicchi comprano i grattacieli di Porta Nuova. Che effetto le fa?
«Mica li possono portare via. So per certo che molti grandi gruppi attendono di vedere se l’Expo avrà successo per fare investimenti a Milano. Sono già arrivate e arriveranno le sedi di diverse multinazionali. A tutte chiederemo quel che abbiamo chiesto per Porta Nuova: fare anche qualcosa per la città. Prima c’era Ligresti che comandava. Ora è cambiato tutto. Per me gli immobiliaristi non sono nemici; sono interlocutori con cui si può collaborare».
Avrebbe mai detto, anche solo vent’anni fa, che l’Inter sarebbe diventata indonesiana e il Milan forse cinese?
«Mai. Però ho incontrato Thohir tre volte. È davvero innamorato della squadra. Da interista mi fa piacere».
Quindi non tifa per il ritorno di Moratti?
«Moratti è un mio amico. E per Milano Moratti è ancora l’Inter».
Con il cardinale Scola come si è trovato?
«All’inizio mi ha confuso con mio fratello Guido, che era suo compagno nella Gioventù studentesca di don Giussani... Abbiamo lavorato molto bene insieme. L’ultima volta si è rivolto “ai credenti, ai non credenti, e ai credenti che credono di essere non credenti”, guardandomi negli occhi».
Cioè Scola la sta convertendo?
«No. Mi sono formato negli scout, i valori cattolici sono i miei valori. Ma non ho la fede. Sono molto affascinato dal buddismo. L’incontro con il Dalai Lama è stato tra i più belli, accanto a quelli con papa Francesco e con i bambini delle scuole. Vado spesso a mangiare in mensa con loro. Arrivo all’ultimo momento, senza avvisare. Come quando da parlamentare andavo a trovare i detenuti...».
Il ministro Orlando vuole chiudere San Vittore. E lei?
«Io sono contrario. Finché la condizione dei reclusi non migliorerà, finché le carceri saranno piene di presunti innocenti, l’attenzione della città deve restare alta. E poi le visite di parenti, avvocati e magistrati sarebbero più scomode».
Lei scrive che non sapeva neppure come votasse la sua segretaria. Possibile?
«Per le nomine non ho mai guardato all’appartenenza ma alla competenza. Dopo aver letto il libro, mi ha confidato che è più a destra».

15 aprile 2015 | 07:31
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DA - http://milano.corriere.it/notizie/politica/15_aprile_15/pisapia-renzi-intervista-centrosinistra-articolo-18-84f83abe-e32e-11e4-8e3e-4cd376ffaba3.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Aprile 20, 2015, 05:56:06 pm »

Il mistero
La Sindone e l’Italia che vuole ripartire
La verità sulla Sindone non esiste, ma è un simbolo dell’identità locale e nazionale. Anche per l’Italia uscita sfibrata, ma non vinta, dalla crisi

Di Aldo Cazzullo

Un milione di prenotazioni per vedere il lenzuolo che molti storici considerano un falso medievale è un fatto che va oltre la fede. È la conferma di un’Italia che dopo gli anni della decostruzione e della dissacrazione avverte il bisogno di ricostruire, che dopo il tempo del lamento e del disgusto di sé vuole sentirsi comunità e ritrovare le radici. La verità sulla Sindone non esiste. Perché un dubbio e di conseguenza un mistero resisterà sempre. Ma non è questo il dato che conta nell’ostensione di Torino. Negli stessi giorni in cui il mondo guarda all’Expo, e le élites internazionali si portano alla Biennale di Venezia, un popolo si mette in viaggio verso l’altra capitale del Nord, per celebrare un rito religioso ma anche identitario. E la Sindone è senz’altro un elemento dell’identità locale e nazionale. Non a caso fu traslata a Torino quando i Savoia francofoni fecero la scelta dell’Italia.


Le ostensioni servivano al prestigio della dinastia, il lenzuolo appariva sul balcone del Palazzo a celebrare matrimoni e nascite. Poi, nel clima laico di Cavour e del Risorgimento, il fascino della cappella che il Guarini pensò come una metafora della morte e della resurrezione, con i marmi scuri in basso e la luce delle finestre in alto, apparve attenuato: a Torino si faceva e si pensava ad altro. Ma il mistero fu rilanciato quando per la prima volta un uomo, Secondo Pia, fotografò la Sindone: ne apparve un’immagine straordinaria, quasi un negativo fotografico, in cui molti contemporanei lessero il volto di Dio.

L’ostensione del 1978, in una Torino scristianizzata all’apice dell’era industriale e scossa dalla violenza politica, fu un inaspettato e clamoroso successo (avevo dodici anni e ricordo un’interminabile coda sotto il sole, un’Italia popolare di rosari e veli neri, un clima di grande suggestione collettiva). Seguirono la commissione d’inchiesta e le conclusioni negative tratte dal cardinale Ballestrero, che «maneggiava la Sindone come uno strofinaccio da cucina» come annotò indignato Vittorio Messori. Ma poi venne Wojtyla, che non la considerava «un segno» come i predecessori, aveva l’assoluta certezza che quel lino avesse avvolto il corpo di Cristo e quell’immagine fosse il riflesso dell’energia della resurrezione.

Ora - il 21 giugno - verrà Francesco, e con ogni probabilità non farà ipotesi né valutazioni, si ritirerà in preghiera e dialogherà con i fedeli che hanno visto in lui una risposta all’emergenza dei tempi: la crisi economica, il disagio sociale, la sfiducia nel futuro, il difficile confronto con l’Islam. Temi che sono al centro del pontificato di Bergoglio - sociale più che dottrinario - e che torneranno nel Giubileo d’autunno a Roma.

Il modo stesso in cui la Sindone ha attraversato i secoli, sfuggendo a una serie di vicissitudini e di incendi - l’ultimo nella notte di venerdì 11 aprile 1997 - che sono stati letti anche come agguati di forze maligne, restituisce l’idea di un «simbolo identitario», come l’ha definito il sindaco Fassino, la cui lettura va oltre le indagini dei «sindonologi»: una strana scienza che mescola la medicina legale alla botanica alla numismatica ed è servita più a costruire carriere e fragili notorietà che a chiarire un enigma destinato a rimanere tale.

Per l’Italia uscita sfibrata ma non vinta dalla crisi, quel «simbolo identitario» e la grande attenzione che suscita può essere un segnale importante, non contrario ma complementare al significato religioso del pellegrinaggio.

E la Torino che si prepara ad accogliere i visitatori, a tre quarti d’ora di treno dalle folle dell’Expo, è una città profondamente cambiata rispetto a quella della grande ostensione del 1998 (2 milioni e 400 mila arrivi) segnata dalla visita di Giovanni Paolo II. Dopo essere uscita dall’era fordista, anche Torino come Milano sta andando oltre l’economia dei servizi per entrare - con il Politecnico, le fondazioni di arte contemporanea, i nuovi musei, le tecnologie d’avanguardia, i centri di ricerca - nell’economia della conoscenza. I pellegrini della Sindone non sono il Medioevo che ritorna; sono l’Italia d’inizio secolo che tenta di ritrovare se stessa.

19 aprile 2015 | 12:09
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_aprile_19/sindone-simbolo-ripresa-italia-crisi-e70135d6-e67a-11e4-aaf9-ce581604be76.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:38:00 am »

Liste regionali
Le periferie dei partiti in polvere

Di Aldo Cazzullo

A l confronto del parco candidati alle prossime Amministrative, il campo di Agramante era coeso come una falange macedone. A sostegno di De Luca in Campania, per dire, ci sono gli amici di De Mita e quelli di Cosentino, i movimentisti di sinistra e il consigliere regionale di Storace, già pellegrino sulla tomba del Duce; se si considera che il candidato governatore rischia di essere sospeso appena eletto, si ha una vaga idea del disordine che regna nelle periferie del Pd; per tacere dello scontro in Liguria, dove la sinistra interna segue la corsa di Pastorino contro la renziana Paita come l’avanguardia del vagheggiato nuovo partito. Va detto però che a destra le divisioni sono ancora più profonde: dalla Puglia, dove Fitto fa le sue prove di scissione, al Veneto, dove Tosi già candidato premier della Lega si ritrova guastatore centrista.

Il risultato è la polverizzazione dei partiti. Ed è la crisi del bipolarismo, finora definito da Berlusconi: prima si stava con o contro di lui; adesso si gioca tutti contro tutti, o tutti con il giocatore che ha la palla, come nelle partite da bambini. Il disgelo postberlusconiano ha creato una situazione liquida, in cui i naufraghi trasmigrano verso il vincitore annunciato, pronti a rimettersi in viaggio verso altri lidi alla prima crisi o sentenza del Tar. Un curioso paradosso, proprio ora che la nuova legge elettorale rafforza il ruolo dei partiti, conferendo il premio di maggioranza alla lista più votata senza consentire apparentamenti al ballottaggio, e affidando in larga parte la scelta dei deputati ancora alle segreterie romane. Pure la leadership di Renzi, che si impone con le buone o con le cattive in Parlamento, in periferia arriva diluita, e non riesce a impedire pasticci come l’industriale berlusconiano che vince le primarie del Pd ad Agrigento o il ritorno a Enna di Miro Crisafulli, che di sé disse: «Se fossi di Forza Italia sarei già a Guantánamo».

Il punto è che nessuna norma e nessun leader può trasformare la politica italiana in ciò che dovrebbe essere, e non è: la rappresentanza degli interessi e dei territori, attraverso la selezione dei migliori, che si mettono al servizio della comunità. Oggi, tranne rare eccezioni, l’ultima cosa che viene in mente a un imprenditore di successo, a un giovane di talento, a un intellettuale dal curriculum internazionale è fare politica, occuparsi della cosa pubblica, e appunto candidarsi alle elezioni. I partiti non hanno mai avuto - per legge - tanto potere, e non sono mai stati - nella realtà - così poveri: di iscritti, di sezioni, di giornali; di ideologie (il che può anche non essere grave), e soprattutto di idee (il che è gravissimo). Renzi ogni tanto parla di una legge che attui la Carta costituzionale e garantisca il «metodo democratico» della partecipazione previsto dall’articolo 49. La sua minoranza interna obietta che non è certo Renzi il più indicato a guidare una simile riforma. Ma anziché battersi per il ritorno delle preferenze, permeabili alle clientele quando non alle mafie, il Pd nelle sue varie componenti e quel che rimane del centrodestra avrebbero l’interesse a disciplinare le primarie per legge, e a mettere un po’ d’ordine in una politica dove lontano dal centro del potere nessuno sembra rappresentare altri che non se stesso.

4 maggio 2015 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_04/periferie-partiti-polvere-368f0638-f21e-11e4-88c6-c1035416d2ba.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Maggio 19, 2015, 09:29:59 am »

LA GIORNATA CONTRO L’OMOFOBIA

Un confronto davvero libero sui nuovi diritti civili
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente senza una legge che riconosca le unioni civili. Ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere, il tempo è finalmente propizio per costruire una «grande società»

Di Aldo Cazzullo
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge che riconosca le unioni civili. E sulla cittadinanza conserva norme concepite quando era un Paese di emigranti, e non un Paese — anche — di immigrati.

Il richiamo del presidente Sergio Mattarella contro l’omofobia e «ogni discriminazione» è arrivato nel momento opportuno. Sarebbe sbagliato attribuire al presidente parole che non ha detto e intenzioni che non ha manifestato. Il Quirinale non interverrà nella definizione delle nuove regole che il Parlamento è chiamato a scrivere, per sanzionare crimini ma anche per riconoscere diritti.

Ma può avere un ruolo significativo, a maggior ragione perché sul Colle si è insediato un uomo di formazione cattolica; proprio ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere. Questo non significa ovviamente che la Chiesa sia pronta a riconoscere le coppie di fatto. Ma il clima non è più di scontro frontale. E il tempo è propizio per un confronto libero.

In molti, ricordando che le ultime elezioni politiche non hanno dato una maggioranza parlamentare né alla sinistra né alla destra, sostengono che in questa legislatura sia impossibile introdurre nuovi diritti civili. È vero il contrario. Proprio perché non esiste alle Camere un orientamento culturale e politico prevalente, questa è la stagione giusta per trovare un minimo comune denominatore, una maggioranza vasta che vada oltre gli schieramenti precostituiti e approvi norme destinate a durare, e non a essere spazzate via nella legislatura successiva. Già lo si è visto sul divorzio breve. Inoltre, le categorie storiche di destra e sinistra, già logore di loro, in questo campo aiutano poco a capire; non a caso il matrimonio omosessuale con diritto di adozione è rimasto in vigore nella Spagna governata dai popolari e nell’Inghilterra conservatrice.

In Italia un simile cambiamento non troverebbe una maggioranza in Parlamento, e probabilmente neppure un ampio consenso nella società. Però la discussione deve essere aperta e rispettosa delle varie culture e sensibilità. Il dissenso non può essere demonizzato. Chi difende le proprie idee non può essere tacciato di omofobia, ma neppure di libertinaggio. È giusto discutere di tutto. Ad esempio le parole di Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono state irrise, ma indicavano una questione su cui è lecito interrogarsi: oggi una coppia omosessuale o una donna sola possono andare all’estero e avere un figlio grazie a ovuli donati (o comprati) e uteri in affitto; ma una coppia omosessuale o una donna sola non possono andare in un orfanotrofio italiano ad adottare un bambino.

La discussione però dura da tempo, e non può essere infinita. Prima della fine della legislatura si dovrà trovare un accordo, diciamo pure un compromesso, parola di cui non si deve avere paura, perché non rappresenta il tradimento di un ideale ma la conquista di un terreno comune; che dovrebbe allargarsi anche al tema cruciale del fine vita. Il governo Renzi fa bene a rivendicare una funzione propulsiva, ma dovrà evitare forzature. Anche a proposito della nuova legge sulla cittadinanza. Oggi il figlio di italiani è italiano anche se non vive e non vivrà mai nel nostro Paese: potrà ad esempio contribuire a decidere come spendere tasse che non paga. Invece il figlio di stranieri nato in Italia non è italiano e non lo diventa per troppo tempo: questo anacronismo genera estraneità e irresponsabilità; è difficile per i nuovi italiani riconoscersi in una comunità di valori da cui si viene esclusi. Siamo un Paese troppo permeabile per introdurre lo ius soli. La fase storica impone rigore e serietà, compenetrazione di diritti e di doveri. Ma è possibile fin da ora legare la cittadinanza al completamento di un ciclo di studi: deve essere la scuola dell’obbligo, oggi troppo spesso evasa anche dai figli di italiani, a trasmettere la lingua e i princìpi — a cominciare dall’uguaglianza tra l’uomo e la donna — conquistati con il travaglio di generazioni, che non vanno dispersi ma diffusi.

È una «grande società» quella che possiamo costruire, in cui nessuno verrà discriminato per i suoi orientamenti sessuali e per il colore della sua pelle. L’occasione è adesso.

18 maggio 2015 | 10:40
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_18/confronto-davvero-libero-nuovi-diritti-civili-b47b188a-fd2b-11e4-b490-15c8b7164398.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Giugno 02, 2015, 12:03:35 pm »

Regionali 2015, L’analisi del voto
Il primo stop e una lezione per Renzi
Il renzismo non è finito ma il segretario del Pd deve ricucire con la sua minoranza interna e concedere qualcosa. Per esempio sulla riforma del Senato

Di Aldo Cazzullo

E’ la prima battuta d’arresto per Matteo Renzi da quando ha conquistato prima la guida del partito, poi Palazzo Chigi e quindi il 40,8% alle Europee. Se si votasse oggi per le politiche, il Pd non vincerebbe al primo turno. E andrebbe al ballottaggio certo da favorito, ma senza grandi riserve di voti cui attingere.

Le incrinature sono molte. Il problema non sono tanto le percentuali, difficili da paragonare con quelle del 2014. Ma dura è la botta in Umbria, tenuta per un soffio. E durissima in Liguria, dove i fuoriusciti del Pd fanno perdere la Paita. In Veneto la candidata renziana Moretti è doppiata da Zaia. In Campania Renzi ha adottato De Luca negli ultimi giorni, dopo averlo a lungo subìto. In Toscana vince il suo nemico storico Rossi, con cui si è riconciliato. In Puglia trionfa Emiliano, evitato dal premier in campagna elettorale, e il Pd ha percentuali modeste. Nelle Marche il risultato più rilevante è la penosa figura di Spacca, “governatore” del centrosinistra che ha provato a farsi rieleggere con il centrodestra, ed è arrivato quarto.

Questo non significa affatto che il renzismo sia finito, e neppure che sia in crisi. Renzi ha ancora in mano il pallino della politica italiana. E’ chiaro però che ha commesso errori. E che deve giocare la partita in modo diverso. Lo schema Renzi-contro-tutti non funziona. Il Pd può andare da solo, ma deve essere unito. A maggior ragione ora che Berlusconi vede premiata la linea dell’opposizione, il premier deve ricucire con la sua minoranza interna, che non è composta solo da una nomenklatura di rottamati; ha ancora un seguito nel Paese, in particolare là dove la sinistra è radicata. Ora Renzi dovrà cedere qualcosa; ad esempio sulla riforma del Senato, che con ogni probabilità tornerà a essere elettivo.

Ma il problema di Renzi non è solo la coesione interna al partito. E’ la squadra di governo, che non è all’altezza della sua grande ambizione di cambiare l’Italia. Non solo. Il presidente del Consiglio deve interrogarsi sul suo rapporto con gli italiani. Finora ha cercato di rianimare un Paese sfiduciato, di cattivo umore, che aveva perso la fiducia in se stesso. Qualche risultato si comincia a vedere. Ma Renzi ha anche iniziato a scontrarsi con le resistenze delle corporazioni, dei dipendenti pubblici, dei sindacati, degli insegnanti. E non ha ancora inciso il vero bubbone italiano: l’evasione fiscale, l’economia illegale e criminale, l’illegalità diffusa.

Per realizzare il suo progetto, Renzi ha bisogno di suscitare dietro di sé un movimento popolare autentico. Deve mobilitare energie, coinvolgere i giovani e i delusi dalla politica, parlare di più con i cittadini, e ascoltarli. Renzi ha sempre giocato a tutto campo, ha cercato i voti di Berlusconi, ha tentato di attrarre a sé la vasta area dell’antipolitica. Ma stavolta non ci è riuscito. L’astensione, che non è un buon segnale per nessuno, non l’ha aiutato (era proprio il caso di fissare il voto amministrativo durante il “ponte” più lungo dell’anno?). Il favorito naturale per le prossime politiche resta lui. Non dovrà però dare nulla per scontato.

I Cinque Stelle sono andati molto bene. Candidati sconosciuti hanno superato il 20%. Fino a quando ci saranno consiglieri regionali che ricevono diecimila euro al mese di vitalizio, fino a quando i parlamentari continueranno ad assegnarsi l’un l’altro indennità e prebende, ci sarà sempre benzina nel motore di Grillo. C’è un voto grillino irriducibile, antisistema, velleitario, che sogna di dare mille euro al mese a tutti in cambio di nulla. Ma c’è anche un voto civico, indignato più che rassegnato, portatore di una forte spinta al rinnovamento, che non si riconosce più – o non ancora – nei partiti. Il centrodestra va meno peggio di quanto si pensasse. Dove è unito, come in Liguria e in Umbria, ha un buon risultato, oltretutto con due moderati come Toti che parla come l’orsetto Bubu e come il pacifico sindaco di Assisi. Ma un po’ dappertutto il primo partito del centrodestra è la Lega. E alle politiche sarà difficile se non impossibile costruire un listone che tenga insieme tutti, da Salvini ad Alfano, da Berlusconi alla Meloni. Oggi Salvini sarebbe il candidato premier più forte per arrivare al ballottaggio. Ma al ballottaggio sarebbe il candidato più debole. Il leader meglio piazzato resta Renzi. Ma dovrà fare meglio di così.

1 giugno 2015 | 02:20
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_01/regionali-2015-analisi-voto-cazzullo-9c68a372-07f1-11e5-811d-00d7b670a5d4.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Giugno 05, 2015, 11:09:04 pm »

Prodi: «Dal caos greco al voto anti-Ue, Europa a rischio disgregazione»
«Renzi? Non c’è una politica alternativa a quella tedesca. Un errore isolare Putin»

Di Aldo Cazzullo

«È un lunedì nero per l’Europa».
Romano Prodi, si riferisce al precipitare della crisi greca?
«Mi riferisco alla Grecia, e non solo. In Spagna crollano i partiti. Francia e Inghilterra si sono chiamate fuori dall’accordo sugli immigrati. Ma la notizia peggiore è il voto polacco» .
Ha vinto il candidato antieuropeo: Andrzej Duda.
«Un voto straordinario: in negativo, s’intende. Nei sondaggi Duda era testa a testa con il candidato di Tusk, Bronislaw Komorowsky. Invece ha vinto a valanga, grazie ai voti della Polonia rurale. E questo è un segno inquietante. La Polonia è il Paese che ha performato meglio in questi anni, che ha ricevuto più aiuti dall’Europa. È la sesta economia dell’Unione. Ne esprime il presidente, Donald Tusk. Ma l’uomo di Tusk ha perso. E ha vinto l’uomo di Kaczynski. Con una linea portatrice di tensioni, perché fortemente antieuropea. Antitedesca. E antirussa».
Lei è accusato di essere un po’ troppo morbido con i russi. In particolare con Putin.
«Duro o morbido non sono concetti politici. Puoi essere duro se ti conviene, o morbido se ti conviene; non puoi fare il duro se te ne vengono solo danni. Isolare la Russia è un danno. Il problema è avere chiara l’idea di dove devi arrivare. Se vuoi che l’Ucraina non sia membro della Nato e dell’Ue, ma sia un Paese amico dell’Europa e un ponte con la Russia, devi avere una politica coerente con questo obiettivo. Se l’obiettivo è portare l’Ucraina nella Nato, allora crei tensioni irreversibili».
In Spagna invece vincono movimenti civici. Non è detto sia un segno negativo.
«È vero. Lì è in corso una rivoluzione politica, contro i vecchi partiti più che contro l’Europa. Il governo popolare è obbediente alla linea tedesca; e il popolo gli si rivolta contro, a cominciare dalla grandi metropoli, che danno il tono al Paese. Ma sono davvero troppi in Europa i segnali di disgregazione; non da ultimo il referendum britannico, lo spettro dell’uscita di Londra. E se si leva un vento di disgregazione, non lo ferma nessuno».
Il vento soffia da Atene.
«Tanto tuonò che piovve. È ormai chiaro che la Grecia tanti soldi da pagare non li ha. Lo sapevano tutti. Il 25% dei greci è disoccupato, il reddito è crollato molto più di quanto si attendessero i fautori dell’austerity. La Grecia non ha lo sfogo dell’export che ha l’Italia, la Grecia esporta meno della provincia di Reggio Emilia; vive di noli marittimi, un po’ di cemento, un po’ di turismo; se crolla il reddito interno, crolla tutto. È stato un braccio di ferro in cui ognuno ha pensato che l’altro cedesse; invece per salvarsi ognuno dovrebbe cedere qualcosa. Se la Germania fosse intervenuta all’inizio della crisi, ce la saremmo cavata con 30-40 miliardi; oggi i costi sono dieci volte di più».
Tsipras e Varoufakis non hanno colpe?
«I greci hanno mostrato una sbruffoneria che ha mal disposto i negoziatori. Ho notato un’irritazione progressiva nei loro confronti, man mano che usavano parole violente. Tirare fuori il nazismo non ha aiutato. Schaeuble non lo puoi prendere in giro. Purtroppo lui può prendere in giro te, perché è forte. Ma sentire i soliti pregiudizi sulla pigrizia mediterranea è un altro segno di disgregazione».
Alla fine la Grecia uscirà dall’euro?
«Siamo alla canna del gas. Ma c’è ancora lo spazio per un accordo. A due condizioni: che sia chiaro; e che sia subito. Non è più possibile un altro rinvio. Si può ancora arrivare a un mezzo default, con la Grecia che ottiene l’allungamento dei termini e la ristrutturazione del debito, che non potrà essere rimborsato per intero, ma in cambio accede ad alcune richieste: neppure le promesse elettorali di Tsipras potranno essere mantenute per intero» .
Se salta la Grecia, si sente dire, la prossima è l’Italia. C’è un rischio contagio, come paventa ad esempio Luigi Zingales?
«Non ci sono le condizioni oggettive per il contagio. Il bilancio italiano è sotto controllo, i tassi sono bassi, si intravede la ripresa, sia pure debole. Zingales ipotizza un panico, con i capitali che fuggono. E la miccia del panico è l’incertezza. La speculazione si nutre di incertezza. Nessuno specula su un Paese se sa già che non viene abbandonato dagli altri».
Rispetto al 2011, abbiamo Draghi e il quantitative easing.
«E’ vero: sul versante finanziario abbiamo eretto una difesa. Ma sul versante delle decisioni politiche siamo sguarniti come e peggio di prima».
Nel libro scritto per Laterza con Marco Damilano, “Missione incompiuta”, lei sostiene che proseguendo su questa strada l’Europa andrà a pezzi. Nel frattempo abbiamo fatto altri passi sulla strada sbagliata?
«Sì. L’Europa non ha più politica, né idee; ha solo regole, aritmetica. Quando definivo “stupido” il patto di stabilità, sapevo che si sarebbe arrivati a questo punto. Non si governa con l’aritmetica. Junker ha annunciato il suo piano di investimenti nove mesi fa. Il tempo in cui nasce un bambino. Ma non si è ancora visto nulla» .
La Mogherini come si muove?
«Conosce i dossier e si muove bene, ma può fare poco: perché il centro del potere si è spostato dalla Commissione agli Stati, in particolare alla Germania».
Allora l’Europa è davvero alla canna del gas?
«Ho fiducia in un fatto: ogni volta che l’Europa è arrivata sull’orlo del baratro, ha avuto un colpo di reni, uno scatto di nervi. Quando si capisce che è in gioco tutto, scatta un allarme collettivo».
La Merkel ha la statura per imporre la svolta?
«Questo lo vedremo. Di sicuro ne ha la forza. La Germania non può prendersi la responsabilità storica che l’Europa si slabbri».
Renzi come si sta muovendo?
«Di richiami alla solidarietà europea ne ha fatti, ma non si vede una politica alternativa a quella di Berlino. Eravamo un’Unione di minoranze; ora siamo un’Europa a una dimensione, quella tedesca. Ho sperato a lungo che Francia, Spagna e Italia trovassero una linea comune. Non ci sono riusciti, perché ogni Paese credeva di essere più bravo dell’altro; in particolare la Spagna e la Francia pensavano di essere più brave dell’Italia. Il voltafaccia di Parigi sugli immigrati è clamoroso: l’Europa ha annunciato un accordo, e l’ha disatteso sei giorni dopo. Almeno Cameron ci ha presi in giro fin da subito: ha offerto le sue navi per il salvataggio dei profughi, a patto che restassero tutti in Italia».
Dobbiamo prepararci a un intervento contro l’Isis?
«No, no, no. E’ proprio quello che l’Isis vuole: attirare soldati occidentali nella guerra civile islamica, per farne un bersaglio e rinfocolare la popolazione. Se poi sono soldati italiani, di un’ex potenza coloniale, meglio ancora per l’Isis, e peggio ancora per noi».
Allora dobbiamo abbandonare la Libia ai tagliagole?
«Il fatto che in Libia ci siano più governi dipende soprattutto dai governi stranieri che li appoggiano. Il governo di Tripoli si regge su Turchia e Qatar, quello di Tobruk su Arabia Saudita ed Egitto; che a loro volta dipendono dagli Stati Uniti, dalla Russia e indirettamente dalla Cina. Se le grandi potenze trovano un accordo, l’Isis finisce in un giorno. Se le grande potenze usano il Medio Oriente per il loro grande gioco, l’Isis prospererà» .

26 maggio 2015 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_26/prodi-europa-rischi-c572bc04-036d-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:29:26 pm »

Grande Guerra
Pietà per i fucilati innocenti non significa retorica pacifista
Se i parlamentari hanno votato all’unanimità a favore della riabilitazione di centinaia di soldati vittime di una disciplina eccessiva, ciò non vuol dire disconoscere i meriti di coloro che resistettero sul Piave a costo della vita

Di Aldo Cazzullo

Nel marzo 1917 un reggimento della brigata Ravenna protesta per una licenza promessa più volte e sempre negata. Viene sparato qualche colpo in aria, ma l’ordine è ristabilito con facilità. Il comandante della divisione si porta sul posto con i carabinieri. Non trova nessuno: il reggimento è già in marcia verso il fronte. Vengono scovati due fanti che dormono nelle baracche: l’ordine è di fucilarli. Uno piange disperato: «Ma perché, cosa ho fatto che mi volete fucilare? Ho sette figli!». I carabinieri, impietositi, esitano. Il comandante della divisione grida: «Fate finire questo cicaleccio! Siano fucilati e subito; gli ordini sono ordini».

Il castigo è solo agli inizi. Venti soldati vengono estratti a sorte, e cinque sono scelti per essere fucilati. Il plotone d’esecuzione trema, occorrono sei salve per uccidere tutti. Il comando di divisione valuta che non sia abbastanza: altri vengono mandati sotto processo. Tra loro un caporale che si è presentato volontario nel 1915 e ha già combattuto in Libia. Condannato a morte con altri commilitoni, rifiuta di farsi bendare e dice al plotone d’esecuzione: «Mirate giusto, mirate al petto, e servite sempre il vostro Paese. Viva l’Italia!». Il comandante di brigata, indignato, commenta che «bisognava promuoverlo, non fucilarlo». Ma il comandante del corpo d’armata vuole a sua volta guadagnarsi qualche merito agli occhi di Cadorna, e ordina di fucilare altri diciotto uomini. La brigata è terrorizzata. In tutto ha visto fucilare 29 commilitoni per una protesta subito rientrata senza violenze.

In linea di principio, quel che ha scritto sul Corriere del 27 maggio Angelo Panebianco è ineccepibile: uno Stato non può mettere i disertori sullo stesso piano di coloro che morirono combattendo. Ma nella Grande Guerra lo Stato italiano non fece fucilare soltanto disertori. Tra i decimati non ci furono solo «coloro che si ribellarono agli ordini rifiutandosi di combattere». La grande maggioranza delle esecuzioni sommarie avvenne sorteggiando uomini che avevano come unica colpa l’essere inquadrati in un reparto che a giudizio dei generali non era stato abbastanza combattivo.

Non si veniva puniti per le proprie responsabilità; c’era quasi sempre l’elemento dell’«alea», della sorte. Vennero fucilati uomini che neppure erano presenti nel giorno dell’assalto sfortunato o dell’accenno di ribellione. Violazioni minori venivano sanzionate legando il colpevole a un palo, in piedi sulla trincea, esposto al fuoco nemico; alcuni impazzirono; gli altri non furono comunque più gli stessi, piegati dall’umiliazione. Era lo stesso Stato che — unico tra tutti quelli coinvolti nella guerra — vietava alle famiglie di mandare viveri ai prigionieri, considerati alla stregua di disertori: «Imboscati d’Oltralpe» li chiamava D’Annunzio. Il risultato fu che centomila prigionieri italiani morirono di fame nei campi austriaci. Non è forse da comportamenti come questi che nasce, o si approfondisce, la distanza tra lo Stato e i suoi cittadini? Non fu anche il disprezzo coltivato e ostentato per le loro vite a fiaccare i soldati? Il 15 agosto 1917 in una trincea sopra Caporetto viene trovato un foglio con una poesia satirica, che dice più o meno: se non ci rimpiazzano, ci arrendiamo. Il responsabile non si trova. Lo scritto viene mostrato al generale Cavaciocchi, che ordina una punizione esemplare: vengono estratti a sorte quattro uomini e fucilati. Mancano poco più di due mesi alla rotta. Non a caso uno dei primi provvedimenti del nuovo comandante, Armando Diaz, sarà ripristinare un trattamento più umano per i soldati, ricostruire il rapporto tra lo Stato e il suo stesso esercito.

Panebianco ha ragione quando scrive che l’Italia di oggi non è pronta politicamente e moralmente a fronteggiare le responsabilità sullo scacchiere mediterraneo che le vengono dalla geografia e dalla storia. Ed è probabile che non siano pronti neppure il governo e il Parlamento. Ma se i parlamentari hanno votato per una volta all’unanimità un gesto di pietas per centinaia di fucilati innocenti, questo non significa di per sé cedere alla retorica del pacifismo a oltranza, e neppure disconoscere i meriti di coloro che sul Piave resistettero a costo della vita; significa risanare, almeno per quanto è possibile oggi, una delle molte fratture nel rapporto tra l’Italia e gli italiani.

28 maggio 2015 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_28/pieta-fucilati-innocenti-non-significa-retorica-pacifista-ceb340c2-0507-11e5-ae02-fdb51684f1d6.shtml
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« Risposta #192 inserito:: Giugno 06, 2015, 05:32:15 pm »

L’EDITORIALE
La strategia dell’ariete
Il centrodestra si riscopre competitivo per il governo del Paese

Di Aldo Cazzullo

Quindi la destra italiana è tutt’altro che morta. Nell’ora del massimo disorientamento dei suoi leader, con Berlusconi che sbaglia comizio, Alfano che a Roma governa con Renzi e in tutte le Regioni si presenta contro di lui, Salvini che fa il pieno di voti su posizioni antieuro e antisistema, la destra supera il 60 per cento in Veneto, conquista la Liguria rossa, può conquistare Venezia per la prima volta dal 1993, è competitiva in Umbria e nella stessa Campania, perde nettamente solo là dove è divisa. Sia chiaro: una maggioranza politica e sociale, che nelle sue varie stagioni ha vinto quasi tutte le elezioni politiche dal ‘48 a oggi, non poteva essere evaporata o convertita in blocco al renzismo. Ma se nel momento di maggior debolezza - e con una fortissima astensione che tradizionalmente avvantaggia la sinistra - i risultati sono quelli visti domenica, allora il centrodestra è competitivo per il governo del Paese.

Renzi dovrebbe tenerne conto. Tramontato il patto del Nazareno, il Pd può provare a fare da solo, purché sia unito. L’uno contro tutti, all’evidenza, non ha pagato. La presenza di un nemico è consustanziale a Renzi, fa parte della sua natura competitiva e della strategia che l’ha portato a Palazzo Chigi. Ma scagliarsi nello stesso tempo contro la minoranza interna, i sindacati, i burocrati, la Rai, le banche, la corporazione degli insegnanti, quella dei dipendenti pubblici e via battagliando è servito solo a scontentare settori tradizionalmente vicini alla sinistra, non a prendere voti a destra. Per conquistare i moderati e i delusi non basta andare da Del Debbio o da Barbara D’Urso; occorre affrontare i nodi su cui il Paese aspetta risposte. Il taglio delle tasse. Il governo dell’immigrazione, grazie anche a una nuova politica europea. La sicurezza e la certezza della pena.

Sono temi che appartengono al bagaglio tradizionale del centrodestra. Il fatto che in passato Berlusconi non sia riuscito a coltivarli non esime Renzi dal provarci: al governo ora c’è lui. Ed essere al governo, nell’Europa continentale ancora percorsa dalla crisi, non è un vantaggio. Eppure, se si dovesse votare presto, il premier resterebbe il favorito: un conto è sostenere candidati più subìti che scelti, un altro è impegnarsi in prima persona. Anche perché l’opposizione ha un problema da risolvere.

Per arrivare al ballottaggio previsto dalla nuova legge elettorale, Forza Italia e Lega devono presentarsi nella stessa lista. E devono esprimere un leader comune. Oggi Salvini è il candidato più forte per battere Grillo al primo turno. Ma rischia di essere il candidato più debole al secondo turno, quando si deve conquistare il centro. O a destra matureranno altre personalità; oppure Salvini dovrà dimostrare di avere una cultura di governo compatibile con l’appartenenza all’Unione Europea. L’aliquota unica al 15% è uno slogan accattivante per quanto impossibile. La fuoriuscita dall’euro e la deportazione dei rom mobilitano l’elettorato più radicale; ma poi le elezioni, quelle vere, le vincono i miti come Toti e Zaia.

3 giugno 2015 | 07:52
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« Risposta #193 inserito:: Giugno 14, 2015, 04:15:10 pm »

Regionali 2015, L’analisi del voto
Il primo stop e una lezione per Renzi
Il renzismo non è finito ma il segretario del Pd deve ricucire con la sua minoranza interna e concedere qualcosa. Per esempio sulla riforma del Senato

Di Aldo Cazzullo

E’ la prima battuta d’arresto per Matteo Renzi da quando ha conquistato prima la guida del partito, poi Palazzo Chigi e quindi il 40,8% alle Europee. Se si votasse oggi per le politiche, il Pd non vincerebbe al primo turno. E andrebbe al ballottaggio certo da favorito, ma senza grandi riserve di voti cui attingere.

Le incrinature sono molte. Il problema non sono tanto le percentuali, difficili da paragonare con quelle del 2014. Ma dura è la botta in Umbria, tenuta per un soffio. E durissima in Liguria, dove i fuoriusciti del Pd fanno perdere la Paita. In Veneto la candidata renziana Moretti è doppiata da Zaia. In Campania Renzi ha adottato De Luca negli ultimi giorni, dopo averlo a lungo subìto. In Toscana vince il suo nemico storico Rossi, con cui si è riconciliato. In Puglia trionfa Emiliano, evitato dal premier in campagna elettorale, e il Pd ha percentuali modeste. Nelle Marche il risultato più rilevante è la penosa figura di Spacca, “governatore” del centrosinistra che ha provato a farsi rieleggere con il centrodestra, ed è arrivato quarto.

Questo non significa affatto che il renzismo sia finito, e neppure che sia in crisi. Renzi ha ancora in mano il pallino della politica italiana. E’ chiaro però che ha commesso errori. E che deve giocare la partita in modo diverso. Lo schema Renzi-contro-tutti non funziona. Il Pd può andare da solo, ma deve essere unito. A maggior ragione ora che Berlusconi vede premiata la linea dell’opposizione, il premier deve ricucire con la sua minoranza interna, che non è composta solo da una nomenklatura di rottamati; ha ancora un seguito nel Paese, in particolare là dove la sinistra è radicata. Ora Renzi dovrà cedere qualcosa; ad esempio sulla riforma del Senato, che con ogni probabilità tornerà a essere elettivo.

Ma il problema di Renzi non è solo la coesione interna al partito. E’ la squadra di governo, che non è all’altezza della sua grande ambizione di cambiare l’Italia. Non solo. Il presidente del Consiglio deve interrogarsi sul suo rapporto con gli italiani. Finora ha cercato di rianimare un Paese sfiduciato, di cattivo umore, che aveva perso la fiducia in se stesso. Qualche risultato si comincia a vedere. Ma Renzi ha anche iniziato a scontrarsi con le resistenze delle corporazioni, dei dipendenti pubblici, dei sindacati, degli insegnanti. E non ha ancora inciso il vero bubbone italiano: l’evasione fiscale, l’economia illegale e criminale, l’illegalità diffusa.

Per realizzare il suo progetto, Renzi ha bisogno di suscitare dietro di sé un movimento popolare autentico. Deve mobilitare energie, coinvolgere i giovani e i delusi dalla politica, parlare di più con i cittadini, e ascoltarli. Renzi ha sempre giocato a tutto campo, ha cercato i voti di Berlusconi, ha tentato di attrarre a sé la vasta area dell’antipolitica. Ma stavolta non ci è riuscito. L’astensione, che non è un buon segnale per nessuno, non l’ha aiutato (era proprio il caso di fissare il voto amministrativo durante il “ponte” più lungo dell’anno?). Il favorito naturale per le prossime politiche resta lui. Non dovrà però dare nulla per scontato.

I Cinque Stelle sono andati molto bene. Candidati sconosciuti hanno superato il 20%. Fino a quando ci saranno consiglieri regionali che ricevono diecimila euro al mese di vitalizio, fino a quando i parlamentari continueranno ad assegnarsi l’un l’altro indennità e prebende, ci sarà sempre benzina nel motore di Grillo. C’è un voto grillino irriducibile, antisistema, velleitario, che sogna di dare mille euro al mese a tutti in cambio di nulla. Ma c’è anche un voto civico, indignato più che rassegnato, portatore di una forte spinta al rinnovamento, che non si riconosce più – o non ancora – nei partiti. Il centrodestra va meno peggio di quanto si pensasse. Dove è unito, come in Liguria e in Umbria, ha un buon risultato, oltretutto con due moderati come Toti che parla come l’orsetto Bubu e come il pacifico sindaco di Assisi. Ma un po’ dappertutto il primo partito del centrodestra è la Lega. E alle politiche sarà difficile se non impossibile costruire un listone che tenga insieme tutti, da Salvini ad Alfano, da Berlusconi alla Meloni. Oggi Salvini sarebbe il candidato premier più forte per arrivare al ballottaggio. Ma al ballottaggio sarebbe il candidato più debole. Il leader meglio piazzato resta Renzi. Ma dovrà fare meglio di così.

1 giugno 2015 | 02:20
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_01/regionali-2015-analisi-voto-cazzullo-9c68a372-07f1-11e5-811d-00d7b670a5d4.shtml
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« Risposta #194 inserito:: Giugno 16, 2015, 11:40:59 pm »

LA GIORNATA CONTRO L’OMOFOBIA
Un confronto davvero libero sui nuovi diritti civili
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente senza una legge che riconosca le unioni civili.
Ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere, il tempo è finalmente propizio per costruire una «grande società»


Di Aldo Cazzullo
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge che riconosca le unioni civili. E sulla cittadinanza conserva norme concepite quando era un Paese di emigranti, e non un Paese — anche — di immigrati.

Il richiamo del presidente Sergio Mattarella contro l’omofobia e «ogni discriminazione» è arrivato nel momento opportuno. Sarebbe sbagliato attribuire al presidente parole che non ha detto e intenzioni che non ha manifestato. Il Quirinale non interverrà nella definizione delle nuove regole che il Parlamento è chiamato a scrivere, per sanzionare crimini ma anche per riconoscere diritti.

Ma può avere un ruolo significativo, a maggior ragione perché sul Colle si è insediato un uomo di formazione cattolica; proprio ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere. Questo non significa ovviamente che la Chiesa sia pronta a riconoscere le coppie di fatto. Ma il clima non è più di scontro frontale. E il tempo è propizio per un confronto libero.

In molti, ricordando che le ultime elezioni politiche non hanno dato una maggioranza parlamentare né alla sinistra né alla destra, sostengono che in questa legislatura sia impossibile introdurre nuovi diritti civili. È vero il contrario. Proprio perché non esiste alle Camere un orientamento culturale e politico prevalente, questa è la stagione giusta per trovare un minimo comune denominatore, una maggioranza vasta che vada oltre gli schieramenti precostituiti e approvi norme destinate a durare, e non a essere spazzate via nella legislatura successiva. Già lo si è visto sul divorzio breve. Inoltre, le categorie storiche di destra e sinistra, già logore di loro, in questo campo aiutano poco a capire; non a caso il matrimonio omosessuale con diritto di adozione è rimasto in vigore nella Spagna governata dai popolari e nell’Inghilterra conservatrice.

In Italia un simile cambiamento non troverebbe una maggioranza in Parlamento, e probabilmente neppure un ampio consenso nella società. Però la discussione deve essere aperta e rispettosa delle varie culture e sensibilità. Il dissenso non può essere demonizzato. Chi difende le proprie idee non può essere tacciato di omofobia, ma neppure di libertinaggio. È giusto discutere di tutto. Ad esempio le parole di Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono state irrise, ma indicavano una questione su cui è lecito interrogarsi: oggi una coppia omosessuale o una donna sola possono andare all’estero e avere un figlio grazie a ovuli donati (o comprati) e uteri in affitto; ma una coppia omosessuale o una donna sola non possono andare in un orfanotrofio italiano ad adottare un bambino.

La discussione però dura da tempo, e non può essere infinita. Prima della fine della legislatura si dovrà trovare un accordo, diciamo pure un compromesso, parola di cui non si deve avere paura, perché non rappresenta il tradimento di un ideale ma la conquista di un terreno comune; che dovrebbe allargarsi anche al tema cruciale del fine vita. Il governo Renzi fa bene a rivendicare una funzione propulsiva, ma dovrà evitare forzature. Anche a proposito della nuova legge sulla cittadinanza. Oggi il figlio di italiani è italiano anche se non vive e non vivrà mai nel nostro Paese: potrà ad esempio contribuire a decidere come spendere tasse che non paga. Invece il figlio di stranieri nato in Italia non è italiano e non lo diventa per troppo tempo: questo anacronismo genera estraneità e irresponsabilità; è difficile per i nuovi italiani riconoscersi in una comunità di valori da cui si viene esclusi. Siamo un Paese troppo permeabile per introdurre lo ius soli. La fase storica impone rigore e serietà, compenetrazione di diritti e di doveri. Ma è possibile fin da ora legare la cittadinanza al completamento di un ciclo di studi: deve essere la scuola dell’obbligo, oggi troppo spesso evasa anche dai figli di italiani, a trasmettere la lingua e i princìpi — a cominciare dall’uguaglianza tra l’uomo e la donna — conquistati con il travaglio di generazioni, che non vanno dispersi ma diffusi.

È una «grande società» quella che possiamo costruire, in cui nessuno verrà discriminato per i suoi orientamenti sessuali e per il colore della sua pelle. L’occasione è adesso.

18 maggio 2015 | 10:40
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_18/confronto-davvero-libero-nuovi-diritti-civili-b47b188a-fd2b-11e4-b490-15c8b7164398.shtml
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