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Autore Discussione: GIUSEPPE D'AVANZO  (Letto 103817 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Settembre 03, 2009, 05:17:19 pm »

IL COMMENTO

Mandante e utilizzatore

di GIUSEPPE D'AVANZO


Mai come oggi, i caratteri del "male italiano" sono il conformismo, l'obbedienza, l'inazione. Anche ora che un assassinio è stato commesso sotto i nostri occhi. Assassinio.

Con quale altra formula si può definire - in un mondo governato dalla comunicazione - la deliberata e brutale demolizione morale e professionale di Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, "reo" di prudentissimi rilievi allo stile di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto? Un funzionario addetto al rito distruttivo - ha la "livrea" di Brighella, dirige il Giornale del Padrone - "carica il fucile". Così dice. Il proiettile è un foglietto calunnioso, anonimo, privo di alcun valore. Si legge che Boffo è un "noto omossessuale". La diceria medial-poliziesca ripetuta tre o quattro volte assume presto la qualità di un prova storica. Non lo è. Non lo è mai stata. Brighella è un imbroglione e lo sa, ma è lì per sbrigare un lavoro sporco. Gli piace farlo. Se lo cucina, goloso. Colto con le mani nel sacco delle menzogne, parla ora d'altro: qualcuno gli crede perché sciocco o pavido. Non è Brighella a intimorire. È Quello-Che-Comanda-Tutto. È lui il mandante di quel delitto. È lui il responsabile politico. Contro Silvio Berlusconi ci sono quattro indizi. Già in numero di tre, si dice, valgono una prova.

Il primo indizio ha un carattere professionale. Qualsiasi editore che si fosse trovato tra i piedi un direttore che, con un indiscutibile falso, solleva uno scandalo che mette in imbarazzo Santa Sede, Conferenza episcopale, comunità cattoliche gli avrebbe chiesto una convincente spiegazione per l'infortunio professionale. In caso contrario, a casa. A maggior ragione se quell'editore è anche (come può accadere soltanto in Italia) un capo di governo che tiene in gran conto i rapporti con il Papa, i vescovi, l'opinione pubblica cattolica. Non è accaduto nulla di tutto questo. Gianni Letta ha dovuto minacciare le dimissioni per convincere Berlusconi a mettere giù due righe di "dissociazione". Può dissociarsi soltanto chi è associato e tuttavia nei giorni successivi, mentre il lento assassinio di Boffo continua, non si ode una parola di disagio dell'editore-premier a dimostrazione che il vincolo dell'associazione è ben più stretto di quella rituale presa di distanza: Berlusconi vuole far sapere Oltretevere che non ammette né critici né interlocutori né regole.

Il secondo indizio è documentale. Il 21 agosto, Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona a Brighella. Ne spiega così le ragioni ai suoi lettori: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove". Giordano non poteva essere più chiaro: mi è stato chiesto (e da chi, se non dall'editore-premier?) di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo. Che il Giornale sia diventato un'officina di veleni lo conferma un redattore in fuga. Luca Telese, sul suo blog, racconta di dossier e schifezze già pronte al Giornale contro "giornalisti o parenti di giornalisti di Repubblica". L'indiscrezione è confermata in Parlamento da "uomini vicini al premier" (la Stampa, 29 agosto)

Il terzo indizio è, diciamo così, politico e cronachistico. Berlusconi, incapace di governare nonostante i numeri in eccesso e un'opposizione fragile, ha "rinunciato al suo profilo riformatore" (Il Foglio, 31 agosto). Non ha più alcun "fine". Difende soltanto "i mezzi", il suo potere personale. Lo vuole assoluto. Conosce un unico metodo per tenerselo ben stretto nelle mani: un giornalismo pubblicitario e servile che consenta di annullare ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione fatta di emozioni e immagini composte e ricomposte secondo convenienza; un racconto che elimina ogni criterio di verità; un caleidoscopio mediatico che produce un'ignoranza delle cose utile a credere in un'Italia meravigliosa senza alcun grave problema, in pace con se stessa, governata da un "Superman". Per questa ragione Berlusconi ingaggia l'obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Per la stessa ragione, ma di segno opposto, liquida in un paio di mesi tre direttori di giornale. 2 dicembre 2008. Il Corriere della sera (direttore Paolo Mieli) e la Stampa (direttore Giulio Anselmi) rilevano il conflitto d'interessi dietro la decisione di inasprire l'Iva per Sky, diretto concorrente di Mediaset. Da Tirana, Berlusconi lancia il suo "editto": "I direttori di giornali, come la Stampa e il Corriere dovrebbero cambiare mestiere". 10 febbraio. Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix, non riesce a ottenere uno spazio informativo da Canale5 per raccontare la morte di Eluana Englaro. Protesta. L'Egoarca lo licenzia su due piedi. In aprile l'editto di Tirana trova il suo esito. Il 6, Mieli lascia il Corriere. Il 20, tocca ad Anselmi. Mentana non è più tornato in video. Anselmi e Mieli non fanno più i giornalisti. Hanno davvero cambiato mestiere.

Il quarto indizio contro Berlusconi è concreto, diretto e recente. Quando non può licenziare o far licenziare i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, Quello-Che-Comanda-Tutto organizza contro di loro intimidazioni: trascina in tribunale Repubblica colpevole di avergli proposto dieci domande e l'Unità per gli editoriali - quindi, per le opinioni - che pubblica. O dispone selvagge aggressioni. È il responsabile politico dell'assassino morale di Boffo preparato da Brighella. La maschera salmodiante combina campagne di denigrazione contro l'editore e il direttore di questo giornale. Poi l'editore-premier - come utilizzatore finale - si incarica di far esplodere quelle calunnie con pubbliche dichiarazioni rilanciate al tiggì della sera dall'obbediente Minzolini, che tace su tutto il resto.

Questa è la scena del delitto perfetto della realtà e del giornalismo. Sono in piena luce gli assassinii, gli assassinati, gli uccisori, il mandante. Vi si scorge anche un coro soi-disant neutrale. Vi fanno parte politici di prima e seconda fila che dicono: basta, torniamo alla realtà dei problemi del Paese. È proprio vero che "la pratica del potere ispessisce le cotenne". Queste teste gloriose, soffocate nella propria autoreferenzialità, non comprendono che è appunto questa la posta in gioco: la possibilità stessa di portare alla luce la realtà, di evitarne la distruzione, di raccontarla; di non fare incerta la distinzione tra reale e fittizio come Berlusconi pretende dai giornalisti anche a costo di annientare chi non accetta di farsi complice o disciplinato. Il dominio di Quello-Che-Comanda-Tutto passa, oggi e prima di ogni altra cosa, da questa porta. La volontà di tanti giornalisti "normali" che chiedono soltanto di fare il proprio lavoro con onestà e dignità ne esce umiliata. La loro inazione oggi non ha più una ragion d'essere di fronte alla brutalità dei "delitti" che abbiamo sotto gli occhi. La prudenza che induce tanti, troppi a decidere che qualsiasi azione o reazione sia impossibile, non li salverà. Il conformismo non li proteggerà. Il mandante dei delitti è un proprietario che conosce soltanto dipendenti docili e fedeli. Se non lo sei, ti bracca, ti sbrana, ti digerisce.

(3 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #106 inserito:: Settembre 07, 2009, 10:49:13 am »

IL COMMENTO

Uno scandalo politico

di GIUSEPPE D'AVANZO


La conversazione di Noemi Letizia con Sky risulterà molesta a Berlusconi. Per almeno tre ragioni. Riaccende l'interesse pubblico intorno alla relazione della ragazza napoletana (18 anni) con il capo del governo (73 anni, il 29 settembre) e la strategia del premier non lo consente, ora che il piano di battaglia per l'autunno prevede non più una difesa improvvisata giorno per giorno - spesso catastrofica - ma una controffensiva mediatica e la cinica, brutale aggressione dei "nemici".

La ragazza, caduta l'attenzione per la politica, si dice pronta per cominciare la sua carriera nel mondo dello spettacolo e sembra rivolgersi all'"amico di famiglia" perché attende oggi che le promesse del passato diventino realtà. Non chiede più un seggio in Parlamento, ma la concretezza di un contratto televisivo, di un ingaggio cinematografico. Soprattutto, Noemi aggiunge la sua risposta alla domanda di quando suo padre Elio e "Silvio" si sono conosciuti: a contraddizione così si aggiunge contraddizione.

La ragazza ricorda "Silvio" nella sua vita da sempre, da quando ha memoria (quanti anni ha, tre, cinque, sette anni?). I suoi ricordi contraddicono la ricostruzione di Elio e le parole del capo del governo. Che, come si sa, ne ha dette troppe. "[Elio] era l'autista di Bettino Craxi" (Ansa, 30 aprile). "Elio è un mio amico da tanti anni, con lui ho discusso delle candidature europee" (Porta a Porta, 5 maggio). "Conosco i genitori, punto e basta. Ho incontrato la ragazza tre o quattro volte e sempre alla presenza dei genitori" (France 2, 6 maggio). Dal suo canto, come si ricorderà, Elio Letizia sostiene che la "vera conoscenza [con Silvio] ci fu nel 2001 (...) A metà dicembre io e mia moglie andammo a Roma per acquisti e, passando per il centro storico, pensai che fosse la volta buona per presentare a Berlusconi mia moglie e mia figlia" (il Mattino, 25 maggio). Dunque: il capo del governo "per la prima volta vide Noemi" nel dicembre del 2001. Noemi ha dieci anni. Il ricordo di Elio Letizia non coincide con un altro, improvviso ricordo di Silvio Berlusconi. In quello stesso 25 maggio, la memoria del capo del governo disegna un'altra scena decisamente differente da quella che ha in mente Elio Letizia. "La prima volta che ho visto questa ragazza è stato a una sfilata", dice il premier (Corriere, 25 maggio). Quindi, in un luogo pubblico e non nei suoi appartamenti pubblici o privati. Non nel 2001, come dice Elio, ma più avanti nel tempo perché Noemi avrebbe avuto l'età adatta per "sfilare" (quattordici, quindici, sedici anni, 2005, 2006, 2007). Sono tutte versioni che non coincidono con quella che oggi offre la ragazza che, pur senza dar date, colloca prima del 2001 (da sempre, da quando ho memoria) la conoscenza con il leader.

Ogni volta che salta fuori questa storia di Noemi, Berlusconi appare "un baro preso con l'asso nella manica" (Giuliano Ferrara, Panorama, 4 settembre). E tuttavia ancora oggi bisogna chiedersi se l'amicizia con una minorenne del maturo capo del governo sia soltanto un fatto privato o anche una questione pubblica. Chiedere conto al premier di quella relazione è un'intrusione nella sua privacy o, come hanno spiegato qui Zagrebelsky, Rodotà e Galli, interpella l'etica pubblica perché non è irrilevante se lo stile di vita di chi governa contraddice i valori sociali e politici che pubblicamente proclama e impone agli altri? Si tratta di "moralismo", o in democrazia i cittadini hanno diritto di conoscere chi sono i propri rappresentanti sotto tutti i profili, perché è stato chi governa a chiedere il voto e a instaurare con gli elettori un rapporto di fiducia? L'ostinazione a venire a capo di queste questioni - non trascurabili per un ordinato vivere civile - può essere definita "un'ossessione" o addirittura uno sbirciare dal "buco della serratura"?

Franco Cordero ripete spesso che in Italia "le memorie deperiscono e i fatti fluttuano". Questa storia non fa eccezione e pare utile fermare qualche fatto per evitare che la memoria inganni e si autoinganni. L'intero affare è stato sollevato in campo politico, da un'intelligenza politica, per ragioni politiche. Può la nuova classe dirigente del Paese essere selezionata negli studi televisivi, si chiede - prima delle elezioni europee - la fondazione farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini: "Assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare". Il tema appare caro anche alla moglie del premier che, pubblicamente, denuncia il "ciarpame del potere", paccottiglia politica (politica, non familiare né sentimentale): "Quello che emerge oggi, attraverso il paravento delle curve e della bellezza femminile, è la sfrontatezza e la mancanza di ritegno del potere che offende la credibilità di tutte le donne. Qualcuno ha scritto che tutto questo è a sostegno del divertimento dell'imperatore. Condivido, quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore". (Ansa, 28 aprile, 22,31).

Soltanto chi vuol essere cieco non vede. All'inizio di questa storia c'è una questione schiettamente politica. Come seleziona la destra riformista le nuove classi dirigenti? E' assennato e conveniente per il futuro del Paese che il leader di una voluminosa maggioranza lo faccia nei backstage delle sue tv o durante le feste a Palazzo o in Villa? Possono essere affidate responsabilità pubbliche o rappresentanza parlamentare a giovani fanciulle che hanno il solo merito di essere le "favorite" dell'"imperatore"? Da qui ha inizio lo scandalo che ancora oggi travolge Berlusconi. L'apparizione di Noemi Letizia lo sintetizza tutto e lo aggrava. E' la stessa ragazza a dire, il 28 maggio, che in futuro si dedicherà alla politica o allo spettacolo: "Lo deciderà Papi", come "con dolcezza" chiama Silvio. Politica o spettacolo, nelle parole sincere della ragazza, sono la stessa cosa. Non si sbaglia. E'È quel che contesta farefuturo e segnala Veronica Lario che denuncia: "Mio marito frequenta minorenni e non sta bene, come ho già detto ai suoi amici". Anche se molti oggi lo dimenticano, in buona o mala fede non importa, è stato proprio Berlusconi a mostrarsi consapevole che necessità etiche e politiche gli imponevano trasparenza; un pubblico rendiconto delle sue relazioni e del suo modo di governare; il documentato rifiuto delle censure della moglie e dell'accusa di avere condotte private disordinate e riprovevoli. Per queste ragioni, si presenta nel salotto bianco di Bruno Vespa - non proprio "il buco della serratura", ma l'agorà dell'infelice Italia televisiva - per dire: "Chi è incaricato di una funzione pubblica deve chiarire" (Porta a Porta, 5 maggio). Intenzione apprezzabile, addirittura saggia. Purtroppo insincera. Non può essere "un'ossessione" prendere Berlusconi sul serio e chiedergliene conto oggi (e ancora) se quelle sue spiegazioni sono risultate tutte farlocche, dalle candidature delle "veline" alla sua frequentazione di minorenni. Non può essere "moralismo" tenere il filo di un "primato della menzogna" che oggi appare il più autentico paradigma del potere berlusconiano, utile a confondere l'opinione pubblica e, da sette giorni, il venefico carburante per alimentare una "macchina della calunnia" lanciata, forte di un maestoso conflitto di interessi, contro i suoi avversari, veri o presunti che siano.

Noemi che si riaffaccia alla scena pubblica, chiedendo all'"amico di famiglia" il sostegno che gli ha promesso, ripropone il carattere politico di uno scandalo che mai è stato privato. Che non è né "un'ossessione" né un pettegolezzo, ma il ragionevole discorso pubblico di una decente democrazia occidentale.

(7 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #107 inserito:: Settembre 08, 2009, 07:00:43 pm »

IL COMMENTO

Una mente prigioniera

di GIUSEPPE D'AVANZO

Lo spettacolo, che va in scena da quindici anni, ha avuto una nuova replica da una televisione di Casa Berlusconi. Consueto il paradigma del capo del governo: un manipolo di "comunisti e catto-comunisti" conduce una "campagna eversiva" per tirarlo giù dalla sedia dove è stato collocato dalla volontà popolare e inaugurare "una tirannia". Addirittura, una tirannia. C'è qualcosa di disperante e di disperato in questa rappresentazione del discorso pubblico e domestico.

Parla più di Berlusconi, e delle sue ossessioni, che di un Paese governato con una maggioranza sovrabbondante e un'opposizione solida come il vapor acqueo. Ci dice molto di più dei fantasmi che, in chiave paranoide, assediano il premier che delle critiche che gli vengono proposte, da qualche isolata voce, in Italia e, da un coro, nel mondo. Risoluto a fare dei nostri giorni una nera notte con un unico punto di luce - se stesso - , Berlusconi è oggi incapace di riconciliarsi con la realtà o almeno con un suo succedaneo. È come se la strategia di comunicazione che lo ha condotto a uno straordinario successo, personale e politico, lo abbia imprigionato precludendogli ogni apprezzabile sguardo sul reale. Il Mago è stato sequestrato dallo specchio in cui ama guardarsi, dalle Lanterne che egli stesso ha costruito. Le relazioni con il Vaticano? Eccellenti, dice. L'azione del governo? Irresistibile, dice. Gli italiani? Vogliono essere come me, giura. Le domande che mi rivolgono? Insulti, mistificazioni, diffamazione, accusa.

È stupefacente che siano state dieci ordinarie domande a precipitarlo in questa sindrome che oggi preoccupa anche alleati, come Gianfranco Fini, ultima vittima delle sue fobie. Berlusconi avrebbe fatto meglio a rispondere, a levarsi dallo stato di "minorità civile" che lo ha afferrato, come gli suggerivano i consiglieri più sapienti. Non lo ha fatto e, peggio, ha chiesto l'intervento della magistratura perché non gli siano mai più proposte, siano vietate per ordinanza di un giudice.

Un'intimidazione, concorda con qualche ritardo il Corriere della sera con Ernesto Galli Della Loggia. Dei suoi argomenti è utile discutere. Scrutiamo la trama del suo ragionamento. C'è una premessa: l'iniziativa giudiziaria del premier è "sbagliata e riprovevole, ha di fatto un innegabile contenuto di intimidazione censoria". La premessa, che sembra richiamare un mondo comune - un codice e un metodo condiviso tra i media, qualche principio logico, un rispetto di regole, doveri e diritti, un'attitudine disinteressata alla discussione - , è utile a preparare un giudizio (dubbio) e due risultati (stralunati). Il giudizio. Quelle domande sono un "puro strumento retorico" (è lo stesso argomento degli avvocati di Berlusconi, ahimè, che giudicano quelle domande diffamatorie e ne chiedono la censura). Quindi, sono quesiti tendenziosi: "Quale risposta sensata si può dare alla domanda: quali sono le sue condizioni di salute? Una domanda di quel tipo vuole affermare in modo indiretto, ma precisissimo, che non sarebbe adatto a fare il capo del governo".

La valutazione apre la strada alla prescrizione di quel che la stampa non deve fare. Non è "compito della libera stampa l'organizzazione di interminabili, feroci campagne giornalistiche". "Non è compito dei giornali decidere se qualunque persona è adatta o inadatta a guidare il governo, è compito degli elettori e soltanto degli elettori".

È evidente che di "comune" nel mondo dell'informazione predicato da Galli Della Loggia c'è molto poco, quasi nulla. Domandare, vi appare un'offesa. Reiterare una domanda che non trova ostinatamente una risposta è addirittura "ferocia". Chiedere poi della salute di chi ci governa, un passo a mezzo tra l'insensatezza e la provocazione. Così non è, con buona pace del Corriere, in tutto il mondo occidentale. I candidati alla Casa Bianca presentano in pubblico, con le cartelle del fisco, le cartelle cliniche per dimostrare che le loro capacità psicofisiche sono adeguate alla responsabilità che chiedono agli elettori. Thomas Eagleton, vice di George McGovern, in piena campagna elettorale nel 1972, abbandonò quando si scoprì che era sottoposto ad elettroshock per curare la depressione. Nel 1984, al secondo mandato, l'età di Ronald Reagan, 73 anni, fu motivo di perplessità e pressioni dei media. Nel match televisivo con Walter Mondale, 56 anni, Reagan esordì con una risposta strepitosa alla domanda di un giornalista: "Non farò della giovane età e inesperienza del mio rivale un motivo di scontro". Anche Mondale rise con il pubblico e il fattore età non ebbe più alcuna importanza. Ritornò rilevante quando Reagan fu operato per un cancro al colon. Lo staff medico rese trasparente i guai del presidente. Lo stesso è accaduto a John McCain quando Time (14 maggio 2008) chiese in copertina "Quanto è sano McCain?". Il candidato non si tirò indietro e i medici della Mayo Clinic misero a disposizione dei cronisti le cartelle cliniche (Cnn, 23 maggio 2008). Anche in Italia è apparso legittimo - né stravagante né tendenzioso - interrogarsi sullo stato di salute di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica a cavallo degli anni Novanta. Egli ammise "una depressione" e lo stesso Galli Della Loggia ne paventò una sindrome dietro "il suo ossessivo presenzialismo televisivo" (la Stampa, 8 dicembre 1991). Il lato comodo dello scrivere in Italia è che basta esporre i fatti. È stata la moglie del premier a porre all'attenzione pubblica la questione della salute di Silvio Berlusconi, dopo averla proposta in privato a Gianni Letta. "[Silvio] non sta bene. Ho chiesto al suo medico di aiutarlo come si fa con le persone che non stanno bene", ha detto Veronica Lario e, anche le rivelazioni di Patrizia D'Addario, raccolte proprio dal Corriere, hanno confermato quell'ipotesi di sexual addiction che avvelena la vita del capo del governo. Dinanzi a quella denuncia pubblica, bisognava tacere forse? Chiudere gli occhi, far finta di niente? Non è compito dell'informazione accertare lo stato delle cose? Repubblica ha cercato di farlo. Nel modo più diretto e corretto. Domenica 10 maggio, ha chiesto al sottosegretario Letta di incontrare il premier per rivolgergli alcune domande sollecitate dalle incoerenze emerse dal "caso Noemi", una minorenne, e dalle sue personali difficoltà svelate dalle parole di Veronica Lario. Si convenne che entro 72 ore ci sarebbe stata una risposta di Palazzo Chigi. Non è mai arrivata. Così si è deciso di rendere pubbliche le domande destinate al premier. È "feroce", questo metodo o è una prassi ordinaria, accettata nel "mondo comune" dell'informazione occidentale che non pretende di sostituire naturalmente gli elettori nelle loro decisioni (che ovvietà!), ma di renderli più consapevoli e informati nelle loro scelte. Il ruolo dei media non è altro che questo, come ha dimostrato l'Economist quando giudicò Berlusconi "inadatto al governo" sia nel 2001 che nel 2008, senza guadagnarsi le reprimende etiche, politiche e deontologiche di un Galli Della Loggia forse distratto.

Quel che preoccupa (e dovrebbe preoccupare chiunque) nel ragionamento del Corriere della sera è l'accettazione che la realtà, quale che sia, non possa fare capolino nel discorso pubblico più di tanto. Che evocarla, magari nelle prudenti anche se ostinate forme dell'interrogazione, sia una mossa abusiva e politicamente scorretta e faziosa. È una convinzione che appare del tutto egemonizzata culturalmente da un'idea di informazione effimera e istantanea. Disegna un mondo dove non esistono "fatti" né alcun modo di stabilire ciò che è vero perché non c'è più alcun criterio di verità praticabile se si esclude "ciò che viene dichiarato vero in ogni istante". È il mondo, il metodo, il dispositivo di potere di Berlusconi. Il premier pretende di confondere e confonderci avviluppandoci in un garbuglio di "credenze" che annullano eventi, circostanze, parole, ma il mestiere dell'informare non è accompagnare questa deriva, ma opporvicisi. È quello che ha fatto e farà Repubblica. Siamo certi che lo farà anche il Corriere quando accerterà che non c'è alcun "complotto eversivo catto-comunista" alle viste né alcuna "tirannia" alle porte, ma soltanto un uomo prigioniero dei suoi fantasmi e di una rabbia pericolosa per le istituzioni che rappresenta e il Paese che governa.

(8 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #108 inserito:: Settembre 10, 2009, 05:42:14 pm »

IL COMMENTO

Lo scandalo in Parlamento

di GIUSEPPE D'AVANZO


È GIUNTO il tempo che Silvio Berlusconi vada in Parlamento ad affrontare uno scandalo che, sempre di più e ancor più limpidamente, rivela il disordine della sua vita privata. Che sarebbe anche affar suo, certo (lo si dice per i "neutralisti"), se non fosse contraddittorio con l'ordine che voleva imporre per legge alla nostra vita e incompatibile con la rappresentazione che ha dato di se stesso agli elettori.

Questo è già un problema di difficile soluzione per Berlusconi, ma non appare più il cuore dello scandalo. La gravità del caso politico - da affrontare con urgenza alla Camera e al Senato, nel luogo "politico" per eccellenza, - si annuncia nella sventatezza con cui il capo del governo assolve alle sue responsabilità pubbliche e si radica nella sua vulnerabilità. Un controllo delle date delle "feste" a Palazzo con gli impegni pubblici del presidente del Consiglio svela come, a volte, il premier viene meno ai suoi doveri istituzionali per non rinunciare ai suoi piaceri privati.

La serietà della questione è soprattutto, però, nella vulnerabilità che oggi circonda la sua persona e il suo ufficio. Il via vai di prostitute a Palazzo Grazioli, le cene, le feste, il sesso, le orge, insomma le abitudini di vita e il veleno della satiriasi espongono con tutta evidenza Silvio Berlusconi a pressioni e tensioni che nessuno è in grado oggi di immaginare. Nemmeno il presidente del Consiglio. Nemmeno l'occhiuta "squadra" dei suoi collaboratori più stretti che finora ha pensato di uscire dall'angolo in cui il premier si era cacciato da solo con le intimidazioni all'informazione, le pressioni sui possibili testimoni, i trucchi di sottomesse burocrazie della sicurezza.

Che l'Egocrate si fosse cacciato in un guaio che, con il tempo, sarebbe diventato catastrofico, è stato chiaro quando Patrizia D'Addario ha mostrato le fotografie e le registrazioni raccolte nella notte trascorsa con il premier. Ora Gianpaolo Tarantini completa il disegno e quel che si vede è esattamente quel si intuisce e si racconta da mesi. Un giovanotto ambiziosissimo, uomo d'affari temerario e cinico grimpeur sociale, fa leva sulle ossessioni personali di Berlusconi (ritorniamo a chiederlo, dopo la denuncia pubblica della moglie: quali sono le sue condizioni di salute?) per avvicinarlo, blandirlo, conquistarne l'attenzione e l'amicizia.

Tarantini ingaggia prostitute per il premier. Le accompagna nel suo Palazzo. Le rimborsa con moderazione e le paga, generoso, se fanno sesso con Berlusconi che finge di non sapere, non vedere, non capire. In qualche occasione, Tarantini offre alle "ragazze" (e lo ammette) della cocaina per ricompensarle. In cambio, il giovanotto, diventato prosseneta, chiede al capo del governo buoni contatti e autorevole influenza per chiudere affari con lo Stato. Il capo del governo glieli offre.

Sesso, prostituzione, affari, droga. In questo ambiente è precipitato Silvio Berlusconi, per un'intima fragilità irrisolta e denunciata per tempo da Veronica Lario. Da questo ambiente possono saltar fuori molti intrighi e troppi ricatti che il capo del governo è ormai palesemente incapace di prevedere e controllare, come ha fatto sempre in passato immaginando per se stesso un'impunità eterna. Se ieri il tentativo di liquidare quest'affare come "spazzatura" e violazione della privacy era malinconico, oggi è irresponsabile. La vita disordinata che ha condotto - e che, secondo alcune fonti, ancora conduce in palazzi più appartati - rende Silvio Berlusconi pericolosamente esposto a coercizioni e vulnerabile alle pressioni.

Questa sua debolezza non è un "affare di famiglia" (ammesso che lo sia mai stato), ma interpella la credibilità delle istituzioni e minaccia la sicurezza nazionale. Quante sono le ragazze che possono umiliare pubblicamente o addirittura compromettere il capo del governo? Le amiche di Tarantini, se il giovanotto ha detto il vero, sono più o meno trenta. Come Patrizia D'Addario, qualcuna tra loro ha conservato imbarazzanti documenti sonori o visivi di Berlusconi? Dove finiscono o dove possono finire le informazioni - e magari le registrazioni e le immagini - in loro possesso? Senza voler considerare, poi, che Gianpaolo Tarantini è stato soltanto uno - uno solo - dei ruffiani del presidente, l'ultimo arrivato, il più arruffone a quanto pare.

Il lento ma inesorabile disvelamento della vita disordinata di un premier attossicato dalla sexual addiction deve pure trovare un punto di arrivo con un chiarimento pubblico se non si vuole trascinare nel baratro - con la reputazione di Berlusconi - anche la credibilità delle istituzioni. I costi pagati dal rifiuto del capo di governo a illuminare ciò che ancora oggi è oscuro non possono essere illimitati. Per evitare di chiarire i suoi rapporti con una minorenne, è salito su un ottovolante di dinieghi, abusi, aggressività, conflitti brutali che non gli ha portato e non gli può portare fortuna. La festa di Casoria; le rivelazioni degli incontri con Noemi allora minorenne lo hanno costretto a mentire in televisione.

Quella menzogna non l'ha avuta vinta e sono saltati fuori i portfolio che vengono consegnati a Berlusconi per scegliere i "volti angelici"; la cerchia dei ruffiani che gli riempie il Palazzo e la Villa di donne a pagamento; migliaia di foto che lo ritraggono, solo, circondato da decine di ragazze di volta in volta diverse; i ricordi imbarazzati e imbarazzanti di capi di Stato che gli hanno fatto visita; la confessione di una prostituta pagata per una cena e per una notte di sesso con in più la promessa di una candidatura alle Europee e poi in consiglio comunale; intercettazioni telefoniche (un centinaio) con cui gli vengono annunciate "brune" e "bionde", indimenticabili che giustificano la diserzione del premier da un appuntamento ufficiale. Fino a quando potrà durare il silenzio dell'Egocrate? Che cosa lo costringe a mentire o gli impone di tacere? Non sono una via di uscita - ieri ce n'è stato un altro - gli ininterrotti flussi verbali, uguali nelle parole, nei gesti, nelle pause, nell'inutilità di guadagnare il rispetto che ha perduto. Che cosa deve ancora accadere perché Berlusconi trovi la forza, il coraggio, l'assennatezza di offrire al Paese quella verità su se stesso che ancora oggi rifiuta? La crisi personale di una leadership può diventare, per ostinazione di un narciso smarrito, discredito di una nazione? Il dramma di un uomo e di una leadership può diventare la tragedia di un Paese? Vada in Parlamento, finalmente, e si racconti, ci racconti. Non può cavarsela consigliando, al solito, di non leggere i giornali. L'informazione non ha altra possibilità che continuare a raccontarlo. La questione è se Berlusconi può raccontare se stesso. In pubblico e senza complicità.

(10 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #109 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:28:19 am »

IL COMMENTO

Escort, festini, minorenni le dieci menzogne del Cavaliere


di GIUSEPPE D'AVANZO


DICE l'Egoarca che è stufo e replicherà "colpo su colpo". Dice, e sembra una sfida: "Venitemi a dire che non rispondo alle domande, siano quelle di Repubblica o di El Paìs". Più che rispondere, Silvio Berlusconi sfoggia - non è una novità, è la magia che gli riesce meglio - una sapienza stupefacente nell'uso della menzogna che manovra in ogni direzione. Ora nasconde la verità, ora la inventa di sana pianta, ora la nega contro ogni evidenza, ora la deforma secondo convenienza. Se si analizzano i nove minuti della perfomance autistica e autocelebrativa della Maddalena, dinanzi uno Zapatero sgomento, salta fuori un catalogo di dieci menzogne (e una sorprendente verità che gli sfugge inconsapevolmente).

1. La prima menzogna. L'Egoarca non risponde alle domande di Repubblica. Ne dimentica alcune. Due soprattutto suggerite dall'allarme della donna che lo conosce meglio, la moglie. Veronica Lario dice che Berlusconi "frequenta minorenni" e "non sta bene". Il capo del governo si tiene lontano da terreni che devono apparirgli minati. È stato documentato che ha frequentato due minorenni (Noemi e Roberta), invitate a Villa Certosa, senza i genitori nei giorni di Capodanno 2009. Noemi Letizia, minorenne, lo ha accompagnato a una cena del governo. C'è altro? Silenzio. Berlusconi non osa affrontare la questione della sempre più evidente sexual addiction che lo costringe a una vita sconveniente e pericolosa.

2. Berlusconi nega che nelle sue residenze ci siano "feste e festini". Dice che, come leader del suo partito, "fa una serie di incontri con i rappresentanti e le rappresentanti di organizzazioni politiche, come i circoli "Meno male che Silvio c'è"". È una bugia. Da quel che è stato documentato dall'indagine di Bari, dalle testimonianze di Tarantini e di alcune "ospiti" retribuite, gli appuntamenti notturni del premier non prevedono né discussione politiche (si parla soltanto dei successi dell'Egoarca, se ne ammirano gli interventi in giro per il mondo, si ride della sue barzellette) né la partecipazione di comitati di fans. Un cerchio stretto di ruffiani e ruffiane invita a Palazzo o in Villa ragazze ambiziose o professioniste del sesso che accettano di passare la notte con il presidente.

3. Dice l'Egoarca: "Non è vero che ho candidato "veline". Abbiamo fatto un corso per giovani laureate che volevano diventare assistenti di eurodeputati e ne abbiamo individuate tre con grandi capacità". È una menzogna. Il "corso" è stato organizzato per preparare candidati e candidate al Parlamento di Strasburgo, come hanno confermato nel tempo i ministri che vi hanno preso parte come docenti. È stato un corso di formazione dove la presenza di "veline" era così appariscente da essere raccontata con molti particolari dai giornali (ohibò!) della destra. Il primo quotidiano che dà conto della candidatura di una "velina" alle elezioni europee è il Giornale della famiglia Berlusconi. Il 31 marzo, a pagina 12 si legge che "Barbara Matera punta a un seggio europeo". "Soubrette, già "Letterata" del Chiambretti c'è, poi "Letteronza" della Gialappa's, quindi annunciatrice Rai e attrice della fiction Carabinieri, la Matera, scrive il Giornale, "ha voluto smentire i luoghi comuni sui giovani che non si applicano e non si impegnano. "Dicono che i ragazzi perdino tempo. Non è vero: io per esempio studio molto"". "E si vede", commenta il giornale di casa Berlusconi. Il secondo giornale che svela "la carta segreta che il Cavaliere è pronto a giocare" è Libero, il 22 aprile. A pagina 12, le rivelazioni: "Gesto da Cavaliere. Le veline azzurre candidate in pectore" è il titolo. "Silvio porta a Strasburgo una truppa di showgirl" è il sommario. I nomi della candidate che si leggono nella cronaca di Libero sono: Angela Sozio, Elisa Alloro, Emanuela Romano, Rachele Restivo, Eleonora Gaggioli, Camilla Ferranti, Barbara Matera, Ginevra Crescenzi, Antonia Ruggiero, Lara Comi, Adriana Verdirosi, Cristina Ravot, Giovanna Del Giudice, Chiara Sgarbossa, Silvia Travaini, Assunta Petron, Letizia Cioffi, Albertina Carraro. Eleonora e Imma De Vivo e "una misteriosa signorina" lituana, Giada Martirosianaite. Sono questi nomi, questi metodi a sollevare le critiche della fondazione farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini. La politologa Silvia Ventura avverte che "il "velinismo" non serve: assistiamo a una dirigenza di partito che fa uso dei bei volti e dei bei corpi di persone che con la politica non hanno molto da fare. Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole". "Ciarpame senza pudore", aggiunge Veronica Lario.

4. Dice l'Egoarca: "[Con Patrizia D'Addario] mi sono comportato come si deve comportare secondo me ogni padrone di casa". Quel che si sa del primo incontro di Berlusconi smentisce la correttezza di un padrone di casa consapevole di avere accanto una prostituta. "Che Patrizia fosse una escort, quella sera, lo sapevano tutti", dice Barbara Montereale, anche lei ingaggiata dal ruffiano del presidente, Gianpaolo Tarantini. C'è una traccia della consapevolezza del presidente. L'Egoarca "stropiccia" subito Patrizia D'Addario seduta accanto a lui sul divano, dinanzi agli uomini della sua scorta. Nel primo incontro, le propone di visitare la camera da letto in compagnia di altre due ragazze. La sollecita a entrare nel "lettone di Putin". La D'Addario rifiuta.

5. Dice l'Egoarca: "Nella patria di Casanova e dei playboy, la gioia più bella è la conquista. Se tu paghi che gioia ci potrebbe essere?". È una menzogna. Come Barbara Montereale, la D'Addario è stata ricompensata con una candidatura politica (doveva entrare nelle liste Europee, ottenne poi uno spazio per le elezioni comunali di Bari). Alla D'Addario Berlusconi promise anche un intervento politico per sistemare un affare edilizio. Corrispettivi dello scambio sesso-potere. Quando si alleggeriranno le pressioni corruttive e le intimidazioni sulle ragazze, anche straniere, ospiti di Villa Certosa (e immortalate dalle immagini di Salvatore Zappadu) si potrà forse riferire quello che alcune testimoni hanno raccontato: e cioè come Berlusconi distribuisse egli stesso alle falene le buste con il denaro. Si potrà dire della regola imposta come assoluta di non parlare "mai, mai" con le altre ragazze del denaro ricevuto perché in quelle buste il numero delle banconote non era sempre uguale, duemila, cinquemila, diecimila euro. Il "sultano" premiava la performance, a quanto pare.

6. Dice Berlusconi: "Un imprenditore di Bari, Tarantino o Tarantini, era venuto ad alcune cene facendosi accompagnare da belle donne. Erano ragazze che questo signore portava come amiche sue, come sue conoscenti". È stupefacente che il capo del governo finga di non ricordare il nome del suo ruffiano e banalizzi ora un'intensa amicizia. Le intercettazioni delle loro conversazioni - e soprattutto la loro frequenza - contraddicono le sue parole. Tarantini e Berlusconi si sentivano anche dieci volte al giorno e nei brogliacci della procura della Repubblica ci sono decine e decine di telefonate. Nessun reato, dice ora il procuratore di Bari. In ogni caso, lo scambio tra il presidente del consiglio e il suo ruffiano è chiaro: l'Egoarca chiede "belle donne", Tarantini (pagandole) gliele procura. In cambio, il ruffiano conta sull'influenza del premier per concludere affari. Forse non c'è reato, ma il baratto può dirsi limpido per la rispettabilità delle istituzioni e neutro per la gestione della cosa pubblica?

7. La settima menzogna custodisce una singolare verità. Dice Berlusconi: "Io sono stato vittima di un attacco di una persona [la D'Addario] che ha voluto creare artatamente uno scandalo". L'Egoarca non si rende conto di confermare una delle questioni più rilevanti di questo caso: la sua vulnerabilità. Una vita disordinata e sconveniente per il decoro e l'onore della responsabilità pubblica che ricopre lo ha reso fragile, ricattabile. È falso che la D'Addario lo abbia ricattato (ha solo risposto a un pubblico ministero che la interrogava offrendo documenti sonori che da sempre maniacalmente raccoglie in ogni occasione). È vero che Berlusconi sia ricattabile. Quante sono le ragazze che possono minacciarlo? Il via vai di prostitute a Palazzo Grazioli, le cene, le feste, il sesso, le orge, le sue abitudini di vita e il veleno della satiriasi espongono con tutta evidenza Silvio Berlusconi a pressioni e tensioni che nessuno è in grado oggi di immaginare.

8. Dice l'Egoarca: "L'informazione buona è la tv". L'informazione televisiva, controllata direttamente o indirettamente dal capo del governo, è stata pessima. Si è trasformata in una "macchina del silenzio" che ha negato a sette italiani su dieci le notizie più elementari e comprensibili di un "caso" che ha screditato e scredita in tutto il mondo il presidente del consiglio e, con lui, il nostro Paese. E tuttavia è stata proprio la televisione a fargli lo scherzo più maligno. A maggio l'Egoarca va a Porta a porta per spiegare "veline" e Noemi. Infila un rosario di bugie e contraddizioni che, dopo mesi, ancora lo soffocano. Quando si accorge dell'errore, ritorna davanti alla telecamere per dire un'altra bubbola strabiliante: "Non ho detto niente".

9. Berlusconi dice: "Non c'è alcuno scontro con la Chiesa". La menzogna è contraddetta dall'impossibilità oggi per Berlusconi di incontrare il Papa, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, il presidente dei vescovi italiani Angelo Bagnasco. Una difficoltà acutizzata dal character assassination del direttore dell'Avvenire, Dino Boffo (accusato dal giornale del premier di omosessualità con un falso documento giudiziario). Le parole più severe contro Berlusconi sono state pronunciate dal segretario generale della Cei, il vescovo Mariano Crociata: "Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati. Soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio". Buoni rapporti?

10. Dice Berlusconi: "Credo di essere di gran lunga il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni". Bè, questa è davvero la menzogna più grossa.

(12 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #110 inserito:: Settembre 15, 2009, 10:20:13 am »

IL COMMENTO

Il coltello del potere

di GIUSEPPE D'AVANZO


Ora che si annuncia il character assassination di Gianfranco Fini, come per la brutale liquidazione del direttore dell'Avvenire, non tiene conto discutere di chi preme il grilletto.

Quel che conta è mettersi dinanzi la figura del mandante, le ragioni della sua mossa intimidatoria per fermare l'immagine della scena distruttiva in cui siamo precipitati. Quel che accade, non c'è altro modo per dirlo: Silvio Berlusconi, con il suo giornale, avverte il partner che, en passant, è anche la terza carica della Repubblica. Lo minaccia con formule che fanno venire il freddo alla nuca: "Ultima chiamata per Fini... Fini ha l'esigenza immediata di trovare una ricollocazione: o di qua o di là. Non gli è permesso... Deve risolversi subito... E ricordi che, bocciato un Lodo Alfano, se ne approva un altro". E infine, lo scintillio del coltello: "Ricordi che delegare i magistrati a far giustizia politica è un rischio. Perché oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. E' sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme".

Nella "strategia della tensione" (le Monde), inaugurata per l'autunno dal capo del governo, il giornalismo diventa strumento di intimidazione e minaccia. Ce ne possiamo meravigliare? L'avevamo già visto all'opera contro Dino Boffo, quel giornalismo assassino. Quel che conta è scorgere dietro quell'alterazione dell'informazione, la manovra politica, seguire i passi del manovratore. Anche quel dispositivo si era avvistato per tempo. Dopo il rimescolamento nell'informazione controllata direttamente o indirettamente dall'Egoarca, era già chiaro in luglio che sarebbe cominciato il tempo dell'aggressività. Non era difficile prevedere che una stagione di prepotenza avrebbe demolito deliberatamente i non-conformi, degradato i perplessi, umiliato gli antagonisti. Dentro la maggioranza o nell'opposizione. Dentro la politica o fuori della politica. Nel mondo dell'impresa, della società, della cultura, dell'informazione. Nessuno oggi - si deve aggiungere - può dirsi al sicuro dalle ritorsioni dell'Egoarca. Non lo è stata la moglie del premier, la madre dei suoi figli, che per prima ha subito un mortificante rito di degradazione. Non lo è stata la Chiesa dei vescovi italiani, umiliata con le accuse taroccate al direttore dell'Avvenire. Ora tocca al presidente della Camera al quale viene interdetto, con la minaccia di "uno scandalo", di manifestare il proprio pensiero, che poi dovrebbe essere un suo diritto costituzionale. Vale la pena di parlare di Costituzione. Nel lavoro assegnato dal capo del governo al suo giornale, c'è innanzitutto la distruzione dei principi della Carta. L'Egoarca sa che la Corte costituzionale potrebbe cancellare la legge che lo rende immune e fa sapere che se ne impiperà. Farà approvare una nuova legge. Disporrà che sia "immediatamente in vigore". I giudici sono avvisati. Del Parlamento l'Egoarca non se ne cura, è un trascurabile accidente. Se il presidente della Camera ritiene di doversi mettere di traverso, magari rispettando i regolamenti, sappia che finirà nel tritacarne di uno scandalo che non c'è, ma che i media controllati faranno credere vero e infamante. Fini è anche co-fondatore del partito del presidente del Consiglio, è un uomo libero che liberamente - anche se in contrasto con il partner politico - esprime le sue convinzioni su temi (immigrazione, fine-vita) sensibili e controversi. Il presidente del Consiglio gli fa sapere che deve tacere, adeguarsi, rendere le sue idee conformi. In caso contrario, la "macchina della calunnia", che ha organizzato in Sardegna e ad Arcore quest'estate, lo stritolerà.

Il paradigma che informa, in questa stagione, l'Egoarca è soltanto un fragoroso, orientale abuso del potere. Berlusconi ha rinunciato anche all'obiettivo dichiarato di ridurre i poteri plurali e diffusi a vantaggio di una forma politico-istituzionale accentrata nella sua figura di premier cancellando il quadro politico dove competono le forze sociali e politiche, rivendicando le sue decisioni direttamente in televisione in nome della legittimità conquistata con il voto. Oggi, Berlusconi non reclama più nemmeno la legittimità di quel potere. Preferisce mostrarne, senza alcuna finzione ideologica, con immediata concretezza, soltanto la violenza pura. Gli interessa soltanto alimentare l'efficienza di una macchina di potere che non vive di idee, progetti, discussioni, riforme, alterità, ma di brutalità, imperio, conformismo e terrore. Quel che si intravede è un uomo solo, circondato da cattivi consiglieri, prigioniero di una sindrome narcisistica, incapace di fare i conti con una realtà che non controlla più, che non riesce più annullare. Illiberale fino alle midolla, avverte il declino e vede ovunque oscuri pericoli. Nella stampa estera, nelle cancellerie europee, nell'Ue, tra i suoi alleati di governo e di partito, nelle gerarchie ecclesiastiche, nella magistratura, nell'informazione pubblica. Ogni dissenso - anche il più motivato e amichevole - gli appare un atto persecutorio cui replicare "colpo su colpo". Questa deriva rende oggi Silvio Berlusconi un uomo violento e pericoloso. Nella sua crisi trascinerà lo Stato che rappresenta. Lo abbiamo già detto e ogni giorno diventa più vero. La scena in cui siamo precipitati è la decadenza di un leader che non accetta e non accetterà il suo fallimento. Trascinerà il Paese nella sua sconfitta, dividendolo con l'odio.

(15 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #111 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:31:45 am »

L'ANALISI.

Quel tentativo disperato di chiudere il caso escort

Dalle mosse dei magistrati gli ultimi guai di Tarantini

Il ruffiano e il presidente

di GIUSEPPE D'AVANZO


Gianpaolo Tarantini deve essersi detto: faccio così, ammetto negli interrogatori quel che non posso negare o contraddire e dunque le feste a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa; il pagamento delle prostitute che infilavo nelle cene e nel letto di Silvio Berlusconi; l'uso della cocaina che a decine di grammi distribuivo nelle mie feste private. Confesso i legami cuciti - sempre attraverso notti di sesso nella garçonniere all'angolo Extramurale Capruzzi, a Bari - con gli amministratori regionali di sinistra, come quel Sandro Frisullo. Lascio capire che anche quel D'Alema - sì, quel D'Alema - l'ho avuto a tavola o in barca.

"Qualche volta" dico, alludendo a un'amicizia che purtroppo non è mai nata. Concludo che qualche affaruccio me n'è venuto - è vero, diciamo una certa "visibilità con i primari" che poi mi dovevano comprare le protesi che vendevo - ma poi niente di che, tutto sommato. Chiedo il patteggiamento (due anni di pena) ed esco da questa storia un po' ammaccato e con qualche benemerenza da mettere sul tavolo nella mia seconda vita. Ho soltanto 35 anni, no? Un merito sarebbe stato sicuro e consistente, deve aver pensato Tarantini. Se patteggio, tengo fuori dai guai "il Presidente" perché nessuno potrà più ficcare il naso nelle decine e decine di telefonate tra me e lui - intercettate, purtroppo. Quelle chiacchiere, sì che lo metterebbero in imbarazzo.

La strategia di difesa di Tarantini è legittima, come tante altre. Si sbriciola dinanzi al rifiuto del pubblico ministero. Che nega il patteggiamento (applicazione della pena su richiesta delle parti) perché - dice il procuratore di Bari, Antonio Laudati - "l'attendibilità delle dichiarazioni dell'indagato deve essere verificata con ulteriori accertamenti. È vero, ho detto che, leggendo i verbali sui giornali, appare evidente che non ci sono responsabilità del presidente del Consiglio, ma le indagini non sono terminate e si deve verificare quanto è stato raccontato. Lo faremo in tempi rapidi".

Le parole del procuratore devono aver spaventato Tarantini, e non soltanto Tarantini. Che era nei guai e ci si ficca ancora più a fondo, a testa in giù. Comincia (sostiene la guardia di finanza) a trafficare con i testimoni e con le prove. Se le aggiusta per rendere attendibili, per i magistrati, i suoi ricordi. Forse, progetta una fuga all'estero per tirare il fiato e alleggerire la pressione in attesa di una luna migliore. Si vedrà se gli investigatori hanno visto giusto.

Nell'attesa, alla mossa di Gianpi, la procura ne oppone un'altra, tattica e astuta. Non ne chiede l'arresto, ma soltanto il fermo. Quindi, è obbligata a consegnare al giudice delle indagini preliminari, che dovrà convalidarlo, soltanto qualche pezzullo di carta che documenta il pericolo di fuga o l'inquinamento probatorio e nulla di più. Lo scrigno delle fonti di prova già raccolte resterà chiuso e quindi, per il momento, le intercettazioni del presidente del Consiglio, le testimonianze delle giovani falene che hanno trascorso la notte a Palazzo o in Villa, gli amici di Gianpi che tiravano su la cocaina che egli dispensava con generosità, le tracce dei traffici sanitari resteranno ben protette.

* * *

Un'indagine penale non è soltanto l'accertamento di responsabilità personali (come sembra credere Ernesto Galli Della Loggia), è anche teatro, memoria collettiva, luce che illumina il mondo, che rivela pratiche, passioni, coraggio, debolezze, irresponsabilità, che racconta la tenuta di regole e dispositivi che evitano anarchia e soprusi e fanno ordinato il nostro vivere insieme. È un ordigno che riesce a dirci, qualche volta, e spesso non in modo esaustivo, dove viviamo, che cosa vi accade, con chi abbiamo a che fare. Da questo punto di vista, la storia di Gianpaolo Tarantini non è questo termitaio dai corridoi intricati.
<b>Il ruffiano e il presidente</b>

Gianpi è in affari e s'è fatto ruffiano per accrescerli. Tutto qui, in soldoni. La sua intuizione è che, nell'Italia di oggi, il potere del sesso - l'influenza che può avere sugli uomini che governano il Paese o una Regione o un'Azienda sanitaria - ha la stessa energica forza corruttiva del denaro, grimaldello decisivo per gli affari neri degli anni novanta. È acuto il fiuto del giovanotto che forse avrà studiato anche psicologia sociale nel suo master in marketing all'università di Herisau, nello svizzero Canton Appenzello. L'intuizione, comunque, è subito vincente a Bari. Sandro Frisullo, vicepresidente regionale, abbocca all'amo di Tarantini. Gianpi gli organizza in un appartamento in affitto in via Giulio Petroni, angolo via Extramurale Capruzzi, incontri sessuali ora con Terry De Nicolò ora con Vanessa Di Meglio, ricompensate con cinquecento euro.

Tarantini attende l'arrivo dell'amico. Cenano in tre. Al caffè, Gianpi si leva di torno. Le chiama "attenzioni" non corruzione. "Le attenzioni da me avute per Frisullo mi hanno consentito - dice - di essere presentato al dottor Valente, direttore amministrativo dell'Asl di Lecce. Chiedevo un'accelerazione dei pagamenti per le prestazioni effettuate dalle mie aziende e l'esecuzione di una delibera adottata in materia di acquisto di tavoli operatori. So che Frisullo ha rappresentato più volte le mie esigenze a Valente ed io personalmente ne ho parlato con lo stesso Valente. I pagamenti sono avvenuti anche se comunque in ritardo, altrettanto per la delibera. La frequentazione di Frisullo mi serviva soprattutto per acquistare visibilità agli occhi dei primari che portavo da Frisullo".

* * *

Il metodo funziona, dunque. Tarantini decide di fare un salto, il gran salto, l'avventurosa capriola verso un sorprendente, inatteso successo. Dice a se stesso che se la sua intuizione è efficace in Puglia perché non deve esserlo altrove. Magari a Roma, nella Capitale, e con l'uomo che ha in mano in Paese? Dicono che le cose siano andate così. Non è stato il giovane ruffiano a bussare alla porta di Berlusconi, ma - scaltro, forse già conosce le debolezze del presidente - Tarantini è riuscito a giocare con Berlusconi come il gatto con il topo.

Accade nell'estate del 2008. Tarantini affitta, pagando centomila euro al mese (pare), la villa Capriccioli, a cinque minuti da Porto Cervo e non troppo lontano dalla Villa Certosa del capo del governo. A quel punto è un gioco da ragazzi - anche se molto, molto costoso - riempire la casa, il giardino, la spiaggia di bellezze, di cocaina, di allegria e risate e poi attendere, immobile come un ragno. Il calabrone cade nella rete. Pare che l'Egoarca non se ne capacitasse e il suo grandioso senso del sé ne fosse ferito: quelle giovani donne non si dirigevano alla Certosa, ma altrove, da un altro. Chi diavolo è questo "Gianpi" di cui tutti parlano quest'estate? Berlusconi chiede di sciogliere l'arcano a Sabina Beganovic, "l'ape regina" (Dagospia), donna così fidata da essersi tatuata su un piede "S. B. l'uomo che mi ha cambiato la vita". La Beganovic torna dall'Egoarca con le informazioni giuste e Tarantini ha finalmente accesso a corte. Con lui, le sue "ragazze".
"Io - sostiene oggi il giovanotto - ho voluto conoscere il presidente Berlusconi e mi sono sottoposto a spese notevoli per entrare in confidenza con lui e, sapendo del suo interesse per il genere femminile, non ho fatto altro che accompagnare da lui le ragazze che presentavo come mie amiche tacendogli che a volte le retribuivo". Berlusconi gradisce molto e consente a Tarantini di coltivare un sogno di potenza: perché rinchiudersi nel piccolo recinto degli affari sanitari pugliesi e non pensare in grande? Perché non diventare, grazie all'amicizia con "il Presidente", un imprenditore di carattere nazionale, europeo o, perché no?, un lobbista per tutte le decisioni che "il Presidente" può favorire, per i business che l'intervento del "Presidente" può rendere fluidi e vincenti?

L'impresa non pare impossibile a Tarantini. Bisogna investire un po' di denaro, pagare le prostitute, accompagnarle a Palazzo Grazioli. Che ci vuole? La difficoltà semmai è avere sempre le "ragazze" a disposizione perché, si sa com'è "il Presidente", magari chiama nella tarda mattinata, prima o dopo un Consiglio dei ministri, e vuole che a sera - dopo un paio d'ore, maledizione - la festa sia organizzata. Ci sono giorni che Gianpi è come fuori di testa. Lo vedono agitato e inquieto come una mosca contro un vetro. Ha chiamato "il Presidente" e lui non ha disposizione quel che serve. Telefona, ritelefona, chiama e richiama questo, quello, chiunque possa aiutarlo, chiunque conosca almeno "una donna immagine che all'occorrenza avrebbe potuto anche effettuare prestazioni sessuali". Così ingaggia, il 16 ottobre, Patrizia D'Addario.

Gianpi riesce sempre a cavarsela con un salto mortale. Per non farne più, e rompersi il collo, comincia a corteggiare con accorti regali la rete di "ragazze" controllate, per così dire, da Sabina Beganovic. Forse per ingraziarsele, le rifornisce di cocaina, in palazzi sbagliati, off-limits. Non ne possono venire che guai che, infatti, non mancano. Il 20 dicembre del 2008, l'"ape regina" perde la pazienza, telefona a Gianpi (intercettato) e lo affronta a muso duro.

Sabina. "Hai capito Gianpaolo, che cazzo fai? Mandi alla gente regali e metti a me in una bruttissima situazione. Cioè io non so niente e tu ti spacci per mio amico ... Per favore, non mi mettere in questa situazione"

Gianpaolo. "Io non l'ho fatto perché ti voglio sorpassare".

Sabina. "Ma figurati, non fare il furbo con me... Non mi mettere nei casini. Non fare il paraculo con me".

Gianpaolo. "Io non ho mai portato niente".

Sabina. "Ah bello!, io ho i testimoni. Ti ho detto: non fare il furbetto con me".

* * *

I conflitti con Sabina Beganovic non impediscono, in cinque mesi, a Tarantini (come ammette) di accompagnare trenta "ragazze" a diciotto cene del Presidente. Non tutte sono state pagate, non tutte sono prostitute, anche se in qualche caso "non disdegnano di essere retribuite per prestazioni sessuali". Gianpi tocca "il cielo con un dito". È nelle grazie del Presidente, finalmente. Può chiedergli di incontrare Guido Bertolaso per certe sue ambizioni (che, dice, ambizioni resteranno). Tarantini è il compagno fisso del "Presidente" in spensieratezze notturne, così appassionate da convincere il capo del governo a saltare qualche impegno pubblico. Come (lo racconta l'Espresso in edicola) tra il 23 e il 28 settembre. Le cose vanno così.

Il 23 settembre iniziano i lavori delle Nazioni Unite. Ci sono i leader del mondo. Durante la prima giornata parlano George W. Bush, Nicholas Sarkozy, il presidente iraniano Ahmadinejad. Gianpi a Roma ha organizzato per il premier una festicciola con Carolina Marconi, Francesca Garasi, Geraldine Semeghini, Terry De Nicolò. Ci si diverte e si fa presto a vedere l'alba. Il giorno dopo (mercoledì) Berlusconi decide di non partire più per il Palazzo di Vetro. Diffonde una buona ragione. Patriottica e irreprensibile. Deve seguire da vicino la crisi dell'Alitalia. Se ne stufa presto, però, ammesso che ne abbia mai avuto l'intenzione. In gran segreto raggiunge il castello di Torre Errighi, nei pressi di Melezzole di Montecchio di Terni e Health Center di Marc Méssegué, riaperto per la sua improvvisa visita. "Berlusconi di fatto scompare dai radar per cinque giorni" scrive l'Espresso. Frattini e Letizia Moratti sono costretti a presentare da soli l'Expo 2015 di Milano mentre Gianni Letta, sostenuto da Walter Veltroni, fa i salti mortali per far firmare la pace tra la Cai e i sindacati e salvare l'Alitalia.

L'indimenticabile settimana dell'Egoarca finisce così. Domenica 28 un elicottero della protezione civile lo accompagna dal castello di Torre Errighi a Ciampino, dove prosegue per Milano, destinazione San Siro. C'è il derby, e sugli spalti "il Presidente" è in compagnia di Tarantini. Gianpi ha con sé una nuova ragazza. La chiamano l'Angelina Jolie di Bari. Si chiama Graziana Capone, che racconta il post-partita: passeggiata in auto, arrivo ad Arcore, cena e festino con una decina di ragazze. Il Milan ha vinto uno a zero, il premier è euforico. "Abbiamo tirato fino a tardi, le quattro forse, qualcuna si è addormentata sul divano" (Repubblica). Il fastidio alla schiena del Presidente non c'è più, come per un miracolo. Dopo poche ore di sonno, Berlusconi può festeggiare di nuovo sul lago Maggiore i suoi settantadue anni in una scena, questa volta tutta familiare. "Ora resto a lavorare - dice ai giornalisti - Nessuna festa serale, perché abbiamo già festeggiato oggi" (l'Espresso).

* * *

Tarantini oggi vuole riuscire nell'impresa di liberarsi con il minimo danno dalle sei inchieste che lo coinvolgono senza danneggiare il presidente del Consiglio. Un'altra avventurosa capriola. Dice: "Ho fatto una cavolata, sono stato uno stupido. Quando ho avuto la possibilità di conoscere Berlusconi, ho toccato il cielo con un dito. Non mi sembrava vero. Poi l'ho conosciuto sul piano personale, con la sua simpatia, il suo calore umano, il suo rispetto per gli altri, la sua genialità. Davvero irresistibile. E ho creduto che sarebbe stato più facile frequentarlo facendomi accompagnare da bellissime ragazze. Gli chiedo scusa" (il Giornale). Gianpi non deve essere stato sollevato quando ha sentito "il Presidente" fingere dalla Maddalena di non ricordare nemmeno il suo cognome. "Un imprenditore di Bari, Tarantino o Tarantini, era venuto ad alcune cene facendosi accompagnare da belle donne. Erano ragazze che questo signore portava come amiche sue, come sue conoscenti".

Tutto cancellato, dunque? Come se quei fantastici mesi di feste, scorribande, canti, barzellette, cene, belle donne in tubino nero e trucco leggero, passioni, sesso non fossero mai esistiti. Come se le decine e decine di conversazioni telefoniche tra lui e "il Presidente" - quanto pressante, a volte - non ci fossero mai state. Come se il sogno di Tarantini fosse soltanto il delirio di un provinciale convinto che il potere del sesso è quel che serve oggi per fare affari e addirittura chiudere in una rete di ragno, quel calabrone del capo del governo. "Utilizzatore finale" - certo - ma anche complice del ruffiano (le intercettazioni documentano la sua disponibilità per i maneggi del giovanotto) e regista di uno spettacolo di cui era unico protagonista, unico spettatore, il solo impresario.

Può essere anche che finisca senza conseguenze la ricostruzione giudiziaria, si vedrà, ma quel che ci racconta quest'indagine penale è altro e ben visibile. Ci dice dove viviamo, che cosa vi accade, con chi abbiamo a che fare e non è sempre necessaria una sentenza della magistratura per comprendere e giudicare. Spesso, basta soltanto buon senso e un miccino di onestà.

(19 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #112 inserito:: Ottobre 05, 2009, 10:04:25 pm »

L'ANALISI.

Berlusconi chiama la politica a difesa del suo patrimonio

Metà del Paese chiamata a sostenerlo per un episodio di corruzione

E il premier trasforma in complotto un'ordinaria storia di malaffare

di GIUSEPPE D'AVANZO


La politica, per Silvio Berlusconi, è nient'altro che il modo più efficace per accrescere e proteggere il suo business. È sempre stato così fin da quando, neolaureato fuori corso in giurisprudenza, si dà agli affari. Forte di legami politici con le amministrazioni locali e regionali - e qualche "assegno in bocca" - diventa promotore immobiliare. La politica gli consente di tenere a battesimo, fuori della legge, il primo network televisivo nazionale. La collusione con la politica - la corruzione d'un capo di governo e il controllo di ottanta parlamentari - gli permette di ottenere, dal presidente del consiglio corrotto, due decreti d'urgenza e, dal parlamento, una legge che impone il duopolio Rai-Fininvest. Non proprio un prometeo dell'economia, nel 1994 è in rotta e fallito (gli oneri del debito della Fininvest - 4000 miliardi di lire - superano l'utile operativo del gruppo).

Ha perso però i protettori travolti dal malaffare tangentocratico e s'inventa "imprenditore della politica" convertendo l'azienda in partito. E' ancora la politica che gli consente di manomettere, con diciassette leggi ad personam, codici e procedure per evitare condanne penali per un variopinto numero di reati (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione) fino all'impunità totale della "legge Alfano" che gli assicura un parlamento diventato bottega sua (domani la Consulta ne vaglierà la costituzionalità).

Non c'è da sorprendersi allora se, condannato oggi al pagamento di un risarcimento di 750 milioni di euro per aver trafugato la Mondadori corrompendo un giudice, Silvio Berlusconi si nasconda ancora una volta dietro il paravento della politica. E' sempre la sua carta jolly per confondere le acque, cancellare i fatti, rendere incomprensibile quel che è accaduto, difendere - dietro le insegne dell'interesse pubblico - il suo interesse personale. Secondo un copione collaudato nel tempo, il premier anche oggi è lì a cantare la favola dell'"aggressione politica al suo patrimonio", dell'"assedio ad orologeria". Evoca, con le parole della figlia Marina (presidente di Mondadori), il "momento politico molto particolare". Piagnucola: "Se è così, chiudo". Minaccia (gli capita sempre quando è a mal partito) che chiamerà alle urne gli elettori, se sarà contrariato. Bisogna dunque dire se c'entra la politica, in questa storia della Mondadori. La risposta è sì, c'entra ma (non è un paradosso) soltanto perché salva Berlusconi dai guai (e non è una novità).

Ricapitoliamo. E' il giugno 2000. Berlusconi è accusato di aver comprato la sentenza che gli ha permesso di mettere le mani sul più grande impero editoriale del Paese scippandolo a Carlo De Benedetti (editore di questo giornale). Per suo conto e nel suo interesse, gliela compra l'avvocato e socius Cesare Previti (poi suo ministro). L'udienza preliminare del "caso Mondadori" ha un esito sorprendente: non luogo a procedere. E' salvo. Il pubblico ministero Ilda Boccassini si appella. La Corte le dà ragione, ma Previti e Berlusconi hanno destini opposti. Per una svista, i legislatori nel 1990 si sono dimenticati del "privato corruttore" aumentando la pena della corruzione nei processi soltanto per il "magistrato corrotto". Correggono l'errore nel 1992, ma i fatti della Mondadori sono anteriori a quell'anno e dunque Berlusconi è passibile della pena meno grave, da due a cinque anni (corruzione semplice), anziché da tre a otto (corruzione in atti giudiziari). Se ottiene le attenuanti cosiddette generiche, può farla franca perché il reato sarebbe estinto. La sentenza del 25 giugno 2001 le concede a Berlusconi, non a Previti che va a processo. Stravagante la motivazione che libera il premier: è vero, Berlusconi ha corrotto il giudice, ma si è adeguato a una prassi d'un ambiente giudiziario infetto e poi l'attuale suo stato "individuale e sociale" (si è appena insediato di nuovo a Palazzo Chigi) merita riguardi. Diciamolo in altro modo. Per i giudici non si possono negare le attenuanti, e quindi la prescrizione, a quell'uomo che - è vero - è un "privato corruttore" perché è "ragionevole" e "logico" che il mandante della tangente al giudice sia lui, ma santiddio oggi governa l'Italia, è ricco, potente, conduce la sua vita in modo corretto, come si fa a mandarlo a processo? Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione, affrontare il giudizio, dimostrare la sua estraneità, pretendere un'assoluzione piena o almeno testimoniare e dire perché ha offerto a Previti i milioni da cui attinge per pagare il mercimonio del giudice. Non lo fa, tace, si avvale della facoltà di non rispondere e il titolo indecoroso di "privato corruttore" gli resta appiccicato alla pelle.

Dunque, prima conclusione. La politica di ieri e di oggi non c'entra nulla se si esclude il salvataggio del premier, "privato corruttore". Bisogna riprendere il racconto da qui perché la favola dell'"aggressione politica al patrimonio" di Berlusconi si nutre di un sorprendente argomento: "Il processo non ha mai riguardato la Fininvest che si limitò a pagare compensi professionali a Previti".

Occorre allora mettere mano alle sentenze. C'è un giudice, Vittorio Metta, che già è stato corrotto da Previti per un altro affare (Imi-Sir). Viene designato come relatore dell'affare Mondadori. La designazione è pilotata con sapienza. Scrive le 167 pagine della sentenza in un solo giorno, ventiquattro ore, "record assoluto nella storia della magistratura italiana". In realtà, la sentenza è scritta altrove e da chi lo sa chi: "Da un terzo estraneo all'ambiente istituzionale", si legge nella sentenza di primo e secondo grado. Venti giorni dopo il deposito del verdetto (14 febbraio 1991), la Fininvest (attraverso All Iberian, il "gruppo B very discreet") bonifica a Cesare Previti quasi 2 milioni e 800 mila dollari (3 miliardi di lire). Su mandato di chi? Nell'interesse di chi? "La retribuzione del giudice corrotto è fatta nell'interesse e su incarico del corruttore" scrivono i giudici dell'Appello che condannano Cesare Previti non perché concorre al reato di Vittorio Metta (il giudice), ma perché complice del "privato corruttore" (Berlusconi). "E' la Fininvest - conclude infine la Corte di Cassazione - la fonte della corruzione e pagatrice del pretium sceleris", del baratto che consente a Berlusconi da diciotto anni di avere nella sua disponibilità la Mondadori.

Rimettiamo allora in ordine quel si sa e ha avuto conferma nel lungo percorso processuale, in primo grado, in appello, in Cassazione. Berlusconi è un "privato corruttore". Incarica il socius Previti di corrompere il giudice che decide la sorte e la proprietà della casa editrice. Previti ha "stabilmente a libro paga" Vittorio Metta. Il giudice si fa addirittura scrivere la sentenza. Ottiene "almeno quattrocento milioni" da una "provvista" messa a disposizione dalla Fininvest che "incassa" in cambio la Mondadori.

Questi i nudi fatti che parlano soltanto di malaffare, corruzione, baratterie, di convenienze privatissime e non di politica e mai di interesse pubblico. Di politica parla oggi Berlusconi per salvare se stesso. Come sempre, vuole che sia la politica a tutelare business e patrimonio privati. Per farlo, non rinuncia - da capo del governo e "privato corruttore" - a lanciare una "campagna" che spaccherà in due - ancora una volta - un'opinione pubblica frastornata e disinformata. Berlusconi chiede un'altra offensiva di plagio mediatico con il canone orientale delle tv e dei giornali che controlla e influenza: non convincere, non confutare, screditare. Il premier giunge a minacciare le elezioni anticipate, come se il suo destino fosse il destino di tutti e l'opacità della sua fortuna una responsabilità collettiva. Ripete la solita filastrocca che si vuole "manipolare con manovre di palazzo la vittoria elettorale del 2008 ed è ora che si cominci a esaminare l'opportunità di una grande manifestazione popolare". In piazza, metà del Paese. In difesa di che cosa? Si deve rispondere: in difesa della corruzione che ha consentito a Berlusconi la posizione dominante nell'informazione e nella pubblicità. E perché poi dovremmo tornare a votare? In difesa del suo portafoglio. L'Italia esiste, nelle intenzioni del capo del governo, soltanto se si mobilita a protezione delle fortune dell'uomo che la governa.

(5 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #113 inserito:: Ottobre 05, 2009, 10:05:13 pm »

Lodo Mondadori: per il giudice Berlusconi «è corresponsabile»


5 ottobre 2009


Silvio Berlusconi è «corresponsabile della vicenda corruttiva» alla base della sentenza con cui la Mondadori fu assegnata a Fininvest. Lo scrive il giudice Raimondo Mesiano nelle 140 pagine di motivazioni con cui condanna la holding della famiglia Berlusconi al pagamento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti. «È da ritenere - scrive il giudice - 'incidenter tantum' e ai soli fini civilistici del presente giudizio, che Silvio Berlusconi sia corresponsabile della vicenda corruttiva per cui si procede».

«Per mero scrupolo motivazionale - spiega ancora il giudice - è qui da aggiungere che la responsabilità della convenuta è qui impegnata perché la condotta del Berlusconi è stata all'evidenza posta in essere nell'ambito dell'attività gestoria di Fininvest, e cioè nell'ambito della cura degli interessi di quest'ultima».

Il giudice, nelle motivazioni della sentenza, scrive che «vale osservare che i conti All Iberian e Ferrido erano conti correnti accesi su banche svizzere e di cui era beneficiaria economica la Fininvest. Non è quindi
assolutamente pensabile - scrive Mesiano - che un bonifico dell'importo di Usd 2.732.868 (circa tre miliardi di lire) potesse essere deciso ed effettuato senza che il legale rappresentante, che era poi anche amministratore della Fininvest, lo sapesse e lo accettasse».
«In altre parole - conclude il giudice -, il tribunale ritiene qui di poter pienamente fare uso della prova per presunzioni che nel giudizio civile ha la stessa dignità della prova diretta (rappresentazione del fatto storico). È, come è noto, la presunzione un argomento logico, mediante il quale si risale dal fatto noto, che deve essere provato in termini di certezza, al fatto ignoto».

La stima del risarcimento. «Complessivamente - scrive inoltre il giudice - il danno patrimoniale si compone della somma di 284.051.294 euro a titolo di danno derivante dalle condizioni deteriori alle quali fu pattuita la spartizione del gruppo L'Espresso-Mondadori rispetto alle condizioni di una trattativa non inquinata dalla corruzione del giudice Metta. A questa somma si aggiungono 8.207.892 euro per danno da spese legali sostenute, e altri 20.658.276 euro per danno da lesioni dell'immagine imprenditoriale dell'attrice (la Cir, ndr)».

L'importo complessivo di 312.917.463 euro, secondo il giudice, «deve essere rivalutato dalla data di commissione dell'illecito che va fatta coincidere con quella del deposito della sentenza del 1991 della Corte d'Appello di Roma ed addizionata di interessi compensativi medi per un totale in moneta attuale di 543.750.834 euro per capitale e 393.693.680 euro per interessi compensativi medi e così per l'importo complessivo di 937.444.514 euro oltre ad interessi legali dal giorno della presente pronuncia al saldo».
Se questi sono i danni patrimoniali complessivi, il giudice ricorda però che la Cir «ha ragione» nella misura in cui, la corruzione di Metta ha reso imparziale il collegio che annullò il lodo arbitrale nel 1991 e quindi il danno subito è un danno cosiddetto «da perdita di chance». Vale a dire, spiega il giudice «posto che nessuno sa come avrebbe deciso una Corte incorrotta, certamente è vero che la corruzione del giudice Metta privò la Cir della chance di ottenere da quella Corte una decisione favorevole». Per questo il giudice ha riconosciuto alla Cir l'80% della somma quantificata in 937.444.514 euro che è pari a 749.955.611 euro.

5 ottobre 2009
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« Risposta #114 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:06:48 am »

EDITORIALE

Gridare al golpe: l'ultimo abuso di chi si crede padrone del Paese

di GIUSEPPE D'AVANZO


Leggete con attenzione queste parole. Le diffondono nel primo pomeriggio i presidenti del gruppo del Popolo della Libertà alla Camera e al Senato, come dire la maggioranza politica che governa il Paese. Due i presidenti e due i vicari. Si chiamano Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello e Italo Bocchino. Ricordate questi nomi ché parlano e gridano come oche in Campidoglio nel nostro interesse, a difesa della nostra democrazia. Ecco che cosa dicono e di che cosa, preoccupatissimi, avvertono gli italiani: "Mentre il governo Berlusconi affronta la realizzazione degli impegni assunti con gli elettori, si tenta di delegittimarne l'azione. Siamo certi che questo disegno non troverà spazio nelle istituzioni. Gli attacchi ci portano ad assicurare che in Parlamento, così come nel Paese, il centro destra proseguirà la politica del fare e del governare che nessun disegno eversivo potrà sconfiggere". Disegno eversivo, addirittura. Bisogna drizzare le antenne, essere vigili, accidenti. Accade qualcosa di imprevisto, inimmaginabile e potenzialmente pericoloso e noi che ce ne stiamo qui, sciocchini, a pensare che il Tg1 di Augusto Minzolini sia una sventura per l'informazione e l'opinione pubblica.

La faccenda deve essere terribilmente seria se una maggioranza forte di sovrabbondanti numeri parlamentari, sicura nel consenso popolare e gratificata dall'obbedienza di un establishment gregario perché fragile, decide di lanciare un allarme di questo genere. Disegno eversivo. Viene da immaginare che le forze armate (chi? l'Arma dei carabinieri? l'Esercito? l'Aeronautica o la Marina?) fanno sentire un minaccioso ukase nel Palazzi del governo, sul collo dei ministri il peso della sciabola. O che truppe armate (russe, tedesche?) si preparano a violare i confini nazionali con la complicità di traditori della Patria o formazioni rivoluzionarie stiano guadagnando dai monti le vie che portano a Roma, alla Capitale. Viene in mente, in questo pomeriggio nero, che già al mattino il Brighella che dirige il giornale del capo del governo, ci ha avvertito: c'è un golpe in atto, e noi - maledetti - che non lo avevamo preso su serio, come sempre.

Golpe, disegno eversivo. Che diavolo accade, che cosa non abbiamo visto, intuito, compreso? Deve essere proprio vero che l'Italia è in pericolo come mai, se anche il capo del governo, Silvio Berlusconi, l'Egoarca, proprio lui, dice: "Sappiano comunque tutti gli oppositori che il governo porterà a termine la sua missione quinquennale e non c'è nulla che possa farci tradire il mandato che gli italiani ci hanno conferito". L'uomo che comanda tutto vuole dirci - sia benedetto - che non mollerà, che qualcuno vuole levarselo di torno con mezzucci illeciti e antidemocratici, addirittura con la violenza, ma lui - statista tutto d'un pezzo - non gliela darà vinta. L'affare è serio, non c'è dubbio.

Interviene anche l'amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani (e non è questo un segno che la democrazia è in pericolo?) per avvertire che "si vuole colpire Silvio Berlusconi". Conviene svegliarsi, mettersi al lavoro e cercare di capire che cosa minaccia l'Italia, la democrazia, il governo legittimamente eletto dal voto popolare. I quattro dell'apocalisse che dirigono in Parlamento il Popolo della Libertà offrono una traccia: "I contenuti di una sentenza che arriva venti anni dai fatti rafforza l'opinione di quanti pensano che si sta tentando con mezzi impropri di contrastare la volontà democratica del popolo italiano". È una sentenza allora la minaccia per la democrazia? Sì, dice l'Egoarca "allibito": "È una sentenza al di là del bene e del male, è certamente una enormità giuridica". Sì, dice il boss della squadra rossonera: "È assurdo ipotizzare che vi siano stati comportamenti men che corretti di Fininvest e Berlusconi".

Che cosa avrà mai deliberato questa sentenza? Il carcere per l'Egoarca? Il suo esilio dal Paese che governa? L'interdizione dal pubblico ufficio cui lo hanno chiamato gli italiani? Leggere la sentenza, allora, per capire chi sono i golpisti, dove si nasconde la minaccia per la nostra democrazia. Prima sorpresa.
È una sentenza civile e si tira un sospiro di sollievo perché le motivazioni di un giudice monocratico, appellabili e dunque soltanto primo momento di una controversia tra due soggetti privati (Berlusconi, De Benedetti), non può rappresentare un rischio né per la democrazia né per il governo. Che c'entra il disegno eversivo? Come può essere quella decisione - peraltro non definitiva - addirittura un golpe? E che diavolo ci sarà mai scritto in quella motivazione di 146 pagine che lascia "allibito" l'uomo che comanda tutto? Di Berlusconi si parla in quattro pagine, 119/122. Quel che si legge, lo si può riassumere in pochi punti.

1. Berlusconi fino al 29 gennaio 1994 è stato presidente del consiglio di amministrazione della Fininvest. Indiscutibile, come è indiscutibile che a quella data non era né capo partito né parlamentare né capo del governo. Era soltanto un imprenditore che cura i suoi affari. Come li cura, lo si legge al punto due.

2. Un suo avvocato - suo, di Berlusconi - corrompe il giudice per manipolare una sentenza che consente alla Fininvest di acquisire la Mondadori. L'incarico all'avvocato corruttore lo assegna Berlusconi?

3. Berlusconi, per certi inghippi legislativi che qui è inutile ricordare, deve rispondere non di corruzione in atti giudiziari, ma di corruzione semplice. I giudici decidono di concedergli le attenuanti (è diventato presidente del Consiglio e sembra tenere la retta via: merita riguardo) e, fatti due conti, concludono di "non doversi procedere" contro Berlusconi: "Il reato è estinto per intervenuta prescrizione".

4. Berlusconi non ci sta. Vuole il "proscioglimento nel merito". Chiede che si dica: è innocente. La Cassazione gli dà torto: no, se guardiamo le prove che abbiamo sotto gli occhi, non c'è alcuna evidenza della tua innocenza. Ora, Berlusconi potrebbe rinunciare alla prescrizione. Non lo fa. Si accontenta di essere il "privato corruttore" che, con la complicità dell'avvocato, ha comprato la sentenza.

5. Ragiona ora il giudice civile. È dimostrato che i soldi della corruzione provengono da conti della Fininvest, dove è apicale la posizione di Berlusconi. È "normale" e "ordinario" credere che un bonifico di quella entità (3 miliardi), utilizzato per la corruzione, possa essere inoltrato solo se chi presiede alla compagine sociale l'autorizzi. Questa prova si chiama presuntiva e il giudice scrive: "La prova per presunzioni nel processo civile ha la stessa dignità della prova diretta" e giù - nelle motivazioni - sentenze delle Sezioni unite della Cassazione. Conclude il giudice: "Silvio Berlusconi è corresponsabile della vicenda corruttiva". Ha ragione o torto, lo si vedrà con il tempo.

Questi i fatti e le parole che coinvolgono Berlusconi, uomo di affari che cede all'imbroglio per averla vinta, nella sentenza che condanna la Fininvest a un risarcimento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti. Ora non si comprende come l'accertamento di ragioni giuridiche tra due privati e la decisione di un giudice possano compromettere la nostra democrazia e far gridare al golpe. Soprattutto perché sono soltanto privatissimi fatti loro - di Berlusconi e De Benedetti - e non nostri.

Non c'è alcun interesse pubblico in questa storia. Di pubblico ci deve essere soltanto la preoccupazione di chi vede trasformare gli affari dell'Egoarca, condotti negli anni precedenti all'avventura politica con metodi malfamati - in questione politica. Di pubblico ci deve essere soltanto l'allarmata conferma che Berlusconi trasfigura in affare nazionale i suoi affari privati con un'ostinazione che, da un lato, gli impedisce di governare con credibilità e, dall'altro, gli consente di sovrapporre la sua sorte personale al destino del Paese. Come se l'Italia fosse Berlusconi e la sua ricchezza, il suo portafoglio fossero la nostra ricchezza e il nostro portafoglio. Questa sciocchezza la possono riferire i quattro corifei dell'Egoarca, che non temono il ridicolo, o scrivere i Brighella dell'informazione di regime, che ha quotidiana confidenza con la menzogna, ma a chiunque è chiaro che il grido contro l'inesistente disegno eversivo è soltanto l'ultimo abuso di potere di un capo di governo che crede di essere il proprietario del Paese.

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« Risposta #115 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:52:39 am »

IL COMMENTO

L'immunità illegittima

di GIUSEPPE D'AVANZO


SE SI mette la sordina alla rituale filastrocca di Berlusconi (giudici comunisti) e alle intimidazioni di Bossi; se si lasciano in un canto le stralunate favole dell'avvocato Ghedini (processi evanescenti) e si legge - lontano dal rumore - la decisione della Corte costituzionale, si può dire che è finita come doveva finire.

Come si sapeva sarebbe finita, perché non c'era nulla di più scontato che la bocciatura della legge immunitaria che l'Egoarca s'era apparecchiato. La Consulta dichiara illegittimo l'articolo 1 della "legge Alfano" - legge perché è del tutto improprio e abusivo parlare di "lodo" che è un arbitrato condiviso, mentre quella legge è al più un arbitrio. Nell'art. 1 si legge che "i processi penali nei confronti del (...) presidente del Consiglio (è il solo tra le quattro alte cariche dello Stato che ha di questi grattacapi, ndr) sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione".

La previsione viola, dicono i giudici, due principi costituzionali perché "tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge" (art. 3) e "le leggi di revisione della Costituzione sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni (...)" (art. 138). Ora è in discussione qui non il che cosa, ma il come. La Corte ha già riconosciuto, nella bocciatura della "legge Schifani", che è di "interesse apprezzabile" l'"esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle rilevanti funzioni connesse a quelle cariche". Detto in altro modo, i giudici costituzionali non ritengono avventato (incostituzionale) che si voglia offrire - nell'interesse dei governati - un "ombrello" protettivo a chi governa il Paese, presiede lo Stato e il Parlamento. D'altronde fino al 1993, la Costituzione ha previsto l'immunità per i parlamentari (potevano essere inquisiti, processati o arrestati solo con l'autorizzazione della Camera di appartenenza).

Dunque, va bene un'immunità che tuteli la "serenità" di chi governa, ma attraverso quale percorso legislativo la si deve garantire? L'iter deve essere quello ordinario che può essere combinato con una maggioranza semplice o quello più complesso che impone al Parlamento due deliberazioni a distanza di tre mesi e una maggioranza dei due terzi, senza la quale la legge - prima della sua entrata in vigore - può essere sottoposta a referendum popolare? Era questa la questione che doveva decidere la Corte.

Ecco, la Consulta ha concluso (e non è una sorpresa) che per assicurare serenità a chi governa, si deve correggere la Costituzione e quindi non è sufficiente una legge ordinaria. L'obiezione che governo e maggioranza oppongono, con furore, a questa conclusione è: potevate dircelo prima; ne avete avuto l'occasione, non lo avete fatto: perché? Esplicitamente, il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, protesta: "È incomprensibile come i giudici costituzionali abbiano potuto spendere, nel 2004, pagine su pagine di motivazioni senza fare alcun riferimento alla necessità di una legge costituzionale. Tale argomento, preliminare e risolutivo, è inspiegabile che venga evocato quest'oggi". L'accusa di Alfano, che riecheggia anche nelle proteste di Berlusconi ("Sono stato preso in giro"), non ha fondamento.

Come hanno spiegato, più di un anno fa e in ogni occasione utile, cento costituzionalisti con un pubblico appello. Nel 2004, alla Corte fu sufficiente la constatazione preliminare dei difetti di legittimità della "legge Schifani" per affondare quello "scudo", "assorbito - si leggeva nella sentenza - ogni altro profilo di illegittimità costituzionale". Era, è la frase chiave di quella sentenza. Oggi chi protesta la dimentica o preferisce dimenticarla. La Corte non rinnega principi da se stessa già enunciati, come tende a dire la maggioranza, perché, nel 2004, "si limitò a constatare che la previsione legislativa difettava di tanti requisiti e condizioni (la doverosa indicazione dei reati a cui l'immunità andrebbe applicata, il doveroso pari trattamento dei ministri e dei parlamentari nell'ipotesi dell'immunità del premier e dei presidenti delle due Camere), tali da renderla inevitabilmente contrastante con i principi dello Stato di diritto".

Ma le osservazioni critiche della Consulta non pregiudicavano la questione di fondo: "la necessità che qualsiasi forma di prerogativa che comporta deroghe al principio di eguale sottoposizione di tutti alla giurisdizione penale debba essere introdotta necessariamente ed esclusivamente con una legge costituzionale". Ripetiamolo allora. Si può attenuare il principio dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma soltanto se si riscrive la Costituzione e, per farlo, bisogna muoversi nel solco delle regole previste dalla revisione costituzionale, perché una legge ordinaria non è idonea a introdurre nel nostro ordinamento una disposizione che affievolisca il principio che ci rende tutti uguali davanti alle legge, anche se la volontà popolare ti ha spedito a Palazzo Chigi.

Le polemiche che infiammano ora la scena politica non parlano dell'esito - prevedibilissimo perché già scritto - della decisione della Corte Costituzionale, ma di un conflitto tra il primato del diritto e i diritti dell'investitura popolare. Berlusconi ritiene che, sostenuto dalla maggioranza del Paese, debba essere liberato da ogni controllo e reso immune da un potere che immagina sottordinato, subalterno. Egli si ritiene l'unico e solo depositario (proprietario?) del "vero e reale diritto del popolo" e, in quanto tale, gli deve essere concesso di agire e di decidere anche contra legem.

Il suo potere non deve trovare ostacoli, non deve essere limitato o condizionato dal contesto politico e istituzionale, dal Parlamento, dai contrappesi, dalla stessa Costituzione e dai suoi garanti. Egli è il popolo, è l'Italia e grida "Viva l'Italia, viva Berlusconi". Questa identificazione gli consente - lo pretende - di liberarsi di un passato oscuro, di avere mano libera nell'esercizio del comando e della decisione. Quando, imputato nel processo Sme, il 16 giugno del 2003 finalmente si presentò in un'aula di Tribunale non per essere interrogato (sempre si è avvalso della facoltà di non rispondere), ma per rendere dichiarazioni spontanee, Berlusconi esordì con la stessa prepotenza di queste ore.

Disse al presidente del Tribunale che gli ricordava che la legge è uguale per tutti, "Sì, è vero la legge è uguale per tutti ma per me è più uguale che per gli altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani". È quel che dice e ripete oggi e pretenderà che diventi reale, domani. Ci aspettano giorni tristi.

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« Risposta #116 inserito:: Ottobre 12, 2009, 05:29:02 pm »

EDITORIALE

Se il Cavaliere vuole farsi Stato

di GIUSEPPE D'AVANZO

Non si riesce a tenere il conto delle menzogne e dei ricatti che l'Egoarca riesce a distillare nei suoi flussi verbali, ormai oltre ogni controllo di ragionevolezza, del tutto catturati dal suo disturbo narcisistico. Stiamo ai fatti. Il lucidissimo furore di Berlusconi si accende per i pasticci che si combina da solo, con la sua compulsività.

Frequenta minorenni; riempie palazzi e ville di prostitute arruolate da un ruffiano; trascura gli affari di Stato per allegre scorribande amorose. Contestato dalla moglie in pubblico, se ne va nel luogo pubblico per eccellenza - la televisione - per recuperare (sa di doverlo fare) un'apprezzabile accountability. Sbaglia la mossa. Esige che le sue favole diventino scritture sacre. Se non accade - e non accade - s'infuria.
Ingaggia maschere con mazza ferrata che, dai giornali e tv che controlla, fanno per lui il lavoro più sporco, "assassinando" la personalità di chi gli appare, anche da lontano, "un nemico". Scatena gagliofferie, aggressioni, conflitti che (lungo l'elenco) investono, nel tempo, la moglie; impauriti testimoni delle sue imbarazzanti avventure; la Repubblica; il suo editore; il suo direttore; l'Unità; addirittura il salmodiante Corriere della sera; la stampa internazionale tutta; il servizio pubblico televisivo che non è al suo servizio; un pugno di comici, il cinema nazionale; l'Avvenire; la Conferenza episcopale italiana; il presidente della Camera; il presidente della Repubblica; la Corte Costituzionale; la magistratura tutta; un'opposizione che, peraltro, è oggi una bottega chiusa per inventario.

L'Egoarca mostra, dietro il sorrisone, come il suo potere sia pura, nuda violenza. Non guadagna un punto. Ne ricava soltanto il discredito internazionale, un distruttivo "sputtanamento" che si completa, nelle opinioni pubbliche e nelle cancellerie d'Occidente, quando, con posa da bauscia al bar nell'ora del "camparino", si vanta di aver convinto George W. Bush a mettere sul tavolo 700 miliardi di dollari per far fronte alla crisi finanziaria; di aver detto a quei due, Barack Obama e Vladimir Putin, di far la pace altrimenti non li avrebbe invitati al G8 di cui deve essere il proprietario; di "aver mandato Sarkozy" all'Est dopo avergli spiegato quel che avrebbe dovuto dire per risolvere la crisi georgiana; di essere messaggero presso il Papa, in un incontro della durata di minuti 3, dei "saluti di Obama", come se il presidente degli Stati Uniti d'America avesse bisogno dell'Egoarca per discutere con Joseph Ratzinger. Un premier così garrulo e vanìloquo, che crede di potersi muovere sulla scena pubblica come tra le plaudenti prostitute ingaggiate per il salotto di Palazzo Grazioli, non ha bisogno di essere screditato. Si scredita da solo con le sue mani e, con le sue parole e condotte, disonora e danneggia l'intero Paese. Oggi se c'è in giro un antagonista della rispettabilità dell'Italia nel mondo è Silvio Berlusconi. Lo sappiamo noi, lo sanno i caudatari e le congreghe che lo sostengono, lo sa chiunque guardi ai nostri affari da oltre confine.

L'Egoarca non se ne cura. Il suo Io ipertrofico non ammette interlocutori, consigli, regole, critiche, misura istituzionale, saggezza politica. Ubriaco dei sondaggi che gli servono (ma sono sinceri?), è incapace di guardare in faccia la realtà che si è cucinato da solo e che ogni giorno irresponsabilmente riscalda. Sarebbe un errore tuttavia credere che i suoi coups de théatres siano dominati dall'istinto. Bisogna sempre guardare che cosa bolle nella pentola dell'Egoarca. L'uomo è lucidissimo. Nella brodaglia che ha scodellato a Benevento si coglie un cambio di strategia, un ritorno all'antico. Come se quindici anni non fossero passati, Berlusconi evoca i fantasmi mentali di allora, ricostruisce lo stesso contesto di grande forza evocativa che gli portò fortuna a partire dal 1993. Suona così. Un manipolo di toghe "di sinistra" mi minaccia come già accadde nel 1994 quando azzopparono il mio primo governo con un avviso di garanzia. Con la complicità della magistratura, "la sinistra" vuole espropriare il popolo del suo voto. Per farlo, con la correità di un presidente della Repubblica "di sinistra", la Corte costituzionale "di sinistra" ha dovuto contraddirsi mentre un giudice "di sinistra" aggredisce le mie aziende.

Non c'è una parola di quel che dice l'Egoarca che corrisponda ai fatti. Nel 1993 la corruzione inghiotte ogni anno 10mila miliardi di lire mentre l'indebitamento pubblico - cresciuto del 92 per cento negli anni dei governi dell'"amico Craxi" - oscilla tra i 150 e 250 mila miliardi, più 15/25 mila miliardi di interessi annui. La Prima Repubblica crolla non per la pressione della magistratura (una favola), ma per la disperazione di chi non può più pagare il prezzo della corruzione alla politica e denuncia i corrotti. Berlusconi, prossimo al fallimento, è creatura di quel sistema politico. Gli ha assicurato ogni privilegio. Quaglia pronta al salto, si apposta però sotto le insegne dell'antipolitica e vince. Entusiasta di quelle toghe che gli hanno aperto la strada al potere, offre a due di loro (Davigo e Di Pietro) la poltrona di ministro (rifiutano). Cade quando Bossi non ne può più dei maneggi corruttivi dell'alleato che gli stanno mangiando la Lega e decide di voltargli le spalle il 6 novembre del 1994, due settimane prima che Berlusconi riceva l'avviso di garanzia che ancora oggi lo fa tanto strepitare.

Come accade per la disonorevole vita privata che conduce, l'inesauribile ripetizione di concetti inconsistenti ci mostra come la menzogna abbia un primato nella "politica narrativa" di Berlusconi. Sia il nucleo più autentico del suo sistema politico. Abbia una funzione essenziale perché abitua alla confusione e infine all'indifferenza, a un presente smemorato, a una grottesca distanza tra quel che si dice e quel che è accaduto davvero. È in questo varco che il Berlusconi "sputtanato" intende muoversi (e si muoverà) con un nuovo obiettivo. Lo sollecitano due eventi, nulla che abbia a che fare con l'interesse nazionale. Il primo, con tutta evidenza. È una controversia tra due società private, la Fininvest di Berlusconi, la Cir di De Benedetti (è l'editore di questo giornale). Anche il secondo evento, a pensarci, non è di interesse pubblico. Non si discute - come pure sarebbe legittimo - la reintroduzione nella Carta costituzionale dell'immunità per i rappresentanti del popolo, cancellata dopo 45 anni nel 1993. Si discute dell'impunità di Berlusconi. Di uno solo perché tra le quattro alte cariche che ne hanno diritto con la "legge Alfano" soltanto Berlusconi ha gravi rogne giudiziarie per comportamenti tenuti - peraltro - quando ancora non era né un leader né il premier. Quindi, sono due fatti privati di un uomo diventato con gli anni capo di governo, sostenuto da una granitica maggioranza cui il Paese chiede di governare, a scatenare una paralizzante "guerra di religione" che travolge ogni cosa e destino, uomini e istituzioni, riattivando una falsa "narrazione" cara all'Egoarca e ai suoi corifei.

Se la "narrazione" sa di muffa, l'obiettivo è novissimo. Se nel 1994 gli venne buona per governare, oggi è utile per un'altra manovra che si scorge ormai a occhio nudo. Che cosa sono le aggressioni al capo dello Stato? Perché la denigrazione della Corte costituzionale? Perché l'annuncio di una vendicativa riforma della giustizia? Come giustificare la segreta e abusiva raccolta di informazioni (è accaduto negli archivi del Csm) che, opportunamente manipolate, serviranno per bastonare il giudice che gli ha dato torto? Come sempre per difendere se stesso e i suoi privatissimi interessi, l'Egoarca non si accontenta più di fare le leggi che altri, da lui separati, vaglieranno e applicheranno. Egli vuole liberarsi di ogni potere di controllo.

Non si accontenta, con 344 seggi alla Camera e 174 al Senato, di poter fare le leggi. Esige anche il monopolio di farle valere. Screditandoli perché "di parte", reclama anche il possesso diretto e legale degli strumenti di potere statali. Ha soltanto una maggioranza, ma manco fosse un premio politico, un plusvalore politico che gli è dovuto, pretende di essere lo Stato. Dice: il popolo lo vuole. Dimentica che, dei 36 milioni di italiani che hanno votato il 13 e 14 aprile 2008, 17 milioni sono con lui e 19 milioni gli hanno voltato le spalle, se non si vuol contare quei due italiani su dieci che, astenendosi, si sono chiamati fuori dalla contesa. All'Egoarca va ricordato che non è l'Italia, è solo il provvisorio capo di un governo. Purtroppo, come dargli torto, molto "sputtanato".

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« Risposta #117 inserito:: Ottobre 19, 2009, 03:48:02 pm »

L'EDITORIALE

Chi tocca i fili muore

di GIUSEPPE D'AVANZO


Coincidenze. Che volete che siano? Soltanto coincidenze. Poco meno di due settimane fa, viene fuori che il premier è convinto di essere il bersaglio di un complotto internazionale. Vuole scoprire chi tira le fila dell'operazione.

Così chiede aiuto "ai servizi di una potenza amica e non alleata", scrive il Corriere della sera (6 ottobre). Senza giri di parole, Berlusconi implora l'aiutino dell'amico Putin. L'indiscrezione galleggia non smentita per ventiquattro ore. Soltanto quando l'opposizione ne chiede conto con un paio di interrogazioni parlamentari, l'Egoarca salta su e nega tutto, ma la frittata è già fatta. Non sentendogli aprire bocca per un giorno intero, gli uomini del capo si sentono autorizzati in quelle ore a qualche confidenza pericolosa: lui avrebbe chiesto all'amico del Kgb qualche dossier da usare contro i suoi avversari, il capo dello Stato è il primo della lista. Balle, senza dubbio. Come è una coincidenza, soltanto una coincidenza, che il giornale di Berlusconi pubblichi ora un primo dossier delle polizie segrete dell'ex-impero sovietico contro Corrado Augias. Tanto fumo, neppure l'ombra di arrosto in quelle cartacce. Tant'è. Corrado non ha bisogno di essere difeso qui. Lo farà da solo.

Qui interessa ragionare del dispositivo di dominio che Berlusconi ha inaugurato con la politica dello scandalo e sulla necessità, per il premier, dello scandalo come metodo di governo. Detto in altro modo, perché un potere solido nelle alleanze politiche, gratificato da un'imponente maggioranza parlamentare, premiato dal diffuso consenso degli elettori, rinuncia a governare per abbandonarsi a un'aggressione permanente alimentata dalla menzogna?

Le due questioni sono connesse, se si tiene il fuoco sulla menzogna. La menzogna è necessaria a Berlusconi per punire, distruggere e, al tempo stesso, creare. Berlusconi l'ha usata e l'userà a piene mani. Può farlo senza sforzo. Dispone di un agglomerato di potere politico-mediatico-burocratico spaventoso. Non lo utilizza per confutare le ragioni degli avversari o convincere gli altri delle proprie buone ragioni. Lo dispiega per denigrare chi non si conforma, per demolire i perplessi; per punire la reputazione di chi (pochi giornali, qualche testimone) non occulta i "duri fatti"; per screditare la fiducia in chi non si inchina alla sua volontà o convenienza (è accaduto al presidente della Repubblica, al presidente della Camera, ai giudici costituzionali, all'editore, al direttore, al fondatore di questo giornale). È la ragione che, il 3 ottobre, ha spinto centinaia di migliaia di cittadini ad affollare piazza del Popolo in difesa dell'articolo 21 della Costituzione nella convinzione non che, in Italia, non ci sia in assoluto libertà di stampa, ma che sia indispensabile proteggere, come ha detto Roberto Saviano, "la serenità di lavorare, la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni". Anche chi, ieri, ha mostrato una legittima perplessità per quella protesta, potrà oggi forse convenire che in Italia è sempre più presente e opprimente l'intimidazione per chi si rifiuta di tacere, di dimenticare e omettere; per chi si ostina a smascherare le favole dell'Egoarca lasciando affiorare nella nebulosa "politica narrativa" del Cavaliere la realtà o, più semplicemente, la legge.

A costoro è riservata una brutale menzogna e la barbara rappresaglia dei giornali e delle televisioni controllate dal premier. Ne hanno fatto le spese in molti, qualche nome lo abbiamo già fatto (Giorgio Napolitano, Gianfranco Fini, i giudici della Consulta eletti dal Quirinale, Carlo De Benedetti, Ezio Mauro, Eugenio Scalfari). Altri nomi è doveroso ricordare: Veronica Lario, accusata di avere un amante dal Brighella che oggi dirige il giornale del marito; Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, umiliato con un documento contraffatto reso pubblico dal giornale dell'Egoarca; Raimondo Mesiano, il giudice civile che ha deciso il risarcimento per la "sentenza Mondadori" comprata dalla Fininvest (inseguito dalle telecamere nascoste di Mediaset, è risultato colpevole di indossare calze turchesi).

Nelle redazioni, in Parlamento, nelle istituzioni c'è oggi la consapevolezza che chi contraddice la "narrazione" dell'Egoarca deve essere pronto a subire una severa lezione perché la sua reputazione sarà minacciata dalla menzogna. Che ha altre due funzioni specifiche nel sistema politico di Berlusconi. Distrugge la trama stessa della realtà; crea una narrazione fantastica che nega eventi, parole e documenti per sostituirli con una scena di cartapesta popolata di verità rovesciate, fantasmi, fumose dicerie, immaginari complotti politici.

Così, per stare alle ultime cronache, si deve dire che la Corte costituzionale ha smentito se stessa bocciando la "legge Alfano" (non è vero, dicono schiere di costituzionalisti); che Berlusconi ha subito 106 processi (sono dodici più quattro sospesi). Si deve sostenere che "la sentenza Mondadori è giusta" dimenticando la corruzione del giudice che se l'è lasciata scrivere dai corruttori pagati dalla Fininvest. Si deve dire che nel 1994 il primo governo Berlusconi si sbriciolò per un avviso di garanzia e non per la decisione di Umberto Bossi. Cancellata la realtà, la si può creare come s'inventa una filastrocca ripetendola poi ad infinitum. E dunque: c'è un complotto internazionale di un gruppo editoriale italiano (il gruppo Espresso); c'è l'aggressione di una magistratura politicizzata che vuole distruggere il patrimonio del premier-tycoon; c'è in atto una manovra che vuole espropriare il popolo della sua volontà da parte "della sinistra" e di rappresentanti delle istituzioni che sono "tutti di sinistra".

Sul nascondimento della realtà e sulla menzogna Berlusconi costruisce la sua politica che si nutre soltanto di comunicazione e non di azioni e decisioni, tutte risolte nell'annuncio di iniziative che verranno. Condotta esclusivamente sui media e coi media, la politica vuota di Berlusconi, piena soltanto dei suoi privati interessi, deve controllare con pugno di ferro lo spazio mediatico perché è in quel perimetro che è nato, è stato costruito e oggi si deve difendere il suo potere. È questa la ragione che induce il premier a distruggere, a spaventare chi, in quel perimetro, fa il suo lavoro rispettandone la decenza. È questa la ragione che gli suggerisce di non affermare - governando - la legittimità del proprio potere (che peraltro nessuno nega), ma di mostrare come la natura più nascosta di quel potere sia la violenza pura. Un abuso di potere che, sì, colpisce i suoi avversari o critici, ma serve da lezione anche a chi, nel suo schieramento, nel suo esecutivo, vuole essere alleato e consigliere leale e non corifeo e cane fedele.

Quel che abbiamo sotto gli occhi non è, allora, una guerra tra gruppi editoriali né la guerra di un gruppo editoriale contro un governo, come racconta la "narrazione" berlusconiana accettata purtroppo anche da chi vuole essere il sereno custode delle terre di mezzo. Questa banalizzazione, che inventa una "guerra", nasconde la realtà: chi tocca i fili della comunicazione - e quindi della politica e degli interessi dell'Egoarca - mette in gioco la sua reputazione, la sua dignità, il bene più prezioso: il suo buon nome. Bisognerà avere presto molto coraggio, nel mondo dell'informazione, nelle istituzioni, nelle magistrature, per denunciare lo scandalo di una politica che vive di scandali e menzogne.

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« Risposta #118 inserito:: Ottobre 27, 2009, 06:58:39 pm »

IL COMMENTO

La macchina del fango


di GIUSEPPE D'AVANZO

Berlusconi si cucina da solo i suoi guai. Distrugge, di giorno, i muri che i suoi consiglieri fabbricano, di notte, per difenderlo. Quelli si erano appena rimboccati le maniche, con buona volontà, per riproporre - complici, le debolezze di Piero Marrazzo - la separatezza e l'inviolabilità della sfera privata dalla funzione pubblica (ancora!).

Salta fuori che l'Egoarca ha avvertito per tempo il governatore: "C'è in giro un video contro di te". Frammento superbo della nostra vita pubblica. Merita di essere analizzato, e con cura. Viene comodo farlo in quattro quadri.

Nel primo quadro, bisogna riscrivere con parole più adatte quel che sappiamo. Non il signor Silvio Berlusconi, ma il presidente del consiglio - proprietario del maggior gruppo editoriale del Paese - allerta il governatore "di sinistra" che il direttore di una sua gazzetta di pettegolezzi (Chi) ha in mano un video che lo compromette. Glielo ha detto la figlia (Marina, presidente di Mondadori). A questo punto, il capo del governo potrebbe consigliare all'altro uomo di governo di non perdere un minuto e di denunciare il ricatto all'autorità giudiziaria. Nemmeno per sogno. Il presidente del Consiglio indica all'altro attraverso chi passa il ricatto, ne fornisce indirizzo e numero di telefono: che il governatore si aggiusti le cose da solo mettendo mano al portafoglio e "ritirando la merce dal mercato", come pare si dica in questi casi. È la pratica di uomini che governano senza credere né alla legge né allo Stato, né in se stessi né nella loro responsabilità. In una democrazia rispettabile, l'argomento potrebbe essere definitivo. Nell'"Italia gobba", la legalità è opzione, mai dovere, e quindi l'argomento diventa trascurabile. Trascuriamolo (per un attimo solo) e immaginiamo che Marrazzo riesca nell'impresa di ricomprarsi quel video.

È il secondo quadro. Vediamo che cosa accade a questo punto. Piero Marrazzo annuncia la sua seconda candidatura al governatorato. Si vota in marzo. Il candidato "di sinistra" è consapevole che il suo destino politico e personale è nelle mani del leader della coalizione "di destra". In qualsiasi momento, quello può tirare la corda e rompergli il collo. A quel punto, a chi appartiene la vita di Piero Marrazzo? A se stesso, alle sue decisioni politiche, ai suoi comportamenti privati o alla volontà e alle strategie dell'antagonista? È una condizione di vulnerabilità politica che dovrebbe consigliargli la piena trasparenza a meno di non voler diventare un burattino. Al contrario, Marrazzo tace e tira avanti. Scoppia lo scandalo e mente ("È una bufala", "Non c'è alcun video"). Lo scandalo diventa insostenibile e ancora rifiuta la responsabilità della verità: non dice dell'avvertimento di Berlusconi; non dice come si procura il denaro che gli occorre per le sue scapestrate avventure. (Sono buone ragioni per chiedergli di nuovo le dimissioni perché non è sufficiente l'ipocrita impostura dell'autosospensione). Quel che accade al governatore ci mostra in piena luce come funziona "una macchina".

È il terzo quadro. Al centro della scena, i direttori delle testate di proprietà del presidente del Consiglio (o da lui influenzate). In questo caso, Alfonso Signorini, direttore di Chi, già convocato d'urgenza da una vacanza alle Maldive per confondere, con una manipolazione sublunare della realtà, il legame del premier con una minorenne.

Signorini spiega come vanno le cose in casa dell'Egoarca, premier e tycoon. Direttamente con le redazioni o, indirettamente, da strutture esterne o da chi vuole qualche euro facile - i direttori raccolgono fango adatto a un rito di degradazione. Una volta messa al sicuro la poltiglia del disonore (autentica o farlocca, a costoro non importa), il direttore avverte i vertici del gruppo, l'amministratore delegato e il presidente. Che si incaricano di informare l'Egoarca. A questo punto, il premier è padrone del gioco. Pollice giù, e scatta l'aggressione. Pollice su, e il malvisto finisce in uno stato di minorità civile. Accade al giudice Mesiano, spiato dalle telecamere di Canale5.

Berlusconi addirittura annuncia l'imboscata: "Presto, ne vedremo delle belle". Accade al direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un cauto e motivato dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle. A ben vedere, accade oggi al ministro dell'Economia che può intuire sul giornale del premier qualche avvertimento. Suona così: "Tremonti in bilico"; "Se Tremonti va, Draghi arriva". C'è da chiedersi: quanti attori del discorso pubblico sono oggi nella condizione di sottomissione che anche Marrazzo era disposto ad accettare?

Quarto e ultimo quadro, allora. Non viviamo nel migliore dei mondi. La personalizzazione della politica ha cambiato ovunque le regole del gioco e il fattore decisivo di ogni competizione è la proiezione negativa o positiva dell'uomo politico - e della sua affidabilità - nella mente degli elettori. È la ragione che fa del "killeraggio politico - scrive Manuel Castells (Comunicazione e potere) - l'arma più potente nella politica mediatica". I metodi sono noti. Si mette in dubbio l'integrità dell'avversario, nella vita pubblica e in quella privata. Ricordate che cosa accade a McCain e Kerry? Si ricordano agli elettori, "in modo esplicito o subliminale", gli stereotipi negativi associati alla personalità del politico, per esempio essere nero e musulmano in America. È la lezione che affronta Barack Obama. Si distorcono le dichiarazioni o le posizioni politiche. Si denunciano corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti che sostengono il politico. Naturalmente, le informazioni distruttive si possono raccogliere, se ci sono; distorcerle, se appaiono dubbie o controverse; fabbricarle, se non ci sono. È uno sporco lavoro, che ha creato negli Stati Uniti, dei professionisti. Uno di loro, Stephen Marks, consulente dei repubblicani, ha raccontato in un libro (Confessions of a Political Hitman, Confessioni di un killer politico) il suo modus operandi. È interessante riassumerlo: "Passo I, il killer politico raccoglie il fango. Passo II, il fango viene messo in mano ai sondaggisti che determinano quale parte del fango arreca maggior danno politico. Passo III, i sondaggisti passano i risultati a quelli che si occupano di pubblicità, che passano i due o tre elementi più dannosi su Tv, radio e giornali con l'intento di fare a pezzi l'avversario politico. Il terzo passo è il più notevole. Mi lascia a bocca aperta l'incredibile talento degli addetti ai media... quando tutto è finito, l'avversario ha subito un serio colpo, da cui non riesce più a riprendersi". Qui, quel che conta è la segmentazione del lavoro e soprattutto "l'incredibile talento degli addetti ai media" perché devono essere i più abili e i più convincenti. I media, negli Stati Uniti, non sono a disposizione della politica e per muoverli occorre "provocare fughe di notizie rimanendo al di fuori della mischia", offrire "merce" che regga a una verifica, a un controllo, che sia significativa e in apparenza corretta anche quando è manipolata.

In Italia, non esiste questo scarto. Non c'è questa fatica da fare perché non c'è alcuna segmentazione della politica mediatica. Uno stesso soggetto ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che mette freddo alle ossa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. I più onesti, dovunque siano, dovrebbero riconoscerlo: non parliamo più di trasparenza della responsabilità pubblica, di vulnerabilità, di pubblico/privato. Più semplicemente, discutiamo oggi della libertà di chi dissente o di chi si oppone. O di chi potrebbe sentirsi intimidito a dissentire o a opporsi all'Egoarca.

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« Risposta #119 inserito:: Ottobre 28, 2009, 08:17:02 am »

L'ANALISI

Il Cavaliere tra processi, prescrizioni e voglia di cambiare la Carta

di GIUSEPPE D'AVANZO

Anche per i giudici dell'appello, David Mackenzie Mills è un testimone corrotto e, se c'è un corrotto, ci deve essere un corruttore.
Il corruttore è Silvio Berlusconi. Non è in aula, è decisamente in salvo. Ma questa nuova sentenza pesa su di lui come un macigno - o come un incubo - perché ripropone un paio di cose che sappiamo (o dovremmo sapere) del capo del governo. Se ne possono elencare tre.

Raccontano come la frode sia stata la via maestra per costruire - prima - e per difendere - poi - l'impero Fininvest/Mediaset.

Spiegano le torsioni della sintassi legale del presente.

Annunciano la tempesta politica che scuoterà il Paese in un prossimo futuro.

Non c'è bisogno di farla tanto lunga.
Mills, per conto di Berlusconi, crea un arcipelago di società off-shore (All Iberian). Quando i procuratori di Milano ne scorgono il profilo, per Berlusconi è questione vitale inventarsi l'impossibile per uscire dall'angolo. La corruzione di Mills, pagato dal capo del governo per mentire in aula, è un passaggio obbligato. Il motivo è elementare.
Le società, create e amministrate dall'avvocato inglese, custodiscono il grande, indicibile segreto dell'Egoarca. Lungo i sentieri storti del "group B very discreet della Fininvest" transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che premiano Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le "fiamme gialle"); il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.

Strappato il velo che nasconde questa scena, Berlusconi non solo ci rimette le penne in un tribunale, ma del mito che ha costruito per sé e il suo talento, che cosa resta?
Il tableau polverizza il "corpo mistico" dell'ideologia berlusconiana. Ecco ora che cosa si vede: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa. Ancora nel giugno dell'anno scorso, Berlusconi nega: "Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l'Italia" (Ansa, 20 giugno 2008, ore 15,47).

Come sempre, Berlusconi intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, "responsabile di fronte agli elettori", e il suo passato di imprenditore di successo.
Crea un confine indefinibile tra pubblico e privato. Se ne comprende il motivo perché, nell'ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese. Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell'infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della "società dell'incanto" che lo beatifica. Per salvarsi da questo disvelamento, Berlusconi è disposto a ogni magia. E' storia dell'altro ieri. Cancella reati. Distorce le regole del processo.
Riscrive i tempi della prescrizione. In posa da povero cristo, dice di aver subito 106 processi.

E' una favola.
La ripetono come un'eco i commessi a stipendio e le ugole obbedienti retribuite con il canone televisivo (sono dodici i processi finora, più quattro ancora in corso). Non si accontenta. Minaccia di gettare per aria l'intera amministrazione della giustizia fermando centomila processi per affossarne uno solo, il suo. Ottiene in cambio dal Parlamento - quasi fosse un'estorsione - una legge che lo rende immune. La scrivono male. E' uno sgorbio. La Corte costituzionale la cancella, ma il risultato - l'Egoarca - l'incassa. Era a un passo dalla condanna, la "legge Alfano" lo esclude dal processo. Che ora ricomincia di nuovo, davanti a nuovi giudici che dovranno valutare le fonti di prova, le ventidue testimonianze, le nove rogatorie, come se un processo non ci fosse già stato. Non ce la si farà in un anno e mezzo e quindi il processo nasce ferito a morte in attesa che l'uccida la prescrizione.

Siamo al presente.
Berlusconi non si fida di quest'esito. Si sente accerchiato dalle ombre. Vive di sospetti. Vede in ogni angolo un congiurato. Avverte, come un tormento, il declino della sua parabola. "E se usassero quel processo per farmi fuori?" si chiede. Vuole una norma ordinaria, approvata presto, prima di Natale, che gli dia la certezza che quella storia si chiuda definitivamente. Vuole una prescrizione ancora più stretta. Difficilmente l'avrà, a quanto pare. Manipolerà così un "legittimo impedimento" più rigido e restrittivo, che gli consentirà di prendere tempo, di rinviare le udienze, di deciderne il calendario, di mandarlo a carte quarantotto. Salvo, ancora una volta, dal giudizio, Berlusconi non può accontentarsi. E' impensabile che possa insediarsi al Quirinale nell'anno 2013 con quella condanna indiretta sul gobbo.

Siamo al futuro.
E' un corruttore, anche se in tribunale ci ha rimesso soltanto il corrotto. Pure un Parlamento, comandato come una scolaresca, potrebbe negargli l'ascesa a Monte Cavallo. L'Egoarca sceglierà la via più breve, la più diretta. Come sempre. Vorrà riscriversi la Costituzione e farsi spingere lassù dal "popolo" per far dimenticare la rete di imbrogli che lo ha fatto ricco, i garbugli che lo hanno protetto, l'inganno del suo mito.

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